5^< A

MISCELLANEA SALINAS.

Miscellanea

DI

ARCHEOLOGIA, STORIA

e FILOLOGIA

DEDICATA AL

Prof. ANTONINO SALINAS

NEL XL ANNIVERSARIO DEL SUO INSEGNAMENTO ACCADEMICO.

PALERMO.

STABILIMENTO TIPOGRAFICO YIRZÌ. MDCCCCVII.

THE GETTY RESEARCH INSTITUTE ! I"-"oy

ANTONINO SALINAS

VIRO DE REBVS SICVLIS OPTVME MERITO

AMICI CONLEGAE DISCIPVLI

QVORVM NOMINA SVBSCRIPTA SVNT

OB EXACTVM

QVADRAGENS1MVM ANNVM

MAGISTERO -EIVS

D-D-D

Contessa Maria Airoldi -Palermo.

Prof. Carl Aldenhoven, Direkt. d. Museums Wallraf-RichaHz - Kòln.

Conim. Michele Amato Poiero, Senatore del Regno - Palermo.

t Doti. Solone Ambrosoli, Direti. d. Gabbi. Numism. di Brera - Milano.

B.ne G. Arenaprimo di Montechiaro - Messina.

March. Orazio Arezzo - Palermo.

B.ne G. Atenasio di Montededero - Palermo.

t Comm. Arcano. Baglio - Palermo.

Conte Ugo Balzani, Presid. d. Società di Storia Patria -Roma.

t Comm. Nob.NicoLÒ Barozzi, Dirett. del Museo del Palazzo Ducale-Venezia.

Gr. Uff. Prof. Ernesto Basile, della R. Scuola di Applicazione -Palermo.

Prof. Giovanni Baviera, della R. Università di Palermo.

Prof. Vittore Bellio, della R. Università di Pavia.

Prof. Giulio Beloch, della R. Università di Roma.

Dott. Prof. Otto Benndorf, Direct, d. K. K. Oesterr. Ardi. Instituts - Vienna.

Prof. Cosimo Bertacchi, della R. Università di Palermo.

Prof. Enrico Besta, della R. Università di Palermo.

Senatore Prof. Pietro Blaserna, Presid. della R. Acc. dei Lincei - Roma.

Dott. Prof. Pietro Boccone - Palermo.

Prof. Gaston Boissier, Secret, perp. de l'Acadcmie Francaise Parigi.

VI

Gr. Cord. Prof. Camillo Boito , dell' Accad. scientifico-letteraria - Milano.

Cav. Ing. Giovanni Bonadonna, R. Ispett. dei Monumenti -Taormina.

B.ne G. Chiaramonte Bordonaro, Senatore del Regno - Palermo.

Comm. Prof. Antonino Borzì, della R. Università di Palermo.

Monsignor Gaspare Bova, Vescovo di Samaria - Palermo.

Dr. Charles Buls, ancien Bour ginestre de la ville de Bruxelles.

Cav. Prof. Vincenzo Casagrandi, della R. Università di Catania.

Cav. Prof. Giov. Alfr. Cesareo, della R. Università di Palermo.

Cav. Prof. Saverio Ciofalo, R. Ispett. dei Monumenti - Termini.

Baronessa Anna Ciotti- Palermo.

Cav. Ferdinando Ciotti - Palermo.

Cav. Luigi Ciottì- Palermo.

Comm. Avv. P. Ciotti-Grasso - Palermo.

M. Jules Claretie. de V Académie Franqaise - Parigi.

Comm. Prof. Enrico Cocchia, della R. Università Napoli.

Cav. Ferd. Colonna di Stigliano, R. Ispett. dei Monumenti - Napoli.

Prof. Giovanni Colozza, della R. Università di Palermo.

Benedetto Columba - Sortino.

Prof. Gaetano Mario Columba, della R. Università di Palermo.

Cav. Ing. A. Coppola - Palermo.

Ten. Generale Carlo Corticelli , Comandante la Divisione Palermo.

Prof. Innocenzo Dall'Osso, Ispett. nel Museo Nazionale di Napoli.

Comm. Prof. G. Damiani Almeyda, della R. Scuola di Applicazio?iePa\?vmo.

Gr. Uff. Alfredo d'Andrade, Direlt. dell'Ufficio dei Monumenti -Torino.

March. Prof. G. de Gregorio, della R. Università di Palermo.

A. J. Delattre, des Pères Blancs, Direct, du Musée Lavìgerie de S. Louis

de Carthage. Prof. Attilio De Marchi, dell'Accademia scientifico-letteraria - Milano. Comm. Girolamo De Martino, Senatore del Regno - Palermo. V. De Pace - Chiusa-Sclafani.

Comm. Prof. Giulio de Petra, della R. Università - Napoli. Prof. Gaetano De Sanctis, della R. Università - Torino. Cav. Avv. Cal. de Stefani, R. Ispett. dei Monumenti - Sciacca. Ing. Angelo Di Bartolo, R. Ispett. dei Monumenti - Terranova. Comm. Fr. Di Bartolo - Catania.

Prof. Hermann Diels, Rettore dell' Università di Berlino. Prof. Mattia di Martino- Noto.

Monsignor Gioacch. Di Marzo, BibliotecarioCapo della Comunale Palermo. S. E. il March. Antonino di S. Giuliano , Ambasciatore di S. M. il Re

d'Italia - Londra. Visconte Melch. de Vogué, de Vlnstitut de France - Parigi. Prof. Wilhelm Doerpfeld, Sekretàr d. K. D. Archàol. Instituts - Atene. Prof. Friederich v. Duhn, dell'Università di Heidelberg. Dott. Prof. Matteo Enia - Mazzara. Dott. Prof. Vinc. Epifanio - Monreale. Prof. Federico Eusebio della R. Università di Genova. Conte Don Guido Falconieri di Carpegna, Senatore del Regno Roma. Prof. Pio Carlo Falletti, della R. Università di Bologna. Cav. G- Emmanuele Fazio - Palermo.

VII

S. E. il Comm. Gaspare Finali, Presidente della Corte dei Conti, Sena- tore del Regno - Roma. Prof. Giuseppe Fraccaroli, della R. Università di Torino. Doct. G. Wilhelm Froehner - Parigi.

Prof. Fausto Gherardo Fumi, della R. Università di Genova. Don. Prof. Eugenio Fusco - Noto.

Dott. Prof. Ettore Gabrio, del Museo Nazionale di Napoli. Prof. Carlo Alberto Garufi della R. Università di Palermo. Dott. Prof. R. Gerbasi - Palermo. Cav. A. Giannitrapani - Trapani. Prof. Giacomo Giri, della R. Università di Roma. Dott. Prof. Ugo Giri -Roma.

Prof. Liborio Giuffrè, della R. Università di Palermo. Comm. Ercole Gnecchi - Milano. Cav. Francesco Gnecchi Milano. Antonino Grassi-Grassi - Acireale.

Carlo F. Gray, Vice-Console di S. M. Britannica- Marsala. Comm. Prof. Andrea Guarneri, Senatore del Regno, Presid. della Soc. Sic.

di Storia Patria - Palermo. Colonn. Giov. Guarneri - Palermo.

Prof. Cosmo Guastella, della R. Università di Palermo. Prof. Nob. G. B. Guccia, della R. Università di Palermo. Miss Malet Hill- Taormina.

Prof. Doct. Christian Huelsen, Sekretàr d. K. D. Archàol. Instituts- Roma. Doct. Fr. Imhoof-Blumer - Winterthur. Prof. G. Impallara - Palermo. Prof. Georg Karo, dell' Università di Bonn. Prof. R. Kekule von Stradonitz, dell'Università di Berlino. Prof. Karl Krumbacher, dell' Università di Monaco (Baviera). Comm. G. La Farina, Presid. della Camera di Commercio - Palermo. Monsignor Bartolomeo Lagumina, Vescovo di Girgenti. Canon. Prof. Gius. Lagumina - Palermo. Prof. Spiridion Lambros, Rettore dell' Università di Atene. Dott. Franc. La Mantia - Palermo. Dott. Gius. La Mantia - Palermo. Prof. Giorgio Lampakis, dell' Università di Atene. t On. Ignazio Lampiasi, Deputato al Parlamento - Trapani. Avv. Domenico Lanza - Palermo. Conte G. Lanza di Mazzarino - Palermo.

Princ. P. Lanza di Trabia e di Butera, Deputato al Parlamento - Palermo. Comm. Axt. Lanzirotti, Conserv. nel Museo Nazionale - Palermo. t On. Giuseppe Licata, Deputato al Parlamento - Sciacca. Giuseppe Lipari Cascio - Marsala. Dott. Prof. Sante Lo Cascio - Palermo.

Dott. Cav. Giuseppe Lodi, Segr. Gen. d. Soc. di Storia Patria - Palermo. Prof. Emanuele Loewy, della R. Università di Roma. Comm. Mariano Lo Faso, Sindaco di Termini Imerese. Comm. Prof. G. Lumbroso - Roma. P. Emmanuele Magri - Gozzo (Malta).

Vili

Prof. Giovanni Maisano, della R. Università di Palermo.

Dott. Prof. E. Malgeri - Messina.

Ing. Pasquale Mallandrino, R. Ispett. dei Monumenti - Messina.

Comra. Prof. Luigi Manfredi, Rettore d. R. Università di Palermo.

B.ne Gr. Uff. Antonio Manno, della R. Accademia delle Scienze -T 'orino.

Coram. Prof. Emidio Martini. Llrett. della Biblioteca Nazionale -Napoli.

Dott. Cesare Matranga, Vice- Ispettore nel Museo Nazionale - Palermo.

Prof. Giovanni Melodia, della R. Università di Catania.

Comm. Ing. Filippo Mendolia, R. Ispett. dei Monumenti -Gii genti.

B.ne G. Merlo di Tripi - Palermo.

Sac. A. Messina, Arciprete di Monte S. Giuliano.

Comm. Prof. A. L. Milani, dell' Istituto di Studi Superiori, Direttore del

Museo Archeologico - Firenze. Can. Gaetano Millunzi, Rettore del Convitto Arcivescovile - Monreale. Cav. Dott. E. Monastra - Palermo.

Conte L. M. Maiorca Mortillaro di Francavilla - Palermo. Prof. Carlo Alfonso Nallino, della R. Università di Palermo. Prof. Eduard Naville, dell'Università di Ginevra. Prof. Oreste Nazari, della R. Università di Palermo. Prof. Francesco Novati, dell' Accademia Scientifico-lettei aria - Milano. Dott. Prof. Ant. Oddo - Mazzara.

Prof. Franc. Orestano, della R. Università di Roma. Dott. Franc. P. Orlando - Palermo.

On. Prof. Vitt. Em. Orlando, già Ministro della P. I. - Roma. Dott. Prof. Paolo Orsi, Dirett. del Museo Archeologico di Siracusa. Biagio Pace - Palermo.

Prof. Ettore Pais, della R. Università di Napoli, t Comm. V. Pantaleo - Palermo.

Prof. Giuseppe Paolucci, della R. Università di Palermo. Prof. Lucio Papa-d'Amico, della R. Università di Palermo. Conte N. Papadopoli Aldobrandino Senatore del Regno - Venezia. Princ. M. Turrisi di Partanna - Palermo. Prof. Carlo Pascal, della R. Università di Catania. Prof. Ing. L. Paterna-Baldizzi «Torino. Prof. Giovanni Patroni, della R. Università di Pavia. Prof. Astorre Pellegrini dell' Istituto di Studi Superiori - Firenze. Prof. Giuseppe Pennesi, della %. Università di Padova. B.ne S. Pennisi di Floristella - Acireale. March. Pennisi di S. Alfano - Acireale. Conte Agostino Pepoli - Bologna, Prof. Georges Perrot, Secrétaire perpétuel del' Académie des Inscriptions

et BB. LL. - Parigi. Comm. Ing. C. Pintacuda - Palermo.

On. Vincenzo Pipitone, Deputato al Parlamento - Marsala. Prof. G. Pipitone-Federico, della R. Università di Palermo. Cav. Prof. Francesco Pometti, della R. Università di Roma. Dott. Prof. Salvatore Puccio - Palermo. Can. Prof. Franc. Pulci - Caltanissetta. Comm. Prof. Vittorio Puntoni, Rettore d. R. Università di Bologna.

IX

Dott. Quintino Quagliati, Dirett. ff. del Museo Arheologico - Taranto.

Prof. Vincenzo Ragusa - Palermo.

Prof. Pio Rajna, dell' Istituto di Stadi Superiori - Firenze.

Prof. Felice Ramorino, deli Istituto di Studi Superiori- Firenze.

Ing. Giuseppe R-ao, Dirett. ff. dell' Ufficio dei Monumenti - Palermo.

Prof. Theodore Reinach, V.-Prés. de la Socie'té de Linguistique - Parigi.

Prof. Paolo Revelli, della R. Università di Torino.

Prof. Giuseppe Ricchieri, dell'Accademia scientifico-letteraria -Milano.

Comra. Dott. Corrado Ricci, Direttore Generale delle Antichità e Belle

Arti- Roma. Prof. Serafino Ricci, Dirett. ff. del Gabinetto Numismatico di Brera-ìlW&no. Prof. Salvatore Riccobono, della R. Università di Palermo. Comin. Avv. D. RiOLO-Naro.

Prof. Giulio Em. Rizzo, Dirett. ff. del Museo Nazionale - Roma. Cav. Giuseppe Robbo - Palermo.

Cav. Pietro M. Rocca, R. Ispettore dei Monumenti -Alcamo. Dott. Prof. A. Romano - Palermo. Prof. Giovanni Battista Rosano - Roma. Prof. Francesco Rossi, della R. Università di Torino. Generale Comm. G. Ruggero - Roma.

Prof. Remigio Sabbadini, dell' Accademia Scientifico-letteraria - Milano. Cav. Prof. S. Salomone Marino- Palermo. Dott. Prof. A. Sanfilippo - Partanna.

Comm. Avv. Giacomo Sanfilippo, già Deputato al Parlamento - Palermo. Avv. Salv. Sangiorgi - Palermo.

Prof. Alfonso Sansone, della R. Università di Palermo. Prof. Luigi Savignoni, della R. Università di Messina. Prof. Francesco Scaduto, della R. Università di Napoli. Prof. F. E. Scandurra - Palermo.

Prof. Luigi Schiaparelli, deli Istituto di Studi Superiori - Firenze. M. Gustave Schlumberger, de ilnstitut de France - Parigi. Prof. Theodor Schreiber, deli Università di Lipsia. Dott. Prof. E. Sclafani - Palermo.

Cav. Prof. Giovanni Setti, della R. Università di Padova. Princ. G. Settimo di Fitalia - Palermo. Prof. Arch. Ambrogio Seveso - Milano. Prof. Luigi Siciliano della R. Università di Sassari. Comm. Avv. A. Siragusa - Palermo.

Comm. Prof. Giov. Batt. Siragusa, della R. Università di Palermo. Prof. Antonio Sogliano, Direti degli Scavi di Pompei - Napoli. Comm. Giuseppe Sorge, Prefetto della Prov. di Girgenti. Cav. Pietro Spadaro - Palermo.

Cav. H. Springer, Console deli Impero Germanico - Palermo. Prof. Comm. Ettore Stampini, del Cons. Sup. deli Istruzione, Direttore

della Rivista di Filologia - Torino. B.ne Gius. Starrabba - Palermo. f B.ne Raff. Starrabba - Palermo. Cav. Avv. Ang. Sterlixi - Palermo. Prof. Vincenzo Strazzulla, della R. Università di Palermo.

X

Dott. Prof. B. Stumpo-Nìcosì.i.

Prof. J. N. Svoronos, DireU- d. Museo Naz. di Numismatica - Atene.

Prof. Giuseppe Tarozzi, della R. Università di Bologna.

Cav. Giuseppe Tasca-Lanza, Senatore del Regno, Sindaco di Palermo.

Victor Auguste Taunay, Prés. de l'Ass. de la Presse Judiciaire - Parigi.

Avv. Antonino Traina - Palermo.

Cav. Uff. Giuseppe Travali - Palermo.

Giovanni UGDULENA-Palermo.

Comm. Giulio Vaccai, Capo-Div. al Ministero degli Esteri - Roma.

Comm. Prof. Dante Vaglieri, della R. Università di Roma.

Ing. Francesco Valenti, dell'Ufficio dei Monumenti - Palermo.

Prof. Luigi Valmaggi, della R. Università di Torino, Dirett. del Bullet

tino di Filo/, classica. Comm. F. Varvaro-Pojero -Palermo.

Comm. Prof. Adolfo Venturi, della R. Università di Roma. Prof. Pasquale Villari, Senatore del Regno - Firenze. Cav. Ortensio Vitalini - Roma. Dott. Prof. E. Vitrano - Palermo. Prof. Nicola Vulic', dell' Università di Belgrado. Comm. G. I. S. Whitaker - Palermo. Dott. Prof. C. Natalia Zappulla - Palermo. Prof. Nicola Zingarelli, della R. Università di Palermo. Cav. Prof. Carlo Oreste Zuretti, della R. Università di Palei ino.

PUBBLICAZIONI SCIENTIFICHE l » 1 v I - PROF. ANTONINO SAIvINAS

(sino a tutto il 1905).

abbrkviazfoxi : AICA (= Annali deìV Istituto di corrispondenza archeologica, Komal; ASS (- Archivio Storico Siciliano, Palermo); BC (-- Ballettino della Commi ssioue di anti- chità e belle arti, Palermo): LP (= La Favilla. Palermo. Lio); NMICA (=- Nuove memorie dell'Istituto etc, Lipsia, Krockhaus); NdS (=- Xotizie degli Scavi. Roma): PUS (— Perio- dico di numismatica e di sfragistica. Firenze, Rieci); SA (= Rcrue urchéoloyiquc Paris, Didier): SL (= Rendiconti dell'Accademia dei Lincei, Roma): RN" (-= Rivista Nazionale, Palermo): KNN (— Berne numismatiqne nouvelle, Paris. Thunot); Sii (= La Scicna e la Letteratura, Palermo, Lo Bianco): BS (= Rivista siculo, Palermo).

Appendice alla memoria sulle monete punico-sicule delV abate Gregorio JJgdulena ed esame della stessa. (SL. a. I, 1858, con tavole).

Su di alcune monete puniche di Mozia, lettera al barone Pasquale Pennisi. Palermo , Lao , 1858 , in gr. con tavv.

Sopra di una moneta di Intera illu- strata dal prof. C. Gemmellaro} lettera allo stesso (LF. 1858, con vignette) .

Documenti relativi alla Sicilia che con- servami nel E. Archivio di Torino. Palermo, Lao, 1861, in-8° pp. 21.

Sulla pubblicazione intitolata : Sopra alcune monete scovei'te in Sicilia che ricordano la spedizione diAga- tocle in Affrica, meni, del p. G. Ro- mano. Lettera a Fr. S. Scavo. (LF. 1863) Su di alcuni monumenti sepolcrali re- centemente scoperti nell'antico Ce- ramico esteriore in Atene. (Nella Gazz. Uff. ddBegno, 1863, n. 153).

I monumenti sepolcrali scoperti nei mesi di maggio , giugno e luglio 1863 presso la chiesa della Santa 'Trinità in Atene. Torino , Eredi Botta, 1863, in-fol. pagg. 40 con 5 tavv. fotografiche.

Notice sur deux statues nouvellement decouvertes àAthènes près de V fla- gia Trias. (RA. 1864, con tavole).

Lettre à Mr. le prof. Gr. Ugdulcna sur deux pièces d?argent portoni le noni phénicien d'Hiniéra et les ti/pes de Zancle et d'Agrigente. (RNN. 1864 con vignette).

Notice sur une monnaie de Camarilla avec le noni d'Exaléstidas. (RNN. 1864, con vignette).

Descrizione di una raccolta di piombi antichi siciliani detti mercantili. (AIC A. 1864, con 4 tavv. in rame).

Examen de quehpies contret'arons an- tique* des tétradrachmes de Sgra- cuse , et du prétendu noni de gra- veur Eumélus. (RNN. 1SG4, con una tav. in rame).

XII

Nettuno ed Amimone , pittura di un lelytlws fjcìoo del B. Museo di Pa- lermo. (HC. 1864, con una tav. a colore). Illustrazione di alcune monete di ar- gento imeresi riconiate a Selinunte. (NMICA. 1865, con tav. ia rame; riprod. nella Rivista Nazionale di Pai. 1866). Pallade in lotta con giganti. Dipinto arcaico di un vaso di Gela. (RNN. 1866 cou uua tav.). Dello stato attuale degli studi archeo- logici in Italia e del loro avvenire. Prolusione letta addì 12 die. 1865 nella B. Università di Palermo. (UN. a. I, 1866). Scavi di Solunto. Primo articolo.

(RN. a. I, 1866). Description d'un dépót de très petites monnaies d'argent frappées en Si- tile. (RNN. a. XII, 1867). Di due monete della regina Filistide, al comm. Gaetano Daita. Lettera. {La Sicilia a. Ili u. 20 1868). Di due monete della regina Filistide donate al B. Museo di Palermo. (PNS. a. I, 1869). Di un' antica iscrizione cristiana rin- venuta in Palermo, lettera al cav. G. B. De Bossi (RS. 1869). L'iscrizione di Tallo, donata al B. Mu- seo di Palermo. (RS. voi. Ili, a. II, 1870). Catalogo del Museo dell'ex monastero di S. Martino delle Scale presso Palermo. Palermo, Morvillo, 1870, pagg. 93 in 8°. Ancora dell'iscrizione palermitana di Pietro Alessandrino. (RS. 1870).

Di due monete delVantica città di Pa- ropo in Sicilia. (PNS. a. Ili, 1870, con due vignette).

Sul tipo dei tetradrammi di Segesta e su di alcune rappresentazioni nu- mismatiche di Pane Agreo. (PNS. 1870, con due tavole).

La collezione numismatica posseduta dal sig. Pasquale Pennisi. Parte prima. (Sicilia). Palermo , Lao, 1870, iu-4°, pagg. 40.

Le monete delle antiche città di Sicilia descritte ed illustrate. Palermo, Lao, 1870, fase. I-VII in-4° gran- de, pagg. XVI-52 con XIX tavole in rame (sino a Catana).

Tre anelli segnatorj con iscrizione greca, trovati in Sicilia. (PNS. a. Ili, 1871).

Piombi antichi siciliani. Primo arti- colo. (AICA. voi. XXXVIII, 1871).

Bassegna archeologica siciliana. N. 1, 2 e 3. (RS. 1871, con vignette).

Suggelli siciliani del Medio Evo. Serie prima. Suggelli bizantini. Paler- mo, Lao, 1871, in-4° con 34 fac- simili.

Suggelli siciliani del Medio Evo. Serie seconda. Tabularlo di Monreale. Palermo , Lao , 1871 , in-4° con 35 fac-simili.

Sigilli diplomatici italo-greci. (PNS. 1872, con una tavola in rame).

Suggello del Comune di Palermo (PNS. 1872 con una tavola).

Bassegna archeologica siciliana.'^. 4-7 (RS. 1872, con tavole).

Del B. Museo di Palermo. Belazione. Palermo, Lao, in-8°, pp. 73 con cinque tavole.

xm

Sul tipo delle teste muliebri nelle mo- nete di Siracusa anteriori al IV secolo a. Cr. (BC. 1873).

Del Museo Nazionale di Palermo e del suo avvenire. Discorso. Paler- mo, Lao, 1874, in-8° pp. 32.

Sigilli diplomatici italo-greci. N. 12-24 e 25-39 (PNS. 1874 con due ta- vole).

Breve guida del Museo Nazionale di Palermo. Palermo, Tip. del * Gior- nale di Sicilia » , 1875. In-16° , pp. 99 con due tavole.

Frammenti dell' iscrizione arabica della Cuba. Lettera del Prof. Michele Amari ad A. S. (ASS. 1877, a. I).

Le grondaie del Tempio d'Imera con- servate nel Museo Nazionale di Pa- lermo. (ASS. 1877 con due tavv.).

Catalogo di ghiande missili siciliane. (AICA. 1878. cod unatav.in rame).

Iscrizione greca di Termini. (NdS. 1878).

Il Caduceo degli Imacaresi. Cenni. ( Pel cinquantesimo anniversario delV Istituto di Corrispondenza Ar- cheologica)—(ASS. a. Ili, 1879).

Di alcune iscrizioni del sec. XIII nel soffitto del Duomo di Cefalh (ASS. a. IV 1880, con una tavola).

Due iscrizioni cefalutane del sec. XIII (ASS. a. IV, 1880, con vignette).

Escursione archeologica a S. Marco, S. Fratello, Patti e Tindari. (NdS. 1880).

Di un preteso Fra'' Paolo abate di S. Maria di Altofonte e arcivescovo di Monreale nel sec. XIV. (ASS. a. IV, 1880).

Necropoli della Ciachia di Capaci. (NdS. 1880, con due tavv.).

Di un documento inedito relativo ad una icona fatta dipingere in Cata- logna da Pietro di Queralt per la Cattedrale di Monreale(ASS. a IV, 1880 [pubblicazione fatta in colla- borazione con A. Balaguer y Me- rino]).

Documenti siciliani nelV Archivio della Casa Caetani di Roma. (ASS. a. V, 1881).

Sarcofago romano sulla Chiesa di S. M. di Gesù presso Palermo. (ASS. a. IV, 1881).

Di un diploma greco del Monastero di Scilla in Calabria. (ASS. a. IV 1881).

La Ninfa Aretusa in una moneta si- racusana della Collezione Perniisi di Acireale. Palermo, ISSI, pagg. 6 in-16°.

Camarina. Memoria del Dr. Giulio Schubrìng tradotta dal tedesco. (ASS. a. VI 1882 con una tav.).

Guida popolare del Museo Nazionale di Palermo. Palermo, Tipografia « Tempo », 1882, con tavole.

La Colonna del Vespro ed il castello di Vicari (Bicordi e Documenti del Vespro siciliano. Palermo, 1882, con tre tav. in fotot. e una in- cisione).

Escursioni archeologiche in Sicilia. I. Caltanissetta. (ASS. a. VI, 1882).

Bicordi di Selinunte cristiana. (ASS. a. VII, 1882, con due tavole).

Di una pretesa iscrizione in volgare del mille esistente in Monte S. Giu- liano. (ASS. a. VI, 1882).

Cenni intorno ad una dissertazione sid Vespro Siciliano. (ASS. a. VI, 1882).

XIV

Lettere fenicie sulle mura di Monte S. Giuliano (ASS. a. VII, 1883).

Le mura fenicie ài Erice. (NdS. pp. 6 con 3 tavv.).

Escursioni archeologiche in Sicilia. II. Mussomeli e Sutera. (ASS. a. VII, 1883).

Dei sigilli di creta rinvenuti a Seli- nunte e ora conservati nel Museo Nazionale di Palermo. (NdS. 1883 pp. 27 con 7 tavv.).

Un' iscrizione latina di Palermo ed una di Vicari. (NdS. 1883, con 2 tavv.).

Di un registro notarile di Giovanni Maiorana, notaio di Monte S. Giu- liano nel sec. XIII. (ASS. a. VIIT, 1884, pp. 32).

Di un bozzetto del monumento messi- nese di Carlo II modellato da Gia- como Serpotta. (ASS a. VIII, 1884).

Sopra una nuova epigrafe romana di Naso. (NdS. 1884).

Paliotto d'altare di S. Cataldo. (NdS. 1884).

Osservazioni intorno a due diplomi greci riguardanti la topografia di Palermo. (ASS. 1884 a. IX pp. 27 |.

Aggiunta all'articolo sulla statua di Carlo II. (ASS. a. IX 1884).

Solunto , ricordi storici ed archeolo- gici. Palermo, 1884, pp. 33 in-16° con 5 tavv.

Di una stazione dell'età della pietra alla Moarda presso Palermo nel Comune di Monreale. (NdS. 1884 con una tavola).

Oggetti antichi scavati a Gibil-Gabib presso Caltanissetta. (NdS. 1884).

Oggetti rinvenuti a Selinunte nel 1883. (NdS. 1884 con 3 tavv.).

[Studi storici e archeologici sulla Sici- lia. Palermo, 1884, pp. 219, con 17 tavv.].

Nota sopra un frammento epigrafico di Segesta. Scoperte a Selinunte. (NdS. 1885).

Nota sulla iscrizione greca del Mona- stero dei Santi Pietro e Paolo di Forza d'Agro. (NdS. 1885).

Gli acquedotti di Selinunte. (NdS. 1885 con una tav.).

Di una scultura di Bonaiuto Pisano sul prospetto del Palazzo Sclafani. (ASS. 1885, a. IX).

Il monastero di S. Filippo di Fra- galà. (ASS. a. XII, 1888).

Ripostiglio Siciliano di monete antiche di argento. (NdS. 1888, con 3 tavv.).

Sui lavori fatti a Selinunte negli anni 1885-87. (NdS. 1888, con una ta- vola [in collab. col prof. G. Pa- tricolo]).

Relazione sugli oggetti rinvenuti nei lavori fatti a Selinunte nelV in- verno 1884-85. (NdS. 1888).

Le collane bizantine del Museo Nazio- nale di Palermo rinvenute a Cam- pobello di Mazzara, Palermo, 1888, con una tav. a cromolitografìa.

Nuove metope arcaiche di Selinunte (Monumenti antichi dell' Acc. dei Liucei), 1892, con tre tavv.

Relazione sommaria intorno agli scavi eseguiti in Selinunte dal 1887 al 1892. (NdS. 1894).

Sigillo greco di un Mansone Patrizio e doge Amalfi. (ASS. 1894 a. XIX, con vignette).

Di una rara epigrafe ricordante Sesto Pompeo. (NdS. 1894).

Ripostiglio di monete campane. (NdS. 1894).

XV

Piombi antichi rinvenuti in Beggio Ca- labria. (NdS. 1895, pp. 21 cou vignette).

Nuove scoperte archeologiche a Mar- sala. (RL., sed. 21 aprile 1895).

Di una rarissima tessera hospitalis [comunicazione di Barnabei, osser- vazioni a proposito della lilibe- tana]. (RL. 1895 voi. IV).

Palazzolo Acrcide. Scoperta di un te- soretto di monete antiche d'argento. (NdS. 1897).

Selinunte. Nuovi scavi presso i tcmpj della Acropoli ed alla Gaggcra. (NdS. 1898).

Carini. Scoperta di catacombe cri- stiane. (NdS. 1899). Racalmuto . Scoperta di forme romane iscritte, per lastroni di zolfo. (NdS. 1900 con vignette).

Monumenti inediti di Lentini e di Noto (neWArte, Roma, a. VI , 1903, con vignette).

Iscrizioni onorarie di Lilibco. (NdS. 1905 con vignette).

Museo Nazionale di Palermo (secondo cortile) .

PARTE PRIMA.

ARCANA CEREALIA.

Cereris Bacchique religiones constat in Graecia olim rusticis ho- niinibus curae fuisse. inde explicatur et cur spretae siut ab heroicis poetis et cur ipsa rustieitate caerimoniarum posteriorum mores poli- tiores oflfenderiut. hinc simul explicatur, cur inde a sexto fere saeculo utriusque religionis arcana magis magisque misceri coepta sint, quod in Eleusiniarum dearuin cui tu manifesto videmus «su venisse, antiquis- siinus quidein in Cererein hymnus , qnem ante sacra Eleusinia cimi Atheniensium re publica iuncta confectum esse recte existimant, nulla vel paene nulla fert vestigia bacchicae religionis. i at Pisistratidarum imperio , quod in agricolis maxime nititur , Bacchi et Cereris sacra augeri et misceri , Eleusiniae deae Athenas transferri, Iacchus Eleu- sina traduci coepti sunt. et cum bis temporibus Onomacrito praecipue auctore sacra carmina in Orphicorum usuili i. e. ad baccbicuni moduui contìcerentiir , non mirtini est vel tum vel panilo post etiam Cereris religionem in Orphicorum cui tu in ac poesin esse transvectam. testis hymnus ilio Cereris, queni sub Musaci personati nomine Lycomidarum gens Orphica sacra coleus ferebat ' ; testis poeta ille quisquis fuit qui sub Orphei nomine Proserpinae Cererisque res inde a raptu virginis usque ad fruges per orbem terra-rum sparsas et sacra constituta de- scripsit 3; testes etiam lamniinae il lae aureae quarto fere saeculo ante Chr. sepulcris Thurinis impositae , cimi Orpheotelestae litteras pro-

1 Xvaiov au itediov (v. 17 Odofredns Muellerus ad niythologiam bacchicam recte videtur rettnlisse. quod iam altero a. Chr. saeculo in hymno lectum esse papyrns nuper in Aegypto affossa docet, quam significavi iu Laterculis Alexandrinis (Abh. d. Beri. Ah. 1904 p. 15). sed ibidem cum omnia haec Cereris sacra in Or- pheum mysteriorum primum doctoreni referantur , elucet quam late postea baec sacrornm mistura patuerit.

2 Paus. I 23 , 7. etiam in papyro illa Musaei praeter Orpbeutu sunt partes.

3 Marni. Par 11 (p. 7 Jacoby) : ^cap' ov 'Opgpaì'g ò OiàyQOV xal KuV.ió-xr\g^> vlb<^s x^:r\<^v é^uvrov 7toir\6iv èj-^é^&rpe , KÓQttg te ÙQ7cayf}v xcà Ji]iirixQog ^Tqxr\6iv v.cà xov avtov ^gyri&svta 6-xqqov , ov ìdida^s xo nXfj^&og xwv vrtoSe^unévcov xov xccQTtóv. idem carmen respicit Orph. Argon. 26 JìjU7]TQÓg xs rtldv^v xal <&£Q- GEcpóvris \iéya névQ'og.

4 H. DIELS. PARTE I.

pempticas ad Proserpinam aliosque Eleusine cultos deos infero» quasi mortuomm manibus commissas conscribere fabulasque Eleusinias novo coque subrustico more versibus explicare coepissent. l

Etiam in posterioruin Orphicoruni fragmentis , quae quando con- seripta sint, dubia est quaestio, multa insunt ex Cereali cultu trans- lata, nullum autem vel mirabilius vel magis virorum doctorum contro- versiis temptatum quam Baubonis hoc sive elogium sive opprobrium quod serva vit Clemens Alexandrinus ex erudito satis scriptore ex- cerptum in Protrept. 2 (p. 17 Potter, p. 15,27 Staehlin): tixovv de trjvixade tr\v 'EXevóiva ol yrjyevelg ' òvóiiatcc avtolg Bavflò uuì AvGav- Xrjg xal TolntoXeiiog, eti de EvpoXnóg te xal EvfiovXevg (fìovxóXog ó ToiittóXeiiog r\v , noiiirjv de ó Ev[ioXrtog , óvflcotrjg de ò EvftovXevg, àqp' òv EvpoXmd&v xal KrjQvxav , leoocpavtLxòv drj tovto M^vtjói yévog, rjv&rjóev). xal drj, ov yào àvrjóa pi] ovyl elnelv, %evC- 6u6a i] Bav^à) ttjv Ar\b boiyei xvxe&va avtfj' tfjg de àvaivopévrig Xa- fìeiv xal itielv ovx èdsXov(Sr]g (rtev&rjaiig yào r]v), neQLaXyrjg r\ Bavfico yevojiévrj <bg viteQOQafreióa dfjfrev, àvaótéXXetai ccldoia nal èmdei- xvvev tfj dea ' ^ de reciterai xf\ bfyei r] zfrjò xal póXig note dé%etat Ttorbv r\6xtel6a %-eàpati. tavt' etiti xov(pia t&v 'A&^valcav iivótrj- Qitt, tavtd tot xal 'Ooqievg àvayoacpei. 7tccQad,t]<30{iaL de 6oi aita tov 'OQyécog eitrj, Tv' eyr[g pdotvQa tr\g àvai6%vvtlag tòv (ivtitayayóv &g eÌTtovóa iténXovg aveóvoato, dei%e de ndvta óófiatog ovde nqenovta tvTtov' Ttalg d' i)ev lax%og %eioù [ilv QÌ7tta6xe yeX&v Bav(iovg imo xóXnoig ' f] d' ènei ovv peCdr]óe &eà , peldiq6 ' evi &v[i<p , 5 debuto d' alóXov ayyog , èv <p xvxehv èvixeito. codex P, in quo hic Clementis liber solo positus est, videtur derivatus esse (ut Philonis de opificio Vindobonensis ) ex Caesareensis biblio- thecae exemplo, quo quarto saeculo Eusebius utebatur. tanta est saepe in corruptissimis consensio. velut in v. 4 neglegenter praeceptum est lieCdrjGe in priore ex posteriore hemistichio. quod communiter pecca- tum in P et Eusebio sanavit G. Hermannns, dum restituit :

i] d' ènei ovv èvór)6e dea, {leid^ó' evi &vn<p. nani quod Lobeckius suaserat etdrjae et si qua alia ab aliis prae Her-

1 de his cf. quae scripsi in libro Gomperzio oblato 1902 p. 1 sqq. (Orphischcr Demetcrhìjmnii8), lamrainam postea ipse Neapoli vidi et contali et paene omnia quae illic aliis fisus ut extantia protuli nunc oculatus testis tueor, neque minus rationem explicandi , quatn displicuisse video G. Murrayo, viro doctissimo , in J. E. Harrisoa's Proleg. to the Study of Greek Religion (Cambr. 1903) p. 669.

PARTE I. ARCANA CERE ALI A.

ninnili invento sordent. * hoc igitur vitinm in aperto, seti apparet, qui hos versus vel explicaturi sint vel emendaturi, a tradita eos lectione non multimi aberrarre debere ut in loco satis antiquis testibus mu- nito, quare per se liaud piaceli t quae nuper viro erudito ac sagaci A. Ludwichio in menteni venerunt 2 :

a>g el%ov6a 7tè%Xovg àvsóvQccto ' dei^e dh %&vxa óàucctog ovdh Ttoiicovxa xvnov naìg d' fjsv ìecXXog %biqC piv QÙntaóK ' * èyéXcov Buvflovg vico xóXito i. rj d' ènei ovv aiv ideóxe fìsci, usuàrio' évi ftvuà, 5 denaro d' alóXov ayyog , èv co xvxeàv èvsxsito. qui vir doctus recte quidem proflciscitur ab Arnobio V 25 sq. de Bau- bone eadem referente , at graviter errat cuui communi auetore , non ipso Clemente romanum scriptorem usum esse opinatur. neque enim hoc uno loco, sed per totani caput et ultra Arnobius duce Clemente utitur, quem sane libere et rhetoriee amplificat et ad suum arbitrium explicat. nihilo minus versio eius ac pedestris circumscriptio valde utilis est nobis. nani tum temporis (tertio saeculo exeunte) multa an- tiquae religionis vestigia etiam vigebant , unde vel obsoleta rectius ille quam nos intellegere posset. sic igitur ille 1. e. p. 19(5, 19 Reif- fersch. : e. 25 obstinatissime durai Ceres et rigoris indomiti pertinaciam retinet. quod cum saepius fieret neque ullis quiret obsequiis ineluctabile propositum fatigari, vertit Baubo artes, et quam serio non quibat , alti- cere ludibriorum statuii exhilarare miraculis : partem Ulani corporis, per quam secus femineum et subolem prodere et nomen solet adquircre genetricum, longiore ab incuria liberai, facit sumere habitum puriorem et in speciem levigari nondum duri atque hystriculi pusionis. redit ad deam tristem, et Inter Ma communia, quibus moris est frangere ac tem- perare maerores, retegit se ipsam atque omnia Illa pudoris loca revelatis monstrat inguinibus. utque pubi adjìgit oculos diva et manditi specie solaminis pascitur : tum diffusior facta per risum aspernatam sumit atque ebibit potionem, et quod diu nequìvit verecundia Baubonis espri- mere , propudiosi facinoris extorsit obscenitas. 20. calumniari nos im- probe si quis forte hominum suspicatur, libros sumat Threicii vatis, quos antiquitatis memoratis esse divinae, et inveniet nos nihil neque callide fingere neque quo sint risili deum quaerere atque efficere sanctitates.

1 quoti in V ante correctorem fuisse videtur mcìiAHk e (abnndanti iota ut saepe scriptum) nihilo plus valet quam HlGN quod v. 2 prò ne N fuisse videtur. de hac orthographia cf. Comment. in Theaetet. ed. Diels et Schubart (Beri. 1903) p. xm sq.

2 N. Jabrb. f. class. Pbilol. 141 (1890) p. 57.

H. DIELS.

ipsos namque in medio ponemus versus, quos Calliopae filius ore edidit (/racco et cantando per saccula generi publicavit humano :

sic efata simul vestem contraxit ab imo,

obiecitque oculis formatas inguinibus res.

quas cava succntiens Baubo manu nam puerilis

ollis vultus crai plaudit contrectat amice.

tum dea dejigens augusti luminis orbes

tristitias animi paulum mollita reponit :

inde manu poclum sumit risuquc sequenti

perducit totum cyceonis laeta Uquorem. Ex Arnobii paraphrasi et versione primum elucet recte emenda- timi esse bvóì]6e, timi, quod pluris est, nullum esse lacchimi, quein iani Lobeckius acldubitaverat i et Liuhvichius restituto v. 2 izcclg $' iqsv ìalXog ( infans pudendis efectus ludibrium erat ) e medio tollebat. nam Arnobius etsi band recte sui saeculi neqnitia abnsus 2 putat glabrum piipulnm formatimi esse ex inguinibus Baubonis, cum explicat in spe- ciem levigari nondum duri atque hystriculi pusionis, tamen recte omnino intellegit quod latine vertit « nam puerilis ollis (scil. inguinibus) vultus erat. ergo laz%ov sonare vidit pudendum muliebre, quod nostrates fu- gisse sane permirum est. Dionysium quidem maiorem tyrannum Si- ciliae, qui in tragoediis suis obsoletis et abstrusis utebatur vocabulis, tòv %oìqov dixisse constat icck%ov. 3 nimirum in sermone sacro et re- condito ano tov la%SLv vel lax%slv vocabatur ó %oioog , ut a grunniendo in Testamento porcelli M. Grunnius Corocotta inducitur. eiusniodi glossis quanto opere olim oraculorum poetae , tum ditkyraniborum delectati sint , in vulgus notum es':. ipsi Orpliici poetae luxuriant lmius modi glossis sacris velut fr. 252 Abel :

xaì (ìédv vviLcpdcov xataXsi^etai, àyXabv vòcoq. ipse Clemens ex Epigene ITsol tr\g 'Oocpsag Ttoitfósag integrimi glos sarium excerpsit , quod operae pretium est Ime afferre. 4 nani eiiisdem

1 Aglaopham. p. 826 coque suspectior redditur ille palpator lacchus , quem ncque Arnobii inierpreiatio admittit ncque aliunde cognitum habemus.

2 Casa. Dio 48, 44 naiSlov xi x&v ipi&vQwv ola ai yvvaixsg yvpvà mg tiItJ&ei à&VQ0v6ai TQStpovaiv cf. Birt de pueris niinutis Ind. lect. aest. Marpurg. 1892.

5 Atbeu. Ili 98 D ' Aftavig S' èv a UixsXixwv xov avxóv qpr}6i <diovv6iov v.a\ xov fiovv yaoóxav xaXsìv v.aì tov %oìqov ìay.%ov. de purpurati poetae delira- mente, quae praeivit Euphorionibus, cf. Meineke Anal. Alexandr. p. 136.

4 Stroin. V 675/6 Pott. hsqkl6i xayinvló%Q(ù oi xolg àpóxooig \ir\vvso&ai , 6tr[U,06i xolg aviari, iilxov dh 6TtéQ\ia àllr\yOQel6Q,aL. naì ddxgva zliog xov oufinov 6r\lovv , Moigag ai ^éor} xf\g 6£%iqvr\g , xgiaxdda v.aì itavxexai- $exdxriv xcà vov\ir\vlav dio v.a\ XevxoaxóXovg avxàg v.aXùv xov 'Oocpéu cpcoxòg

parte i. arcana cere ali a.

esso farinae omnes istas voces atque ì<xk%ov neminem latet. atqui %oìqov in vulgari sermone naturarli muliebrem significare cimi aliunde 1 notimi est timi ex Acliarnensiiun iocis. ergo duplici nietaphora usus Orphicus Baubonis inguina (non solimi ipsam mulieris naturani )porcum primum, timi iacchum nuncupat, quodArnobius,nisi e contextu versuum divinaverat, ex lexicis, qualia tum ferebantur, facile liaurire potuit. Idem recte intellexit quae continuantur %uqI \iiv QÌ7tra6xE dieta esse de Baubone palpante ac quasi ventilante sua inguina. ergo hoc quoque recte expressum :

quas cava succutiens Baubo manti . . .

plaudit contrectat amice.

de vitio metrico , quod inesse queruli tur , nolo loqui uberius , quia non meiini esse sentio definire, quid concessum fuerit rhetori Africano in re metrica , quoniam in universum constat , quanta lieentia timi vulgares poetae (velut epigrammatiini a Buechelero collectorum) et christiani sint grassati. at omnino quaeritur , mini mera subsit negle- gentia. nani qui sacra» velarier et coronarie)' pinos consulto dixit V. 7 (p. 179,24), ut prosam ornaret , et qui in proximo versu olii 8 ad Ennii, Lucretii, Vergilii exemplum posuit, ne ille etiaui illuc delabi potuit, ut correptis iambis cava et manu neseio quo pacto antiqui- tatem imitali sibi videretur. 2 utut est , de sensu interpretationis Ar- nobianae nulla est controversia, nude iam graecis paulo magis impli- catis verbis lux bau scio an affulserit. nihil enim niutandum , modo intellegas poetani istum vulgarem vulgariter interposuisse explicandi gratia %slql [tiv (jCjiraóxe ili ter ea quae arte inter se nexa sunt

TCalg d' ì]sv ÌL(tic%og ... yslàv Bavfiovs vxò Y.6X%oig. sub sinu scilicet apparent Baubonis inguina retecta taniquam pueri os idque ut par est (hoc inest in particula rè) plaudit et contrectat nutricum more. 3 ergo totum fragmentum, imam Hermanni emenda-

ov6ag (légr}. ndliv av&iov ulv xb è'ap dia xì]v cpvaiv, àQyióa dh xì)v vvy.ru Sia xx[V àvcc7tccv6iv , Y.UÌ FoQyóviov 8h xì]v 6elrtvr]v Sia xb èv avxfj ngóacoTtov, AcpQO- 8 ixr\v Sh xbv xaigóv, xa-fr' ov SsZ G7tsiQSiv, Xéysó&cci Ttagà xch Q-soXóya. Cfr. Protr. 2,22: xfjg Géuidog ànÓQQ^xu ovufiolcc ... , xxeìg yvvaixsìog , o Ì6xiv sv(pì']ucog ■nat lLV6xi%à>g siitsìv iiÓqiov y vva iv. eìqv.

1 velut x0lQiVCiL conchnlae a similitudine partis nniliebris nomen aceeperunt (cf. O. Jalin Ber. d. sachs. (ics. d. Wiss. 1853 p. 18; tab. V (3), tuui a porcellis istis niateriae similitudine porcellana vasa vocata sunt.

2 de similibus Ausonii arebaismis egit Leo Gòtt. gel. Jn:. 1896 p. 791 et Skutscb in libro Fégag Fiekio oblato p. 113.

3 Buecbelerus, qui vehementer probut et Cletuentis et Aruobii bas vindicias, amicissime mibi suggerit Persii uotam illam aviam, quae cuuis eximit puerum et tunc manibus quatit (2,35). illaque etiam uotior est Hector Astyanacta palpaus : ènei Y.v6B 7tf\lé xe %bq6Ìv (Z ili).

8 tt. DIELS. t»ARTE t.

tionem si excipias, sic ut traditimi est habeto integrimi et intemeratimi: <bg slrtovóa %é%Xovg àvsGvQaxo, dsiè,s de itàvxu (Sòliatog ovds jiQÉitovTcc tvitov ' %alg <T Ìjev ìccx%og {%eiqI piv óItvtuóxs) yeX&v Bavfiovg vtiò xòXitoig. y] d' ènei ovv èvótjós fred , peCòrìa' évi dv^ià, Secato d' alóXov ayyog, èv ó xvxsòv èvsxEito. quod sic latine verto brevius, opinor, at apertius qnam Arnobins: sic efata palam sublata veste pudenda corporis ostendit. namque os puerile ferebant inguina, quae tremulos Baubo cri spante cachinnos edebant. haee visa deae risum peperere. tum dextra calieem prendit, quem cinnus adimplct. Baubonis igitur ludicrum snbrnsticnm hoc fnit, ut sublata veste in- guina i. e. totani sub sinu (vnò xóXitoig) sitani partem ventris pube tenus nudaret atque concusso abdomine et rugis eius varie distortis Immani oris aspectum daret circa umbilicum velut nasum ridicule se ruganti», qua in re nondura expl oratimi est, cuiusnam sexus speciem hoc ventris os prae se tulisse dicatur ; quippe verba haec naìg i]sv lax%og , masne an feniina repraesentetur , in dubio relinquunt. de fe- mina sane quilibet primum cogitet , nisi Arnobii interpretatio inter- cedat.

At quid tandem , inquies , in hac re ludicri ì nonne Arnobius recte (e. 27 p. 198, 22): quidnam quaeso in spectu tali, quid in pu- dendis fuit verendisque Baubonis, quod feminei sexus deam et consimili formatam membro in admirationem converteret atque risum, quod obiectum lumini conspectuique divino et oblivionem miseriarum daret et kabitum in laetiorem repentina hilaritate traduceret f

Haec si quis obiciat , ego ludi cuiusdain commonefaciam , quam in Helvetiae quodam vico oliai se vidisse narrare memini virum doctum sane ac severum, sed plebetulae mores studiose riniantem. « Versabar, inquit , ante aliquot annos per feriaruin aesti varimi otia in Helvetiae oppidulo regionis anioenitate conspicuo, verura popularibus magis quam externis hospitibus celebrato . ibi post cenam , cimi pluviae exitimi arcerent , unus ex adulescentibus , Helvetius natione , qui picturae Monaci id temporis operam dabat , Turcum ventriosum , quod verna- cule dicebant Bauchturlce , acturum se esse professus est. quod cum a iunioribus cum plausu acceptum esset, post aliquantum morae ac praeparationis pone mensam coram sjiissa corona hospitum prodiit Turcus ille mirum in modum vestitus. eteniin inferiora corporis mensa obtegebantur , superiora quae eminebant amplissiuio panno viridi tamquam tiara (Turban dici solet) operta erant. at inter utrumque

PARTE I. ARCANA CEREALIA.

venter adulescentis nudus apparebat fuligine in oris Immani eflBgiem coloratus . in centro extabat umbilicus velut nasus , supra oculi duo superciliis magnis circumdabantur, infra suberat immanis rictus . iam procax adulescens conciliente musica latera movere, ventrem crispare, abdominis rugas line illue iiectere coepit, ut virgines Helvetiae nani paucae quae aderant Britannicae ilico cum clamore aufugerant cum senioribus viris matronisque popularibus risii paene dirumperentur ac summa eius coetus binari tas einceretur. » sic mihi auctor gravissimus narravit, qui tamen cum ex eo quaererem , imin forte antiqui moris Ilelvetii vestigia (ut flt) in ludicra versi superessent , nescire se fate- batur, quae esset eius ioci origo, ac ne illud quidem se scire, utrum is ex Belvetiorum popularibus ludicris an ex artificum Monacensium fescenninis sit petitus . utut est , hoc elucet quam nullo apparati! lio- mines simplices iiossint ad summam festivitatem commoveri . ipse nie- mini panlo decentiore ludo mimicos subinde liomines mensibus sublatis malum quoddam vel vulgare vel sinicum mappa involutum sic agitare, ut capitis Immani similitudine in varios modos inclinati omnium , qui spectabant, vultus in hilaritatem etfunderentur.

Xon dubito, quin ei quibus popularium morum studium cordi est similia multa proferre possint. 1 nos interim iugulum petimus. quae- ritur enim , mini quod eius rei , quam Orpliicus poeta obscuris ver- sibus significat, in ipsis Cereris sacris relictuin sit vestigium . nani cum antiquissimus ille quem tenemus hynmus Eleusiniis deabus in testo oblatus ita compositus sit, ut mysticarum caerimoni arimi series, qnas singuli deinceps mystae per feriarum celebritatem ipsi vel pa- trabant vel patiebantur, in epicani de dearum fatis narrationem sol- veretur, consentaneum est Baubonis obscena ludicra non sine ipsius testi Cerealis exemplo versibus celebrata esse, (pia in re Jambes simi- litudinem viri docti din attulerunt , cuius personae naturani ex iam - borimi religione Eleusine et Tari culta explicandani esse onines con- sentiunt. etsi Eleusine Baubonis atticae mulieris nulla adirne vestigia inventa sunt, quod facile intellegi potest , in aliis regionibus minus perpolitis agreste illud nunien plus auctoritatis retinuisse videtur, velut in ipsa insula Paro, cuius Cerealia Arcliiloclii parentes induxisse videntur. illic enim extat votimi Erasippae l'rasonis filiae "Hqtj, Jr\- liy]tQi QsónocpÓQip zal Kóqt] zccl Jd EvfiovXsì xcd Bavfioi erectum '*,

1 procul taiuea habenda exerupla yvvuiY.ùv voi per petulantiaru vel per iram àvaovQauévav , de quibus cf. O. .Tabu 1. e. p. 93. ueque vero itQoficcaxdviov est Baubonis gestus, ut destissima virgo putat J. E. Harrisou Prolcgomcna p. 570.

2 Becbtel iu Collitzii JJialektinschr. Ili 2,590 n. 5441.

10 H. DIELS. PARTE I.

quod ad hanc Baubonem pertinere nomo negavit. 1 quod oliin lege- batur BABOI, mine correctum est postquam Y litteram super A in lapide scripta reperta est. sed neri potest, ut Baftco vulgaris fuerit forma, nani ftavfiàv et ftafiàv (de eoncubitu) idem est 2, et liane popu- larem matrimonii patronam eum antiquissimis caerimoniis eoniunetam fuisse, quae ad agros feeundandos valerent, et per se credibile est et confirmatur cognatarum nationum (ut alienas sileam) ritibus rustieis, velut e germanicis et slavicis moribus multa eiusmodi Mannliardtius noster collegit et seite interpretatus est. 3 sed in hunc quaerendi cam- pimi qui latissime patet nolo excurrere.

Imnio explicare studeo et amplificare ea quae in Poetis Philosophis p. 106 ad Empedoclis Ir. 153 suecinete significa veram. Hesych. s. v. /3av/3a> : TitbjV?? zJi]g.r]TQog' óijucclvsl de xal xolUccv, cbg tiuq' 'Eg.TtsdoxXsl. ibi adnota veram liaec : « nomeii ìllustratur absonis illis figaris figlinis, quae in tempio Cereris Prienensi 1899 inveritele sunt. caput enim deest7 venter curri inguine tamquam os ornatur. » de liac explicatione Ioannes Sclirader, Prienes repertor ac descriptor doctissimus, aliquid dubita- tionis movit 4 : « Ber Kreis », inquit, « in dem die Erldarung zu suchen ist und die Art ivie solehe unjeheuerlichen Bildungen mutande kommen Iconnten, wird durch diese Stelle sieher riditi g bezeiclmet; ob man frei- lich die Beschreibung der Figuren als zutreffend anerlccnnen will, muss daliingestellt bleiben : der erste Eindruck ist der, dass der Kopf unmit- telbar auf die Beine gesetzt ist , nicht dass Brust und Kopf fehlen und der Bauch als Gesicht gestaltet sei. »

1 cf. O. Kern Baubo (Pauly-Wissowa E. Euc). Crusius ad Herond. p. 128. addo nuuc in papyro illa Baubonem (vitiose Bqccv^ò vocatur) Metauirae parte» agore, ubi Demophoutis sors 'narratili".

2 Dieterich Philolog. 42, 4. fìuvfìàv Herodeus etsi cohaeret cum verbo flav^ày, nihil tamen vinculi babet cum Baubonis persona.

3 Baumkultus e. 5 p. 422 sqq. Mythol. Forsch. p. 238 sqq. (Cereris et Iasionis niatrimoniuni).

4 in grandi ilio opere Priene (Beri. 1904) p. 163. ad usum legentium e figu- rarum illarum multitiutine M. Liibke pictor Beroliuensis dnas bic accuratius deli- neavit. ac d. 8615 respondet simulacro lucis ope confecto 152 in libro Priene p. 161, at non idem exemplam delineator expressit , contra u. 8612 clarior est imago eiusdem exempli f. 153 illic exhibiti. typos Prieneuses etiam F. Walter reddidit in suo libro Typen d. fig. Terrakotten (Anìike Terrak. Ili 2) p. 223 n. 1-5. quod ille figuras comicas caricatas videre sibi visus est, a Scbradero satis ex loci, ubi inventae sunt plurimae , sanctitate refutatum est. ceterum multa exempla Musei Beroliuensis ex eodem protypo expressa sunt , at aliud alii praestat ideo , quod tìgiilus in nonnullis mollem argillam stilo accuratius postea expolivit orisque li- neamenta altius impressi!. de Baubonis tìguris , quas olim (cf. Miller Mèi. d. Ut. grecque p. 459) et uuper (Joum. of Hcll. Stttd. XXV 128) aguovisse sibi videbautur, tacere malim.

PARTE I.

ARCANA CKREALIA.

11

Contra liane viri aulicissimi dubitationem non redibo ad ea, quae supra de Baubone exposui, neque Empedoclis illa glossa, unde pro- fectus crani , abutar. hoc eniui esset principium petere. eeterum contra archaeologum oeulis decet non glossis pugnare, suis eniin quisque oculis in eis exemplis , quae delineanda curavi , sinc dubio intelleget non caput cruribus impositum esse, sed ventrein feniineuin ipsa sexus hu-

mus. Berol. n. 8615. Mus. Berol. n. 8612.

Fig. i Baubonum Prienensium (saec. IV) exempla duo.

tura conspicuum. 1 quid eniin esset caput muliebriter ita desinens l ergo venter sane agnoscitur, sed in Immani capitis is forinain mutatus. 2 quid hoc sibi vult prodigium

1 maxime iusignes bac parte suuì fig. 119 et 151.

2 non caput, sed 08 in illa adnotatione dixeram quia pars adversa tantum ab artifìce enucleatius expressa est. ceterurn non hoc est controvorsiae iugulimi.

12 H. DIELS. t>ARTE t.

In remotissimam liane antiquissimamque partem rustieanae reli- gionis lucem mihi afferre videtur mira masculi membri formatio, quae per omnem antiquitatem valet. dico virilia aut in animalium aut in virorum speciem integra vel ex parte transformata. i atque idem fere interesse pnto inter virum mentulatum et ipsuin phallum quod inter ]ovem fulmeu gestantem et ipsum Ksqccvvóv. 2 atque ut fulmen primum alatnm repraesentant , tum aquilae totani figuram addunt, sic phallum primum alis ornant, tum animalis corpore augent, denique hominis ca- pite et corpore adiunctis spirantem viventem vigentem fingunt. sic quod prisci illi homines in virilitate divinum potensque inesse sentiunt, sui iuris esse volunt, sic eum deum phalloplioria pie venerantur, quem ad rei rusticae incrementum pluriinum valere vident.

Similis Cereris religio: in agrorum ubertate, in animalium fecun- ditate, in matrimonii fertilitate omnis spes agricolae. haec a sua quisqne dea expetit, Ime omnis votorum ratio vergitur. iam vero ut Bacclius masculos adamat ritus, ita Cereris fìsti {wcpÓQov religio ad matronarum magis sensa et cogitata spectat. Eleusinius quidem ritus paene totus est matronalis. bine igitur facile intellegi potest, cur priscis temporibus ab agricolis peculiaris dea Concuba indigitata et sub uteri forma eulta sit. nani aut piane fallor aut sic res explicanda est. Prienenses xoiMav i. e. /3av/3eó humano ore expressam humanisque cruribus incedentein iingebant , ut qui spectabant mentis venerationisque aciem in liane potissimum partem converterent et hoc maxime numen sibi affore crederent.

Veri est simillimum Baubonem illam primitus seorsum cultam, tunc ut Ceraunum in Iovis dicionem , sic illam in Cereris nobilem coetuin receptam esse, hinc ut niagnae deae sive nutrix sive ancilla et alio et in Ioniam translata est. hinc symbolis variis ut Eleusinii cultus famula ornata est. nani apud Prienenses quidem creberrima est illa figura quam n. 8615 (v. tab.) repraesentat , puella in ventre capitato poma gestans velut uvam et mala, hoc exemplum piane re- spondet Priapo , qui nudato et ipse inguine humanam fecunditatem prodit simulque in sinu fructuum ubertatem exhibet. 3 gemella igitur

1 exempla abundant cf. 0. Jahnii diss. de fascinatione Ber. d. sachs. Ges. 1855. von Hiller Thera III 18Ó Inscr. Gr. XII 3 Suppl. 1658. vide praeterea Kaibeliuiu Nachr. d. Gòtting. Ges. d. Wiss. 1901, 49.

2 Usener Keraunos in Mus. Bhen. 60, i sqq.

Cornutus 27 (Priapus) è^icpaivsi yàg {léyed'og ràv cclSolav xr\v nlsova- goveav iv &£(h GnEQy.axiy.riv dvvayiv . i\ S' èv xolg xÓItiois cciixov 7tu.yv.aQ7t ice xi]v daipdsiav xtòv èv xalg olxsiaig coQaig èvxòg xov xéliiov cpsQO^évav xaì àvadsixvv- péveov xaQTtwv. cf. O. Jahn Ber. d. s. Ges. VII (1855) 237,

PARTE I. ARCANA CEREALIA. 13

lmius frugifera dea Baubo, ut similis species cauistri etiam in aliis mysteriorum et matrimonii eaerimoniis adhibetur. alia figura in capite gestat calathum , cuius exempli niliil nisi delineationem in ninsei scriniis snperesse dolco, symbolnm ipsam in Bleusinio ri tu nihil expli- cationis indiget. nec magia tertiae, quam expressam videtis 8012 (sn- [>ra) fax; quarta (fig. 150) lyra insignis; quinta (cuius exemplum in privatis aedibus inventum) hydriam portata omnes fere figurae comis in muliebrem modum ornatis puellas, ut consentanemn est, non pueros repraesentari docent. varia haec niinisteria etsi band dedecent sacri famulatus ancillas, cave taineu credas plures Baubones, si licet hoc iam nomine nti , per dies festos sanctis coetibus interfuisse. imnio lyrae symbolum ad aliain nos ducit coniecturam. constat Cereris sacra ut similia mysteria chorearum strepita personari solita. ' itaque fide indignimi non est illani corporis nudationem , quam Orpliicas poeta significat et Prienensium vota repraesentant, pertinere ad mysticum quendam initiatarum mulierum chormn, qui Baubone duce cordacem quendam dactare et hac ipsa lascivia fecunditatem et sibi et agris a deis exoptare assaeverit.

Xe boc quidem loco tangam quae apud alios populos siaiilia in- veniantar 2 , at facere non possum qain ammalimi) psallentium chorum commemorem , qui in pepli Lycosurensis limbo ab artifice saec. fere alterius a. Chr. 3 fìctas est. ex figuris in eodem Despoinas fano in- ventis singularibus apparet ibi antiquissimos illos animalium choros in sacris adhibitos faisse , qaos oliai in Bacchicis acó^ioig personas equis, hircis, avibas, ranis assimilatas egisse constat. 4 ut igitur figlili Lycosurae vota conficiebant, quae sacri maneris memoriam et salata- rem vim qaasi multiplicabant , ita Prienenses quoque artifices e sa- crarum chorearum recordatione similemque in usimi vota ista agrestia maliercalis reliaiosis fabricabantur. 5

1 merninerÌ3 velim lacchici chori, cuius adumbrata imago extat in Ranis.

2 cf. Weinhold Z. Gesch. d. heidn. Ritua (Abh. d. Beri. Ah. 1896) p. 29 sqq.

3 Conze Sitzun<j8b. d. Beri. Ak. 1904 p. 1135. ipsani imaginern pepli, qui iu mu- seo nationali Atheniensi extat, habes ap. Cavvadian Fouilles de Lycosoura IAth. 1893.

4 cf. Perdrizet Bull. d. con: hell. XXIII (1899) 635.

5 ne pistores quidem abhorrent ab bis religionibus cf. Atben. XIV (547 A do Tbesmophoriis Syracusanis (Jcpi]§sici yvvuixeìa a xaXEÌG&ai xcerà Ttà6av rrtv Eixsliuv livllovg Kcd 7iEQicf£Qa6&cti recìg &saìs, de quorum nomine cf. Columba Archir. Stor. Sic. N. S. xm fase. 3), 647 i? {'/oiqÌvcu\ cf. Lobeck Aglaoph. 1067. scilicet pem- matologia sacra, quam ille subsannabat , seria qnaestione admodum digna: de germanicis rebus cf. Hofler Zeitschr. d. Ver.f. Volksk. Beri. 1902, 431: 1904, 431: 1905, 319. Breviter tamen boc moneo rcónuvu dadexóucpcda (Inscr. Gr. Ili 77,

14 H. DIELS. PARTE I.

Ilaec si recte coniectura nostra enucleata sunt, facilius explicatur, quod Magnesiae ad Maeandrum Baubo cum Coscone et Thettale tria- dem Maenadum offici t, qua sacra Bacchica (&La6ovg Bccx%olo) secunduin Thebanum ritum ibi instituta esse sacerdotes Magnesii fìnxerant. l si mul bine iteruin elucet, quani arto rinculo tutti Cereris et Bacchi niysticae religiones inter se nexae fuerint.

Quodsi ex Empedoclis ilio frammento hoc certe constat ne in Si- cilia quidem Baubonis nuinen inaliditimi fuisse, et oninino eam insulain prae ceteris Cereali cultu enituisse tot ac tanta terapia deabus Eleu- siniis sacra ibi eruderata confiriiiant, spes inilii aliquanidiu erat etiam in Sicilia vota inveniri posse similia Prienensibus. at cum ante duos annos musei Panormitani hypogaeum opere figlino refertissimum cum otio et studio perquirerem nihil ego invelli, nihilo setius gratiae mihi agendae sunt nunc quoque promo condo illius thesauri, praesidio ac decori archaeologiae Siculae, qui etiam abditas suas opes libéralissime in menili usimi reclusit et beneflciis multis publicis privatisque hospi- tis aniiimm in aeternum sibi devinxit.

Priugsbeim Zur Gesch. d. deus. A'ults Miincben 1905, 103) vel nolvóiicpcdcc (Cleru. Protr. 2, 22) deabns Eleusiniis praeeipne oblata videri ex eadetn seutieudi anti- quitate , unde Baubonis ventreni explicare studili, nimirum Telluris non solum ubera (ucc6roi) dicuntur , sed etiam umbilicus. quare in Apollinis sacro Delpbico, qnod olirn Telluris fuisse constat , extat vestigium antiquissiruae religionis rag ò(icpaXóg , itemque in Eleusinio tempio òacpalóg in bouore fuit, quod quidem non erat, cui- viri docti mirarentur (cf. Priugsbeim 1. e. p. 65), si origines maternae religionis late sparsas in antiqua Graecia reputasseut. ompbali sacri eam explica- tionem, quam A. Dietericb Mutter Erde (Leipz. 1905) p. 106 iudicat neque tamen ipse fìdenter commeudat , ut idem sit ac pballus , commemorasse satis esto. nec cum Robdeo consentio (Psyches l2 132), qui ex ftóXov forma et religione umbili- cum explicat.

1 O. Kern Inscr. Magri . 215, 24 sqq.

Berolini.

Hermannus Diels.

LE PAROLE URECHE SELLA TOPONOMASTICA DELL'ELBA.

Nella toponomastica dell' isola dell'Elba s' incontrano poche pa- role greche e per la massima parte sono quelle che, ottenuta in tempi diversi la cittadinanza latina, entrarono nel dominio comune delle lingue romanze. Segniamo in questa categoria : TujU/iog, donde la Tomba (Marciana); xqvxti], donde la irrotta (passim), il Grottarione o Grottaione (Rio); xdv&ttoog, i Gancheretti (Rio); à^ivyddlr], la Man- dola (Marciana); òqcczcqv, il Dragone (S. Ilario); xardataóig, le Cataste (Marciana); %alàv (?), la Cala (passim), le Galanehe (Campo), Galon- chiele (Porto Longone); (puldyyi], Palancito (S. Ilario); ym\my\, la Gamba e Gambetto (Marciana), Gambale (Campo); óTcd^tov, Spartaia (Marciana), ^dyyavov, i Mangani (Rio), xaXa^iCtrjg, Calamita (Porto Long.), \Lalvr\ (pesce), Treméndore (Porto Long.), jd^O-pov, i Cairi, il Catro (S. Ila- rio), il Cadrò (Porto Long.), sixóva biz., l'Acona o la Gona (Porto Longone); zarovva (?) n. gr., Val di Catone (Rio), la Cafona (Porto- ferraio); Gvjtov (?), i Sugali (Porto Longone), Si g hello (S. Ilario); e forse il suffisso (ora in Morota (Campo) e Caracota (ib.).

Dei nomi locali greci applicati direttamente e anticamente al- l'Elba appena tre si son salvati: niata^àv, Alftalùa e lAoyiòog; e di questi solo il primo vive ancora sotto le varie torme orni' è sentito, pronunziato e scritto : Pietamone, Pietramone, Piedamone, Pie d' Am- inone. Si designa con tal nome un monticello presso le miniere di Rio; ma anziché intendere ziXuxcì[igìv nel significato di piano, come vorrebbe indicare il Chiatamone di Napoli, preteriamo riferirlo alla tecnica mineraria e intendere con esso lo strato minerale di una lapicidina o d'una latomia l.

Gli altri termini che vivono nell'Elba in connessione con la na- tura minerale del suolo o con 1' industria che vi si esercitava e vi si esercita sono tutti ti' origine latina e in generale di data re- cente. Hanno rapporto con la natura del suolo i seguenti : Costa

1 Questo significato ba •jiluranùv in due passi di Strabone: V 2, 6 (par- lando delle miniere dell'Elba) xcc&ditSQ rovg xlccrcuiùvds rpccoi robg èv PóSm....\ XII 2, 8 nluTuyLwvss */uq etaiv, àcp iov rìtv Xi&luv £%eiv ucp&ovov 6vu{ìuiv£i....

16 R. 8 ABBACINI. PARTE I.

Argentiera (Rio), Spiaggia Ferrata o Ferrato (Porto Longone), le Ve- nelle i (Ilio), il Filone (Rio), Terranera (Rio) , dal color suo, e Grds- sera (Rio), uno dei più vetusti paesi dell'isola, distrutto nel 1534 dal Barbarossa, indicato nei documenti medievali con Grassula e Grassola e che io ricondurrei a crassa (cioè terra, humus), in quanto quel suolo o il suolo vicino conteneva abbondanza di ferro 2. I seguenti nomi accen- nano invece all'industria mineraria: la Cava dell'oro (Porto ferraio), le Ca- vacele e la Gavina (Rio), la Cava del Pistello, del Poppaio e di Grat- tarino (Rio), la Cava di Vigneria (Rio), da vinea, senza escludere il composto Vineae Rivi o Venae Bivi 3 ; le Fabbriche (Rio), Monte Fab- brello (Porto ferra io), nel qua! proposito avvertiremo che sino almeno dal 101)5 i lavoratori del ferro erano detti fabbri o fabbricherà ; 4 gli Schiumoli o Stiumoli (Portoferraio), con che s' intendono le scorie del minerale bruciato, che in certi paesi dell'Elba son chiamati rosticci, in certi altri schiume e schiumoli; le Fornacette e il Fornello (Porto- ferraio) e le Fornacelle (Rio) , dove però in luogo dei forni per cuo- cere i metalli potrebbero essere significati i forni della calcina; e in fine Portoferraio, così denominato modernamente, dovechè ad es. nel 121)0 era chiamata Ferraio, 5 col qual nome è ancora oggi designata dal popolo, che dice andare in, esser di, venir di Ferrala; onde rico- struiremo la forma primitiva in Ferrarla, supplendo officina.

Xon vive più il nome di AìftaMa, Alfrccleia, Ald-dlr], nel quale per puro scrupolo accenniamo che si potrebbe scorgere una base etni- sca, p. e. Aita (Plutone) o Setlans (Vulcano), mentre pensiamo che risalga a una base greca, già riconosciuta dagli antichi in cd&aXog, uì&ulri 6 « fuliggine, favilla, fiamma ». Ma per rendersi ragione cornei Greci appellassero l'Elba « la terra della fuliggine e delle fiamme » dob- biamo rinunziare a credere che in essa ojìerasse una fonderia cen- trale, quale sarà stata a Populonia, dove secondo le testimonianze di Varrone e di Strabone 7 veniva trasportato il minerale elbano

1 Con vena ancora oggi gli isolani designano il minerale.

2 Grassera era situata più in su di Rio, dove ora sorge la chiesetta di S. Ca- terina.

3 Rio deve il suo nome al ruscello (rivus) , che dopo il minerale forma la sna maggior ricchezza.

4 F. Pintor in Studi storici Vili, 1899, 55.

5 Id. ih., Vili, 20.

6 Diod. Sic. V 13, 1; Steph. Byz. s. v. Ai&dXr}.

7 Serv. ad Aen. X, 174 Farro et aliud dicit , nasci quidem Mie (apud llvam) ferrum, sed in stricturam non posse cogi nisi transvectum in Populoniam Tusciae civitatem. Strab. V 2, 6 eiSo^lsv (in Populonia) dh ucci tovs èQya&iiévovs xhv 6Ì8r\Qov xov ex rfjg Al&cdiocs xofu£ójxsi'Oi> ov yùq òvvatai GvXXiTtccivEO'Q'ai xa^iivEvó^iEvog èv

PARTE I. PAKOLE GRECHE NELLA TOPONOMASTICA DELL' ELBA. 17

per la cottura; ci figureremo piuttosto che in ogni luogo, dove fosse Iogurt drt far carbone e una polla d'acqua, gli isolimi piantassero un forno e vi bruciassero il minerale per proprio conto : e con tanti forni che fumavano in tutta l'isola sarà ovvio capire che ai naviganti greci cllii si presentasse un' alftalia.

A persuaderci che la faccenda procedesse così potrebbe venirci in soccorso un indizio, che a me non sembra mancar d'importanza, quantunque non rimonti al periodo greco e forse nemmeno al pe- riodo antico romano. Ad ogni modo lo accenno per invogliare altri ji studiare con maggior competenza la questione.

Da relazioni altrui mi risulta che nelle vicinanze di Rio, dove è il nucleo delle miniere, si trovano scorie di minerale bruciato: p. es. alla Marina di Rio e sul Monte Fico; scorie in gran quantità s' incon- trano ai Magazzini, nei pressi di Portoferraio, e fino nel Piano di Procchio, lontano da Portoferraio e assai più da Ilio, e più in ancora, al Poggio, sul Perone e nella valle di S. Cerbone (Mar- ciana). Io poi lio esaminato e percorso a palmo a palmo il ter- reno che intercede tra Capo Pero e Vignola, tra Montegrosso e il Lentisco; e su una superficie di pochi chilometri quadrati mi sono imbattuto in diciannove forni: uno al Vallone, uno al Pisciatoio, uno al Lentisco, uno all'Acqua Moresca, uno ai Chiassi (presso la fontana), uno alle Campelle, uno nel fosso al Ziro, uno alla fonte di Vi- gnola, uno alla Fonte la Chiusa, tre sotto la fonte della Pergola, uno rti Pozzoni, uno nel fosso della Calcinala, uno nella Valle del Bianco (Fan- ghiccia), uno al Castagno ', uno alle Paffe, uno alle Fornacelle, uno a Capo Pero (presso il pozzo). Tutti questi forni sono rovinati e non esi- stono che le scorie ammassate in monticelli; in taluno si vedono tuttora avanzi di terra refrattaria. Essi di regola si trovano vicini a un bosco che dava la legna per farne il carbone : ciò è chiaro; sono inoltre vicini al- l'acqua sia di un ruscello, sia di un pozzo, sia di una fonte, sia di una conduttura 2, sia del mare: e ciò non è chiaro, almeno a me 3. Tali torni.

rf] vì\6ì>ì xotu'£sTai S' Ev&bg ex x&v ahràllav eìg vrtv ì'jtcsiqov. Il non posse di Var- rone e 1' oh Svvarat di Strabone si riferiranno alla scarsezza rìbl combustibile, ma a una scarsezza temporanea.

1 II forno del Lentisco è generalmente noto agli abitanti del luogo ; quelli del Vallone e al Castagno mi furono indicati dal sig. Giuseppe Giannoni.

2 II forno delle Campelle era prossimo alla conduttura roniaua , che portava l'acqua da Vignola a Capo Castello.

3 Letrgo in H. Bluemner Technoloyie und Terminologie der Gewerbc und Elitiste bei Griechen und Romeni IV, 212-213 che gli antichi adoperavano l'acqua o per spegnere immediatamente l'acciaio e renderlo più duro o per lavare il minerale prima di bruciarlo.

2

18 R. SABBADINI.

non so se per tradizione popolare o per congettura dotta, son chia- mati all'Elba catalani o alla catalana. Anche su questo non posso interloquire; solo faccio voti che coloro i quali vengono all' Elba a visitare le miniere per iscopo industriale e quattrinaio non perdano intieramente di vista lo scopo scientifico, perchè quest' isola è tutta un museo geologico e storico; e quanto alle scorie, la loro analisi do- vrebbe portare a stabilire la natura e il metodo della cottura e se si tratta di forni catalani o di forni romani. Indizi esterni che essi risalgano a una certa antichità non mancano. Intanto i rosticci dei forni della Pergola e delle Campelle furono adoperati nella costruzione delle macerie che sostengono il terreno a uso di coltivazione : mace- rie che non sono tanto recenti; di più i rosticci dei Chiassi sono incastrati nelle rive del fosso a un livello abbastanza inferiore al suolo presente; a maggiore profondità stanno quelli dell'Acqua Mo- resca, che hanno sopra di se quasi due metri di terra; e il forno del Lentisco è vicino a un pozzetto, che potrebbe sembrare dei bassi tempi romani.

Se pertanto con questi forni arrivassimo all'età romana, non sa- rebbe fuor di proposito ammettere nei metodi metallurgici elbani una tradizione non interrotta dall'epoca dei Greci: nel qua! caso anche in quei tempi i privati avrebbero seguito l'uso di bruciarsi per conto proprio il minerale nei luoghi che più si offrissero opportuni per la legna e per l'acqua: indi la molteplicità dei forni, che sarebbe stata cagione che l'isola fosse chiamata Ald-ccUcc.

Rimane l'ultimo nome greco, ttQycoos, attestato sin dal secolo ILI av. Cr. da Timeo. 1 Argoo viene concordemente identificato con l'o- dierno Portoferraio; e l'identificazione era stata già intraveduta dagli storici locali: 2 io la rincalzerò con un argomento, che ci viene for- nito dalla tradizione greca. Gli antichi connettevano, per una falsa etimologia, l'origine del Porto Argoo con la nave Argo; e infatti narra Apollonio Rodio IV 654-658 che nel viaggio di ritorno gli Ar- gonauti approdarono anche all'Elba e che ivi si asciugarono il sudore (ISqSì uXi§) con sassolini (il>r]cpì6iv) che giacevano, tutti di un sol co- lore (xqoltj sìxeXca), sulla spiaggia. Strabone V 2, 6 commentando la leggenda aggiunge che quei sassolini (tlfìjcpovg) c'erano ancora ai tempi suoi (òianèvsiv iti ucci vvv); ma altera alquanto il racconto del poeta, perchè dice che erano variegati (diwjiomtXovg) e che non preesiste-

1 Cfr. Diod. IV, 56, 4.

2 P. es. [A. Cesarotti] Istoria del principato di Piombino, Firenze 1788, I, 92 ; t Porto ferrajo, anticamente chiamato Port'Argo»,

PARTE I. PAROLE GRECHE NELLA TOPONOMASTICA DELI,' ELBA. 19

vano all'arrivo degli Argonauti, essendosi invece formati dalle ra- schiature di sudore cadute dai loro corpi e indi rassodate (tcbv à7Co<STleyyi(j^ckcov Jtayévrcov).

Strabone pervenne solamente fino a Populonia; se avesse conti- nuato il suo viaggio tino a l'orto Argoo, avrebbe modificato la sua relazione, ma avrebbe in ogni modo verificato coi propri occhi l'esi- stenza dei sassolini. E quei sassolini esistono pure tutt'oggi sulla spiaggia esterna di Portoferraio, la (piale da essi ha ricevuto il nome di Ghiaie, e costituiscono anzi la caratteristica più singolare della costa settentrionale dell'Elba, onde a chi naviga da quella parte salta subito all'occhio di lontano la lunga striscia bianca delle Ghiaie. Poiché tutte bianche son quelle ghiaie, e in ciò Apollonio era più nel vero di Strabone, e provengono dai detriti della roccia quater- naria di eurite del prossimo Capo Bianco * , donde i venti del quarto quadrante da decine e decine di secoli staccano e chi sa per quante altre decine staccheranno quei ciottoli, che vanno a coprire la spiag- gia : superiormente le ghiaie son grosse e di mano in mano che si discende rimpiccoliscono, finché al pelo dell'acqua si riducono alle dimensioni di grani di miglio, in modo che non sono più ghiaie e non sono ancora arena.

A quelle ghiaie bianche deve il suo nome il Porto Argoo, che io non esito a ricongiungere con ÙQyóg (bianco); la tradizione greca posteriore lo connesse con la nave Argo.

1 B. Lutti Descrizione geologica dell'isola (V Elba, Roma 1886, 238 : « Merita di essere rammentato quel considerevole accumulamento di ciottoli candidi di eurite... cbe acquistossi per ciò appunto il nome di Ghiaie. Un tale deposito di ciottoli è dovuto ad una corrente littorale, probabilmente determinata dal predominio dei forti venti del quarto quadrante, la quale trasporta continuamente detriti euntici delle coste del non lontano Capo Bianco».

Milano.

Remigio Sabbadini.

« Eaccolta / di / lettere / scritte J in j Egitto / (1816 1818) J da [ Scalini Francesco j di j Como ».

È questo il titolo di un volume in di 309 pagine, manoscritto ed autografo, da me posseduto, per essermi stato donato nel dicem- bre 1897 da mio figlio, che lo acquistò alla vendita (Roma, Dario Eossi) della « Bibliotheca Lucini Passalaqua ».

Francesco Scalini appartiene alla non piccola schiera di Italiani che nel periodo reazionario, succeduto alla Rivoluzione francese ed all'impero napoleonico, o dovettero o preferirono abbandonare la pa- tria, gli uni per sempre, altri, come il nostro, temporariainente ed anelando presto al ritorno. In quei tre anni vissuti in Egitto, egli fu dapprima e per pochi mesi segretario presso il Consolato Austriaco n Cairo, poi divenne il tesoriere, l'amministratore, l'uomo d'affari di Giovanni Baffi Romano, d'Ancona, creatore colà di fabbriche di pol- veri e nitri. Non è qui il luogo di insistere su gli uffici, le occupa- zioni, l'attività, la furia giovenile, del colto ed operoso comasco sem- pre in moto. Secondo un mio vecchio scopo e programma ' , passo senz'altro a cogliere nel volume Vantico, di cui la distruzione in ser- vizio molteplice e spietato del nuovo, nonché l'emigrazione per opera di consoli collezionisti, tennero così gran posto nel regno famoso di Mehemet - Aly.

Dunque nel 1810, sul principio dell' impiego e del carteggio (pag. 29, 32, 34), Francesco Scalini scrive al suo principale, dal Con- vento Embabescioi al Lago Matrone : « Ho dato ordine di atterrare un pezzo di muro. Quest'ordine cagionò ne' Frati un tal dispiacere, che tutti piansero, e gridarono, ed anzi il di loro direttore aveva già preso i panni per ambirsene, ma Calil mostrandogli la sua ignoranza nel lamentarsi di cosa di piccol momento lo trattenne. 11 convento è pieno di luoghi inutili che dar ponno delle eccellenti pietre a calce, ed a lavoro di muraglie », poi : « Non essendovi più mattoni vecchi nel convento, si deve ricercarli fra le lontane mine de' conventi cir-

1 « Descrittori italiani dell' Egitto e di Alessandria » , nelle Memorie della Reale Accademia dei Lincei, del 1879 e del 1892.

PARTE I. RACCOLTA DI LETTERE SCRITTE IN EGITTO. 21

convicini ». E nel 1S17, da Terane (p. 205) : « i villaggi tli Ekmas, Katatba, e Triss si esibiscono di andare a scavare al deserto il nu- mero de' mattoni che devono pagare, e di darli tutti interi, non cal- colando gli spezzati. » Il cosidetto sebac, su cui possono vedersi le belle e feconde osservazioni del Wilcken nell' « Arcliiv far Papyrus- forschung » (t. II, p. 300 segg.), figura più d'una volta (p. 55, 70. 83) nelle lettere al Baffi : « Ditemi se devo pagar gli asini che traspor- taron terra nitrosa; come pure se devo cercare a Kafer Davut una trentina di Boricela, almeno per 10 o IH giorni onde rammassar molto sebac sulla sponda del deserto ».

Sempre al Baffi (p. 69) : « Sono avvertito da Bagnasco, che le mine di Zani nel Delta, ridondano di eccellenti mattoni, di marmi, di colonne, di pietre calcari,, e che uno scavo in esse non sarebbe infruttuoso. Se per approfittare di tali cose vi sono necessari ordini del Governo, procurate di munirvi di essi, ma che siano scritti nella più ampia forma ». Con altri però (p. 257, da Terane, 1 sett. 1817, al S.r Ivabitzsch), paulo meliora canti : « Godo che sianti giunti i li- bri in buono stato, e che le Medaglie e la Venere siano di tuo pia- cimento... Il metodo che tu m'indichi per avere delle antichità non è per nulla convenevole, ed io ho già pensato e penserò come sod- disfare a questo tuo nobile desiderio; frattanto sta certo che alla tua venuta in Terane avrai alcune belle monete antiche di rame, e forse una qualch'una d'argento... Il S.r D.re Burghard è qui da alcuni giorni, ed in due corse che fece ad un villaggio detto Zani che sta nel Delta rimpetto a Terane, raccolse alcune antichità e medaglie; ma quella fonte è inessiccabile, e vi rimana ognora dell'acqua pura, an- che quando quest' avido antiquario vi si sarà dissetato. Sino a che lui qui rimarrà, io non [tosso per civili convenienze seguitare i di lui passi. Pare che il prelodato S.1' I).1' non abbia intenzione di fare scavo alcuno.» «Bramerei (scrive a questo stesso amico, 10 marzo 1817, da Terane, pag. 151) che tu, che sei uno dei soej che fanno le nuove ricerche nelle viscere delle Piramidi, mi mandassi una descri- zione delle scoperte fatte dall'indefesso Capitan Caviglia. Esse mi saranno carissime in queste solitudini da dove non posso per ora sbucciare onde appagare il desiderio clic ho di vedere le sin'ora in- tentate vie di uno de7 più misteriosi monumenti dell' alta antichità Egizia. Tur anche, se è possibile, mandami un estratto di quegli scritti che va stendendo sulle scoperte del nuovo Colombo delle Pi- ramidi, il matematico Belletti».

Sono per noi curiose e notevoli, in una sua lettera al Baffi del 1817, queste poche linee (p. 197) : « La Mareotide fu già una delle

22 O. LUMBROSO.

più beile Provincie dell' Egitto ; era il giardino dell' antica famosa Alessandria, e palesano abbastanza la sua antica grandezza e gli immensi lavori che xi furon fatti, quella gran quantità di vastissimi pozzi ancora in ottimo stato che veggonvisi a' nostri dì; da ciò de- durre si può pur anche con quanto interesse gli antichi cercassero di mantenere questa provincia abitata, e coltivata, e quanto profitto ne traessero. Questa provincia che ha più terre e migliori da colti- varsi, di tutto l'intero Fayum, non ha per abitanti che un pugno di arabi, e per case che delle tende ».

Particolarmente interessanti, poi, alcune ultime lettere. P. 358 : « Samanut, 8 Giugno 1818, al S.r Giovanni Baffi, Bedrescene » : « Vi scrivo dal campo di battaglia. Dopo una faticosa e sempre notturna navigazione di dodici giorni, giunto qui, corsi prima d'ogni altra cosa a visitare il sarcofago, e lo trovai mezzo rinchiuso in un muro di una piccola moschea di un Santone detto Scek Gheitass : questa dif- ficoltà non mi spaventò, cosicché volai immediatamente al Mahalle per presentare l'ordine del Kyaya Bey al Kaschef : Egli sulle prime mosse mille dubbj, dicendo che il Bacino serve a' divoti, a' passa- gieri, ad un campo di soldati che vi sono attendati ; ma finalmente colle buone parole e col favore del fucile (piccolo dono per il vero ad un Kascef che fa le veci di Bey e che comanda 200 villaggi) ottenni da lui una lettera per il Kaimakam di Samanut perchè mi somministrasse tutti gli ajuti necessari, anzi gli ordina di incaricarsi lui stesso della condotta del sarcofago alla barca purché io paghi ed il muro da demolirsi, e la spesa di far un bacino, e tutto l'occorrente di corde, uomini, legnami ed altro. Presentata la lettera mi vennero fatte le stesse difficoltà del Kascef; più l'impossibilità di trovar uo- mini bastevoli oggi che sono tutti impiegati ne' lavori de' fili e delle tele del Pascià per la fiera di Tanta, ed il malcontento del popolo di veder tolto ad una [moschea] un Bacino che serve alle sacre ab- luzioni, ma con buone parole fra le quali lasciai brillare qualche raggio di regalo, e coli7 aiuto di un certo Mahamet Effendi soprain- tendente a' lavori delle tele, e che conobbi a Terane da Kircor, giunsi ad indurre il Kaimakam a venir con me questa mane a dar principio al lavoro. Giunti sul luogo i soldati s'opposero caldamente allo stesso Kaimakam, dicendo che una cosa di pubblico e sacro benefizio deve essere incontaminata, e vidi il momento in cui il Kascef inducevasi a mal partito : corsi allora dal capo di soldati e postegli nelle mani piastre 50 n'ebbi il subitano effetto di vederli tranquillizzati tutti, ed i Fellah gli consolai colla speranza di far un'elemosina alla Mo- schea, e colla promessa di costruir un bacino più grande del sarcofago.

PARTE I. RACCOLTA DI LETTERE SCRITTE IN EGITTO. 23

Pacificato il tutto, il Kaimakam fece incominciare la demolizione de' unni, e spero che questa sera il sarcofago sarà libero ad esser smosso dal luogo : ma come condurre al Nilo un peso così enorme di 90 a 100 Kantara ! Il Kascef ini disse che per trasportarlo al luogo dov'è vi vollero 500 uomini e 20 buoi, e la strada era corta ! come farò io ì eolla forza del santissimo denaro; ma se le spese saranno grosse, la preziosità di questo antico e torse unico monumento in tal genere le compenserà. I geroglifici sono così minuti, come teste di spilli, e dove incisi ì nel più bel granito roseo, fra le pietre durissima; e tanta si è la moltitudine di essi su tutti i lati esterni ed interni del monumento, che io dispero sino che l'accurattezza, e la pazienza del nostro buon architetto possa giungere a disegnarli. Il Kaimakam mi promise di ragunar dimani tutti i falegnami del villaggio per fare un carro ad 8 ruote, di cui gli ho dato il disegno, onde tra- scinar il monumento alla sponda del Nilo : il lavoro è lungo diffi- coltoso e dispendioso, ma qui ci corre il guadagno dell' Evangelio del 100 per uno. Credo necessario di spedirvi il presente corriere per intorniarvi delle prime operazioni ; perchè mi spediate un re- galo per il Kaimakam, che io credo indispensabile, essendo tutto il lavoro sulle di lui spalle, e non su quelle del Kascef; e perchè m'informiate sulla quantità dell'elemosina che devo lasciare al San- tone. Il sarcofago dalla parte della testa è circolare, cosa rara; e se la materia di quel di Belzoni è più preziosa di quella del nostro, la difficoltà dell'incisione di cosi minute figure nel granito l'eguaglia al pregio del Belzonico. L'esser poi estremamente pesante proviene dalla grossezza del fondo, e dalla solidità dei lati. Partecipate questa mia a M.r Coste, e rispondetemi prontamente. Ecco (pianto ni' occorreva scrivervi. Addio. » Giorni dopo, un'altro analogo trasporto : P. 301 : «da Bedrescene li 10 luglio 1818 al S.r Enrico Salt console generale Brittannico » : « Il giorno 8 corrente, giorno della di lei partenza dal Bedrescene, feci trasportar felicemente sino alla sponda del Nilo da (IO uomini la bella Vasca di granito, primo e magnifico monumento dissotterrato fra le mine dell'antica Menili : e mentre apparecchiava il tutto per farla scendere nella barca ove sta il sarcofago di Sama- nut, sopraggiunto il Rais di quella con altri Rais di altre barche, mi convinsero con forti ragioni essere cosa del tutto pericolosa e fuor di senno il caricar una sola barca di tanto peso : credetti adunque prudenza d' accondiscendere a' consigli del Rais, e così la Vasca ri- marrà sulla sponda sino a che Lei si compiaccia scrivermi ulteriori disposizioni in proposito. » lutine da Alessandria ^stando sull'ali per tornare in patria), li 19 settembre 1818, al tì.r Giovanni Baffi, Be-

24 G. LUMBROSO. PARTE i.

drescene : « ...Il sarcofago è giunto felicemente in Alessandria e di- scaricato alla sponda del mare; le spese da Eossetto in Alessandria sono state pagate da Nardi e credo ammontino a piastre 440. Dro- vetti lo vide, gli piacque assaissimo, lo stimò piastre 25,000 con più giustizia del Console inglese, e mi disse che parlerebbe con voi per acquistarlo, nel passare che farà dal Bedrescene portandosi nell'alto Egitto ».

E qui finisce il mio modesto « voyage d'un antiqnaire autonr de sa chambre », di cui mi approfitto per collaborare (molto povera- mente, ma molto cordialmente) al volume in onore del prof. Salinas e di Palermo.

Roma.

Giacomo Lumbroso

DUE TESTE DI RILIEVI FUNEBRI ATTICI

RINVENUTE IN SICILIA.

(Vedi Tav. I).

Mssuno meglio del mio illustre collega A. Salinas, che da mezzo secolo scruta e fruga il suolo della sua isola, sa per esperienza quanta penuria di buone scolture greche vi sia in Sicilia. Io non voglio in- dagare, se questa scarsezza vada imputata alla mancanza di scuole autonome ed indipendenti di scultori, ovvero al difetto della materia prima, il marmo; ed in ogni modo non mi sento di commisurare la povertà della Sicilia in fatto di opere plastiche antiche colle spoglia- zioni di cui essa fu vittima all'epoca romana, e coi disastrosi sac- cheggi del medioevo. Questo so ed affermo, che ben altra messe di statue e di scolture sarebbesi attesa da un paese così fortunato, dove per ben quattro secoli prosperano città insigni nella storia politica, floridissime nella condizione economica, celebrate per sontuosità di monumenti pubblici.

Alla Sfrena, onde colleghi, amici ed ammiratori intendono fe- steggiare il giubileo accademico di Antonino Salinas, parvenu non poter meglio contribuire, che illustrando due inedite scolture di ot- tima epoca greca, che la fortuna ci ha in quest'anno restituite e che andarono ad accrescere la non ricca serie plastica del Musco di Siracusa.

Negli anni 1903-04-05 tre lunghe campagne di scavi sono state dedicate ad esplorare in modo esauriente la vasta necropoli di Ca- marina, che si stende a mezzogiorno della città, sulle collinette ilo- minanti la sinistra del Kefriscolare, 1' antico Oanis. Sono stati sco- perti ed esaminati 1215 sepolcri, e sebbene questa necropoli non fosse la più antica, la più ricca della città, siamo ora in grado, dall'esame della copiosa suppellettile vascolare, di definirne con cer- tezza la cronologia, collocandola Ira due termini storici precisi, la ricostruzione della città avvenuta nel 4(11, e la distruzione per opera dei Romani nel 258 \ Il vasto campo funebre doveva essere in ori-

1 Orsi, Camarilla, scavi del 1899 e 1903 pag. 200 (in Monumenli Antichi dei Lincei voi. XIV, 1904).

26 P- ORSI. PARTE I.

ghie decorato di una quantità di segni esterni di sepolcri, cioè di iscrizioni, stelai e cippi STtirv^^ioi, che valessero a contrassegnare ed a far riconoscere almeno le sepolture più ragguardevoli; ne dovevano in origine mancare anche le scolture, sia architettoniche sia figurali. Se nonché sn quel snolo, deserto e desolato per secoli e secoli, pare che già in antico sia passata, spezzando e spazzando (pianto emer- geva dal soprassuolo, una violenta bufferà, che solo i sepolcri, sca- vati a varia profondità, lasciò pressoché tutti intatti. Penso che tale mina sia dovuta ai Romani, assedianti nel 258 la città, che in questo punto elevato e militarmente importante posero il loro campo. Ap- punto per ciò non mi fu possibile rinvenire un solo avanzo epigra- fico, ma bensì invece più di un frammento spettante alla decorazione architettonica dei sepolcri, e frammenti di cippi e pilastri scorniciati. E di avanzi plastici due soli frammenti ebbi, uno rinvenuto nella campagna del 1896 ', e l'altro, argomento alla presente nota, in quella della primavera del 1005.

Alla tavola I vedesi un frammento di lastra marmorea , a mi- nuto impasto cristallino (Pentelico), sulla cui superficie 1' azione di 23 secoli ha stesa quella mite tinta aurata, che colla sua nota tie- pida tanto s'addice a render gradevoli i vecchi marmi greci, smor- zando l'abbagliante candore ch'essi avevano in origine. Il frammento ha un'altezza di cm. 20, uno spessore massimo di cm. 7 l/z, e nel rovescio porta gli avanzi obliterati ed abrasi di una più antica scol- tura non funeraria, ed a quel che pare, abbozzata e non finita. Xel dritto invece una bella testa di guerriero adulto e barbuto, coperto di un elmo campanato che gli protegge tutta la calotta craniale, dal ciglio all'occipite. La barba è trattata sommariamente a bioccoli la- nosi ricciuti; l'occhio profondo coll'orlo delle palpebre arrotondato, abraso il naso, le labbra piccole e carnose, asciutte le guaneie ; il fascio dei muscoli occipitale e sterno-cleido-mastoideo indicato con pochi ma vigorosi piani. In complesso un lavoro per niente minuzioso e dettagliato, anzi sommario e quasi rude, come il volto del guerriero di cui rendeva le sembianze, vigorose ed indurite sui campi, ma aperte, franche, e composte a calma serena.

Nessuno porrà in dubbio, che questa scoltura non appartenga ad un rilievo funebre colla intera imagine, grande al vero, di un guerriero caniarinese della seconda metà del sec. V, anzi, per essere

1 Orsi, Camarilla , campagna aruhco logica del 1896 pag. 66 (in Monum. Ani. dei Lincei vii. IX, 1899).

PARTE I. DUE TESTE DI RILIEVI FUNEBRI ATTICI. 27

più precisi, di un guerriero morto alla fine di esso. Qualche breve osservazione merita anzitutto la forma conica o meglio campanata dell'elmo, che noi troviamo espressa in rappresentanze vascolari, in bassorilievi, e che ci è anche tramandata da qualche raro originale. È la forma di elmo, comunemente detta laconica od arcadica, che malgrado l'epiteto fu usata un po' dapertutto; propriamente, attesa la sua foggia, è un %lXog %ak%ovg, rispondente all'esemplare della rac- colta Lipperheide, l di fresco entrata , colla sua magnifica ed unica serie di elmi, nel Museo di Berlino, ed anche all'esemplare di Do- dona. ' Si è una volta creduto che questa foggia fosse una specialità portata dai guerrieri apuli, essendosi in Apulia rinvenuti esemplari in bronzo e numerose repliche in terracotta, e vedendosi tale elmo pileato nei vasi apuli, messo in capo a guerrieri indigeni che com- battono contro ai Greci 3. Ma ammessa anche una particolare diffu- sione di questa copertura militare in Apulia, essa vi deve essere stata introdotta dalla Grecia, che colle sue intense e continue in- fluenze aveva dato il colore alla civiltà locale, determinando persino il sorgere di fabbriche indigene di vasi figurati. Ne ho bisogno di dare uno spoglio delle rappresentanze di vasi attici, dove tale forma occorre, perchè troppo mi dilungherei; mi basti citare un solo esem- plare, un cratere camarinese (Orsi, o. e. tav. VII) di stile rosso, con Amazzonomacliia, della line del sec. V. Ricorrendo all'Attica, l'elmo a Ttllog ci si affaccia in taluni rilievi funebri, ancora di ottima epoca, come nella stele di Mica ed Anfidemo, in quella di Lisas di Tegea, e finalmente nel superbo monumento di Aristonautes '. E sempre per dimostrare la diffusione di tale copertura, viene a proposito l'Heroon di Trysa, che forse unico fra tutti i monumenti greci con- tiene nei suoi rilievi la più copiosa serie di figure militari; a propo- sito di queste il Benndorf ha composta un' accurata statistica, no-

1 Archaeologischer Anzeiger 1905 pag. 20-21.

2 Carapanos, Dortona et ses ruines tav. LVI, 7.

:! Lindenschniidt , Die Alterthiimer unserer heidn. Vorzeit (voi. I, 3 tav. Ili; elmo di Cimosa); Leuormant, Gazzette archéologique a. VII, pag. 99 (esemplari tit- illi di Lecce,; Gerhard, Jpulische l'asen (passini).

4 La prima di codeste scoltnre (Die attisclten Grabreliefs tav. XLIX testo pag. 40) è ritenuta dagli editori ancora della line del sec. V; auche qui è un guerriero barbuto che si separa dalla moglie. Quella di Lisas di piccole dimensioni, ed assai inferiore alla nostra testa per stile, è tuttavia ritenuta dello scorcio del sec. V (testo pag. 250), contro l'avviso del Pottier. che la porta alla line del IV. Al quarto secolo invece va riferita la grandiosa stele di Aristonautes (tav. CCXLV) con figura in prospetto.

28 P. ORSI. PARTE I.

tando conio \-i sieno 77 elmi attici, 23 corinzii, 29 frigi e 143 a t'orina di pilos, la quale « non di rado s' incontra anche su monu- menti attici » 1.

E di fatto sui rilievi funebri attici, che costituiscono il corpus pili ricco e svariato di questo ramo della scoltura greca, già dal sec. VI a tutto il IV noi vediamo sfilarci davanti le diverse cate- gorie di cittadini, uomini e donne, adulti e fanciulli, soldati e bor- ghesi, cavalieri e fanti, donne mature e fanciulle; insomma una mi- niera ricchissima, dove si rispecchia la vita ed il costume ateniese di oltre due secoli, e, ciò che più monta, la evoluzione della scol- tura attraverso un periodo così lungo e glorioso. Dolci sensi di affetto vi sono espressi accanto a severe figure di soldati e ad agi- tate imagini di garzoni che s'addestrano ai forti esercizi della pale- stra; guerrieri eroicamente caduti in difesa della patria accanto a dolci scene d' intimi affetti famigliari , per sempre spezzati dalla morte. Tutte le risorse dell'arte attica, dalle espressioni dure e severe, alle più gentili sentimentilità femminili sono state trasfuse in questa preziosa serie di scolture, che è vivo e spontaneo riflesso della vita, del costume, del sentimento, della potenzialità artistica di genera- zioni di cittadini, e di artisti che lavorarono sulle orme delle grandi scuole dominanti, rispecchiandone la maniera e l'indirizzo.

Quanto ai soggetti militari , nelle stelai non si dura fatica a rim- tracciarne esempi in tutte le epoche, direi anzi di preferenza fra le arcaiche; principe quella dipinta di Aristione , ed alcune altre coeve \ Guerrieri armati da capo a piedi noi troviamo in cinque stelai che fanno capo e si raggruppano a quella di Velanideza colla firma di Aristocle, e che vennero scolpite fra 520-500 3 ; nudo della nudità eroica, coperto del solo elmo, era il tarchiato efebo della stele di Nisyros del 470 circa 4); per altri guerrieri coperti dell'elmo pileato ho già di sopra citato gli opportuni riscontri.

I )o])o questa analisi formale e stilistica io non credo di andar lungi dal vero nello affermare, che la nostra scoltura è dovuta ad un artista attico, e che dell'arte attica sentiva profondamente lo spi- rito ed il fascino nei tempi immediatamente posteriori a Fidia. An- zitutto attica è la forma del rilievo, perocché non altrimenti dob- biamo imaginarlo nel suo stato originario e completo, che come una

1 Benndorf, Dus Ileroon voti Gjiilbaschi-Trysa, pag. 236.

2 Die attixvhen Grabreliefs, tav. II, 1 e 2; tav. Ili; tav. Vili, 1.

3 Heinach in Berne Archéologique 1901, Il pag. 163*

4 Reme Archéol. 1901 tav. XV.

PARTE I. DUE TESTE DI RILIEVI FUNEBRI ATTICI. 29

stele a rilievo piatto, alta e slanciata, colla figura del defunto grande al vero e perciò stesso isolata, sormontata in alto da una grande palmetta. Forma nobilissima clic gli Attici tolsero certo dall'Ionia ' , e clic imposta al sepolcro sembra volesse immortalare il defunto, scolpito nel marmo duraturo, e clic s'aderge solenne, ([nasi eroizzato, nella pompa austera del suo costume guerresco, mentre il suo frale si consuma sotterra. Il Furtwaengler, clic a queste stelai del periodo fidiaco ha dedicato pagine acute e sapienti ~ , ci adduce una serie delle medesime trovate fuori dell' Attica, anche in lontane regioni, ma' attiche di stile e di sentimento, le (piali attestano dell'influenza possente dell'arte di Fidia e della sua scuola. Sotto questo rispetto adunque nulla di strano, se unii scultore attico od inspirato all' At- tica lavorava negli ultimi lustri del sec. Va Camarilla, modesta città, che artisti propri difficilmente avrà avuti, e che per necessità di cose attingeva al più grande e luminoso centro dell' arte contemporanea, ad Atene ed all'Attica.

Ma vi ha di più; il tipo antropologico dei (ìreci nella seconda metà del sec. A" era supergiù eguale, ed anzi l'unità etnico-risica era allora più accentuata che non sia oggi fra gli italiani del sec. XX; e dal solo aspetto risico credo sarà stato difficile discernere un Ate- niese genuino da un Sicelioto delle colonie d'occidente, se non fosse per qualche raffinatezza del tratto, per qualche particolarità del co- stume e sopratutto per la maniera della pronunzia. Anche il modo di trattare la barba e la chioma presso le persone per bene non era gran fatto dissimile; dalla metà del sec. V al IV le persone distinti' portavano capelli corti, barba accurata e mustacchi :: , ciò che è di- mostrato dai ritratti di Pericle e Sofocle, dalle figurazioni dalle stelai. Ond'io non trovo ragione di sorpresa, se l'anonimo guerriero eainari- nese presenta tratti facciali, barba e chioma tali, da confonderlo colle imagini dei suoi contemporanei dell'Attica o di altre regioni dove la scoltura funebre attica si afferma. Ala se v' era un t'ondo tisico co- mune, non va escluso che lo scultore attico prediligesse dare ai suoi soggetti (pici caratteri formali che egli era abituato a scorgere fra la folla ateniese, o nei modelli delle grandi officine, dove egli aveva fatto il suo tirocinio. Ne veniva quindi una certa convenzionalità nelle teste, un tipo tradizionale che appunto rivela lo scalpello attico dell'artista. Ond'è che lo sconosciuto guerriero di Camarilla, colla sua

1 Collignou, Histoirt: de la sculpture grecque voi. I pag. 381,

2 Die Sammlung Sabouroff pag. 5 e seg».

3 Baumeister, Denkmaeler voi. I pag. 255.

30 . P. ORSI. PARTE li

corta chioma, colla barba a bioccoli, col caratteristico mento depresso, coi lunghi mustacchi abbassati, colle labbra alquanto prominenti, ap- pare fratello al cavaliere di una stele vaticana, che si vuole della Beozia (Collignon, voi. II fig. 72), all'adulto di Carystos (8. Sabouroff, tav. VI), al marito in doloroso congedo di una stele della via sacra di Eleusi (ibidem tav. XVIII), e a tant' altri soggetti funebri, che tutti poi si riconducono, qual più, qual meno, ai venerandi thallofori del fregio del Partenone. Si direbbe che questo tipo attico dell' adulto barbuto abbia pervaso tutte le contrade, dove l'arte attica si afferma. La stele era ad una sola figura, e questo è di grande peso nel collocarla alla fine del sec. V, anziché al principio del IV. Essa dev'essere perciò anteriore alla distruzione della città avvenuta per opera dei Cartaginesi nel 405, ed io vado ancor più oltre, collocan- dola, per ragioni storiche, prima della famosa spedizione ateniese del 415-413, che col tragico epilogo dell' Assinaros segna, per lunga data, la scomparsa dell'influenza politica e del commercio attico in Sicilia. Negli anni 427-415 l'antipatia di Camarina per Siracusa fu tale, che si preferì contrarre alleanza con Atene, ed Archia capitanò sempre una politica ostile alla metropoli 1 ; è molto verosimile che in questo periodo, o poco prima, un artista attico lavorasse in Camarina, dove gli Ateniesi incontravano simpatia e favore; non certo dopo il 413, anno che segna per molti lustri la cessazione di ogni influenza po- litica, commerciale ed anche artistica di Atene sull'isola.

Le osservazioni fatte intorno alla testa pileata di Camarilla mi hanno spianata la via allo studio di un'altra testa a rilievo, difresco acquistata dal Museo di Siracusa e casualmente rinvenuta da conta- dini in contrada Burgio, un cinque chilometri a ponente di Pachino, in un terreno archeologicamente sconosciuto, che ha dato sepolcri greci e ruderi di età tarda, e dove non pare improbabile s'abbia a col- locare la tanto controversa Casmena. Ma è bene per ora lasciare im- pregiudicata codesta difficile questione topografica, sino a tanto che degli scavi sistematici non abbiano messo in chiaro l'indole, l'età e la pertinenza della necropoli.

La testa di Burgio a rilievo piatto è scolpita in marmo greco a grana finissima, impastata di minuti tritumi di scintillanti cristal- lini; la superficie ha lieve patina bruno aurata, le dimensioni sono

1 Schubring, Kamarina pag. 499 (Rhein. Museum XXXII).

PARTE I. DUE TESTE DI RILIEVI FUNEBRI ATTICI. 31

circa al vero ; essa è data di tutto profilo sinistro, ed accurata- mente ritagliata nel contorno, anzicchè staccarsi e risaltare, come la camarinese, sul tondo abbassato della stele marmorea. Essa reca la effigie di un adulto nella pienezza della virilità, colla fitta chioma a brevi ciocche ricciute, ognuna delle quali solcata per il lungo da una o più incisioni. Alquanto diversamente è trattata la corta ma fìtta barba, pettinata a tratti verticali lievemente ondati, ed i lunghi mu- stacchi, che tagliati al labbro superiore scendono rigidi a confondersi colla massa unita della barba stessa. L' occhio colle palpebre forte- mente rilevate non porta indicazione della pupilla; il naso è in buona parte asportato dalla punta alla radice; un po' abraso l'arco sopra- cigliare ed il padiglione dell'orecchio; il collo non è rotto ma di pro- posito tagliato netto al primo terzo superiore. In complesso il ritratto. che tale era certamente, ci mostra una persona vigorosa e forte, dalle fattezze esprimenti energia e tenacia, composte in una concentrazione tranquilla e serena. 11 singolare rilievo alto cm. 25, con uno spessore massimo di o, è attraversato presso il vertice craniale da un foro cilindrico, contenente ancora un getto di piombo per fissarlo alla pa- rete di sfondo; il rovescio è lavorato in rustico.

Qualche ulteriore osservazione stilistica si rende qui necessaria a completare quelle già fatte a proposito della testa camarinese. In essa l'elmo copre e cela la parte capelluta, che qui invece risalta in tutta la sua bellezza, e lascia scoperto tutte» il contorno craniale, con quella bella ed euritmica sagoma (piasi rotonda, caratteristica delle migliori opere dell'arte attica, ond'esse si contraddistinguono dai tipi policletei. La chioma copre tutta la calotta craniale di brevi e fitte ciocche, (piasi compresse ed aderenti, lavorate con somma cura e finezza, e divise ognuna mediante uno o due solchi in due o tre liste con estremità arricciata; una foggia anche codesta peculiare alla buona scoltura attica del V e IV secolo, a cominciare dalla tesla di Armodio, dove per ragione di tempo le ciocche sono più rigide e schematiche, passando al mironiano idolino di Firenze, fino al nobi- lissimo e raffinato ritratto di Pericle, dovuto a ('resila di Kydonia ' .

L'occhio non molto profondo ed un pò* volto in alto, (piasi con

1 Questo argomento delle teste attiche, e sopratatto del modo di renderne la capigliatura, è stato di recente trattato con molta larghezza da parecchi, di cui io citerò qui i più autorevoli : Furtwaengler. Mcisterwerke pai;. 517; Heruianu, Alhenische 2Iitthtihingen 1891 pag. 316; Kekule , Ucber citi ISildniss des Perich'8 pag. 10; Beundorf, Oesterr. Jahreshefte 1903 pag. T-S; Ameluug, Jahrbuch 1903 pag. 112; Richardsou, Athen. Mittheilungen 1903 pag. 132.

32 P. ORSI. PARTE I.

intensificazione dello sguardo, ha il bulbo alquanto arrotondato, rac- chiuso fra le palpebre dall'orlo prominente, angoloso ed acutamente tagliato; anche la glandola lacrimale è indicata; chiusa decisamente la bocca. Nello insieme la testa è elaborata con grande finezza ed amore, riuscendo, sotto tal riguardo, di gran lunga superiore alla ca- marinese, anche per la maggior vivezza, per il risalto delle caratte- ristiche individuali, e per quella nota di freschezza cui sempre ten- devano gli scultori dei rilievi funebri attici. Ma oltre ai particolari del dettaglio noi dobbiamo, e sopratutto, badare all'insieme dell'ope- ra, per dedurne un attendibile giudizio stilistico e cronologico.

E della bontà dell' epoca è indice sicuro la nobile e composta bellezza, l'aspetto signorile e distinto, la nota di grandezza e tran- quillità che aleggia su questo volto, che non certo appartiene alla serie delle opere dozzinali e bottegaie, le quali dalla metà del sec. IV vengono sempre più corrompendo, col loro carattere manuale, la pri- mitiva e tradizionale nobiltà della scoltura funebre. L'esame dei pan neggi, ne sono sicuro, avrebbe aggiunto nuove conferme all'analisi sti- listica che io ho svolta, ma poiché essi mancano, è inutile toccare un campo meramente ipotetico.

Resta che io prenda a studiare l'ultima e difficile questione tec- nologica ; perocché è una particolarità inusitata e rarissima, forse anzi nuova, questa di un rilievo elaborato a parte, accuratamente ritagliato, imposto ed applicato ad uno sfondo di altra materia, forse di altro colore, quasi un cammeo che risalta sul fondo scuro, rispar- miato ad arte.

Per quanto di età e di stile molto diversi, io debbo anzitutto ricordare le metope del tempio E di Selinunte, nelle quali le teste, le braccia, le mani ed i piedi, in genere tutte le parti nude delle fi- gure muliebri, sono in candido pario, lavorate a parte ed innestate sui corpi di tufo, ravvivati dal colore. Ma qui è tutt'altro il princi- pio e la ragione determinante questo infantile e pur efficace ripiego, che ricorda la scoltura crisoelefantiiica e piti la pittura vascolare attica a f. n. da cui venne forse suggerito. l.

A Camarilla nel campo funebre di Passo Marinaro nei miei scavi del 1896, assieme ad alcuni frammenti architettonici spettanti ad una edicola funebre, io raccolsi una placca marmorea a medio rilievo, con porzione di un corpo panneggiato , che va dai fianchi alla punta delle ginocchia 2 ; la placca lavorata in rustico nel rovescio e ritagliata

i Benndorf, Die Metopen voti Selinvnt pag. 42. 2 Orsi, Camarilla, campagna del 1896 pag. 66.

PARTE I. DUE TESTE DI RILIEVI FUNEBRI ATTICI. 33

lungo il lato destro, doveva essere applicata ad uno sfondo prepa- rato; se poi il rilievo funebre constasse di una o di due ligure non fui in grado di stabilire.

Spigolando nel vasto campo degli Attìschen Grabreliefs trovo unico esempio alla tav. CCXIl un corpo di guerriero, al quale era applicata una testa di riporto, ora smarrita. Per due teste, maschile una muliebre l'altra, del Museo Civico di Trieste (o. e. n. 1207 e 1298 a.), mi assicura l'egregio direttore Alberto ruschi che esse sono ritagliate nel contorno.

Ma è nel fregio dell' Erechtheion d'Atene che noi troviamo 1' e- sempio più attagliato al caso nostro; esso constava di uno sfondo di pietra nerastra di Eleusi, sulla (piale erano applicati mediante perni metallici i bassorilievi in Pentelico, ritagliati figura per figura, in modo da risaltare come grandi cammei sul fondo cupo. I conti del- l'opera, fortunatamente pervenutici, ne accertano che questo lavoro venne terminato e pagato negli anni 408 e 407 l. Le scolture sono dovute a parecchi artisti di secondo ordine, mediocremente ricom- pensati, i quali miravano sopra tutto ad ottenere effetti pittorici, e che alla grande arte applicarono in qualche modo il sistema dello stile rosso dei vasi, le cui figure spiccano sul fondo nero. Lo seni tore della testa di Burgio si è attenuto allo stesso metodo, ed ha tentata la stessa novità.

Ma conobbe egli i rilievi del fregio dell' Erechtheion, od attinse ad altre fonte che noi non conosciamo ? Sarà ben difficile rispondere a tali quesiti, che si collegano intimamente con altri. Io mi sono adoperato a mettere in evidenza i caratteri attici di questa testa, e le ragioni che m' inducono a ritenerla dell' ottimo tempo della scol- tura funebre, cioè dell'ultimo terzo del sec. V. Ma se valgono i cri- teri storici addotti per la testa di Camarilla, anche questa dovrebbe essere anteriore al 415-413, e quindi alle scolture dell' Erechtheion.

E di conclusione in conclusione a quest' altro risultato noi per- veniamo, che cioè queste due opere «Iella fine del sec. V rappresen- tano quanto a stile, scuola ed indirizzo una eccezione in mezzo alla serie di scolture siceliote del VI e V secolo, sin qui conosciute, le quali per unanime consenso degli archeologi si attribuiscono a maestri e scultori delle scuole peloponnesiache. Che le metope di Selinunte si richiamino fortemente ad Olimpia fu già dimostrato, fino all' esa-

1 Collignon , Hist. de la sculptiirc grecque voi. II pag. 04-95 ; Overbeck, Gè- schichte dcr griech, Plastik, 4 ed. voi. I pag. 475.

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gerazione, dal Kekule ' ; per le teste ed i torsi arcaici rinvenuti nell'isola tutti van d'accordo nel non riconoscervi nessuna nota od impronta di originalità, ma una dipendenza dalle scuole del Pelo- ponneso 2 . Quando i munifici principi siracusani all'inizio del sec. V vogliono immortalare le loro vittorie agonistiche mediante sontuosi anathemata, non trovano in Sicilia artisti di valore, e danno le com- missioni ai bronzieri di Argos e di Egina; perfino nelle terrecotte e nelle monete noi troviamo fino agli ultimi lustri del sec. V mante- nuto questo asservimento alle scuole peloponnesiache 3.

Solo con Fidia l'arte attica divenuta arte ellenica %at è%o%ì]v, si impone gloriosa nei tipi monetali di Siracusa, ed i grandi decadrammi ce ne porgono decisiva testimonianza. Anzi, strano contrasto, è l'arte attica trionfa trice che viene chiamata ad eternale nel saldo argento la disfatta militare e politica di Atene; ma il tipo del decadramma sorto alquanti lustri prima della rotta all'Assillavo permane e si per- feziona, per opera di artisti asserviti a Siracusa, anche dopo il di- sastro ateniese.

Ma altra cosa sono le arti minori ed industriali, che s'infiltrano ovunque, altra la grande arte in servizio del culto e dello stato, e di questa grande arte attica, per (pianto io mi adoperi, non riesco a trovare in Sicilia affermazioni decise durante il sec. V. Onde ri- torno alla mia precedente dichiarazione, cioè a rilevare la rarità ec- cezionale delle nostre due teste, indubbiamente attiche in suolo si- celiota, le quali coincidono e segnano l'influenza esercitata dall'arte grandiosa del ciclo fidiaco anche in Sicilia, influenza affermata sin qui dalle sole monete.

Avrei finito, se non dovessi muovere un' altra domanda. Erano gli autori delle nostre scolture artisti attici lavoranti in Sicilia, op- pure residenti nell'Attica, che assumevano ed eseguivano per conto di Sicelioti le commissioni 1 Una domanda analoga non so se sia stata posta a proposito dei copiosi rilievi funebri attici, fuori dell'Attica segnalati. Nel caso nostro la mancanza di marmi nell'isola mi muove a porre il quesito, alla cui soluzione nell'uno o nell'altro senso, mi- litano argomenti del paro validi. Se è stato già ammesso da parec- chi, e ragionevolmente , 4 che in Sicilia invece dei pesanti blocchi

1 Archeol. Zeitung 1883 pag. 229; idem, Archaiseher Frauenkopf ans Sicilie».

2 Poterseli, Boemische Mittheilun gen 1892 pag. 65 e segg. ; 1897 pag. 124 e 127.

3 Veggasi in proposito la eccellente monografia di G. E. Rizzo, Di una statua fittile di Inessa e di alcuni caratteri dell'arte siceliota (Napoli 1904Ì.

4 Rizzo, o. e. pag. 27 nota 4.

PARTE I. DUE TESTE DI RILIEVI FUNEBRI ATTICI. 35

grezzi si importassero statue belle e fatte, e grandi bronzi già fusi, non vedo perchè eguale concessione non s'abbia a fare anche per le stelai, le quali in breve tempo potevano eseguirsi in Atene stessa su schizzi e disegni, che nella traduzione in marmo venivano al- quanto abbelliti e dirci quasi idealizzati. Mi si obbietterà che se era malagevole il trasporto per mare delle lunghe e non .spesse lastre grezze, era ben più rischioso rinvio di una stele già scolpita, lunga e sottile e quanto mai fragile. Ma io mi domando, se non debba appunto attribuirsi ad una garenzia nel trasporto il fatto che la stele di Burgio era formata di più pezzi, forse tre, per modo che il rischio di lesioni era di molto diminuito. Del resto le migliaia e migliaia di vasi, anche grandiosi e preziosi, che le fabbriche dell'Attica per (piasi tutto il sec. V scaricarono sui mercati di Agrigento, Gela, Camarilla, Siracusa etc. avevano fatto certamente apprendere tutti i sistemi più perfezionati d'imballaggio e di spedizione.

Comunque vogliano risolversi questi quesiti secondari sul luogo dove vennero scolpite le stelai, io dico che le due teste portano un fattore al tutto nuovo nello studio della plastica siceliota in sul de- clinare del V secolo. Colla loro sana e vigorosa bellezza, colla nota serena e solenne che alita sui loro volti, esse sono un nobile esem- pio di quell'arte del periodo aureo, che, per quanto attenuata, si af- ferma anche al di dei ristretti contini dell'Attica. Esse dimostrano ancora che la Sicilia, priva di grandi maestri e di scuole proprie, avea profondo il senso ed il culto della plastica, e come al principio del sec. V s'era resa tributaria alle scuole del Peloponneso, di Argo e di Egina, alla fine dello stesso secolo accoglieva e ricercava i pro- dotti degli artisti formati alla scuola immortale di Fidia.

Siracusa.

Paolo Orsi.

UNE VISITE À LA NÉCROPOLE DES RABS

prètres et prètresses de Carthage.

Le 22 octobre 1903, j'avais le plaisir de recevoir la visite de M. le Professeur Salinas et de 1' accompagner à notre chantier de fouilles, c'est à dire à la nécropole des Babs, prètres et prètresses de Carthage.

Fig. 2. Vue de la nécropole. (Photographie de M. H. Bourbon).

Cette antique nécropole du IVe sièele environ avant notre ère est toute entière constituée par des rangées de puits à orifice ree- tangulaire s'enfoneant verticalement dans le roelier et atteignant parfois une profondeur de plus de 20 mètres. Dans une des parois étroites, les Carthaginois ont creusé une ou plusieurs chambres.

De semblables nécropoles doivent assuréinent exister en Sici- le 1. Ann d'attirer 1' attention des archéologues italiens sur les sé-

1 Je pourrais dire aussi qu'il doit exister de ces mèrnes sépultures daus l'Ile de Sardaigne.

PARTE I. UNE VISITE 1 LA NECROPOLE DES RABS. 37

pultures de ce genre , je donne page 38 la doublé coupé d' un des puits explorés cette année.

Dans une des parois étroites, ordina irement du coté du sommet de la colline existe le caveau funéraire ou Ics chambres. Cliaque caveau a son entrée sur le puits. Jamais on ne trouve de chambres communiquant horizontalement entre elles, si ce n'est par suite de la chute de la inince cloison de roche qui parfois les séparé \

Le plus souvent, on a creusé dans la chaìnbre deux auges, une à droite et l'autre à gauche. La partie du rocher qui séparé les auges est ordinairement assez large pour avoir recti un cadavre. Quelquefois, mais rarement, une petite niche a été tailleé dans une des parois de la chambre.

La plupart de ces caveaux sont des sépultures de famille. On y a depose les corps, d'abord dans Ics auges, puis sur la banquette mediane. Les cadavres, noyés ou non dans une couche de rèsine étaient renfermés dans des cercueils de bois et parfois la chambre a été remplie de bières jusqu'au plafond. Si la place venait encore à man- quer, on entaillait le rocher pour donner place à un dernier cercueil.

Le bois des cercueils, trés épais, était peint en rouge. On en a aussi trouve qui étaient polychromés et dorés. A coté des cadavres, on a souvent depose des ossuaires. ('e sont de petits récipients rec- tangulaires en pierre calcane avec couvercle en dos d'àne. Ils ne ren- ferment (pie des ossements humains calcinés et brisés. Les cendres étaient mises à part dans des amphores.

Le cercueil de bois est rarement remplacé par un sarcophage de pierre ou de marbré. Xous avons eu cependant, depuis le début des fouilles, la bonne fortune de rencontrer quatorze grands sarcopha- ges en marbré blanc, tous ornés de moiilures peintes 2. Quatre de ces sarcophages porteut sur leur couvercle l'image du mort habilement sculptée en relief. L'armi ces statiies, il en est une d'un art merveil- leux. Elle représente une prétresse carthaginoise dont le costume et

1 Pour 1' étude complète de cette interessante nécropole on petit consulter les nombreux rapports que j'ai aòressés a l'Académie des Inscriptions depuis le commencement de LSU8 jusqu'à cette année. On petit aussi consulter mes autres ptiblications : La Nécropole ptinique voisine de la colline de Sainte-Monicpic, ler mois, 2me mois, 3me mois, 2me trimestre, 2'ne semestre, 2me année, et Les grands Sarcophages aniìiropoides du Musée Lavigerie.

2 Je n'ai rencontré en Sicile qu'tin seni sarcophage de marbré semblable à ceux de Carthage. Il se trouve dans une des sacristies de la Cattedrale de Gir- geuti S. G. Mgr. Lagumina me l'a mentre. Les acrotòres du couvercle sont plus grands qu'à Carthage. La cave porte sur sa moulure supérieure et sur l'inférieure un décoratiou peiute. Une grecque peinte orne la trauche du couvercle sur ses quatre faces.

38

À. L. DELATTRE.

I*ARTE I.

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C-nijtes transversctlcs sur les chambres.

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Coupé longitudinale sur le Puits et les chambres.

Coupé transrersale sur les Puits.

Fig. 3. Coupes verticales d'un puits funéraire carthaginois avec ses chambres.

(exploré le 29 juin 1905. Dessin de M. Elie Blondel).

PARTE t.

UNE VISITE A LA NKCROPOLE DES RABS.

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la coiffure comportent un mélange d'ornements grecs et égyptiens. La téte est encadrée du klaft et surmontée d'une tète d' épervier. Le haut de la poitrine porte un riclie gorgerin forme de bandes de

Fig. 4. Statue de la pròtresse (Couvercle du sarcophage). (Photographie de M. II. Bourbon).

couleurs cernées d'un large filet d'or. La tunique, aux plis nns, était retenue sous les seins par une eeiuture dorée. Tout le bas du eorps, sauf les pieds, est enveloppé par deux grandes ailes de vautour peintes et dorées.

40 A. t. DELATTRÈ. PARTE I.

La main droitè abaissée tient une colombe, tandis que la mairi gauche porte une boìte à offrandes.

Le visage, aux traits calmes et graves, a les yeux peints, ce qui lui donne une expression extraordinaire; les oreilles sont ornées de pendants qui étaient dorés et sur le con un doublé cercle de petites boules dorées soutenait un disque.

C'est une pièce d'art aussi étrange que magniflque. Elle ravit d'admiration tous les visiteurs du Musée Lavigerie. Je n' oublierai jamais 1' exclamation enthousiaste du Prof. Salinas lorsqu' il la vit pour la première fois. Il ne pouvait se lasser de contempler cette CBuvre merveilleuse.

Mais il est temps que je dise un mot du mobilier funéraire des hypogées de la grande nécropole en question. Les morts son accom- pagnés d'un certain nombre de pièces qui font rarement défaut. Ce sont des urnes à queue , des lampes plates et bieornes avec leurs patères, des lampes de forme grecque, des unguentaria, des amphores à base conique * par paire et portant chacune la mème inscription en caractères puniques, des vases étrusques peints, des cenoclioés de bronze, des miroirs, des rasoirs à doublé face ornée de personnages et de palmiers tìnement ciselés dans le bronze, des monnaies carthagi- noises et siciliennes, des bagues sigillaires, des armilles , des brace- lets, des pendants d'oreille, des cymbales, des sonnettes, du fard, de nombreuses amnlettes 2 , des colliers, etc..., etc... Des lamelles d'ivoire découpées et couvertes de délicates ciselnres représentant souvent des i>ersonnages, méritent aussi d'Otre signalées.

De temps à autre, il sort de ces sépultures quelque objet plus précieux, anneau d'or ou d' argent, intailles, chefs d'(euvre de glypti- que, des figurines de terre cuite de provenance variée, enfili de cu- rieux vases de forme particulière.

Les fouilles nous ont permis de former de belles séries de figu- rines et une riclie collections d'épitaphes puniques.

On trouve aussi parfois dans ces sépultures des anses d'ampli o- res rliodiennes estampillées , mais sans aucun vestige des amphores elles mèmes. On y trouve aussi des estampilles puniques cornine celles de Sélinonte 3.

1 On signalait dernièrement la déconverte en Béotie de vases de forme co- nique avec cette mème particularitd que la pointe du cone se trouve vers la base.

2 Parmi ces amulettes, on rencoutre assez souvent un doublé masqne en pàté de verre identique à celui que le Prof. Salinas a publié" panni les objets trouvés à Sélinonte (Notizie degli scavi, anno 1884, Tav. V, n. 422).

3 Notizie degli scavi, 1884, Tav. V.

PARTE I.

UNE VISITE À LA XECROPOI.E DES RABS.

41

Lorsque le 22 octobre 1903, j'arrivai à la nécropole avec M. Sa- liuas, on venait de sortir du f'ond d'un puits et d'une chambre funé- raire une très elegante aiguière en terreeuite , unique en son geme. Cette découverte remplit de joie 1' éminent professeur. Voici la des- criptioo de eette intéressante pièce de cérainique antique (fig. 5) :

Piar. 5. Dessin du M.s d'Anseline de Puisaye.

Haut de 0m, 31 , ce vase est d' uno torme très élancée. Sur un disque d'appui de 0m,075 de diametro s'élève le corps du vase. ("est une sorte de cornet haut de plus de 0m, 20 , très étroit ì\ la base (0m, 030) et ne s'arrondissant qu'au sommet il atteiut 0'", OS de dia-

42

A. L. DKLATTRE.

PAÌITE I.

mètro. Sur cotte pansé s'élève un col étroit (0m, 025) haut de 0m, 08, à orifice trilobé. Une anse à nervures avec tote imberbe cornine point d' attaché supérieur et tete barbue comme point d' attaché inférieur donne à l'ensemble une gràce toute particulière.

Pifr. 6. T,a montóe d'un sarcophage. (Photugraphie de Ai. II. Bourbon).

Ce beau specimen de céramique est en terre rougeàtre, mais il a recu une converte jaunatre , légèrement brillante et d'un velouté doux au toucher J.

La couverte de ce vase et sa dócoration peuveut ètra rapprochées, comme conleur, des tuìles de Sélinoute {Notizie degli scavi, 1881, Tav. VI).

UNE VISITE À LA NÓCROPOLE DE8 fcABS.

Passons maintenant a la décoration. La couleur em.ployée est le rouge brun. Le pieci porte une nervure dont Paréte est marquée d'un mince tìlet formant cercle. Plusieurs autres tìlets atteignent le bas du corps mème du vase et supportent une ligne de flots surmontés eux-mèmes d'un mince tìlet.

Vers le milieu du cornet, une bande large d' un centimètre en- viron a recu un complément de décor trace a la pointe sèdie après la cuisson. L' instrument semble avoir difflcilement attaqué la torre cuite et la forme des rinceaux dessinés s'en ressent.

L'espace compris entro cotto bando et la naissancc du col, c'est- à-diro la partie que nous pourrons appeler la pauso est presque en* tièroniont remplio per uno branche d' arbnste à feuilles en forme do

Fig 7. Sarcophage de marbré blanc peint (l'hotographie du M. H. Bourbon).

coeur et portant plusieurs tìours. Cotte branche fortoment ondulée prend naissance à la base de l'anse, puis so dirigo à droite en pous- sant des tiges très tìnes qui forment d'élógants rinceaux. Près de rejoin- dre l'anse, à la partie opposée do la pansé, olle so tonnine par une très largo fleur. Dans co décor du genio volubili* , les fleurs sont complétées par dos traits pratiqués a la pointe sèdie.

Le sommet de la pause porto un largo tìlet sur lequel V artiste a trace à la pointe une palme.

Ce tìlet ou cercle sort de support a cimi longues dents de loup qui entourent le col et en atteignont l'oriftce.

Cornino je l'ai dit plus haut, celui-ci est trilobé. À la naissancc des lobes latéraux, deux nervuros coloroos cu rougo-brun accompa-

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A. L. DELATTRE.

PARTE I.

gnent la téte formant point d'attaché à F anse. Cette téte qui offre le visage (rune temine se montre au-dessus de 1' orifice da vase , ee «[ni donne a l'anse sa tournure gracieuse.

Le masque qui lui sert de point d'attaché inférieur sur la pansé est une téte barbue l à ampie chevelure. Elle était en partie peinte. La couleur se distingue encore aux lèvres.

Tel est ce beau vase, de forme élancée sans rien perdre de sa gràce ni de son élégance, à déeor si interessane C'est un specimen de céramique de luxe, sorti d'une fabrique qui doit avoir fourni des échantillons a la Sieile, tandis qu' a Carthage, ils sont jusqu'à pré- sent excessi vement rai-es.

Fig. 6. Vue des puits funéraires Leur disposition. (Photographie de M. H. Bourbon).

Je suis heureux de pouvoir accompagner cette description d'un beau dessin a la piume habile du marquis d'Anselme de Puisaye. »! e me réjouis en inéme temps d'avoir cette heureuse occasion de re- m et tre sous les jeux de l'éminent professeur cette pièce de céramique qu'il admira sur place avec enthousiasme au moment meme tonte li umide encore de son séjour vingt-trois fois séculaire sous le sol, elle venait de reparai tre à la lumière.

1 Daus la sèrie d'oouochoés de bronzo provenant de la nccropole cìes Rabs, cette forme d'ause revient souvent. Il y en a raèrue de très enrieuses et artistiques dans lesquelles figurona des personnages ou des animaax, tels que lions et béiiers.

PARTE I. UNE VISITE À LA NÉCROPOTE DES RABS. 45

Je ne puis oublier , comme pour la prétresse, l' impression que produisit sur M. Salinas la vue de ce curieux specimen de céramique artistique. Jamais non plus je n'oublierai son apostrophe au chef de chantier qui avait pris ce beau vase par l'anse ponr nous le remet- tre. « Jamais, fit observer M. Salinas, on ne prend par l'anse un vase antique de valeur». A cette lecon, on reconnait le savant professeur et l'éminent directeur du musée de Palerme.

11 m'est parti culièrement agréable de profiter de la fète dont il est l'objet aujourd' lini pour lui rappeler ce doublé souvenir , la dó- couvert de l'oenoclioé et la vue de la merveilleuse statue gréco-égyp- tienne de la prétresse carthaginoise.

Saint Louis de C'artkage.

Alfred-Louis Delattre.

RITRATTO PROBABILE DI LISI/AACO

marmo del Gabinetto archeologico della R. Università di Pavia.

(Vedi Tav. II).

Il busto marmoreo figurato di prospetto e di scorcio nell'annessa tavola, e inversamente di profilo e di taccia per la testa clic è for- temente volta a destra, rappresenta evidentemente un generale greco o stratego, caratterizzato dal balteo che si vede traversargli il petto. 11 tipo mostra a prima vista un'energia e una imperiosità non co- muni, che annunziano india persona rappresentata una spiccata in- dividualità, e nell'artista, non certo di second' ordine, che la ritrasse, 1' intenzione di far valere in tutta la sua forza il carattere così ac- centuato del soggetto. Tutto dice, insomma, che qui non si tratta d'un condottiero di poco conto, ma di una figura che s'impone anche nella muta anonimità del marmo.

11 nostro busto, che appartiene al Gabinetto archeologico della R. Università di Pavia i , non è però il solo ritratto della stessa persona. Il Museo di Napoli possiede anzi un busto simile 2 , del me- desimo taglio e della stessa forma, cava posteriormente con sporgenza a naso; e il busto di Napoli (fig. 9 i è non solo un ritratto della mede- sima persona, ma una replica del busto pavese. Se non che tra i due busti, non ostante la somiglianza della forma esteriore, vi sono tali differenze di trattamento, che a mio avviso escludono la riproduzione immediata da un originale comune (non dico l'ipotesi inverosimile che l'uno sia copia dell'altro) e fanno piuttosto pensare che ci troviamo in presenza di due variazioni da un prototipo già così conformato a busto, delle quali una almeno è lontana dall' originale per ripetute

1 Senza notizie di provenienza : alcune vecchie carte accennano vagamente che i marmi figurati del Gabinetto siano stati trovati a Velleia. Il busto che io pubblico è non solo inedito, ma non ricordato : pubblicando pochi mesi or sono nei Rendiconti dell' Accademia di Napoli una testa marmorea pure posseduta dal mio Gabinetto, e nella quale io riconosco una copia eccellente della Sosandra di Calamide, ho soltanto accennato in generale ad altri buoni pezzi che avrei fatto conoscere altrove.

2 Invent. 6141 , Gerhard 376 ; pubblicato in Arndt-Bruckmann , Portrats, 109-110.

RITRATTO PROBABILE DI LISIMACO.

47

riproduzioni intermedie e conseguenti alterazioni. Infatti nella replica di Napoli sono un po' più accentuati alcuni minuti particolari della superficie della cute, con danno dell' insieme e dell' espressione : si sente in ciò il copista romano in marmo, che s'indugia nelle minuzie e le fa di maniera ; così le rugosità caratteristiche della pelle d'un vecchio, così i capelli, sempre difficili a riprodurre in plastica, e qui fatti anch'essi di maniera. Il busto di Pavia è opera molto superiore per merito artistico, per forza d' espressione, per franchezza e bra-

Fig. 9.

vura di trattamento, che non è punto manierato. Vi sono qua e meno particolari di superficie, ma con grande guadagno dell'insieme; il che mostra (anche se ciò non fosse chiaro dall'accuratezza e finezza del lavoro e dalla bella politura del marmo nelle parti che rappre- sentano la cute umana) clic abbiamo qui non una trascuratezza, un sopprimere particolari esistenti nel modello, ma nini sapiente subor- dinazione delle piccole alle grandi forme, quale è propria in grado eminente dell'arte greca, dal momento clic si libera di ogni arcaismo

48 G. PATRONI.

fino ti quello in cui si trasforma secondo il gusto romano, e come in particolar modo si mostra nei lavori di bronzo o che stanno sotto l'influenza dello stile del bronzo. Affatto diverso è il trattamento dei capelli nella testa pavese, dove quasi dimostrano ancora con le pic- cole ciocche ammassate, specialmente su la nuca e su l'occipite, la modellatura originale fatta in argilla o in cera durante la posa del modello vivo. Con somma cura dell'effetto, mentre la cute nuda è tirata a forte pulimento, i capelli della testa pavese sono lasciati greggi, anzi nel lato destro, che doveva addossarsi ad una parete o nicchia, sono soltanto sbozzati a piccoli solchi ondulati superficiali. Uguale cura dell' effetto si ha in originali greci del IV sec, come l'Hermes di Parassitele: nei miei appunti, presi in Olimpia dinanzi al marmo, trovo notato che la superfìcie ò lasciata greggia nella parte posteriore, lavorata col picchierello ; è raspata e non levigata nel panno; è levigata e lustrata nel nudo. Il collo del busto di Napoli e poi decisamente trascurato : la sporgenza dell'osso ioide è esagerata' ma il rilievo del muscolo sternocleidomastoideo è trattato superfi- cialmente e di maniera, come in un collo qualunque ; il contorno interno del detto muscolo è rettilineo, e manca affatto tutto quel fine movimento di piani che nella regione ioidea del busto pavese rende così bene 1' aspetto del collo di un robusto vecchio. Del pari non v'ha dubbio che alterazioni prodottesi nella serie di riprodu- zioni che separa il busto di Napoli dall' originale, siano altresì il mento troppo aguzzo, le palpebre superiori e l'apertura delle labbra più scavate. In questi ultimi due particolari non solo la copia napo- letana segue l'uso degli scultori romani, mentre la pavese segue tra- dizioni greche soprattutto nel mostrare a fior delle labbra la chiostra dei denti (basterà ricordare l'originale eleusino dell'Eubuleus , ora in Atene, di cui v. la bella riproduzione in Furtwàngler, Masterpieces, tav. XVI; quella scultura offre pure il contrasto fra l'opacità dei capelli e il lustro dell'epidermide); ma l'espressione ne risulta notevolmente mutata, più bonaria e un po' triste nel busto di Napoli, fiera e indomita senza ombra di tristezza in quello di Pavia. A questa impressione diversa che fanno i due busti- contribuisce pure in parte la collocazione del busto di Napoli sul peduccio moderno, col petto troppo in avanti e la testa troppo all' indietro, mentre il marmo pavese, che conserva intatto e libero il suo piano di posa, ci attesta che nell' originale il petto era più verticale ed il dorso mostrava una forte incurvatura, in parte derivante forse dall' età del soggetto rappresentato , ma in parte pure, con grande probabilità, dalla posa, fosse essa scelta per predilezione di scuola o per dissimulare quel difetto, Giacche la forte

PARTE I. RITRATTO PROBABILE DI LISIMACO. 49

elevazione che nei due busti ha la spalla destra mal si concilierebbe con l'idea che non soltanto il loro prototipo, ma addirittura il primo originale fosse un busto, e fa piuttosto pensare ad una statua l.

Agli altri pregi il busto di Pavia unisce poi la più perfetta conservazione che si possa desiderare, mentre in quello di Napoli il naso e parte del padiglione delle orecchie sono di restauro. Indizio di lavoro eseguito in tempi ellenistici, non ancora romani, è pure nel busto pavese l'uso di un marmo compattissimo d'un leggero tono bigiognolo con chiazze livide, affatto simile a quello che si vede ado- perato nelle statue che si ritiene ornassero l' ex-voto di Attalo, il qua! marmo i competenti ascrivono alle cave d' Asia Minore. Sic- ché possiamo considerare il nostro busto come una eccellente copia di fattura greca, mentre quello di Napoli è senza dubbio di buon lavoro romano; e forse il busto di Pavia è anche un originale, al- meno nel senso che lo stesso artista che eseguì la statua, la quale fu probabilmente di bronzo, potè essere incaricato di riprodurre il busto in bronzo ed in marmo ed in parecchi esemplari, uno dei quali potrebbe essere quello che si trova attualmente nel Gabinetto ar- cheologico di Pavia. Certo è ad ogni modo che la forma o il taglio del busto non furono trovati dal copista che eseguì 1' esemplare di Napoli, ma erano stati scelti e fissati molto tempo prima. Certo è pure che ogni ricerca fondata siili' espressione e sul carattere della persona ritratta, deve avere per base non il busto napoletano, ma il pavese.

Tutto ciò, ed anche meno di ciò, basterebbe a giustificare la pub- blicazione di quest'ultimo e l'offerta che mi è grato farne per le ono- ranze giubilari dell'illustre collega A. Salinas, il decano ancor vegeto dei nostri professori universitari di archeologia. Ma è possibile, nel pubblicare un così bello e raro ritratto greco, rinunziare ad ogni tentativo di dargli un nome ì

11 nome di Arato, che prima si dava al busto di Napoli, si fon- dava sullo sguardo rivolto al cielo. Il Bernouilli 2 crede che si vo- lesse alludere all'Arato stratego della lega achea, ma non è così : la tradizione tuttora viva presso i vecchi custodi del Museo e perfino

1 Petto raccorciato e dorso inarcato si presentano nella posa dell'Alessandro di Monaco e nel bronzetto ercoianese in cui il Visconti ravvisò Demetrio Polior- cete, i quali hanno la gamba dr. alzata su un appoggio, e l'ultimo scarica in parte sn di essa il peso del corpo mediante l'interposizione del braccio corrispondente. Il dorso inarcato è una caratteristica della scuola di Lisippo, cui la tradizione attribuisce pure ritratti d' Alessandro Magno e dei suoi compagni ed amici.

2 Gr. Ikonograph. II, p. 153.

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50 G. PATRONI.

in guide e leggende di fotografìe che sono in commercio, dice chia- ramente che si alludeva all'astronomo di Soli, in base al criterio an- zidetto £ ; e del resto per pensare proprio al mite Arato della lega Aclica, che visse poco più di CO anni, e negli ultimi lustri ebbe una posizione affatto subordinata ai re di Macedonia, mancherebbe qui ogni appiglio. Se non che, lo sguardo rivolto al cielo, che si trova davvero nelF Arato astronomo del Bernouilli, non esiste nello strate- go, dove è un semplice effetto della cattiva collocazione del busto sul peduccio. L'esemplare di Pavia mostra invece che si tratta di uno sguardo d' imperio spinto nel lontano orizzonte, sia che il generale scruti gli ordini delle sue milizie fino alle ultime schiere, sia che il dominatore misuri la terra a lui soggetta.

Noi abbiamo dunque, ora che la nostra cognizione dell'antichità e i nostri mezzi di ricerca e di confronti sono tanto progrediti, pa- recchi criteri assai migliori di quello illusorio ed inesistente, di cui si valsero i nostri vecchi; e il valore di tali criteri è aumentato dalla singolare perfezione e somma eccellenza artistica del marmo pavese.

Innanzi tutto ragioni di storia dell'arte, cioè lo stile della scul- tura, e di storia del costume, come il viso accuratamente sbarbato, limitano la ricerca ai tempi di Alessandro Magno o piuttosto poste- riori, non però di molto, alla sua morte.

In secondo luogo il campo è ancor più strettamente circoscritto dal grado e qualità della persona rappresentata, dal balteo che unito alla posa imperiosa denota chiaramente il generale. Ma generale sol- tanto e non anche dominatore ì È di gran lunga più probabile la seconda ipotesi : siamo in un tempo in cui mancano o scarseggiano strateghi di stati liberi, mentre i generali d'Alessandro diventano a loro volta re. È vero che vediamo qui trascurata l'insegna propria- mente regia, il diadema; ma anche l'iconografìa monumentale di Ales- sandro non di rado lo trascura, e però a mio avviso questo argomento non avrebbe valore contro la possibilità che la persona raffigurata nel nostro busto sia un generale di Alessandro, specialmente quando vengano a concordare parecchie note caratteristiche che non è facile trovare insieme, almeno in ugual grado.

Ora il nostro personaggio presenta tre note in grado molto ca- ratteristico : F età, la costituzione fìsica e F indole dell' animo quale trasparisce dai tratti del volto e dal portamento.

L' età, come si riconosce soprattutto nella veduta che presenta

1 Allo stesso modo si chiamava Archimede 1' Archidamo , benché vestito di corazza.

PARTE I. RITRATTO PROBABILE DI LISIMACO. 51

il viso in prospetto, è quella di un vecchio che ben poco «lista, in più o in meno, dai settantanni, pur conservando e dimostrando chia- ramente (basta guardare nel marmo pavese la nuca e il rilievo dei muscoli dorsali) una complessione atletica, erculea, e una indomita energia e nerezza, si direbbe anzi addirittura ferocia d'animo. Il ter- ribile vecchio ti guarda aggrottando le sopracciglia, con la bocca se- miaperta, (piasi digrignando i denti, che deve ancora conservare in ottimo stato, come si vede dalla forma delle labbra e come non è strano in così fatte tempre di ferro; considerandolo, a volte par «piasi che ti voglia saltare addosso per farti a pezzi.

Ora fra i generali d'Alessandro ve n'è uno che presenta le stesse tre note riunite, e in grado ugnale al personaggio raffigurato nel nostro busto; ed a Ini anzi si corre col pensiero appena vista la pos- sibilità di cercare in quel ciclo. Lisimaco, morto a settantanni se- condo Appiano ' , a settantaquattro secondo Giustino 2 , combattendo contro Seleuco, era allora al colmo della sua potenza, avendo quattro anni prima, già settantenne o «piasi, aggiunto ai regni di Tracia e d'Asia Minore quello «Iella Macedonia (280 a. C), il «piai fatto, spe- cialmente trattandosi degli antichi domimi «li Alessandro, ben poteva dar occasione ad una statua che lo celebrasse e ricordasse. La com- plessione erculea «li Lisimaco era famosa : gli autori antichi riferi- scono, con varietà di particolari, che egli lottò perfino con un leone e riuscì ad atterrarlo, riportandone però delle ferite. Infine anche la ferocia dell'animo di Ini era non meno famosa, e già gli antichi ave- vano osservato 3 che egli era divenuto con gli anni sempre più cru- dele, tanto «la porre a morte anche il suo valoroso primogenito Aga- tocle.

Così stando le cose, parrebbe assai probabile che il nostro busto rappresenti non altri che Lisimaco, cui si convengono v il carattere, e la robustezza, e l'età. Anzi sarebbe assai diffìcile indicar»' per qual- siasi altro stratego o diadoco un fatto storico «li così alta importanza «•he abbia potuto dare occasione a ima statua la «piale lo raffigurasse in età «li circa settant' anni 4 , e «li cui la tradizione storica ricordi

1 Syriaca, 61.

2 XVII, 1. In Ilieronym. apud Lncian., Jlacrobioi 11, si equivoca, a mio modo di vedere, con l'età del vincitore Selenco, che aveva appunto 80 anni: quindi quel dato è da scartare.

3 Athen. VI, p. 216, 251; XII, p. 610.

4 Quando Seleuco vinse Lisimaco, che perì nella battaglia, egli era più vec- chio, di circa 80 anni, aveva compiuta l'opera sua: che anzi passò in Europa appunto per conquistare i dominii macedoni di Lisimaco, e fu assassinato a Li-

52 G. PATRONI. PARTE I.

appunto una statua riferibile a quegli anni della vita di lui i.

Se non che il Six ha creduto riconoscere Lisimaco in un busto di bronzo ercolanese 2. Il che, se fosse vero, toglierebbe subito ogni possibilità alla identificazione da me proposta, poiché la differenza d'età (il busto in bronzo mostra un quarantacinque anni) non baste- rebbe a dar ragione delle profonde dissomiglianze fra quello e il no- stro di marmo, che appartengono certo a due persone diverse. Ma la identificazione del Six ha fondamenti così deboli che poche parole bastano a dimostrarla fallace. Il Six non si preoccupa che la sua identificazione non sia in accordo con nessun dato tradizionale, studia le particolarissime qualità d'animo e di corpo che offre la fi- gura di Lisimaco, ma si contenta di concludere : «jedenfalls besitzen wir kein Eild des grausamen argwohnischen Greises der letzten Jahre, sondern des kràftigen Kàmpfers seiner frùheren Zeit; « quasi che la struttura corporea e le qualità dell' animo potessero radicalmente mutare. Egli si fonda unicamente su le monete, ma su (piali ? Sui più bei tetradrachmi argentei di Lisimaco, ove i numismatici ricono- scono generalmente l'effìgie di Alessandro Magno, munita di corna d'ariete 3.

Il Six pensa che queste monete rappresentino Alessandro, ma conformato alle fattezze di Lisimaco. Io penserei precisamente il con- trario. Ai tempi di Alessandro Magno doveva avvenire nell' arte, e soprattutto nella piccola arte, quello che è avvenuto più recentemente ai tempi di Napoleone il Grande. GÌ' incisori francesi di cento anni fa davano il profilo napoleonico a qualunque figura, perfino, come il

simachia, la città fondata dal rivale, senza che avesse realizzato il suo disegno. Inoltre le fonti non ci dicono che fosse di corporatura erculea ne di animo così feroce. Le monete poi di Seleuco I Nicatore non hanno somiglianza col nostro busto.

1 La statua supposta da me per Lisimaco concorderebbe con quella nota alla tradizione letteraria (Paus. I, 9, 4), che sorgeva in Atene innanzi all'odeion di Pericle, e secondi) i calcoli del Wachsmuth (Stadt Athen, I, p. 624, 2) sarebbe contemporanea al decreto onorario prò Philippide, ossia del 284 '3 quando cioè Li- simaco aveva appunto 68 o 72 anni.

2 Bronzi d'Ercolano I , tav. 69 e 70 ; Comparetti-De Petra , Villa Ercolanese, tav. IX, 3; Arndt - B:uckmann, Gr. u. Boni. Portr., n. 93 e 94, cfr. n. 186 e 187. Vedi J. Six, Ikonographische Studien, in Bòm. Miti. IX, 1894, p. 103 sgg.

3 Head, Historia numortim, p. 242, fig. 172; Imhoof Blumer , Bortriitkopfe auf aniiken Aitimeli hellenischer u. hellenisierter Volker, p. 17, tav. II, 14. Il testo cor- rispondente alla tavola ha per errore bronzo, mentre si tratta di un tetradramma d'argento. Anche l'Imhoof riconosce Alessandro, senza peraltro escludere che in alcune monete sia rappresentato Lisimaco.

PARTE I. RITRATTO PROBABILE DI LISIMACO. 53

Cléner, a quelle dei vasi dipinti greci ed italioti; eosì gli artisti del- l'epoca dei primi diadochi vedevano dappertutto i lineamenti di Ales- sandro.

Ma se è vero, come ammette il Six, che vi sono monete di Li- simaco con particolari fisiognomici repugnanti ad Alessandro, e che non v'è mai una somiglianza assoluta con le vere monete d'Alessan- dro, si concluderà che aveva ragione il nostro Visconti, il quale sag- giamente osservava * che alcune delle monete di Lisimaco chiara- mente rappresentano un principe assai più avanzato in età che non fosse Alessandro alla sua morte; e che riconosceva senz' altro su le monete in questione, col nome di Lisimaco e con una testa di re, la testa dello stesso Lisimaco, al pari di quel che avviene nella numi- smatica degli altri diadochi. 11 Visconti ebbe inoltre il inerito di ri- cordare un passo di Ebano, il quale dimostra che, qualunque spie- gazione si voglia dare dell' aver Lisimaco assunto le corna d' ariete spettanti ad Alessandro come presunto tiglio di Zeus Ammon 2 , gli antichi pertanto conoscevano come cosa usuale (senza dubbio dalle monete) teste di Lisimaco col diadema ornato di corna d'ariete 3.

Or se il Six avesse meglio studiate le serie monetali di Lisi- maco, si sarebbe accorto che appunto le monete con teste meno idea- lizzate presentano caratteri affatto diversi dalle teste di Alessandro, e dal busto in bronzo ercolanese il (piale ad esse somiglia, come già aveva ben visto l'Arndt. Nella ricerca iconografica non sono la bel lezza e la perfezione del conio quelle che contano, bensì la fedeltà e la rassomiglianza dei lineamenti, sian pure rozzamente eseguiti. Ognuno sa che arti rozzissime ebbero talora fedeltà ed efficacia ri- trattistica meravigliosa, mentre le arti raffinate, soprattutto nel campo della piccola arte o dell'industria, idealizzando secondo un tipo pre- concetto di bellezza, risultano infedeli nel riprodurre le fisonomie. Così i più fedeli ritratti assai spesso non si trovano su le più belle

1 Iconographie grecque, II, p. 139.

2 v. Eckhel , Numi anecdoti, p. (53; Doctrina numorum , II, 50; Visconti, o. e, p. 138 sgg.il fatto riferito da Appiano, Syriaca, 64 e da Giustino XV, 3, che cioè, avendo Alessandro in mancanza d'altra benda cinto col proprio diadema la fronte ferita di Lisimaco, si diffuse nell'esercito la superstiziosa credenza che que- sti gli succederebbe, poteva bastare perchè Lisimaco si credesse o volesse dare ad intendere che si credeva il vero successore di Alessandro.

3 Eliano, Hist. anim. XV, 2, descrivendo il pesce detto xqioì (== ariete) per- chè ha una specie di benda di color bianco a guisa di corna d' ariete, dice : ò roivvv uqq^v xqiÒs Xbvxt}V (isrconov Tcariuv t%si iitQi&tovGav ei'Ttotg av Av6i- y.u%ov xovto dmò-qua, ì) Avtiyóvov, ì\ tivoì tù>v tv Maxsóorlu [ìucùéav uu.ov.

G. PATRONI.

monete, ma proprio su le più brutte. Bisogna dunque metter da banda le belle monete di Lisimaco che ci ammanniscono l'IIead e l'Imhoof Blumer e che hanno tratto in inganno il Six. E in medaglieri ben forniti come i tre da me consultati (quello di Brera in Milano, quello del Museo Nazionale di Napoli, e quello Santangelo, depositato nello stesso museo ina di proprietà del comune) non sarà difficile trovare una serie di tetradrachmi di Lisimaco con teste più realistiche. La fedeltà di queste teste delle monete d'argento è confermata dalla pre- senza di una serie di stateri d'oro di Lisimaco, che offrono un tipo realistico, accanto alla serie di tipo ideale. Produco qui un esemplare di un tetradrachma e di uno statere del medagliere Santangelo, da fotografie di calchi fornitimi dalla cortesia dell' amico (ràbrici e del R. Commissario comm. Gattini. Il lettore vedrà facilmente che essi, benché ringiovaniscano pur sempre il soggetto com'è ovvio nelle mo- nete, offrono caratteri fisiognomici totalmente diversi dalle teste di Alessandro, e dal busto di bronzo ercolanese, in modo da rendere impossibile la identificazione proposta dal Six. Ma quel che più im- porta si è che, a prescindere dalla chioma, nelle monete sempre ideal- mente apollinea, mentre secondo il nostro busto di marmo il vecchio settuagenario la portava ormai corta, giacche gli si cominciava an- che a diradare su la fronte a prescindere dunque dai capelli, ri- corrono su queste monete i medesimi caratteri fisiognomici del busto di Pavia, che sono appunto quelli che repugnano all' iconografia di Alessandro : forme ossute, angolose, quadrate, magre ; occhiaie pro- fonde -, sopracciglia fortemente aggrottate ; linea della fronte e del naso spezzata a gradino e sfuggente in dietro ; naso corto a larghe narici; portamento del capo eretto e superbo.

Anche i bronzi di Lisimachia, non ostante il cattivo conio e la scarsa conservazione, si accordano piuttosto con i tratti nonalessan- driani, come aveva già veduto il Visconti, anziché con gli alessan- driani, come a torto ha creduto vedere il Six.

Adunque la numismatica di Lisimaco, compulsata a dovere, non solo non menoma, ma, se io non m'inganno, aumenta di molto le pro- babilità che il ritratto di quel re guerriero sia stato a noi conser- vato nel mirabile marmo greco di Pavia e nel buon marmo romano del Museo di Napoli.

Pavia.

Giovanni Patroni.

BRICCICHE.

1. LUCERNA CRISTIANA DEL IV° O SECOLO.

Fu trovata in Sicilia nel 1882, zappando un podere fra Alcamo e Partinico. Donatami dal .signor Ispettore scolastico Ponte , passò nel Museo privato, or disperso, del Conte Hernandez di Trapani. È molto simile ad altra che ho veduta nel Museo di Castelvetrano e che fu pubblicata dal prof. Salinas nelle Notizie degli Scavi, Luglio, 1885, p. 294 , n. 20. Se non che in questa nostra gli ornamenti in

forma di cuore son (5 e non 14, e per es- sere alquanto più consumata si vedono meno nettamente gli ornamenti del mono- gramma di Cristo. Anche i due fori \)ev l'olio non sono paralleli , come in quella di Castelvetrano. Del resto abbiamo i so- liti caratteri ben distinti da quelli delle lucerne pagane e indicati dal Prof. Sali- nas,, cioè: creta più rossastra, grandezza maggiore, becco più largo e più sporgente in avanti , manico aguzzo e non forato, due buchi per l'olio anziché uno solo. Co- me quelle dei musei di Castelvetrano e di Palermo questa nostra è insudiciata «l'o- lio e di fumo all'estremità del becco. Il Prof Salinas crede che questo sia un ca- rattere peculiare delle lucerne cristiane; ma a me occorse di notare siffatte insudiciature anche in qualche lu- cerna pagana. è maraviglia, «piando in vece di lucerne nuove la misera plebe poteva contentarsi talora di collocar nelle tombe anche lucerne vecchie e inservibili.

56 A. PELLEGRINI.

2. ISCRIZIONE CARTAGINESE.

Trovo nel Museo archeologico di Firenze im frammento di pietra calcare, alto 0,11, largo 0,14, contenente porzione d'un'iscrizione car- taginese. È uno dei soliti ex-voto alla gran coppia divina cartaginese. XelP inventario del Museo dove questa pietra è registrata sotto il n. 240 , apparisce donata nel 1870 dal marchese Carlo Strozzi , che assicurò provenisse da Cipro. Eccone il testo:

tri* "jEnSvaS "naS

■p mpSiB-p.v r:

********

Magnae Tanitliidi faciei - Ba alis dominoque Ba ali Hammoni (votum) quod vovit rAbd-Melqart, jìlim. . .

Le lettere sono del tipo elegante cartaginese , e non del ciprio. Dunque, come altre iscrizioni congeneri trovate altrove, sarà piovuta in Cipro come materiale di zavorra. Supporre che sia stata scolpita in quell'isola da qualche cartaginese, sarebbe far voli di fantasia, pari a quello di un certo rabbino, che avendo saputo come si fosse trovata ad Olivola, presso Casalmonferrato, fra le macerie d'una villa, una di queste iscrizioni, s'infervorò a crederla scolpita da un soldato d'An- nibale, e in quella pietra vide un indizio sicuro del passaggio in quei luoghi del generale cartaginese. Dopo accurate indagini si venne poi a sapere, che la pietra d' Olivola era stata parecchi anni addietro por- tata in quel luogo da un ufficiale reduce da Tunisi, e dal medesimo fatta murare sulla parete esterna della sua villa !

Firenze.

Astorre Pellegrini.

CUA\A ITALICA.

Le scoperte e gli studi recenti ci mettono in grado di rasentare, se non di cogliere a dirittura la verità nella esposizione delle origini della Cuina r] èv 'Omfc , come la designa Tucidide. A noi studiosi , tìgli di quella Xeapolis , che fu alla sua volta figlia di Clima, assai più che ad altri, incombe il dovere di rivolgere la nostra attenzione a quest'antichissima colonia greca di occidente, la quale fu maestra di civiltà non soltanto alla Campania , ma anche al Lazio ed alla stessa Roma. E per vero possiamo affermare con sicura coscienza clic ad un tal dovere i dotti napoletani non siano mai venuti meno : un principe napoletano, il Conte di Siracusa, col consiglio di uno stu- dioso napoletano, il Fiorelli , fece eseguire, tra il 1852 ed il 185G, importanti scavi nella necropoli di Clima, e la copiosa messe di og- getti tornati a luce in questi scavi forma ora la splendida Raccolta Cuinana del nostro Museo Nazionale.

Un suddito inglese , ma napoletano di cuore e di educazione , Riccardo Emilio Stevens , rinnovando la figura del mercante fioren- tino del nostro bel cinquecento, il quale divideva le cure del banco con quelle degli studj , esplorò nel corso quasi di un ventennio, tra gli anni 1878 e 1896, in vari posti la necropoli Cumana, prendendo giorno per giorno note molto accurate, le quali, consacrando le circo- stanze materiali delle scoperte compiute e descrivendo i sepolcri in rela- zione coi monumenti antichi in essi contenuti l , danno a quegli scavi un alto valore scientifico, valore che non ebbero gli scavi del Conte di Siracusa. Ma di un così lungo e fecondo lavoro lo Stevens riuscì a pubblicare solo una relazione riassuntiva concernente i primi tre anni e più di scavo ~ : egli si proponeva <li fare una grande pubbli- cazione, quando tutte le esplorazioni fossero compiute , persuaso co- me era che in fatto di ricerche archeologiche non bisogna aver fretta a trarre illazioni storiche , che un colpo di zappa potrebbe distrug- gere. Sennonché i dolori domestici sopravvenuti, spegnendo la sua

1 Stevens in Notizie 1883. p. 270.

2 Notizie cit. ii. 270-284, tav. IV-VI,

58 A. SOGLIANO.

bella intelligenza, fecero vano il suo nobile proposito ; ed oggi scri- vendo di lui, che langue in una casa di salute, mi addolora assai il pensare che non possa pervenirgli questo pubblico attestato di gra- titudine, che gl'invio in nome degli studiosi di ogni paese. Se dun- que la importante raccolta Stevens fu sottratta, dopo la sventura toc- cata al suo possessore, agli artigli dei negozianti di antichità che vi ronzavano attorno, ed ora si ammira nel Museo Nazionale di Napoli, è gran merito degli amministratori napoletani preposti a questo Isti- tuto. Il Pellegrini i scrive : « La raccolta Stevens è entrata da poco « ad arricchire le collezioni del Museo Nazionale di Napoli ed anche « le note prese giorno per giorno dal signor Stevens, con un'accura- « tezza ed una diligenza che gli fanno veramente onore, sono passate « a far parte dell'Archivio del Museo ». Tranne la lode dovuta allo Stevens, la brevità quasi telegrafica, con cui il Pellegrini segnala al pubblico dei dotti questo importante fatto, mi obbliga ad aggiungere qui qualche chiarimento. E prima di ogni altro quel da poco, per la circostanza di tempo in cui apparve la pubblicazione del Pellegrini, la quale è del 1903, potrebbe dar luogo ad equivoci che è bene dis- sipare : 1' acquisto della pregevole raccolta da parte dello Stato fu trattato e condotto a termine dall'amministrazione De Petra 2 , e però ad esso fu del tutto estranea la successiva amministrazione, alla quale il Pellegrini appartenne per breve tempo. In quanto poi alle note prese giorno per giorno dal sig. Stevens e che , come lo stesso Pelle- grini (1. e.) riconosce , costituiscono un documento archeologico e topo- grafico di prim'ordine, sappiano gli studiosi che quelle note il signor Antonio Stevens, fratello dello sventurato possessore, le volle affidate a me come persona, e che uscito spontaneamente nell' ottobre 1901 dall' amministrazione del Museo e degli scavi di Napoli, consentii a renderle, unicamente per un doveroso riguardo all'amico che vedevo in grande imbarazzo per la esazione della prima rata di pagamento dovuta agli eredi. Ciò risulta da documenti amministrativi e da un atto legale del 7 aprile 1902, rogato dal notaio Enrico Bonucci, e la cui copia conforme conservo presso di me. È questa tutta una storia, alla quale, dato il momento in cui venne fuori la pubblicazione del Pellegrini , un animo sereno ed obbiettivo avrebbe sentito il dovere di accennare.

1 Tombe greche archaiche e tomba greco-sannitica a tholos della necropoli di Cuma in Mon. Ant., pubblicati per cura della E. Accad. dei Lincei , voi. XIII (1903), p. 201, nota 2.

2 Cfr. De Petra , Intorno al Museo Nazionale di Napoli , Napoli 1901 , p. 36.

CIMA ITALICA. 59

Dotti napoletani finalmente, quali il De Petra, il Patroni, il (ìà- briei, lian fatto o fanno oggetto delle loro ricerche l'antichissima sto- ria di Clima. Sia dunque lecito a me, studioso napoletano, che ebbi anche ad occuparmi e non una volta sola di antichità cumane , di riassumere e discutere i risaltati delle scoperte e degli stadj recenti relativi a questo importante tema.

Senza dubbio la esistenza di una Cuma preellenica è ano dei fatti più salienti che l'archeologia ha acquisito alla storia in questi ultimi anni; ed il merito di tale scoperta spetta al Patroni, che nel 1<S!M>, volendo assicurai*' alla scienza il più importante risanamento degli scavi eseguiti a Coma dallo Stevens , pubblicò e descrisse 1 i più notevoli rappresentanti delle varie forme di vasi e dei bronzi che li accompagnavano, appartenenti alla suppellettile funebre antichissi- ma dei primi abitatori indigeni di ([nella città. Il Pellegrini 2 , pur riconoscendo che le stoviglie prese in esame dal Patroni debbano at- tribuirsi ad una popolazione indigena che abitò ('ama prima della ve- nuta dei Greci, dissente dal Patroni circa l'epoca da assegnarsi alle tombe in cui tali oggetti si raccolsero e che lo studioso napoletano non esita a porre bene innanzi al X secolo a. C. 3. Per il Pellegrini le tombe in parola rappresentano lo stadio immediatamente precedente, se non per certi punti concomitante, con la colonizzazione greca di Cli- ma che per nessuna ragione ormai può farsi risalire , in cifra larga , più su della metà del secolo Vili a. G. Egli quindi non si crede au- torizzato a far risalire (incile tombe più in su dell' Vili sec. a. C, o, al massimo, della metà del sec. IX. Come si vede, il Pellegrini ap- partiene a quella scuola storica, che tatto ha tranne il senso storico, poiché il voler restringere la evoluzione della civiltà, specie nei suoi inizi, in spazi di tempo assai angusti significa appunto mancanza as- soluta di un tal senso. (ìià il Patroni i sostenendo la giusta opi- nione che i dati archeologici non abbiano autorità per infirmare od abbassare di molto la data tradizionale della fondazione della greca

1 Nuovi monumenti di una Cuma italica anteriore alla fondazione dilla Colonia greca in Bull, di Paletti, ital. A. XXV, p. 183 sgg.

2 Op. cit. p. 207 nota 2.

3 Patroni, Cuma in Xapoli d'oggi, Napoli 11)00, p. 56.

4 Intorno ai più recenti scavi ed alle scoperte archeologiche della regione corri- spondente alle antiche Campania e Lucania in Atti del Congresso internazionale di scienze storiche voi. V, p. 217, nota 1.

60 A. SOGLIANO. PARTE I.

Cuma, aveva osservato che le tombe arcaiche superstiti si trovano in posti lontani dall'ambito dell'antica città di Clima, mentre nella zona di necropoli più vicina alle mura sono state distrutte dai seppelli- menti posteriori. Si ha dunque, conchiude il Patroni, la massima pro- babilità che le tombe più vicine, distrutte, fossero più antiche delle lontane giunte a noi, e quindi lo stabilirsi del primo più importante nucleo di popolazioni elleniche avesse preceduto di 50, 100 o più anni le abbondanti testimonianze di vita intensa che abbiamo a Clima dalla metà dell' Vili secolo in poi e che da solo attestano una colonia già sviluppata e fiorente.

E qui mi piace di ricordare che l'Holiu i non la pensava diver- samente, quando scrisse : « la non esistenza di sepolcri cumani simili « a quelli di Micene non prova l'assunto dell' Helbig, perchè noi non « siamo certi di conoscere tutte le necropoli di Clima, di cui la più « antica può essere stata distrutta, perchè in generale le città che vi- « vono di una vita forte e prospera, non conservano i monumenti del « passato , ma li distruggono ogni giorno per far posto ad altre co- « struzioni richieste dai nuovi bisogni del tempo , e perchè i primi « Cumani possono aver seppellito i loro morti in un modo affatto « semplice ».

Ma 1' alta antichità del materiale indigeno cumano studiato dal Patroni è confermata dal riscontro che esso offre con quello venuto fuori dalle antichissime necropoli di S. Mar z ano, di Striano, di S. Va- lentino nella valle del Sarno ; riscontro , del quale il Pellegrini non volle o non seppe tener conto. È pur questo, checché si voglia oggi da altri far credere, un merito insigne del Patroni, il quale sin dal 1901 rivelò ai dotti quelle antichissime necropoli, citando i confronti cumani 2. Oggi Clima colonia greca non è più da considerare , per servirmi delle stesse parole del Patroni 3 , come un pezzo di Eliade pura trasportato in Italia, senza alcuna influenza precedente o concomi- tante di altri popoli orientali , e senza alcun contatto con gli abitanti ed i dominatori del paese: oggi Clima, prendendo posto accanto a que- gl' importanti nuclei abitati della età del ferro, quali ci sono noti a Suessula , a Xola , a Capua e nella valle del Sarno, entra di pieno diritto nel gran quadro della civiltà protostorica degl' indigeni della

1 In Archivio Storico per le pror. nap. anno XI, p. 38.

2 Necropoli antichissime della valle del Sarno in Bull, di Paletn. itxl. anno XX VII, n.. 1-3, 1901. Cfr. la mia nota : Di un nuovo orientamento da dare agli scavi di Pompei in Iiendic. d. E. Acc. d. Linai a. 1901.

3 Atti del Congresso intera, di scienze stor. voi. V, p. 217.

CUMA ITALICA. 61

pianura campana, e però la questione cronologica non può risolversi se non al lume di quei riscontri monumentali che la stessa regione campana ci presenta.

Sta in fatto che i principali dati riferiti dal Patroni ai primitivi abitatori indigeni di Cuma sono costituiti da una ceramica indigena, generalmente rozza , povera ed inabile nelle forme costruttive e più nella decorazione, e da bei bronzi d'importazione. È anche constatata, almeno per un gran numero di tombe, l'assenza completa di vasi con ornati dipinti che formavano il principale commercio degli Elleni ed erano quasi il contrassegno del loro arrivo. D'altra parte sta in fatto che dalla necropoli della valle del Sarno , a S. Marzano , Striano , S. Valentino, tornò a luce una simile ceramica locale di argilla impura fatta a mano, cui vanno a poco a poco associandosi prima vasi con or- nati dipinti geometrici , primissimi prodotti dei più antichi stabili- menti costieri ellenici; poi vasi di bucchero fabbricati dagli Etruschi della Campania, accompagnati da piccoli e rari e tini vasetti corinzi. È assodato inoltre che le tombe dello strato più recente della necro- poli di S. Marzano diedero buccheri e vasetti corinzi del VII sec. a. C, e che a Striano ai molti vasi d'impasto artificiale, non torniti e mal cotti, accedono pochi vasi di argilla figulina torniti e cotti alla fornace, alcuni con ornati geometrici del più antico stile greco-cam- pano, mentre manca affatto il bucchero; la quale assenza stabilisce inconfutabilmente la precedenza della influenza ellenica su quella de- gli Etruschi in Campania. Ora , se buccheri identici a quelli di Ca- pila, cioè del miglior periodo di fabbricazione, ricorrono nello strato più recente della necropoli di S. Marzano insieme coi piccoli vasi co- rinzi del VII sec. , è da ammettere che la produzione del bucchero locale , o se piace meglio , la diffusione di tale industria cominci in Campania alla fine dell'VIII sec. E se a Striano manca del tutto il bucchero, e associati alla ceramica indigena si rinvennero pochi vasi con ornati geometrici del più antico stile greco-campano, evidente- mente prodotti delle colonie elleniche fondate sulle coste , ne segue che tali prodotti d'imitazione debbano assegnarsi all'VIII sec; e con- cessa una certa evoluzione dal periodo del commerciò a quello delle industrie locali, si raggiunge a un di presso il IX secolo, epoca in cui i prodotti più perfezionati dell' oriente ellenico « prima soppian- « tarono e restrinsero agli usi più vili e comuni il vasellame indige- « no, poi furono imitati nel territorio stesso, sorgendo col progresso «del tempo in tutta l'Italia meridionale (come altrove) numerose fab- « briche di vasi che adoperavano tutti i sistemi greci, e molte delle « (piali ornavano anche di composizioni tigniate, secondo una tecnica

62 A. S0GLIAN0. PARTE I.

«derivata principalmente dalle officine attiche, le superficie dei va- « si * ». Ma il vasellame indigeno di Clima , mentre è quello stesso clic gl'indigeni della valle del Sarno usavano, si mostra d'altra parte ancora non tocco da influenze straniere dirette; dunque quel vasella- me può ben datarsi dal X secolo in su. Xon trovo quindi ragione sufficiente per rigettare col Pellegrini la cronologia assegnata dal Pa- troni alla Clima preellenica e che non ha in se nulla di cervellotico, ma è fondata su dati di fatto integrati dal ragionamento più rigoroso.

Che poi la costa, dove sorgeva la Clima preellenica, fosse nota ai navigatori dell'oriente greco-asiatico, assai meglio che il commer- cio dei bei bronzi rinvenuti, i quali in parte forse potrebbero essere stati anche importati da quei centri di civiltà ricchi di prodotti enei che si erano già formati nell' Italia media e superiore, lo fa intuire la forte e geniale ricerca del Cabrici sul valore dei tipi monetli nei problemi storioi , etnografici e religiosi 2 ed ora lo dimostra un' altra nota, ancora inedita, dello stesso autore dal titolo : Relazioni artisti- che e religiose fra Cuma degli Opici e l'Oriente greco-asiatico, rivelate dalle monete. Per il Cabrici i navigatori di Mileto, di Samo , di Ci- pro, delle isole di Podi e di Creta e di altre parti dell'Asia Minore, importarono per secoli i loro prodotti sulle coste della penisola ita- lica e della Sicilia. Prima della greca vi fu una civiltà indigena delle coste, di fondo greco-asiatico ; ed in quanto a Cuma i suoi contatti secolari con l'oriente greco-asiatico sono oggi dimostrati dalla perfetta identità di alcuni tipi monetali con altri di quella città cosmopolita che fu Cizico. Ed ecco che la indagine numismatica, serenamente ed acutamente fatta, spiana la via alla soluzione dell'importante proble- ma storico concernente le origini della colonia greca di Cuma.

11 Pellegrini a tal proposito scrive : 3 « Questi fatti importali- « tissimi [la corrente commerciale continentale greca e la corrente « commerciale greco-asiatica] per lo studio della civiltà italo-greca «nel secolo Vili a. Cr. trovano a Cuma e questo è forse il ri- « sultato più notevole delle nostre scoperte una splendida « ed inaspettata conferma nella tradizione che alla fondazione di «Cuma italica presero parte non solo i Calcidesi di Eubea, ma an- « che una gente venuta dalle colonie greche dell'Asia Minore , cioè « i ('umani di Eolide. Eforo nel suo epitomista Skymnos da Cirio e « Strabone, che forse attinse a Timeo, completati a vicenda, ci han- « no, come è noto, conservata questa tradizione.

1 Patroni, Nuovi mon. di una Cuma italica in Bull. cit. p. 183.

2 In Atti del Congresso intem. di scienze stor. voi. VI, p. 55 sgg.

3 Op. cit. p. 292 sgg.

fAKTE I. CUMA ITALICA. 63

« La quale però non ebbe fra gli storiei e gli archeologi « più recenti quell' accoglienza che a me sembra per tante « ragioni spettarle. Lo Helbig, che vide così addentro nella que- « stione cronologica della fondazione di Clima, vi sorvolò sopra, so- « spettando della sincerità di Eforo cumano nel riferire un fatto che « troppo da vicino interessava la sua patria. Il Beloch, partendo da « uno stesso punto di vista, volle vedervi una leggenda sorta poste- « riormente a cagione della identità del nome delle due dime « scambio analogo a quello per cui si potè credere Clima italica fon- « data nel secolo XI a. Cr. e fece dipendere il nome di questa da « un oscuro villaggio dell' Eubea , ricordato da Stefano di Bisanzio. « Solo, per quanto io mi sappia, il Boehlau, esaminando alcuni « elementi della civiltà etnisca negli strati paralleli ai nostri di Clima, « vide la possibilità di una conferma da darsi a quella tra- dizione in base ai monumenti».

Per il Pellegrini dunque le reliquie della Clima degli Opici si troverebbero, come quelle della omonima città eolica, in terra donde la civiltà sia tramontata da secoli e dove qualche dotto tedesco di tanto in tanto si rechi a rivelare i tesori nascosti. Sennonché era ri- serbato a lui, nella pienezza dei tempi, di trovare la inaspettata con- ferma della tradizione conservataci da Eforo e di annunziali il verbo dell'elemento eolico nella fondazione della Clima italica. Tutto questo sarebbe veramente deplorevole, se nell'affermazione del Pellegrini si volesse vedere qualcosa di più che una grande leggerezza.

Ventini anno or sono , illustrando una epigrafe cumana arcaica di non più che sei parole in un sol rigo i , io che da un decennio circa mi ero dato a coltivare quegli studi , ai quali ho la coscienza di avere arrecato contributi forse non inutili, quantunque da taluno

non apprezzati, così scrivevo (pag. 355) : « non sarà di certo sfng-

« gito a nessuno, che per la intelligenza di una così breve epigrafe, « io abbia dovuto far ricorso per ben due volte al dialetto eolico : « anche il dorico rovtsl contribuisce, sino ad un eerto punto, a con- « fermare tali tracce di eolismo. Ed è questo, a mio parere, il fatto « più importante che ci rivela la nuova epigrafe cumana ». Ed in nota aggiungevo (pag. 355 nota 4) : « Xon credo sia fuori di propo- « sito il prendere qui in esame un'opinione, non ha guari messa fuori «sulle origini della nostra Kyme. 11 Beloch (Campanien , p. 147-48) « rigettando , perchè suggerita unicamente da un eccessivo amor di «patria, la testimonianza di Eforo, secondo la quale la Kyme cam-

1 Notizie, a. 1884, pag. 352-357.

64 A. SOGLI ANO. PARTE I.

« pana sarebbe stata colonia della Kyme eolica, accetta invece quella « di Strabone (p. 243) che dice essere la nostra Kyme Xalxidéav ucci « Kv[icc£gjv TcaXaióxuTov %tÙ6^a : però avverte il dotto tedesco, che qni « non si ha da pensare alla Kyme asiatica, ma all'omonima città del- « l'Enbea. Egli spiega le tracce di eolismo, che qua e s'incontrano « nella Kyme campana , e che indussero Eforo a ritenerla per una « fondazione eolica, coli' ammettere che coloni di questa città non fu- « rono esclusivamente quei di Calcide e di Kyme euboica, ma anche « quei di Eretria, di Estiea, Beoti ed Attici, gli Elleni in somma di « ambe le rive dell' Euripo. A questo risultato egli è condotto dallo « osservare che i nomi delle fratrie napoletane, le quali naturalmente « dovevano essere le antiche fratrie della metropoli cumana, si ran- « nodano tutti all'Eubea ed alla costa Beotica.

« Veramente in questa opinione , che attribuisce alla Kyme eu- « boica le origini della Kyme campana, il Beloch è stato preceduto « dal Bursian (Geographie von Grieehenland II, pr. 3, p. 427), il quale « va più oltre ancora , ritenendo per probabile che anche la Kyme « eolica dell'Asia Minore sia stata fondazione della città euboica. Non « si può negare che l'opinione dei due dotti tedeschi sia seducente, « poiché collocandosi sul medesimo suolo dell' Eubea i due popoli ci- « tati da Strabone come fondatori della italica Kyme, s'intendono me- « glio quei rapporti, che li abbiano potuti spingere a stabilire insie- « me una colonia. Ma la base sulla quale essa si poggia , mi pare « tutt' altro che solida. Innanzi tutto fra gli scrittori antichi il solo «che faccia menzione di una Kyme euboica è Stefano Bizantino; e « sembra che di tanta grandezza , quale il Bursian specialmente le « attribuisce , all'autore degli 'E&vixcbv non sia giunta neppur l' eco, « poiché egli se ne sbriga in due parole dicendo : jta'u^ [Kv^ii]] xì\s « EvftoCccg. Ne come ragione di questa fuggevole citazione potrà ad- « dursi l'età di Stefano, posteriore di molto al fiorire della città eu- « boica , una volta che egli non adopera lo stesso laconismo nel ri- « cordare la Kyme eolica. A ciò si aggiunga che non tutti i critici « sono di accordo nell' accettare la testimonianza di Stefano intorno « alla esistenza di una Kyme nell'Eubea; ma vi ha chi la rigetta ad- « dirittura, vedendo in essa nuli' altro che una confusione di città o- « monima (cfr. Stephani Thesaurus e Pape Onomasticon). Così stando « la cosa , la ricostruzione storica del Bursian e del Beloch rimane « ben poco salda. Ma dato anche che una Kyme vi fosse stata nel- « l'Enbea, non trovo sufficiente ragione di non tenere in nessun conto « la testimonianza di Eforo , per rannodare a quella le origini della « città campana. L' amor patrio di Eforo , che il Beloch adduce per

CUMA ITALICA. 65

« attenuare la fede sinora prestata alla testimonianza del logografo, « è un coltello a doppio taglio; poiché se da un lato poteva turbare « il giudizio storico di lui e indurlo alla esagerazione ed al vanto, « dall'altro lo stimolava anche a raccogliere con cura amorosa e di- « ligente le tradizioni della sua città natale, dove meglio che altrove « è da credere che esse si fossero conservate possibilmente inalte- « rate. L' eolismo, che qua e trapela dalla ionica Kyme campana « e che il Beloch giunge a spiegare per una via indiretta, non senza « un certo tour de force, trova la sua più naturale spiegazione, se si « concilia la testimonianza dello storico eolico con quella di Strabone « e degli altri scrittori, i quali attribuiscono alla nostra Kyme un'o- « rigine puramente jonica».

Dopo un ventennio e pia, le recenti scoperte mi obbligano, per la tutela dei miei legittimi diritti di studioso, ad esumar questa pa- gina, nella quale son lieto di non dover correggere nulla, tranne forse il vezzo dovuto all' influsso tedesco di scrivere Kyme per Clima ! Se non compiuta, fosse almeno cronologicamente esatta la enumerazione del Pellegrini, che alla opinione del Beloch fa precedere quella del- l'Helbig, il cui libro apparve la prima volta nel 1884. Ma se il Pei legrini non mi fa l'onore di annoverarmi fra gli storici e gli archeo- logi più recenti, la stessa esclusione vien da lui inflitta all' Holm, il quale nelle sue Ricerche sulla storia antica della Campania pubblicate nel 1886 l tratta diffusamente (pag. 28-45) e chiaramente delle ori- gini della nostra Clima; ed in riguardo alla dibattuta questione se la metropoli di Clima sia stata l' eolica Kyme nell' Asia Minore ovvero un'altra Kyme, tenendo pur conto della opinione da me espressa, così conchiude : 2 « In favore dell'eolica milita la grande importanza della « città in generale, la sua operosità colonizzatrice provata con la fon- « dazione di Side, e l'opinione comune dell' antichità ; in favore del- « l'euboica si può invece addurre la vicinanza di Calcide. Ma que- « st' ultimo argomento sarebbe esso abbastanza forte per spossessare « l'eolica città di una gloria che essa vanta da tanti secoli ? Xoi cre- « diamo che l' opinione del Bursian rimarrà sempre per quanto inge- « gnosa una mera congettura e che non è mica inammissibile 1' op- « posta che attribuisce ai Kymei dell' Asia Minore di aver concorso « a fondare o ad aggrandire la città Campana ».

1 In Archivio Storico per le province nap., anno XI, p. 21 sgg.

2 Op. cit. p. 45.

66 A. SOGLIANO. PARTE I.

Il Pellegrini in più di un luogo (pag. 207 nota 2 e pag. 284, afferma che la colonizzazione greca di Clima non possa risalire più su della metà dell'VIII secolo a. 0., e con lui va pienamente di ac- cordo il Karo *). Anche intorno all' epoca di questa colonizzazione il dimenticato Holm 2 aveva già espressa la sua opinione, venendo , dopo un sereno esame degli argomenti dell' Helbig , alla conchiusione se- guente : Cuma fu assai più antica di Nasso e di Siracusa, di Sibari e di Taranto. Può essere che sia stata fondata già circa il 1000 a. C. Ma la opinione di uno studioso, modesto quanto immune da precon- cetti, non può avere alcun valore agli occhi degl'ipercritici, pei quali il solo Helbig vide così addentro nella questione cronologica della fon- dazione di Cuma. Fra i vari argomenti addotti dall'Helbig per infir- mare la data tradizionale Vunico che abbia apparenza di validità, sul quale egli insiste sin dal 1876 3 e che perciò viene ora rimesso in campo dal Pellegrini e dal Karo è l'assoluta mancanza di « miceneo » a Cuma. A un siffatto argomento, ex silentio e quindi assai poco strin- gente, mossero gravi obbiezioni prima 1' Holm e poi , indipendente- mente da questo, il Patroni, pel quale quegli stessi dati archeologici, che , a giudizio del Pellegrini e del Karo , contrastano con la data tradizionale , non hanno invece autorità per abbassarla di molto. Si ha dunque da un lato la tradizione classica concorde nell' affermare l'alta antichità di Cuma, e dall'altro la indagine archeologica che non ha sino ad ora nessun fatto positivo da opporre a quella tradizione. Così stando la cosa, piuttosto che far giustizia sommaria della tradi- zione classica, dichiarandola ormai assolutamente insostenibile (pag. 283), il Pellegrini avrebbe dovuto tener la via di un prudente riserbo im- posto dalla virtù dell'attesa.

Sennonché il Karo , che pur segue così dappresso il Pellegrini tanto nelle omissioni quanto nelle illazioni storiche, apre gli occhi a quella luce, che pare offenda la vista del Pellegrini. E questa luce è l'elemento etrusco, cui il Karo 4 giustamente attribuisce le oreficerie filigranate di una delle tombe cimiane.

1 Tonile arcaiche di Cuma, iu Bull, di paletn. ital. , anno XXX (1904) pag. 20 e 21.

2 Op. cit., p. 30-42.

3 Ann. d. Inst. 1876, p. 231. Cfr. Von Duhn. Delineazione di una Storia della Campania preromana (traduzione di L. Correrà] , in Rivista di Stor. atti. , 1895, anno I, n. 3, p. 53 nota 4.

* Op. cit., p. 27-28.

CUMA ITALICA. 67

Ma anche il Karo, come bene osserva il Patroni l, concede troppo all'ellenismo e troppo poco agli Etnischi della Campania e agli altri elementi etnici; e però rimandando il lettore alle osservazioni, con le quali il dotto napoletano combatte le deduzioni del Karo circa il tempo e la durata della dominazione etnisca nella Campania e am- mette la influenza di altri elementi etnici , soprattutto del fenicio, sulle coste campane , tengo qui a rilevare V imbarazzo nel quale si dovè trovare il chiaro studioso della toreutica antica di fronte alla sorpresa di oreficerie etnische venute fuori da una ricca tomba cu- lmina; imbarazzo che ben si rispecchia nel suo dotto studio. Vietan- dogli la sua coscienza storica di attribuire quella tomba ad un di- nasta etrusco regnante a Coma (p. 20) e parendogli un'ipotesi arbi- traria il pensare a qualche ricco mercante etrusco stanziatosi nella colonia greca (p. 20 nota 3) , egli ritiene per certo che dall' Etr uria legata con Cuma da stretti vincoli commerciali, sin dall' Vili secolo, il capo guerriero deposto nella nostra tomba abbia ricevuto i gioielli che lo adornavano (p. 28). Ed in nota aggiunge : Queste pacifiche re- lazioni non hanno che vedere coll'inva sione etnisca in Campania, av- venuta solo alla fine del VI secolo. Dunque i preziosi avanzi archi- tettonici di Capua e di Pompei, il piano regolatore di Ercolano , di Pompei, di Capua , e gli atrii calcarei di Pompei e in generale la domus, che studi recenti hanno rivendicato agli Etruschi , sarebbero effetto o di semplici relazioni pacifiche intercedute fra l'Etruria e la Campania sin dall' VII! secolo ovvero della invasione etnisca (non do- minazione , si noti) avvenuta alla line del VI sec. e che non lasciò tracce profonde nel paese! 2. Ma l'etruscologo italiano zar è£,o%riv, Luigi Adriano Milani 3, con quelle autorità che gli viene dal lungo studio e dal grande amore, dichiara senz'altro protoetrusca la tomba fu- mana del dinasta guerriero.

Non minore è l'imbarazzo del Karo dinanzi alla tomba cumana a tholos, che egli riconosce simile alle tombe a cupola etnische del- l'Vili e del VII secolo; ma poiché non crede che la influenza poli- tica etnisca giungesse in quei remoti tempi fin nella Campania , si limita a vedere nella tomba a tholos di Cuma una tarda sopravvi- venza del tipo antichissimo « miceneo », dovuta alla influenza diretta della Sicilia o di Taranto, ove l'impulso di quella civiltà giunse nel secondo millennio a. C. 4. Dato pure che non si possa parlare di una

1 Atti del Congr. intern. di se. stor.. voi. V, p. 217 nota 1.

2 p. 23, dove è invece parola di dominazione etrusca durata appena un secolo.

3 Studi e materiali, voi. Ili ,1905) p. 197, nota 317.

4 Qp. cit. p. 3 8gg,

68 A. SOGLIAMO. PARTE I.

vera e propria dominazione etnisca nella Campania in quei tempi as- sai remoti, non bastano forse a spiegare quella sopravvivenza « mi- cenea » in Clima le relazioni pacifiche di commercio , che il Karo stesso ammette fra l'Etruria e la Campania sin dall'VIII secolo per spiegare la presenza delle oreficerie etnische in una tomba cumana? Assai più conforme al vero sembrami la opinione del Patroni, il quale (1. e.) , non essendo persuaso che proprio non possa trattarsi di mo- numento arcaico occupato ed anche modificato da gente d'età tarda, giudica la tomba cumana a tholos una persistenza micenea dovuta ad influenza degli Etruschi e degli altri elementi orientali. Ed io ag- giungo che il fatto dei blocchi intonacati esternamente e provenienti con tutta verosimiglianza da un altro edificio più antico l , il qual fatto costituisce l'argomento più valido fra quelli addotti dal Pellegrini in sostegno della seriorità del monumento, non ha poi quella importanza che il Pellegrini ad esso attribuisce, poiché intonacata era parimente la colonna etnisca di Pompei 2 , e similmente intonacati e apparte- nenti ad altro edilìzio erano i capitelli adattati su i pilastri d'ingresso di un antichissimo edifizio pompeiano, risalente senza dubbio al pe- riodo etrusco 3. Certo la tomba cumana a cupola dovette subire delle modificazioni , quando venne adibita per le posteriori deposizioni : i chiodi di ferro, dai quali dovevano pendere ghirlande e festoni, tro- vano un perfetto riscontro negli uncinetti di ferro con testa a pera infissi fra le commessure dei cunei della vòlta di una magnifica ca- mera sepolcrale appartenente alla necropoli dell' antica Abdlinum e da me descritta nel 1881 4. Il confronto non andava trascurato per

1 Pellegrini, op. cit. p. 220.

2 Mau in Mitteilungen des K. D. Areh, Inst. , a. 1904 , p. 124 sgg. Patroni , in Rendiconti d. B. Acc. d. Lincei a. 1903, p. 367 sgg.

3 Mau in Mitteilungen des E. D. Arch. Inst., a. 1902 , p. 310 e 1904 p. 130. Che questi capitelli abbiano di già appartenuto ad altro edilìzio (cosa non

notata dal Mau) risulta dalle osservazioni seguenti : 1. il capitello del pilastro nord-ovest poggia su restauro moderno , ma lo spigolo della gola cava non cade a piombo del blocco ultimo di tufo che posa sul suolo e che è certamente antico, misurando la larghezza di quella gola in. 0,71, mentre la larghezza del blocco è di m. 0,78. 2. Le modanature del lato posteriore di questo capitello s'internano nella fabbrica antica. 3. Il capitello del pilastro nord-est combacia perfettamente col primo blocco di tufo che ha gli spigoli sfottati , terminanti superiormente a becco , il che non si riscontra nei blocchi sottoposti ; evidentemente capitello e blocco formavano un insieme tolto da altro edifizio. 4. I due capitelli non sono di uguale grandezza, poiché la larghezza di quello nord-ovest, misurata sull'a- baco, è di m. 0,89, mentre la larghezza dell'altro è di m. 1,11.

4 Cfr. Notizie degli scavi , a. 1881, p. 229. Ne proposi il trasporto al Museo Nazionale di Napoli , ma il compianto Ruggiero, direttore degli scavi , non cre- dette, per ragioni economiche, di accogliere la proposta.

PARTE I. CUMA ITALICA. 69

la storia del costume della gente sannitica , ed è veramente strano che anche quest'altra omissione del Pellegrini debba riguardarmi !

Ma che il Karo sia in fondo d' accordo con la tradizione assai più che egli stesso non creda , lo rivela la chiusa del suo accu- rato lavoro : « Poiché sono convinto, egli dice (p. 28-29), che questi « [i Tirreni] vennero in Italia per mare , corsari audaci che soggio- « garono i contadini umbri e regnavano sopra di essi da despoti po- « tenti non solo per coraggio e virtù guerresca, ma anche per quel « patrimonio di scienza secolare che portavano dalle loro antiche sedi. « Quando quei neri avventurieri si avviarono per conquistare una « patria nuova, nel XIX secolo trovarono stabilite, nel golfo di Ta- « ranto ed in Sicilia , le relazioni commerciali che i Greci avevano «iniziate sin dall'epoca «micenea», e forse già qualche principio di « colonia greca.

« Dovettero trovare occupata anche la costa della Campania, poi- « che passarono oltre a quelle contrade fertili e ridenti , per appro- « dare poi alla costa maremmana ove in breve sorsero le loro grandi « città marittime, vicine ai monti della « catena metallifera » che of- « friva loro delle ricchezze uniche in Italia. Furono i mercanti di Cu- « ma che, a quanto pare, accorsero per i primi in cerca di quelle rie- « chezze e che portarono non agli Etruschi , ma alle nascenti città « del Lazio, Roma e Preneste, il dono prezioso dell'alfabeto. Di que- « sto primo grande incivilimento dell'Italia, coperto tuttora da un fitto « velo di cui appena si solleva un lembo , delle prime relazioni tra « le genti che portarono in Italia i germi della sua grande civiltà le « nostre tombe cumane sono monumenti oltremodo preziosi». Chi ben la consideri , troverà una tal conclusione conveniente più ad un so- stenitore che ad un oppugnatore della data tradizionale, che fissa in- torno al 1000 a. C. la colonizzazione greca di Clima !

Ed ora mi piace di chiudere questo scritto, col quale ho cercato di rimettere a posto i termini del possesso intellettuale degli studiosi napoletani nel campo delle difficili ed importanti questioni relative alle origini della nostra Clima , ricordando il recente contributo ar- recato alla storia di Clima dall'illustre decano degli archeologi napo- letani. Il De Petra i ha rilevato il valore storico certissimo di uno statere cumano, di stile arcaico, che presentando una fronda di alloro con una bacca dietro alla testa femminile del diritto e sul rovescio la conchiglia, emblema di Clima, e intorno quattro delfini ricorrentisi

1 La data di due monete greehe in Atti del Congr, intern. di scienze stor. , voi. VI, p. 163 sg.

70 A. SOtìLIANO. PARTE I.

in giro, i quali sono assolutamente propri della moneta di Siracusa, allude evidentemente al soccorso prestato ai Cumani nelF anno 474 a. C. da Gerone di Siracusa contro gli Etruschi e alla vittoria ripor- tata da quel potente tiranno. Troviamo così tramandata a noi tardi nepoti la espressione di gratitudine dei nostri antichi Cumani verso quella gloriosa Sicilia, di cui è vanto il collega da noi onorato.

Napoli.

Antonio Sogliano.

XPI2TIANIKAI KErXPEAl.

To— oypacpia to v Ksy^psiTv.

Asv vo;xi£,o;j.£v avay/.aiov va ava— T'j<;toysv ti; tj i<>Topu.7j /.ai aoyaio- Aoyuo) à£ia xwv Kìyypscov Sia tov ypiGTiavi/.òv jc,g<7|/.ov. Eìvai yvtocTOV òri à— ò toù Rivivo; toutou s^S'/j è 'AxogtoAoc Ha^Ao; xal à— ' aùrou [X£Ta \\piG/.'ik'krlc stai toÌJ 'A/.'jAa à~ s— Asutìv sì; Supiav. * 'Ev Ksyypsaì; l'Spucre TTjv mtó'njv ot'jTOÙ év Ils>.o— ovvvjcw éjcxtojGwcv o [xsya; ' A-octoao;. 'Ev Ksyypsai: Tjvéypa'-Uv ó 'A— ottono; ttjv —pò; 'Poiyiatou; é~ ittoA7(v, vjv tj Sià- /.ovo; ttj? £j«tXvj<jta; TauT'/j; <Ì>ot[ivj ;v.£TSO£psv sì; 'Pwjxìfjv, jcaì —spi ^5 p'/jT<7; év tv] é-iTToAvj Taur/j ypàocov ó IlaùXo; Xsysi. « Zuvt<ro)u.i Ss uiAìv <£oi(3y]v ttjv à$SÀ<py)v r^xwv , oucav oiàxovov tyj; é/./.A-/j<7ia; T/j; év Ksyypsai; iva a'jTrv Trpo'jbé^'/j'jiVì év Kuptw à^ito; tcììv àyitov /.al 7rapa<rr?JT£ aÙTÌj év co àv uixtòv /p'^'C'/) "pàyy.aTi. x.al yàp ai'V/j -posTari; t:oAA(3v éysvv^xb] , /.al ai'Tof éu.ou. » 2

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I). rsvLxbv ToxoyQcccpr/.òv ducyQcc^iia Ksyypscòv-KopìvOou. 3 II). Elòixbv toTCoyQacpixóv didyQC([.iua to~ Aiy.évo; t<ov Kìy/^sòjv aòTa

Tolv T£0'4 T7£0l(jC0i>£lGtòv àp/^aiOT^TCOV.

1 Hpal. tO-' 18.

2 Pwu. ig 1. 2.

3<Wè rotoùro Aó'/ou à^iov vtco toù Chundler d/juoctevO'èi' xà> 1765.

72

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PARTE i.

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PARTE I.

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73

74

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parti: i.

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Elxàv 13.

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à-*to^.oy<j)Tspa tùv u,V7]u.sigìv , àriva ém toov sostTutov jcoci toù ~ki[j.hoc, twv Ksyypewv 7rapsTy]pvj<7a{/.sv xaì àveupojxev, elei.

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PARTE I.

XQiGTiaviKul KeyxQeccL

75

f/j; tìaXaTcr/];. * Ka&' ^[/.à; Taura vjaav àTrofrvjxat. xal oi/.r]aaTa éfjwróptóv xal ~3tvoo/£Ìa, si; à ~pò r jxsrà tov /.aTot— Xouv àvsasvov oi TroX'j—Xrj&sì;

Tr]v 9-sctv toc'jttjv wapiarvjaiv yj C~' àotft. 3 ebtoìv.

,3) JtaAAeuxa iiaQUccQOijjrjcpod'strjiiccTa èdcccpovg, o~sp ìrspusiv év svi twv rapaXia^càv ot/.oòoa^y.aTtov toutwv àvsupojASv, éipsro; ttj 10 'Ioimou (1905) a vecxa^a(/.ev xaì éj'.aftapiaaasv.

^Tj^pad-eaija&Ta 'taùra jceivrat, Svfra év ttj ut:' àpiih 3 sbecvi eupicxsxai ó {/.evo; x.a{)7jy.svo; àvD-pto—o;, 6 ©sptov txoct: av/jv.

'E* TCJÌJV (j/in®l$<i)V TOUTtOV •/.3CTìi>£'Ja'V.ÌV Tivà: év TW Ypt<TTtaVUC<3 Mo'j-

ffstw 17? àpift. 5410.

Encàr 15.

y) Xqxcùos èXXrjvixbg itvQyos (icwrsputw; ;;//■/.. 4,4.), TrAa-r. 3 xai -o/o;

Toijrpu 1,80) , o; *vx;j.o£óà<o; syjjy^ijxeys -pò; opo-jpàv /.al àa^ateutv toò Xijxsvo?. 'Et:' ocùto~ (SpaSuTSpov TrpocsTS^v) 9-oXto-r/j GTsyv] (eì*. 3). 2

S) rcl^vc t>jrò r>> frcUatftfav oìxodo/* r^drcov é; àp/auov cyxoX&iov

1 Xarà rag yewXoyiìiàg itccQccxrtQrJ6zig tov tfoqpoù yscoXóyov xaì «pwjjv ijroreyoS Ari xwv o/xovofux&v Tjjs 'EUados x. #. Aey??] 4 bakaeou aitò 2.000 &ài> dvefa ;te(>ì tQta {tèrga {Extrait des comptes rendw de» séances de V Académie du Ir Aout 1904).

2 'Ano xf\g 6xéyr,g xovxov ècparoyQacprjcunsv xì\v vn ùqi&. 2 unotyiv.

76

remQyiog Aa]inà%r\q.

PARTE

ouviGTocf/ivtov , àriva év ttj utc' àpiik 3 sixóvt (3as7to[7.£v x.sty.eva éyyuTocTa. to~ saXyjvixoij xupyou.

s.) appaia sXXrjvixà XQccóJieòa TrapaAia; ^ jaojaou &)<7«uto>? vuv u~ ò rij? d-aXacrtn); *0CT<X5t/\.u£ó|/.£va.

llocràjci; àpà ys èrcì tvj; xapaAia; tocutvjs Sèv TCSpiSTC aV/jiTav tj c1>ol[ìV], Téprio? 6 ypaosù; tou 'AtcogtÓXou llauXou, RpicTCo? , Paio? xaì STécpavo?, "EpaffTO? ó oì,x.ovó|7.o? Kopivìlou xai KoóapTo; 6 àoeXcpócj ;

^YEQBÙTCìa %Qi6tiaviKfis Baóiliìcfig 1V-V alcòvog, r$ ispòv [Ì7);ao. xal fotavòv [Aspo; tou vaou xaTa>cXu(,STai tócauTco; otto ttj? OaXàcrcr/]; (sìjc. 4).

"AjAa tyj eìaooo) tou vaou toutou àvsupOfASv xal j^pwmavwcoùcj T<x<pou;.

'H Dici;, é<p' vjcj év T'/j eùcóvi ó^ourai pafìoo? TCocpÉcrojcn tyjv àpwrrspàv ytoviav T(3v frspXAiwv ttj? ' E)ocXy]cyfa<;.

Eixàv 16.

'H[/.sT; <ppovou[/.sv oti 7^ àpyaia yptcmavoa) Koivotvj; twv Ksy/pecov àvvjyetps tov vaòv toutov, gtvjpi^ojasv'/] stcì auvsyou? xapaoóffsw; oti stc ! ttjcj ■ì)ia£(o; rauTT]? £— s^àc-i)-/] v] àxspi[3ot(7'&7] to p<3tov 6 'AttoctoXo; IlauXo;.

' Orcicritev to~ ispou ^TjfxaTO? écaxoXoutìòT ?raps)CTSivo[/.sv/] [/.axpà cstpà oUodO(/.7j[AàTtóv, àriva cócauTtó; jcaTa>cXu£ovTat orco ttj? tì-aXóffcnji;.

() 'Etcì tou xutìu-ivo; tou Xiuivo;, Sv &ià Xs^ou XsTCTO[/.sp<3? éc-ouSà- or<x[/.sv, TCapsTrjpyjcafAEv èddcprj èótQCo^éva dia %XCvd,(avì TCowciXa? oijcoSo{Aa?, Totcpou; )caì TCowttXa àvTix.ei[A£va tc/iXivwv imo); auvTpiu.p.àTCi)V.

-/] ) ;Aax.pàv Tvj? rapaXta; , stcÌ r?^ tìécEco? , vjti? <xyjiASto~Tat év tu! £iòix(ò TOTCoypacpi/,c3 maypà[/.[/.aTi , sSpvjTai ds^a^isv^ ("//)/.. 2,40 , t:X. 2, Patì. 1,50) aQ^aicov iQiGxiavmcòv %qóvgìv (sìx. 5) év yi E'wtovi^STai crraupòcj

PARTE I.

XqióticcvixccÌ KsyxQECtL

77

(oó [AGAl? [AtXpÓv TS|7.0C/tOV ÒlS<T0>tì7] TO'J /.7TO) (X'JTOU [A£CO'JC) TCSpl OV 77 Spt-

77X£o'jtlv iy i>uc, 'j77oaiav/-'7/.ovTì; ^{/.Tv to'j; Àóyou; toù ieporj A.ùyo'j<XTtvo'j « «ed wos pisciculi secundum 1X0 YN nostrum Tesum Chrixtum in aqua nasci mur. » ' Oi ì/Dv; oOto', £<pspov ypo>j/.aToc, oiv oi£Ttói)-/j<jav DAym-zx 'tyv/j. Kt.t' àp/à? 'j77(i)7wTS'j<7ajJ!.sv [/.tJttw? S'jpiTx.óy.ììlx rrpò ypwxiavucoij (3a<7Ti(;T7|- piou £77i|AeXÉ(JTepov oy.to; tocut/jv £^£TacravTSc , STrsicJhjiASv ori TcpóxsiTai 77Spl os^aj/.gvri5 àpyaiou ypiGTiavoù , otti? t/(v sv toj Jcn^aTi t.'jto'j rìscay.òv^v Y.y.-z/Jjn'j.rpz otà twv jrpwmavtxóiv to'jTujv cj^ÓAtov. vHto àpà ys £v ?w tottco xouTtp 7] jcaroi/tia <t>oifÌ7j; rvj; cW./.óvo'j -^ TspxiO'j toù ypayavTo; ttjv 7700;

'Ptù'AOCtO'j; cTT'.TTOArV ; 2

Efocbv 17. Oi ì/iKk tyjv (jiyr.v t/.óvr.v a'jTwv -oo'ìxaao'jG!.v , o'jo£|Aia; £77iypacp7j;

£/C£t U7rap/0'J<JVjC.

})■) 77£pi tov Xi'xÉva x.a.1 sv toT; 77£sic scve'joo'aev Òtto tt.v vr(v 77£pl T7.; òr/.a |At/.pà; xcctccxónfiag ~£pi£yo'j<7a; Trspl to'j; 6-10 raoo'j;.

hi; [Aiav toutcov ttv too; T7. AO'JTpà ttj; 'Kasvvj; z,£ia£V7jv , o'j: 317707

Tj'AÌV, SUpÉO-7] 77A3CC |J ÌTà GTOC'jpO'J , VjTi; V~jV E'j'p^TXl ÌV T(ò 777.07. TTjV KópiVi)0V /Wpife) MsAlGCTtOV Jtaì 7}V 77SOTlD-£y,£>bc VX <7770'JOIX<7<0|A£V.

i) 'Y^r.Aa £77Ì TO'J syvù; opou; sCpr^ai óztjlaiov y.akovuevov « tov

1 De Civit. Dei I. 18.

2 :Pcou, 15. 21'.

78 remgyiog Acc(iitdxr}g. paktk i.

j4.%o6x6Xov JJavlov ». Ilspl tx ;xépv] toutou <puovT<xi r^spa «pura xoivto; « aapva;./.— ma » jcal « yoi/Xtà » x.aXou[X£va. Taura oi éscsT ywptxoì àvacpspouffi £/. apaftócsco; ori scttsiosv ó ' Attotto'Xo; Flauto;.

"Ori ó 'A— gottoso; Uxvko$ sv KsyypsaT; y] xKkxyo\> Sèv Sarcstps «pura TOiaura, eT[/.s9-a (3s(3aioi. "Oti oaw? sffwetpe to xpòiTov et; aépT] TaìiTa tov <7T:ópov toÌ) Eùayys'Xio'j écrviv u7rsp(3s(3aiot.

Àaj/.7Cpà la'ix.yj apaooais oti ó 'A— ócrro'Xo; Flauto; t^to ó TTropsù; toù véou oioày [/.aro? tou ECayysXiou sì; jxépvj tx~jtx. 'O Xaò; Sèv évvosì ttjv ■qfrucqv tou EùavysXiou t?j; yàprro; cvopxv. Taór/jv j/,STS^>spev si; T7jv cruvxe- 3cpi«/.{/,sv7)v a— opàv Ttov rjiisQosv cpvt&v. Mtjxo); vj òioacxaXia tou EuavyeXiou Ssv (Ó^okÓOv] 77pò; T7:ópov ; '

ta') 7rap£T7]p7]«rajj.sv u.9cp|Aapivou; xiova; ttjv vsóof/.m'ov oi/„iav 'Itoàvvou Map>cs7.Xou 2 uTrap/ovxa; , oì'tivs; , co; [j.oi àvéapepov , [AST/jvé^^aav sxei sx, tv]; xapà tt^v x>x\xggxv (3a<iiXtx,VK.

1 MaT#. ty'. 4 x. é£.

2 Et? vnégd'VQOv xìjg oix'iug xoixov è-nl fiapjiapov (0,27x0,27) àvsyvoo{isv xì\v ào%odccv èTtiygaq)ì]v xccvxt}v.

&AABION TPGJlAON $(OKAEIC AJEA&G) KAI API&TJI BOTKOAA MNEIAC XAPIN HPCQC XPHCTE XAIPE Avxr\ idr^io6isv9,ri èv xà> C. I. G. xov M. Frnenkel xóp. I. 6sX. 34. apiah 207. 'Avsyvw&ri &AABIOI TPcolAOI àvxl &AABION TPniAON. Kal ini èxégug olxiccg xov %<oolov Ttaoà xr\v &vqccv A[ovKiog] IOTAIOC NEIKO CTPATOC CAPJIANOC IIAIC IIAAAICTHC ACI ONEIKHC ETG3N IH Avxrj èdrnio6tsv&r) èv C. I. G. xov M. Fraenkel TÓft. I. 6sX. 34. &Qid: 206. Ov (lccxqÙv òè xov vvv %<ùq'iov x&v Ksy%QEwv Evor\xcci &q%cùov Xccxo[ieìov, ècp ov àvèyvayav

nPAITCOPIA ; NOI

rNAiocno

MIIHIOC

ZHNACA

rOPANO

MHCACJ

IOCJION

CO JET; I; T Elg xov é'xEQOv dh x&v (5qc£%iÓv(ov xov Xi^isvog xòv àQi6xeQà Ù6eQ%o[ièv(p tvQO\itv la^iaxixà Iovxqcì xf\g ' EXévr\g, tieqÌ <bv iSLav [lovoygucpittv è£eitóvr}Gsv ò 6ocpog xov ^fisxégov II(xv£7ti6xri[iiov y.a&r\yr\xrig x. Xgrj6xo(i<ivog (Xflimir} àvdXvóig xfjg /a^arixjjs JtTjyr/s xov %aoà xàg KsyxQsàg xov Koqlv&ov Xovxqov xì)g ' EXévr^g , V7tq A. XQT\cxoy,uvQv. 1902. A&fjvai),

PARTE I.

Xqi6xiccviy.uI KsyyQsaL

79

Eixwv 18. ù toitco /topico twv ' Ee;aL/,iXitov crraupG; outo; ,ris[iaiw;

i(3) Eì; tc, 'Trsp^-upov to~ sv tc7 topav à-s/ovTi /copico rcòv 'EgajAiXiwv vaou to~ àyiou Ayjir/jTpiou àveópoy-sv ótavQov [JLSxà toù ispoù jy.ovoYpay-^.ocTO? A >wci CD Trfi 'Airo5taXui}/so><; twv -pwTtov £Ìpyjvixwv /póvtov TY|? 'ExxXyjcria;, o; u~ o[/.i[/.vrir;z.si tj^ìv tov Sta ^.ovoYpay.- f/aTtov WGoaTto; /.al tou A *<*<■ UJ ~?p 'AttoxocXu^sw; x£/.ocr;7.7]yivov GTaupòv tov x.ò/apayyivov év é-iYpaovj (N.° 104) é~ì Tìópou Xifrou sòpierxof/ivv] év xw é&vix,to Mouffsiw to~ IIaXspfjM)u ;x£Tà tou òvo- [xocto; XPTCIC.

'O £ jASTSvrj/ito] £VT(Xufta site ex. twv Key^pewv, s'ite ex. twv épsi— itov twv àp/aiwv

éxxX'/JCTlWV T7J; KopiV#OU.

"O— £p <ìz xal (3a<?tXo«jv aiYATjv zìe tov àXXto; iTTopixwTaTOv toùtov Taceva twv Key^pstov TCpocrot&ocriv, écmv gti 38 sttj -pò tv;; àXwasto;, r,TOi tt [/.svocXt] llapa'jx.ì'j'/j tou 1415 [/.apTiou 29, ó XijxTnv outo: s$sc;<xto tqv

STulCJXS^lV TOU AÙTOXpÒCTOpO? TOU Bu^OCVTlOU MoCVOUTjX TOU 1 laXaioXÓyOU, oc» ti;

Tvj 20 àrcpiAiou rjpcaro àvaxaS-aipstv jcaì àvoutoSotistv to 'E^atuXiov , àvx- crT^Ta; £-' ocutoS 153 rcópyou;, ots sì; uipT] tocùtoc àvsups-fb] /.al •/) £ti- ypaor ouTT)" « ^rag. £x. epeotog. freoq. ccX^&rjvog. ex. &eov. aXt]&i]VOV. (pvlcc^iq. tov. ccvtoxqcctoqcc. Iovótiviccvov. xcci. navrag. tovg. sv, Elludi. owovvxag. tovc. sv. ©EG). t,covtag. l

'H £— lypacpvj auTT] yòyX'j^y.svvj s~l XiDou Xsuxou |j.ap»/.apou (jatjx.. yXX. [X£Tp. 1. tcX. 0,62) supvjTat cy^aspov sv t9j sieróso) t'7; A'/^.ap/ix; KopivìVou, xai r(v f,i/.si; àvsyvti)|./.sv outw;.

+ <I>G0C GK <J>G0TOC 0GOC A ATT(-)I\OC

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<I>VAA±II TON ATTOKPATOPA IOYCTINIANON RAI TON niCTON ATTOT AOYAON BIRTCOPINON AMA TOTC OIROrOGIN 6N GAAAI TOTC K[ATA] OGGON ZCONTAC +

1 IIsqI tfjg àcpl^Ecog ravrrig tov avroy.QUTonog MavovrjX roD TTcdaioXóyov , rfjs àvevQÌGscog r&v 7Cvgycov xat rìjg svQS6sag tfjg èmyQacpfjg tccvttìs idi Xqovixov Ilaa^à- liov, TtatQol. edit. Migne, tów. 92 Ducangii nome osi. 170 xcd Xqovixov TIcìOxccI.iov edit. Bonnae róa. II. notae Gel. 254 xul Jovxu edit. Bouuae róu. 21 crei. 102 xal év

80 remgyios Aa[iitàitrig. parte i.

Kal tocutoc jasv outo)?.

"Oti Ss [/iya; y^iaxcuvvAOc, v.ó<j[J.oc, óxò ttjv y9jv t<3v Ksyypswv uttvwttsi

7rSpt TO'JTOV ObSÓÀtO? à|./..Cpl(3àAAO|/.SV.

' EvaTTÓxs'.Tai rfa sì; t/jv C/ta—àv/jv yjpiGTioivoi) àp^ouoÀóyou ottco; àvspsu- v/]G7) xaì s^sràcrv) é3CTST<X|./iva tocutoc épsi7ua tgW Rsy^pswv, svOa SAafisv

UTCap^CV fjlx T(OV —pcOTCOV S"/->CA7](7ló)V T7J? ' AxO<JTo)aX7J; ' Ap)»UlÓT7]TO;.

Tofg G%oXioig rov avrov ró[iov 6sX. 575. Tjjv àvcorégco èitiyQacpfjv « qpràs &t cparòg... » /<?è xal C.I.G. tÓ/ì. IV. n. 8640. £v#a àvayivmGKsrcu TOTC EN GECO ZcoNTAC. llagd r. $pavr£jj i) èmyQatpr] avxr\ Xsysi « xai nàvtag tovg èv ry ' EHadi oltiovvxag, tovg ex &eov gwvrccg » («mì. Bonnae (TsL 107). ' E8r\\JL06i£v\)'r\ 8h xccì Monceaux, G.a- zette iirilié.»l. 9. 1884. 277. Zxiàg, 'Eqprjftep. aQ%aioX. 1893. osX. 123. aeX. 13. Ovrto Xriysi xa? èxiyQacprj tig EVQi6y.0[ièvì] èv èv Verona èitiyQacpMà) Mov6sicp, ijtig ccq- %ztai « f ' Ay[ia Magia ©soróxs... » xal Xrjyei « EN KOPIN0G3 K@EC3NiZcoNTAC f

' Ev k&rjvaig.

PARTENOPE 5ICULA.

In due luoghi assai distanti, dice Strabene1, vengono collocate le Sirene: taluni le mettono al capo Pelerò, altri sul promontorio Sor- rentino, tra i golfi di Napoli e di Posidonia. Ma noi, pur riconoscendo la giustezza dell'informazione data dall'antico geografo, dobbiamo ri- tenere, clie la localizzazione vera e propria di questo mito sia stata fatta unicamente nella seconda località da lui indicata. Poiché, come fu notato già dallo pseudo Aristotile2, e ripetuto da Strabone, le Sirene avevano un tempio sul declivio Sorrentino, e si chiamavano Si- renuse le tre vicine isolette dalla parte del golfo di Posidonia; oltre a ciò le origini ed una parte della vita di Napoli si svolsero intorno al nome di una Sirena. Per modo che la Campania si collega alle donne-uccelli per il culto, per un nome geografico e per un sostrato storico, mentre la Sicilia ha per se niente altro che una interpreta- zione del libro XII dell'Odissea.

Le memorie notevolissime del periodo miceneo consegnate nel dia- letto ionico, ossia nell'epos omerico, danno qualche fondamento al- l'opinione, che include gli doni tra i fattori del materiale miceneo. Se però questa partecipazione è semplicemente probabile, mi pare as- solutamente certo che essi, navigatori arditissimi, siano stati fra i principali diffusori di (niella produzione, portandola su le coste più lontane. Erano gli Joni anche immaginosi e loquaci; quindi parecchie delle favole, che si sono credute un parto della fantasia de' poeti, si possono attribuire all'intiera stirpe. Vale a dire che, tornando quei viaggiatori dalle lontane loro peregrinazioni, si compiacevano di ma- gnificare le proprie avventure, vantando gli affanni durati per scam- pare da mostri orrendi e da altri inventati pericoli. Queste loro fole furono materia di canti clic, dapprima slegati, trovarono posto più tardi nel racconto delle avventure di Odisseo.

Ma i canti nella loro forma sciolta, l'epos, in cui furono

1 Strab. I, 2, § 12.

2 Aristot. De mirab. ause. 103. E. Pais (in Eendic. Accad. Arch. Napoli, 1905, pg. 184) indica nella regione detta Fontanella il tempio Sorrentino delle Sirene.

6

82 G. DE PETRA. PARTE I.

innestati, dettero alle Sirene, a Scilla, a Cariddi, alla Thrinakia una chiara determinazione geografica i ; la quale neppure venne assegnata nell'Odissea da noi conosciuta. Sol quando con un errore fondamen- tale di grammatica 2 si disse, che &QLvccxCrj ì aleva quanto TQivcatQCa, allora soltanto venne fuori un elemento geografico, e la contesa fra l'interpretazione orientale e l'occidentale fu decisa a favore di questa ultima. Giacche nella creazione di quelle favole avendo avuta la loro parte così gli Egei dell'oriente, che solcavano il Ponto Eussino, come quelli dell'occidente, che avevano perlustrato il Mediterraneo, e vo- lendo gli vini e gli altri tirare secondo il proprio desiderio l'interpre- tazione del divino poema, gli Joni d'oriente facevano viaggiare l'eroe nel mar Nero, quelli d'occidente, o i Calcidesi, nel Mediterraneo 3. Ma pel nesso di successione, che era stato dato, nella definitiva re- dazione del poema, alle avventure di Odisseo, buona parte di esse, e specialmente le Sirene venivano, con la introduzione della tqivccxqCcc, a raggrupparsi intorno alla Sicilia o, come dice il mitografo Igino, in luogo qui est Inter Siciliam et Italiam 4.

Questa geografia omerica fu adottata dai poeti greci susseguenti: le Argonautiche Orfiche 5 dopo Lilibeo e l'Etna ricordano le Sirene; Licofrone 6 dopo li scogli di Scilla e Cariddi pone quelli dove stavano le fanciulle-uccelli; ed Apollonio Eodio 7 cominciando dalle Sirene passa a Scilla e Cariddi. Ciò nonpertanto, un'altra sede fu data, e con più largo assentimento, alle Sirene.

I Tafii, gente vaga di correre i mari pirateggiando 8, stavano di casa a nord d'Itaca, nelle isolette poste fra Leuca e l'Acarnania. Su- perati i pericoli della navigazione attraverso lo stretto di Messina, esplorarono la ricchezza mineraria della Sila, e stabilirono a Temesa (nel golfo di S. Eufemia) una fattoria, per estrarre, con l'aiuto degli indigeni, il rame dai monti. Del metallo così ricavato dalla Calabria

1 « Seirenen, Skylla und Charybdis, Thrinakia tragen in sich keinen fiir den « redactor charakteristischen localen zrjg». Wilamowitz-Mollendorff, Homcrische Unteisuchungen, Berlin, 1884, pg. 165.

2 Wilamowitz-Mollerjdorff, Op. cit., pg. 170.

3 « Was die Jonier, die der redactor repriisentirt, taten, indem sie den Orìys- « seus im Pontos fahren liessen, den ihre schiffe durchkreuzteu, das taten die « Chalkidier im westeu». Wilamowitz-Mollendorff, Op. cit. pg. 169.

4 Hygin. Fabul. 141.

5 Orph. Argonaut. vs. 1250-85.

6 Lycophr. Alexandr. vs. 649-53.

7 Apollon. Rhod. Argonaut. IV, vs. 891-923.

8 Odyts. I, vs. 105, 184, 417; XV, 427; XVI, 426,

PARTENOPE SICULA. 83

in tempo assai remoto, e che serviva per le armi di difesa, vi è il ricordo non soltanto in Omero *, ma nella moneta, che i Greci dei tempi storici, colonizzatori di Temesa, coniarono imprimendovi, come emblema della città, un elmo e due schinieri 2. Diciamo che i Tafii non si arrestarono a Temesa, ma continuando a veleggiare pel mar Tirreno arrivarono alle coste dell'Ausonia; perchè mia tradizione, ac- colta da Virgilio e da Tacito , pone a Capri i Teleboi, e questi eran tutt'uno co' Tafii 3. Stando in quell'isola si persuasero, che la dimora delle Sirene fosse stata sull'opposta sponda Sorrentina; forse perchè il sorriso di quel cielo e di quelle spiaggie si accordava con la malia del loro canto; forse perchè il mare sempre mosso alle bocche di Capri prenunziava il pericolo che si correva nell' indugiarsi ad ascoltarle; certo vi era una perfetta rispondenza tra la natura del luogo ed il carattere delle Sirene allettatoci, insidiose, affascinanti.

Che i Teleboi, o Tafii di Capri, siano stati essi a collocare le Sirene sul continente opposto a quell'isola, io l'argomento dal nome 14%Elotdeg, AcJwlo'ides, Acheloiades, dato loro dai poeti greci e latini 4. L' Acheloo, il maggior fiume della Grecia, e venerato dai tempi più antichi, si scarica nel mare quasi dirimpetto alle isole Teleboidi; esso, perciò, ha con queste un rapporto evidente , e i Teleboi, colonizzatori di Capri, per rannodare alla madre patria il loro nuovo stabilimento, dissero che le Sirene eran figlie dell' Acheloo 5.

Xon presumo di ricostruire tutti i passaggi, per cui la fantasia degli antichi arrivava a spiegarsi le Sirene generate dall'Acheloo sul mar Jonio e aspettanti sul mar Tirreno la nave di Odisseo. Certo è che la favola fu portata nell'Ausonia prima che si desse a d-QivayJìj la interpretazione di Uizeluc, perchè altrimenti le donne-uccelli non sa- rebbero state localizzate sul promontorio Sorrentino. Ed è certo al-

1 Odyss. I, vs. 184.

2 Garrucci, Monete dell'Italia antica, 1885, pg. 167, tv. ex vi, 27.

3 Virg. Aen. VII, 733-5, Tac. Ann. IV. 67: Plin. Eist. Xat. IV, 12, 53.

4 Apollon. Rhod. Argon. IV, 893; Ovid. Metani. XIV, 552; Sii. Ital. XII, 44; Cianci. Rapt. Pros. Ili, 254.

5 Davasi come madre delle Sirene una Musa (Apollon. Rhod. IV, 895-896; Eustath. ad Odys. 817,31; Apollod. Bibl. 1, 3, 4; Hygin. Fai. 125. 141 Serv. ad Georg. I, 8}, perchè P Acheloo nasce sul Pindo, che era una sede delle Muse. Però questa conseguenza derivata dalla paternità dell'Acheloo, contraddice al carattere marino, che le Sirene hanno in Omero. Se avessimo notizia di tutte le leggende formatesi intorno ad Acheloo ed alle Sirene , probabilmente si troverebbe qual- cuna, che del fiume considerava non la sorgente, ma la foce.

84 a. de petra.

tresì, elio la conclusione data al mito con la catastrofe delle Sirene l, fu svolta ne' suoi particolari con perfetta rispondenza alla dimora au- sonia di quelle donne favolose; in quanto che una di esse, Partenope, andò a morire nel golfo di Napoli, la seconda, Leucosia, nel golfo di Posidonia, e la terza, Ligeia, presso Terina 2.

Da ultimo una leggenda ricordata spesso dai poeti (che però non sono i più antichi) mette le Sirene tra le ninfe che accompagnavano Proserpina, nel giorno in cui fu rapita da Plutone. L' inno omerico non indica chiaramente dove successe il ratto famoso; ma fra i tanti luoghi della Grecia , dell'Asia , dell' Italia, che si contendevano quel vanto, nessuno raggiunse la celebrità della Sicilia, dove aspiravano ad aver veduto Proserpina quum legeret vernos flores 3 un luogo presso Siracusa, un altro vicino all'Etna, e specialmente la città di Enna. Per modo che è probabile che Claudiano esprimesse un'opinione ge- neralmente ricevutai ne' tempi più tardi quando scriveva, che Cerere commendat Siculis furtim sua gaudio, terris 4. Così le Sirene diven- tano siciliane , non nel senso di quelle che abitavano, secondo l'in- terpretazione data all'Odissea, un'isola posta fra la Sicilia e l'Italia, ma siciliane nel vero e stretto senso della parola. In ciò sta una prima differenza tra le Sirene omeriche e le seguaci di Proserpina, in quanto quelle vivono in riva al mare, e queste sono terrestri. Una seconda differenza scaturisce dal contenuto morale , le une essendo fìnte e ingannatrici, le altre indubitatamente buone, perchè compagne della vergine Proserpina.

1 Era destino delle Sirene morire quando un uomo avesse saputo resistere alla malia del loro canto; e la credenza generale era che Odisseo portasse il fato delle Sirene (Lycophr. vs. 712 ; Eustath. ad Odys. 1710 , 34 , in Dionys. Perieg. cp. 358; Hygin. Fai. 125). Le Argonautiche Orfiche (vs. 1282-7) collegano la morte delle Sirene al passaggio degli Argonauti; ma quest'opinione può considerarsi come isolata; perchè nelle altre Argonautiche, quelle di Apollonio Rodio, tale incontro è riferito in modo assai diverso. Le Sirene, cioè, che nel poema precedente gettano le tibie e la lira dopo aver udito il canto di Orfeo, e si precipitano in mare, dove sono trasformate in scogli, non possono, secondo la narrazione di Apollonio, farsi udire dagli eroi, perchè Orfeo soffoca la voce loro col suo canto, e così il loro destino non si compì allora. Ma Odisseo che le udì, e nondimeno rimase at- taccato all'albero della sua nare, fu causa della loro morte.

2 Aristot. 1. cit. ; Lycophr. vs. 717-29 ; Eustath. in Dionys, Perieg. cp. 358; Strab. VI, 1, § 1; 1, 2, 13, 18; V, 4, 7; Nei sarcofagi (Robert, Sarkophag-Reliefs, voi. II, 1890, tv. 52) le Sirene son sempre tre, e come dice Servio (ad Aen. V, 864): hàrum una voce, altera tibiis, alia lyra canebal.

3 Ovid. Mei. V. 554.

4 Claudian., Rapt. Proserp. I, 139,

PARTENOPE SICULA. 85

Mitografi e poeti crearono a loro arbitrio altre differenze. Taluno i le rappresentò come fanciulle non dissimili dalle altre, e che diven- nero alate per volontà di Cerere, la quale in tal modo le punì per aver fatto mala guardia, e per l'aiuto non dato a Proserpina. In Clau- diano 2 sono alate fin dal principio, ma divengono cattive pe' rimpro- veri di Cerere, e con rapido volo fuggono verso il capo Peloro, dove col canto e la lira attirano i miseri naviganti, per farli perire. Ovidio 3 le ritrae come buone fanciulle e senz'ali, prima e dopo il ratto di Pro- serpina, e sol dopo aver girato inutilmente su tutta la terra in cerca della diva, impetrarono e ottennero le ali dagli dei, per trovarla su i mari.

La bontà data alle Sirene doveva riuscire assai gradita ai Na- poletani, i quali avevano concentrata in Partenope la miglior parte della loro religione e la storia più antica della città. Forse essi non furono estranei a un tentativo di riabilitare, se non tutte le Sirene, almeno quella che era loro propria, della qual cosa troviamo un in- dizio nella leggenda, riferita da Eustazio ', di una Partenope pentita ed in lutto, che viene a prendere stanza nella Campania. Ma più di questa versione incontrò il favore dei Napoletani la Partenope Sicula e buona; la quale si radicò tanto nella credenza popolare , che due testimoni, la Cronaca di Partenope e il Boccaccio, la ritrovarono alla fine del Medio Evo nella tradizione orale del popolo napoletano, con lineamenti senza dubbio alterati, ma chiaramente riconoscibili.

Nella Cronaca di Partenope si legge (cp. v.) : « Parthenope era « una Giovanotta non maritata et Vergine, de una exceliente e gran- « dissima bellezza , fegliola del re de Sicilia, la quale venendo con « gran moltitudine de nave ad chiaga, se ammalò et in quel mede- « simo loco de quella infirmità fo morta. Et in quello loco fu sepe- « lita : per la (piale sepultura li fo facto el tempio ». E il Boccaccio (nell'Ameno) attingendo alla stessa tradizione orale ricorda i dimani, che in « luogo sollevato con picciolo colle » avendo cominciato a fon- dare una città, e « nelli eminenti luoghi » avendo rinnovato « i co-

1 Hygin. Fai. 141.

2 Claudian. loc. cit. 254-58.

3 Ovid. loc. cit. 552-60.

4 Eustath. ad Dionys. Poieg. cp. 358. Il luogo di Dionisio Periegete (vs. 357-60), a cui le parole di Eustazio servono di commento, è forse esso stesso un accenno alla Partenope buona ; poiché il geografo, pur collocando le Sirene al promon- torio Sorrentino, dove le fanciulle alate dovevano essere le insidiose ed inganna- trici, che si precipitarono in mare quando non riuscirono ad attirare Odisseo, chiama Partenope santa o casta (àyvrjv).

86 G. DE PETRA.

minciati fondamenti altra volta », « nel primo fondare, di candido marmo una nobile sepoltura nel ventre della terra trovarono, il titolo della quale, di lettera appena nota tra loro, leggendolo,, trovarono che dicea : Qui Partenope Vergine Sicula morta giace.» E nella fine del Quattrocento questa opinione durava così vivace, che il Pontano !, pur conformandosi alla tradizione letteraria di Sorrento, quae Sirenum ipsa- rum sedes tunc esset, ammise nondimeno Partenope regina, per la ra- gione che avendo essa avuto il sepolcro sul colle dove ora è Napoli, sepulcrum ipsum indicio est Parthenopen colli imperitasse ». Donde si può raccogliere, che la credenza in una Partenope Sicula e buona sia durata in Napoli, attraverso il Medio Evo, anche più di quanto nel mondo classico durò la fede nelle Sirene omeriche.

1 Pontani, Opera, Venetiis 1519, VI, pg. 315. Napoli.

Giulio de Petra.

DI UNA PRETESA DISFATTA DEI FRANCHI

SOTTO GORDIANO III.

Oltre alla spedizione contro i Persiani e alle vittorie sopra di essi avute, nessun'altra impresa militare, tale che abbia reso illustre e il nome e il regno di Gordiano III, conosce con sicurezza la Storia. Tuttavia si vuole che sotto questo principe sia stata riportata anche una non trascurabile vittoria sui Franchi, che, varcato il Beno, sa- rebbero andati vagando per tutta la Gallia, nemici nuovi di Eoma.

La vittoria sarebbe quella conseguita da Aureliano, allora tribuno della Legione YI (Gallicana ?) a Mogontiacum, della quale Vopisco ci notizia nella vita di questo principe *. Lo storico a tale fatto non assegna alcuna data, ma non è sembrato difficile poterla determinare, specialmente per un verso d' una canzone militare che ci si afferma sia stata composta per l'occasione. In essa si dice 2: Mille Sarmatas, mille Fvancos semel et semel occidimus, mille Persas quaerimus. La vit- toria sui Franchi fu dunque riportata mentre si stava preparando o combattendo una guerra contro i Persiani. Tale guerra poi parecchi critici dal Tillemont 3, per non andare più in là, ad oggi, ed oggi special- cialmente, 4 ritengono che sia quella che trascinò alla rovina il terzo dei Gordiani. Xaturalmente la medesima sarebbe avvenuta poco in- nanzi alla morte di questo imperatore, quindi fra il 242-1*44; sebbene qualcuno, come il Wietersheim 5, propenda per una data di poco poste- riore, fra il 244-246. Tutto ciò pare che in certo modo venga ad essere confermato da Capitolino che, nella vita di Gordiano, riferisce l'epi- taffio ove si vuol far credere sia stato scritto sulla tomba dell'infe-

* Aurei; 7 e segg.

2 1. e.

3 Hist. d. Ernp. Paris 1691; III pp. 550-594.

4 Cfr. Dakn, Urgesch. der German. u. Roman. Volker, Berlin 1881; I p. 203. Goyau, Chronol. de VEmp. Boni. Paris , 1899 (all'anno 241). Blanchot , Lea Tré- sors des monnaie8.

5 Wietersheiiu-Dabu, Gesch. der Volkerwanderung. Leip. 1880 I p. 214 e 622 nota.

lice vittima di Filippo; in esso quel principe è detto Victor Germa- norum.

Ma c'è di più. Come apprendiamo dalla cantilena, e come Vopisco stesso ci fa sapere, prima della vittoria sui Franchi erano stati vinti, nell' Illirico , i Sarmati irrompenti. Ora in quest' epitaffio medesimo, riferito da Capitolino, Gordiano apparisce anche col titolo di Victor Sarmatarum. Dunque sembrerebbe di poter concludere che ambedue queste vittorie furono riportate nel nome di Gordiano e quindi, per il tempo, non furono posteriori al 244.

A me sembra che tutto quest' edifi zio non abbia base. Credo che la guerra persiana alla quale si allude nella cantilena non sia quella condotta da Gordiano , ma quella che portò 1' imperatore Valeriano: pongo quindi sotto il regno di questo principe la vittoria sui Fran- chi, i quali penso che solamente adesso, per la prima volta, compa- iano, ben costituiti , in lotta con Eoma. Mi convinco infatti che fra i dati fornitici dal racconto di Vopisco, quali direttamente indichino che la vittoria in quistione deve porsi durante il regno di Valeriano e Gallieno, poco innanzi alla spedizione contro i Persiani, così misera- mente terminata nel 260; quali vengano a combattere la congettura che Aureliano sia stato il fortunato vincitore dei Franchi sotto Gor- diano III. Altre considerazioni, indipendenti dal racconto vopisehiano, ci fanno abbandonare l'ipotesi che sotto questo principe ci sia stato con i Franchi qualsiasi combattimento vittorioso, del quale l'avveni- mento non trova conferma in nessuna moneta o epigrafe, ma di cui si vorrebbe ricavare la notizia dalla molto ambigua e molto dubbia testimonianza di Capitolino.

Che questo avvenimento sia da porre sotto il regno di Valeriano e Gallieno , parecchi critici hanno pensato. F se alcuni non hanno veramente spiegato da quali ragioni essi siano stati mossi a stabilire questa cronologia , come il Clinton * , il Duruy ? , lo Schiller 3 e il Mommsen ', qualche altro s'è fermato a discutere la quistione, e con

1 Fast. I, 278; all'anno 256.

2 Hi8t. des Romains , Paris 18 9 , VII , p. 332. Egli veramente non precisa l'anno , ma pone la vittoria di Aureliano durante la campagna laboriosissima di Gallieno contro i Germani; sicché, forse, verso il 256. Ma non è vero che la data di questo fatto « est tout à fait iucertaine ì> pel Duruy, come afferma il Goyau (1. e.)

3 Gesch. der Boni. Kaiserzeit, Gotha 1883 I, p. 815 n. 3.

4 II Mommsen. I'rov. Rom. (tr. De Ruggero) Rooia 1887. I, p. 151, non parla di questo fatto, ma pensa però che adesso, sotto Valeriano e Gallieno, i Franchi, apparsi per la prima volta, prendano l'offensiva contro i Romani.

PARTE I. DI UNA PRETESA DISFATTA DEI FRANCHI. 89

acutezza , come il Becker f e il Bernhardt 2 ; certo, però, non suffi- cientemente.

Argomento per me principalissimo, a convincere che sotto Va- leriano sia da porre la vittoria in quistione, è nella lettera di que- st' imperatore a Ceionio Albinio , riferita da Vopisco 3. Tale lettera pel fatto che viene indirizzata a chi allora era prefetto di Roma, porta con se la data del 250. In essa Aureliano viene chiamato liberator lllyrici et GaUiarum restitutor. Sarebbe da concludere che tale frase alluda ai due scontri di Aureliano con i Sarmati e coi Franchi, dei quali poco innanzi ha parlato Vopisco. Mi parrebbe illogico infatti pensare che Valeriano parlasse con tanto entusiasmo ' di vittorie avve- nute parecchi anni avanti, quando il vantaggio conseguito con esse sarebbe stato reso inutile dal sopravvenire di nuove inondazioni bar- bariche sul territorio romano. 11 ricordare tali vittorie, avvenute pa- recchi anni avanti il 2ÒI), quando l'imperatore stesso e il figlio Gal- lieno dovevano difendere appunto quel territorio che invece si ver- rebbe a dire reso libero e sicuro da Aureliano , significherebbe non far elogi di quest'ultimo, ma berteggiarlo atrocemente. si può pen- sare che la lettera di Valeriano sia ironica, che anzi quel linguaggio così entusiastico trova spiegazione precisamente nella contempora- neità di questi due fatti : le vittorie di Aureliano e la lettera del principe.

Che dunque in tale lettera ci sia un argomento di molta impor- tanza per assegnare la data alla vittoria sui Franchi, è. per me, inne- gabile. Ma contro il valore di quest'argomento si fanno opposizioni.

Vi ha di quelli i quali , poiché Vopisco, come gli altri Scripto- res H. A. fu proclamato reo di falsità, spingono la loro circospezione, quanto al servirsi di certe notizie da lui forniteci , fino al punto di non servirsene affatto. Le notizie (cosa davvero curiosa) delle «inali pare che specialmente si dubiti, sono quelle che appariscono in veste ufficiale nella Raccolta delle biografie dei principi. La lettera di Vale- riano, la quale ci fornisce un dato di così rilevante importanza , ha dunque il peccato originale d'appartenere alla Storia Augusta. Si com-

1 Imp. L. Domitius Aurelianus reni, orò.. Monastero 1866 p. 12-13 n.

2 Geschichte lìoms von Valeriana bin zu Diocletians Tode, Berliu 1867, p. 20 u.

3 Aurei. 9, i.

4 1. e.

90 U. GIRI. PARTE I.

prende però che tali peccati, come altri del medesimo genere, hanno di originale soltanto il giudizio che su di essi si suole portare. Pel caso nostro, mi piace infatti di notare che nessuna prova esiste per congetturare che sia falsa la lettera di Valeriane In ciò è convenuto anche l'Homo ' che l'ha esclusa dai documenti dei quali ritiene sicura la falsificazione.

Ma ammettiamo che tale lettera sia falsificata: che ne consegue? che sia falsa anche la notizia riferita! Sarebbe molto strano che, men- tre si presta fede a una notizia qualsiasi riportata dalla Storia Augu- sta, purché non si trovi in opposizione con altre delle quali la fonte si ritenga meno torbida, poi si venissero a mettere in dubbio , anzi non si considerassero affatto quelle notizie, forniteci ugualmente dalla Storia Augusta , solo perchè esse ci appariscono in una forma uffi- ciale la quale vorrebbe che loro prestassimo fede maggiore.

Sicché pur concedendo anche che la lettera di Valeriano non sia che uno squarcio di una non bella prosa vopischiana, non è certo da s rigettare ciò che in essa si dice, se non appaia evidentemente errato.

^Nel peggiore dei casi dunque dovremo concludere che Yopisco ha messo sotto forma epistolare una notizia eh' egli ha appreso da una sua fonte, la quale doveva dire che la vittoria di Aureliano sui Franchi avvenne nel 256; certo durante il regno di Valeriano e Gallieno.

Ad altri critici poi, e sono quelli che esaminarono la quistione prima del famoso atto d' accusa del Dessau , le parole della lettera di Valeriano fornirono argomento per sostenere che la vittoria sui Franchi fu precedente al regno di quest'imperatore.

Il Tillemont, a cagione d'esempio, ritiene che le parole contenute nella lettera di Valeriano, con le quali Aureliano viene detto liberator Illyrici et Galliarum restitutore non si riferiscano a quelle vittorie sui Sarmati erumpentes in lllyrico e sui Franchi inruentes, cum vagaren- tur per totam Galliam, delle quali precedentemente Vopisco ci ha par- lato. La ragione di questo ragionamento sta nel fatto che non pare al Tillemont corrispondente grande titolo a ciò che lo avrebbe cau- sato, cioè ai « mille Francois qu'il (Aurélien) avait pris ou tuez vers Fan 242» e alla « simple qualité de tribun». In altri termini la vit- toria sui Franchi dovrebbe essere del tempo anteriore a Gallieno per- chè, come trovo nel Dritter Excursus del Wietersheirn-Dahn 2 e come in fondo ripetono più o meno, senza portare altri argomenti, i soste- nitori di questa cronologia, « er damals nur Tribun der sechsten Le-

1 Op. cit. p. 13.

2 Op. cit p. 622 n.

PARTE I. DI UNA PRETESA DISFATTA DEI FRANCHI. 91

gioii war, Ienes Erhebung aber schon viel hoher in Dienat gestanden haben muss, weil es in Frage kam, Gallien seiner besondern Leitung anzuvertrauen (Vopiscus a. a. O. e. 8)».

Davvero che queste argomentazioni non mi pare abbiano grande valore ! Al Tillemont che crede di poter arguire dal numero dei mille Franchi presi od uccisi presso Mogontiacum , che il combattimento sia stato di importanza così trascurabile che Aureliano non possa, per questo, aver meritato il titolo di restitutor Galliarum, osservo che Vopisco ci tale cifra come quella dei nemici fatti prigionieri e uc- cisi dal solo Aureliano.

Per vero tale autore, anche poco innanzi, dandoci notizia della

vittoria sui Sarmati nelF Illirico, dice che 1 refert Theoclius Aure-

lianum manu sua bello Sarmatico una die quadraginta et octo interfe- cisse,plurimis aiitem et diversis diebus nongentes quinquaginta. Che poi Aureliano , perchè solamente tribuno , non potesse aver meritato il titolo di restitutor Galliarum, non si comprende. Xon è raro il caso che un tribuno possa venire eccezionalmente a sostituire un vero e proprio legatus, massime trovandosi a capo di parecchie vexillationes formanti un contingente di uomini spesso superiore di molto a quello d'una legione. Che dunque Aureliano a Magonza, ch'è quanto dire in un punto strategico di prim' ordine , in una posizione che domina e sbarra il vero adito alla Germania, collocata com'è fra la catena del Taunus da un lato e i declivi dell' Odenwald parallelamente dall'altro, abbia potuto, con le milizie di cui disponeva, riportare una splen- dida vittoria sui Franchi, non vedo perchè debba parere strano. Nulla di straordinario dunque che Aureliano , tribuno, possa avere in una speciale circostanza, e anche per qualche tempo, salvato il paese che difendeva, reso un grande servigio alle Gallie così da meritare il ti- tolo che troviamo nella lettera di Valeriano. Del resto, potrebbe avere il principe anche abbondato nelle lodi del tribuno ed avere ingran- dito la vittoria , tanto più che la direzione generale della guerra era dei sommi governanti, e tali elogi indirettamente venivano a rica- dere sopra di essi.

Ma nella storia poi ci sono vittorie colossali, immensi scontri di uomini, i quali non portano cambiamenti sociali e politici così impor- tanti, come alcuni fatti piccolissimi in apparenza.

Dumouriez, coll'occupazioue della foresta d'Argonne, nel 1791'. col suo conseguente allacciarsi col Ivellermann su Valmy e col relativo cannoneggiamento, rende alla Francia un servigio ben più grande di quello che non rendesse più tardi Napoleone con qualche sua splen- dida vittoria. Xel caso nostro però non si sostiene neppure che Aure-

92

liano abbia prodotto un bene duraturo al paese che difendeva : si vuol spiegare solo una frase che potè essere stata scritta appena dopo la vittoria, nel 25G.

Del resto conferma questa nostra congettura una epigrafe del 256 l la quale a Valeriano il titolo di Germanicus Maximus ; ed un'altra ancora 2 , del medesimo anno, che lo stesso titolo a Gal- lieno. Onde non è improbabile che la vittoria di Aureliano sui Fran- chi sia stata riportata nel nome dei principi regnanti; e mi pare evi- dente allora che ad essa si debba attribuire la data del 256 , ossia quella della lettera di Valeriano in cui a tale vittoria si accenna.

L'argomento del Tillemont credo che per tutto questo non ab- bia più valore.

Naturalmente le osservazioni del Wietersheim che hanno tanto di comune con quelle del Tillemont non appariscono pia solide. Solo al Wietersheim osservo che nessun argomento abbiamo per ritenere che Aureliano sotto Valeriano e Gallieno fosse salito molto più in alto, nella carriera militare, di quello che non ci apparisca quando, tribuno, vinse i Franchi presso Magonza. Il e. 8 dell' Aurelianus parla di una lettera scritta a Valeriano, nella quale si muove rimprovero al principe, d'aver affidato il giovane nepote suo Gallieno iuniore, Cesare, invece che ad Aureliano, a Postumo, cui non si sarebbe dovuto affidare neanche l'esercito. Ora nulla di strano in tutto questo , se si ammette che Aureliano, per la recente vittoria, si fosse, come si dice, rivelato e fatto conoscere ufficiale dei più valorosi e stimabili. Certo, se il punto forte delle argomentazioni del Wietersheim è qui (e non vedo che sia altrove) , bisogna pur concludere che esse sono molto deboli.

apparisce senza stranezze il fatto che l'Homo, mentre giudica « impossible d'admettre la chronologie de Th. Bernhardt et de H. Schil- ler 3 (dimentica il Becker) citi , a sostenimento della sua tesi , il Wietersheim- Dahn 4; di cui dunque accetta il ragionamento poggiato in modo precipuo su un documento eh' egli in altro luogo dichiara falso, e quindi privo di valore. Infatti la lettera che Vopisco riferisce al

1 C. I. L. Vili 2380.

2 C. I. L. Vili 2381 . Sebbene questa epigrafe segui la TR. POT. Ili di Gallieno, ciò che la farebbe del 255, mi pare che debba accettarsi l'ipotesi messa fuori nel commento che a tale epigrafe trovo nel Corpus : che cioè il III sia da scrivere IIII. Infatti questa iscrizione e quella antecedente di Valeriano sono in basi gemelle e appartengono al medesimo anno.

3 Op. e. p. 33 n. * Op. cit. p. 13.

PARTE I. DI UNA PRETESA DISFATTA DEI FRANCHI. 93

c. 8 dell' Aurelianus , indirizzata da Valeriano al console Antonino Gallo, è il primo dei documenti per i quali l'Homo riconosce sicura la falsificazione.

Ma un altro lato debole di tutto il ragionamento del Tillemont Wietersheim (poiché quello dell'uno si compcnctra e si compie in quello dell'altro), è in questo, che il Tillemont è poi costretto ad ammettere poco innanzi il 256, e proprio nel 255, una vittoria di Aureliano sui Germani, la quale gli faccia meritare il nome di restitutor Galliarum. Così nel Dahn : « Dass er aber auch unter Valerian und Gallienus sich gegen die Germanen auszeichnete, beweisen Valerian' s Worte (ebenda e. 9), der ihn Galliarum restitutor nennt ». Ma dunque Vo- pisco avrebbe narrato della vita di Aureliano due fatti di poca im- portanza, mentre avrebbe taciuto di due grandi vittorie che a quello avrebbero, più tardi, guadagnato i titoli di liberator Iltyrici e di resti- tutor Galliarum! E lo strano è questo, che Aureliano fra il 253-56 avrebbe riportato due vittorie , come verso il 242-44; e proprio con- tro i medesimi popoli die avrebbe vinto dieci anni innanzi ! La con- gettura di questa seconda edizione delle due vittorie d'Aureliano, non confermata dal più lontano accenno, dal più piccolo indizio , giudico assolutamente insostenibile.

Da quanto s' è detto mi pare che risulti in modo molto chiaro che milita dalla parte nostra un argomento d'importanza indiscutibile. Altre considerazioni ci confermano nel nostro convincimento. Si è veduto che la vittoria sui Franchi fu preceduta da un'altra sui Sarmati. Un verso della cantilena, cantata in quell' occasione, di- ceva infatti: Mille Sarmatas , mille Francos semel et semel oceidimus. Ora si cerca di determinare la data di questo combattimento sarmatico. Dice Vopisco : ' Erumpentes Sarmatas in Illirico cum trecentis

praesidiariis solus (Aurelianus) adtrivit. Refert Theoclius Aurelia-

num manu sua bello Sarmatico una die quadraginta et oclo interfe- cisse etc.

Vediamo se tale fatto possa collocarsi durante il regno del terzo Gordiano: se ciò non è, per questo stesso, noi dovremo ritenerlo acca- duto sotto Valeriano e Gallieno, tanto più che non ci mancherà un argomento per riferire la vittoria sui Sarmati proprio al tempo di questi principi. Se noi dovessimo prestar fede al silenzio eloquentis- simo delle epigrafi e delle monete, dovremmo subito concludere che da Gordiano, da altri sotto il nome di lui furono vinti mai i Sarmati. Ma contro tale conclusione starebbe la testimonianza <li

1 Aurei. 6, 3 segg.

94 U. GIRI. PARTK I.

Capitolino, die riferisce l'epitaffio che ci vnol far credere sia stato posto sulla tomba del giovane principe. Esso sarebbe stato così for- mato i : Diro Gordiano viatori Persarum , victori Gotìiorum , victori Sarmatarum Repulsori Eomanarum seditionum, sed non viatori Philip- porum. Aggiunge poi lo stesso storico chiosando tale epitaffio: 2 quod ideo videbatur additimi , quia in campis Philippis ab Alanis tumultua- rio proelio rictus abscesserat , simul etiam, quod a Philippis videbatur occisus. Non so chi voglia prestar fede a tale epitaffio così com'è com- posto ; che non isfugge che in esso la tendenza , la quale appare a prima giunta molto chiara, di glorificare il principe si trovi in forte contrasto con la chiusa indubbiamente ironica.

Il Wietersheim pensava : 3 « es liegt seher nahe , in dieser In- schrift, eine mystification Capitolina zu vermuthen.

Se tale epitaffio, scritto et Graecis et Latinis et Persicis et Iudai- cis et Aegyptiacis litteris non è uno scherzo dei soldati, tollerato da Filippo, e quindi di nessun valore storico, cerchiamo di trovarne la interpretazione.

Capitolino dice 4 che Gordiano, nel 242, cum exercitu ingenti et

tanto auro ut facile evineeret Persas , movendo alla guerra 5 feeit

iter in Moesiam atque in ipso procinctu , quicquid hostium in Thacia fuit, delevit, fugavit, expulit atque submovit.

Dunque nessun'impresa , nessuna vittoria avanti il 242 , avanti di partire per la spedizione persiana. Si apprende infatti che fino a quest' anno egli attese a tutt' altro che alla guerra. Le 240 costitu- zioni che nel codice Giustiniano portano il suo nome mostrano la grande attività legislativa del suo governo. Pertanto se dal 238 al 242 non avvenne alcuna guerra, e se la pace non fu turbata che in quest'anno in cui Gordiano aprì, per l'ultima volta, il tempio di Giano, quando sarebbe avvenuto il bellum Sarmaticum di cui parla Vopisco, durante il quale Aureliano riportò il noto brillante successo? L'Homo 6 è molto sbrigativo nel risolvere la questione; dice : « il est question, en 242 , lors du depart de Gordien III pour la campagne d' Orient,

d'une guerre contre les Sarmates ; peut ètre (on ne peut se pro-

noncer avec certitude) , la victoire d' Aurélien sur les Sarmates se

1 Gordian. 34, 3.

2 Ib. 34, 4.

3 Op. cit. p. 193.

4 Gord. 26, 3.

5 A-20, 4.

6 Op. cit. p. 31,

PARTE I. 01 UNA PRETESA DISFATTA DEI FRANCHI. 95

place-t-elle à ce moment, ou est-elle légèrement antérieure », Ma noi qui non domandiamo quando possa essere accaduto il combattimento in cui si segnalò Aureliano , che potrebbe, considerato in sé, essere seguito anche adesso, come pensa l'Homo; ma invece quando sia acca- duto il bellum Sarmaticum, di cui lo scontro di Aureliano non fu che un episodio. Ora tale guerra bisogna pur concludere che sotto Gor- diano non potò aver luogo. Principalmente perchè , dato che questo principe abbia vinto i Sarmati, ciò potrebbe essere stato in qualche combattimento e non in una guerra; di poi tale zuffa sarebbe avve- nuta nella Tracia e non nell'illirico, come vuole il passo vopischiano. Se l'Illirico fosse stato invaso dai Sarmati e fosse stato da Gordiano liberato al momento del suo passaggio per la guerra persiana , Capi- tolino non ce lo avrebbe taciuto. Tanto più che , dandoci notizia di grandi vittorie nella Tracia, doveva poi contradirsi parlandoci della sconfìtta patita da Gordiano a cagione degli Alani. Dunque anche gli scarsi accenni che troviamo nella //. A. ci confermano una notizia che e monete ed epigrafi ci forniscono col loro silenzio. Sicché il ti- tolo di Victor Sarmatarum che si sarebbe trovato sull'epitaffio di Gor- diano, va interpretato in modo molto differente da quello che non si faccia. Se esso non è proprio una invenzione di Capitolino, dobbiamo pensare che sia improntato a quell'ironia che evidentemente traspare nella sua chiusa. Un medesimo sentimento deve per ciò avere ani- mato l'autore o gli autori di esso. Non potrebbe allora, con quel Victor Sarmatarum, essersi fatta allusione alla sconfitta toccata da Gordiano in campis Philippis, a cagione della popolazione Sarmatica degli Alani dai quali non è illogico che abbia liberata la Tracia, con quel tanto auro che aveva portato con se ? Sono spinto a interpretare così il signi- ficato dell'epitaffio, anche dalla considerazione che, altrimenti, in esso si verrebbe a dire che Gordiano fu prima vincitore dei Sarmati e poi dei Sarmati non vincitore. credo che differente mante debba interpre- tarsi il Victor Germanorum. Anche Caracalla sarebbe stato chiamato Geticus per l'uccisione di Geta.

Dopo tutto questo mi par che possa stabilirsi che il bellum Sar- maticum cui accenna Vopisco, che ebbe per teatro l'Illirico e di cui fu episodio il combattimento vinto da Aureliano, non accadde sotto lo imperatore Gordiano,

Ciò, l'abbiamo detto, sarebbe sufficiente per farci concludere che la guerra in quistione sia del tempo di Valeriano; ma che proprio sia così, lo vediamo subito. Come Aureliano si segnalò grandemente bello Sarmatico, similmente, racconta Vopisco ', si segnalò Probo, cum bello

1 Prob. e. 5,

96 U. GIRI. PARTE I.

Sarmatico iam tribunus multa fortiter fecisset. Di tutte le Vite, sola- mente in questi due luoghi accenna Yopisco ad un bellum Sarmati- cum, e mi sembra die tanto nell'uno, come nell'altro alluda alla guerra medesima: appare chiaro ch'egli, non usando nei due casi determina- zioni speciali, abbia presente alla mente un unico bellum.

Or dunque se Probo era già tribuno al tempo della guerra sarma- tica, poiché tribuno fu fatto da Valeriano l, la detta guerra non è antecedente al regno di questo principe o, almeno, continua sotto di lui. E poiché il bellum Sarmaticum è antecedente alla vittoria d'Au- reliano presso Magonza, questa non può essere anteriore al regno di Valeriano. Altre considerazioni non saranno inutili: Vopisco dice 2, parlando dei multa omina sul regno di Aureliano : nani ingrediente eo Anthiochia in vehiculo, quod prae vulnero tunc sedere non posset, ita

pallium purpureum, quod in lionore eius pansum fuerat decidit ut

Data est ei praeterea cum legatus ad Persas isset , patera qualis solet imperatoribus dari a rege Persarum. Pare a me che si possa mettere in relazione quest' ambasciata di Aureliano ai Persi col verso della nota cantilena che terminava con le parole : mille Persas quaerimus. Credo che nel 256 la sesta legione o parte di essa, abbia seguito la spedizione di Valeriano. Si sa quali siano state le vicende di questa guerra, e come, costretto l'imperatore dopo aver liberato Antiochia a tornare indietro per la comparsa dei Goti nella Bitinia, si sia pro- tratta fino al 260. Penso che 1' ingresso di Aureliano, ferito, in An- tiochia coincida conia liberazione della città per le soldatesche di Vale- riano. È noto quale sia poi stata l'ultima fase di questa campagna: come Valeriano abbia tentato di far pace con Sapore ed abbia spe- dito al re Persiano ambasciatori con doni ricchissimi. Penso che questa sia l' ambasciata alla quale partecipò Aureliano. Sapore è molto probabile che abbia ricevuto i legati, e senza trattar con essi, per mascherare meglio il piano di trarre in agguato lo stesso impe- ratore, li abbia rimandati con doni ugualmente ricchi , chiedendo di trattare con Valeriano in persona. (Ili accenni contenuti nel racconto vopischiano appariscono dunque fatti a questa spedizione contro i Per- siani. In questo modo non colloca l'Homo gli avvenimenti; poteva così collocarli avendo cambiato la cronologia di essi. Egli infatti ri- tiene che l'ambasciata d'Aureliano possa essere avvenuta fra il 244 e il 251, probabilmente sotto Decio. Ma di essa dubita assai; e come

1 Prob. 3, 5. Adulescens Probus corporis riribus tam clarus est facttis, ut Vale- riani iudicio tribmiatum prope inberbis acciperet. Cfr. anche e. 4 e 4, 3.

2 Aurei. 5. 3,

PARTE I. DI UNA PRETESA DISFATTA DEI FRANCHI. 97

non dovrebbe, dal momento che, errando la cronologia dei fatti, tale notizia apparisce ben poco sostenibile ì E per vero , se si vuole che Aureliano non possa nel 256 aver vinto come tribuno i Franchi a Ma- gonza, poiché il titolo di restitutor Galliarum apparisce troppo grande per un semplice tribuno, come si può ritenere di poi, che con questo grado sia andato ambasciatore ai Persiani e abbia ricevuto doni che sogliono essere fatti agl'imperatori ? Non è questa una contradizione ?

Altre considerazioni di minore importanza potrebbero ancora es- ser fatte. Per esempio , ponendo la vittoria d'Aureliano sui Franchi nel 256, si viene a stabilire ch'egli, nato nel 214, raggiunse il grado di tribuno verso il quarantesimo anno. Ciò che è molto naturale, se si considera l'origine oscurissima del futuro imperatore, la quale non potè permettergli di entrare nell'esercito, verso il 234, che nella qua- lità di semplice soldato. Ammettendo la vittoria sui Franchi fra il 242-44, egli, che in tale occasione era tribuno , avrebbe fatto, come si dice, carriera così eccezionalmente rapida da sorprenderci e mera- vigliarci. L'Homo il quale nota da un lato clic « Page legai pour l'ob- tention du tribunat légiannaire était trente ans, e riconosce dall'altro che Aureliano nacque il 9 settembre del 214 , afferma che « il n' a pu Otre nomine tribun de legion avant les dernières anneés de Gor- dien III (vers 242-244), au plustot ». Ma dunque nel 242 egli non aveva compiuti i trent'anni , e quando li compiva (il !► settembre del 244) Gordiano Terzo era già l morto da parecchi mesi. Ed allora, mi servo delle parole del Becker in opposizione al Wietersheim Philippus Arabs ineunte imperio pacem fecerat cum Persis ita, ut Francis 244-240 pro- stratis milites non cecinisset: mille Persa* quaerimus.

Termino dunque riassumendo cosi : la prima vittoria di Roma sui Franchi, di cui si abbia vera e propria notizia non può essere acca- duta che durante il regno di Valeriano e Gallieno, e probabilissima- mente nel 256 : contro tale data non esiste alcun vero argomento clic possa farci pensare per questo fatto al regno di Gordiano, durante il (piale, però, non si nega che i Franchi possano avere scorazzato la Gallia 2.

1 Ciò osservo all'Homo che. per la sua tesi, si serve di questo argomento.

2 Le monete descritte dal Blauchet (on. cit. rinvenute nei territori che fu- rono teatro delle invasioni de' Franchi, non hanno importanza per la quistione, ne si comprende quale sia il valore che ad esse attribuisce 1' Homo che le cita. Del resto è bene avvertire che lo stesso Blanchot , nella parte cronologica della sua opera, a p. 9 , si limita a dire che - e' est probablement en 241 , qu' Aure- licn défit les Francs, prcs do Mayence. »

Soma.

Ugo Giri.

TRAIANI DUO

in numis a Treboniano restitutis.

Nella Sezione di Numismatica del Congresso internazionale di Scienze storiche adunato in Roma nell' aprile del 1005 , e alla pre- senza appunto dell' illustre scienziato cui si dedica questo volume, chi scrive aveva P onore di svolgere una comunicazione che qui per sommi capi si riassume :

La notissima serie di denarii del III secolo, cosidetti antoniniani, colla effigie e il nome di un imperatore divinizzato nel dritto (DIVO AVGVSTO , DIVO VESPASIANO, DIVO TITO, ecc.), e col rovescio della CONSECRATIO (un' aquila od un' ara), dopo lunghe discussioni non ha potuto ancora ada- giarsi in una sede soddisfacente e definitiva.

Gli scrittori dei secoli XVII e XVIII propendevano ad attribuirli al re- gno di Gallieno, e quest'opinione fu seguita generalmente anche dai tratta- tisti e dai raccoglitori del secolo XIX , sullo scorcio del quale tuttavia co- minciò a prevalere l'opinione che vadano piuttosto assegnati a Filippo.

Lo scopo di questa mia breve comunicazione uon è di esporre o va- gliare gli argomenti che militano per l' una o per l'altra di queste attribu- zioni. Ciò equivarrebbe al ripetere cose risapute, e all'arrogarmi un'autorità cui non posso menomamente pretendere. Mio scopo è di apportare invece una modesta pietruzza all'edificio, senza illudermi di poterne coronare il fa- stigio.

Gli antoniuiani di cui parliamo sono dedicati ad undici imperatori : Augusto, Vespasiano, Tito, Nerva, Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio, Commodo, Settimio Severo e Sev. Alessandro. È soltanto di quelli di Traiano che intendo occuparmi.

Essi presentano la singolarità che l'effigie dell'ini iteratole offre due tipi diversi.

Il primo ha il tradizionale ritratto di Traiano , quale siamo avvezzi a vederlo sulle monete contemporanee di quell'imperatore, coi capelli disposti a larghe ciocche arrotondate.

Nel secondo , il busto di Traiano ha i capelli non disposti a ciocche ma uniformemente tratteggiati, come p. es. sulle monete di Treboniano Gallo; e , particolare curioso, il ritratto dell' imperatore è assai differente, presen-

TRAI ANI DUO. 99

tando un' altra fisonomia caratterizzata soprattutto dal naso spiccatamente aquilino.

Ebbene, s'io non m'inganno, qui ci troviamo di fronte, non a due tipi della stessa moneta , ma a due imperatori diversi : il primo è veramente Traiano; il secondo è Traiano Decio.

In tal caso , siccome Traiauo Decio è il successore di Filippo , queste cosidette « restituzioni » o « consecrazioni » non si possono evidentemente più attribuire a Filippo , ma si devono attribuire invece a qualcuno dei successori di Traiano Decio ; senz' essere necessario per questo di scendere sino a Gallieno.

Si ritornerebbe insomma , per altra via , alla conclusione formulata da Eckhel, che cioè quella serie deva essere stata approssimativamente emessa nel periodo tra Filippo e Gallieno.

E, se mi è lecito esprimere il mio avviso persouale, pure per altra via risalirei all'ipotesi del Pellerin, che cioè appartenga al regno di Treboniano Gallo, ipotesi che quell'autore sostiene con plausibili ragioni.

Veramente, chi scrive s'immaginava allora che non occorressero ulteriori dimostrazioni per appoggiar la sua tesi, fuorché l'esibizione dei calchi delle due monete; esibizione ch'egli si affrettò a fare, ot- tenendo dagl' intervenuti queir immediato consenso che risulta da' verbali del Congresso.

La comunicazione fu poi inserita nella Rivista Italiana di Nu- mismatica i e ristampata negli Atti del Congresso 2 ; e se passò ge- neralmente inosservata, o trovò fors'anche più d'un incredulo (perchè le riproduzioni dai gessi riuscirono, a dir vero, assai confuse), ebbe tuttavia una recensione che qui ci permettiamo di riportare, quantun- que troppo benevola. La riportiamo per due motivi : anzitutto per che rinforza con un altro argomento quelli clic avevamo addotti a sostegno della nostra tesi, poi perchè accentua il modo più che guar- dingo in cui l'avevamo enunciata, com'era ben doveroso in chi (pur essendo intimamente convinto di non aver torto) sapeva di porre il piede su terreno malfido e in cui poteva passare per un intruso. In- fatti, i precedenti scientifici qualsiansi dello scrivente non compren- devano nessuna indagine particolare intorno alla monetazione roma- na ; ed egli aveva poi il peccato originale di non essere un ar- cheologo uè uno storico ma un semplice numismatico, e (quel eh' è peggio) con predilezioni medievalistiche.

1 Ami» XVI (1903), fase. II pag. 193-200, con 2 fotoincis. nel testo.

2 Voi. VI, Atti della Sez. IV: Xumismatica, Roma, 1901 pag. 93-99.

100 S. AMBROSOLI.

La recensione in parola uscì nel Bollettino di Numismatica l, ed era del tenore seguente :

« L'a. con questo lavoro ha fatto una scoperta che sarebbe un « vanto anche per il più dotto specialista di numismatica romana ; « e noi siamo più che convinti delle ragioni che V a. espone quasi « timidamente, mentre avrebbe potuto darle come un fatto assoluta- « mente certo e pel quale non si possono fare obiezioni. Però noi, «quantunque non ce ne sia il bisogno, ci arrischiamo a portare un « altro argomento a sostegno della tesi dell'a. ; ed è il fatto dell' e- « sistenza di una moneta di Augusto (Cohen n. 579) col diritto DIVO « AVGVSTO e testa radiata a d. assolutamente identica al tipo delle «consacrazioni di cui tratta l'a., ma il cui rovescio, anziché CON- «SECRATIO, è invece IVNONI MARTIALI , cioè quello comunissimo « di Treboniano e Volusiano. È evidente quindi che questa moneta è « un prodotto dell'ibridismo causato dalla confusione dei coni, il che « non poteva accadere se gli zecchieri non avessero coniato contem- « poraneamente le monete di consacrazione e quelle di Treboniano « Gallo e di Volusiano 2 ».

Ciononostante, leggevamo più recentemente, in altro periodico 3, un cenno in cui parlando della nostra comunicazione inserita negli

Atti del Congresso, si diceva : « queste affermazioni abbisognano

« certamente di prove maggiori prima d'essere accettate ».

Ebbene, siamo lieti che qui ci si presenti l'occasione di addurre appunto nuove prove a sostegno , non già delle nostre « affermazio- ni », ma delle ipotesi che molto guardingamente, molto modestamente come si è visto, avevamo creduto di poter formulare.

Queste prove o questi argomenti, s'intende, non devono tener conto della diversità d'effigie, devono farne anzi completa astrazione, ed aver forza indipendentemente da essa.

Anzitutto , si è visto che gli antoniniani in discorso sarebbero coniati in onore di undici imperatori. Non è strano questo numero di undici ì Non si presenta spontanea la suggestione che se ne deva aggiungere per lo meno un altro e formare così (come dicevamo nella nostra succinta memoria) una serie di dodici imperatori divinizzati4?

1 Anno II, N. 2, Milano, febbraio 1904.

2 Quest'acuta osservazione, alla quale gli scrittori del Bollettino sono giunti per penetrazione propria, si trova già nel Pellerin, Ilecueil des médailles des Peuples et des Villes, t. Ili, Paris, 1743.

3 Bollettino della Società pavese di Storia patria, fase, del marzo 1905.

4 «.... una serie completa di dodici imperatori divinizzati, come vi erano do- » dici dii consentes » ,

TRAIANI DUO. 101

Troviamo adombrato implicitamente questo concetto anche in un articolo assai importante del eli. Prof. Kubitschek dell'Università di Vienna, intorno ad un ripostiglio scoperto cinque anni fa nella Ser- bia, articolo che avremo occasione di citare ancora.

« Sembra egli scrive che la lista di codeste monete di con- « sedazione non deva più accrescersi , o per lo meno non deva ac- « crescersi notevolmente. Dei 24 tipi che ci offre la serie, 23 erano « già conosciuti sin dal tempo di Eckhel, anzi erano già rappresen- « tati prima del 1743 nella collezione dell'Abate de Rothelin. Vi è « è quindi ben poca probabilità di completare con qualche altro no- « me la lista dei divi , p. es. con quello di Cesare , Claudio , Vero , « Pertinace, Caracalla, Gordiano o con altro qualsiasi l ».

Infatti, nella collezione dell' Ab. de Rothelin figuravano già i no- mi di tutti gli undici imperatori dei quali si conoscono sino ad oggi gli antoniniani di consecrazione 2. Un secolo e mezzo di ricerche non valsero ad aggiungere un solo nome a quell'elenco. Crii è che appunto (a nostro modo di vedere) si cercava troppo lontano; e il duodecimo nome mancante era già incluso nell'elenco, era quello cioè di Decio, nascosto sotto l'ingannevole forma : DIVO TRAIANO.

L'identità del nome inducendo in errore osservavamo nella no- stra comunicazione, occultò sinora ai numismatici la diversa indi- vidualità dell'imperatore, che ai tardi nepoti ha potuto sfuggire, tanto più trattandosi di monete piuttosto rozzamente eseguite; ma nel III secolo (cioè all'epoca dell'emissione di esse) l'identità del nome non poteva produrre contusione, essendo allora familiare a tutti il ritratto recente di Decio.

Cosi, se oggi ]>. es. un busto riproducesse le sembianze del no- stro giovane Sovrano, e recasse la semplice scritta: Ke Vittorio) e un altro, con la medesima scritta, raffigurasse invece il defunto Pa- dre della Patria, chi mai li confonderebbe .'

L'epigrafìa romana, d'altronde, non ha esempì di nomi identici ad indicare personaggi diversi .' Basti il ricordare Caracalla ed Elio- gabalo.

Si potrebbe forse obbiettare che Traiano è un semplice cogno- me di Decio, e che la forma regolare della leggenda dovrebb' essere piuttosto : DIVO DECIO. Ma si può rispondere che precisamente e

1 Knbitschek (Wilh.) Ehi Fund romischer Antomnine au* Serlien. In Numi- xmat. Zeitschrift, Vienna, 1901, pag. 191-92.

2 Vaillant (Joannes), Xumismata Impcratorum Ilomanorum praestantiora. T. II. Komae, 1713 pag. 373-74.

102 S. AMBROSOLI.

soltanto in codesti antoniniani di restituzione abbiamo anche un al- tro esempio di una forma che si scosta dall'uso , cioè DIVO MARCO per Marc' Aurelio.

D'altra parte, la forma DIVO TRAIANO, usata per Decio, lo as- similava al grande Traiano , ed era quindi mirabilmente adatta per una moneta onoraria (tanto più , diciamo , se emessa per ordine di Treboniano Gallo; il motivo lo vedremo in sèguito).

Ben più grave sarebbe 1' obbiezione che Traiano Decio non fu divinizzato , e che quindi non possa riferirsi a lui una moneta col predicato divo.

Avevamo già tentato di prevenire quest' obbiezione col citare Eutropio, al dire del quale, Decio dopo la sua morte fu divinizzato, sia poi solo od unitamente al tìglio Erennio \ È vero che Eckhel motteggia Eutropio per la soverchia liberalità nel concedere questo onore agl'imperatori di cui narra le vite 2; ma, dicevamo, forse 1' il- lustre nummografo vi sarà stato indotto dal non trovarsi monete di consecrazione di qualche altro imperatore del quale pure Eutropio afferma che fu divinizzato. E aggiungevamo che almeno per Decio l'informazione di Eutropio ci sembrava ricevere una conferma dalla numismatica (ossia dal nostro antoniniano).

Ma ora abbiamo la soddisfazione di poter dire che l'informazione di Eutropio è suffragata da un' altra testimonianza e da altre auto- rità, di ben maggior momento delle povere nostre parole.

Poco prima cioè del Congresso di Roma , nel fase. 2 dell' anno 190U del Bullettino di quell' Imperiale Istituto Archeologico Germa- nico , (fascicolo che allora non avevamo avuto occasione di consul- tare), il eh. Prof. Hiilsen pubblicava un'Iscrizione col nome del Divo Decio 3. E nel pubblicarla osservava : « L'epigrafe fornisce l'unica te-

1 Eutropius, breviarium ab Urbe condita [ed. Kuehl]. Lips. 1887, IX, 4 : « Cuui iniperassent biennio ipse [Decina] & nlius , uterque in Barbarico iuterfecti sunt. senior meruit iuter divos referri».

2 Eckhel, Dottrina numorum veterum, Voi. Vili, Viudobonae , 1798 pag. 463: « Augeri poterit numerus ex testhnouiis veterum aliis, ac praecipue Euoropii, in «conferendo consecrationis honore perquain liberalis ».

Cfr. anche Stevenson , A Dictionary of Roman Coins (London , 1889 pagi- na 313J : «Eutropius, ever liberal in awardiug divine houours to priuces, states, « that Decius and his sou (!!?) were numbered ainong the gods».

3 11 Prof. Hiilsen aggunge in nota: « La moneta con consecratio sul rovescio- « citata da numismatici antichi è dichiarata falsa dall'Eckhel, Doctr. num. vet. , « voi. VII, p. 335». A questo proposito gioverà notare, in primo luogo che Eck- hel non la dichiara propriamente falsa, ma la dice soltanto sospetta Leciuiu « fuisse consecratum, scripsit Eutropius, et testaretur etiam numus praesens, nisi

PARTE t. TRAIANI DUO. Ì03

« stimonianza contemporanea per il titolo divus dato a Decio. Ne in « iscrizioni sopra monete genuine questo titolo è apparso ».

Codesta importantissima epigrafe , già conservata sino a pochi anni fa nella Villa Borghese a Roma, poi acquistata da Emilio Zola e fatta da lui trasportare a Parigi, è assai corrosa e malconcia, ma il sig. Seymour de Ricci dimostro che è dedicata ai divi Decio ed Erennio, DIVO DECIO ET DIVO HERENNIO l.

Ognun vede di qual momento sia stata questa testimonianza, che sfata (se non c'inganniamo) la più temibile fra le eventuali obiezioni.

Un secondo argomento sarebbe fornito dai ripostigli o tesori mo- netali ; poiché p. es. in quello descritto dal Prof. Kubitschek, com- prendente monete da Eliogabalo ad Emiliano (cioè tutte anteriori a Gallieno), si trovava un antoniniano della nostra serie. « Basterebbe ciò » nota il valente nummografo « per rovesciare 1' ipotesi che « queste monete di consecrazione siano dei tempi di Gallieno , se il « loro aspetto medesimo non contraddicesse abbastanza chiaramente « quest'opinione 2 ».

Un terzo argomento ci sarebbe dato dalla circostanza che gli antoniani con DIVO TRAIANO sono (a quanto sembra) i più comuni della serie. 11 Prof. Kubitschek :i ci uno specchietto degli esem- plari conservati nel Museo di Vienna, e da esso risulta che quelli con DIVO TITO e quelli con DIVO TRAIANO si equilibrano per numero; ma avendo noi esteso la statistica ad altre collezioni (Brera, Gnec- chi , Torino , ecc.) , abbiamo visto confermarsi che quelli con DIVO TRAIANO sono i più numerosi di tutti, come ritenevamo, e come na- turalmente si spiegherebbe benissimo se in realtà si dovessero sdop- piare e ripartire fra Ulpio Traiano e Traiano Decio.

Veniamo ora all' ultimo argomento, che solo in parte è nuovo, perchè sostanzialmente lo abbiamo già addotto nella comunicazione al Congresso.

« auspicio esset male sociatae aversae, quia iu autica Dici mentio abest ») in se- condo luogo, che, a nostro sommesso giudicio, si tratta non già di una moneta falsa o sospetta, bensì di un antouiuiauo genuino e simile al nostro, ma soltanto mal descritto nel catalogo della propria raccolta comunicato dal Conte Verità al Tanini, che ne accolse la descrizione nel suo Supplemento alla nota opera del Band uri sulle monete imperiali.

1 Jahceshefle dea Oesterreichischen arcMologischen Inxtitutes, Band V, Beiblatt, pag. 13, Vienna, 1902. V. anche il Ballettino testé citato, pag. 167, e la Recue ar- ehéologique, 1903, t. I, pag. 331-32.

2 L. e, pag. 191.

3 L. e, pag. 191.

104 8. AMBROSOLI. parte i.

Dicevamo allora che l'ipotesi più verisimile ci sembrava quella del Pellerin , cioè che la nostra serie di antoniniani enigmatici ap- partenga al regno di Treboniano Gallo , aggiungendo che quell' au- tore la sostiene con plausibili ragioni i; e che del resto anche Eck- hel si accosta all'opinione di lui 2.

Diremo ora, per rincalzare l'argomento, che l'attribuzione a Tre- boniano ci sembra tanto più verisimile, in (pianto che questi, a detta di alcuni scrittori, trovandosi agli ordini di Decio lo aveva tradito e ne aveva perfidamente cagionato la morte 3 , per usurpare 1' impero.

Dato questo precedente, e data l'ipocrisia di Treboniano, ci sem- bra tanto più conforme al suo carattere, che a lui e non ad altri si debba attribuire la coniazione del nostro antoniniano in onore di Decio, il quale aveva pur dovuto essere stato assunto fra gli Dei col consenso di Treboniano *.

La insigne viltà di costui ci fa apparire assai probabile eli' egli appunto, stretto dalle supreme angoscio fra le (piali si dibatteva lo impero, e oppresso fors'anche dai rimorsi, tributasse precisamente a Decio, per placarne l'ombra, il postumo e sterile onore d'includerlo, assimilandolo anzi al grande Traiano , in questa serie monetale di consecrazione, ch'egli faceva emettere nella, credenza superstiziosa di propiziarsi l'avverso destino.

1 Pellerin, Recueil. T. Ili, pag. lj : « Qnant au motif qui pent avoir engagé « Trébonien-Galle à faire fabriquer cette espèce de médailles , 1' Histoire nous « apprend que durant tout son règne.... la peste qui avoit cornmencé sous Trajan- « Dece, ne cessa point eu Italie, & qu'occupé des nioyens de l'arrèter, il employa « entre autres celui des sacrifices qu'il ordonna dans toutes les provinces de l'Em- « pire. Il invoqua tous les Dieux génóralement ; de sorte qn' on peut jnger que « régardant cornine tels les Einperenrs ses prédécesseurs qui avoient été deifica « après leur mort , & voulaut que les peuples les invoquasseut de meme , il fit «Trapper pour cela ces módailles qui renouvelloient la uiómoire de leur consé- « cration » .

2 Doctr. num. vet. T. Vili, pag. 467 : « In nnmis iis, in quibus Trebonianus « aut proximorum alius superiorum principum eousecrationem restituit ».

3 Zonaras, XIl, 20, p. 589.— Cfr. anche Zosimo, I, 23, Jordan. Get. 18, Anr. Vict. Caes. 29, 5.

4 Tauinius, Supplementum ad Bandurii numismata Imperatorum Eomanorum. Eo- mae 1791 , pag. 1 : « Decius ad ini peri uni evectus , Senatnm , Populuinque Ro- « manum in pristina iura restituit ; ideoque Pater Patriae merito appellatus , et « amplissimi Ordinis decreto, adsentiente Treboniano Gallo, apotheosi donatns ».

Milano.

Solone Ambrosoli

TRINAKRIA - THRINAKIA.

Die Insci Sizilien ist wegen ihrer dreieckigen Gestalt mit Becht Trinakria genannt worden, wird aber mit Unrecht aneli fiir die ho- meriscbe Insel Thrinakia erklart, fiir jenes von Odysseus auf seiner Irrfahrt besuchte Eiland , auf dem die liinder des Ilelios weideten. Demi @QLvaxCi] ist das Land des %-QÌvai, . der Heugabel , und mnss dalier eine gabelformige Insel gewesen sein. Dass Sizilien dieser Bedingung durcliaus niclit entspricbt, liegt auf der II and. Wo hat demi aber die boiiieriselie Insel Tbrinakia gelegen !

Wàbrend die alten und aneli einige neuere Geograpben Thri- nakia in Sizilien erkennen (z. B. Strabon VI !»()."); V. Bérard, Les rhéniciens et V Odyssée , 365 ; II. Xissen Italisclie Landeslavnde I, 4, Anni. I) , glauben Andere eine gar niclit voiiiandene gabelformige Insel zwisehen Italien und Sizilien annehmen zìi diirfen (z. B. Fried- reicli , Die Realien in der Iliade und der Odyssec , 4(> ; E. Bucliliolz, Homerische Geographie, 2G0). Nodi Andere (so v. VVilamowitz, Homer. Untersuchungen , 108) denken an den Beloponnes , weil dieser in der Tat ga bel torni ig ist und weil ani Tainaron nach (lem Ilyinnus auf Apollon (v. 411) Rinder des Ilelios weiden. Wieder Andere (so v. Baer, Die homer. Lolcalitaten, 14) denken sugar an die weit entfernte gabelformige Insci Imbros. Endlicli fehlen aneli solelie Gelelirte niclit, die jeden Gedanken an cine virkliohe Insci verwerfen und Thrinakia lediglieli ins Fabelland des Dicliters verweisen.

Gegen alle diese Ldsungen der Thrinakia-Frage erheben sieli niclit unwesentlielie Bedenken. Eine jetzt niclit inehr voiiiandene Insci zwisehen Sizilien und Italien anzunehinen odev Thrinakia fiir ein voni Dichter frei erfundenes Land /u erklaren , ist hoehstens dami gestattet, wenn wirklieli kein Gabellami zwisehen der Meerenge vini Messina (der Skylla und Charybdis Iloiners) und Itliaka vorhan- den wa're. bml den jenseits von Itliaka liegendcn IVloponnes odcr sugar die nodi weber nach Ostcn entfernte Insci Imbros fiir das gesuchte Gabellami zu halten, verbietet die Riicksicht auf den Lauf der odysseischen Irrfahrt. wie Homer i lui schildert.

Ioli glaube indessen, dass es in der vcrlangtcn Gegend ein sehr

106 W. DÒRPFELD. PARTE I.

gut passendes Gabelland giebt, und bitte uni die Erlaubnis , diesen neuen Vorschlag zur Losung der Thrinakia-Frage Ilmen , verehrter Freund, der Sie Ilir ganzes Leben der Geschichte und Kunst Ihrer Heimat gewidmet haben, zur Priifung unterbreiten zu diirfen : Es scheint ìnir , dass der siidliehe Teil von Italien init seinen beiden Halbinseln jenes Land des Thrinax ist, an deni Odysseus auf seiner Irrfahrt landet.

Uni die fui* meinen Vorschlag sprechenden Grande besser verstand- lich machen zu konnen, muss ich zunàchst den allgemeinen Verlauf der Irrfahrt und seine geographisehe Ansetzung kurz besprechen.

Auf der Biickfahrt von Troja nach Ithaka koinmt Odysseus , nachdem er die Stadt Ismaros in Thrakien eingenommen hat , zuerst an den Peloponnes , den er umfahren muss , uni zu seiner Heimat- Insel zu gelangen. Durch einen Nordstnrm wird er jedoch nach Sii- den verse! ila gen und landet nach einer neuntagigeii Fahrt bei den Lotophagen, offenbar Bewohnern der afrikanischen Kiiste, wo Lotos noch beute wie im Altertunie gegessen wird. Weiter erreicht er nach kurzer Fahrt das Land der Kyklopen , das vvohl ebenfalls an dei* Kiiste Afrikas gesucht werden muss (vgl. v. Wilamowitz , Homer. UhterSi , 104). Von dort fahrt er zur Insci des Aiolos , deren Lage unbekannt ist. Denken wir sie uns etwa im heutigen Malta, so wiir- den wir verstehen, wie Odysseus in neuntagiger Fahrt, oline andere Lànder zu beriihren , in die Nane von Ithaka gelangt und dami in Folge des Ungehorsams seiner Gefahrten von den entfesselten Winden wieder zur Aiolos-Insel zuriickgeworfen wird. Waren dagegen die Li- parischen Inselli , wie Manche meinen , das Land des Windgottes, so batte Odysseus scbon auf diesel* Fahrt nach Ithaka zweiinal die Skylla und Charybdis passieren iniissen.

Auf der Weiterfahrt koinmt der Ileld nach sechs Tagen zu den Laistrygonen , deren Stadt Telepylos scbon durch ihren Namen als cine sehr terne bezeichnet wird. Auch dieses Volk haben wir in dem Lande der Meiischeiifresser , in Afrika , anzunehmen. Von den Lai- strygonen vertrieben , rettet Odysseus sich zu der nahe liegenden Insel der Kirke , nach Aiaia. Dass der Dichter sich diese Insci ani siidlichen Ende des Aithiopenlandes dachte, glaube ich aus mehreren Grunden schliessen zu diirfen, die ich hier nur andeuten kann. Auf dei* Insci der Kirke oder in ihrer Nahe wohnten auch Eos und Ile- lios. Aiaia ist nicht zu trennen von Aia, dem Lande des Aietes, der Kirkes Bruder war. Wie die Senne an jedem Abend iiber den Westen hierher kommt, uni ani nachsten Morgen iiber den Osten wieder zur griechischen Welt zu gelangen, so kann auch der Schiffer iiber den

TRIXAKRIA THRINAKIA. 107

Westen oder iiber den Osten Aiaia erreichen. Der ausserste Westen iind der ausserste Osten stossen hier zusammen. Da Helios liier niclit oben ani Himmel erscheint, sondern hier ubernachtet, so sagt Odys- seus mit Recht zu seinen Gefahrten, dass man hier niclit Avisse, wo Osten und Westen sei oder avo Helios aufgehe nini untergehe. liei Aiaia befindet sich ferner niclit das griechische Meer, sondern der àTtslQitog TtóvxoSj das endlose Weltmeer, der Okeanos; iiber ihn fahrt Odyssens mit Nordwind biniiber , uni zum Eingang des Hades zu gelangen.

Nach Angabe der Kirke stehen dem Odyssens, um von Aiaia in seine Ileimat zu fahren , ebenfalls jene beiden Wege der Sonne znr Verfiigung. Den Weg iiber den Osten, der durch die Plankten fiihrte , batte nur die Argo gemacht ; den andern Weg , der iiber den Westen zwischen der Skylla und der Charybdis hindnrch fiihrte, sclilagt Odyssens eia. Dass unter dem letzteren Weg die Meerenge von Messina zu versteben ist, hat man weder ini Altertume nodi in der Gegenwart ernstlich in Zweifel gezogen. Der ostliche Weg gelit durch den Hellespont, der schon znni Okeanos gehort und daber aneli àjtSiQcov lieisst (II. I 350 und XX LV r>4.">). Das Land der Kirke und des Aietes darf aber niclit etwa nach dem Schwarzen Meere verlegt werden, Arie manche (lelelirte nach dem Vorgange der Alten tun. Honier Aveiss davon nichts. Krst die Jonier der spiiteren Zeit babeli Aia ani Schwarzen Meere in Kolcbis lokalisiert , nicht aber der Diebter der Odyssee oder der des Argonauten-Liedes. In dersel- ben jiingeren Zeit sind auc'li erst die Kimmerier in das Epos gekom- nien und in die Clegend des Hades-Einganges gesetzt worden.

Xachdem Odyssens die gelàhrliche Durchfahrt zwisclien Skylla und Charybdis unter (lem Verluste einiger (ietalirten passiert hat , koninit er znr Insci Thrinakia, wo die Rinderlicrden des Helios wci- den. Von dort gelangt er nach «leni einen Berichte (Od. XXIII 333) sofort nach Ogygia, wiihrend er nach der austiihrlicheren Erzahlung (Od. XII 403) zuerst nochmals zur Skylla und Charybdis und erst darauf zur Insci der Kalypso vcrschlagen wird. Von Ogygia fahrt er dami spater auf seineni Flossc nach Selleria. Dies Land der Phaiaken haben die Alten einstimniig in Kerkyra-Ivorfn erkannt, wiilirend die Xeueren vielfach andercr Ansicht sind. Mir scheint diese (ilcich- setzung vollkommen gesichert, wegen der Lago Kerkyras gerade an der Stelle avo man volli Westen mieli Cricchenhind hiniiberfuhr , Avegendes richtigen Abstamles Kerkyras von Leukas-Ithaka, wegen der Xalie von Dodona und wegen des durch das Thesprotenland fiihrenden LandAveges von Kerkyra nach Leukas-Ithaka.

108 W. DÒRPFKLD. PARTE I.

Da ss Odysseus nach der einen Erzahlung nodi ein zweites Mal zur Skylla und Charybdis getrieben wird , haben einige Homerfor- scher aus verschiedenen Griinden fur einen spateren Zusatz erklàrt und deshalb gestrichen (vgl. E. Kammer , Die Einlieit der Odyssee , 548). Aneli mir scheint dies schon deshalb notwendig , weil sonst Odysseus àuf dem Wege von Ogygia naeh Selleria noeli ein drittes Mal die Meerenge batte passieren miissen. Streichen wir jedocb das zweite Abentener des Odysseus an der Charybdis, so haben wir als letzte Stationen der ganzen Irrfahrt : 1. die Skylla und Charybdis , 2. Thrinakia, 3. Ogygia, 4. Selleria und 5. Ithaka.

Wer im Altertum mit dem Segelschiff vom Westende Siziliens nach Griechenland fahren wollte, blieb zuerst an der Xordkiiste Si- ziliens , passierte die Meerenge von Messina und fuhr dami an der K liste des heutigen Kalabrien entlang bis an das Vorgebirge von Kroton. Xachdem er hier die Kiiste verlassen hatte , konnte er ent- weder quer iiber das Meer direkt nach Kerkyra zu gelangen snehen, oder aber zunàchst iiber den Colf von Tarent fahren, um die Siid- spitze des heutigen Apulien , des alten Japygia, zu erreiclien , und dami noch ein zweites Mal das bobe Meer durchkreuzen, um naeh Kerkyra zu gelangen. Auf der weiteren Fahrt bis Ithaka brandite er die Kiiste des Festhmdes und der Inselli nicht inehr zn verlassen. Zwischen Sizilien und Griechenland pflegte also der antike Schiffer mir zwischen Kroton und Kerkyra die Kiiste aus den Angeli zn ver- lieren. Da das japygische Kap gerade die Mitte dieser Fahrt iiber das offene Meer einnahni, konnte es als der Mittelpnnkt des grossen Westmeeres, als sein o^icpalog bezeichnet werden.

Wenn min Odysseus nach Passiermig der Meerenge von Messina etwa ani sudwestlichen Ende Italiens landete , und scine Gefàhrten hier die Kinder des Helios verzehrten , so wiirdc cs sehr verstand- lich sein, wenn er bei der Weiterfahrt vom Sturine iiberrascht und naeh dem Mntergange seines Schiffcs zuni Kap von Japygia ver- sclilagen worden ware; von dort batte er dann spater iiber das adda- tisene Meer nach Kerkyra hiniiberfahren miissen. Falls bei dem Vor- gebirge von Japygia die homerische Insel Ogygia angesetzt werden diirfte , und falls ferner die siidwestliclic Ilalbinscl Italiens zar h<>- merischen Insel Trinakia gehorcn konnte, wiirden oifenbar alle jenc fiinf letzten Stationen der Irrfahrt in der einfachsten und besten Weise geographisch untergebracht sein.

Sprachlich ist &Qivaztrj , wie wir schon sahen , das Land des d-QLvaè,, eiiier beim Gctreide und Heu benutzten hòlzernen Gabcl, die im Altertum und beute nur zwei oder drei Zinken hat. Giebt es nun;

TRINAKRIA THRINAKIA. 109

so diirfen wir fragen, westlich von Kerkyra ein Land, <las niehr die- sen Namen verdient , als der siidliche Teil von Italien niit seinen beiden Halbinseln? Der Grand, Avarimi die Homerforscher beim Su- chen nach Thrinakia an dieses ausgesprochene Gabelland niclit ge- daclit haben, liegt wohl-nicht in deni Umstande , dass es nur zwei vorspringende Halbinseln liat, demi man wusste gewiss, dass die Heu- gabel oft nur zwei Zinken hat. Vielmelir schliesst man wohl haupt- siiehlieh deshalb Italien ganz aus, weil es eine Halbinsel ist , wah- rend Thrinakia nach Homer eine Insel sein muss. Dazu kommt vielleieht noch das andere Bedenken , dass Thrinakia nicht an der italischen Kiiste liegen diirfe, weil die Insel der Kirke vielfach eben- falls in oder bei Italien angesetzt wird (so V. Bérard, Les Phéniciens et VOdyssée II 2C7). Da Homer sich die Insel der Kirke meines Er- aehtens an der afrikanischen Kiiste denkt , so musste Odysseus anf seiner Heimfahrt an der Xordkiiste von Sizilien entlang fahren, nnd gelangte erst nach der Skylla nnd Charybdis an die italische Kiiste. Aber aneli das erste wichtigste Bedenken liisst sieh unschwer wi- derlegen : Italien war tur Homer cine Insel ; das adri.atische Meer war ihm nodi nicht als geschlossen bekannt. Wie sein Weltbild ini Westen iiber Sizilien nicht hinausging, so wusste er aneli im Xorden niehts von dein Zusammenhange von Italien nnd Griechenland. In Bezug anf das Weltbild des Diehters mag hier nur angedeutet wer- den , dass tur Homer nnd seine Zeitgenossen die tqoxuC der Sonne nachweisbar hinter Sizilien lagen; dort war die Stelle, wo die Sonne auf ilirein Tageslaufe sieh wendete, uni nach Vollendung ilirer Himmels- bahn an (leni westlichen Aithiopenlande entlang nach Aiaia zu ge- langen. Die entsprechende Wendestelle ini Osten lag hinter den Bergen der Solymer, wo die Sonne ani Morgen, nachdem sic an den ostlichen Aithiopen vorbeigezogen war . cine Wendung niaehte , uni ani Hinimelsgewòlbe hinaufzusteigen. Wir brauchen also, uni das siid- liche Italien tur die Zeit Homers als Insci <les Weltmeeres nach- zuweiscn, nicht cinnial zu der Annalinie eincs ungenauen Sprachge- brauches unsere Zuflucht zu nehnien nnd daran zu erinnern , dass die Alten zuweilcn Halbinseln als Inselli bezeichnet haben. Ich sehe demnach kein Hindernis niehr . in Sud-Italien die homerisehe Insci Thrinakia zu erkenncn.

Wo liegt nur aber Ogygia ? Haben wir irgend ein Recht, diese Insel der Kalypso als einen Teil unserer Insci Thrinakia anzunehmen und in ihrcni siidòstlichen Torgebirge Japygia zu erkennen ? Schon v. Wilamowitz {Hom. Untersuchungen , Hi) hat darauf hingewiesen , dass djyvytog urspriinglich ein Adjectiv ist und cincin ùxsàvios ent-

110 W. DÒRPFKLD.

spricht. Die vrjtiog òyvyCrj (Od. VI 172), auf der die vom Dichter er- fundene Nymphe Kalypso den Odysseus zuriickhalt, niuss also in den Augen des Dichters irgend eine Insel des grossen Weltmeeres ge- wesen sein. Und eine solche war anch misere Insci Thrinakia (Rom. Unters. 166). Sprachlich stelit also nichts im-Wege, wenn wir nns die Insel Ogygia als einen Teil von Thrinakia denken. Wenn wir uns nnn erinnern , dass Japygia gerade in der Mitte zwischen der siid- westlichen Halbinsel Italiens und der Insel Kerkyra liegt und also ebenso wie die Insel der Kalypso den Omphalos des westlichen Meeres bildet , so gewinnen wir eine willkommene Bestàtigung fiir misere Vermutung , dass das spatere Japygia und das homerische Ogygia identiscli sind.

Aber bald steigt ein ernstes Bedenken bei uns auf. Der Dichter denkt sich Ogygia offenbar vici weiter von Selleria entfernt als der Abstand Japygias von Kerkyra betràgt. Denn Odysseus fahrt volle 17 Tage auf seinem Flosse, uni von Ogygia in die Nahe des Phaia- kenlandes zu gelangen , wahrend er von Japygia in einer einzigen Xacht nach Kerkyra batte hiniiberfahren konnen. Wir brauehen uns aber durch die 17 Tage , obwoM sie mehrmals in der Odyssee er- wabnt werden, niebt irre machen zu lassen. Sobald wir die ubrigen Angaben des Dichters iiber die Flossfahrt des Odysseus genauer betrachten , erkennen wir bald , dass es sich in der urspriinglichen Dichtung unmoglich uni so vide Tage, sondern nur um eine einzige Xachtfahrt gehandelt haben kann. Die 17 Tage der Flossfahrt und die 3 Tage des Schiffbruchcs waren ursprunglich nur eine Xacht und ein Tag.

Erstens ist schon Manchem aufgefallen , dass der Dichter den Odysseus die lange Fahrt iiber das grosse Meer auf cincin einfachen Flosse ausfuhrcn lasst. Man hat deshalb niehrere Vorschlàge ge- maeht, das Floss trotz der genauen Angaben des Dichters zu cincin seetuchtigen Schiffe unizugcstalten. Aneli niuss man sich dariiber wundern, dass die Nymplie dem Helden fiir die lange lieisc so wenig zum Essen und Trinkcn mitgiebt. In cincin ganz anderen Lichte ersclicinen beide Tatsachen, wenn die Fahrt nur cine einzige Xaclit dancrt ; sowohl das einfache Floss, als aneli die geringe Mengc der Xahrung sind dami vcrstandlich.

Zweitens batte eine Insel, die wegen der 17tagigen Entfernung von Selleria ani ausssersten Rande der Erde gesucht werden niuss , nicht als Omphalos des Meeres bezeichnet werden diirfen. Meines Erachtens ist , was ich hier freilich nur behanpten , nicht aber be- weisen kann, auf der honierischen Weltkarte fiir eine so lange Fahrt

PARTE I. TRINAKRIA THRINAKIA. Ili

von Selleria nacli Westen gar kein Platz. Fiir unser Ogygia passt dagegen der Xame Omphalos des Meeres, wie wir oben schon salien, ganz vorziiglich. Japygia ist nur etwas iiber 100 Kilometer sowohl von dem Vorgebirge bei Kroton , als aneli von der Insel Kerkyra entfernt , nnd jede Fahrt liisst sich daher bei gutem Winde gerade in einer Nacht ausfuhren , denn Herodot (IV SO) reclmet fiir die Xachtfahrt eines Segelschiifes 600 Stadien oder rnnd 100 Kilometer.

Drittens wird vom Dicliter ausdriicklich geschildert, dass Odys- sens auf der ganzen Fahrt die Augen niclit schliesst , sondern anf Geheiss der Kalypso bestàndig nacli den Sternen sieht nnd die Nord- sterne znr Linken liat. Zeigt das niclit sonnenklar, dass der Dichter unmoglich an eine ITtagige Fahrt , sondern nur an eine einzige Nachtfahrt gedacht hat ? Abends fahrt Odyssens von Ogygia ab nnd niorgens friih ist er schon in der Xahe der Phaiaken-Insel angekom- nien. Dort erblickt ihn Poseidon, der niclit mehrere Wochen, sondern nnr einige Tage bei den Aithiopen geweilt batte , nnd zertriinimert sein Floss. Xoch am Abende desselben Tages landet Odyssens mit Athenas Hiilfe am Strande von Selleria.

Einen vierten Beweis dafur, dass der Dichter sieh Ogygia nicht am Ende der Welt , sondern nicht ferii von Ithaka dachte , liefert nns ferner die Weissagnng des Halitherses (Od. II 165). Xoch voi- des Telemachos Abreise nach Pylos, als Odyssens nodi in Ogygia weilt, verkiindet nns der Dichter durch den Mund des Sehers, dass Odyssens schon seiner lleimat nahe ist. Liegt Ogygia am Ende der Welt, so ist die Weissagnng falsch; liegt die Insel der Kalypso aber, wie wir sahen, an der siidostlichen Spitze Italiens , so ist Odyssens nnr eine 24stiindige Fahrt von seiner lleimat entfernt , nnd die Weissagnng trifft wortlich zìi.

Einen fiinften Beweis kann ich liier nur knrz andeuten, obwolil er mir eine grosse, ja ansschlaggebende Kraft zu haben scheint. Der jetzige Tageplan der Odyssee bietet eine bekannte, aber bisher niclit geniigend erklarte Schwierigkeit. Telemachos niuss mieli dem jetzigen Epos 30 oder .*»L Tage in Sparta bleiben, damit Odyssens unterdessen die weite Keise von Ogygia nach Selleria nnd Ithaka maclien mal gleichwolil nodi vor der Itiickkehr des Telemachos in seiner lleimat eintrelfen kann; in der Diclitung selbst ist aber mit keinem Worte ehi so langer Anfentlialt in Sparta angegeben oder aneli nur ange- deutet (vgl. Hennings, Homers Odyssee, 141). Ini Gegenteil wird direkt nnd indirekt ansgesprochen, <lass Telemaehos nur ganz knrz in Sparta verbleibt, meines Krachtens nur cine Nadir. Wenn wir min aber mieli den Angaben des Epos den Tageplan fiir den Telemachos alleili auf-

112 W. DÒRPFELD.

stellon und ilm dann mit dem Tageplan des Odysseus vergleichen, so zeigt sich zu unserm Erstaunen eine vollkommene TJebereinstim- mung beider, sobald wir erstens die Sendung der Athena nach Ithaka und des Hermes nach Ogygia als zwei gleichzeitige parallele Hand- lungen auffassen, und zweitens die Herstellung des Flosses und die Fahrt nacli Selleria als die Handlungen von nur zwei Tagen und einer Xacht erkennen. Dass das Erstere aus melireren Griinden not- wendig ist , hofte ich an anderer Stelle zu zeigen ; fiir das Zweite haben wir oben selion mehrere Griinde kennen gelernt. Es sind spii- tere Verànderungen des Gedichtes , durch die sein urspriingliclier Pian gestort worden ist. Wodurch diese Storung veranlasst ist, kann hier nicht untersuelit werden. Streichen wir die entstellenden Zusatze, so ergiebt sich ehi urspriingliches Gedieht von eineni so einheit- lichen und so kunstvoll ausgedachten Piane, dass mir jeder Gedanke an Zufall vollstiindig ausgeschlossen zu sein scheint. l>ies alte Ge- dieht umfasst die Telemachie und den Freiermord und hat einen genau durchgeftihrten und bewundernswerten Pian von nur 10 Tagen. Er beginnt mit der Gotterversammlung und endet mit der Vereini- gung der so viele Jahre getrennten Ehegatten. Die Irrfahrten, wel- che Odysseus am zweiten Abende seines Aufenthaltes bei den Phai- aken erzahlt , schei den als besonderes Gedieht aus , das erst spater mit dem Gedichte von der Heimkehr verbunden worden ist.

Haben wir so bewiesen, dass die Fahrt des Odysseus von Ogygia nach Selleria urspriinglieli nur eine einzige Xaeht dauert, so haben wir darin die sehonste Bestàtignng tur unsere These gewonnen, dass Ogygia an dem sudostlichen Yorgebirge Italiens anzusetzen ist und einen Teil des Gabellandes Thrinakia gebildet hat.

Wie in dem Gedieht der Irrfahrten die Insel Thrinakia die letzte Station ist , die Odysseus bei seiner Fahrt nach dem fernen Westen beriihrt und mit der die eigentliche Irrfahrt absehliesst , so ist sie auch die erste Station in dem Gedichte der Heimkehr , das mit dem Aufenthalt des Helden bei der Kalypso, also nodi jenseits des grossen Meeres beginnt. Mit der Ueberfahrt nach Selleria gelangt Odysseus in die heimischen Gegenden und wird von dort in einer Nacht in sein Vaterland gebraeht.

Athen.

Wilhelm Dorpfeld.

UN NUOVO BRONZO QUADRILATERO.

Sono orinai molti anni die. nessun nuovo bronzo quadrilatero viene in luce. Ai tipi che erano noti allorché si facevano le prime pubblicazioni speciali sulle monete primitive italiche, nessuno ne ag- giunsero i successivi ritrovamenti e anche il ripostiglio tanto copioso della Bruna non conteneva che tipi già noti.

Eiesce quindi tanto più. interessante il pezzo che ho l'onore di comunicare, il quale offre due tipi affatto nuovi. Dell'occasione appro- fitto con piacere per portare il mio modesto contributo alle onoranze votate ad uno dei gloriosi veterani della scienza numismatico-archeo- logica in Italia , e ne approfitto tanto più volentieri inquantochè il cimelio tocca tanto il campo numismatico quanto archeologico.

Il bronzo mi provenne da un ritrovamento fatto or son pochi mesi, sulle rive del Conca presso Rimini, e pare che , quale aes signatum, fosse solo o quasi solo nell' accompagnamento di alcuni assi, un du- pondio e due tripondii, in un piccolo ripostiglio di aes rude, che si può ritenere fosse una stipe sacra. Porta da un lato la prora di nave, dall'altra un vaso da sacrificio o prefericolo, due tipi non mai veduti in questo genere di pezzi; mentre però la prima è la più comune, al punto d'essere generale, sulla monetazione lenticolare e anche su tutta la successiva monetazione repubblicana di bronzo, la seconda è affatto nuova nel bronzo italico.

Il peso è di gr. 1810 , di qualche cosa superiore a tutti quelli del ripostiglio della Bruna, dei quali il più pesante raggiungeva solo gr. 1880.50. La modellatura è forte e sicura , precisamente come si riscontra negli altri pezzi di bronzo, sia quadrilateri, sia lenticolari; la conservazione è eccellente al punto da far ritenere che non abbia mai avuto circolazione. Lo ricopre una bella ossidazione verde chiara e il metallo appare, come nei pezzi consimili, di un bel color d'oro, come si può vedere da Tina leggera scalfitimi praticatavi da chi l'ebbe in mano prima di me.

Fatta così sommariamente la presentazione del pezzo, completata dalla unita riproduzione (tìgg. 10 e 20), resterebbe la parte più importante, ossia le indagini scientifiche, la determinazione dell'epoca dell'emissione

Fig- 19. Bronzo quadrilatero. _^ ,

Fig. 20. Bronzo quadrilatero.

116 P. GNECCHI. PARTE I.

la quale, stando al peso, dovrebbe assegnarsi a circa la metà del secolo a. C. l'interpretazione del significato dei tipi e così via. Ma, lasciando che altri di me più erudito in materia e non ne mancano in Italia e fuori si occupi di ciò specificatamente , per parte mia mi limiterò a qualche semplice e generica osservazione che mi viene suggerita dalla spezzatura e dai tipi rappresentati.

Il fatto della spezzatura del quadrilatero, avvenuta certamente in antico, come lo dimostra 1' ossidazione eguale nella rottura come in ogni altra parte, mentre certamente è a deplorarsi, ha però il suo lato buono, presentandoci il fatto unico di un pezzo frantumato di cui si hanno tutti i frammenti. È evidente che il pezzo venne fuso intero e spezzato poi. E questa osservazione, che alle prime può sem- brare ingenua, ha la sua importanza in questo che l'opinione di molti era che i mezzi quadrilateri fossero così fusi in origine e non fran- tumati posteriormente , opinione che espressi io pure nel mio Ma- nuale (pag. 130). Or bene tale ipotesi cade, o per lo meno cade in certi casi. Ammettendo pure che la fusione dei mezzi quadrilateri fosse realmente avvenuta, certo non lo fu nel caso presente, ove abbiamo la sicurezza che il pezzo venne spezzato nella stipe , sia cadendovi, sia per un colpo ricevuto da altro pezzo gettatovi posteriormente, come ne siamo assicurati anche dall'ammaccatura ancora visibile nel punto più rilevato del prefericolo vicino all'attacco inferiore dell'ansa.

Questo fatto prova che tali pezzi, data la qualità del metallo e l'intima sua costituzione acquistata per la fusione, potevano spezzarsi anche con un colpo non molto forte , mentre molti , e io fra questi, pensavano il contrario. E prova quindi che dei frammenti esistenti, se alcuni si può ammettere che fossero così fusi in origine, altri pos- sono invece essere stati così ridotti in seguito, senza che sia rimasta una traccia troppo visibile del colpo; la quale traccia può anche es- sere stata in seguito mascherata e quasi rimarginata sia dalla circo- lazione, sia dalla ossidazione.

Venendo ora ai tipi, quello della nave così proprio nella tradi- zione romana mi pare possa fare attribuire il pezzo a Soma o per lo meno al Lazio ; mentre quello del vaso da sacrificio, unito alla forma solita del ritrovamento che è quella di stipe sacra , avvalora l'opinione che questi pezzi quadrilatari, non essendo moneta ufficiale, perchè mancanti dell' impronta della divinità , fossero veramente in origine e senza pregiudizio della loro eventuale circolazione come moneta o meglio come bronzo-valore apprestati quali monete votive.

Una delle forti opposizioni a ritenerli tali era quella dell'essere questi pezzi più pesanti della moneta corrente. A me sembra che

PARTE I. UN NUOVO BRONZO QUADRILATERO. 11Ì

questa potrebbe invece essere una prova. È destino di tutto le umane istituzioni di nascere grandi e di rimpicciolire poco a poco. E , per non uscire dal nostro ordine d'idee, questo è un fatto costante nella monetazione di tutti i tempi e di tutti i paesi, prova ne è l'asse ro- mano, il denaro medioevale, la lira dei tempi moderni.

Nei tempi remoti quando la fede nella divinità era forte, schietta entusiastica, quale si addice a un popolo nuovo era troppo naturale che questa fosse considerata al di sopra d'ogni cosa terrena. Alla divinità si sacrificavano le vittime più belle, i bovi più grossi, le pecore migliori. Non era naturale che per la divinità si apprestassero anche pezzi in metallo più pesanti delle monete in corso A poco a poco tutto degenera, tutto traligna, il primitivo entusiasmo affievolisce , la face della civiltà subentra a quella della fede primitiva e, sotto il domi- nio d'una religiosità più calma, si credono sufficienti anche per la di- vinità le monete comuni. Ne questo basta, è fatale che si percorra la scala discendente e la degradazione arriva fino al punto di appre- stare appositamonte per lo scopo .... le monete di stagno! l.

Il fenomeno non sarebbe stato diverso di molti altri.

1 V. Appunti di Numismatica Romana N. LXVTII in Rivista Italiana di Nu- mismatica, 1905.

Milano.

Francesco Gnecchi.

U ALLEGORIA DELLA PRI/AA ECLOGA DI VERGILIO

SECONDO GLI ANTICHI COMENTATORI l.

Sull'origine dei comenti allegorici Yergiliani il Riese nella sua nota dissertazione: De commentario Vergiliano qui M. Valeri Probi dicltur, Bonnae, senza data, p. 15-10, così scrive: « Postea vero quo magi» ab illorum aetate recederent et vivida antiquitatis imago extin- gueretur, studiorumque simili et doctrinae fines paullatim coarctaren- tur, satis erat grammaticis ut illuni tamqiiam divino quodam spiriti! praeditum venerarentur atque a libero iudicio prorsus abstinerent, qua de eausa Vergili potissimum inepta quaedam atque etiam allegorica Inter pretatio... in usum venit». Questa osservazione, molto generale, che può esser fatta a proposito di qualsiasi altro comento allegorico, di cui gli antichi grammatici ci lasciarono esempi non scarsi e molto curiosi, per i conienti alle Bucoliche certamente non basta, come quella che contiene una sola parte di vero, che poi non è la più importante.

1 II presente lavoro è una breve parte di uno studio sistematico sull'antica critica alle opere di Vergilio. Che uno studio siffatto, se compiuto e ben condotto, avrebbe importanza, non solo come contributo alla determinazione dei canoni del- l'antica critica, ma anche come valido aiuto all' interpretazione dei carmi vergi- liani e, in specie, alla valutazione del loro valore allegorico, è del tutto evidente. Il trascurare di risalire ai comentatori antichi, deve inevitabilmente condurre a risultati, che non potrebbero sempre accettarsi. Eppure generalmente di questo principio metodologico non si tiene abbastanza conto.

Ci sono stati utili nella nostra ricerca: Suringar, Historia critica schol. lai. Lug. Bat. 1834-35; O. Ribbeck. Prolegomena critica ad V. Mar. opera malora, Lips. 1866; Cartault, Étude s. les Bucoliq. de V., Paris 1897; Comparetti, Virgilio nel medio eco, Firenze 1896; Nicola Terzaghi, Vallegoria nelle E ci. di Vergilio, Firenze 1902; tutte le edizioni e i comenti, ciascuno a suo luogo citati. Poco invece , nonostante il titolo promettente, ci ha soccorso il lavoro del Georgii, Die antike Vergilkritik in den Buie. u. Georg., nel Philologus, Supplementband, IX, Heft 2, Leipzig 1902, che si riannoda all' altro studio dello stesso A. , Die antike Aeneiskritik aus den Scholien u. anderen Quellen, Stuttgart 1891.

PARTE I. L'ALLEGORIA DELLA PRIMA ECLOGA DI VERGILIO. 119

Per spiegarci in modo razionale la causa dell'esagerata interpre- tazione allegorica, che riscontriamo talvolta anche in scrittori molto moderati come in Macrobio , secondo noi , e di capitale importanza fare attenzione alla prima ecloga e rilevare che vi si contengono al- lusioni a fatti occorsi al Poeta. In essa infatti gli accenni alla divi- sione dei campi sono così manifesti che, anche senza l'aiuto dei com- mentatori antichi , s' intenderebbero da , forse anzi con maggiore chiarezza.

Che proprio la prima ecloga sia di natura evidentemente alle- gorica è di grande importanza per determinare l'origine dell'interpre- tazione ugualmente allegorica delle altre ecloghe. E qui è da rilevare che una questione cronologica, come quella che attualmente si fa in diverso modo e con diversi risultati dai moderni studiosi sui dieci carmi, era ignota agli antichi, quantunque le ricerche cronologiche non sfuggissero al loro sistema di critica. Infatti, almeno per Servio, uno dei canoni fondamentali in exponendis auctoribus era appunto l'orafo librorum, di cui praticamente però egli non seppe iniziare 1' investi- gazione ne per l'Eneide, per le Georgiche, infine per le Buco- liche; anzi per queste scriveva : nec numerus Me dnbius est, nec orcio librorum quippe cum unus sit liber l (p. 3). Invece il Pseudo-Probo ha qualche lieve accenno alla cronologia della I e della IX ecloga. Sic- come ambedue trattano della distribuzione dell' agro mantovano ai veterani, e nella IX più specificatamente Vergilio si lagna del danno sofferto, mentre nella I si mostra riconoscente verso i suoi benefat- tori pel ricupero dei beni, così praeponi Ma ecloga (scil. IX) debuerat et sic haec (scil. I) substitui, qua gratias agit, imperciocché prius fuerit quaeri damnum, deinde testavi benefichivi (p. 328). In Servio siffatta argomentazione cronologica riguardante queste due ecloghe , non é nemmeno accennata, solo si come cosa sicura cha la prima ecloga tradizionale sia anche la prima considerata cronologicamente , per la citazione che del primo verso si fa nelle Georgiche (IV, 500) ; e che la decima sia 1' ultima per testimonianza dello stesso Vergilio (extremum liunc. X, 1); e si accenna all'opinione di alcuni che consi- deravano prima la VI ecloga, perché comincia con le parole prima Syracosio digitata est ludere versu, che si riferiscono all'imitazione teo- critea; ciò che aveva speciale importanza per gli antichi che consi- deravano siffatta imitazione come Vintentio libelli quem scopon Graeci vocant.

1 Sul valore di questa espressione, che a prima vista sembra strana, si veda quel che diciamo appresso.

120

Adunque, una vera e propria questione cronologica non c'era, tranne che per la I e la IX, cioè per quei due carmi di natura ma- nifestamente allegorici; onde per noi, che tentiamo di rintracciare la origine dell'allegoria nella interpretazione delle altre ecloghe, essa non ha importanza di sorta, giacche prima, in ogni caso e secondo tutte le opinioni, sarebbe stata una ecloga il cui senso allegorico è incon- troverso. Piuttosto ha importanza il fatto che, anche a causa di questa lacuna che presenta l'antica critica su Vergilio, i grammatici hanno creduto che le diverse ecloghe avessero un legame più intimo di quello puramente formale , svolgessero un concetto unico , formassero un'o- pera organica, quantunque divisa in dieci componimenti. Da questo lato, essi consideravano le Bucoliche alla medesima stregua delle Georgiche e dell'Eneide; come di queste davano Vargumentum e fa- cevan sapere singolarmente V intentio libelli quem scopon Graeci vocant (vedi i Prooemia di Servio all'Eneide ed alle Georg.), così delle prime il Ps. -Probo (per citare uno dei più antichi commentatori di Vergilio) i scrive: Yergilius autem, ut Bucolica scriberet, causarti eiusdem habuitj e continua narrando le vicende storiche per le quali il Poeta fu privato del proprio podere e dell' intercessione di Cornelio Gallo per riavere i beni perduti ; e così conclude: gratias ergo agens Au- gusto, quod receplsset agros, Bucolica scripsit (pagg. 327 e 328). Queste stesse cose ci vengono ripetute da Servio p. 2 e 3, dagli Scholia Beni. p. 743, e da Filargirio p. 7. Filargirio anzi è più breve, ma più esplicito: « Argumentum Bucolico rum: Tiberius Oaesar Iulius et Antonius contra Oassium Brutuni civile bellum et caet. (Expl. I p. 13— Expl. Il p. 7).

Adunque secondo questi comentatori V argomento che informa tutte le ecloghe è la divisione dell'agro mantovano tra i veterani dei trium- viri, per cui Servio ha adoperato , parlando delle Bucoliche , quella espressione già sopra notata: <[uippe cum unus sit liber. Si capisce facilmente come quest'errore fondamentale, in gran parte occasionato dall'allegoria manifesta contenuta nella prima ecloga, ne abbia pro- dotto altri nell'interpretazione dei vari carmi.

1 Quantunque noi siamo d'accordo con la maggior parte dei filologi nel cre- dere che il Probus autore del comento vergiliano non sia lo stesso di quel Frobus di cui parla Suetonio C. 24 De grammaticis et rhetoribus, pur crediamo che la mas- sima parte delle notizie in esso contenute debbono ritenersi appartenere a qualche comento più antico di quello di Servio. Cfr. per tutte le questioni su Probo, su- scitate dal citato passo di Suetonio e dal cosidetto anecdotum Parisinum de notis, oltre al lavoro del Riese già menzionato, l'esauriente stadio dello Steup, De Probi» grammatici8, Ienae 1871, che ha dato luogo alla dissertazione del Kuebler De M. Valerii Probi Berytii commentariis vergilianis. Berolini 1881.

PARTE I. L'ALLEGORIA DELLA PRIMA ECLOGA DI VERGILIO. 121

II.

Nella prima ecloga Vergilio ci presenta due interlocutori : Moe- liboeus e Tityrus. I comentatori antichi son d'accordo che sotto le spoglie di Tityrus sia adombrato Vergilio stesso; di Moeliboeus in- vece, mentre Servio tace, il Pseudo-Probo (p. .'521)), Filargirio {Expla- natio II e I p. lo), e gli Seholia Bernensia ci dicono che esso rap- presenta Cornelius Gollus unus de Mantuanis quibus sunt agri adempii.

I comentatori nostri, mentre hanno accolta l'interpretazione al- legorica di Tityrus, hanno abbandonata, come strana, quella che ri- guarda il secondo interlocutore, o meglio, hanno giustamente creduto clic Moeliboeus rappresenti solo uno dei tanti sventurati costretti ad esulare dai propri campi. Quantunque i filologi moderni, solo col buon senso ed intuitivamente, siano pervenuti a distinguere bene (pici che è e quel che non è accettabile dell'allegoria tramandataci dai gram- matici antichi su questa ecloga , è dovere di una critica oculata e circospetta spiegare , per (pianto è possibile, donde traevano origine questi conienti ora ritenuti strampalati.

Prima di tutto , è facile stabilire che una dovette essere la fonte originaria del Pseudo-Probo, di Filargirio e degli Seholia di Berna l per quella notizia, se tutti quanti son d'accordo nell'ammettere che il Moeliboeus rappresenti il personaggio storico Cornelio Gallo; la fonte però doveva essere ben più chiara e più estesa sui rapporti che il suo autore aveva visto tra Cornelio Grallo ed il Moeliboeus vergi- liano. Siffatti rapporti , certamente strani , ma forse non privi del tutto, come generalmente si crede, di logica, dovevano essere il pro- dotto di un ragionamento che veniva fatto presso a poco così : Se Vergilio ha scritto questa ecloga nell'occasione della restituzione dei beni a lui fatta, doveva mostrare la sua gratitudine a quei personaggi che s'adoperarono in suo favore: Eclogam composuit gratiarum actio-

1 Tutti questi conienti antichi, compilati in diversi tempi e da grammatici di diversa cultura , non dovrebbero avere un eguale valore. Non è raro il caso che i più recenti copiando da antichi grammatici ci riproducano testimonianze molto apprezzabili; ma essi, il più delle volte, non sono che un accozzo di no- tizie prese da conienti più antichi senza alcun discernimento e che lasciano tra- sparire l'ignoranza talvolta eccessiva dei compilatori, che non s'accorgevano delle evidenti contraddizioni cui andavano incontro. Infatti quante interpretazioni alle- goriche non si contraddicono e si distruggono a vicenda? Lo sceverare in questi comenti i diversi strati, per dir così, allegorici, è impresa alla quale abbiamo posto mente e che sarà compiuto in seno al lavoro accennato.

122 A. ROMANO. PARTE I.

nem continentem (Filarg. Expl. II p. 14). Ora pare che Cornelio Gallo si sia più di tutti adoperato in favore di Vergilio , almeno sia stato l'in- termediario nelle relazioni d'amicizia fra Vergilio e Pollione, come per altra via supposero il Sonntag * ed il Cartault 2; adunque per debito di gratitudine qui deve anch'egli essere allegoricamente rap- presentato.

Un'altra ragione più sottile, ma forse più evidente, per cui Fi- largirio ha creduto che sotto il nome di Moeliboeus sia celato il nome di Cornelio Gallo, e non ad esempio di Pollione, sta, secondo noi, nel nome stesso di Gallo; egli credeva che Vergilio avesse voluto rappre- sentare la plebs Gallorum, malcontenta perchè spodestata dei beni, con Cornelio Gallo che, avendo comune con quella il nome, riusciva alle- goricamente chiaro. Almeno non sapremmo spiegarci altrimenti le pa- role dell' Explan. I p. 15 1-5: « Accusans eum plebs Gallorum, quae Moeliboei nomine loquitur, quem Cornelium Gallum vocant. Hereditas ei rapta est et Vergilio data est». Così anche si spiega come di Cor- nelio Gallo si dica essere uno dei Mantovani cui fossero stati tolti i beni. La ricerca etimologica, presa per base dell'interpretazione alle- gorica, non è rara nei cementatori antichi di Vergilio , ed il caso di cui è parola non è un caso isolato.

In questa stessa Ecloga per spiegare il verso 5 :

formosam resonare doces Amaryllida silvas

i comentatori usavano lo stesso procedimento: Amarillyda idest Koma; silvas idest consules; e per ben comprendere il valore allegorico at- tribuito da Filargirio {Expl. I e II) ad Amarillide, bisogna ricorrere al comento dei versi 30-32 :

postqnam nos Aniaryllis habet, Galatea reliquit. inanique, fatebor enim, dum me Galatea tenebat, nec spes libertatis erat nec cura peculi.

Vergilio era andato effettivamente a Roma e quindi aveva lasciato Mantova ovvero la Gallia Amaryllis idest Roma; Galatea vel Gallia vel Mantua, Fil.j Sch. Bern. Etimologicamente avevano creduto che la Gallia fosse rappresentata da Galatea: Filarg. ci fa sapere {Expl. II v. 5) che Galli a candore corporis dicuntur Galatae, qui cum Graecis venientes se miseuerunt. linde primum ea ratione Gallograecia nuncu- pata est, et postea Galatia nominata est. È indubitabile che, oltre al

1 Vergil als Bukolischer Dichter, p. 129.

2 fitude 8. les Bucol de V., p. 23.

PARTE I. L'ALLEGORIA DELLA PRIMA ECLOGA DI VERGILIO. 123

fatto storico del viaggio di Vergilio a Eoma, la supposta identità eti- mologica fra Galatea e la Gallia ovvero Mantova ha fatto interpretare Amaryllis per Eoma , per cui poi la fantasia dei comentatori , non frenata da un po' di buon senso, si è spinta sino ad interpretare il silvas del v. 5 per consules e la parola fontes per senatore».

Eitornando ai due personaggi principali di questa prima ecloga, se la nostra spiegazione circa l'origine dell'allegoria, con cui i gram- matici antichi intesero spiegare il Moeliboeus vergiliano, è vera, sarà anche vero che negli Schol. Bernensia, i quali hanno il pregio di te- nere sempre ben distinti nel loro comento i due significati allegorico e letterale l, si trova epitomato quel che più largamente si legge in Filargirio 2.

Servio , come abbiamo detto , non mostra neppure di conoscere questa tradizione allegorica , perchè nel suo ampio comento non la rileva; eppure egli avrebbe avuto buon giuoco a combatterla, se per l'allegoria di Tityrus più volte ci fa sapere che non si trova d'accordo con gli altri grammatici. è da credersi che Servio abbia voluto passare sotto silenzio un'interpretazione allegorica così strana, ripu- gnante al suo buon senso; perchè, se alle volte egli si mostra sensato e pieno di discernimento critico, altre volte invece non è da meno degli allegoristi più arrabbiati; si confr. ad es. il suo comento ai versi 38 e 39 di questa stessa ecloga.

III.

Per l'allegoria che riguarda Tityrus le cose vanno bene altri- menti. Il concetto comune ai grammatici antichi ed ai nostri comen- tatori è che esso rappresenti Vergilio. Ma pure anche qui le questioni non mancano e Servio, ad es., non è disposto a seguire la tradizione allegorica che s'è andata formando su questo personaggio, senza tare un'avvertenza preliminare di somma importanza (al v. 1) : « Tityri sub persona Vergilium debemus aceipere; non tamen ubique, sed tan- tum ubi exigit ratio ». Questa restrizione alla comune interpreta- zione allegorica è nata, per una parte dalla difficoltà (maggiormente

1 Questa particolarità importantissima che si riscontra negli Scoli di Berna crediamo sia dovuta all'epitomatore (Adamannus ?); e segna un notevole progresso nell'antica critica vergiliana.

2 Generalmente si crede che le fonti di questi Soliolia siano Titus Gallus e Iunius Philargyrius ; ma crediamo che un esatto confronto fra questi scolii di Berna e le due redazioni (Expl. I e II) di Filargirio, pubblicati dall'Hagen neìV Ajppen- dix Serviana, Lipsiae 1902, porti ad un diverso risultato.

124 A. ROMANO.

sentita da Servio che da altri, come ad es. Probo; vedi appresso) che presentavano i versi 27 e 28 e per l'altra parte dall'esame psicologico che non sfuggiva alla critica antica del carattere ingenuo e pasto- rale di Tityrus. Ad ogni modo è stata mal compresa dai commenta- tori nostri, i quali si sono meravigliati come mai Servio, che pieno di buon senso si mostra nell' interpretazione generale del carattere dei due interlocutori di questa ecloga, possa poi bonariamente peccare assai volte l.

L'esame die i vari comentatori hanno fatto dei versi 27 e 28 i quali, secondo noi, hanno portato Servio a dare a Tityrus un'inter- pretazione allegorica più restrittiva di quella comune agli altri gram- matici— è degno di maggiore considerazione, tanto più che le que- stioni che vi si legano sono ancora vive e non accennano ad essere risolute in un modo soddisfacente per tutti 2.

Probo in quella sua specie d'introduzione al comento delle Bucol. e Georg, (p. 329) così scrive: « Xec mirandum, quod infra senem se dicit, cum certuni sit, eum, ut Ascanius Pedianus dicit, XXVIII annos natum Bucolica edidisse. Xam eadem licentia [se] senem dixit, cum sit iuvenis, qua pastorem facit, cum sit urbanus, aut Tityrum no- minat, cum sit Vergilius ». Ci pare che Probo, quasi senza darsi l'aria di entrare in questioni assai difficili, sia convinto che la cosa vada in modo più semplice di quel che realmente non sia; e qui è da de- plorare la perdita del comento di tutta la prima ecloga, che a noi riuscirebbe molto importante. Filargirio, fin che può, sembra che eviti qualsiasi interpretazione dei versi citati; ma al fortunate senex del v. 49 è costretto a dirci: non ad aetatem refert, sed ad futuram fortunam praesago usus verbo, dando a quell'espressione un senso proleptico che è stato accolto incondizionatamente dal Mancini nel suo comento già citato. Gli Seh. Bern. e Servio mostrano pel comento al v. 46 la stessa tradizione riscontrata in Filargirio , coincidendo anche verbalmente fra loro.

Servio però, che ha dovuto incontrare maggiori difficoltà ad in- tendere i versi 27 e 28, di essi due diverse spiegazioni, rimanendo in una incertezza manifesta. Giova distinguerle nettamente.

Per l'interpretazione allegorica di Tityrus ha fatto sempre diffi- coltà il senso di quei due versi (27-28) in cui si dice che Tityrus,

1 Vedi l'elegante comento dell'Albini, p. XI, nota.

2 Vedi Mancini, Comento alle Bucoliche, Palermo 1903 e del medesimo A. l'ec- cellente studio Osservazioni sulle Bue. di Virgilio, nella Rivista di storia antica, VII, pagg. 533-561; 681-700.

PARTE I. L'ALLEGORIA DELLA PRIMA ECLOGA DI VERGILIO. 125

per amore della libertà, sia andato a Roma, quantunque fosse tardi ed avesse già brinata la barba. Come mai Tityrus rappresenterebbe Vergilio, se questi, quando serisse le Bucoliche , avea 28 anni l ed era per giunta libero e non schiavo ? E Servio così ci risponde: « et al iter dieit servus libertateni cupio, aliter ingemma: ille enim carere vult servitute, lue habere liberalo vitam prò suo scilicet arbitrio agere». Ma poi non contento del primo comento soggiunse: « aut certe sim- pliciter intellegamus hoc loco Tityrum sicut pastorelli lociitum : nani ubique eum Theocritus mercennarium inducit, item Vergili us ».

Quest'incertezza nell' intendere il vero senso del poeta si mani- festa anche nel comento all'altro verso (28): « Aut mutatio personae est, ut quendam rusticum accipiamus loquentem , non Vergilium per allegoriam; nam ut discimus, XXVIII annoruin scripsit Bucolica: aut certe mutanda est distinctio, ut sit non barba candidior, sed libertas... et bene candidior libertas, ut intellegamus etiain ante in libertate sed non tali fuisse Vergilium». Servio con quest'ultima interpretazione ci riconduce alla comune tradizione a noi tramandata pure dagli Schol. Beni.

Se con quello che fin qui abbiamo detto rimane dimostrato che solo la difficoltà d'intendere i v. 27 28 ha originato in Servio la re- strizione, sopra notata, del concetto allegorico di Tityrus, è ovvio lo spiegarci come quelle altre allegorie ben più strambe che qua e la tradizione allegorica anteriore a Servio portava, ma che non riguar- davano Tityrus, siano state accolte tutte quante dallo stesso Servio.

Con ciò cadono le meraviglie che a questo riguardo i cementa- tori moderni si son fatte.

1 Per il Mancini la figura di Tityrus è il risultato di una contaminazione, in cui la parte del padre del Poeta ha maggior peso di quella del figlio. Vedi il Coni. cit. p. 2. È stato però combattuto dallo Stampini, Comento alle Bucol., To- rino, 1905, 3a ed., pag. 93 (Appendice).

Palermo.

Antonino Romano.

PER LA RICERCA DELLE ORIGINI ITALICHE.

Saggio di tipologia monetale comparata.

(Vedi Tav. Ili e IV).

In una precedente memoria 1 cercai di dimostrare che alcuni tipi di monete della Magna Grecia e della Sicilia, ripetono la loro origine da tipi monetali di città della costa asiatica e delle isole dell'Egeo, e non trovano riscontro alcuno in tutta la monetazione della Grecia propria. E feci osservare che questa corrispondenza tipologica fra l'I- talia e l'Oriente, data la natura dei monumenti pei quali si riscontra, lungi dal rimanere nel campo dell'arte, rivela un fondo comune di civiltà e di religione e apre addirittura nuovi orizzonti alla indagine storica, etnografica e religiosa. Procedendo di questo passo, mi venne dato di cogliere somiglianze tipologiche fra alcune monete di Clima degli Opici e certe monete di Cizico, e mi sentii facoltato ad accet- tare col Sogliano la testimonianza di Eforo circa la origine eolica della città campana 2. Così pure osservai, che un'altra categoria di tipi monetali, appartenenti a diverse zecche della Magna Grecia e Sicilia e più particolarmente a quelle della Lucania e dei Brettii, mostra caratteri così evidenti di culti locali, in un periodo in cui questi subirono profonde alterazioni a contatto della religione ellenica , da fornirci elementi preziosi per lo studio dei concetti religiosi delle popolazioni italiche antichissime 3.

Ma le monete greche dell'Italia antica, esaminate con rigore di critica obbiettiva e coi criteri da me espressi, ci mostrano tracce di immigrazioni di popoli orientali, penetrati per via di mare fin nell'in- terno della penisola in epoca remotissima, i quali si mescolarono alle popolazioni autoctone. Io ritengo che le somiglianze, di cui sono per

1 Sul valore dei tipi monetali nei problemi storici, etnografici e religiosi (Atti del Congresso internazionale di Roma, 1903).

2 Accenno a una mia nota, inviata al Congresso internazionale di Archeologia ad Atene, nel 1905, dal titolo Belazioni artistiche e religiose fra Cuma degli Opici e l'oriente greco- asiatico, rivelate dalle monete, e ancora inedita.

3 Sili valore $ei tipi monetali ecc. pag. 22 dell'estratto,

PARTE I. PER LA RICERCA DELLE ORIGINI ITALICHE. 127

parlare, non possono essere casuali e bisogna ammettere necessaria- mente una continuità e una dipendenza dei tipi monetali dell'Italia da quelli dell'Oriente, anche quando ci manchi il sussidio della tradizione. E ritengo altresì essere così grande l'efficacia dello studio comparativo dei monumenti numismatici, che in molti casi siamo facoltati a cor- reggere la tradizione stessa, non sempre sincera. Gioverà intanto fare una minuta esposizione dei tipi monetali su cui si fonda la mia di- mostrazione.

Triskeles. Ricorre sopra un quadrante della serie dell'aes grave attribuita al Lazio (Garrucci XLV 4) [Tav. Ili n. 2] e sopra un raro asse dell'Etruria o dell'Umbria, appartenente al medagliere fiorentino (Garrucci LIV 7). È impressa su di una moneta arcaica di Caulonia (Br. Mus. Cat. p. 336) [Tav. IV n. o] e fa la prima apparizione nella numismatica siciliana sulle monete di Agatocle (Head H. V. p. 158). Tutte le citate monete, eccezione fatta per quella di Caulonia, non risalgono oltre la metà del secolo IV a. C. Ma se ci volgiamo all'Oriente, questo tipo è di data assai remota : è caratteristico della più antica monetazione di Aspendus, che risale al 500 a. C. [Tav. IV n. 3], lo troviamo su rari tetradrammi macedonici attribuibili a Derronicus , del 480 a. C. (Imhoof-Blumer Monn. gr. p. 90 PI. 1) n. 1) [Tav. IV n. 7], nonché sopra monete incerte tracio-macedoniche le quali si possono assegnare al secolo Va. 0. (Imhoof-Blumer. O. e. p. 100. Macdonald Cat. Hunter I p. 448 PI. XXX 4). Una moneta arcaica di Egina ha la triskeles contrapposta alla testuggine marina (Br. Mus. Cat. XXIV 8).

Lottatori. È tipo rarissimo, che vediamo sul diritto di una in- tera serie di frazioni di aes grave, costituita dal semis, dal triens, dall'uncia e dalla senumcia, attribuita finora alla Campania [Tav. Ili n. 4]. L'unico riscontro, segnalato per altro nel catalogo di Berlino (Beschreibung III p. 33), si può fare con le monete di Aspendus, che offrono numerose varietà e che hanno una grande precedenza rispetto ai corrispondenti pezzi di aes grave campani, risalendo esse al 400 a. C. [Tav. IV n. 2]. Nella ceramica del periodo arcaico il motivo dei lot- tatori ricorre su di un vaso creduto proto-attico, con elementi decora- tivi di arte orientale 4.

Leone o protome di leone con gladio od asta fra le zanne. E fre- quente su monete dell'Italia , manca affatto nella monetazione della Grecia propria ed è invece ripetuto più volte su monete dell'Oriente e dei re di Macedonia. Di singolare pregio artistico è 1' asse della serie latina con la testa leonina di fronte, che stringe fra' denti un

* C, Smith A proto-attic rase (Journal of Jiell. studiea 1902, p. 28, PI, II-IVj,

128 E. GABRICI.

gladio (Garrucci XLI 1 ; XLII 1 ; LXIX 1) [Tav. 3 n. 1]. Lo stesso motivo , ma col leone rappresentato per intero e con asta o gavel- lotto fra' denti o sulla spalla è fornito da monete di Gapua (Garrucci LXXXVII 11) [Tav. IV n. 10], di Venusia (Garrucci XC1V 17, 18) [Tav. IV n. 16], di Matiolum (?) (Garrucci XCV 43, dove è errato il disegno, ma esatta la descrizione alla pag. Ili) ) [Tav. IV n. 15], da monete romano-campane (Garrucci LXXVII 8, 23-26) [Tav. IV n. 9]. I tipi monetali dell'Oriente e della Macedonia, che si possono contrap- porre a questi, cominciano tutti in epoca più remota. Per non citare il grifo a testa di leone cornuto sulle monete di Panticapeo [Tav. IV n. 17], ricorderò il leone con asta fra' denti , della medesima città (Br. Mus. Cat. p. 5 n. 7. 400-300 a. C.) [Tav. IV n. 6], quello di Cardia del Chersoneso tracio su monete die cominciano verso il 400 a. 0. (Dressel Breschreibung I Taf. VI n. 59; Macdonald Cat. Hunter p. 287) [Tav. IV n. 8], quello delle monete di Aminta III l (381-309 a. C), di Perdicca 111(365-359 a. C. i [Tav. IV n. 11], di Macedonia e quello degli Oetaei di Tessaglia (400-344 a, C. Br. Mus. Cat. VII 9-11). Ri- corderò inoltre il leone cornuto con asta fra' denti, delle monete di Sardes e quello con la spada in bocca sopra un doppio statere at- tribuito a Cizico , della collezione Dupré (Ann. Instit. 1841 p. 144 nota 7). Assai di rado il leone è rappresentato sulle pietre incise in questa foggia araldica, e per dippiù quelle poche da citare non possono apportar luce alla mia dimostrazione, poiché se ne ignora il luogo di fabbrica (Turtwàngler Die antiken Gemmen XIII 44, 45 della seconda metà del sec. V e prima metà del IV; XLV 27 greco-romana;.

Toro androcefalo e testa di Sileno. La misteriosa città di Malies, che il Millingen e l'Avellino credettero doversi ricercare nell'odierno Molise e sulla cui assegnazione geografica fecero le loro riserve il Friedlànder, il Minervini, il Mommsen, ha un tipo singolare sul ro- vescio di una delle sue monete, il toro a volto umano con sopra una testa di Sileno (Garrucci XC 14, 15) [Tav. IV n. 4]. Nulla di tipolo- gicamente simile in tutta la monetazione greca; se non che sopra una bellissima moneta arcaica di Catana abbiamo il Sileno corrente al di sopra del toro a volto umano, che ci richiama un monumento di arte preellenica 2. Ma un riscontro perfetto ce lo porge una rara moneta arcaica di Phaselis, anteriore al 400 a. C. [Tav. IV n. Ij. Il tipo di questa fu finora interpretato, ed a torto, come la più antica rappre-

1 II Mionnet (Snppl. Ili 181) descrive monete di Aniinta li con questo tipo.

2 Rev. Nutnisni. N. S. IX (1864) 153. Br. Mus. Cat. Lycia PI. XVI 5. O. Jalin, Arch. Ztng. 1862 p. 113 sgg. M. Lehnerdt Arch. Ztng. 1885 p. 106 s^g.

PARTE I. PER LA RICERCA DELLE ORIGINI ITALICHE. 129

sentazione di Ercole ed Acheloo lj ma io non esito a ravvicinarla al bronzetti» di Malies e riferirla al culto dionisiaco, come alcune rap- presentazioni di gemme italiche, le quali esibiscono il Sileno in atto di abbracciare uno stambecco (Furtwangler Antiken Gemmen Taf. XXIV, n. 29, 30).

Aquila piscaria che ghermisce un pesce. Il motivo dell'aquila che tiene stretta fra gli artigli la lepre o il serpe o il fulmine , è troppo frequente nella monetazione antica; non così quello dell'aquila che tiene fra gli artigli un pesce, quasi sempre delfino. Lo troviamo sopra un raro asse di discussa attribuzione , ma sicuramente della seria la- tina (Garriteci XXXIII 1) [Tav. Ili n. 3], ed anche sulle monete di Akragas, specialmente su quelle di bronzo, la cui serie comincia prima del 40C a, C. [Tav. IV n. 10, 14]. Ma la patria di questi» tipo è da ricercare anch'essa nell'Oriente ellenico, sulle rive dell'Eussino, dove Sinope [Tav. IV n. 13], Olbia [Tav. IV n. 18] ed Istrus [Tav. IV n. 12] adottano nella loro monetazione questo tipo fin dalla seconda metà del secolo V.

Trattandosi di un semplice saggio, ho limitato la scelta a quelle monete, le cui somiglianze sono molto appariscenti. Esse intanto si prestano a considerazioni di altissimo valore storico , etnografico e religioso. Anzitutto dirò, che le popolazioni a cui vengono attribuite e presso cui vennero coniate, non sono popolazioni della costa d'Ita- lia , come quelle in mezzo a cui si stabilirono coloni ellenici ; esse sono invece tutte dello interno della penisola , anzi alcune proprio di paesi montanari situati presso la catena degli Appennini, come Ve- nusia , come Malies, dato che sia Maluentum , come Mateola (?). Le altre vengono attribuite al Latium e alla Campania, ma non hanno nulla da vedere con monete delle città elleniche prossime al mare, a meno che non si voglia ammettere una importazione di alcuni di questi tipi dalla Sicilia , che io escludo recisamente. Questa comu- nanza tipologica fra 1' Italia e la Sicilia è segno invece di una co- mune dipendenza dall'Oriente. Sorge quindi naturale una prima do- manda: come mai questi abitatori di paesi interni dell'Italia adottano tipi monetali che non trovano quasi mai riscontro nelle monetazioni di città greche della costa e neanche della Grecia propria , ma che

i Jahrbuch 1889 p. 119. Milani Studi e materiali II, p. 107,

130 E. GABRICI. PARTE I.

trovano i loro precedenti in monete dell'Oriente ? È da escludere che siamo di fronte ad una corrispondenza casuale; in fatto di arte e di religione bisogna ammettere le ragioni di dipendenza e di continuità. Anche a voler invocare il caso, questo potrebbesi ammettere per un numero limitato di tipi, non mai per un gruppo così numeroso.

E se così è da pensare, come mai e quando i concetti religiosi racchiusi nei tipi del leone col gladio o con l'asta, dei lottatori, della triskeles, del toro androcefalo associato al Sileno, dell'aquila piscaria e le relative loro espressioni artistiche d'importazione orientale arri- varono a farsi strada nello interno della penisola, senza che di loro restasse traccia di sorta fra le popolazioni della costa? Essendo che il tipo monetale ha valore altamente religioso ed è l'espressione dei più remoti culti dei popoli, dobbiamo convenire, che insieme coi tipi religiosi penetrarono nell'interno della penisola e particolarmente nel Lazio, nella Campania, nel Sannio, nell'Apulia anche le stirpi presso cui tali tipi e tali culti erano in voga.

Ma una seconda domanda, ancor più imbarazzante della prima, ricorre spontanea dopo l'esame delle proposte monete.

La triskeles, i lottatori, il leone coll'asta o gladio, il toro asso- ciato al Sileno, l'aquila piscaria sono tipi che, l'uno jier l'altro, fanno la loro apparizione sulle monete dell' Italia non prima della metà del secolo IV a. C, quando invece come tipi monetali sono adottati sulle monete dell'Oriente e della Macedonia per tutto il corso del se- colo Y e scompaiono su per giù verso la metà del secolo IV , pro- traendosi qualcuno fino al termine di questo secolo. Verso questo tempo in tutta la monetazione del mondo greco prevalgono i tipi delle divinità del pantheon ellenico, essendo già fissati e diffusi i tipi antropomorfi di ciascuna di esse. Nel caso delle monete da me prese- in esame, si osserva che le popolazioni italiche, le quali verso la se- conda metà del secolo IV fanno la loro prima apparizione nel mondo monetale, adottano tipi religiosi che stavano per cadere in desuetudine nell'Oriente e nella Macedonia. In tesi generale poi va notato, essere questa una caratteristica comune a tutta la monetazione dell'Italia an- tica, escluse le città greche della costa. I popoli italici che cominciano a monetare aes grave dopo l'esempio di Roma, verso la seconda metà del secolo IV, adottano tipi antropomorfi, fitomorfi o di simbolica reli- giosa ed è poco frequente la figura umana quale espressione della divi- nità. In conclusione, i popoli interni dell'Italia antica quando vengono a contatto della civiltà più avanzata, per mezzo di Roma, ci appaiono di essere in uno stadio di evoluzione artistico-religiosa, al quale tro- vavasi il mondo greco qualche secolo avanti. E si può anche avere

PARTE I. PER LA RICERCA DELLE ORIGINI ITALICHE. 131

per indubitato, perchè traspare da un numero grande di esempi, che questo stadio di sviluppo artistico-religioso dell' Italia interna è me- ravigliosamente affine a quello dell'Oriente. Il cinghiale di Arpi, Lu- cerà ed altri paesi, la protome e la figura intera del cavallo, carat- teristica della monetazione campana, la ruota, la rana, il delfino, l'an- cora, la prora di nave di Roma ecc. hanno i loro precedenti nelle serie monetali dell'Oriente, in ispecial modo di città della costa, de- dite ai commerci marittimi. Di fronte a tanta affinità eloquente non si può di certo invocare il caso, e d'altronde non si può ammettere che tali tipi siano stati adottati nel secolo IV dalle popolazioni del- l' Italia in seguito a semplici scambi commerciali. Tale ipotesi urte- rebbe contro la quasi assoluta mancanza di questi tipi nelle serie mo- netali delle colonie greche della costa , le quali dovrebbero serbare numerose tracce di essi, nonché contro tutte le ragioni dianzi esposte. Merita inoltre considerazione speciale il fatto, che parecchi di questi tipi dell'Italia sono propri di popolazioni marittime, come il delfino, l'aquila piscaria, la conchiglia, l'ancora. In questa categoria annovero il rostro e la prora di nave, arma parlante di Roma. Giova osservare ancora, che per la interpretazione di tipi così persistenti, come quello della prora di nave sulle monete di Roma, non vale il ricorrere ad avvenimenti storici troppo speciali e privi di carattere religioso. È sulla via della verità chi pensa, che questo tipo della prora è in rap- porto col culto dei Dioscuri.

Ammessa dunque una relazione tipologica fra l'Italia e l'Oriente per le monete che stiamo studiando, ammesso che tale relazione non può scendere al tempo in cui le monete dell'Italia fanno la loro appari- zione, ma dev'essere di gran lunga anteriore per la completa assenza di questi tipi su monete di colonie greche della Magna Grecia, am- messo pure che questi tipi ci rivelano uno stadio di evoluzione ar- tistico-religiosa anteriore a quella del mondo greco contemporaneo, non si può non concludere, che i tipi monetali esaminati rivelano so- pravvivenze di concezioni artistiche e religiose di popolazioni pene- trate nell'interno della nostra penisola, prima ancora che le coste fos- sero occupate da coloni ellenici: e queste popolazioni devono esser venute dall' Asia occidentale per via di mare. Saranno state piccoli nuclei di arditi navigatori che, dopo di aver approdato alle coste dell'Adriatico e del Tirreno , specialmente del Lazio, si saranno in- ternati nelle pianure apule e latine, a scopo di commercio od incal- zati dagl'indigeni che vi abitavano. Quando tali immigrazioni siano avvenute, non è facile determinare; il certo è che le tradizioni del- l' approdo di coloni orientali sui due versanti della nostra penisola

132 E. GABRICI. PARTE I.

in età remotissima, spianano la indagine. Le ragioni numismatiche non devono essere trascurate dallo storico dell'Italia antica, essendo le monete i soli monumenti, ai quali possiamo chiedere fiduciosi il responso in fatto di etnografia e di religione. Non respingo la leg- genda di Enea, che approda alle coste del Lazio e che trova resi- stenza da parte dell'elemento indigeno, ma che finisce per rimanervi e dominare. Sfrondata di tutte le aggiunte posteriori, essa nella sua forma schematica regge benissimo. E Koma, che ha origine come ogni altra città interna del Lazio, non poteva adottare , senza buone ra- gioni, come tipo solenne della sua monetazione la prora di nave, un emblema marinaresco per eccellenza, quale era stato per certi popoli navigatori dell' Oriente, della cui arte e religione troviamo tracce troppo frequenti e palesi sulle monete dell' Italia. Il problema delle origini italiche, e particolarmente di Roma, dev' essere ripreso in e- same senza preconcetti fantasticherie di critici ortodossi ; in tal modo si potranno sceverare nella leggenda di Roma gli elementi ita- lici da quelli orientali ed etruschi contemperati e fusi insieme.

Un fatto notevolissimo emerge dallo studio di tipologia monetale comparata, ed è che fra' popoli dell'Oriente, che importarono la loro civiltà nelle regioni interne della nostra penisola, hanno una parte prevalente quelli della costa sud dell'Asia Minore e quelli della Pro- pontide e del Ponto Eussino. Alla Licia, alla Panfilia e alla Pisidia ci richiamano in ispecial modo la triskeles, i lottatori, il toro andro- cefalo accoppiato alla testa di Sileno, la prora di nave; alle sponde dell'Eussino ci richiamano l'aquila piscaria e il leone coll'asta fra le zanne. A questa corrispondenza tipologica fra l'Italia e l'Oriente par- tecipano i paesi situati sulle coste della Tracia e della Macedonia : la Grecia propria riman quasi sempre fuori. Analogamente ebbi a con- cludere altrove, studiando certi tipi monetali di città greche della costa dell'Ionio e della Campania l. Non occorre neanche ricordare, che a cotesta corrispondenza tipologica partecipa quasi sempre l'arte etni- sca, e talvolta al difetto delle monete supplisce la corrispondenza di monumenti etruschi d'altro genere. La figura del leone, ad esempio, con la punta di un'asta fra' denti, si osserva sopra un' urna sepol- crale di Perugia, sulla quale richiamò 1' attenzione il Brunii 2 e le fi- gure dei lottatori, come quelle dell' aes grave italico e delle monete

1 V. le due memorie citate alle note 1 e 2.

2 Bullett. d. Instituto 1859 p. 184 sg. Conestabile , Monumenti di Perugia tav. LXXX 4.

PARTE I. PER LA RICERCA DELLE ORIGINI ITALICHE. 133

di Aspendus , sono dipinte sopra una parete della tomba cornetana degli Auguri o della caccia l. La rappresentazione del gabbiano, che tiene stretto fra gli artigli un pesce, trova riscontro addirittura nella ceramica preellenica 2.

Se il vero significato religioso di tutti questi tipi, da me esami- nati, ci sfugge o almeno non e interamente chiaro, è almeno abbastanza evidente quello del leone con Fasta o giavellotto o gladio. Il suo si- gnificato solare è addimostrato dalla sua frequente associazione con Ercole, nonché dall'essere, sulle monete di Panticapeo , la testa di leone coll'asta adattata al corpo di un grifo, simbolo solare. Tale si- gnificato risulta poi evidente dalle monete imperiali di un periodo, in cui si ebbe una reviviscenza di culti orientali. Infatti alcune monete di Domiziano, Antonino Pio, Caracalla, Aureliano, Probo, Postumo, Diocleziano , Valerio Massimiano hanno il leone or con la lancia or col giavellotto, or con lo scettro, or col fulmine in bocca. La lancia, il giavellotto, lo scettro sono quindi equivalenti del fulmine ed accen- nano al dardeggiare dei raggi solari. Così che questo tipo, come quello della triskeles, e come tanti altri di monete dell'Italia antica, entra in quella categoria di rappresentazioni monetali, che muovono dal con- cetto della divinità maschile di carattere celeste e solare.

1 Ann. d. Iustit. di corrisp. arch. a. 1881 p. 5. Monumenti voi XI tav. XXV.

2 Monumenti dei Lincei 1905 voi. XIV punt. II tav. XXXVII e XXXVIII.

Napoli.

Ettore Gabrio.

INDICE DELLE TAVOLE.

Tavola III n. 1 Br. Asse con la protome di leone. Museo di Napoli, Fiorelli Cat. u. 483.

> n. 2 Br. Quadraus con la triskeles. Londra, Br. Mus. Cat. Ilaly p. 57 n. 17. n. 3 Br. Asse di Reate. Museo Kircheriano, Garrucci XXXIII 1.

> n. 4 Br. Seniis della Campania (?). Museo Kircheriano; gr. 42, 90. (Il calco

mi fu gentilmente inviato dall'Haeberlin).

Tavola IV n. 1 Arg. Statere di Phaselis. Londra, Br. Mus. Cat. pi. XVI n. 5. » n. 2 Arg. Statere di Aspendus. Londra, Br. Mus. Cat. pi. XXI 7.

» n. 3 Arg. Statere di Aspendus. Londra, Br. Mus. Cat. pi. XIX 2.

ì> n. 4 Br. Moneta di Malies. Napoli Collez. Santangelo, Fiorelli Cat. n 417.

2> n. 5 Arg. Frazione di dramma di Caulouia. Londra, Br. Mus. Cat. pag.336 n. 16.

» n. 6 Arg. Moneta di Panticapeo. Londra Br. Mus. Cai. pag. 5 n. 7

» n. 7 Arg. Decadramma di Derronicus. Londra, Br. Mus. pag. 150 n. 1.

» n. 8 Br. Moneta di Cardia. Berlino, Beschreibung I Taf. VI 59.

» n. 9 Br. Litra romano-campana. Napoli, Collez. Santangelo; Fiorelli Cat.

n. 1591. s> n. 10 Br. Moneta di Agrigento. Glasgow, Collez. Hunter, Cai. (Macdouald)

voi. I PI. XI n. 16. » n. 11 Br. Moneta di Perdicca III. Glasgow, Collez. Hunter, Cat. voi I

p. 287 n. 1. » n. 12 Statere di Istrus. Glasgow, Collez. Hunter, Cat. voi. I p. 410 Pi.

XXVII 12. » n. 13 Arg. Moneta di Sinope. Londra Br. Mus. Cat. XXII 7.

» n. 14 Oro. Moneta di Agrigento. Napoli. Museo Nazionale; Fiorelli Cai. 3908.

» n. 15 Br, Moneta di Matiolum. Berlino, Beschreibung III pag. 195 n. 1.

» n. 16 Br. Moneta di Veuusia. Napoli , Collez. Santangelo , Fiorelli Cat.

n. 2148. » n. 17 Oro. Statere di Panticapeo. Londra, Br. Mus. Cat. pag. 4 n. 1.

» n. 18 Arg. Moneta di Olbia (Sarmatiae). Londra, Br. Mus. Cat. n. 1.

» n. 19 Br. Moneta di Capua. Berlino, Beschreibung III PI. Ili n. 34.

UN GIUDIZIO DI CICERONE

INTORNO A LUCREZIO ».

Cicerone dovè ricordare certamente la parte da lui avuta , in gioventù , nella divulgazione del poema di Lucrezio , quando si ac- cinse più tardi a dettare una delle sue più cospicue opere di filoso- fia intorno alla natura degli dei. È così evidente il contrasto tra i due obiettivi diversi, a cui mirano, da una parte, il poema de re- rum natura, e dell'altra il trattato de natura deorum, che non si può dubitare del proposito dell' Arpinate, di contrapporre il suo libro, de- stinato a ristorare il culto degli dèi , al meraviglioso poema , che aveva avuto per scopo ed effetto di detronizzarli.

Era forse un pentimento tardivo, sopraggiunto nell'animo del fi- losofo e dell'uomo politico !

Gli antichi eran soliti di compiere con amorosa cura questo de- licato ufficio, di tener cioè desta la memoria degli amici, col pubbli- carne le opere, che essi avessero lasciate per caso interrotte o pure inedite. Sappiamo da Probo, che 1' edizione delle satire di Persio fu compiata, dopo la morte immatura del poeta, dall'amico di lui, Anneo Cornuto, il quale leviter eas retractavit.

Tale revisione, come risulta degli scoliasti, dovè avere per com- pito di smussare e velare o, anche, di eliminare del tutto dal tessuto di esse, alcune allusioni, troppo violente o troppo aperte, a Nerone, perchè il liber satirarum potesse più liberamente circolare nel pub- blico. La cura dell'edizione fu poi da Cornuto affidata a mi altro a- mico di Persio, a Cesio Basso.

Un ufficio consimile dovè compiere anche Cicerone verso l'opera di Lucrezio, riordinandone forse gli scomposti frammenti e lasciando al fratello o ai copisti le cure più modeste della pubblicazione.

La testimonianza esplicita, che ce ne ha tramandata Geronimo, trova conferma in quel luogo delle Epistole di Plinio 3, 15, dove, par- landosi appunto di questa consuetudine degli antichi, di farsi editori delle opere poetiche dei contemporanei, si attesta di Cicerone, che mira benignitate poetar uni ingenia fovit.

1 Sopra la traccia degli appunti , raccolti da un corso di lezioni, che circo- stanze diverse hanno finora vietato di pubblicare,

136 E. COCCHIA.

Qualcuno potrebbe dubitare della coperta allusione, intraveduta in queste parole al poema di Lucrezio , per il fatto che il nome di lui non apparisce mai nelle opere dell' Arpinate. Ma non conviene di- menticare che Cicerone, sebbene intrecciasse, con spiccato compia- cimento, alla sua prosa fiorita, citazioni frequenti ed olezzanti di poeti antichi, ha lasciato sempre da parte i contemporanei, e non ha con- cesso quest' attestato d' onore nemmeno a Catullo , al quale pure fu avvinto dai vincoli più intimi dell' amicizia, e dal quale derivò non pochi influssi nel magistero sovrano dello stile, che gli ha fatto onore.

Oltre a questo raffronto indiretto e persuasivo , soccorre ovvia la considerazione, che Cicerone evitò tòrse in sèguito di fare pur cenno del poema di Lucrezio , per non dar corso e maggiore diffusione a dottrine , ravvivate dal calore dell' arte , ma affatto repugnanti alle proprie. La sua coscienza filosofica e politica l'aveva portato ad as- sumere uua posizione risoluta e decisa contro l'Epicureismo, e l'aveva costretto quasi a dimenticare la parte, che quale erudito egli aveva preso, parecchi anni innanzi, alla pubblicazione di un poema splen- didissimo, destinato a illustrare quella dottrina. Ma neppure più tardi egli potè spogliarsi interamente del fascino esercitato sul suo spirito da' luminosi bagliori del genio luereziano, con cui ebbe e mantenne comuni gli ideali della vita politica. E forse derivò da queste memorie, non mai obliate, della giovinezza gli splndidi colori, di cui, tra tutte le dottrine contradette , ha circonfusa con special cura, in ogni circo- stanza, la lucida e vigorosa esposizione delle teorie d'Epicuro.

Conviene anche aggiungere, che Cicerone non si mostrò mai uno Stoico astioso ed arcigno, rìgidamente e teologicamente chiuso nella cerchia angusta di una dottrina esclusiva. Egli appartenne all'Acca- demia, e questa, com' è noto, professava la dottrina del dubbio.

Si badi inoltre che Cicerone , per la sua professione oratoria , dovè conservare grande libertà di pensiero, congiunta a piena indi- pendenza di giudizio.

Senza di questa considerazione, non si spiega come egli ci si mo- stri , nelle sue feroci invettive contro Pisone , quasi come un difen- sore dell'Epicureismo, e come, per difendere Murena, non esiti a com- battere le intemperanze metodiche e dottrinarie dello Stoicismo, lo non nego che a questa apparente mutabilità o contraddizione dei suoi criterii filosofici abbiano contribuito, volta per volta, le necessità e le preoccupazioni delle opposte tesi, che aveva preso impegno di far trion- fare. Ma si fermerebbe all' apparenza chiunque chiudesse gli occhi alla luce ideale, con cui l'autore trasfigura nobilmente queste evolu- zioni progressive del suo pensiero.

PARTEÌ I. UX GIUDIZIO DI CICERONE. 137

Il temperamento di Cicerone èra improntato da un grande equi- librio mentale ; e questo si rispecchia anche nella temperanza della sua condotta politica e nella deferenza costante alle opinioni degli amici , tra i quali il più intimo fu sempre per lui Tito Pomponio Attico, cioè un lido ed autorevole seguace della dottrina epicurea.

Di questi contatti di Cicerone con Lucrezio e con la filosofia e- picurea troviamo due tracce assai cospicue nelle sue epistole.

La prima, di cui esclusivamente ci occuperemo in questo saggio, risulta da una lettera al fratello Quinto, 2, 9, .'> , scritta nel feb- braio del 700 , nella (piale ci è dato forse di sorprendere un giudi- zio assai acuto del sommo oratore sui meriti singolari del più grande poeta-filosofo, che vanti l'umanità. Egli scrive: « Lucretii poémata « ut scribis ita sunt multis luminibus iugenii multae tanien artis sed « cuiii veneris virum te putabo si Sallustii Empedoclea logeris lio- « minem non putabo ».

Gli editori giudicano, per solito, queste parole come di colore o- scuro; e si provano ad emendare variamente la lezione dei mscr., per quella fallace tendenza che ci porta talora a voler trovare riflessi negli scrittori antichi i sentimenti nostri e le opinioni, che per av- ventura ci siamo formati intorno al concetto che essi ebbero della vita e dell'arte.

Xel caso in esame , gli errori di ermeneutica ci sembrano deri- vati direttamente dal fatto, che i critici considerano la testimonianza di Cicerone come posteriore alla morte di Lucrezio. E con tale pre- concetto immaginano di trovarvi un accenno all'emendazione e pub- blicazione del poema, a cui l'Aspinate si era già accinto.

Vedremo che nemmeno questo punto di vista giustifica le emen- dazioni congetturali, con cui essi si sono studiati di adattare il pen- siero di Cicerone alle loro teorie. Ma, intanto, vogliamo preliminar- mente osservare, clic dalla tradiziono di' Donato, il (piale fa coinci- dere la morte di Lucrezio coli' anno in cui Virgilio assunse la toga virile , non deriva irrefutabilmente che Lucrezio sia morto nel 001) di IL, cioè nel 55 av. Cr. In quell'epoca Virgilio contava appena 15 anni, cioè due di meno dell'età legale richiesta per l'assunzione tra gli efebi. L ci è da ritenere, che la combinazione cronologica di Do- nato sia meno attendibile della notizia conservata in un codice mo- nacense del EX secolo, dove quella coincidenza è riportata al XXVII anno della vita di Virgilio. Se si combinano insieme i due dati , si

138 fc. COCCHIA. PARTE I.

trova assai più plausibile l'ipotesi, che corregge la facile duplicazione iniziale di questa nota, col riferire la morte di Lucrezio e la virilità di Virgilio all'anno 53 av. Cr., cioè 701 di Eoma.

Questo spostamento risulta giustificato anche da qualche indizio, che ci par di scorgere nelle oscure parole di Cicerone, riferite dianzi. La forma del plurale poèmata, con cui questi si riferisce all'opera di Lucrezio, non può accennare al contenuto organico del de rerum na- tura, quale noi lo possediamo, ma soltanto a brani o estratti del poe- ma, quali forse già correvano per le mani degli studiosi. Certo quella forma esclude che 1' edizione complessiva del poema fosse un fatto già compiuto, nell'anno 700, a cui il cenno di Cicerone ci riporta.

Le prime note di quelle parole ci lasciano infatti intendere, che Quinto aveva preso l'iniziativa o accettato l'invito di discorrere dei meriti dell'opera lucreziana. Ma non appare chiaramente quale fosse stato il pensiero di lui, perchè il consentimento del fratello è espresso in una forma affatto generica : « Lucretii poemata ut scribis ita sunt, cioè « l'opera di Lucrezio ha proprio il valore che tu le attribuisci ».

Sulla natura di questo giudizio vengono a gettar luce gli ele- menti successivi , espressi nella forma antitetica : multis luminibus ingenti multae tamen artis. Ma non tutti ne intendono la correlazione esatta, in cui son posti col pensiero dell'autore.

Si nota anzitutto il contrasto tra la forma diversa in cui sono e- spressi i due membri di questo inciso, risultante da un ablativo (mul- tis luminibus) e da un genitivo di qualità (multae artis). Ma non si avverte, che ciò è perfettamente conforme all'uso costante degli scrit- tori classici, di costruire, al plurale, in caso ablativo il complemento di qualità.

In secondo luogo, la presenza del tamen nel secondo termine ha fatto credere a parecchi interpreti , che qui si tratti di un contrap- posto tra luminibus ed artis, e che, mentre l'un termine accenna ad una lode, l'altro contenga un biasimo.

Si badi, però, che il multae artis non si presta per se stesso a siffatta interpretazione. E, per ridurlo ad essa, si sono escogitati due diversi mezzi.

Alcuni, come il Beit zen Stein, han creduto che ars valesse in questo luogo a un dipresso come tè%vri , cioè « disciplina » , e signi- ficasse l'organismo dottrinale, l'aridità del tecnicismo filosofico. Altri invece, come il Bergk, mantengono ad ars il suo significato normale, ma suppongono, per mantenere l'antitesi che hanno immaginata, che innanzi a multae artis sia caduta la negativa non. Giusta questa loro opinione , Cicerone avrebbe riconosciuta in Lucrezia molta potenza

UN GIUDIZIO DI CICERONE. 139

inventiva e fantastica, ma non già lo splendore della forma artistica. Altri, come il Lachmann e l'Ermesti, han creduto invece che la negazione sia rimasta soppressa innanzi a multis luminibus ingenu, e che Cicerone abbia riconosciuta a Lucrezio l'arte della parola, ma non la potenza creatrice della fantasia.

Tutte queste ipotesi sembrano a me inattendibili e contradittorie.

Quanto alla prima io noto, che il parallelismo formale è rinfor- zato dalla presenza del multae , e che quest' aggettivo applicato ad artis implica uno lode , non altrimenti che i multis riferito a lumi- nibus ingenti. I Latini infatti distinguevano tra loro nettamente la facoltà dell' ingenium , cioè della potenza creatrice e fantastica, e Vars, che è l'attitudine a rappresentare in forma perfetta e sensibile le creazioni dell'ingegno. In tal senso Ovidio poteva esaltare in En- nio la robustezza della fantasia, a scapito delle attitudini artistiche: Ennius ingenio maximus , arte rudis. Ma tale antitesi non si giusti- fica in persona di Lucrezio , i cui carmi parvero a buon diritto a Fervorino, presso Gellio, come ingenio et facundia praecellentia. Or non vi ha dubbio, che in questo giudizio faoundia è l'equivalente di ars; può esser diverso il giudizio di Cicerone.

Quanto alle altre ipotesi, basta l'audacia contradittoria delle e- mendazioni proposte ad escludere la verosimiglianza intrinseca di esse.

Il nostro parere è questo, che di emendazioni congetturali non vi sia punto bisogno , per intendere il pensiero di Cicerone. E son portati a fargli violenza soltanto quelli i (piali immaginano, clic sia contradittorio in bocca di Cicerone un giudizio favorovole intorno a un rappresentante, anche insigne, della filosofia epicurea.

Io non dimentico che Cicerone , nelle Tusculane, contraddice a Lucrezio soprattutto nell'esaltazione entusiastica, che lo aveva indotto a paragonare a un dio il sue maestro, lògli scrive in 1, l'I : « solco « saepe mirali nonnullorum insolentiam philosophorum , qui naturae « cognitionem admirantur eiusque inventori et principi gratias agunt « eumque venerantur ut deum ». Ma il dissenso nella dottrina non poteva impedire a Cicerone un giudizio equanime ed imparziale, che riconoscesse almeno le attitudini poetiche di Lucrezio.

Grande anche a lui doveva parere la differenza tra l'arte ancora rude di Ennio , 1' introduttore dell" esametro nella poesia romana , e quella di Lucrezio, che preludeva così splendidamente ai fulgori del- l'età augustea. In particolar modo, poi. Cicerone non poteva dimen- ticare di essere stato precorso da Lucrezio nel felice ardimento di adattare la lingua latina all'espressione più varia dei concetti filoso- fici ine ci.

140 È. COCCHIA.

Se queste nostre presunzioni colgono nel giusto segno, ne deriva di conseguenza , che le parole di Cicerone intorno all' ingegno e al- l' arte di Lucrezio non possono contenere alcuna ombra di biasimo.

10 non so se un concetto simile errasse vagamente anche innanzi al pensiero del Wesenberg, quando propose di mutare multae ta- men artis in multae etiam artis. Ma 1' emendazione, a cui trascorse, contribuì ad annebbiare 1' intuizione , che forse gli era brillato alla mente, e disperse o lasciò senza presa le felici suggestioni, alle quali poteva dar luogo. Egli conce])! quell'inciso (multis luminibus ingenti, multae etiam artis) come una continuazione del pensiero di Quinto, e lasciò sparire l'antitesi, che Marco Tullio aveva opposto al consen- timento generico nel parere di lui.

Noi non sappiamo precisamente quale questo parere fosse stato. Ma, se 1' opposizione implica una lode, conviene ritenere che il giu- dizio di Quinto fosse stato poco favorevole atl'opera di Lucrezio, alla quale forse rimproverava di essere niente altro che « un'esposizione in versi di Tina dottrina filosofica », alla maniera dell' Empedoclea sal- lustiana. 11 fratello Marco, pur convenendo nel fatto, ribatteva però, che il poema lucreziano rifulgeva per una grande potenza inventiva e per abbondanti tesori d' arte.

Qualcuno, però, potrebbe obiettare a questo nuovo tentativo er- meneutico , che il pensiero di Cicerone, per riuscir chiaro, dovrebbe esser preceduto, anche nel primo termine, dalla particella avversativa tamen. Ma, a prescindere dalla durezza che avrebbe presentato il giro della frase : multis tamen luminibus ingenii multae artis, e dalla man- cata cadenza ritmica del secondo membro dell'inciso, ove ne fosse spa- rito il tamen; è pure a notare, che lo spostamento di questa particella nel secondo termine unifica sotto un sol punto di vista l'antitesi, alla quale Marco Tullio aveva intenzione di dar rilievo : antitesi che non poteva risultare incerta, in alcun modo, al lettore della lettera, come è riuscita dura ai suoi interpreti.

Fermato questo criterio, risulta facile e chiaro anche il concetto espresso nel novello inciso , che tanto ha affaticato sinora, e inutil- mente, l'intelligenza di critici illustri: sed cum veneris 'virum te pu- tabo si Sallustii Empedoclea legeris hominem non putabo.

11 Marx propone di interpungere questo brano con un punto fermo dopo veneris , come se l'autore volesse intendere : sed cum ve- neris (pi lira dicani). Ma, a prescindere che il cum veneris è troppo evidentemente legato colla frase successiva (putabo), è anche a notare che 1' ellissi, proposta dal Marx, riesce troppo dura, e che, per risul- tare evidente, essa dovrebbe essere almeno integrata in questa forma: sed [plura] cum veneris.

UN GIUDIZIO DI CICERONE. 141

Il Bergk , invece, che aveva proposto di dirimer l'antitesi, at- tribuendo il primo termine al giudizio di Quinto , e contrapponendo a questo, con un tentativo d'integrazione non necessaria, il pensiero di Marco Tullio : Lucretii poemata, ut scribis, ita sunt , multis lumi- nibus ingenii, ]non] multae tamen artis, si trova costretto a integrare anche lui, nella seconda parte, il pensiero dell'autore, che gli riesce zoppicante. E propone di aggiungere, dopo cum veneris, la frase ad umbilicum , nel senso di « ad flnem , ad extreunuu ». Ma , a tacere della grave e inesplicabile omissione, non s' intende neppure il pen- siero o il ghiribizzo che risulterebbe da questo gioco di parole : sed cum veneris ad umbilicum, rirum te putabo.

11 fatto è questo, che le parole di Cicerone non hanno bisogno, per essere ben intese , di nessuno dei complementi immaginati dai critici. Anzitutto bisogna cogliere nettamente l'antitesi del pensiero, a cui Cicerone ha dato rilievo, col contrapporre virum a hominem, cioè « l'uomo forte e di lena » all' « uomo intelligente ».

Quanto poi al Sallustio, l'autore dvWEmjiedoclea, conviene in mancanza di fonti rassegnarsi a supplire coll'iinmaginazione quello che esse ci hanno involato. Da Cicerone abbiamo notizia di un Gneo Sallustio , che gli avrebbe consigliato di rimutare il piano dei suoi libri intorno alla Repubblica. E può ritenersi, che questo stesso sia stato anche autore di una traduzione in latino dell'opera poetica di Empedocle, intitolata 7Csqì (pv6EGìg.

Quest' opera ispirò anche il titolo ed alcuni concetti del poema di Lucrezio de rerum natura ; ma dovè essere travestita in latino dal suo traduttore col titolo Empedoclea, estratto dal nome del poeta agrigentino che l'aveva composta.

La contrapposizione giustifica questa ipotesi e ci lascia supporre che Quinto , per attenuare il valore del poema di Lucrezio , abbia paragonato senz'altro ad esso un altro poema filosofico, cioè VEmpe- doclea tradotta da Sallustio. E Marco Tullio, clic eia forse abituato a prendere in gioco non meno la bassa statura clic la corta intelli- genza di Quinto, avrà ribattuta con arguzia bonaria l'infelice compa- razione, coli' aggiungere alle lodi già fatte di Lucrezio questo motto di spirito : sed cum veneris, virum te putabo, si Sallustii Empedoclea legeris, hominem non putabo, clic vogliono significare in lingua umile e povera: «se alla tua venuta avrai forza di leggere il poema di Sallustio intitolato da Empedocle, io ti giudicherò un uomo di lena, ma non un uomo d' ingegno ».

Napoli.

Enrico Cocchia,

UN FRA/AMENTO DI CODICE

delle « Institutiones grammaticae » di Prisciano.

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Fig 81.

È nell' Archivio distrettuale di Schicca, e mi fu mostrato come una curiosità archivistica i mentre cercavo tra le carte più antiche qualche documento che avesse importanza storica.

Nicolò Giannina, notaro di Sciacca dal E516 al L567, soleva scrivere l'indice dei suoi atti in fascicoletti di carta di forma rettan- golare. Uno di essi (e. 31 > 11 )? e precisamente quello dell'anno della prima indizione 1527 , ha per copertina una pergamena , che è un frammento di un codice molto antico. Leggendo mi accorsi che conte- neva una parte delle « Institutiones grammaticae » di Prisciano , il grammatico del V secolo , che nacque a Cesarea ed insegnò a Co- stantinopoli quei precetti i quali poi, scritti da lui stesso, servirono di base all'insegnamento del latino fino al secolo XV.

11 frammento, di cui do notizia, risulta di un foglio intero e di un altro in parte tagliato. Dal foglio intero ricaviamo le dimensioni del

1 Ne farà menzione il conservatore G. Epifanio in un suo lavoro siili' ordi- namento di quell'Archivio.

UN FRAMMENTO DI CODICE. 143

codice , mm. 23 > X 177 , di cui inni, 200 X 108 occupati dalla scrit- tura. Esso ha nella parte laterale, che corrisponde a quella superiore della copertina dell' indice « Alfabetici, anni, prime, indicionis. 1527. » Il secondo foglio manca a destra di una striscia, che certa- mente fu tolta per pareggiare la copertina dell'indice colle pagine dello stesso. È largo mm. 138, senza la striscia che comprendeva an- che una piccola parte dello scritto ; sicché le parole lunghe sono in fin di riga dimezzate, le brevi mancano del tutto. I fogli sono scritti da tutte e due le pagine e ciascuna contiene invariabilmente 33 righe.

11 codice , al quale apparteneva il frammento , non pare poste- riore al sec. X. La scrittura, che è la carolina perfezionata, trovasi in generale in buono stato di conservazione, più nelle due pagine corri- spondenti alla parte interna della copertina che nelle altre. Il punto sta in luogo di qualunque segno ortografico e , quando equivale al nostro , è seguito da lettera maiuscola. Se questa cade in principio di rigo è scritta nel margine.

Il testo è in generale molto corretto e, se si toglie qualche va- riante, per altro assai rara, e il ci che sostituisce costantemente il ti, quando è seguito da altra vocale , risponde a quello pubblicato da Martino» Hertz nell'edizione critica. (Prisciani Grammatici Caesariensis Institutionum Grammaticarum libri XVIII. Lipsiae, MDCCCLXVTIII).

S'incontra talvolta qualche correzione che pare fatta dalla mano stessa che scrisse il codice.

In tutta la prima pagina del primo foglio e nelle prime cinque ri- ghe della seconda si discorre del pronome. Segue: « Finit Liber Pri- sciani Grammatici ])e Pronomine (XIIJ. Incipit Liber Eiusdem Q (?) XIIIJ De Preposicione Feliciter ». Questa indicazione con varianti più o meno notevoli si trova in parecchi dei codici consultati dall'e- ditore, dei quali un solo, il Carlsruhense 223 l, ha il « finit », gli al- tri hanno «explicit». Il « Feliciter» prima o dopo il titolo delle va- rie parti della Grammatica di Prisciano si trova nei codici sin dal secolo IX. L'abbiamo nell'Ambrosiano B. 71, che è appunto di quel secolo, al f. 09 2.

Xel resto di quella seconda pagina e nelle due del foglio rita- gliato si tratta della preposizione.

Il secondo foglio iterò non è la continuazione del primo.

La la riga del foglio A è: « k «pud est talis vel tantus ? ' dici-

1 È del sec. IX. Hertz, op. cit. voi I, 1865, p. XIIII.

2 Cfr. Spogli ambrosiani latini del Sabb;ulini iu Studi ititi, di filol. class, voi. XI, p. 241.

144 V. EPIFANIO.

mus ' similis huic, de quo loquimur ' ergo cum ad». Nell'ed. Hertz corrisponde al r. 30 della p. 20 del II voi. Il foglio B finisce colla riga «...eia, ut ' scribit et legit homo ' vel ' hiatus et fortis homo', ut et hoc ipsum planius». Hertz, p. 25, r. 5: «et ut hoc ipsum ple- nius ». La maggior parte dei codd. ha però la lezione del nostro. 11 r. del foglio A è : « in I historiarum ' ad bellum persi ma- cedonicum ' numero ad...». Hertz, p. 30, r. 20. Ultima riga del fo- glio 2° B: «... puyr{ evi xatavevQr] co etci %oXXa spo ». Hertz, p. 33, r. 17: « ... yid'm evi "avòiccveCqti, 'Sii sui TtoXXà èvó[t]6cc...»

Confrontando il testo del frainm. colla stampa dell'ed. Hertz, si vede che tra i due fogli del cod. mancano quattro pagine di scrit- tura. Infatti il f. equivale a 70 r. di stampa (da p. 22 a p. 25) , il f., che contiene molte citazioni di versi, a 93 r. (da p. 30 a p. 33). In media abbiamo circa 80 r. di stampa per ogni foglio del codice. La lacuna che è tra i due fogli corrisponde 102 r. di stampa (da p. 25 a p. 30); mancano quindi precisamente due fogli del cod., cioè i due fogli di mezzo di un fascicolo di pergamene piegate , delle quali la nostra era la penultima.

Noi non sappiamo in qual modo quel framm. venisse nelle mani del notaro di Sciacca. Ma 1' esistenza di un codice molto antico in quella parte della Sicilia ci fa credere che anche ivi nel Medio Evo il testo di Prisciano si adoperasse per l'insegnamento del latino.

Palermo,

Vincenzo Epifanio.

N0MI2MATA EBETON E0NOTS ArNaSTOr 0ES2AAIAS KAI HTIEIPOr.

(ZvyifioXri sii; trjv vofiL6[icctix^v rrjg xvgCag xaì titq MsydXrjg 'EIXddog).

Ehàv 22.

Ra{>' ov ypóvov ".t^iòv tt(v Xiav Tifxwaàv as 7cpó<7x>.i]<Tiv to5 *và gumust xa.ay(ù sì; ttjv (juYypixtpyjv -k ou TÓp.ou —pò; ti|7//jv tou ffocpoù cruvao£X<po'j u.ou K..°u 'Avtwvivou £a>iva SGJCSTrrójx'/jV olov ì)à tjto tc. [aòcXXov àpj/.ó£ov Oiy.a "EàV/jvi vo[x'.T[/,aTi/tt5 , ypà'povTi —pò; tijjl^v ' IraAo^ G'jvaòsXfpo'j , aT/o^'/jOivro; ìouo; £>,; TVjv [j-ùl-rr^ Ttov vo|JU<j»/.àTtdv tv;; IVLsyà>.7j; 'EW.aSo;, àyaOv- ti; Tuyyj sùyjpsffTTJtì-7] va »/.oi xpo,j'7'.à'77j <xvsx,&otov vó[/.u;|/.a, <jy*Ti£ójjt.svov à»/.£«7Ci>; »xsv —pò; T/jv vo«i.t<7|/,aTt/C^v tyj; sopito; ' E}JXxr)o; , é|X|JLS<70); òè —pò; éz.£Ìv/jv c/j; év 'IcaXìz MevocX'/j; ' EXXàòor.

vóu.iG'/.a tovjto (Etxtòv U2) àvsjeaXuo&'/j £<7yàro>; apà t/jv XaX/Cioa xr,; Eùpoia?, avutasi ùi v\iv tco /.. I\ \. XaT^vjVtx.oX'ìj , Sixvjyópw sv'Atb]- vat,; , x.aì syst. to scr,;-

Xocl. 30 /;.).. ZEYS EOETON ~spt£ xapattjc Aio; 8a?vo*TS?ou; STTpaaviv/]; —pò; àp. òXov sv >cu;cXto ff'paipiouov.

"Ott. Tx\)po; /.-jpiGTcov -pò; $s;. £-1 ypxy.jr?,; n/ìf);j!.aTt^O'j<r/j; s^spyov, sv to ... EIQN.

Io Tra/'jTaTOv (6 yi^iocTtòv) ttstxXov y.xl •/; oXto; à<7'jvr(ab); oià vo- r/,i<TaaT<x T7J? xjjpito; 'EXXaSi? òX/.v; ocuto'j {Voxy.y.. 31,92) } x/jpìio; hz co

10

146 L N. ZfioQ&vog. parte i.

ysyovò; oti tj xscpotAY) tou Aio? sìvat, àvtiysyQcc^iiBvrj àxò twv voy.tcrjAaTfov

TCÒV 2upaX.0U(7WV , TtoV (pSpOVTCOV 7T£pl T0CUT7JV TYjV X.S'paATjV TTjV £77 lypacpvjv

ZEYS EAEYOEPIOS l, cóv aocAiara /aA*à(Eìx(òv 23)

sivai. tou ocÙtoù s£aipsTix.(3; —ayso; ttstocaou, scTps^av (ÌAs;A[AaTa [/.ou, (//jtouvto; t'^v Trarpi^a ror vo;AÌ<7[Aa- to; toutou, —pò; T/]v MsyaATjv 'EAAa^a, ói /.al oùSs- 7:ot£ àvaxaAu— tovtxi sv t9j Eùpoia yaA/à voaÌGjAaTa T7jc MsyaÀT]; 'EaaocSo;.

Tt]? fV s~iypa<p7j; AIO* EOETQN àvv)x,ou<n); xpo- cpavco; sì? t^v votu<7[/.aTt>a]v ssipàv t<3v sttiOstov tou Elxàv 23. a7rs»c.ovt£o[jtsvou ftsou si; sO-vo; ti v] ttoaiv àva<pspou<7(òv

STcìypacpuv, - oiai 7r. /. ai s-typa'-paì AIO£ TAP2EQ1X, AIOE SOATMEnN, 0EOY MEFA/VOr OAU2ITaN,0EaN KABEIP12N 2rPION,0HBH AAPAMrTHNON,TrXH AAPAHNON,AHMOr ArKIT- PANON, ^ PAZAION, NrZAEQN, PÉMAION, <MAAAEA<t>EON *ta. 2-, é^TTjcra, aAAa [v.ottjv, év t?j MsyaAY] 'EaXocSi Aaòv <pspovTa ovo;/.a tcòv

'E&STtOV.

Tots S' ojaw; àvsjAvr^xbjv oti 'E&vi/.òv !No|Atc>[7.aT^òv Mouasiov T(3v 'Atbjvwv x.£XTV]Tixt SsuTSpov svtsaw; o[/.oiov , av fcaì )aav s<pS-ap[Asvov, vo[/.wi[/.a t<3v 'Et>£T(3v, svqs&sv èv 'HjtelQG) , 7rspl ou 6 àoiotf/.o; 7:po;caToyó; [/.ou 'A^iaasÙ; rio<7TOAax.a; sStjjaocÌsucsv év -r/j rTpuTavr/.v] toù 'E&vix.ou yj;a(ov ITav£7rtGT7][xìou AoyoSocia tou 'Ax.a&yj[A. stou; 1882 1883 (ctsa. 190) rqv

SqTJ; 7T0Al'Tip,0V C>Y)[/.SÌ(i)C>tV :

« Nótii6[ia 'HtcsCqov, cog (paCvsteci « KecpaTj) Atò;) (Bou; /.upiTTtov. Nóf/.wjjux suts/vou puOjAOu àXXà x.ax.c5;

« SiaTST7]p7][/.SVOV , TTSpiEpyOV &S X.0CÌ àElOTa|AtSUTOV £V£X.3C TOU Tùa/SO; a'JTOU

« tcstocaou (6 /laio(7T(3v tou PaAAi.tto~ [/.srpou) xai tou <TTa$-[/.ou (ypa[/.[/.. 28,42), « àriva 7ìptOTO<pav^ Si' éf/i sv Tòte yjxaxòi; V0f/i<7[/.afft tvj; xupito; 'Eaaocòoc. « EvQS&r} dh èv lóyca vófiiòiia èv 'HxsCqgì %axà trjv diufisfiuCcìGiv « tov cpiloiiovGov dcoQrjtov n. navccyiórov Kccvdtfl?] xov ex tov %coqlov « NÙGxoqu tìjg 'HxsCqov ».

ysyovòi; oti xpòg sx t^; /tuptw; 'EaXocoo; ouo voaiaiAaTa o[j.ota tou; tuttou? jcocì TTjV TS/voTpo7Tiav vo[/.«7|J!.aTa t^? Msyal'/j; 'EaXocSo;

àv/j/CQuaiv si; tou; ^pcvou; tou; Trspl tv;v sì; T7(v MTaAÌav s>C7Tpa.TSÌav

1 Imhoof-Blumer. Mounaies Grecques p. 30, no 60—65. BMC. Sicily p. 184 no 265; p. 188 no 311 fig. (= Elxwv 23) 320. Ufi%. ucci o^oia vo[iÌG[icctu r&v Aoxgmv xt\s BQBttiag.

2 JI/3X. xai rag vo^iOfiatizàg èmyQatpdg , Zsvg EvQafisvg, EXXdviog , KsXsvsvg, Aaodixiog, Avéiog, Tgóaiog, Zolv[iEvg, xrX. 7} Aihg rovaiov, AccqccgLov, xtX.

Nofile^iaTa ' E&etcóv.

147

(334 330 7C. X.) toù (taffiXéw; t<ùv MoXo<i<t<3v tvj; 'Hrcstpou ' AXò^av^poo A.' toù Nòot:to>Ì;ao'j (342—330 -. X.) *, otti;, <•>; /tal ó ;z£t o>' ttoXÙ pa- GiXs-j; tv;; aÒT/j; 'Hraipou rióppo; , s>co^av év ttj Msyàta] 'EXXatòt /.ai év aoTVJ T7J ' I I-£ip(.) vov.i^xaTa Òy,oia , ttjv T£/voTpo~iav /.al toò$ tùtcoo;, -pò: vo;xicr[AaTa t-?(; Rarto 'Ixalia; /.al tv;; ZwcsXia;* rpò; yeyovò? Óti oi tutto i toù voyicry.aTo; tojv 'E&st<3v, ^toi r, 5ce<paX^ toù Alò; /.al ó /.u-

Eìkòv 24.

-' •■ rei ^-f

Etxwv 25.

pi<7<J<ov Taùpo;, à— avrcomv è—' àXXtov voy.iTy.aTMv év 'I [7rsipw(Etxoìv 24 /.al 25) 2, £vì)a /.al alla voo.io-y.aTa l~ . y. Ta rtov MoXottoW /.al T?j; ' A.TroX'Xtovia;) 3, sivai éxiavi; ~ a/io; TreràXou , ÉTTps^av toc; ttsoI toù 7.aoù t<ov 'ES-stójv spsuva; u.ou —pò; t^v "I I"ipov.

'E— sir^vj o' oy.co; oùV év tJ] 'II— ìipco, out év 0'jSs|i.ia àXXv] /cóoa toù àpyaiou /.óoy.ou ^ouvTjibjv va supco Xaòv «pépovTa to ovoaa tojv 'EO-etóW, lìpsuvvjffa àvayxaito; jjltqtoi to ovojxa touto éoxóih] 77aps(p8-apjxsvov £v tivi tcov ào/ai(ov /c,si|xsvcov, <ó; o),)i/.i; (T'jvs^t] Trpox£i|/ivou —spi òvoj/.àr(Ov óXetov òXiyov yvtocrrtòv. Eupov o aX-/}i)<ù; toioùtov ti ovoy.a év toj écvj; /(opico

STÉcpavo; Bu^àvTto; év >.. «'E&vé 6x ai, é&vog &s6óaUag, aitò 'Eftv é- drou Tàv NsoitroXéiiov itaCòcov ivóg, àg Piavbg ò' xaì s' ».

/.al -/Xwoo"i/.(o; 'j~o~ot 'E&vétitUL /.al ,Ed,vsóTrjg, yvioffrà é/. aóvou toù yiopiou toutou, òovaTÒv va po£p/(ovTai éc eÙvotjtou àvTtypaoi/.où o-oaX- v.aTo;, ysvvyjDivTo; é/. tv;; év tco aÓTto ytopuo à[/i<7w; étt o;xév/j; t<ù 'E&véótccL A£l£<o; s&vog w; /.al é/. ttj; £Ì; to -vzZ'j.x rravrò; Xoyio'j àvTiypaoéto; /.(o- Sixtov, ypaoovTO; ~£pi (-)£T'7aXia;, ép/0{/.évyj; -aoiyvtÓTTO'j (-)£Taa>.i/.r(; /i^£(o; itsvéótai.

'Ettei^y] Xi to soyov toù Ptavoù , é<; -y.zi'Ky.'jZ Òvoy.a toù (-)£t- craXi/.où £()voo; tcov 'Efrv£<TTtov ^Téoavo; ó Bo^àvTio;, £Ìvai ttòcvtw; (9f<?-

1 Pauly-Wissowa, Real-Encyclop. si1 i. Alexandros ceX. 140 x. t.

2 BMC. Thessaly to Aetolia pi. XVII, 1 xai .") (= E/xcor 25) xcà pi. XX, 1, 3, 4. (=£/xcbv 24).

3 BMC. è', d. pi, XII, 10 xai pi. XVIII, 9.

148 I. N. Z$OQ&VO$. PARTE I.

(Saltila ou to~ l, àrtva TTspts^ayjiavov 16 toùaÓ)W7tov [itp'Xìa 2, ó Ss Piavo; s^tjcts xspt tsao; toù T' aìcovo; 7t. X., ó TOXT/jp toù 'EtWsgtou yj 'EOstou Nso— tÓ}.su.o; SovaTov va sìvat ó 7ca<TiyvciMTTO$ év ttj i/.'j&oXoyta uio? toù ' A^tX'Xsco; /al tv;; AyjtSa;./..sia; IIuppo; , 6 /otvco; NsoTtróls^iog x.aXouj/.svo;, y] sxstSy) oùSsl; tcov uicov toi'tou cpspst ovop.a toù ' E&vsctto'j , SuvaTÒv oùto; va stvat ó [xsypt toùSs àvcóvu;/.o; /al s/ |aovo'j toù FlXouTap^o'j (lTupp. 2) vvoffrè? STspo; tcov uìcov toù (3acrtASco; T"/j; 'Htì sìpou Nso~toas[aou , TjTOt ó tASTa to~ àSsXpoù aÙTOÙ ' A'XsEàvSpo'j (342 330 %. X.) £— avsvsy&sl; sì; tvjv fanùxxrp àpyyjv Orco twv MoT.ottcov, twv /yjpu^àvTcov £/t;tcotov toù Opóvo'j tov Aìa/tSvjv, ^toi tov 7raT£pa toù tots [AOAt; St£Toù; IIuppou, ov cptAot Ttvè? Sta ttoa'Xcov /tvSuvcov icp'jyàSsucrav si; tyjv ycópav toù [iiaGiASto; twv TauXav- ticov FAau/tou 3.

'Ev 7j XSpt7rTtó(7£t 7] TaUTttft; TCOV 'Efrv£<7TCÒV XpÒ; TOÙ; 'E0"£Ta; £tvat

òp&7j, votticTTaxa tjjacov à7ùopatvoo<7tv sùvóvjTa /al Sy^ co; éEvj; :

xpò; ttjv 0£<7<7aAtav opta T7J; 'HxeCpou, to/vtots [.lèv ìSioì; Se /aTa tou; ypóvou; toù ^affiXéw; ' A>.s£avSpotj toù Nsotcto^ìjaou (342 330 ~. X.) /al nóppou (295 272 n. X.), ypóvou; sì; ov; /.aia TS/voTpoTTtav ©aivovTat àvyj/ovTa tx voy.tc^aTa tcov 'EO-stcov, yJTav oaco; «óptffTa, Sto stai rroAAal ttÓasi; tcov cuvóptov IXoyi^ovTO òcaaots ;asv w; (*)s<7GaAi/at , oXXots Ss co;

'HTTSlpCOTt/aì, SÌ; TpOTTOV CO<7TS Ó PtavÒ; y^S'JVaTO X.0CAAt(7Ta —£pl TSA7] TOÙ

r ' aìcovo; x. X. va x,aAS<ry] s#vo; ©smalta; laòv cpspovTa to ovoy.a aÙTOÙ

aTtÒ UlOÙ TOÙ 'H7TStpOJTO'J NsOTTTOAS'AO'J. 'AÀy]#TO; Ss /al /aTa TOV ZTpà(3tOVa

(©', 434) « Sta yàp ttjv STrtcpàvstav ts /al ttjv S7it/paTStav tcov 0STTaAwv xat Ttov MaxsSóvwv o't Ar.rrta^ovTs; aÙTOt; .aaAtTTa twv ' HxetpwTwv, oi v.sv É/cÓvts; oi S' axovTS; , [Aspyj fca&tcrravro y] ©STTaAwv v] Maxsoóvcdv, /.a^iXTTSp 'A^ajAàvs; >cat Atì>ix.s; xat TaAaps; 0STTaAcov, 'OpscrTat Ss /.al Ils'Xayóvs; /al 'E^tp.ttoTat Ma/sSóvo>v » 4.

Tyjv S' uxó^-scrtv OTt oi 'EftsTat /aTSt/ov x^Pav [-'-sxacò 'Hxstpou /al ©STTa'Xia; /atì-tcrTa xt-0-av/jV /al ysyovò; oti to ytoptov NtTTopa (ypa'pó- [asvov rov NéótOQcc 'j~6 Ttvwv tcov vùv Aoytcov) , s^ 7ÌAi>sv sì; 'Ai>?jva; ó Scopvjaafxsvo; to srspov tcov vo|7.f7;7-aT(Ov tcov 'Ei>stcov? zstTat sv rr\ voTtava- toai/co; tcov 'Icoavvìvcov xsptoy^ toù IMaAa/aatO'j /al S'/j ày.S'rco; xpò; S'jTjAà; tcùv Ilpa|j-avTo)v /al 'AyvavTWV 5, svfra tk vùv /aXoù^sva TcouiAsp/a oprj,

1 Poetae minores Graeci (end. Gaisford) voi. Ili p. 475. Siebelis, De Rhiano ehi8que carni, fragni. 1829. N. Saal, lihiani quae supersunt. Bonn 1831. A. Mei- neke, Analect. Alexandrina p. 169. Pauly, Real-Encyclop. a. v. Ehianus S. 469 Mayhotf, De Rhianì Cretemis studiis Homericis, Dresden 1870 xrX.

2 Steph. Byzant. s. v. AlywvEicc.

3 Jioòwqov 10', 13.

4 ' ISh %a\ Bursian, Geographie von Griechenland, Tójt. I 6eX. 48.

5 ' ISè Oester. Generalkarte von Grieclienland $>v%. III. JT. ' Agaficcvrivov, XqovoyQayitt tfg 'HtcsIqov Top B' , ceX. 385.

PARTE I. N0(lÌ<SlLCCTCC 'E&SX&V. 149

T:aik<x.i à— OTsXoùvTa to ij.STag 'H— sipou xaì Szaaxklxc, t|X7J(jux ttj? 'A&aaavia; , oirsp , àv xal ^uaixw? àvnjcst tvj 'HTrsipw , sXoyi^STO S' oiaw; fj'jvv^tho; tó; 0£T<7a>ax.óv 1.

IIà>; o' éxa'XsiTO •/) ::ó)u; toù 'A&av.avt,-/.où efrvou; twv 'E^stcov , ^ xóòa<7a sv aoyw vof/.t<T[/.aT<x, àYVOOU'xsv, Sioti Sugtu/o); YJ s— lypacpT) t?j; ò~ iTtKa; o'^sio; toù /.xXkiov SiaT/jpouy.évou xoav.aTiou £ìvat y.aT£TTpa;msv7] £v j/ipst. Kar àpyà; àvsyvwv . . . EIQN, z.aTO— iv Ss g/sSov asfaltò; . . TEIQN. npò Toù T u— àp/ói. /capo? Sia Suo èri ypà;./.;./.aTa, tóv to SsuTspov (paivexai cv P, outco; (ocfTS sìvat )iav t,ftav/j yj àvayvtoTi; [AP]r E|QN 2.

*Av rt àvayvto<ji; auTin toù òvójxaTo; xf.? 7ró"X£oì<; sìva», , <ó; ttkjTEuci), òp9-/, tots to sfrvixòv t<3v E0ET12N tv; xupia; o<j/£eo; toù vop-iTaaTo; jcmXusi r;xac toù va à~ oScÓgcoi/.ev Ta sv Xóyco vov.iTjv.aTa £i; to ,A\i<fi\oyi'/Sòv "Apyo;, "/j'toi ttjv sv 'Axapvavia -óXiv toù ' M— stptoTi/COÙ s&vou; twv AM^I- A.OX12N 3 scoti oùyl E0ET12N, <ó; x.toXuouTiv Tjy.à; s— t<r/]; xotì toìjv yvwcrTwv vo[xiTjxaT(ov toù 'Ay/pi^o/wtoù "Apyou; 7j T£/VOTpO— la /.al ol tu— 01 , OtTLV£; oùS£aiav cy.otÓT/jTOC -q àvaloyiav Trapoucrta^oust. xpò; voaiTj/.aTa tocùtoc

T(ì>V 'Etì-£T(OV. 'E£ àXAOU yV01pÌ^O[7.£V ptÒTOV [JLSV OTt. £1? TOJV £/. Xtf, As(i)Va<7G7]; ultòv TOÙ UÌ.OÙ TO'J ' X'/ÙCkloiC Ns0~T0>Ì|.;.0U , OV SlSo|7.SV <7T£V<ù; GUvS£Oa£VOV 7T pò; TO £&V0; T(ÙV 'Et}£TÒ)V Sia TOÙ UÌ.OÙ (XUTOÙ 'E&ST0U, S/.a-

Isìto "AQyog 4 * Ssurspov yvtopt^o|/.sv ort, ty;v /oupav twv 'Atìm/.avwv, sv&a sOicra^sv toÙ; 'Ei>£Tac, wpt£s -pò; ty;v 0£tfcra}.iav ó TTOTa^ò? "Iva/oc, ó 77por;ayop£u&£l; outio; à— ò to~ óatovuaou 7TOTaao~ toù I \zko~ ovYriaicc/.o~ v Apyou; D' TpiTOv to ovoaa Tr(c p<<)T£uou<r/]; óX£w; twv 'AO-aaavtov t^to 'AQys&la s v] Argithea 7. 'Etig'/j; et? tov Trp/yovov t<ov ^acriXitov tt;c 'H-£ipou /.al warspa toù N£o-to>ì;7.ou 'A/iA>ia àvvjxs to A£yói/.£vov IlsXaóyiìcòv "AQyos (OjA. 'Ia. B. 681), o-£p xaTa Ttva; [xèv tcov àp^auov 7(to QóxJ.Tjpo; yj 0£CGa>,ia, xaT aX>.ou; 77£St.a: ti; aóvov aÙTVJ; ^ Tró'Xt,; ti; 0£GGa>a/.r, s^a^avwO'Et'ja x.aTa tou; iTTopi/.O'' ; ypóvou; 8. Z'/jaS'.WTéov Trpò; toi toi; cti

1 Bursian ?. à. I. teA. 39 xé.

2 T7JS avvfjs yvmprjg stvoci v.cà ò vvv TtaQSTtiSrjuàv èv ' A&rjvaig xal fiat ^ftov èì-srd6ag xb 7tQcorÓTvnov 6vvàòsl<fog x. W. Knbitschek, zliÈvftvvzì]S tov No[i,i6u. Movasiov T7j? Biévvris. Iloòg xr\v èniyoacpìjv EGETSlN—APrEIilN nagd^uXs rag votiiaiiatixàg èitiyouyàg MOAOZZSIN-KAZZSUIAISIN, AM^IAOXSlN-APrEISlIS r) AMBPAKISITSÌN. AK[APNANSlN]-OINIAJSlN, AXAISÌN-APrEISlN xzX. xzX.

3 EtQafìavog Z', 321. Ovta xaì ini x&v vofiKJ^arov tov "Agyovg Hai tfjg ' An§Qav.iag svQi6y.0(isv , %aou xb bvoua rfjg iróXecog , rb i&vixbv AM&IAOXSIN. Imkoof-Blumer , Numisin. Zeitschr. Tóft. X. (187£) aeX. 83-91.

4 £%òXiu Evqiti. ' ' Av8qo\l. 24.

5 Utgd^avog Ti , 326.

0 BCH. VII, 191, 6x1%. 35.

7 Tit. Liv. 38, 1 xé£.

8 Pauly-Wisaowa s. v. Argoa JlaAaeytxó'»', s. 789.

150 I. N. SPQQ&VOS. PARTE I.

x.où 'JfwsiptóTijcòv yévo; twv T:apà T^v ywpav twv ' AiS-aj/.avMv o'wtoóvTtov 'Op£<TTÓiv £iy£ t:oaiv /.a^ouu-ivrjv "Agyos ' Oqsótlxóv, <k~i toù ' Apyetou ' OpE- GTOu, i<m? «psuywv tov tyc (xvjTpc? cpc'vov /.aT£Aa[Ì£ T/jv à-' aÙTOÙ K.'XrjOeiaav 'OpECTiaSa yo!pav ty; 'II-Eipou l. TlXo; /.al év TV] à(/i<7(j><; xpò; (ioppàv ty; 'IIxEipou 'iXXuptcjc, év ttj y<t-'pa toù Auppayiou u-apyEi cppoupiov, Apyo; /.a-

X0UJJ.EVOV 2.

Kaxà TaÙTa SovaTÒv to vó;zi<7[j.a f^wv va s/.i'tt/] év àyvtoGTw yj[/.Ìv t:Óaei twv 'E&etwv ty(; 'H—sipou, "Apyo; /.aA0u;/iv7], oùyl S' év 'Aujpi- Aoyi/.w "Apysi ty(; 'Axapvavia;. *Av [7,àAi<7Ta Xàc(3tój/.sv ut: ' o^iv oti oi Oe<7- aaAol Sia TYj$ )ìceco; àpyo; é/.aXouv T:àv tteSiov 3, ouvafAsfra va ù—0Aa[iwa£v cti ol 'EflsTai, /taT£Ai)'óvT£; to~v òo£(ov ty; 'II—sipou, è/.Tioav ttoXiv £—1 TOU ut: aÙTwv /.upiEutìévTo; [xspou^ toù ì)'£0"oa}.ix,où tcsoiou (apyou;), r]v òi£/.pivov àxò twv òp£ivwv auTwv oìjcygsmv Sia toù ovcjxaTo; "AQyog (=~£Sia;, àypó;). Opò; toùto ~apa[iaX£ /.al to ywpiov toù Srpàfìtòvo? (E', 221): «/.al IlE^ao-yi/.òv "Apyo; 7) ©s-rraAia Xsysxai, u.STa£ù T(7v é/.(3o'Xwv toù IIyjvsioù /.al Ttlv ©Epy.oTwÙAóùv £G>s T^g òo^iv^g T^g nata nivòov , Sia to é—ap£ai twv TO—tov toutcov tou; lIsAacyou;. Tóv Aia tov AwSwvaiov aÙTO? ó isoirprrfc òvoy.à^£i n£Aacyi/.óv , « Z.eù ava , AwSwvaÌE, risXacyiJcs ». J7oa^oI <Jè xal ,H%siQcotv%à e&vrj HsXa6yi%à slQrjxaóLV, w; /.al [jiypi S£Ùpo éxap^av- twv » . AuvaTÒv apa Y) nsXuGyixbv "AQyog aaXouf/ivrj ttÓXi; ; ("^Ecca^ia;, rapì tì]? iIÉoew; yj; [iSj^pi toù vùv ipi^ouffiv oi 50901, va TauTi'^'/jTai xpò; to "Apyo; twv 'Etì-£TÒ)v.

'Oaov o àcpopa eì; ty^v ÌTaXiwTi/.Y)v cpaivoyivrjv T£yvoTpo~iav t£v év AÓyto vo[7.io"fj-aTtóv tojv 'Ei>£T(òv , auTTj éc/jy£ÌTai é/. toù y£yovoTo; oti oi. ' H^EiptÒTai fi«,GÌkzX$ 'AXécavSpo; 6 Nso7rroAS»/.ou /.al ó llùppo; £/.o^av év Tr; \l£yaly] 'EaXcJSi /.al év aÙT/j tvj 'Jf—Eipco TOiauT/jc T£yvoTpo~ia; voyi- «raaTa (ios àvtoTÉpco). Twv tu-wv y fj.èv >cs<paX.7j toù AIO^ EOETQN, £Ìvai, oj; £i'So;x£v àvtóTSpw , /.aTa to [j.àl'Xov y] y^ttov —igtÒv àvTiypa<pov 5C£(paAT(; toù tcocvto); /.al Òtto t(ov 'EJ>£T(ov [7-£yàlcoc XaTpsuofxsvou AwSto- vaiou Aio; t*^; 'Hrcsipou, r(v eCpi<7X.ot/.£v é~l twv voy.ia|j.aTcov t<ov Suo toutiov $ocGÙs<dy 4 /jxpayO-E'ì'cav éviOT£ xxt «7C0[/,iu.yj<xiv tcittyjv tyjs /.£oaAT|; toù AIO^ EAEYOEPIOY twv é/. twv /póvcov 'AA£^avSpou toù NsotctoXs[/.ou vo»Jiwi{/.aT<j>v tóùv Supa/.ouc7(ov 5, ó tu~o; toù /.upujGovTo; Taupou to~ vo- |j.i(7;AaTo; twv 'Ei>£tcov oùyl ;j.óvov à-avT/. é~l iojv é/. tv;; aÙT'7; iizoylc,

i Htqcc^(ov, Z', 326. Bursjan è', à. I. esl. 10 Crjft. xai CfL 27.

2 IIqoxotcÌov 7Csqì xticiicctcov p. 277,23. Oéaig 'Aqy 6(5 oc xcdov{iévri nettai vvv iv zi) Ttegioxìi IJqe^etÌov : ' AgccfìavTivov 'HnBigatiy.ee 370.

Etoàfi. H' , 372 : « apyog de xai 7Csdiov Xéyszai tcccqu tolg vsatégois

lidXiaza d oi'ovzai May.BSoviy.bv yal &szzaXiyòv slvui » .

4 BMC. Thessaly to Aetolia pi. XX, 1-4 yal 10.

5 BMC. Sicily p. 189, uo 311 fig.

No(ii6ticcTa 'E&ev&v.

151

vottMTjwcTcov tojv X'jpa/CO'jGtòv 4, à».à xal àvTiypàcpSTai •/.xró— iv t:wtw; £—1 T(5v tópaiojv àpyupwv vo|xi(7[xaT(ov tou xotvoù t<3v 'IlTtSiporroiv 2.

TsXo; sytov Ctc ovj/st to ysyovò$ ^Tt ot 'Efrsrai oùo*sv ò&Xo (av/j^sìov T7J; UTTotp^òo); a'jTtov àor(x.av 7] voai^a-a mcov, u77oXau(iiavo) oti , few? y.ólt; jcaxà toÙ; ypóvou; 'rVXsEavSpou to'j Nso— to>Ì[/.ou, outo; •q ó ào*s>.©ò; aÙTOÙ (' Etì-STYj? ; ) /CotTaXa|Ìojv [;.spo; tvj; ^pò; tvjv "II— stpov ©scsa^t/àj; Xoyi- ^0{/iv>]? yf,? cjvwxwsv s/.st si? -óliv to ' I 1-sipt.mx.òv s&vos tcov 'EO-stwv,

OÌTIVS? TOTS fra SXO'i/XV Ta SV XÓy<0 VOU.M7,aaTa yapàEaVTS? sV a'JTCOV TTV /.SCpal'/jV TOÒ 'IttÒ 77aVT(-)V T(UV ' Il77£tpO)Tt.y.(OV StWtóV fj.£ya>.0)? XXTpSUO[/.SVO'J

AoiSwvato'j Aio;, otti; —ocvtco; yto ó aòrò; —pò; tcv Aia twv sx. tvj; 'Hirstpou sì? ttjv 0£C7ia7aav y.aTsXftóvTtov 'ES-stcòv. 'EttI Ss Piavo~, ytòi spi Ta tsXtj toì) r' aitòvoc . X., r( ytópa tojv ' EftsTwv, à— oXstocvtoìv ttjv aÙTOVo;.uav /.al star àxoXou&tav to mxaiot>f/.a toò x.g— tsiv vó[/.w{/.a , fra TCspwjX&s /.al à>av sì; tyv scouciav twv 0s<jaaAwv, Siò outo; sV.aXs<7sv auToù; sfrvo; @s<x- caXiac, [xvvju.ovs'jTa; cjyypovo); tv;; à— ò toù ' H-sipoixou Nso7rroXs[/.oti xaT- aywyyjc a'iTtov.

'Ev k&rjvcas-

I. N. HpoQàvog.

IIPOZ0HKH.

Eìyov 7]Svj ypa<p^ x.al Tuxtofrr tocvcotsoo) , ots ó jc. W. Kubitscliek,

asASTÒlv t<x; év 'AfrYjvat; oia<pópou; lo\o)Tt,/.à; c'AAoyà;, Trsp'.yjxpy'; àvr'(y-

vsiXs w.01 tÀ.v ótt aùxo~ àvaxaXuòtv vsou voaicxaToc t<3v 'EDstóSv x.al or. év

iti ,ii *

T7j GuXXoyT) tou apri à-oOxvóvTo; x.. Troyansky, irpwvjv 7rpo£svou tv;; Po)Gta<; év 'Icùavvivoi; ttj; 'H— sioo'j , svi>a fi£^aico; oóto; O^à TjyópaTS to sv Xoyw vóaiatj.a (Etx.còv 23).

E'ixàv 26.

1 BMC. I. a. p. 193 no 355—376.

2 BMC. Thessaly to Aetoliu p. 80 no 8—13 pi. XVII, 1 xaì 5.

152 I. N. ZfioQ&vog. parte i.

EtV3U TOUTO, co? (3a£TCI TI?, COZOH^tXKOì'/.'ZOV TZ^OC, TX SuO TTpcOTOC, (XV

y.aì xaTa ti [ux.poT£pou ttstocaou. Kal 7] »xèv xupia oojtou 0^15 eìvai {ju/toicù- TaTTj; SiaTTjpr^sw;, s^it/jaov lyoxiax ttjv STriypacp^v, tj drcialKa X' 0[j.co; fW- TTjpsiTai xaAAtGra, «pépoucra sv tcT é^spyto gx^ìgtxtx ty)v émvpa^TjV APrElQN. Outo); o/t [aovov 7) àvtoTspco TrpoTa^sTrra àvayvtoGt; éwutupouTOU, àXkà. /.al 7) é£ 'H:reipou 7rpo£>.£u<7t; twv vo|/.u7[/.àT(j)v touto>v £7uf}£(3aiourat. Sia

V£OU X,Op.lAaTlOU.

'Ev 'Arrivali \t,r\vì 4sxs[i(}qÌg> 1905.

J. JV. 2.

TRACCE DI DIRITTO ROAANO CLASSICO

NELLE COLLEZIONI GIURIDICHE BIZANTINE.

Il valore delle fonti giuridiche bizantine per la critica dei testi latini giustinianei fu riconosciuto nel secolo XVI dal Cuiacio ed ai giorni nostri convenientemente apprezzato dal Mommsen e dal Kriiger.

Ma su di un altro problema, non meno di quello importante, regna ancora nella nostra scienza romanistica grande confusione; non si sa cioè se quelle stesse fonti possano in questo o quel punto prestare efficace sussidio per la cognizione del diritto classico.

I giudizii espressi in proposito, sia in generale sia in particolare per singoli argomenti , dagli autori ricordati di sopra , non che dal Heimbach, dallo Zacharia e dal Ferrini , per citare soltanto i più auto- revoli, non sono scevri di titubanze e di contraddizioni insieme.

Certo quei maestri della critica, conoscitori profondi di tutte le raccolte di diritto , non possono negare il fatto che i greci contem- poranei di Giustiniano danno notizie , se non copiose abbastanza fre- quenti , sullo stato del diritto preesistente alla compilazione , e che nelle collezioni bizantine si rinvengono elementi classici che non si leggono nei libri di Giustiniano. Ma d'altra parte essi negano in modo assoluto che gl'interpreti bizantini avessero potuto fare uso degli scritti giuridici più antichi; perchè , dicono, i divieti di Giustiniano furono sul riguardo espliciti e non si può supporre che gli stessi contempo- ranei li avessero violati l.

Ecco dunque le colonne d'Ercole che non si son potute superare.

Or siffatta credenza non solo annebbia tutte le cognizioni che noi ricaviamo dai greci, ma svalora addirittura l'importanza, dal punto di vista storico-critico, di tutta la letteratura giuridica del secolo VI. Infatti a me pare evidente clic ove non si ammetta 1' uso da parte dei coevi di Giustiniano dei lavori più antichi , tutte le notizie che

1 Su questo puuto non occorrono speciali richiami perchè io altra volta ebbi occasione di segnare le più importanti citazioni; vedi Bullettino I. D. E. voi. IX p. 272 e seg.

154 s. RicconoNO.

si rinvengono nei loro scritti restano malsicure, inattendibili perchè infedeli. E quale altro valore potrebbero mai esse avere se non quello di reminiscenze, per (pianto fresche sempre discutibili, delle opere dei giureconsulti classici e dello stato del diritto anteriore1?

Questa spiegazione, per quanto possa sembrare assurda, fu data in verità da due insigni scrittori, quali lo Zacharia e il Ferrini 1. Ma essi non poterono addurre poi alcuna frase dalle fonti greche che ren- desse verosimile il loro supposto; nessuna espressione che rispondesse per esempio al modo di scrivere Gelliano « nisi memoria me fallit » col (piale artifizio l'erudito scrittore latino, che pur copiava con scru- polo l'esemplare che aveva sottocchio, intendeva ritrarre vive e fresche le discussioni e conversazioni su vari argomenti. Al contrario gl'in- terpreti greci attestano espressamente in vari punti che usufruiscono dei lavori degli antichi maestri, così Taleleo 2, così Stefano 3.

Io altra volta credetti poter smontare una tradizione tanto ina- deguata con 1' esame degli scolii Sinaitici , il documento sotto certi aspetti più importante delle scuole orientali a noi pervenuto. Ed af- fermai allora che le traduzioni , i sunti e le paragrafe delle scuole d'Oriente dovettero prestare un valido sussidio agli interpreti della compilazione di Giustiniano ; i quali nel formare i loro commenti uti- lizzarono, in varie maniere, i lavori dei maestri greci, sia mettendoli in armonia coi libri di Giustiniano sia trasportandoli nei luoghi op- portuni delle loro raccolte 4.

Questa conclusione potè sembrare e sembrò in fatto ad alcuno esagerata.

A chiarire meglio intanto questo problema di critica raccolgo qui alcuni altri passi estratti dallo cE^djii^Xog di Armenopulo, riferenti si iu complesso alla materia delle impensae. Se questo contributo riuscirà a diradare le incertezze su questo punto, spero potere coordinare in un lavoro organico il materiale raccolto da altre fonti.

E vengo all'esame propostomi, senza preconcetti ma anche senza pregiudizi. Ma anche il lettore da parte sua dovrebbe per un mo-

1 Zachariii, ZSS. voi. X p. 285; Ferrini in B.I D.R. voi. Ili p. 63; voi. IV p. 9 ii. 1; il quale del resto aveva con acutezza e discernimento scritto ripetuta- mente che i bizantini traevano quelle notizie non direttamente dalle opere dei giureconsulti romani, bensì dalle elaborazioni greche fatte su quelle nel periodo pregiuntinianeo; cfr. Per V Vili Centenario della Università di Bologna p. 85; il Di- gesto p. 81, 130 e così in altri scritti.

2 Basii. 21, 3 cap. 4; Heimbaoh II p. 454.

3 Vari esempi riporta il Ferrini, Per V Vili Centenario cit. p. 85 e seg.

4 Cf. Ballettino I. D. B. voi. IX p. 285.

PARTB I. TRACCE DI DIRITTO ROMANO CLASSICO. 155

mento metter di lato il pregiudizio dei divieti di Giustiniano; il let- tore conosce infatti che il più grande legislatore della terra fece le leggi, riserbò a se il compito di interpretarle , impose ai giuristi le forme e gli scliemi dei loro lavori , prescrisse i libri che dovevano adoperare, ma infine, dopo tutti questi precetti che aveva diritto di mettere alla luce, non stabilì alcuna speciale polizia per i gabinetti di studio degli antecessori; e fu, per lo meno in questo , savio davvero.

I.

SPECIFICATIO.

I. Le norme sulla specificano, quali furono stabilite da Giusti- niano, si leggono in Arm. IT, 1 §§ 22, 23. L'esemplare da cui il nostri» compilatore trasse quei §§ non si può indicare con precisione. Devesi però ritenere inesatta la fonte notata da Heiinbach in questo punto, con le parole sumpta sunt lutee ex Theoph. Il, 1 , 25 (40-44) ; poiché non solo il § 22 non coincide perfettamente col testo di Teotìlo, ma il § 23 inoltre , redatto in forma più concisa , contiene nella chiusa un periodo notevole che non leggesi , in questo proposito , nei libri di Giustiniano. Salmasio e Reitz , forse anche per questa singolarità, considerarono il tratto come uno scolio; ma Heiinbach li ha contra- detti , avvertendo che esso trovasi nel contesto dell' orazione e che quindi deriva da Armenopulo. Il passo contiene quanto segue :

li, 1, 23 : « 'Idtéov òé otl B7CÌ x&v xoiovtcov si [ihv xccXf] tciótsv eì'g n ddog vliq [isreóxEvccó&r] , dvvarai ^tjthv ó v>uTa<3x£vu6ag rag òaxdvag' si de xaxfj TtCórst, £i]thv xavtag ov dvvatav ».

Il contenuto del passo chiaro in ogni parte prende poi maggior luce dal confronto di altri testi pregiustinianei, ne' quali troveremo forse sufficienti indizii per scovrirne l'origine.

E prima di tutto un periodo nella sostanza identico leggesi in Gaio, il quale, esaminati varii casi di accessione, così continua :

li, 76 : « Sed si ab co petamus fundum vel aedificium et impensas in aedificium vel in seminaria vel in sementem factas ci solvere no- limus, poterit nos per exceptionem doli mali repellere, utique si bonae

fldei possessor fuerit ».

Di maggior rilievo è poi il confronto del nostro testo con l' epi- tome gaiana, ove la norma generale del compenso dovuto, in tutti i casi di accessione, al possessore si riscontra , come in Armenopulo, in appendice alla teoria della specificazione.

Il passo 11, 1, 0 così suona : « Sed in bis omnibus superbis coni-

156 8. RICCOBONO. PARTE I.

prekensis quicumque in terra aliena aliquid posuerit aut aedificaverit aut horum quae dieta sunt aliquid fecerit, illis, qni aliena praesum- pserunt, hoe eompetit ut expensas vel impendia quae in Iris fecerint a dominis qui rem factam vindicant recipere possint ».

Intanto per ora osservo elie gli elementi nuovi, rispetto al testo di Teofilo , che si riscontrano nella chiusa del § 23 di Armenopulo, se trovano parziale riscontro, vuoi per il contenuto vuoi per il collo- camento , con le fonti pregiustinianee, debbono essere stati ricavati probabilmente da altro manuale d'istituzioni parallelo alla parafrasi teofilina.

Infatti Armenopulo, per quanto possiamo vedere, mai si allon- tana dall'esemplare che ha sotto mano; egli si limita a riprodurre fe- delmente i brani e a coordinarli fra loro. Se , come avvertii or ora, i §§ 22 e 23 del nostro testo non combaciano esattamente con la pa- rafrasi di Teoftlo, e se, per giunta, il § 23 contiene qualcosa di più, è forza riconoscere che il compilatore trasse quei brani da altro manuale a noi ignoto. La esistenza poi di altri testi greci, corrispondenti al libro di scuola ordinato da Giustiniano, è non solo probabile ma di- rettamente attestata '; e nella compilazione del Prochiro, accanto al testo di Teofilo , furono adoperati altri comentarì delle Istituzioni \

Inoltre è significativa la coincidenza del nostro testo con l'epi- tome gaiana, per quanto essa sia soltanto esteriore e limitata al col- locamento delle norme per il compenso. Il testo genuino di Gaio, in- fatti , tratta del compenso a proposito dei singoli casi di accessione e cioè nei §§ 70, 77, 7<S; ma nulla dice su questo riguardo nel § 79 che tratta della specificatìo 3. La stessa osservazione facciamo consul-

1 Cfr. 1' iscrizione alla raccolta delle leggi rustiche contenuta nel ms. graec. di Parigi 1367 fui. 97, la quale sembra accennare ad una versione di Doroteo e di Stefano (Zachariii, Prochir. p. XII n. 3). Altra quistione è poi se veramente Stefano abbia tradotto il testo delle Istituzioni, o adoperato un comento più breve di quello di Teotìlo; per l'affermativa sta Zachariii [Delineatio p. 26; ZSS. voi. X p. 271 e seg.]; contro s'è pronunziato il Ferrini [Memorie R. Istituto Lombardo voi. 18 p. 17 an. 1891] il quale tentò dimostrare che Stefano avesse adoperato la parafrasi di Teotìlo [Archir. Giur. voi. 37 p. 360 e seg.].

2 Cfr. Zachariii, Proch. p. LXII n. 29 ed i passi del Prodi. XII, 1 de donai. = Harm. III, 1, 2; Proch. XXV, 1 de infirmatione testamenti = Harm. 5, 5 in cui il testo non coincide con Theoph. II , 17. Per altre traccio di manuali greci di Istituzioni vedi Zachariii, Anekd. p. 184; Ferrini 1. e. nella nota precedente; Heimbach, Proleg. p. 32; Mortreuil, Histoire voi. 1 p. 127.

3 Identico è il rapporto fra i vari paragrafi nelle res cott. di Gaio: confr. per la specificatìo D. 41, 1, 7, 7; per le accessioni D. 41, 1, 7, 12; e 9 pr. 3.

PARTE I. TRACCE DI DIRITTO ROMANO CLASSICO. 157

tando i punti corrispondenti della parafrasi greca e del testo latino di Giustiniano ; cioè, vi si accenna al compenso nei §§ 30-34 che si riferiscono alle accessioni , ma se ne tace del tutto nei §§ 25 , 2G a proposito della specificano. Invece 1' epitome gaiana riassume in due brevi paragrafi i casi di accessioni (4 e 5) e nel § (5 tratta ingene- rale del compenso; così il § 23 di Armenopulo, sopra riferito, pure le norme per il compenso nella chiusa della dottrina della specificazione.

Ciò prova ancora una volta che quei manuali d' istituzioni, dei quali rimangono sparute traccie, dovettero avere parentela con le ana- loghe elaborazioni dell'Occidente. E tale rapporto, che a volte si li- mita all'ordine della trattazione ed a volte si estende a coincidenze di forma e contenuto , è tuttavia visibile in tutte le elaborazioni di diritto dell'Oriente e dell'Occidente in questo periodo.

Le ricerche degli studiosi hanno dato in questo punto risultati concordi ; si son potuti constatare molti contatti fra l'epitome gaiana l e la Glossa Torinese delle Istituzioni, la (piale non solo è assai vicina a Teofilo per l'epoca della redazione 2 , ma deriva essa pure da un esem- plare greco 3 e presenta affluita con il testo teotìlino '; così il comen- tario gaiano di Autun, venuto alla luce di recente, ha corrispondenza perfetta , per il metodo dell' esposizione, con 1' opera di Teofilo 5.

E tutto questo appare ben naturale , sol che si ponga mente al fatto che nel periodo avanti Giustiniano tra Roma e Berito esistevano frequenti relazioni e stretti legami ; la tradizione giuridica inoltre at- tingendo alle stesse fonti classiche correva nell'una e nell'altra parte dell'Impero parallela 6.

II. L'esame del contenuto del passo di Armenopulo ci guida allo stesso risultato. La menzione esplicita del possessore di mala tede, al (piale è negato qualsiasi rifacimento di spese con le parole : si Òs zaTifj tcCótsì, £ijT£lv Tccvtccg ov dvvatea , ci rivela che quello squarcio riproduce un testo antico. Invero , nella compilazione di Giustiniano l'importanza della bona Jìdex, in questi casi, rimase non solo affievolita

1 Cfr. Fitting, Zdtschrift f. li. G. XI p. 338 e seg.; Hitzig , ZSS. voi. 14 p. 187 e seg.

2 Cfr. Kriiger, Zeitschrift f. li. G. voi. 7 p. 41 e seg.; Fitting, Uebcr die so;/. Just, gloss. und den sog. Brach. p. 13; Kipp, Gesohichte dcr Qitellen p. 140 e ivi citati.

» Cfr. Colui, ZSS. voi. X p. 141.

4 Ferrini, Archivio Giur. voi. 37 p. 2!*2 e seg. p. 101: Memorie del li. Istituto Lomb. voi. 18 p. 21 ;m. 1891.

5 Cfr. Ferrini , Atti della li. Accad. di Torino voi. 35 an. 1900 p. 4 e seg. dell'estr.

0 Brehmer, Rechisschnlcn uit. p. 88 e seg.; Ferrini 1. e.

158

S. RICCOBONO.

ma fortemente depressa. Ormai, nel nuovo diritto l, il posto d'onore che la Jìdes aveva mantenuto senza contrasto nel diritto classico, fu concesso ad altro principio puramente materialistico che troviamo già formulato nel 1. V. dei Digesti nei seguenti termini : non débefpetitor ex al iena iaetura lucrum facere 2.

Questa massima ebbe nella legislazione giustinianea una funzione direttiva 3 , e quindi le norme del diritto antico in materia di com- penso di spese rimasero profondamente sconvolte in tutti i iudicia 4, e di conseguenza in tutti gl'istituti giuridici.

1 fc tuttavia degno di nota che anche 1' epitome gaiana , nel passo di sopra riportato ed altrove, non distingue più possessori di bona e mala fede.

2 D. 5. 3, 38. La correzione fatta da Triboniauo alla decisione di Paolo è stata da me più. volte avvertita; cfr. anche Fabro, Raiional. voi. 2 p. 293; il Per- nice (Labeo II , 1 p. 389 e seg.) tuttavia ritenne il passo genuino ma non potè superarne le difficoltà.

3 Con la stessa formulazione si legge in D. 20-5, 12, 1 in un lungo periodo interpolato; cfr. Riccobouo, Bullettino I. I). B. voi. Vili p. 188 n. 5, ed ora il Segré negli Studi di diritto offerti a V. Scialoja voi. I p. 279 n. 1.

4 Non è questo il luogo di richiami prolissi , tuttavia mi sia permessa una breve digressione con 1' esame di uu punto di diritto molto discusso e ripetuta- mente frainteso, relativo all'accio negot. gest. contraria. Si chiede se colui che ge- risce affari altrui depraedandi causa possa ottenere compenso per le spese fatte. Giuliano rispondeva nel fr. 5 § 5 D. 5-3 sicuramente che no, in base ai principii più fermi del d. elassico , ed in particolare poi per la natura del iudicium bonae fidei. La motivazione giulianea fu conservata nel testo con tutta la sua forza esclu- siva : quia improbe ad negotia mea accessit; essa ha nel testo l'efficacia d'un domina, formulato, in altra occasione, da Ulpiano (D. 47, 2, 12, 1) con le note parole: memo de improbitate sua consequitur actionem. Ma i compilatori moderarono quella decisione inserendo nel passo una proposizione notevole. Riporto per maggior chiarezza il testo dai Digesti ed accanto la facile ricostruzione del testo genuino, perchè il lettore giudichi a vista.

Dig. 5, 3, 5, 5. Jnlianus.

Sed et si quis negotia mea gessit non mei conteniplatione sed sui lucri causa Labeo scripsit suum eum potius quam menili negotium gessisse qui enim de- praedandi causa accedit suo lucro non meo commodo studet. Sed nihilominus immo magis et is tenebitur negotio- rum gestorum actione. Ipse tamen si circa ics meas aliquid impenderit non in id qnod ei abest, quia improbe ad negotia mea accessit sed in quod ego locupleiior factus sum habet contra me actionem.

Come si vede la restituzione del testo giulianeo riesce a meraviglia; e la strut

Ipse tamen si circa res meas aliquid impenderit, in id quod ei abest. quia improbe ad negotia mea accessit non habet contra me actionem.

PARTE I. TRACCE DI DIRITTO ROMANO CLASSICO. 159

I testi classici furono per questo rispetto modificati con sufficiente coerenza; il rilievo che era fatto dai giuristi, costantemente, riguardo alla condizione particolare del possessore di mala fede fu soppresso o con aggiunte modificato. Pertanto nella compilazione e nelle opere dalla stessa derivate non restano che sporadiche tracce di (pici con- trapposto, e queste poi si rinvengono più facilmente nei libri che per il sistema seguito nella loro formazione meglio aderiscono agli esem- plari antichi * , ovvero in brani qua e sfuggiti alla avvedutezza dei commissari 2.

Per contrario , le applicazioni del nuovo principio formano nei libri giustinianei un materiale soverchiaste che non può essere co- stretto nelle angustie di una nota. Ma nemmeno occorre in proposito documentazione alcuna, dacché il più grande esegeta delle nostre fonti potè affermare senza titubanza e vittoriosamente che riguardo al com- penso delle spese utili e necessarie il diritto romano (intendi giusti- nianeo) stabilì una perfetta eguaglianza tra il possessore di buona fede e di mala fede 3 ; ed il Pernice 4 nella sua più recente trattazione dell'argomento, nella quale mirava principalmente a mettere in luce le dottrine dei giureconsulti, non ottenne risultati sicuri soddisfa- centi; difatti, le sovrapposizioni giustinianee , sfuggite al suo occhio vigile ed acuto, gli velarono la visione intera e precisa delle norme

tura stessa del passo ne offre il miglior argomento . dacché il tamen riacquistò la forza avversativa che aveva e che rimase sminuita nel periodo giustinianeo.

]>opo tutto possiamo constatare che il principio giustinianeo, di cui s'è di- scorso, trovò anche qui una applicazione cospicua. I dubbi, le discussioni e pro- poste di Cuiacio (Opera voi. 4 p. 273) Noodt (Probab. 3, 9) Pacchioni (Gestione p. 439 e seg.) ed altri su quel passo sono pregevoli soltanto per questo, che met- tono in chiaro le insormontabili difficoltà di quella decisione nell' ordine degli insegnamenti classici. Infatti s'è voluto superare l'ostacolo dicendo che Giuliano limitava l'azione all'arricchimento, per via di exceptio, retentio, pensai o, condictio ed escludeva quindi 1' actio neg. geni, contraria. Ma tutto ciò che importa ? Qual- siasi compenso dato al gestore di mala fede urta lo spirito dei diritto classico; e per il d. giustinianeo è ozioso discutere di formule come Giustiniano stesso si esprime nella L. 47 $ 1 D. h. t ; haee suptilitas superracua est; è reale, invece, e notevole che a simile gestore è dato un compenso per via di azione.

1 Cioè nelle Inst. II, 1, 30-34.

2 D. 41, 1, 7, 12; eod. 9 pr. § 1 ^Gai rea cott. cioè nel contesto di lunghi frammenti; indirettamente poi in I). 9. 2. 27, 5 (Ulp. ad ed.) I). 44. 4, 14 (Paul. resp.) ed infine in due Const. di Dioclez. e Mass. C. 3. 32, 16; 8. 10. 5.

3 Cuiacio, Ob8erv. X cap. I e passim; cfr. anche il recente scritto dello Schey, Festsehrift fiir Dr. I. Unger 1898 p. 415 e seg.

4 Labeo II, l2 p. 380, 390.

160 S. RICCOBONO.

classiche; egli pertanto finì col dire che le fonti offrono in proposito insegnamenti vacillanti e manchevoli l,

È invece intuitivo che a raggiungere onorevolmente la méta bi- sognava prender le mosse dalle testimonianze contenute nelle opere di diritto pregiustinianee , le quali se offrono a questo riguardo xiochi accenni questi sono in compenso concordanti e incontrastati 2.

Ma ai fini del presente lavoro gioverà meglio V esame di altro testo riportato da Armenopulo, dal quale potremo trarre nuovi argo- menti a conferma delle idee svolte e delle asserzioni finora fatte.

II.

SUMPTUS IN REM ALIEN AM EROGATI.

I. Harm. II, 1, 35 : « fO xccxfj -ìgxu %ivov olxov XQatcov xai ve- [irj&eìg ànodCàioói hvqCo tovrov avxóv iitrà Tcdvtav, rag elg ^sIxìgjólv tov olxov ttoirjórj, rag dh hit'' avrà è£,ódovg ov lct[i(5avei ».

La fonte da cui Armenopulo trasse questo squarcio è ignota anche qui 3. Esso contiene intanto l'indice di una costituzione di Gordiano (a. 239) che nel Cod. è così riportata :

e. 5 [III. 32.] : « Domum, quam ex matris successione ad te per- tinere et ab adversa parte iniuria occupatam, esse ostenderis, praeses provinciae cum pensionibus quas percepit aut percfpere poterat et orimi causa damili dati restituì iubebit. 1. Eius autem quod impendit rationem haberi non posse merito rescriptum est , cum malae fìdei liossessores eius quod in rem alienam impendunt , non eorum nego- tium gerentes quorum res est, nullam habeant repetitionem, [nisi ne- cessarios sumptus fecerint : sin autem utiles, licentia eis permittitur sine laesione prioris status rei eos auferre] ».

L' ultimo periodo che si legge ora nella costituzione del Codice non faceva parte del rescritto , ma fu aggiunto dai compilatori. Il ri- scontro preciso con altre interpolazioni osservate nei Digesti e nel Codice mette la cosa fuori dubbio 4; quindi il sunto riferito da Arme- nopulo fu tratto dal rescritto genuino di Gordiano. Altre spiegazioni

1 Pernice, 1. e. p. 389 e 380.

2 Gai II, 77, 78 (e le fonti che fan capo a Gaio citate a p. 156 n. 3) Cod. Greg. e. 1, 2 de rei viud. 3, 6 e Vinterpetr., Edictnm Theod. § 137.

s Heimbach rivendica anche questo testo alla Synopsis : 15 , 1 , 61; erronea- mente come si vedrà più oltre.

4 Cfr. Riccobono, Bull. I. I). E. voi. IX p. 244 e seg.

TRACCE DI DIRITTO ROMANO CLASSICO. 161

non sono possibili, per quanto ad esse si faccia volentieri ricorso pur dai migliori critici delle fonti, Ma come non si può, in questo caso, sospettare che Armenopulo avesse arbitrariamente soppresso la chiusa del testo , così nemmeno si può dire che nella pratica posteriore a Giustiniano siano avvenute modificazioni in questo punto di diritto; infatti in tutte le fonti bizantine il compenso è accordato pur al pos- sessore di mala fede e lo iu8 tollendi vi è largamente riconosciuto.

Ma per questo riguardo abbiamo un argomento diretto che ci è fornito dallo stesso Armenopulo, il quale nel titolo medesimo riporta, questa volta dalla Synopsis l, il testo interpolato.

II. 1, 6. « 'O xbv àlkóxQiov olxov "/.axfj (xulfi Ilaria.) -xtóxu vs- {irfòùg ànoSldcofìi fihv avxbv i.iexà x&v 6xfyovo^Uav "/.al xavxòg ÌtÌqoV ds òccTtavrjticcxcc ov Xunfldvsi, [el /ìj) uqu àvccyxald slói' de ènacpeXri dvvaxai fiij fiXàttxcov xr\v ÙQ^aCav otyiv ucpeXéG&cci].

I due sunti greci della costituzione di Gordiano differiscono fra loro per la forma ed alcune varianti di rilievo. Soltanto il § 0 , che riproduce l' interpolazione , coincide col testo dei Basilici 2 e quindi della Sinopsi; il § 36 invece viene da altra corrente e la sua origine è sicuramente pregiustinianea. Che quest'ultima epitome sia stata fatta sulla prima edizione del Codice di Giustiniano non si può provare, si hanno invece buoni argomenti per escluderlo.

Come è noto lo Zacharià mise in campo quella congettura per spiegare, ove occorrono, le discordanze tra il testo del Codice a noi pervenuto e le traduzioni greche ; egli cioè affermò, ripetutamente 3, che in simili casi la versione di Taleleo ed il comentario alle costitu- zioni dello stesso portassero vestigia della prima codificazione del ÓLMI. È facile osservare in contrario che se lo stesso fenomeno si ripete in altri comentari greci, in brani rispondenti ai vari libri di Giustiniano, quella ipotesi riesce insufficiente, ed anche per questo verso deffiniti- vamente condannata 4.

La spiegazione più naturale, che è anche coinè di solito la più semplice, emerge dall' insieme delle prove raccolte in queste pagine; nel manuale di Armenopulo cioè fu accolto il sunto del testo giusti-

1 Cfr. eài/.. dello Zacharià : J 5 p. 16*.

2 Zacharià, Suppl. p. 36: B. 15, 1, 85.

3 Zacharià, Kritische Viertelyahreschrift voi. 16 p. 221 e seg.; Zeitschrift /. E. G. voi. X p. 62; Zeitschrift SS. voi. Vili p. 10. 36. 39, 41, 46. 55. 61.

4 Vedi contro già P. Kriiger, prae/at. p. XIV-XVIII . e nella sostanza anche in Geschichte der Quellen p. 364 n. 32.

11

162 S. RICCOBONO. PARTE I.

nianeo *, ma insieme vi passò l'epitome pregiustinianea ricavata dalla costituzione genuina. Di passi riportati in varie redazioni si hanno vari esempì nel manuale di Armenopulo, come in tutte le opere com- pilatone dell'antichità.

Il nostro § 36 pertanto fornisce ancora un elemento autorevole per la dottrina del diritto classico in materia di compenso di spese e miglioramenti. Il contrasto con il diritto giustinianeo , secondo le idee svolte nell' articolo precedente , non potrebbe essere meglio do- cumentato.

III.

INAEDIFICATIO, PLAFTATIO, 8ATI0.

I. Anche in altre collezioni greche rimasero traccie dei nuovi or- dinamenti che ho messi in rilievo.

Nel vó[iog yecoQyiìtóg e precisamente nei paragrafi aggiunti al nucleo primitivo che appaiono nelle redazioni più recenti si legge il brano che segue : 2

'O Iv àXXotQÌ(ù èddcpsi ntC^av t) GtisIqgìv r) (pvtEvcov 7} ocXXo ti è^ya^ó^svog èKitiKtéta t7\g SsónotsCag iirjdh decitavi! [iuta Xa\t^àvav.

Il Ferrini ritenne che tutti i paragrafi di più recente formazione, che sono riportati dal ms. ambrosiano Q 50 , fossero ricavati dalla compilazione giustinianea, e nota come fonte del brano sopra trascritto la e. 11 Cod. 3,32 di Diocleziano e Massimiano 3. Ma i punti di con- tatto tra quel preteso esemplare ed il sunto greco sono molto scarsi. La costituzione si riferisce solo alle seminagioni e piantagioni ; lad- dove il nostro § ha tutto il contenuto preciso di Gaio II. 73-75, re- datto in forma più stringata della stessa epitome latina (II. 4). Anche questo sunto greco ha quindi origine pregiustinianea e fu probabil- mente ricavato da Gaio. Certamente esso non è scevro di inesattezze ; infatti non vi si fa cenno della mala fede di colui che opera sul ter- reno d'altri, ed io ho già notata 4 l' identica lacuna nell'epitome la-

1 Ma a chi bene osservi anche nel % 6 sopratrascritto , conforme in tutto al testo dei Basilici, le parole si ftìj uqoc.... àcpsXéG&cci hanno l'impronta d'una in- terpolazione inserita nel sunto greco più antico.

2 Cod. Ambrosiano Q. 50 § 87. Ferrini , Byzantinische Zeitschrift voi. VII p. 559 e seg. Heimbach X, 2.

3 Ferrini 1. e.

* Cfr. p. 158 n. 1.

PARTE I. TRACCE DI DIRITTO ROMANO CLASSICO. 163

tina (IT. Ci). Tuttavia gli elementi classici sono in quello squarcio preponderanti , e noi possiamo prenderle» in esame con qualche pro- fitto.

II. Per il diritto classico è eosa certa che il proprietario del fondo su cui il terzo ha edificato , seminato o eseguite piantagioni non è tenuto, solo per questo, a rifare a chicchessia il valore dei migliora- menti. Come dimostrai altra volta l un compenso è dovuto, per via d'azione, qualora fra le parti cioè , il proprietario del fondo ed il terzo che ha fatte le opere esista un rapporto obbligatorio che può aver fondamento in un contratto o delitto.

Ma inoltre il compenso può aver luogo, per via di ritenzione, in virtù della exceptio (ioli nei iudicia stricti iuris, o per Vofficium indici* in quelli bonae fidei ; in tutti questi casi però si richiedono speciali condizioni, rilevante fra tutte la bona fides dell'agente 2.

Il compenso adunque ha in ogni evenienza fondamento in un presupposto giuridico : 1' obbligazione o la bona fides ; esso non può aver luogo se manca l'ima o l'altra di quelle condizioni. A quale altro principio si dovrebbe riportare 1' obbligo del proprietario a rifare le spese al terzo? L'edificio costruito, la pianta trasportata sul fondo altrui , appartengono al proprietario del fondo per accessione ; sono pars fundi. Formalmente il proprietario ha quel che è suo e nulla più 3. Il fondo ha avuto bensì un incremento , ma questo è perfettamente analogo ai casi di alluvione. Anche nélVavulsio c'è un danno visibile da una parte un aumento dall' altra, e tuttavia V acquisto e la per- dita avvengono per norme di diritto e sono irrimediabili, fatali, come li descrive uno scrittore latino della più tarda età nella sua forma imaginosa e gonfia : et flexuose serpens fluvius largitili' in conpendio alterius quod furatur ab altero siimilque tìt lucrimi unitimi aliena, calamitas '.

Di regola avviene lo stesso negli altri casi di accessione. Chi ha operato sul suolo altrui non può rovinare l'edificio che vi avesse edi- ficato, non può svellere le piante falciare o distruggere i germogli delle sementi che vi avesse sparse. Per le piante e le sementi il prin-

1 Distinzione delle impensae, in Archino Giuridico voi. 58 p. 30 deilYstr.

2 Gai II. 76.

:5 In quest'ordine di idee è anche il Sokolowski. Die Pliilosophic im Friratrecht p. 145 e seg.; ma egli smarrisce la diritta via ben tosto rivolgendo l'attenzione a testi giustinianei.

4 Ennodio, Vita Epiphani p. 336 ediz. Hart. Lo stesso concetto esprime Pom- ponio (D. 41, 1, 30, 3) nella frase : Rumina euim censitoruin vice i'nnguntur.

164 8. RICCOBONO. PARXE 1.

cipio ò ancora attestato nel diritto giustinianeo ' per l'edificio fu sol- tanto Giustiniano che introdusse lo kis tollendi \

Così si arriva pianamente alla conclusione che per il diritto clas- sico colui che investe sul suolo altrui un capitale per via di costru- zioni piantagioni o seminagioni non ha perciò stesso diritto ad un compenso ; egli perde il dominio dei materiali impiegati : lxzi7tttzi>) tr\g deóTtoTsCcv; (ii]dh Sanavi] fiata Xa[i(ìàviov ; e questa affermazione è vera ; infatti il diritto al compenso è eventuale , presuppone altri elementi giuridici.

III. La cosa muta aspetto se guardiamo il nuovo diritto codifi- cato da Giustiniano. A proposito di accessioni a cose mobili i Digesti contengono una testimonianza esplicita :

fr. 23 § 5 (VI-I) : ideoque in omnibus his casibus, in quibus neque ad exhibendum neque in rem locum ìiabet, in factum actio necessaria est.

Il testo ha una portata generale; il proprietario che ha sofferto la perdita della cosa deve poter ricuperare, nei casi più sfavorevoli, il prezzo della stessa con un' actio in factum. Questa perciò ha una funzione equivalente all'acro in rem; si esperisce contro qualsiasi pos- sessore della cosa che ha tratto vantaggio della proprietà estinta.

In questo senso però il rimedio è nuovo, ed esorbita, come ap- pare a prima vista, i limiti del compenso tenuti fermi dal diritto clas- sico. Ohe la innovazione sia stata introdotta da Giustiniano è pure fuori dubbio 3. Importa piuttosto notare che anche qui troviamo l'ap- plicazione del noto principio, messo abbastanza in rilievo in queste pagine , che ovunque si riscontri un lucro con danno d' altri il per- dente ha diritto ad un indennizzo mediante azione 4.

1 Fr. 53 (VI-I) Pomponio; 25 § 1 (XXII-I) Giuliano; 9 § 2 (XXXIX-II) Alfeno- Ulpiano; 9 §2 (41-1) Paolo; e. 11 C. 3, 32; notevolissimo fra tutti poi per quanto attiene al compenso il fr. 16 § 1 D. XIX-V di Pomponio : « Permisisti mini ut serereru in fundo tuo et fructus tollerem ; sevi nec pateris me fruetns tollere, nullam iuris civilis actionem esse Aristo ait : an in factum dari debeat deliberali posse; sed erit de dolo». Aristone non vede alcuna azione civile possibile per il caso esposto. Si ricorre appunto all' actio doli che è eminentemente sussidiaria; così Ulpiano in D. IV, 3, 34 : « nulla alia quam de dolo malo actio locum habebit ».

2 Cfr. Riccobono, in Bullettino I. D. B. voi. 8 p. 243, voi. 9 p. 242 e seg.

3 Cfr. Lenel, Pai. 1 p. 1005; Gradcnwitz, Interpol, p. 64 n. 1, p. 94, che ha messo in chiaro la interpolazione formale , ma inclina a ritenere classico il con- tenuto; per Erman, poi, (ZSS , voi. 13 p. 212 e 217) la sostanza è certamente (!) del giureconsulto Paolo, confr. pure voi. 19 p. 306 della stessa Rivista ; e Man- caleoni, Beivindic. p. 43.

4 Anche il fr. 9 § 2 D. 41-1 di Gaio subì dei rimaneggiamenti notevoli che si spiegano agevolmente con le idee espresse nel testo; cfr. per la critica di questo passo, Perozzi, in Bendiconti dell' Istituto Lombardo, 23 p. 501 e seg. ; Mancaleoni, o. o. p. 44 e seg.; Mayr, ZSS. 26, p. 100 e seg.

Parte i.

TRACCE DI DIRITTO ROMANO CLASSICO.

165

Lo stesso ideale di giustizia si volle pur raggiungere nei casi di accessioni ad immobili. Le applicazioni sono qui particolari, ma nello stesso tempo così gravi che devono a buon diritto riguardarsi come espressione di tutto un nuovo ordinamento della materia.

Chi avesse perduto la proprietà del fondo per l'occupazione per- manente delle acque del fiume ha diritto a ricuperarla nel caso che il fiume posteriormente riprenda altro corso l. Questa regola fu posta da Giustiniano, che escluse quindi, nel caso speciale, 1' accrescimento dell'alveo derelitto al proprietari rivieraschi, garentito da una costante e antica dottrina 2.

Per le costruzioni imposte sul suolo altrui si arrivò nei casi estremi fino a permetterne all' edificatore la demolizione per ripren- dere i materiali (ius tollendi).

Per le piante il nuovo principio fu inserito in un testo di Ul- piano molto discusso sin dalla Glossa (ad. h. 1.) e riuscito pur sempre incoercibile 3.

Ulpiano attinse la decisione all'opera dig. di Alfeno e la riferisce in due redazioni affini, nel 1. 16 ad edictum e nel 1. 53. Giova per- tanto riportarle entrambe, paro a paro, e nella terza colonna tentare la restituzione nella sua probabile forma genuina del testo interpolato.

D. 39, 2, 9, 2. ita demnm autem crustam vindicari posse idem Al- fenus ait, si non coalnerit nec unitateni cum terra mea fecerit. nee arbor po- test vindicari a te, quae translata iu agnini menni cum terra mea coaluit.

D. 6, 1, 5, 3.

De arbore, quae in alie- nimi agnini translata coa- luit et radicea inimisit, Varus et Nerva utilem in rem actionem dabant: nani si nouduni coaluit , mea esse non desiuet.

Ulpian.

De arbore, quae in alie- nimi agnini translata coa- luit et ratlices immisit, Varus et Nerva in rem agi non posse aiunt : nani si nominili coaluit , mea esse non desiuet.

1 Cfr. D. 41, 1 , 7 , 5 e 30 $ 3 (Riccobono , negli Studi offerii a F. Schupfer voi. I p. 224 e seg.).

2 Nel Codice Napoleonico, all'art. 563. la decisione particolare posta da Giu- stiniano ebbe una formulazione generale; si concesse l'alveo relitto ai proprietarii del suolo di nuovo occupato dal fiume a titolo di indennità, in proporzione quindi del danno sofferto.

3 Cfr. Jhering, nei Jahrbiicher f. Dogm. 1 p. 141 ; Brezzo, Beiv. utilis p. 168; H. Kriiger, ZSS. voi. Xll p. 165; Ch. Appleton. Proprie'té prel . p. 73 e seg.; Man- caleoni, Reiv. utilis p. 46; Buonamioi , Arch. Giur. voi. 13 p. 2] 9; Erman , ZSS. voi. XI1I p. 202, u. 2; Czyhlarz , Festschrift f. Dr. Unger p. 12, 26; Bierniann, Krit. Vierteljahr. 3 Folge, voi. 7, p. 18; Kob. v. Mayr, vindioatio utilis, ZSS. voi. 26 p. 83 e seg.; p. 116 e seg.

166 S. RICCOBONO.

I due riferimenti di Ulpiano erano nella sostanza coincidenti. Nell'uno e nell'altro si indagava soltanto l'ammissibilità o meno della vindicatio della pianta trasportata nell'altrui fondo. Anche nel fr. 5 si dice, come già nell' introduzione del fr. 9 § 2, per la crusta , che se l'albero non coaluit, mea esse non desi net; or nel periodo che pre- cede si doveva necessariamente negare la vindicatio perchè vi si fa l'ipotesi che l'albero coaluit et radice* immisit; la stessa ipotesi con- templata nella chiusa del fr. 9 § 2. Il nani aveva dunque nel fr. 5 § 3 forza avversativa; stabiliva un'antitesi in base ai diversi presupposti di fatto , e 1' antitesi , per effetto della mortificazione introdotta dai compilatori rimase, nell'odierna struttura del passo, rovinata \

Ad accertare poi l'interpolazione delle parole che ho escluse nella restituzione del testo giova notare la frase Yanis et Nerva actionem dabant, attorno alla quale lo Czyhlarz 2 ed altri scrittori si affatica- rono davvero inutilmente. È evidente però che quella espressione si addice all'editto, cioè all'attività del pretore che può dare o denegare actionem 3, mai ai giuristi, i quali, se esercitavano con i loro responsi notevole influenza sullo sviluppo del diritto , non ebbero potere di creare o dare nuove azioni 4. I compilatori del resto si manifestano altre volte per questo segno; così in D. 4, 6, 18 : Sciendum est, quod in his casibns restitutionis auxilium maioribus damus cet 5; in 1). 1(>, 1, 8, 2 : exceptionem ci Senatm consulti Marcellus non daret cet 6; in D. 39, C, 29 : adirne quis dabit in rem donatori 7 ; in D. 23 , 3 , 33 : Recte

1 Anche il Mancaleoni ha ben rilevato questo vizio nel testo giustinianeo, ma egli riduce poi la sua critica in termini angusti supponendo aggiunte soltanto le parole in rem : (Reivindicatio utilis p. 49) che nella ricostruzione del testo io ho mantenute. Mayr, 1. e. p. 89 n. 11 sospetta soltanto un'alterazione del testo senza precisarla.

2 L. e. p. 25.

3 V. F. 83 praetor 'actionem dabit. Cfr. Kriiger, ZSS. voi. XVI p. 2 e seg.

4 Cfr. Lenel, Die except. p. 62; Bekker, Aktionen II p. 148; Erinan, ZSS. 13 p. 203; Pernice, ZSS. voi. XX p. 146. In molti casi la opinione del giurista ha il valore d'un suggerimento al magistrato; cfr. Collatio 12 , 7, 7 : et hic puto .. dandam actionem; eod 8: et ideo aequius putat iu factum actionem dandam.

5 Cfr. Lenel Pai. I p. 987 u. 1.

6 Cfr. Mitteis, Griinhut'a Zeitschrift voi. XVII p. 25, 36.

7 La sola introduzione sembra nel testo genuina; il resto , dalle parole et si quidem in poi, è fattura di Triboniano; ed il fr. fu messo iu rilievo per il conte- nuto dal Mancaleoni, o. e. p. 22 e seg. e dal Ferrini , Pand. p. 853 , n. 2 ; per altre indicazioni cfr. Mayr, 1. e. p. 94 e seg.

parte l. Tracce di diritto romano classico. 16?

itaque Sabinus dispostiti ut diceret l; in D. 4, 2, 14, 10 : sic hoc dispo- nendum est... poenae autem usqne ad duplum stetur 2.

IV. Tornando ora alla sostanza delle cose possiamo affermare che nei diritto giustinianeo è palese la tendenza a dare in tutti i casi di perdita della proprietà per accessione un compenso per via di actio. Che la utili8 in rem actio del fr. 5 § 3 abbia questa finizione non si può mettere in dubbio 3 ; ed è vana poi qualsiasi discussione sulla natura della formula in proposito , perchè il rimedio era ignoto nel periodo classico 4.

Ma perciò stesso, di fronte alla tendenza generale del diritto giu- stinianeo , la formulazione che si legge nel vófios yscoQymóg , da cui prendemmo le mosse, acquista un valore spiccato. Essa non poteva germogliare dai libri di Giustiniano , perchè riproduce nei suoi ele- menti più salienti la dottrina classica. Il nostro § deve nella sua prima origine riportarsi ad una epitome greca forse delle Istituzioni gaiane; e già il Ferrini aveva osservato, che i passi aggiunti alla collezione di leggi rustiche non furono presi dai Basilici 5 ma da comentarì antichi e varii, in prevalenza del tempo di Giustiniano.

IV.

IMPEKSAE IN BES DOTALE 8 EACTAE.

Son note le prescrizioni emanate da Giustiniano sulla dote con la e. unica de rei uxoriae actione cet Y. 13. In virtù di questa legge dell' anno 530 1' actio rei uxoriae subì una trasformazione completa. Per il compenso delle spese fatte dal marito sulla dote la costituzione contiene in massima nuovi precetti. Infatti, solo per le spese neces- sarie fu confermato il diritto antico : dotem mininoti; del resto si volle radicalmente abolito tutto il sistema delle retentiones anche a proposito

1 Cfr. Riccobono, Bull. I. D. R. voi. VII. e Panipaloni, Archiv- Giuria, voi. 56 p. 12. In questa categoria vanno pure annoverati i seguenti testi: D. 6, 1, 38 D. 39, 3, 2 D. 49, 1, 15 D. 3, 3, 33 pr. actionem autem intendere vetamus.

2 Cfr. Eisele in ZSS. voi. 13, p. 135.

3 Cfr. Jhering, 1. e. p. 141; Sokolowski, o. e. p. 160; Windscheid, Pand. $ 174 n. 9. Ma è giusto del resto notare che la satura dell' azione , qui come in altri casi, non è ben determinata; cfr. Mayr, 1. e. p. 123 e seg.

4 Cfr. ora Lenel , L' e'dit. perp. voi. I p. 211 , in contrapposto alla opinione espressa nell'edizione tedesca p. 146 , dove riferiva anche il nostro testo ad una formula jicticia.

5 Ferrini, 1. e. p. 559.

108 S. RICCOBONO. PARTK I.

delle impensae. L' imperatore mostra per quel blando rimedio un' av- versione acre e lo proscrive con frasi robuste, alla maniera bizantina; taceat in ea retentionum verbosità*.

L'ideale di Giustiniano era ben diverso; egli fermò il principio che sciolto il matrimonio ognuna delle parti dovesse avere il suo; ren- dendo così omaggio, in un tempo ben lontano , alla massima : les af- faires sont les affaires.

Di conseguenza per le spese utili , fatte sulla dote , garentì al marito un'azione, senza alcun riguardo, per la sostanza, al consenti- mento della donna. Il marito ha ora, in ogni caso, o Vaetio mandati o Vaetio negot. gest. Quest'ultima azione riceveva così un'applicazione smodata, ma consentanea al tipo raffazzonato da Giustiniano.

Per le spese voluttuarie fu accordato per la prima volta un nuovo rimedio, lo ins tollendi.

Tutte queste riforme, coni' era naturale, furono tradotte nei Di- gesti *; e cioè per le spese utili nei fr. 7 (25-1) e 7 § 16 (24-3), nei quali fu sostituita la parola actionem al posto di retentionem; per le voluttuarie nel fr. 9 h. t. che è nella sua interezza fattura dei com- pilatori.

In contrapposto , i principii applicati dai giureconsulti romani, nella trattazione di questo soggetto , sono ancora visibili. La donna è obbligata a rifare al marito le spese utili se fatte col suo consen- timento 2 ; non aveva mai obbligo a compensare le spese voluttuarie, anche se fatte col suo consenso 3. I giuristi nelle loro trattazioni ri- levavano appunto 1' antitesi fra le due categorie di spese sulla base della voluntas mulieris. E 1' antitesi si coglie ancora ravvicinando i fr. 7, 8, 11 D. h. t. 4; ma noi la ritroviamo poi viva ed in tutta la sua purezza nel 1. IV t. X di Armenopulo.

Questo compilatore ci rappresenta in due §§ consecutivi tutta la

dottrina classica , col contrapposto dell' elemento della volontà nelle

due specie diverse; efficace per le utili e non per le voluttuarie; per

queste quindi vi si esclude ogni compenso e vi si ignora lo ius tollendi.

Harm. IV, X :

§ 55. Kuv yvé^iri tf\s yvvcaxòg ysyóvaói Ttoòg tsotyiv dccitavi]- liutcc, ovx àttaixovvxui 5.

1 La dimostrazione di quanto segue nel testo fu da me data nello studio sui Schol. Sin. in Bull. I.D.R. voi. IX p. 238 e seg.

2 D. 25, 1, 8; 50, 10, 79, 1.

3 D. 11 h. t.

* La ricostruzione di questi passi fu da me fatta nel lavoro disopra citato p 240. 5 Coincide col testo dei B. 28, 10, 11 e Sinopsis n, 39, 00.

PARTE I. TRACCE DI DIRITTO ROMANO CLASSICO. 169

§ 5G. Tóxs vjie£,caQOVVTca ènaHpsXfi, ore xatà yvcó^v yévavtca tr\g yvvawós. adwov ydo èótv jti») é%ov6uv ètéoco&ev dovrai xatavay- xaó&rjvcu Ttalìióta 7toày[icc, itsoi o yéyovsv i} du7tdvr] l.

Certamente, questi paragrafi corrispondono a due fr.1 del titolo deimpensis cet XXVI dei Digesti; il primo al fr. 11 di Uìpiano, al fr. 8 di Paolo il secondo ; combaciano inoltre , coinè ho rilevato in nota, con il testo riportato dai Basilici e dalla Sinopsi. Ma ciò die può significare ? Semplicemente questo : che l'ordinamento dei sunti greci nel secolo VI era fatto secondo l'ordine dei Digesti e che dalle raccolte pregiustinianee si ricavavano i passi che dopo la compila- zione di Giustiniano potevano ancora interessare 2.

Armenopulo dovette adoperare in quel punto una collezione del secolo sesto da cui trassero pure i compilatori dei Basilici 3.

Vero è che il fr. 9 (25-1), che riguarda lo ius tollendi, fu aggiunto posteriormente in margine al § 55 del manuale 4, e che, secondo nota Heimbach 5, tali integrazioni furono per lo più eseguite dallo stesso Armenopulo; ma appunto in ciò, se non erro, si ha la prova più evi- dente che il nostro compilatore nella prima formazione dell'opera ebbe fra le mani un comentario che [n'esentava in quel punto l'indice dei soli frammenti genuini di Paolo e Ulpiano.

Altre spiegazioni non sarebbero attendibili; avrebbero piuttosto il valore di ripieghi vani, (piando noi sappiamo che non si tratta qui di un caso singolare , ma di un fenomeno che si ripete le tante volte ed in tutte le fonti greche.

Infatti si può dimostrare che molte interpolazioni giustinianee furono trasportate sui santi greci preesistenti. Questa indagine non è certo agevole, ma l'occhio esercitato può ancora scovrire, in alcuni casi, che l'aggiunta ha tutti i caratteri di una nota marginale, perchè si attacca male al periodo che precede o addirittura vi si pone dura- mente in contrasto; in altri casi il passo greco presenta sproporzioni ingiustificate, una parte rende l'epitome, l'altra una versione letterale del passo latino; se noi sappiamo, per altro ordine di conoscenze, che il sunto è tratto dal testo genuino e la versione letterale invece si riporta alla interpolazione, <> al contrario, la spiegazione che il testo

1 = B 28, 10, 8; Siuopsis », 39, 64.

2 Così anche Ali brandi, Opere p. f>L'. ^

3 Si sa che Armenopulo tendeva a rendere quanto più copioso il suo manuale compulsando una grande varietà di fonti tìcc) rù>v tiqoxsiqcov tee xàX).i6ra , come egli stesso c'informa nella 7tQ0&E(OQia.

4 Heimbach p. 558 nota ee.

5 Praefatio p. XVII.

170 S. RICCOBONO. PARTE 1.

risulta di due strati t'orinati in tempi diversi è la più semplice e le- gittima l.

Viceversa , altre volte si constata clic la traduzione o il sunto che danno i Basilici , nel testo ufficiale o nell' apparato degli scolii, non portano le interpolazioni inserite da Triboniano ; in questi casi abbiamo la prova diretta che l'esemplare da cui la versione o il sunto del testo fu ricavato era l'originale non quello giustinianeo ~.

Nella stessa maniera i paragrafi 55 e 56, sopra riportati, di Ar- menopulo ci conservano una testimonianza preziosa della dottrina clas- sica in materia di spese dotali. Ma quei paragrafi inoltre danno una bella conferma dei risultati cui pervenni altra volta, con l'esame di tutte le fonti relative a (pici punto di diritto, gli scolii Sinaitici compresi.

Ma qui giova riassumere il risultato di queste brevi note e con- statare ancora una volta che i fatti hanno per la storia più forza che la volontà degli uomini; si tratti pure di volontà imperiale tradotta in legge e con severe sanzioni.

La memoria di norme del diritto classico è conservata qua e in vari punti nei libri greca, accanto alle forme novelle degli istituti;

1 Alcuni esempi tipici furono da me posti in rilievo e dimostrati : B. 28, 10 cap. 11. Sch. dello Anonimo (Heimbach III p. 298) corrispondente ai fr. 9, 11 pr. D. 25, 1; cfr. Riccobono, Bullettino I. D. B. IX p. 257 e seg. p. 282 e seg. B. 16, 8, 12, 52 = D. 7, 8, 12, 2 (Riccobono, sull' usus; negli scritti offerti a V. Scialoja, estr. p. 19 e seg.). B. 28, 1 cap. 13 = D. 23 , 1 , 15 (Riccobono, Prospeclus montium , negli scritti offerti a C. Fadda p. 18 u. 1 dell'estr.) Sch. Sinait. 20, ove la nota marginale, corrispondente al fr. 9 D. 25, 1 fu incorporata alla versione greca dal fr. 11 pr. eod (cfr. Riccobono, Bullettino cit. voi. IX) lad- dove in tutte le altre fonti greche il sunto greco del fr. 9 è riprodotto in capi separati o nelle paragrafo.

2 Gli esempi per quanto riguarda il Codice sono copiosi e riportati dallo Zachariii in varii luoghi (cfr. gli scritti citati a p. 161 n. 3) ; per i sunti corri- spondenti ai passi dei Digesti si ha minor numero di esperienze , ma ciò solo per il fatto che finora si è rivolta nessuna attenzione a questo ordine di confronti. Posso qui notare: B. 12, 1, 50 corrispondente a D. 17, 2, 52 §2; l'interpolazione è invece nota agli scolii; v. Heimbach voi. I p. 751, e la giusta spiegazione data dal Brasslorf in Wiener Studien voi. 24 p. 567. B. 25 , 2 , 16 corrispondente a D. 20, 1, 16 § 4; cfr. Lenel P. 1 p. 649 n. 1; Eisele, ZSS. voi. 18 p. 4; Goppert, Organ. Erzeugn. p. 395. B. 16, 8, 2, sch. 1 corrispondente a D. 7, 8, 12, 1 od altro testo classico a noi non pervenuto (cfr. Riccobono, sull' usus 1. e. p. 13 e seg.), infatti lo sch. non coincide nemmeno col testo di Theoph. II, 5, 1 = 1. eod tratti eridentemente da Gaio r. cott.; cfr. D. 7, 8, 11.

PARTE I. TRACCE DI DIRITTO ROMANO CLASSICO. 171

e ciò perchè la tradizione scientifica non fu, come si crede, spezzata d'un colpo dall'opera legislativa di Giustiniano.

Nel momento storico che qui osserviamo, come in tutti i tempi, nell'Oriente come in Occidente, l'opera degli interpreti procede lenta e faticosa sulla base larga degli elementi preesistenti ; i manuali di scuola hanno carattere essenzialmente tralaticio , e corretti e ammo- dernati passano, sempre giovani, di generazione in generazione.

Le paragrafa, le versioni e gl'indici ordinati dai coevi di Giusti- niano riproducono in buona copia il lavoro compiutosi in Oriente sui libri dei giuristi romani , nel periodo aureo della scuola di diritto. Era poi naturale che attraverso quelle prime elaborazioni del sesto secolo molti vestigi dell' antica letteratura passassero nelle raccolte posteriori, private e ufficiali; poiché, perdutasi, come è noto , già al tempo di Giustiniano la conoscenza della lingua latina, i lavori giu- ridici fatti sulla codificazione giustinianea nel VI secolo rimasero l'u- nica sorgente cui attinsero i compilatori bizantini.

Accertato questo processo storico, l'affermazione altra volta fatta mi sembra anche ora legittima; e quindi noi possiamo con buon fon- damento trarre vantaggio, in singoii punti, da tutte le fonti greche sia per le dottrine del diritto classico * sia per la struttura e la forma dei passi negli scritti dei romani giureconsulti.

1 II nostro Ali brandi, nello scritto « Dell'utilità che recano alla storia ed alle antichità del d. r. gli scritti dei greci interpreti » ristampato nelle Opere p. 49 e seg. mette in rilievo appunto sotto questo aspetto il materiale noto dai Basilici.

Palermo.

Salvatore Riccobono.

LA SCOPERTA DELL' AES SIGNATUA

NELLE TERRE ADIACENTI AL LAGO FUCINO.

L'incertezza delle testimonianze antiche fondate sulla tradizione popolare, ha indotto sino ad òggi gli erudi'J ad attribuire a Roma l'i- stituzione della moneta '; ed in effetto le prime traeeie della valuta- zione e del peso derivanti dall'US, contrazione deìVAes, traggono mo- tivo dal sistema librale romano.

Ma è difficile, se non impossibile , trovare elementi sicuri di at- tribuzione a (pici tanti pezzi di metallo che recano impronte e con- tromarche e che comunemente si chiamano Aes xignatum, poiché pro- vengono da luoghi diversi, specialmente dell'Italia centrale, e fanno sempre più dubitare se essi ripetano l'origine da Roma o dal Lazio, ovvero ebbero altri centri di fabbricazione presso i popoli soggetti alla conquista dei romani 2. Ora è il caso d' una provenienza tutta nuova dell'^s signatum; e ce l'offre la Marsica, regione antichissima situata nella parte più elevata e montuosa degli Abruzzi e più vi- cina a Roma. L'anno scorso a S. Benedetto dei Marsi , sulla sponda del lago Fucino, in un terreno di proprietà degli eredi di certo Luigi Sabatini, venne a luce il frammento di cui si riproduce la figura al nini). 1 della tavola annessa. È una grossa frazione di Aes signa- tum, che per la sua fattura rozza e grossolana deve ascriversi alla serie più arcaica di simili pezzi. 11 suo peso è di grammi 1170 (cor- rispondente esattamente al frammento n. 9 del ripostiglio di Oastel-

1 Coni' è noto, secondo Plinio (Hist. Nat. XXXIII, 3, 17) , Servio Tullio se- gnò per primo con un'impronta VAes rude, onde gli fu dato il nome di signatum: « Servius rex primus signavit Aes rudi ante usos romanos Timaens tradii » . Egli non do- vette porre codesto seguo su d' altra forma che la quadrilatera. (Garrucci R. Le monete dell'Italia antica. Parte I. Roma, Salviucci, 1885, p. 1).

2 Secondo qualche scrittore, i Romani seguendo l'esempio dei Cartaginesi, sta- bilirono le loro prime officine monetarie nei diversi paesi delle provincie conqui- state (Milli ngen J. Considérations sur la Numismat. de l' ancienne Italie. Florence, 1841, p. 211). Però quest' opinione è coatradetta dal fatto che Papirio Cursore dopo le guerre della Campania e del Sannio (A. U. C. 461) fece portare a Roma più di due milioni dell' Aes grave tolto ai nemici e probabilmente fabbricato nelle officine monetarie sorte nei paesi conquistati (Liv. IX, 40).

PARTK I. I,' « AE8 SIGNATUM » DEL LAGO FUCINO. 173

franco d' Emilia) , ma calcolando sulla forma e misura ordinaria di bronzi analoghi, può ritenersi che l'intero quadrilatero pesasse almeno il doppio i. Una delle faccie in superficie piana reca la figura del ramo secco e bracciate, composto del tronco e di due soli bracci che con- vergono nell'estremità a modo di un'ancora. L' altra faccia non pre- senta segni di sorta ed ha la superficie leggermente convessa, in modo che la forma dei due lati superiori alla rottura , più che alla ellittica, tende a quella d'un semicerchio. Xei lati di fianco si nota la sporgenza della bava, ovvero del metallo trascorso fra i labbri delle staffe, le cui tracce sono rappresentate da due profondi solchi. La fusione è al- quanto difettosa per i buchi e le protuberanze provenienti dalla na- tura scoriacea del pezzo e rivela un'arte molto primitiva. La patina è di colore scuro-nerastro tendente al rossiccio 2.

Questa frazione di quadrilatero a primo aspetto non presenta ca- rattere di novità, potendo rientrare nella serie dei pezzi provenienti dal di dell'Appennino, ossia dalle terremare dell' Emilia , del Reg- giano e del Parmigiano , aventi il ramo secco o sfrondato a due o più braccia 3- Ma quello che ha di notevole è che una seda delle faccie è contrasegnata dal ramo, mentre l'altra è senz' impronta, circostanza finora segnalata assai vagamente negli altri esemplari delle specie, come quelli del ripostiglio di Castelfranco. Non è il caso di far con- getture o ipotesi sopra questa che a ine sembra una singolarità, potendosi tuttavia ammettere l'esistenza di una forma primitiva e più arcaica dell'Efes signatum , perchè unilaterale, per analogia a (pianto si osserva nelle più antiche monete di conio in argento a rovescio inciiso o liscio che precedono quelle battute bilateralmente. Ed un indizio certo di arcaicità si ha dalle protuberanze scoriacee delle due facce , mentre gli altri pezzi della serie sopra accennata rivelano maggiore accuratezza e preparazione nello stampo. Laonde, a mio criterio, si potrebbe sospettare che questa nuova categoria del- VAes .signatum unilaterale spetti ad un periodo di transizione dalla

1 Calcolando sulla presenza dei due bracci del ramo, ohe in origine dovevano essere non meno di quattro, come nel bronzo di Fiesole (Garriteci, op. cit. Ti.v. X-3], si deduce che anche il peso doveva essere doppio.

2 Questo frammeuto (VAes signatum si trova attualmente in possesso del si- gnor Angelo Del Proposto residente a Castellammare Adriatico.

3 Pigorini G. V Aes signatum scoperto nella provincia di Parma. Ivi, 1874. Chierici G. L'Jes signatum dei due versanti dell'Appennino. Reggio Emilia, 1879.— Id. Antichità preromane nella provincia di Reggio nell'Emilia, pag. 17. -Garriteci op. cit. Tav. VII-I, 2; IX-1, 2, 3; X-3; LXVII-2. l'.ri/.io K. // ripostiglio di Castel- franco d'Emilia (in Notiz. degli Scavi, 1898, p. 22(5 e seg.).

174 G. PANSA. PARTE I.

forma irregolare dellM.es rude a quella meglio determinata daWAes {tignatimi. E da questa differenza o singolarità dell' impronta posta in una sola tàccia si verrebbe forse a confermare la natura di mo- nete ovvero masse di valore destinate ad uso di moneta clie alcuni negano a simili frammenti col ramo sfrondato '. Ma su queste conget- ture, d' altronde probabili , io non intendo indugiare , rimettendo il giudizio a più maturo esame.

Concludendo , mi preme solo di osservare che la presenza del bronzo in parola per la sua tecnica di stile antichissimo, prevalente come tale a tutti gli altri della specie , indica 1' esistenza presso i Marsi primitivi di miniere ed officine dove lavoratasi il rame grezzo per metterlo in commercio.

E rivela altresì una civiltà commista in quei popoli , i cui vil- laggi lacustri situati sulle sponde del Fucino presentano insieme a tracce dell'industria primitiva o neolitica, indizi non meno sicuri di preparazione all'arte metallurgica 2.

1 II Chierici (L'Aes signatum dei due versanti dell'Appennino, ecc.) sospetta che i primi frammenti coll'impronta del ramoscello, più rozzi di forma e più va- ganti di peso (a differenza degli altri quadrilateri trovati al di qua dell' Appen- nino , più gentili di forma , più regolari nel peso e con tracce di frattura) non sieno mai stati moneta o equivalente di moneta, ma semplici pani metallici, pri- mi getti di miniera per mettere il metallo in commercio. Parecchi lo seguirono in questa congettura e fra essi, per citare i più autorevoli e receuti, il Bahrfeldt e l'Haeberlin a proposito del ripostiglio di Mazin (Bahrfeldt M. Der Miinzfund voti Mazin (Croatien), etc. Berlin, 1901, pag. 29. Haeberliu. Zum Corpus Numor. aeris gravis, in Berlin. Miinzblatter, 1906, fase. 49 e sgg.). Non voglio per ora en- trare anch'io nell'ardua discussione, mancandomene 1' autorità ; ma spero di farlo appresso. Affermo solo, riguardo al peso , che non è sempre vero che questo sia del tutto incerto e vagante, come si sostiene, avendo già il De Eossi dimostrato che in alcuni ripostigli si nota, per i frammenti di Aes rude e signatum, la rego- larità degli spezzamenti prestabilita secondo il sistema librale. Siffatta regolarità incontrasi pure nelle frazioni di armi spezzate, come nei paalstab , nelle lancie e falci del ripostiglio di Terni, le quali venivano ridotte ad massam rudem, appunto per ridurle a merce monetale, fondendole in pani. Riguardo poi al ramo secco come segno del peso, a me pare che indubitatamente esso lo sia. Infatti apparisce come tale negli antichissimi quadrantali romani già illustrati dal Boni (Quadrantal, in « Nuova Antologia », 16 agosto 1902) e recentemente dal Gatti (Capselle reliq. crist. e misure romane di capacità, in Bollett. della Comm. Archeol. Cornuti. , Roma 1905, fasi-. 4) e in altri monumenti specialmente dell' Etruria (Gozzadini. Necropoli di Marzabotto, p. 29 e seg. Fabretti A. Primo Suppl. alla raccolta delle antich. iscriz. Italie. Tav. Ili, n. 42). D'altronde il ramo secco indicava il numero 10,000 presso i latini (Ritschl, tab. Lille, LXXXIXb, XCIVa).

2 Ved. Nicolucci G. V age de la pierre dans le Provinces Napolit. (in Compt. rend, du Congr, Inter, d'Anthrop. et d' Archeol. prehist, 5e sess, Bologne, 1871,

17f>

G. PAXSA.

Fi-. 28.

I molti esemplari dell'ics grave trovati nelle escavazioni del laj>o Fucino, prima e dopo il suo prosciugamento, tanno palese l'esistenza d'un largo commercio esercitato da quelle popolazioni circumlacuali con la vicina Roma. I Romani nei primordi del loro dominio ebbero a lottare coi Marsi , ma ben presto si accorsero che sino Marsis nec de Marsh triumphatum fuit, giusta (pianto afferma Appiano Alessan- drino (De beli. civ. lib. I). L'alleanza dei Romani coi Marsi risale ad e- poche remote che gì' istorici non hanno precisato. Condizioni della

ved. § 2 A « Provinoes des Abruzzes »). Id. Nuove scoperte pi eist. nelle Prov. Napolit. (in Rendic. d. R. Accad. d. Scienze tìs. e ìuat. di Napoli, Fase. 8, agosto 1876). Id. La grotta Cola presso Petrella di Cappadocia veli' Abruzzo Ult. II (Ivi , 1877, fase. 10 fobr.). Id. I cranii dei Marsi (Ivi, 1882, fase. 2 die). Non lievi cumuli d'indizi ci additano intorno alle sponde del Fucino antichissimi centri abitati, sta- zioni neolitiche i cui avanzi hanno un'assai evidente legame coi reciuti di mura a massi poligonali che s'incontrano specialmente nel territorio di Alba Fucense e di Roccavecchia (Arx) , e al tempo stesso formano un'indicazione sicura per ricono- scere in quelle località il punto donde proviene la fabbricazione dellMes signatum. Che l'uso della pietra ivi durasse dentro il periodo del bronzo, non può mettersi in dubbio; ed è questa una nuova prova della contemporaneità dei due usi dopo quelle che si sono avute dalla scoverta delle necropoli etnische di Marzabotto, della Certosa di Bologna, della stipe delle acque di Vicarello , di S. Martinella presso S. Gennaro , nel territorio di Genzano e di altre località (Vedi Gozzadini G. Di un'antica necropoli a Marzabotto. Id. Ulteriori scoperte nelV antica necropoli di Marzab., p. 42. Zaunoni, Relaz. sugli scavi della Certosa di Bologna. De Rossi M. S., Sugli studi e scoperte paletnolog. di Roma. II. Rapp. in Giorn. Arcad. Nuova Ser. T. LVIII, p. 20. Id. Nuove scop. nella necrop. arcaica albana e V Aes grave fra le rocce vulcaniche laziali. IV. Rapp. (Ann. dell' Instit. d. Corrisp. Archeol., 1871, p. 275-77).

PARTE I. L' « AES SIGNATUM » DEI, LAGO FUCINO. 177

lega erano che i Marsi fornissero soldati a Roma in tempo di guerra e soni mi lustrassero , dietro pagamento e a giusto prezzo , cereali e vino. Si trattò di un vero e proprio trattato di commercio. Era al- lora 1' epoca in cui Roma estendeva le sue conquiste e si allargava nell 'Italia centrale. I Marsi erano quasi a confine coi Latini, tra il Lazio ed i Sabelli. Xon ostante clic gli Equi, i Sabini, i Volsei op- ponessero resistenza , pure furono presto ridotti alla dipendenza di Roma; e per questo i Romani vennero a confinare coi Marsi e strin- sero con essi legame , avvalendosi della loro qualità di latrones, ov- vero soldati di ventura, come s'intitolavano i Marsi secondo l' iscri- zione di Caso Cantuvio rinvenuta nel Fucino \ Alba Fucense , Ar- chi] »pe, Marruvio, Cerfennia, Milonia, Plestinia, Opi, Fresilia, Alitino ed Angizia furono le città più cospicue che ebbero istituzioni , vita e commercio modellati su quelli di Roma , come lasciano trasparire i loro avanzi monumentali 2. Perciò si spiega come anche lo scambio delle monete avesse avuto largo sviluppo e base nei rapporti con Roma.

Alba Fucense, già sede degli Equi, fu uno dei centri principali di vita nella storia di quei popoli; e la serie deìVAes grave che ebbe corso in quella città e nelle terre adiacenti al lago, fu a preferenza denominata dalla testa d'Apollo 3. Il Mommsen inclina anche ad at- tribuire ad Alba Fucense la serie librale con la testa di Venere Fri- gia e la ruota, innanzi che detta città fabbricasse moneta d'argento; e registrò Alba fra le colonie latine che avevano emessa moneta li- brale \ Nella quale opinione fu contradetto dal Garrucci , il (piale obiettò che se questo fosse vero, le terre albensi ed il Fucino, pri- ma e dopo il disseccamento, avrebbero dovuto a quest'ora mandar- cene almeno un saggio 5. Ma se ad Alba Fucense non si può con sicurezza attribuire moneta binale vera e propria, mentre ebbe quella in argento, non è detto che ad essa manchino altri elementi da poter riconoscere il largo traffico che esercitò e lo sviluppo commerciale ed economico che ne derivò per i suoi rapporti con Roma.

E questo oggi importa far notare, come alla serie dell' Aes (/rare di cui si conservano molti esemplari nel Museo Torlonia e nella rac-

1 Ved. Notiz. degli scavi. Die. 1877, pag. 328 et tav. XIII.

2 Gcfì'roy. L'Archeologie da lac Fxciu (Extr. d. la Rev. Archeolo^;. .Filili. 1878^

3 Visconti C. L. Il Quinipondio e il Tressc del Medagliere Faticano , iin Stud. e docum. d. Stor. e Diritto. An. I, 1880, pag. 76").

4 Momniseu. Histoire de la monuaie romaine. Edit. frane, par le Due de I51a- cas, I, p. 187.

5 Garrucci. Op. cit., pag. 21.

12

178 G. PANSA. PARTE I.

colta degli eredi del Conte Pace di Massa d'Albe i, va congiunta quella deìVAes signatura che oggi appare per la prima volta nelle tene albensi e ch'è rappresentato dall' unico frammento superstite del quinipondio o quincusse che si vede riprodotto al unni. 2 della tavola annessa. È questa una lieve frazione del famoso quadrilatero già illustrato dal Visconti , oggi posseduta da me 2. Fu rinvenuta nelle adiacenze di Albe , in alcuni lavori di sterro fatti ad un chi- lometro e mezzo dall'abitato, com'ebbe a dichiararmi il manovale Pietro Coppola presso il quale l'acquistai pochi mesi or sono. Il suo peso è di grammi 105, corrispondente a circa la terza parte d'una libbra, ossia alla quindicesima parte del quinipondio kircheriano, che pesa pressoché cinque libbre esattamente. Da un lato vi si vede una punta laterale del tridente; dall'altro, un pezzo della tenia o lemnisco da cui è avvolto il caduceo. La patina del bronzo è di colore verde quasi uniforme. La presenza di questa frazione di Aes signatum nelle terre del Fucino non ha , è vero , grande importanza negli scopi d' appurare la sede primitiva del famoso quadrilatero che si vuole proveniente da Bomarzo , ed a cui si annettono origini e signiticanze diverse. Essa però conferma ancora dippiù l'incertezza che regna a tale pro- posito , rivelando un' altra provenienza tutta nuova. Senza riandare ora , con questo nuovo elemento , alla quistione se il celebre quini- pondio sia di manifattura etnisca o debbasi collocare fra i quadrila- teri della famiglia laziale 3 , è fuori di dubbio che esso ebbe corso e diffusione tra i popoli dell' Italia centrale compresi fra 1' Etruria (com'è noto pel tesoro di Vulci, in cui si trovarono frammenti simi- glianti col tridente e caduceo) e la regione marsica, il cui sviluppo commerciale nell'antichità acquista, con la scoperta di questo esem- plare nelle terre albensi, maggiore incremento e conferma.

1 Visconti. Op. cit. pag. 76, nota.

2 Visconti. Op. cit. Garrucci, Le moti. dell'Hai, antica, tav. XVI e pag. 9.

3 Visconti. Op. cit. pag. 70. Garrucci. Op. e loc. cit.

Sulmona.

Giovanni Pansa.

LE /AURA ROAANE

D'ALBA FOAPEIA.

i.

Nel declivio settentrionale dell' Appennino la regione ch'ebbe nome speciale di Langhe va digradando di monte in monte, di colle in colle fino al margine del Tanaro, fiume che conserva nome indigeno d'anti- chità indefinita. Lo menziona Plinio Hist. nat. Ili, xx [xvi], 4).

Sovra un ultimo lembo di questo declivio, in punto dov'esso fiume corre quasi esattamente da ponente a levante e riceve il piccolo tri- buto del torrente Cherasca l giace Alba detta ora di Piemonte, qualche secolo addietro di Monferrato, 2 nell'alto medio evo di Lombardia, nei tempi romani Pompeia : annoverata da Plinio (H. X. Ili, vii, 2) fra i nobilia oppida, quibas nitebat al suo tempo quella regione tra l'Appen- nino e il Po, che contava per IX nella divisione di Augusto.

Anche il nome della città deve rappresentare l'antichissimo pre- romano , 3 e le origini di essa restan nascoste nella solita notte dei tempi. Il Mommsen, parlando della via condotta da M. Emilio Scauro nel 615 di Roma (109 av. Cr.) da Vada Sabatia per Aquae Statiellae a Dertona, nota come a questa via nei pressi d' Aquae Statiellae dovette allacciarsene un'altra (non si sa quando effettuata, ma attestata dalla Tavola Peutingeriana) , proveniente dalla città dei Taurini e desti- nata a congiungere col mare essa città e tutta la regione transpadana. Questo tratto di via doveva per natura passare (e la Tavola segna il nome) pel luogo ove sorge Alba. Ora al Mommsen pare che non si

1 Nei vernacoli Chirasca, Queirasca; nei più vecchi documenti medievali Cura' sca: reliquia certamente a sua volta dell'antica onomastica ligure.

2 Si sa che, cadute le libertà comunali, fra le varie ambizioni che si contesero Alba dal sec. XIV al XVII, vi prevalse quasi costantemente la signoria dei Mar- chesi di Monferrato, finche nel 1631 col trattato di Cherasco fu annessa agli Stati di Casa Savoia.

3 Cfr. sulla riviera Album Ingannimi, Album Intimilium, Alba Docilia', nella Gal- lia Narbonese Alba Helvorum..,

180 F. EUSEBIO. TAUTE I.

andrebbe errati connettendo la nascita délVoppidum coi lavori di que- sta costruzione stradale *.

Ciò può pensarsi ove si parli dell'assetto alla romana; ma quanto a nucleo «l'abitazione indigena, come già per se ce lo farebbe supporre d'assai più antico 1' opportunità stessa del luogo , così ce lo attesta antichissimo una stazione neolitica esistente alle porte della città dal lato di mezzogiorno \

Se non che anche come sede romana, mentre l'ipotesi del Mommsen ne farebbe certamente discendere gli inizi più giù del 050 di Roma, parecchie considerazioni, su cui non è qui luogo di diffonderci, ;i consi- gliano di crederla principiata un tratto imi avanti. Qualunque fosse il grado di civiltà, in cui i Romani trovarono ai primi contatti queste popolazioni liguri, la preesistenza d'un nucleo d'abitatori in luogo posto in piano sulla sponda del fiume più importante della regione, allo sbocco di parecchie valli risalenti a serie infinita d' alture propizie alla spic- ciolata guerra di resistenza , in flagrante vicinanza del punto , ove prima o poi sorse Pollentia a guardia d'un passaggio alla pianura Pa- dana, infine su linea designata da natura per comunicazione con altri centri dominatori del paese , induce facilmente a credere che anche prima d'intraprendere la loro classica rete stradale i Romani dovessero d'urgenza coi mezzi più pronti a popolo maestro di conquista affermarvi praticamente e stabilmente la loro presa di possesso, proclamata fin dal 532; 4 il che importava introduzione delle prime e più opportune delle loro arti ed industrie, qualche primo lavoro d'utilità militare e civile , ecc. Valgano ad esempio Plaeentia e Cremona colonizzate di Latini fin dal 530 , cioè settant' anni prima della costruzione della via Postumia.

Fatto è ch'io trovo nel sottosuolo albense, tanto in città quanto in campagna, frammenti di tegole romane di perfetta fabbricazione con bollo di questa forma: « P. Q. ^AjERIEIS ». Ora si sa che la finale

1 C. I. L., voi. V , proemi ai capi d'Aquae Statiellae e d'Alba Pompeia , pa- gine 850 e 863.

2 Essa ha insigne rappresentanza nel Museo Kircheriano di Roma, donata dal benemerito raccoglitore Ing. G. B. Traverso.

3 Dovrò parlarne di proposito in un libro di prossima pubblicazione sulle Epi- grafi romane inedite d' Alba Pompeia raccolte nel Museo archeologico, che da alcuni anni mi riuscì d'iniziare nella mia città.

4 Quando per effetto delle vittorie di Telamone e di Clastidium tutto il paese degli Insubri e dei Liguri era dichiarato provincia romana. Cfr. per 1' anno 557:

« et jam omnia cis Padum, praeter Gallorum Boios, Ilvates Ligurum, sub di-

cione erant » (Liv. XXXII, 29).

I>ARTK t. LE MURA ROMANE d'aLBA POMPEI A. 181

in eie pel nominativo plurale dei temi in o cessa già verso la metà del secolo VII l.

Se non si vuol credere che quelle siano proprio le prime tegole che inaugurarono sul luogo l'edilizia romana, nello stesso tempo che dovrebbero porgere gli ultimi tardivi campioni di quella forma di fles- sione arcaica, bisogna pensare in genere che durante la prima metà di quel secolo già venisse compiendosi del ricus Albensis quella suf- ficiente assimilazione, quella specie di romanizzazione di fatto, che a tutte le città «Iella Cispadana, dotate già del jus Latinum, faceva ornai invocare la piena cittadinanza , e a Roma permetteva di concederla nel 665 come ad alleati rimasti fedeli anche nei frangenti della guerra sociale.

Credesi generalmente che appunto in quell'occasione Alba dei Liguri prendesse da Pompeo Strabone, autore della legge di cittadinanza, il soprannome di Pompeia. Resta però a domandare perchè fra le tante città che di quella legge fruirono la sola Alba assumesse quel distin- tivo, come Laus sola lo assunse fra le transpadane, che per la stessa legge acquistarono il jus Latii....,

Nella nuova condizione Alba Pompeia con la vicina città dei Bagienni fu censita nella tribù Camilla.

Undici anni dopo quell'avvenimento (676 di IL, 78 av. Cr.), morto Siila, il console M. Emilio Lepido con proposito d'abbattere la costi- tuzione del terribile dittatore e ristorare la parte Mariana si presenta con suo esercito davanti a Roma, mentre con altre forze nella Gallia cisalpina appoggia il moto Giunio Unito, padre di quello che ucciderà Giulio Cesare. Ma Lepido è disfatto da Lutazio Catulo in Camp*» Mar- zio e il giovine Pompeo mandato contro Liuto nell' Italia superiore finisce la guerra quasi senza combattere, ma non senza parecchie su- perflue atrocità, di cui pare toccasse ad Alba Pompeia di vedere una delle più penose. Arreso già Bruto , e tuttavia trucidato a Reggio, « Albanorum civitas, obsidione oppugnata atipie excruciata fame ulti- ma, miserabili uni reliquiaruni deditione servata est; ubi tunc Scipio,

1 L'esempio geograficamente più vicino , cioè la Tavola di Poleevera , dove leggiamo: « Q. M. Minucieu Q. f. Iìufeix», porta espressa la data del 637 di Ro- ma (117 av. Cr.)— Vedasi C. I. L. voi. I. 199; V, 7749. Ritsehl , l'riscae lati- nitali8 monumenta ep'ujraphica , tav. XX. E per la (questione dell' età in cui vige quella forma arcaica di flessione : Ritschl, op. cit. pagg. 123-21.

Rileva già queste cose una mia breve comunicazione intitolata « Nulicine di grammatica storica » negli Atti del Congresso storico internazionale di Roma, voi. II, pagg. 211-12; alla quale avrò qualcosa da aggiungere Dell'annunciato studio illu- strativo dell'Epigrafia romana inedita d'Alba Pompeia,

Ì82 V. EUSEBIO. fARtfi I.

Lepidi filius, captus atque oecisus est ». Tanto questo passo d'Orosio (V. 22, 17) quanto uno di Plutarco (Pompeius, XVI) ed altri d'altri scrittori, che accennano al fatto, presentano punti oscuri e disputa- bili, forse guasti; ma, comparati fra loro in rispetto alle varie situa- zioni dell' effimera guerra , cospirano a fare intendere che V Albani d'Orosio, scrittore di latinità tutt' altro che impeccabile, designi vera- mente quelli che normalmente nei buoni tempi si chiamarono Alben- ses Pompeiani l.

Un trentacinque anni di poi Alba Pompeia dovette dare stazione all' esercito di Decimo Bruto avviato a Pollentia. Infatti nel 711 di R. (43 av. Cr.) M. Antonio, fuggito dopo la rotta di Modena fino a Vada Sabatia, ma afforzato colà di nuovo esercito condottogli da Ventidio Basso , tenta (se non è pura tìnta) di riportar la guerra nella valle Padana rivalicando l'Appennino e lanciando anzitutto Trebellio con la cavalleria ad impadronirsi di Pollentia. Ciò avveniva naturai niente per vai di Tanaro. Decimo Bruto dall'alta valle della Bormida orien- tale , ov' era giunto nell' inseguire il fuggitivo, si propone di preve- nirlo nell'occupazione della forte città, e vi riesce con cinque celeri coorti, che toccano la meta un'ora prima che vi compaia in vista la avanguardia del nemico. 2 Questa contromarcia, notava già il Mommsen (loc. cit. pag. 850), non potè effettuarsi che per l'accennata via « Aquis StatielUs-Pollentiam », la quale passava, come già indicammo, per Alba Pompeia.

Non procedo oltre con quest'abbozzo di cronistoria preliminare, perchè lo speciale argomento, a cui ho destinato il mio scritterello, spetta certo ai primi tempi in cui la Repubblica stese su Alba il suo dominio.

ner

1 Anche lo Zangerneister nell'indice della sua edizione d'Orosio (Lipsia, Teub- 1889) interpreta quell' Alban ornm civitas per Alba Pompeia, pur distinguendo

con carattere corsivo VAlbanorum da altri Albani d'altro significato. Discuterò al- trove con più agio la questione. Per gli Albenses Pompeiani v. Plinio, H. N. XVII, in, 1."

2 V. la corrispondenza di Bruto con Cicerone nel lib. XI delle Epist. ad fami' liares, e specialmente la lettera tredicesima.

PARIE I. LE MURA ROMANE D'ALBA POMPEIA. 185

IL

Fra coloro che già parlarono delle antichità d'Alba Pompeia, ed accennarono, oltreché alle lapidi, ai pavimenti a musaico, ai condotti, ai frammenti marmorei di vario genere, alle monete, che si trovano nel sottosuolo l, nessuno (per quanto potei verificare) come testimo- nianze superstiti annoverò vestigia delle mura romane della citta. Teoricamente le supposero bensì, e si comprende; taluno anzi diede loro un'antichità chimerica; qualcuno ne fece vere ipotiposi come se proprio vedesse Pompeo Magno a fabbricarle 2 ; nessuno mostrò di conoscere in qualche avanzo reale una rispondenza concreta alla sua visione : generalmente v'è a sospettare che alla buona attribuissero a Pompeo i resti delle mura medievali o fors' anco le povere ricostru- zioni degli ultimi secoli.

1 Per citare uno dei primi in ordine cronologico, noterò che il vescovo Paolo Brizio , buon dicitore di cose vedute quanto entusiastico accoglitore delle più spropositate fandonie , nel suo abborracciato opuscolo <t Albae Pompeiae succincta descriptio » (Aug. Taur. MDCLXI), pag. 7, ha già questa notizia : « Considerabilis est etiam triplicata paviinentorum ordinatio Albae subterraneae, quae frequenter invenitur a civibus in fuudamentis Ecclesiarnin et doinorum, tam lapiduru et ruar- inoruin quam bituniinum diversorum colorimi».

Questo accade veramente tuttodì.

2 Comunemente la fondazione o una restaurazione della città s'attribuisce al Magno senza forse saperne una ragione: probabilmente per la maggior magnitudine del personaggio. Xon mancò chi risalisse a Scipione Africano, associandolo però con lo stesso Pompeo Magno in un'iscrizione, che fu già rigettata da parecchi dei nostri antenati.

Come saggio, dirò così, della mitologia del soggetto non mi pare inopportuno riferir qui testualmente anche nella sua grafia non sempre ortodossa quest' altro passo della ricordata operetta del Brizio , più citata forse che conosciuta , come accade di questi vecchi libri dove ha larga parte la borra delle favole senza cri- tica; oltreché pel caso nostro può talvolta aver pure il suo utile reale il risalire a questi antichi, che poterono veder la città immune ancora dalle vicende sempre più distruggitrici degli ultimi secoli :

« Alba ergo a Iani genia , primis Italiae habitatoribus, condita , a Liguribus Phaetuntis iìliis alimentis, custodibus et populis aucta, ab Aegiptiis temporibus Abrahae et Saulis ac Davidis cultoribus. sacrificiis et idolis munita, a Senonibus sub Brenno duce Gallorum insiguibus ornata , a Troianis et Latinorum Kegihus munitionibus, armis et praesidiis provisa, a Carthaginensibus amicis sub Annibale, ruartis furore et Taurinorum destructore, commendata, a Roman is tandem Consu- libus expuguata et a Pompeo Magno, Strabonis filio, mitris et propugnaculis fortiter cincta , in tantam potentiam et existirnationem Keipublicae extitit contra omnes Aquilouarium nationum ictus , ut Pompeius Magnus Albani Pompeiani a suo nomiue

184 V. EUSEBIO. t»ARTE t.

Un solo quasi ignoto e più che modesto scrittore mostra d'aver osservato in qualche pezzo delle mura certe caratteristiche di costru- zione, che rispondono ad alcune di quelle che fra poco descriveremo. Fra i manoscritti raccolti nella Biblioteca civica d'Alba uno ne osservai, se originale o copia non potrei dire (segnatura II, V, 7), intitolato : « Notizie della Città d'Alba ricavate dal signor Nodaro Domenico San- soldo di Levaldigi, Segretaro dell'Intendenza nell'anno 1760 ». Le no- tizie sono d'indole statistica, demografica, economica, ecc., ma le pre- cede un po' di preambolo storico, dal quale riproduco nella sua forma un tantino sgrammaticata questo passo :

« Li monumenti da quali si desume la sua antichità sono : 1.° Le antichissime mura da cui trovasi circondata, quali in parte sono state ro- vinate dal detto fiume Tanaro, e dal vedersi (sic) molte d'esse costrutte di solo bittume composto di picciolissime pietre impastate con calce ed altri ingredienti d'una sodezza tale che arte non può distruggerle salvo col ridurle in ben minuti frantumi o con mine rovesciarle così intere sul suolo. 2.° Da dodeci torri di considerabile altezza, ecc. ».

Fatta riserva per ora sull'estrema piccolezza delle pietre dell'im- pasto, la descrizione presenta particolari che, come dissi, dovremo noi

denoruinaverit et coloniam Romauornm sub rege Cottio, Alpium et Italorum Mar- cinone ac Tatirinorum domino, coinmeudaverit, et Iulius Caesar Augustns au. ante Cristum natimi 34 privilegiis et civitate Romana cum proprio Magistrata perpetuo decoraverit» (pag. 3).

A pag. 11 viene una larga ripresa del discorso , da cui pel soggetto nostro estraggo queste linee:

« Confluentibus igitur inquiliuis mixtisqne cum Liguribus Dardaniae populis, in elegantiorem formam Alba excrevit, iamque non exulum niapalia, uon profugo- rum domicilia, sed perfectae Urbis species referebatur, quae vallo primum et aggere ex terra congesto munita, mox digna visa est quam Pompeius compescendis Barba- rorum incursibus accommodatam iudicaret , validissimorumque moenium ambitu, cir- cumvallaret, unde et Albae Pompeiae cognomen accepit ».

Che questa chiara veduta di magnifica cinta urbana non fosse allo scrit- tore suggerita od appoggiata da alcun materiale avanzo ch'egli avesse riconosciuto nella città del suo tempo s'argomenta dali'affermare eh' egli fa altrove [SerapMca 8ubalpinae D. Thomae provinciae monumenta. Taurini, MDCXXXXVII, pag. 182): « Afurorum ambitus , olim longe amplior quam nunc cernitur , proximos etiam colles occupabat » ; donde appare eh' egli errava lontano dietro fantasie iperboleggiatiti senza nulla sospettare nelle vere mura che aveva sott'ocebi

Non è alieno dal luogo l'accennare come nella grande aula consigliare del Pa- lazzo municipale un quadro di non cattiva mano, che fa da sovrapporta all'ingresso dell' Archivio , rappresenti Pompeo che sta dirigendo l'edificazione della città e specialmente la costruzione delle mura , dietro le quali già spiccano giganteschi torrioni, palazzi, ecc.

parte i. Le mura rodane d'alba pompeia. 185

stessi ripetere, e la frase «molte d'esse», benché non troppo feliee, sembra faccia intendere che l'osservatore scorgeva diversità fra tratti più antichi e ricostruzioni posteriori. Ad ogni modo l'associar tosto, com'egli fa, nella stessa dimostrazione le dodici torri medievali lascia facilmente credere ch'egli non vedesse in quei resti di mura la spe- ciale pertinenza alla romanità, ma tutto confondesse in una sola vaga antichità, la (piale contenesse le origini tanto di quelle mura quanto di quelle torri l.

III.

Comunque sia del passato , fatto é che al tempo nostro parlare delle mura romane di questa città non era che proporre una ragio- nevole ipotesi. Dovevano esserci state, ma la città traverso invasioni Langobardiche e Saraceniche, lotte comunali, guerre di signorie indi- gene e straniere aveva subito tante, spesso sistematiche, distruzioni, da non esser meraviglia se nessuna traccia più sorvivesse di quanto aveva formato l'Alba romana \

Qualche anno fa, quando mi accinsi a preparare, se non un Mu- seo , un ricettacolo di salvamento per le reliquie storiche del mio paese, e perciò ad esplorare in generale quanto ancor rimanesse nella città che potesse ricordare i suoi secoli più antichi, mi diede all'oc- chio un rudere sporgente irregolarmente dal muro esterno delle vec-

1 Non si fa torto al buou notaio pensando che quel elisegli aveva osservato fosse pure al suo tempo osservato da altri anche forse più intendenti di lui: dalla forma del suo discorso pare anzi ch'egli alleghi cosa notoria. Ora egli era a un dipresso contemporaneo del Vernazza, che , nato nei 17-15, nel 1760 con precoce intelligenza ed applicazione già s'occupava dell'antica storia della sua città. Sa- rebbe più che naturale che in qualche punto a me sfuggito delle sue opere (ri- maste in gran parte manoscritte e sparse in biblioteche diverse) vi fosse accenno, sia pur fuggitivo, ad avanzi da lui riconosciuti delle mura d'Alba Pompeia.

2 Poiché ci è occorso di citare il Brizio nella facondia de' suoi sogni, lasciamolo ancora parlare quando efficacemente riassume fatti veri : « Unns tot decora abo- lere potuit Martis furor, quem adeo saevuni experta est. ut liane crebrius quaru ceteras Italiae urbes obsideri, oppugnali, capi, diripi. dirai, instaurari contigerit: et, ne excidiis, quae sub barbaris olim nationibus passa est, recensendis iminore- mur , tertiam eius expugnationem oppugnante Sabaudo vix tria uostrae aetatis lustra conspexerunt ». L'ultima ardita allusione spetta ai tre assalti dati da Carlo Emanuele I negli anni 1613, 1617, 1628.

Ma anche nei secoli seguenti si sa che non cessarono le cagioni di rovine vio- lente o meditate. E dalle stesse parole del Sausoldo, che scriveva 130 anni dopo l'annessione a Casa Savoia, s'argomenta lavoro di mine e di pazienti demolizioni avvenute, pare, sotto i suoi occhi.

186

F. EUSEBIO.

PARTE I.

chic scuderie del Palazzo episcopale, rudere di costruzione affatto di- versa da quella del muro, il quale era stato impiantato trasversalmente sopr'esso , rispettando e prendendo anzi negli utili quel che troppo avrebbe costato radere al suolo.

iC

Presento nella figura 29 una pianta topografica dell*odierna città, dove all'estremità nord del Palazzo vescovile (verso piazza CherascaJ

Parte t.

LE MURA ROMANE IV ALBA POMPEIA.

18?

il lettore ravviserà alla meglio la posizione del rudere suddetto. La fig. 30 rappresenta fotograficamente il rudere medesimo '.

Fig. 30.

In quel rudere io riconobbi da' due lati i grossi mattoni del ge- nere elie Plinio chiama lydion (cm. 45x30, cioè sesquipedali in lun- ghezza, pedali in larghezza), i quali formavano rivestimento a un ri- pieno fortissimo di ciottoli e ealee attraversato ad intervalli di circa cm. 00 (due piedi romani) da doppio strato di simili mattoni , che legavano l'insieme in ufficio di diatoni. Era V emplecton greco-romano. Di sotto appariva, messo allo scoperto da vecchi sterri, buon tratto del fondamento in puro calcestruzzo simile a quello della fartura. Lo spessore al livello immediatamente superiore al fondamento era di in. 2,40, pari ad otto piedi romani. Di in su, alle distanze sud- dette di circa sessanta centimetri notavausi lievi riseghe, che da sette diminuivano lino a due centimetri di larghezza.

1 Questa fotografia e quelle dei miai. 32 , 33 e 38 soli dovute alla genti- lezza del Conte Raffaele Seruagiotto, Prof, nella R. Scuola enotecnica alhese , il quale pazieutemcnte coadiuva questi miei lavori coi migliori mezzi di quell'arte, oramai utile agli scienziati, nella quale è maestro.

Ig8 fc. EUSEBIO. fcARTE 1.

Osservata, oltre la posizione in vero punto periferico della città, anche la direzione ben rispondente a quella d'un tratto ancora super- stite , a breve distanza verso mezzanotte , della cinta creduta pura- mente medievale o posteriore , considerai quel rudere come reliquia indubitabile delle mura romane della città. Siccome avremo occasione di rimenzionarlo spesso, per brevità di discorso lo designeremo con E. Così lo trova il lettore indicato nella citata pianta della città.

Dopo la scoperta, dirò così, di quel bandolo, fatte le opportune indagini, venni a sapere che tutto un viale percorrente in lunghezza il giardino vescovile in direzione analoga a quella di E verso mezzodì (piegando alquanto verso ovest) ha per sustrato un grossissimo muro di struttura simigliante alla suddetta. Esso continua poi sotto il suolo dell'attiguo giardino del Seminario, dove per abbassarlo quando ancora emergeva si dovette ricorrere alle mine. Indi percorre visibile sotto forma d' aggere o rialto allungato il successivo giardino del Eitiro della Provvidenza.

Non sarebbe neppur d'uopo di verificazioni a mezzo di scavi per concludere che s'abbia coperto un altro lungo tratto, rappresentato almeno dalle fondamenta , delle mura romane. Posso aggiungere a buon conto che 1' intero atrio del Palazzo episcopale è pavimentato di mattoni romani del genere sopraccennato, frutto certamente della demolizione dell'antica cinta urbana, sulla quale e traverso la quale il Palazzo fu edificato. Nel tratto che dissi spianato nel giardino del Se- minario si trovarono i mattoni romani di legamento. Uguali mattoni ri- conobbi in una scaletta del giardino del Ritiro, vicina n\Y aggere sud- detto: e uguali del resto in iscale d'altre case che continuano l'abitato periferico in direzione di sud-ovest e ponente. Nei cortili e giardini di queste si possono seguitare, ancora più o meno elevati sopra il suolo, i resti delle mura d'età relativamente vicine, le quali dovettero rico- struirsi sulle radici della cinta romana, di cui quei mattoni sono, per così dire, mantissa.

La lunghezza complessiva di tutti questi tratti si può calcolare a circa mezzo chilometro. Nella pianta topografica (figura 29) la do punteggiata minutamente in nero più carico.

Se pei lati a sud e sud-ovest del rudere E la certezza è data da sicure informazioni già afforzate in ogni punto da materiali riscontri, liei lati che vanno nel verso opposto se n' acquista con 1' occhio la veduta diretta e patente.

Al nord della città campeggia ancora nel cielo un pezzo di quella cinta, che soffrì gli assalti di Carlo Emanuele. Dal basso della ripida scarpa 1' occhio non prevenuto nulla sospetta di varia costruzione,

PARTE I. LE MURA ROMANE INALBA POMPEIA. 189

tanto più che fino a certa altezza il muro è per lo più rivestito di rigogliosa vegetazione parassita. Dopoché lo scampolo 1! mi pose sul- l'avviso, m'arrampicai un giorno sino al piede di quel muro, e fra i rovi e le ortiche trovai che fino a un livello medio d' un metro e mezzo dal suolo era tutto ancora costruzione romana. Nella pianta topografica lo si vede tratteggiato in nero carico sotto la lettera P. Esso misura in lunghezza pressapoco 00 metri. Per ragione speciale, di cui si dirà fra poco, unisco pure di questa parte perimetrale della città un quadro planimetrico (fig. 31), nel quale una porzione di quel tratto di mura riappare sotto la stessa designazione.

La fig. 32 ne rappresenta la testa verso ponente, dov'è facilmente visibile il divario tra la zona inferiore coi caratteri dell' emplecton (spoglio quasi in tutto del rivestimento laterizio) e la sopracostru- zione posteriore.

Dopo un'interruzione di circa m. 33, dove il muro dovette, non sappiam quando perchè, esser demolito più radicalmente (cfr. ad es. più sopra nella memoria del Sansoldo : « quali in parte sono state rovinate dal detto filone Tanaro »), torna ad emergerne, sempre sulla stessa direzione e con gli stessi caratteri , un tratto di circa m. 20; ai quali se ne possono aggiungere altri 40 mascherati ora dalla nuova fabbrica dell'Ospedale Cottolengo. Li tutto si può considerare sotto F una linea d'un 160 metri.

Dalla parte di levante queste» medesimo tratte» s'incontra ad an- golo ottuso con un altro volgente a sud-est (segnato E nella nostra planimetria), al quale era finora, ed è ancora in parte, addossata allo esterno una mezzaluna famosa, che nel 1(517 Monferrini e Spaglinoli eressero a difesa contro forze riunite del Duca di Savoia e della Fran- cia i. Della pianta di questa mezzaluna è conservata una parte nel rilievo planimetrico. Il tratto misura pressapoco 2<S metri.

Diretta continuazione di E , astrazion fatta «la un breve taglio recentissimo , che pur si vede nel quadro , e «li cui parleremo , è il tratto C, il quale prosegue sulla stessa linea per circa m. 1 '.H>. diven- tando a un certo punto sostegno d'un muro «li casa particolare, e ter- minando poi (per mozzatura di tempi vicini) a distanza d' una sessan- tina di metri dal rudere E, nostro punt«> di partenza.

Per tutta quest'altra lunghezza «li 218 metri resta inteso che si verifica, or più in alto or più in basso, il già notato passaggio dalla

1 V. Relatione dell'impresa della città d'Alba Pompea , fatta dal serenissimo Si- gnor Duca di Savoia dalli vinti due di febraro sino alli sei di marzo 1617. Torino, appresso Luigi Pizzaniiglio stampatore ducale, MDCXVII.

190

V. EUSEBIO.

PARTE I.

costruzione romana alla moderna. Anche la linea K-f-0 è tratteggiata in nero denso nella pianta topografica*

PARTE I.

LE MURA. ROMANE D'ALBA ROMPEIA.

191

Fis. 32.

IV.

Fino a questi ultimi tempi il tratto E aveva esso pure servito d'appoggio a un muro di vecchia casa, clic, dalla famiglia dei Conti Doglio passata via via ad altri proprietari, fu tre anni fa acquistata con gli ampi terreni annessi dal Capitolo della Cattedrale, che vi so- stituì un vasto fabbricato ad uso di ricreatorio per la gioventù sotto titolo (V Oratorio di 8. Secondo.

Prima che la vecchia casa fosse abbattuta io avevo osservato che le sue scale ed alcuni pavimenti erano in tutto formati di mattoni romani del genere più volte menzionato: ed avevo facilmente suppo- sto ch'essi rappresentassero una sottrazione fatta per una o per altra

192 F. EUSEBIO. PAltTE I.

causa al tempo della fabbrica dal pezzo di unno romano , sii eui la casa veniva eretta. Smozzicamenti del resto seguirono a spilluzzico firn» agli ultimi tempi (come avvenne in tanti altri luoghi per monumenti di primaria importanza storica ed artistica). Persona che abitò a lungo in quella casa mi raccontava che ogni qual volta nella scala o in al- tre parti dell'edifìcio occorresse materiale per riparazioni, il proprie- tario vi provvedeva con un nuovo sgretolamento del bastione , che chiudeva da un lato il cortile.

Il simile va inteso una volta tanto per quasi tutti gli avanzi murarii dove l'occhio un po' pratico riconosca i caratteri della fartura romana senza il rivestimento in laterizio; e segnatamente nel caso nostro per tutti quelli che si trovano (per lo più sotterra, in cantine) sulla linea periferica della città, i quali rappresentano altrettanti tratti delle an- tiche mura spogliate dei grandi e bei mattoni che ne formavano le orthostatae, e che in parte sparirono in fondamenta delle nuove case, in parte si vedono tuttora qua e in pavimenti, soglie d'usci, scale, coperture di davanzali, cornicioni, ecc..

Altra materia d'osservazione m'aveva data la parte inferiore di quella casa, la qual parte, restando sotterranea da tre lati, dal quarto (verso mezzodì) faceva fronte sopra una strada incavata nel terreno e discendente verso una porta aperta nel muro di cinta, la quale dava adito al prato esteriore e al corso di circonvallazione.

Si componeva essa parte di due lunghi androni o gallerie , che all'interno si rivelavano fabbricate in tutto di pietre piatte alternate uniformemente di 00 in 00 centimetri, anche nella volta, con duplici strati dei soliti mattoni romani ad uso di legamento. Si noti nella misura delle suddette equidistanze la rispondenza, già osservata per le mura, alla dimensione di due piedi romani.

Si trattava dunque d'un edilìzio coetaneo del muro E , il quale anzi ne faceva parte integrante. Lo si vede rappresentato nel dise- gno planimetrico sotto le lettere A e E, dov' è fatta assoluta astra- zione dal nuovo fabbricato dell'Oratorio, nel quale l'antico resta ora incorporato e nascosto l.

L'intercapedine, o meglio intaccatura interna, che si vede segnata nel muro E, dev'essere opera di tempi posteriori, in cui probabilmente si trovò utile aprirvi un passaggio abbreviativo e forse segreto in

1 II rilievo planimetrico è dovuto alla squisita cortesia dell' impresario co- struttore, Sig. Luigi Gandolla, il quale in tutto ciò ch'era a lui possibile agevolò questo punto del mio studio. Il rilievo fu poi fotografato dal cortese amico Can.c0 Ferruccio Boella , a cui debbo pure le fotografìe dei nuui.1 34, 35, 36, 37.

parte i.

LE MURA ROMANE p'AUU POMREIA.

193

servizio della difesa della porta e della mezzaluna. L' angusto vano era infatti occupato da una scaletta, che metteva al piano superiore.

Se per un rispetto è da dolere che l'impianto del nuovo fabbri- cato abbia dovuto cagionare l'estirpamento d'una porzione del tratto C delle mura e uno stronco frontale ad una delle gallerie (A), se ne ebbe d'altro lato il compenso di poter più particolareggiatamente studiare la composizione tanto d'esse mura quanto dell'annesso ediflzio.

Nella lunghezza compresa sotto C la lettera D distingue un tratto del muro, a cui prima dei nuovi lavori era appoggiato all'interno un fabbricato secondario in servizio della vecchia casa: D e l)1 insieme se- gnano la porzione finora soppressa per fare spazio attorno al nuovo edilìzio , la quale risponde pressapoco a una lunghezza di m. 2G,30: Du altra porzione di m. 9,70 destinata alla stessa sorte e già sgom- brata anch'essa dalla scarpa in modo che mostra scoperto dall'imo il fondamento. È quella che giunsi in tempo a far fotografare , e eh' è rappresentata dalla figura 33. In tutto circa in. 3G.

Fig. 33.

11 fondamento è composto di ciottoloni del Tanaro e di tal tem- pra di calce che spesso la mina spacca la pietra, non la parte colle-

13

194

F. EUSEBIO,

PAUTE I.

gante. Dalla massa gettata alla rinfusa si distingue in fondo uno strato sistematico di ciottoloni maggiori, di grandezza uniforme.

Sopra tale calcestruzzo, che misura in altezza circa m. 1,20, po- sano a legamento due strati dei già descritti mattoni, formanti uno spessore di cm. 17 a un dipresso. Ne risulta per la base destinata a restare entro terra una profondità alPincirea di m. 1,37. La larghezza di questa base al punto del suddetto legamento, cioè lo spessore ini- ziale del muro , è , come in E, di m. 2,40, rispondenti ad otto jnedi romani.

La composizione del muro nella parte destinata ad emergere ri- sponde parimenti a quella che già occorse descrivere pel rudere E. Il suo tipo può ricostruirsi nel seguente abbozzo di sezione trasver- sale (%. 34),

-^p^^^^r^S^-'

Fig. 84.

PARTE I.

LE MURA ROMANE d'aLBA POMPEIA.

19t

Generalmente vi predomina il ciottolo piuttosto grosso, ma non vi mancano conglomerati «li ghiaia più minuta ; e si comprende che per vasta opera non si potesse fare nel vicino greto una scelta troppo rigorosa costantemente ugnale. Ciò può spiegare la piccio- lezza attribuita , come vedemmo , alle pietre dell' impasto dal notaio Sansoldo, il (piale potè imbattersi a veder la demolizione di qualche tratto, in cui gli antichi costruttori, sfiorato ormai il greto dei sassi di media grossezza, si fossero contentati della ghiaia minore.

Nel rudere 11, alto in tutto circa 4 metri, il rivestimento in mat- toni giunge ancora dal lato interno (a destra dello spettatore nella figura) alquanto di sopra della terza risega. Non si può sapere se di in su le riseghe uniformemente continuassero (benché paia proba- bile), né a quale altezza il muro completo giungesse; poiché in nessun punto esso conserva la sua integrità.

Lungo il tratto C (e analogamente lungo E, F, ecc.) di sopra alla linea, da cui il muro doveva a suo tempo sorgere in aperto, il suolo interno è ora elevato in modo da nascondere esso muro fino a un'al- tezza di m, 2?04 \

Fu

: In generale il piano della città romana si trova ora secondo diversi punti a profondità da ni. 2,30 a m. 3 e oltre.

196 F. EUSEBIO. PARTE I.

Presento nella figura 35 due esemplari dei mattoni ricavati dal tratto D-f-D1, i quali (come parecchi compagni) portano impressi a punta di dito prima della cottura, oltre un solito segno convenzionale presso Torlo d'un dei capi, due numeri (CLXX e CCXXVII) indicanti certa- mente quanti di simili mattoni avesse fatto o dovesse fare il servus figulus. Nessuno finora ne trovai con sigillo di fabbrica: posso però dire che un frammento di tegola proveniente dall'edilizio A-B reca bollo con

questa dicitura « P.Q.\2L( ) », la quale , benché monca in fine , si

vede rispondere a quella che già menzionammo come trovata in altri punti del sottosuolo: « P.Q. \iLERIEIS ». In altro frammento, andato

smarrito prima ch'io potessi vederlo, s'era letto « ETIVS» »; ora

in parecchi esemplari raccolti da più punti de' dintorni compare asso- ciato al nome dei Valerieis quello d' un MOGETIVS , probabilmente officinator o conduetor delle figMnae. Se ne può argomentare quasi con sicurezza che la costruzione dell'edilìzio e delle mura, a cui era connesso, risalga all'età arcaica, rappresentata dalla finale in eìs del nominativo plurale della seconda (V. sopra, pag. 180-81).

Y.

Sarà bene ora dir qualcosa in particolare dell' edilìzio A-B , di cui do la sezione trasversale nell'angolo sinistro del quadro planime- trico (tìg. 3 bis).

I vani interni delle due gallerie hanno una lunghezza di m. 25,20. I loro ingressi son fiancheggiati da stipiti dello spessore di m. 1,20. In larghezza non sono tra loro perfettamente uguali, misurando Vil- na (A) m. 3,60, 1' altra (B) m. 3,70. Delle due linee orizzontali, che nel disegno le attraversano, la superiore rappresenta l'antico suolo, dal quale sino al colmo dell' arco l'altezza era di circa m. 3,30. Si noti come queste cifre rappresentino sempre a un dipresso multipli del piede romano.

II terreno ora asportato sino alla profondità segnata dalla oriz- zontale inferiore, cioè fin quasi all'ima radice dei muri (altezza in. 1,40) diede una quantità infinita di cocci d'anfore, cadi, olle, ecc.; cosa del resto eh' è da ripetere pel terreno circostante, da cui vennero pure sei frammentini di lapidi romane fra loro diverse i.

Del modo con cui sono costrutti i muri di queste gallerie già toc-

1 Di questi, come di parecchi sigilli e grafiti dei vasi, dirò di proposito nel- l'annunciato mio studio sulla Epigrafia romana inedita d'Alba Pompeia,

PARTE I.

LE MURA ROMANE D'ALBA POMPEIA.

197

camino di sopra. Nessun rivestimento in laterizio; perciò non massa di ciottoli a rinfusa con calce , ma pietre piatte scelte e -con cura di-

Fig. 3(5.

sposte. Analoga tuttavia sempre la composizione e la distribuzione dei legamenti.

Nell'interno delle volte ap- parvero pure adoperati non pochi pezzi d'un conglome- rato calcare spugnoso di ge- nere stalattitico , dei quali presento due esemplari nella flg. 36.

11 ripieno di rinftanco e «li spianamento d' esse volte , (altezza m. 0,60) era di grosso e tortissimo calcestruzzo.

Questo piano era poi inte- ramente coperto anzitutto <l;i uno strato di tegoloni fra loro ben riuniti e cementati, di cui quasi nessuno potè levarsi intero. Ad uno dei loro frammenti spetta il bollo teste accennato.

A questa copertura ne suc- cedeva un' altra di mirabili quadroni hipedali (cui. (io per lato) , di cui offre un esem- pio la flg. 37. Son le bipedae di Palladio, che citeremo qui sotto.

198

E. EUSEBIO.

PARTE I.

Su tale strato era ancora disteso un battuto ben compatto di late- rizio pesto "e di calce, dello spessore di cni. 15. l.

Tutta questa serie di sovrapposizioni formava complessivamente sulla volta uno spessore di (piasi un metro.

Finalmente sopra il pavimentum testaceum gravavano ancora, non può dirsi se <(b antico o da tempo più vicino, m. 1,10 di terra, che nel disegno non sono più rappresentati.

Fig, 38.

La fig. 38 coglie l' edilizio in un momento in cui la parte ante- riore della galleria A era già abbattuta per far luogo ad una scala, e lasciava perciò in vista la sezione della volta; mentre la galleria B mostrava ancora nella fronte gli avanzi dell'intonaco, che l'aveva ma- scherata nell'età recente. Il monticello che le si scorge aderente a de- stra rappresenta il terrapieno della menzionata mezzaluna.

1 Cfr. Pallad., De re rustica I. 19,1 (ove parla della costruzione dell' horreum):

« providenduni strueturae diligentia ne rimis possit abrumpi. Soluin igitur

omne bipedis sternatur vel miuoribus laterculis, quos suffuso testaceo pavimento debe- mus imprimere ».

E più avanti (ivi , 40 , 2) , parlando della costruzione delle suspensurae:

« Super has pilas bipedae constituautur biuae in aitimi atque Jds superfundantur

testacea pavimenta; et tunc, si copia est, marinora collocentur »,

PARTE I. LE MURA ROMANE D'ALBA POMPEIA. 199

A che aveva servito quest'edilìzio ì

Per rispondere a tale quesito almeno con un' ipotesi credo con- venga tener conto della porta, che nel disegno planimetrico si vede segnata nell'intervallo fra E e 1). Questa porta, ora scomparsa per le ultime demolizioni, appariva aperta in breccia nella cinta urbana, e, originale o alterata nella forma, rappresentava forse quella per cui nel 10 17 fu fatta una felice sortita contro le milizie di Savoia e di Francia. La necessità di difendere questa porta e di proteggere ap- punto le sortite entra forse in gran parte a spiegare l'erezione della attigua mezzaluna , mentre le gallerie Ali col fabbricato allora so- prastante servivano, come si sa per certo, di deposito per munizioni e di sede per una parte della guarnigione preposta alla custodia del punto importante. Infatti l'insiem^dell'editizio si chiamò finora tradi- zionalmente Quartiere vecchio nel senso di caserma.

Mi sembra ovvio supporre che 1' edilìzio romano fosse destinato ad analogo ufficio; e se l'ampia porta del tempo odierno si mostrava, come dissi , tagliata in breccia nel muro antico in modo da potersi credere aperta in tempi posteriori, nulla toglie di pensare che al tempo della costruzione romana si lasciasse ivi benissimo una porta, ma di minori dimensioni (anche più congrue con lo scopo e con l'antica con- suetudine) -, dove opportunità posteriori, fors'anche già dei tempi in cui il tutto era diventato proprietà privata, avrebbero cagionato il gros- solano ampliamento per via di smozzicature laterali e superiori, nel quale naturalmente sarebbero scomparsi i profili della porticciuola primitiva. Nulla del resto di più consentaneo con la natura del sito che il credere qui eretto fin dall'inizio un posto di guardia per le mura ad un tempo di levante e di mezzanotte.

VI.

Chiuderò con dire che anche delle mura di nord-ovest e di po- nente ho già riconosciuti avanzi sotterranei, e clic dal tutt' insieme, come del resto basterebbero a dimostrare i tratti fin qui descritti, s'ar- guisce che il perimetro della città romana era già poligonale e con- forme a un dipresso a (niello «Iella città odierna. Non mi trattengo per ora su induzioni che si potrebbero fare da questa configurazione riguardo alla preesistenza dell'abitato indigeno (cfr. pag. ISO).

Di questo perimetro la parte da noi sbozzata alla meglio è la metà (piuttosto più. che meno), che si svolge a levante dell'asse me- diano «Iella città, rappresentato dalle vie Vittorio Emanuele II e Ver- nazza. La prima si chiamò lino agli ultimi tempi e continua a chia-

àOÓ E. EUSEBIO. tARfE t.

marsi popolarmente via principale o maestra ; 1' altra, prima di certi spostamenti nelle linee della fabbricazione avvenuti in età varie rela- tivamente vicine, appariva meglio die al presente mera continuazione di essa principale così da potersi entrambe considerare come un'unica via orientata da mezzogiorno a mezzanotte e terminante alle due porte, ora scomparse, ma delle quali rimangono ancora in uso i nomi tradi- zionali di Porta 8. Martino rispettivamente e Porta Tanaro, con la sola differenza che la seconda denominazione per un traslocamene del pas- saggio sul fiume s'è trasferita da meno forse d'un secolo verso nord- ovest, essendo ivi stato aperto nelle mura un nuovo sbocco rispon- dente al nuovo passaggio , agevolato dal 1847 in poi da magnifico ponte x. Nella pianta odierna risponde al nuovo sbocco Piazza Gari- haliti; ma nelle piante della città del seicento e del settecento, e an- cora in una d' alquanto posteriore all' età napoleonica , che pur già presenta il nuovo taglio nelle mura, le due porte sono regolarmente segnate alle due estremità di quell' unica via mediana , la quale in antico dovett'essere appunto la via principale AélYoppidum. L'odierna Porta 2 Cheranca (nei secoli passati Porta del Soccorso) deve rappresen- tarne ancora la porta orientale, destinata alle comunicazioni con l'agro Statiellate. Sulla porta occidentale, di cui ho cenni per ora dubbi, e che del resto poteva esser resa inutile dall'impetuoso fiume radente spesso le mura 3 , non oso nulla pronunziare senza maggiori frutti d'esplorazioni sotterranee.

i Alla stessa, porta del Taiiaro deve riferirsi il nome di Porta Mediolanensis , che trovo sopra una lapide del 1294 destinata indubbiamente a figurare sul suo frontone. La cosa si spiega benissimo con le molte relazioni che Alba medievale ebbe con Milano, da cui prese pai ecchi Podestà e Capitani, e alla cui Archidio- cesi apparteneva il suo Vescovato.

2 Qui pure il nome di Porta torna usualmente nella comune parlata, benché da tempo, tagliate anche qui le mura, vi sia sostituita una piazza aperta, sul cui lato meridionale sporge il rudere R.

3 Tale esso appar sempre nelle suddette piante topografiche, e tale si mante- neva ancora nella prima parte del secolo decimonono.

Genova e Alba,

Federico Eusebio.

URSEIUS FEROX.

Le notizie che le fonti ci porgono su questo giurista sono scar- sissime e tali che non permettono di stabilire con molta precisione ne l'età in cui visse, ne molto meno le vicende della sua vita.

Egli è conosciuto come autore di un'opera che costituì l'oggetto di un'altra opera giulianea, a cui V index Florentinm per titolo: « (ìiflMu ts66aQa Julianm ad JJrseium Feroeem ».

Quale sia stata l'indole di quest'ultima, la sola che i compilatori ebbero sott'occhio, dalla quale furono estratti i frammenti che si tro- vano nel Digesto, si può anche a prescindere dall'esame diretto di essi determinare dai risultati netti e precisi pòrti dal Kieeobono, che sottopose a profonda e acuta analisi l'altra opera analoga di Giu- liano dal titolo ftiftlia £| ad Minici uni l : si tratta di una rielabora- zione dell'opera di Urseio Feroce la quale, come si vedrà, costituiva una collezione di responsa di Sabino , Cassio e Proculo arricchita di notac , e di nuovi responsi appartenenti al fortunato autore del- Yordinatio cdicti.

Per determinare con sufficiente approssimazione l'età in cui Urseio visse, costituiscono un prezioso materiale le citazioni dei giureconsulti, che si trovano nei frammenti pervenutici dei filftlia xéóóaQa, e che senza dubbio, concordemente, sono attribuite al testo originale di Urseio: « libro X Urseius refert Sabinum respondisse » [Collatio 11', 7, 0] « Sabinus dicebat utile mini... » [fr. .">*.> I). XXIV, 3 Jul. lib. II ad Urs.] « negat furi deberi Sabinus » [fr. 14 I). XLV, .'> .Jul. lib. Ili ad Urs.] « et ita Proculum existimasse Urseius refert » [fr. 27 § 1 D. II , 2 ri- piano lib. XVIII ad Ed.] « Proculus respondit » [fr. 48 § 1, 1). XXIII, :\ .lui. lib. II ad Urs.] « Apud Feroeem Proculus ait » [fr. 11 § 2 I). XXXIX. :> Paul.

lib. XLII ad Ed.] « Caius Cassius respondit » [fr. 10 § 1 1). XVI, 1 Jul. lib. IV ad Urs.] « Cassius respondit » [fr. 104 § 1 I>. XXX, Jul. lib. I ad Urs.].

1 Nel BuUettino dell'istituto di diritto romano, voi. Vili p. 225-278 e voi. VIIJ j>. 169-296.

202 <*• BAVIERA. PARTE I.

Le forme di citazioni riferite lasciano assai verosimilmente cre- dere che Urseio sia stato contemporaneo di Sabino e che gli sia so- pravvisnto : così pure di Procnlo e di Cassio. Di modo che si possono fissare come termini estremi per la vita di Urseio il principato di Angusto fino all'incirca a Vespasiano (79 d. Cr.).

Qualcuno, ad es. il Ferrini [recensione al libro « Salvili» Julianus » (voi. 1,1886) di Buhl in Archivio Giuridico voi. 37 p. 331] e dubi- tativamente però— Krueger [Geschichte der Quellen ecc. p. 100], dalla citazione di Priscus nel fr. 21 I). XXXIX, 6 Jul. 1. 2 ad Urs. vor- rebbe desumere che 1' opera di Urseio sia stata scritta sotto Trajano, sia Nerazio o Giavoleno il giureconsulto cui il « Priscus » si riferi- rebbe. Però io credo che la congettura del Krueger, il quale attri- buirebbe la menzione di Prisco a Giuliano , sia da ammettere come più probabile, siccome panni possa ben rilevarsi dall'esame formale del frammento '.

Di quanti libri si componesse P opera di Urseio non è sicuro. Ulpiano nel libro XVII ad Edict. [Oollatio 12, 7, 9] dice che « libro X Urseius refert Sabinum respondisse ». Gli scrittori hanno emesso varie ipotesi per conciliare l'indicazione dell'Indice fiorentino, che parla di 4 libri di Giuliano ad Urseium, con la notizia dataci da Ulpiano. Si verifica per quest'opera qualche cosa di simile che per l'altra analoga di Giuliano ad Minicium , alla quale V Indice attribuisce (ìCfiXia $;, mentre lo stesso Ulpiano nel lib. XXXII ad Edictum [fr. 11 § 15 D. XIX, 1] riporta un'opinione giulianea inserita « libro decimo apud Minicium ». La maniera più semplice di risolvere la divergenza fu addebitare al copista un errore materiale : egli avrebbe scritto X per V. Così D. Gotofredo , Aloandro , Mommsen e Krueger, op. cit. p. 161 n. 120 : e tale correzione fu applicata senz' altro alle due citazioni ulpianee riferentesi alle due opere, senza però fermarsi a rilevare che,

1 II fr. dice : « Eum, qui, ut adiret hereditatem, pecuniali! accepisset, plerique, in quibus Priscus quoque, responderunt , mortis causa eum capere». Ora che il fr. stesse così nell'opera originale di Urseio non è ammissibile per chi ha sott'oc- chio la forma solitamente adoperata da Urseio nel riferire i « responsa » dei « iuris auctores ». Egli doveva enumerare per nome i varii giureconsulti rispondenti, dato il carattere suo di riferente e dell'opera di collezione « scolastica e quasi autentica », come dice il Ferrini (Storia delle Fonti, p. 68), dei responsi della scuola sabiniana. La forma collettiva « plerique responderunt » è piuttosto di Giuliano che , epito- mando il testo , agg-iivnse la citazione di « Priscus quoque » , per corroborare la decisione. Si tenga presente infatti che Giavoleno era il maestro di Giuliano, sic- come egli stesso dice (Dig. XL, 2, 5).

TJRSEItTS FEROX. 203

se per i libri £| ad Minicium si presentava logicamente probabile, per i ftifihu TB66UQU non lo era nella stessa misura. Infatti un quinto libro era possibile, e d'altra parte la citazione ulpianea si riferisce a un'opinione di Giuliano e quindi assai verisiniilmente alla sua elabo- razione e non all'opera originale di Minicio : nei libri a Urseio queste due circostanze, favorevoli alla correzione, mancano del tutto.

Altre ipotesi di soluzione della divergenza sono state proposte. Per ciò che si riferisce all' opera di Urseio è da rilevare quella del Buhl (op. cit. p. CI) e del Karlowa (Boem. Rechtsgeschichte I p. 693). Il Buhl, se si ammette la esattezza della lezione, da cui egli parte, crederebbe possibile il riferimento a un'opera di Urseio diversa da quella elaborata da Giuliano; ovvero che questi abbia epitomato un'o- pera più grande ricavandone un estratto in 4 libri, o che abbia in- terrotto il suo lavoro dopo avere annotato 4 libri. Quest'ultima ipo- tesi gli sembra più verosimile non ben convenendo a un vero estratto Yinscriptio « Julianus... ad Urseium » , che senza eccezione si ha in tutti i 42 frammenti dell'opera pervenutici.

Karlowa, scartando la possibilità che la citazione di Ulpiano si riferisse a una rielaborazione giulianea di un1 altra opera di Urseio, avanza l' ipotesi che Ulpiano, se pure non poteva più avere l'opera originale di Urseio, era però in grado di possedere altri antichi libri in cui se ne trovassero esatte citazioni. Tale congettura del Karlowa credo sia da accogliersi sopra tutte le altre, piuttosto che esercitare anche qui, come per l'opera di .Minicio, la comoda e tranquilla ars cre- sciendi preferita dal Riccobono, 1. e. p. 227. Non mi par»' poi proba- bile l'ipotesi del Premer (Jurisprud. antihadriana, li, 1901, p. 172) che dell'opera di Giuliano in più libri se ne sia fatta un'epitome in 4 libri, e precisamente quest' ultima sia pervenuta ai compilatori.

L' epoca in cui visse Urseio coincide con quella in cui sorsero e si svilupparono le due famosissime scuole dei Proculiani e dei Sabi- niani i. Hi olire quindi spontanea la questione di determinare a quale delle scuole assegnarlo. Cujacio 2, II. Pernice 3, Voigt 4, Kar-

1 Siili' ortografia della parola Proculiani e sai nome collettivo «lato alle due scuole , si cfr. il mio scritto negli « Studi di diritto ecc. pubblicati in onore di V. Scialoja», 1905, voi. II p. 709 e sgg.

2 Ad lib. Juliani ad Urs. praef. Opera omnia, voi. VI p. 473.

3 Miscellanea, p. 56.

4 Aelius n. Sabinussysteni, nelle Abhandlungen d. phil. hist. Class, der A. Stick. Geselhchaft d. Wissenschaften , voi. VII, 1*75 p. 352 (34 dell'estratto).

204 G, BAVIERA. PARTE I.

lowa ' ad es. lo dicono sabiniano , mentre lo credono proculiano Bulli 2 e Bremer 3. Certo non si possono negare a Urseio relazioni di appar- tenenza a una scuola. Io stesso, appena di volo, lo dissi sabiniano 4. Però tale affermazione va qui corretta determinando il contenuto della sua sàbinianità.

Gli argomenti che a prò dell'una o dell'altra soluzione si pongono avanti hanno un carattere estrinseco , che da solo non basta a ren- derli decisivi. Buhl ad es. (op. cit. p. 59) dal « Sabinus dicebat » del fi*. 59 XXIV, 3 lib. 2 ad Urs. desume uri rapporto personale tra Sabino e Urseio, e così con Proculo dal fr. 27 § 1 IX, 2 TJlp. lib. 18 ad Edict.r, ma più intimo col primo, di cui lo afferma scolaro. Karlowa (op. e. p. 695) e gli altri adducono il fatto che Urseio cita maggiormente Sabino e poi Cassio, più che Proculo , e che i Sabiniani Cassio 5 e Giuliano rivolsero la loro attenzione alla sua opera.

La vera soluzione su questo punto può solo esser data dopo l'in- tero esame dell'opera giulianea : esame che sarà minutamente esposto altrove, contentandomi qui di riferirne i soli risultati. I libri di Urseio contenevano una raccolta di responso,. Che cosa sia, tecnicamente par- lando, il responsum, dopo la concessione del ius respondendi introdotta da Augusto, è qui , credo , superfluo spiegare, dovendo presupporsi noto G. E parimenti è qui da sorvolare sullo stato della letteratura giuridica nell' epoca in cui Urseio scriveva. Basta rilevare come le raccolte dei responso, si facevano da- parte degli auditores dei singoli giureconsulti sin dall'epoca repubblicana e come tali collezioni data la natura giuridica assunta dal responsum con la concessione augustea divennero più utili e necessarie, e anche, nel medesimo tempo , più facili a farsi con il sorgere delle due scuole : anzi nelle scuole pre- sero una forma, direi, più sistematica. La scuola sabiniana ne ebbe due di grande importanza : quella di Minicio e questa di Urseio che il Ferrini (Storia delle fonti, cap. 68) giunge perfino a chiamare col Voigt la collezione scolastica e quasi autentica della statio di Sabino. Tale carattere della raccolta miniciana fu stupendamente rilevato e assodato dalle acute ricerche del Eiccobono nel suo scritto più volte

1 Itomische lìcchtigeschichle, I, p. 695.

2 Buhl, op. cit., p. 59.

3 Eechtalehrer u. Bvchtsschulen, p. 71.

4 Le due scuole dei giureconsulti romani, 1898, p. 31.

5 Se Cassio abbia fatto oggetto speciale dui suoi scritti 1' opera di Urseio è un punto che sarà trattato avanti.

6 Cfr, Krueger, Gcschichte dtr Quelkn ecc., p. 107 e sgg. e 132 sgg.

PARTE I. TJRSEIUS FEROX. 205

citato. La collezione di Urseio è del tutto identica nel contenuto. Vanno quindi .scartate le opinioni del Karlowa , che chiama il libro di Urseio « ein kasuistisches Werk, cine Responsen-oder Quastionen- sammlung » (op. cit. I, 694) e del Buhl, il quale afferma abbia una « deutliche Verwandtschaft mit der Quastionenlitteratur »(op. cit. p. 04) e del Krueger che distingue i responsi dalla trattazione di altri casi pratici (op. cit. p. 161).

Giammai Urseio figura come giureconsulto rispondente : a simi- glianza di Minicio egli è un semplice riferente. E se frammenti vi sono dove ciò prima facìe sembra smentito, 1' esame critico del contenuto di essi lo riafferma, dimostrandosi che ciò qualche volta è dovuto alla mano alteratrice del testo dei compilatori giustinianei *, che seguirono lo stesso sistema anche nell'opera giulianea ad Minicium. Cfr. Eicco- bono e gli esempi esaurienti da lui riportati.

Cosicché, premesso tutto ciò, è legittimo concludere che Feroce fu sabiniano , nel senso però che frequentò la statio di Sabino come auditor e fece da riferente dei responso, dei giureconsulti di questa scuola Sabino e Cassio. È da escludere quindi l'affermazione del Fer- rini, anche in via congetturale (recensione cit. p. 331), che « il giovane Urseio » avesse potuto dar responso e 1' altra del Krueger (op. cit. p. 1G0) che li avesse inclusi egli medesimo nella propria raccolta.

Il numero proporzionalmente notevole di responsi di Proculo nei libri di Giuliano ad Urseium ha fatto affermare senz'altro che Urseio

I Tale mia affermazione ha di bisogno del sussidio della prova. I fr. dove i verbi respondi e respondit, pnto, existimo sembra si riferiscano a Urseio , in realtà hanno per soggetto Giuliano:

fr. 32 XXVIII. 6 lib. I ad Urs. « quaesitnm est... respondi »

fr. 41 pr. XVIII, 1 lib. Ili ad Ùrs. « quaesitnm est... respondi t »

fr. 28 XIX, 1, lib. Ili ad Urs. « respondi »

fr. 48 XXIII, 3, lib. II ad Urs. « Quaesitnm est et responsum est »

fr. 37 XII, 6, lib. Ili ad Urs. « puto >

fr. 32 XVII, 1, lib. Ili ad Urs. « existimo »

fr. 104 pr. XXX « respondit ». Tali testi, ad es. il Krueger, op. cit. p. lt>0 n. Ilo", attribuirebbe, sebbene dubitativamente, a Urseio : e il respondit secondo lui sarebbe una sostituzione di respondi, dovuta a una falsa interpretazione di una abbreviazione.

II fr. 6 $ 12 X, 3 Ulp. lib. 19 ad Edict. dove si dice : « Urseius ait. cum in communi aediiìcio vicinus nuntiavit ne quid operis fierit , si unus ex sociis ex hac causa damnatus fuisset , posse eam poenam a socio prò parte servare. Julianus autem recte notat ecc. » . Al posto di Urseio doveva esservi il nome di un altro giureconsulto : e io credo che questo sia Cassio per ragioni che altrove ampia- mente esporrò.

206 G. BAVIERA. PARTE I.

abbia avuto lo scopo di raccogliere oltre a quelli di Sabino e Cassio anche gli altri responsi di Proculo, e che la sua opera originale sia una collezione dei responsi dei tre nominati iurte auctores.

Il concetto di appartenenza alla scuola sabiniana e il fatto di essere stato auditor in questa statio avrebbe dovuto render cauti nel venire a tale conclusione. Gli auditores di una scuola raccoglie- vano i responso, dei praeceptores della statio cui appartenevano e non potevano prefiggersi delle collezioni, dirò , miste. Quindi son di av- viso che un altro concetto bisogna portare sul fatto che molti re- sponsi di Proculo si trovano nei libri di Giuliano si noti bene ad Urseium.

Io non affermerò senz'altro che la spiegazione più naturale e logica sia di attribuirli a Giuliano che, rielaborando e annotando l'opera di Feroce, ve li incluse insieme coi suoi. Se ciò è possibile credere e dimo- strare per una serie di responsi di Proculo, non lo è per tutte le cita- zioni di questo giureconsulto che possono attribuirsi a Urseio. Ciò non toglie però valore alla probabilità della mia affermazione. Urseio aveva maniera di citare e riferire responsi di Proculo a proposito di altri di Sabino e Cassio, che sostenevano soluzioni diverse in altri responsi, e occasionalmente a questi. Xella statio sabiniana si discutevano le dottrine della « diversa scuola » e le decisioni , a volta differenti a quelle date dai « praeceptores » sabiniani. Urseio nel riferire i responsa di Sabino e Cassio citava, attraverso a essi e per occasione di essi, gli altri di Proculo : e così si trovavano nella sua opera. Giuliano li accrebbe di numero , dato lo scopo pratico che si prefiggeva con la sua rielaborazione. 1 compilatori poi, il pili delle volte epitomando, trasformando e modificando il testo originale, sia di Urseio clic di Giu- liano, fecero scomparire l'opera propria di ciascun giureconsulto, ren- dendo così difficile e impossibile a noi il smim cuique tribuere.

Da alcuni scrittori H. Pernice i , Karlowa 2, Pulii :5 e Landucci 4, l'opera di Urseio vien fatta commentare da Cassio argomentando dal fr. 1 § 10 XLIV, 5, Ulp. h. 76 ad Edict., dove si dice che « Cassius existimasse Urseium refert ». E riferiscono in appoggio altri esempi

1 Miscellanea, p. 57 sg.

8 Rom. Recht8ge8chichte, I, p. 694 e 695.

3 Salvius Julianus, p. 59 sg.

4 Storia del dir. romano, I, p. 198 e 200 ri. 4.

PARTE I. URSEIUS FEROX. 207

di citazioni simili l. Ma tale affermazione non può reggersi per di- versi gravi motivi. Cassio nel 36 d. C. era già console e sopravvisse di poco al suo maestro essendo morto sotto Vespasiano. Il « Gaius idem » del fr. 59 XXIV Jul. lib. 2 ad Urs. anzi potrebbe far cre- dere che Cassio fosse morto quando Urseio scriveva. E poi mal si sa- prebbe spiegare come Feroce abbia potuto includere nella sua raccolta responsi Cassiani, e come quelli di Cassio siano così scarsi.

La correzione del testo in « Cassius existimasse Urseium refert » è accolta dalla quasi unanimità degli scrittori : e cito per tutti Mommsen, Krueger e Lenel 2. E credo sia la migliore soluzione del dubbio. Però a patto che si attribuisca la corruzione del testo non a un errore del- l'emanuense, ma ai compilatori. Basta del resto esser pratici del me- todo spicciativo da essi seguito nell'attribuire le opinioni e nel rifare le citazioni per convincersene, quando non voglia tenersi presente nel caso nostro il testo del frammento, dove si riscontrano elementi formali della loro mano:

«Quodsi patronus libertino simili delega verit creditori, an adversus « creditorem, cui delegatus promisit libertatis causa onerandae, excep- « tione ista uti possit, videamus. Et Cassius existimasse Urseium refert, « creditorem quidem minime esse summovendum exceptione, quia suuiu recepit cet ».

L'ordine originari*» della materia nei libri di Urseio non poteva essere trasformato dalla rielaborazione giulianea. Escludo , seguendo in ciò il Riccobono che, come pei libri a Minicio, per questi a Urseio, Giuliano abbia rifuso il materiale che presentava il suo esemplare : egli avrà intercalato nei luoghi opportuni, senza che fosse variato il sistema originario, la trattazione dei punti di diritto aggiunti all'o- pera di Urseio.

Si è ritenuto che il sistema di Urseio fosse quello ilei libri iuris civilis di Sabino o di Cassio. Ma va escluso, dato il carattere di col- lezione di responsa, dove il sistema è dato dal materiale raccolto e raggruppato per materia.

Seguendo le ricostruzioni dei Lenel è probabile che l'ordine ori- ginario sia stato il seguente : Testamenti legati dote azioni

1 « Cassius apud Urseiaua scribit » fr. 10 $ 5 VII, 4 Ulp. lib. 17 ad Sab.: « Servius apud Melam scribit > fr. 3 $ 10 XXXIII , 9 Ulp. lib. 22 ad Sab. Ma l'uso dell' apud nel senso di in, specie nelle citazioni dei giureconsulti romani, è sicuro, e, può dirsi, ha prevalentemente tale significato tecnico.

2 Pandette Geschichte cit. p. 160 n. 119 Palingenesia, II, e. 1202.

208 G. BAVIERA. PARTE I.

familiae erciscundae e communi dividendo manomissioni de emp- tione et venditione de adquirendo rerum dominio de locatione et conduetione et bonae Mei contraetibus , de procuratoribus et defen- soribus et intercessoribus. Cfr. pure Krueger, op. cit. p. 100 e Bre- mer, op. cit. p. 174.

Palermo.

Giovanni Baviera.

ALEXANDRINI5CHE KLAGEFRAUEN.

Unter den aus Aegypten staninienden, hauptsachlich in Grabern des Fayùin und dcs Delta gefundenen griechisch-romischen Terrakot- ten diesen interessanten Produkten alexandrinischer Kleinkunst, die so ungemein lehrreich sind und dodi nodi so wenig Beachtung tìn- den kehrt haufig der Typus einer auf dem Boden hockenden Frau wieder, der bei alien Aendernngen in der Ausstattung mit (levateli, in Traelit und Schniuck immer dieselbe Haltung gegeben wird : das aufrechte Sitzen mit eingeschlagenen Beinen, und aneinander gesetz- ten oder gegen einander gekehrten Fuszsohlen und eine sehr eigen- tiimliche Bewegung mit den seitlieli emj>orgestreckten Vorderarmen.

Die gewolmlichste Auffassung ist naeli einein Exemplar der Samnilung des Malers Prof, von Lofftz in Miinchen in Abbildung I) wiedergegeben. 1 Ein ungegiirteter Rock bedeckt den Korper bis zu den Knieen , ein schleierartiges Gewandstiiek verliiillt Hals und Schultern. Dariiber wird ein dicker rundlicher Bliitenkranz siclitbar, der aneli ein Collier sein konnte, aber in anderen Terrakotten deutli- cher als Blumengewinde charakterisiert wird. Der Kopf zeigt volle, sinnliclie Gesichtsformen , das Haar ist sorgfaltig gewellt und ani Stirnrand in kleinen, gekrauselten Lòckchen gcordnet. Den Hinterkopf unigibt ein breiter Franz, jener Frauenselnnuck, der in alien niògli- chcn Spielformen bei den bekannten . « Aphroditefiguren » auftritt. Hande und Fiisze sind mit Spangen geschniiickt.

Vici reicher sind die naclisten Exemplare B und C ausgestattet: B ein Exemplar der Sammhmg Pelizaus in Cairo, C cine Tonfigur des alexandriniselien Museums. Beide zeigen cine starke Entbloszung des Korpers, das Gewand (liei B mit Franzcn ani unteren Band ver- selien) deckt Schosz und Oberselienkel, sodasz die l'nterbeine wieder siclttbar bleiben. Die letztere Figur sitzt auf cincin niedrigen Polster mit gemustertem LTeberzug. Ann-und Bcinspangen sind beibehalten.

1 Zwei iibnliche Figuren. iu welcheu nnr die Haartour veriindert und zwar vereinfacht ist, betìuden si eh in der aegyptischen Abtheilung des berli ner Mu- senms.

14

210 T. SCIIREIBER. PARTE I.

Der Halsschmuck besteht in B aus einer einfachen Perlenkette, wah- rend er in C aus einem Collier von runden und rechteckigen Agraffen gebildet wird. Ohrringe scheinen bei beiden Figuren augedeutet zu sein, ebenso liaben beide Exemplare einen sehr komplizierten Haar- putz, der die verkiinstelten Frisuren gefallsitchtiger Alexandrinerinnen naclizualimen scheint. Bei C wird unterwarts neben den Ohren und iiber dem Nacken der Best eines dicken Kranzes der eben besclirie- benen Art sichtbar. Was an Stelle dieses Kranzes bei B und bei der noch zu erwahnenden Figur A erscheint, ist aber kein Kranz, sondern eine Brweiterung der Frisur dnreli einen groszen den Hin- terkopf umgebenden Chignon. Andere Terrakotten init weiblichen (leu re figuren, deren es in dieser Denkmalergruppe grosze Massen gibt, lassen daruber keinen Zweifel.

Das vi erte Beispiel A befindet sich im aegyptisclien Museum zu Berlin, es ist das vollstandigste der ganzen Beihe. Hier sitzt die Frau auf einem Sofà der gewohnlichen alexandrinischen Forni { und hat vor sich ehi auf der Erde stehend gedachtes Beeken , welches auf einem tischartigen Untersatz aufliegt. Die Figur ist unterwarts wie C bekleidet, iiber den ganzen Leib, Brust und Schultern sind breite (luirlanden gezogen, sodasz vom Korper nichts sichtbar wird. Von dem ublichen Schmuck sind nur Hand-und Fuszringe, vielleicht noch ein einfaches Halsband, aber keine Ohrringe augedeutet, aneli ist das Haar hier schlichter behandelt.

Eine merkwiirdige Variante des Tyjnis, Figur F, fand ich vor Kurzem in der von Valdemar Schmidt zusammengebrachten, hoelist reichhaltigen Kollektion solcher griechiseh àgyptischer Terrakotten, die eine besondere Zierde der Jacobsen'schen Grlyptothek in Kopen- hagen bildet. Hier ist zu den schon angefiihrten Ziigen ein neues Attribut gekommen. Die ausgestreckten Bande halten kurze Stiibehen, an deren Ende sich Ideine runde Schallbleche betinden. Wenn wir annehmen, dasz je zwei solcher Metallscheiben in der Mitte durch- bolnt und in dieser Oeffnung mit einem, von dem gespaltenen Stabchen gehaltenen Stift aufgereiht waren, so bildete das Ganze ein Klapper- instrunient, welclies ein, dem Klirren des Sistruins ahnliches Geràuscb erzeugen muszte.

Endlich moge noch eine sechste Darstellung (G) aus der Uhi-

1 Hermann Thiersch, Zivei antike Grabanlagen bei Alexandria , p. 10 , irrt sich, wenn er annimmt, dasz das Sopha nur eine knrze Zeit Mode gewesen sei und nie weitere Verbreitung gewonuen habe. In Alexandrien ist es durch das ganze Altertum nie ausser Gebrauch gekommen, wie die Denkmiiler beweisen.

PARTE I. ALEXANDMN'ISCHE KLAGEFRATEX. 211

versitatssammlung in Leyden angefiihrt werden, welehe mit dei- vorher erwiilmten dniin iibereinstimnit, dass die Guirlande, welche bei A reilienweise uni den Leib gelegt ist , hier krenzweise Brust und Schultern umwindet. Wiederuin triti das Bestreben liervorjeder Figur in Schmuck und Gewandung, vor alleni in der Haartraclit moglickst individucllc Ziige zu geben.

Diesen Exemplaren reiht siili ein einzelnes Beispiel einer inann- liehen, in derselben Haltnng hockenden Figur in Sammlung Sckulz in Leipzig ' an, in welcher nainentlieb der Portratcbarakter des durch den starken Hals und die vollen (lesiclitsforinen auffallenden jugend- lielien Kopfes, die Kapuze und das eigentiimlieb auf der Brust geknotete kurze Hemd zu beacbten sind. Beide LTiiterarme nini Hande sind abgestoszen.

Was stellen diese Figuren vor ? Sind es Gotterbilder oder Gen- reflguren aus (leni Alltagsleben ? Und wenn das Letztere wahrscliein- lielier oder alleili moglieli ist, welclies ist der Vbrgang, der hier in so mannigfaltigen Fonnen geschildert wird und der bei der (Jebereins- tinimung der eigenartigen (leste und des Sitzmotives docb nur ein und dieselbe, von verschiedenen Personen vorgenommene Handlung sein kann ?

Teli Ande keinen Anhalt die Figuren ini Kreis des alexandri- niselien Pantlieons unterzubringen. Weder das Sofà, noeb der Portrat- eliarakter der Kiipfe wollen dazu passen. Das Emporhalten der ge- offneten Hande ist vieldeutig; es kann als Ausdruek der Adoration, a ber aneli als Aeuszerung der Trailer, als (leste des Selmierzes auf- gefaszt werden. Dasz die Arnie nielli lioeh erlioben und vorgestreokt sind. wie es beide Handlungen eigentlieb erforden wiirden, erklart sieb leielit und ungezwungen aus Griinden der Teebnik, da man bei alien diesen aus der Forni gedriiekten Figuren das Freistehen der (lliedniaszen mogliehst einsebrankt und Fliiebenbafligkeit der Bil- dung bevorzugt, uni die Flerstellung nieht zu erschweren und das Anstiieken von einzeln gefonnten Teilen zu venneiden.

Die riehtige Erklarung ergibt sieb aus zwei Merknialen, aus dein Raueherbeoken der Berliner Terra kotte A uwd aus der Entblóssung in den Figuren 15 und C.

Das grosze, vor dein Sofà in A sttBlcudc. auf cincin sieli verjiin- genden Tnlersatz rubende Beeken gleicnt in seiner destali ani meisten den aus romiseher Zeil staiiinienden Raueberaltiireben, die sieb in

1 YAn Tbeil der Sammluug Schultz ist als Gesehenk dem Knnstgewerbemu- seum zu Leipzig iiberwiesen worden, ein auderei- naeh Berlin gekommeu.

212 T. SCnRKIBKl?.

der groszen Katakombe von Kóm-esch-Schukàfa i und in anderen Grabern Alexandriens sehr hauti g innerhalb der loculi oder vor denselben gefunden haben. Zwei Beispiele sind in Figur II und I wiedergegeben. In dieselbe Epoche gehoren nacli Stil und Ausstattung die uns beschàffcigenden Terrakotten. Die Entblòssung der Ernst kann in Verbindung mit dem Jlocken anf dei* Erde und mit dem Ausstrecken der Hande nur als Zeichen der Trauer aufgefaszt werden. Es ist die altagyptische, in hellenistisch-romischer Zeit unverandert fortdauernde Totenklage, welclie in diesen Figuren versinnlicht wird. Wir finden sie ganz ahnlich in den Bildern des Totenbucb.es und an den Wànden von Grabern aus alien Epochen des alten und neuen Reichs so oft beweglich gesebildert. Dort selien wir die Frau des Toten zu Fiiszen seiner Mumie kauernd am Boden, mit nackter Brust, ini Ausbruch bittersten Schmerzes mit der ITand das Haupt schlagend 2. Wir selien die Klageweiber bei der Fahrt der Lei che iiber den Xil in ihrer Barke, stehend oder hockend mit nacktem Oberkorper, die Hande jammernd erheben und vorstreeken, die Stira schlagen und den Scheitel mit Staub bestreuen 3. Wie sich der Totenknlt in hellenistischer Zeit regelte, ist aus zahlreichen Papyri bekannt, die neuerdings Walter Otto 4 verarbeitet hat. Die Olioacliyten verselien als Totenpriester die Bewachung und Pflege der Graber, sic ubernehmen gegen Bezahlung die regelmaszige Darbringung der vorgeschriebenen Opfer und viel- leicht auch der Totenklage. Aber beide Pflichten rulien aneli anf den Angehorigen des Toten, und so erklaren sich die Unterschiede in der àuszeren Erscheinnng der dargestellten Individuen, der Wechsel der zum Teil auffallig reichen Frisuren , iiberliaupt der Portratcha- rakter der Kiipfe, der Wechsel in der Bekleidung, der die einfache Frau aus dem Volke (1)) von der mit Geschmeide iiberladenen Frau des lieichen (B, G) treniit, endlich ^ueh der Wechsel ini Geschlecht. Mann und Wcib, alt und Jung, arni und reich verrichten die rituelle

i Vergi, dariiber das demniichst erscheinende Werk: Die Nvkropole von Róm- esch-Schukufa untersucht von Theodor Schreiber , heraitsgegeben von Ernst Siegliu, Theil V, Kap. 17.

2 Vergleicbe z. 15. das Bild des Totenbuches ira Papyrus ni*. 9901 des britischen Museums bei Naville, Totenbuch I pi. I und II. Die Abbildung ist wiederbolt in Proceedings of the Society of biblical Archaeology XIV 1891/92, pi. 1, und 2.

3 Besonders deutlich sind die Handlungen nnd Bewegungen der Klagefrauen anf dem Bilde in dem Grabe des Neferhótp in Theben aus dem Ende der 18. Dynastie. Nach Wilkinson wiederbolt bei Erman, Aegypten, Tafel zu S. 432.

4 Walter Otto, Priester und Tempel ini hellenistischen Aegypten. Band I. Leipzig 1895, p. 98 $ 247.

PARTE I. ALEXANDIUXISCHE KLAGEFRAUEN. 213

Eìandlung der Totenklage niit den gleiehen Gesten, aber die einen hockeii auf dem bloszen Puszboden, die anderen sitzen auf dem un- tergelegten Teppich oder auf ciucili im Grab zuriickbleibenden Sofà. Die Berliner Figur verleiht der Scene nodi einen neuen Zug. Das Rauchopfer und die Totenklage finden hier, wic wir sehen, gleichzeitig statt, danach wild nodi cine dritte ETandlung folgen: die Bekrànzung der Grabstelle mit Guirlanden, welche die wenklagende Frau mitge- bracht hat und jetzt nodi auf ilirein Leibe triigt. Audi diese Darbrin- gung von Blumen entsprackt altagyptischer und hellenistischer Sitte. Wer vor der Leicbenlialle des arabischen Hospitals in Alexan- drien, einmal Gelegenbeit land zìi beobachten mit welcber Leidenschaft- lichkeit die Eingeborenen ilire Totenklage auszern, naelidein sie eben nodi bei Geschwàtz nini Lacben sicli ausgeruht hatten, der wird aneli begreifen dasz in der Stàrke des Seliinerzensansbruelies die Wirk- sanikeit desselben gesuebt wird, und so war es sicher sebon ini Al- tertum. Je lauter die Klage, welche ja nnr dazu diencn soli fcindliche Geister von dem Toten abzuschrecken, uni so gewisser ist die Iloff- nuiig, dasz scine Knlie nicht gestort werden wird. In solclicr Emp- tìndun<>- niuszte die Aufforderung liegen, den Sellali der Stiiiiine durcli liirinende Instruniente zn verstiirken, woran der Ae^yptcr ja sclion von Isisknlt, der Grieche von den baccliischen Festen ber gewobnt war. In einer nnserer Figurcn (F) wendet die Frau eines Cboacliyten bei der berufs-maszigen Totenklage ein Klappergerat an; es wird zìi ilirein selirillen (ìeselirei eine stiiiiiniingsvolle Begleitung abgeben und liir gestatten zeitweilig zu auszusetzen. Waren dodi dit*se Terrakotten selbst ein llilfsinittel fiir die Totenklage, ein Krsatz fiir den Dienst der Totenpriester, gleielisain Stelhertreter lebender Klagefrauen und daruni sind sie als wirksaine Scbiitzer der Grabesrube den Toten ibnen so bauflg in die letzte Wobnung mitgegeben worden.

Leipzig.

Theodor Schreiber.

D

Fiff. 42.

E

Fi£. 43.

F

Pig. U.

FRUSTULA TZETZIANA.

L' 'Ambrosiano C. 222 inf., V Urbinate 141 ed il Parigino gr. suppl. 655 differiscono nella redazione degli scolii (Tzetziani) al l'iuto di Ari- stofane (cfr. i miei Analecta Aristophanea , Torino , Loescher , 181)2, ]>. 108 sqq.). A valutare le differenze, che altrove sarà d'uopo met- tere ulteriormente in luce , valgano i commenti al v. 404 del Vìnto.

Neil' 'Urbinate al il. 88r si legge: ovx ètóg' rryovv ovx àXóycog t} [iccTcdag, ccXXà dinaicog. èniQQiqaatiy,ov yao ècnv àvtl tot) èreàg à% ccvtov 6vvr}Qi][i£vov. Molto più esteso e lo Tzetzes nella redazione Am- ine (siano-Parisina, dacché nell' Ambrosiano al ti. 50 v. e nel Parigino al n. 14r troviamo lo scolio in questa forma: i ovx èrbg «p' <cÒ£ è fi fjX&s^ [xal pdfrjv]' ovx èròg ècoa <^xccì \mxxv\v > òg èpe , xaì rtoòg èpe àTTix&g, ó JlXovtog ovx vjX&ev, sitai, òg cprjg, tvcpXóg èGxi xuì ov diccyiyvàóxei tovg àyud-ovg. r\ 'TtQÓg' TtoófteGig ènl è[iìl>v%(ov XéysTai, r\ de( eig' ènl àfv%cov . zaì rj roacpr] de tovtcj zuXXlóxcog ~ iQcopévi] q>rj6Cv «rjX&ev ò &copàg TtQÒg xòv Aovxàv.» xaì «elg trjv itòXiv dqapov6a» ò 2Jó(pQ(ov eXeyev. Artixol de xaì tr^v 'elg' xul STtl èp^v%a)V XccpfìdvovdL, xccì àvxV elg' 'é>g avvr\v' Xéyovóiv. « òg Mya- pepvovx. dlov ayov %e%ccor}ÓTcc vCxrj. » 3 xccì vvv 4 « cbg èpe », t) epe' àrnx&g. v,cà yao ò^viova rj ftaovvovGLV 5 r] %e^i6%cì<5iv tJ %qo%uqo%vvov6i , ' <5o(póg ' f óócpog' Xéyovreg , r paoóg' e pc)Qog% àXrj^^£g, ccXrj^^eg,. xaì TtQOJtaQo^vtovcc de pccxoàv èyovxu xr\v TtaaaXiryovGcLV itQ07CeQi67tGì6iv, ajóiteo Xéyovói c xq^naiov^ c TooTtaìov' .

1 Colloco fra parentesi quadre [ ] le parole che si trovano soltanto nell'am- brosiano, e fra parentesi ad angolo acuto < > le parole che si trovano soltanto nel Parigino.

2 Nell'Ambrosiano xcdXlcra.

3 H , 312. Lo Tzetzes segue la lezione di Q e di Ys ; cfr. Eomeri Carmina ree. Arth. Ludwich, Pars prior, Ilìas, voi. prius, p. 300.

4 Cioè nel v. 404 del Fiuto. ** Awbrobiauo ^ccQvvaaiv.

parte i. ercstula tzetziana. 217

*

Lasciando per ora in disparte le altre cose che si dovrebbero dire, dallo scolio Tzeziano lucreremmo un frammentino di Sofrone e Sofrone è citato più di una volta negli scolii Tzetziani non com- preso nella raccolta del Kaibel, Comicorum graecorum fragmenta, I, 1, p. 152 sqq., cioè

elg xàv %6Xiv òoag.ovGa.

La citazione, giunta per via molto indiretta Ano allo Tzetzes, si riferisce probabilmente ad un pCpog yvvaixelog.

IL

La verbosità Tzetziana è palese in troppi luoghi della redazione ambrosiano-parigina ; doveva averne una qualche coscienza anche l'au- tore se dichiara perfino di scrivere qualche nota al solo scopo di non lasciare spazio in bianco. Infatti nel ms. Parigino, al fi. 20r, dopo lo scolio al v. 833 del Fiuto si legge questa singolare dichiarazione : ovx lev db ov(òb) xuvxa vvv ■KUQtvèyoanjOV si [ir} ecóqcov ayoucpov xiv- dvvsvovxcc xòv yaqxriv àrtoXeicp%fivca dia grj dsió&ca xfjde %coqIov 6%oXCgìv. La dichiarazione fa sorridere, ma al tempo stesso contribuisce a mettere nella vera luce i rapporti fra V Ambrosiano ed il Parigino da una parte e l' Urbinate dall' altra ; che nella redazione urbinate degli scolii Tzetziani alla prima sezione del Pluto non potremmo at- tenderci siffatte parole dallo scoliaste , il quale a dirittura omette in- » tere serie di scolii, che si hanno invece néW Ambrosiano e nel Pari- gino, ed altri sistematicamente trascrive senza ([nella elaborazione, così caratteristica , che è propria dell'Ambrosiano appunto e del Pa- rigino. Ne vediamo una conferma per il v. SS del Pluto: anche «ini si può lucrare qualche cos;i.

Ambros. fi. 4<;i\ Paris, fi. .">,. è y co yào ò v g e i q a x i o v ' tlqo<5- coxoiei tòv niovrov Ttou^ixcog xccvxct Xéyovxu , òcpeCXav dxslv QTjxoQixcog' « si i]v (dad-ri6ig TIXovxcp , ovx elv xovg iQrfixovg

èxXlUZàvCÙV XQ06SQQVSX0 TtOVìj-

Qoìg ». Urbin. fi. Slv.

7tcog oh xvcfXoì xòv IIXovxov ò èvxav&a àxooiu taxi xùg ovv

Zsvg xoìg àyafroìg ; Ixì xov Xjjqov voovg,Ei>og tìg (cod. tòv) xqòjxov

Jiòg xcd sÌQuccogévììg 6 Zsvg aìxiov xid gàXXov fiovXó-

ab xìtv 0vv£xxixr(v òvvugw xov gsvog xovg àyc&ovg ev XQchxeiv,

218

C. O. ZURETTI.

èxvcpXcoós xbv IIXovxov. XeyofiEv ovv ori si ita<Si xolg àyad-o'ig ita- Qstxeto xb (coti, t&i) nXovxùvì itavTsg dv di' avrò [i£xir]óav xr\v àQ£xrjv' ovxog de (iovló^isvog ov dia tv XQrjóiiiov xaì èxmysXhg \i£- x levai xavxijv, àXXà di ' avxb xaXóv , èó& ' oxs xaì à?toxv%Cav XQrjlidxav pYo> dCdcoóiv, Tv' s- xaóxog I fl. 82r ècpisxai xijg dosx-fjg svjtÓQiqór} %Qrm,ccxcov (sic).

ttccvxòg diavotfóeig , xvcpXol xòv IIXovxov ov%ì (p&ovcòv xolg %qtj- óxoìg, iva [ir} xovxov | Paris, ti. 6r. [i£xd<5yoi£v, àXX' àg xotg xaxtóxoig aXXrj aXXcog ògcjvxsg xovxov (isra- Tirjòavxa xaì itóóa deivà èaya- £Ó{ievov , iióvoi xovxov èxxoenoiv- xo, <pQovxl£,oi£v de ccoexfig. xaì aXXcog. xvcpXòv xòv IIXovxov

7C01H 7C£Ql(f£QÓ^£VOV JtQOg UVO-

tìtovg xs xaì xaxovoyovg, x&v de iqypxcov ànoxQiyovxa, bxi xaxovo- yoi xaì vr}Xs£Ìg av&ocoTtoi ndvxa xqótcov xivovóiv , oxcog tcXovxov [iexd<5%0Lev , diafldXXovxeg , 6vxo- cpavxovvxeg, óxoefìXovvxeg, èxd^ov- xeg, xaì àjtXàg Jiàv eldog do&vxeg xaxóxìjxog oXoig òcp&aX^olg itoòg xbv IIXovxov à%o^Xiitov6i , xì\g àosxfig òs iisxiovói xb %-Eìov.xvcpXbv db xbv IIXovxov tcoieì, xovxéóxiv rj èvdoexog avxov [tàXXov ànoxvcpXol xaì d'eia cpoóvxi6ig èvooàv IIXovxg) èrtiiieXoviiévr] (Paris. ^isXXo^iévovg) dixaiov xaì àosxiig, xovxov de xa- xacpoovijxàg yivo^iévovg , mg ovx ào£xr\g, xaxiag òs Ttaoaixlov. o&sv xaì rHodxXeixog ò 'Ecpéóiog ttQ(ó[ievog ' Ecpeóloig, ovx h%£vy6- [i£vog,« /ìt) l'XiXi'Xoi v[iiv JtXov- xog », «(jp^, «'Ecpéóioi, ì'v' £%£-

Xéy%0l6&£ 7COVrjQ£vÓ^l£VOl ».

Mi astengo dal ridurre gli scolii a forma accettabile , contentan- domi per ora di ima piccola aggiunta a ciò che intorno ad Eraclito raccolse il Diels , prima in HeraTcleitos von Ephesos Griechiscli und Deutsch, Berlin, 1901 e poi in J>ic Fralmente der Vorsokratxker, Grie- chiseli und Dcutscli , Berlin , 1903 , p. 58 sqq. ; si confronti però a p. 82 il fr. 121.

KRUSTCLA TZETZIANA.

219

III,

L'argomento Tzetziano sii Cavalieri «li Aristofane , contenuto nel ti. 1 ()()i- dell'Ambrosiano 4, è notevole per l'ardore dello scoliaste bi- zantino nella difesa di (Jleone e contro Aristofane. Lo Tzetzes ci insiste ancora altre volte , e può essere non inopportuno vederne altri due saggi, uno dal l'iuto, l'altro dalle Nubi.

Ambro8. il. 49v., Paris. 12r. Pluf. v. '.V22. %alaeiv \jlbv v\iàg e 6 xiv KXécov éXcov KoQvcpdóiov, ITvXov xaì 2Jq>axTrjQLav , nncoxog aTtavxcov éyQaipe xolg Hftrpaioig ' « KXécov tfj fiovXf] xaì xco dtfucp %aioeiv ». xàx xovxov é&og èxod- xr]6e tcilg e%i6xoXcdg yoàcpeiv ' « ó Selva xco Selva (Paris, delvo) %aiQuv. » ó yovv àXixr\oiog ovxog j4Qi0TO(pavi]g xaì xovxo eig xa[ico- dtW xov KXécovog òuccjvqcov, xaì xov XoefivXov vvv ex xaXantcboov

Urbin. i\. <S(5V %aio e tv ii év ó Xoe^ivXog cbg %e- viód-elg ti] xv%ì] xaivoxéoav tcqo- GqyoQCav èxivoel' yào %aioeiv TtaXaióv èóxiv. xovxo de ò Jlio- vvóiog 2 vjiò KXécovog \iev tiqcó- xov Xéyei xexayfiai, yo.àcf ovxog òe avxov TiQÒg M&rjvaCovg , éXóvxog xovg èv ^(pa(xxrjQia) ' « ó KXécov 14&rjvaCotg xy (iovXfj xaì xco ò^uco %aioeiv. » avxò de cpr}6iv xelód-at Tieoixxóv , xaì neoi xì)v 6vvxaè,iv àóv6xaxov. xx e.

1 Vedi Anahcta Aristophanea , p. 112; in nota è riferita parte dello scolio Tzetziano alle IXubi, v. 549 (ti. 68r dell'Ambrosiano), che ripete le medesime cose con parole molto simili.

2 La notizia non si trova rjeyli scolii di R, ma negli scolii di V : ytyQaazai zliovvauo iiovófiifi/.oi' itsqÌ ccvtov (se. zov %aiQtiv). Lo Tzetzes, nella redazione Ambro- siano-Parigina, fa sua la notizia tacendo il nome di Dionisio, che altre volte era stato per lui occasione a confusioni. È noto infatti che egli spesso cita la triade Dionisio , Cratete ed Euclide , ed uno scolio ai giambi dello Tzetzes in Cramer, Anecd. Oxon. Ili, 347, 23 fa chiaramente comprendere che il Bizantino pensava si trattasse di Dionisio di Alicarnasso. Ma oltre al JiovvGiog ò ' Akixaovaooevg di questo scolio, citato dal Consbruck, ;u den Tractaten -xbqÌ xaucoSiag , in Conimeli' tationes in honorem (J. Stndeiuundi, Arger.torati MDCCCXCIX, p. 225, e dal Kaibel, die Prolegomena xeqÌ xaucoòiag, Berlin 1898 (Abhandlnngen d. K. Gesellschafc d. Wissenschaften zu Gottiugen, phil-histor. Klnsse, NF, B«ì . 2, Nro. 4), p. 5 esiste un'altra esplicita dichiarazioue dello stesso Tzetzes , precisamente nello scolio al v. 253 del Pluto , che nell'Ambrosiano (fi. 48v.) e nel Parigino (ti. 10') suona: %oqov [ibQog' ì) ò Kuquov d'BQaTCìov ov [léxQi %oqiqv ì,Gav ìaufiixoì Gziyjti tqÌiistqoi. èvrevdsv (Paris. ivravra^ Si tstquustqoi , ovg ol SiSa^avreg ttsqi xco ti (odiai ò éj- ' A\l ix<xqvu66o v re JiovvGiog EvxXs tS i]g te xaì ò K(>c'cT)ts àraxuiorixovg cpaatv, tyòy Si àvTi6-xa6xixov$ te xaì xaiavtxovg. La triade su rammentata compare anche in altri luoghi degli scolii Tzetziani.

220

C. O. ZCRETTI.

xcd oi^vQàg xvxVS £k Bvxvifi $tov li£xcat£60vxcc, Ttoiel xcd Xéyuv

* %CcCq£Iv' \L£XCiXQ£%OVXCt XCCL Xé-

yovxcc àvxì xov c xcìCqeiv' àóTtà- tl£6^^al, . (prjól yàg itQÒg xovg 6vv- dr]póxag xcd yEcooyovg noòg ccvxòv H£TCCX£llrtTOVg àcpLxopévovg « ò ccvÓQ£g drjpóxca, xb pbv rtooóccyo- Q£V£iv* %aÌQ£iv v^àg' tfdij naXaibv xcd 6ccttoóv . xcavoxopcò oh xàyco ti tolg QìjiiaOi vvv £Ìg £vxvyx\ (ilov

[l£XCC7t£6cóv. Xcd C06Jl£Q 7tOX£ KXé(X)V

TtoXinc) £vxv%rjxcog £yQcctl>£ f %ccC- Q£iv ' , ovxc3 xàyco xo ' %aiQ£iv ' jtccQ£lg, cog ijdrj TtccXcucofrév , àvxì xov f %aÌQ£iv ' r aó7tcc^o^iai ' Xéyco, oxc jtQO&v{icog •jtciQay£yóvux£ poi xcd 6vvx£xaypévcog xcd 6vyx£xqo- xqpévcog, cbó7t£Q£Ì xoòg Ttaouxa^iv, 7jV7tQ£7tl0p£VOl TtoXépov , àX% ov xuxufofiXaxmpévcog xcd xovcp£Qcog, 6%oXccCco fjcaqovvxag xcd (5oadvxccx<p (iaòCópciXi. ov yuo ftXàx£g xcd vtc£q- ótcxcu xcd XQVcpr]Xoì xàx xov 6yo- Xalcp fìuivuv ftaò pax i 6)]pvóxr]xec xcd oyxov xcd xvcpov èavxolg xa-

pi£V0V6lV.

6vvx £X ccy péveog ' óJtovdaCcog ned yooy&g \ ti. <S7r p£xà 6vyxooxr[- paxóg xivog xcd xà%£cùg. xo oh ov xux£fiXux£vp£vcog àvxì xov ov (ìqcc- décog xcd XQvcp£Qcog . ' /32à| ' yàq èóxiv ò paX&ccx£vóp£vog xcd xqv- cpqXòg èv vxoxqÌ6£i xo ócopcc, xcd c paX&ccxla ' ij /*£#' vfàooiplag bpiXla.

Per le Nubi, v. 581 e v. 589 mi limito al solo Ambrosiano.

Hfub. v. 581. Ambros. ti. 68v. è%&QG)g diax£ipsvcov àXXrjXoig A%r\- vaicov xcd Aaxcovcov , ó AXxió&évovg vìbg Arjpoód-évrjg xcd Nixlag ol 6xqaxrryoì Aax£8aipovicov %coQÌa itoXioQXOvvx£g IJvXov, Koovcpaóiov xcd Xcfiuxxr\qiav ', ovòhv ijvvxxov. KXéav ò' V7t£6%rj&r] MfrrjvaCoig, d cdo£&i] óvoccxrjyóg, dg xovxov xov it6X£pov £Ì6co xoiàxovxa i)p£Qcòv òovXaycoyrióca xf} Axxixfj Aàxcovug -roùg èv olg ìcfY\v yjaqioig olxovvxag , xcd tcòXiv èx£LVìjV 7i£7toQ&ì{X£vuL' o xcd 7i£7ioir}X£v ó yevvuióxuxog óxoarriyóg. ovxog (Aristofane) dvó[i£vcdvav xoiovxcp àvòqì Gy^òià'QH figovxàg y£yovévai xcd àóxQcaiàg xcd ósXtfvìjg àjioóxCaóiv (xccxà) xìjg CxQaxriyCag xov KXéavog, olovù òfj&£v xcd xm> 6xoi%£icov àyccvaxxovvtcov ènì xf] xovxov rig Gxou- xr\ylav 7tQÓxXr]6iv.

Xub. v. 589 7 Ambros. fi. C9r. 'Aoi6xog (jrjxcoo ùv ò iiiaqòxaxog

PARTE I. FRUSTULA TZETZIANA. 221

ovxog (Aristofane) xal nooxEivag on xóxt itoXXà 6r\\i£Ìa ysyove xal aitatola xal coótisq óxvd-Qcoitd^ovxa eXsyev xàyXeo6<5eo xeo Xóyep ' « ov %qy\ KXéeovcc (5xQaxi]ybv ysyovsvai », h'dsi oh x\\ ftooxdóei xal xi)v ànóòoOtv XQocìcpvà yeyovévea. xal xb rjxxrj&ftvai KXécova xal xaìg llftr\vcag al6yvvr\v ■XEQifìaXùv, yéyovE de %àv xovvavxiov ' dtdiòyg nrj TCcog avxeo àjtavxrjóoi véog ri TcaXaiòg àvì]Q Xéyeov « co cÌXixì'jqis (Aristofane), si ór^iela xavxa f]v xov xaxeog (iovXtvóaó^ca ' A\trtvaiovg xal eXéótrai 6xoaxr\ybv KXécova, cocptiXs KXéeov [lèv ijxxrjiTìtvai xaxeog 6xoaxr\yr\6ag, àxieila oh xal al<5yyvr\ yevéó&ai xfj ■zóXei, xf] xovxov GxQaxìjybv éXoLisvr}' » xovxo yovv xb àvxi- jthttov ó àXixrJQiog Xvsi àcp' laxoQiag xoidódf. xxL

Questi scolii spiegano il tono dell'argomento Tzetziano ai ('((ca- lieri e spiegano la presenza de' Cavalieri con scolii nell' Urbinate. Cer- tamente molto si dovrebbe dire su quanto precede; ma, rimandando ad altro luogo parecchi argomenti, richiamo alla mente le parole dello Tzetzes nelle epistole e nelle chiliadi, che ognuno può riscontrare.

IV

Xon voglio per ora ritornare sulla questione dell'Aldina e dei mss. aristofanei onde si valse il Musurus per la sua edizione, e noto qui una coincidenza dell'Aldina con uno scolio Tzetziano. (ìli scolii alle Xitbi, a proposito della parabasi, parlano di una legge, della cui esistenza si dubita, che avrebbe prescritta l'età di trenta anni per il poeta comico ; l'Aldina dice invece « trenta o quaranti anni », il quale ultimo numero si trova nello Tzetzes, il quale così si esprime {Ambros. ti. (>7v.) : vópog ftv Ad~ì]vaioig «») x eóejccoaxovxasx fj xiva yeyovóxa Lirjxe dixrjyoosìv iirjxs di]iiriyoosìv , àXXà ciijóh dgduaxa vTcavayiveocìxsiv èg ftéaxoov . xovxeo reo vòmico xal ó xco^iixbg ovxog sioyÓLiEvog tcqóxsqov dia xb lu) x £6 6 aoaxovx ovxijg èxi v7t<xQ%£iv , iccvxov xeov xcocico- dieov òodiiaxa dice <PiXcovidov xal KaXXióXQccxov , xeov vGxsqov olxeieov v7Coxqixcov , àvsyivcoóxsv elg xb ftéaxQOv . xal òfj 6vv òodciacìiv ixe'ocov xcoucodicov xal xovg zJaixaXsìg doàua èdiócc^s di' ccvxcov. èv co òoduaxi dvo elórjyccys iiEiodxia, 6eoefoov xal alóxQÓv, Xéyovxd riva' xcd xoXXotg xeov d-saxeov xovxo xb docqia èxr]véd-yj , l'vexa xov vorjuaxog xeov dvo xovxcov iiEiQaxlcov . ov lisvxoi èvi'xìjósv èv xovxeo ò xoi)txìjg, «XX' fjXXìfòr]. èmfiàg ah xov x so óuoaxovxasxovg sxovg, xal xovxo xb doc'aia xeov NecpeXcov di' iavxov diòdóxeov èv xeo d-sdxQcp, ce itaoà xeov xthìxcov ccìxh ccvxcp y£yovévai , ì\yovv xb vivifica , (f-rfil xobg avxovg, dice xov %ogov dìid'rjv xeov v£(f£Xcov , tcvxaìg cog oixdep ygéu£vog óxóuaxi , xal Xéyeov' co & e arai xxé.

222 C. O. ZURETTI. PARTE I.

Diceva lo Studemund 1, e son parecchi anni, che gli scolii Tzetziani aspettano tuttora il loro editore ; se sia il caso di pensare ad una loro edizione discuterò prossimamente in uno studio sulle relazioni degli scolii Tzetziani cogli altri scolii Aristofane}. Questi saggi intanto pos- sono destare più di una curiosità.

1 Anecdot. Far., I, p. 250. Palermo.

C. O. Zuretti.

HERBITA

Erbita è fra le tante città antiche della Sicilia, che non hanno trovato, finora, una identificazione sicura. Generalmente vien posta a Mcosia, oppure alla vicina Sperlinga; ina quest'opinione manca di qualsiasi fondamento , ove non si voglia considerare come tale una iscrizione greca non genuina , ivi esistente (Cavallari, Arch. Stor. >S7c, n. s, I, 1870 , ]). 307) , e falsata evidentemente allo scopo di dimo- strare l'esistenza di Erbita in quel posto (Kaibel faUae 4). Ad ogni modo è certo che la città non si trovava sul mare; ciò risulta tanto dal noto passo di Plinio , che la enumera fra le città dell' interno (XII. Ili 1)1), quanto dal silenzio di tutte le descrizioni abbastanza particolareggiate, che abbiamo delle coste dell'antica Sicilia. Pur non di meno il territorio della città doveva toccare il mare , perchè una nave di Erbita faceva parte della flotta allestita da Vene contro i pirati (Cic. Yerr. V 33, 86; 40, 11':'); 51, 133). Delle altre città che avevano dato navi per questa flotta (Cic. Yerr. V 33, 86) Tindari ed Eraclea si trovavano sul mare, Segesta, Apollonia (sia che si voglia situarla a Pollina o a S. Fratello) , Alunzio a poca distanza da esso; e se vi figura anche una quadrireme di Centuripa, dobbiamo infierire da ciò stesso, che il territorio di questa città, totiu.s HiciUue multo maxima et lociqrfetissima (Cic. Yerr. IV 'S.). 50), in quel tempo si esten- desse fino alla foce del fiume Simeto. Inoltre, da due fatti notissimi di Diodoro (XII 8, 2, XIV 16) risulta clic Erbita si trovasse a non molta distanza da Alesa e da Calacte. È chiaro da tutto ciò clic Er- bita va cercata nelle vicinanze dell'odierna distretta.

A questi indizi si aggiunge la testimonianza di un' altra fonte, della finale finora forse non si è tratto tutto quel profitto clic se ne potrebbe ricavare, dico la Cosmografia dell'Anonimo Ravennate , e la Geografia di Guidone, che ne dipende. Vi si legge, riguardo alla nostra città (Anon. p. 104, Guid. p. 4!>s Pinder et Parthey) :

Iterum (Guidone: porro) ex aliti parte iurta suj>ra scriptum etri- tatem Panurmon (Guid. Panormum) est cicitas quae (licitar Erbita (Guid. Herbita) Jlalistrata

224 G. BEI.OCH. PARTE I.

Prachara

Agurion (Guid. Augurion)

McHtratón

Enna. Tutti sanno che fonte del Ravennate fu un itinerario, dal quale egli trascrisse i nomi della città nel medesimo ordine in cui vi erano segnate. La serie di nomi , quindi , che abbiamo riportato , segna il corso di una strada romana. Ed è chiaro che questa strada doveva avere principio dalla costa; ma avendo l'autore già descritta la strada dal littorale, ha soppresso in questo punto il nome della città presso la quale la nostra strada si biforcava da quella. Ma questa città non può essere stata altra che Alesa, o, se si vuole, Calacte. Nel nome di Mali. sfrata, infatti, si nasconde, senza alcun dubbio, il nome antico di Mistretta, cioè Amestratos, oppure Mytistraton. Che Prachara non sia che una corruzione di Imachara, è stato riconosciuto già da tempo. Questa città , infatti , come è dimostrato dal ritrovamento del noto caduceo coli' iscrizione ' Ijia^agaCcov dccpóóiov a Rocca di Serlone alla confluenza del Fiume Salso e del Fiume di Cerami (Salinas , Ardi. Stor. Sic. n. s. Ili, 1878, p. 444), doveva trovarsi precisamente in queste parti, a nord di Agira in direzione verso Mistretta, e potrebbe identificarsi con Nicosia. In Mestraton poi sarebbe da ravvisarsi Myti- straton , oppure , se questa città si volesse collocare a Mistretta, Amestratos.

La strada che abbiamo rintracciata in questo modo colla scorta del Ravennate, corrisponde, come si vede, nel suo primo tratto esat- tamente a quella che congiunge , presentemente , Nicosia alla costa tirrena. Da Mcosia (Imacara) poi essa seguiva la valle del Fiume Salso fino ad Agyrion. Di là, volgendo verso occidente, proseguiva ad Enna, passando per Mytistraton (o Amestratos), che si dovrebbe cercare, per conseguenza, nelle vicinanze di Leonforte.

Erbita , adunque , era posta fra Mistretta ed il mare , cioè, ap- punto là dove doveva essere collocata in base alle indicazioni di Ci- cerone e Diodoro. Il suo porto si trovava a S. Stefano di Camastra o vicino; il sito preciso della città poi non potrebbe essere stabi- lito che per mezzo di ricerche da farsi in quei luoghi.

Giulio Beloch.

"CASTRIS»

COME DESIGNAZIONE DEL LUOGO D'ORIGINE.

È opinione generale che sotto la parola castri.? , come designa- zione del luogo <li origine di certi soldati , si debbano intendere le canabac nel significato di stabilimenti romani non formanti città presso i campi stativi, ove città non esistevano l. Così, ad esempio, nelle Com- mentationes philol. in honorem Th. Mommseni il Wilmanns: « Es miissen diese Lagerkinder vielmelir Soline der Soldaten selbst sein, oline Zweifel gezeugt mit den M&dchen des ani Lager liegenden Dorfes, in welchen...» Parimenti A. Scluilten , Pauly-Wissowa Real-Encyclopadie (canabae) si esprime nella maniera seguente : « Besonders interessant sind die C. als origo der Lagerkinder, d. li. der aus der illegitimen Elie eines Soldaten mit einer Peregrinen entsprossenen Kinder. Demi wenn die Soldatenkinder... ihre origo mit castris bezeiclinen, so geschieht das,

1 Solo da poco tempo sappiamo che esistevano delle canabae anche presso gli accampamenti stabili, ove esisteva lina città. Nel luogo ove esisteva la città ro- mana Viminacium (Kostolac nell' attuale Serbia) è stata rinvenuta l'iscrizione se- jruente, pubblicata la prima volta negli Jahreshefte des Ocsterr. archaol. Institutes, Bd. Ili Beiblatt, 117 u. 8.

[? Divus] Scpt(imius) Severm Pert(ivax) [Pius F]elix ArabQcus) Adiab[enicu8) [l'arth(icu8)] maximus et

[imp(eralor) Caes(ar) il.] Aur(elius) Antonimia Pius 5 [Felix Aii^gustns cana-

[bas? refee]erunt legioni) VII [Cl(audiae) A]ut(oninianae) p(iae) f(ideli.

Questo monumento , come si può rilevare dal soprannome Antoniniana della VII legione , dev' essere stato collocato intorno al 21o. Le canabae di cui qui è parola esistevano dunque a quest'epoca. Ma a qnel tempo Viminacium era già da lunga pezza una città, poiché essa divenne munì ci pi uni già sotto Adriano. In tal guisa noi abbiamo qui delle canabae presso l'accampamento di una legione, ove esiste una città (cfr. JahreshcJ'Le, 1. e).

1.1

226 N. VULIC. PARTE I.

vreil ihr faktischer Geburtsort, die C, weil nichtstadtisch , als Origo niclit verwendbar sind ».

Ma siffatta opinione non è sostenibile. Noi abbiamo un' iscrizione, proveniente da Viminacium, la quale depone contro di essa. Questa iscrizione è stata pubblicata negli Jahreshefte des Oesterr. archaol. Institiites, Ed. IV Beiblatt, 81 sgg., e comincia con le parole seguenti :

\pro salute imp(eratoris) Caes(aris)} L. Septimi Severi Pertin]a[ci8 Anglisti) Aràb(ici) Adiab(cnici) et M.] Aurel\i Antonini Caes(aris) veterani l]eg{ionis) VII Cl(audiae) 5 p(iaé) /{idelis) probati Prisco et Ap]olUnar(e) eo{n)s(ulibus) anno 169

missi Inonesta) missione) per J n{um) Pompeianum

leg(atum) Augusti) pr(ó)pr(aetore)] et [L\ael(ium) Maximum lcg(atum) leg(ionis) VII Cl(audiae) p(iae) /(idelis) Cle]ment(e)

et Prisco co(n)s(u1ibi(s) anno 195

Segue poi una lunga lista dei soldati congedati la quale in origine con- teneva circa 240 nomi.

Questi soldati, come si scorge, furono levati nell'anno 1<>(.>. Essi, cioè, nacquero e furono levati dopo che Viminacium aveva ricevuto il diritto di cittadinanza. Ma noi troviamo nella nostra lista un nu- mero di essi (sei), i quali designano il loro luogo d'origine colla pa- rola cast(ris). È evidente che qui i castra non possono esser le canabac nel senso di abitazioni presso accampamenti stabili ove mancano città, poiché Viminacium in quel tempo era appunto una di queste.

Su quel che riguarda P esatto significato di una tale indicazione del luogo d'origine, adesso non può più esister dubbio. Castri» significa soltanto che la persona , di cui è parola, è nata durante il servizio militare del padre; ma non è indicato con cib il luogo dove egli sia nato.

Belgrado.

Nicola Vulic.

SIKELIKA.

LA SICILIA E L'ODISSEA.

Xella seconda meta del V secolo avanti Cristo una larga parte «Ielle avventure di Ulisse, quali ci sono narrate nell'Odissea, si trova già localizzata sulle coste dell'angolo peloritano della Sicilia, e nei mari ad esso adiacenti. La Cariddi era posta nello Stretto di Mes- sina, le isole del gruppo di Lipari ricevevano anche il nome di Isole di Eolo , la regione dell' Etna era riguardata come la terra dei Ci- clopi, e non lontano, forse, era cercata la eosta dei Lestrigoni. La Thri- nakia, l'isola in cui pascevano gli armenti di Helios, era identificata colla Sicilia , la (piale sarebbe stata in origine chiamata Trinakria; onde si deve ammettere che già nel V secolo la voce omerica veniva interpretata come una modificazione poetica di quest' ultima. Tali identificazioni erano comuni ai greci della madre patria, e a quelli di Sicilia : e Tucidide , che ci di esse un quadro completo (VI 2, 1-2; III 88; IV 24, 5), non avrebbe avuto bisogno di toglierle da Antioco, di cui probabilmente si è servito di fonte.

Sventuratamente, quel che ci rimane della letteratura greca più antica non ci permette di proseguire le tracce di queste localizzazioni più del V secolo. Non sappiamo su quali basi Eratostene abbia fondata 1' affermazione che Esiodo sia stato per il primo a raccogliere l'opinione volgare, la quale localizzava i viaggi di ITisse sulle coste d'Italia ed in Sicilia. 1 versi della Teogonia i «piali pongono l'isola di Circe nel mar Tirreno, derivano, come ora generalmente si ammette, da un' interpolatore , ma è difficile provare che gli altri versi che il po- ligrafo alessandrino aveva in mente nel formulare il suo giudizio, fos- sero dovuti anch'essi ad una manipolazione posteriore dei componi- menti esiodei. La circostanza più notevole da rilevare è. in ogni caso, che Eratostene ammetteva resistenza di una colgaris opini» anteriore ad Esiodo.

Per quanto riguarda la geografia dell'Odissea, gli antichi erano divisi in due scuole, che a noi son rappresentate principalmente da Polibio e da Eratostene. La prima, quella degli stoici, professava il principio che Omero avesse descritto i viaggi di Clisse con cognizione dei paesi di occidente, salvo a fare una parte più o meno grande alla allegoria, ed una più o meno piccola alla possibilità dell'errore od

228 M. COLUMBA. PARTE I.

alle esigenze dell'ispirazione poetica. A capo della scuola opposta fu Eratostene, che negò alla poesia omerica ogni valore geografico, fuori della parte che si riferiva alla Grecia, e non vide in tutto il paesaggio dell'Odissea che una creazione della fantasia del poeta, giudicando inu- tile e vano ogni tentativo di trovar ad esso un corrispondente nel campo della realtà. Solo egli ammetteva che si potesse pensare che Omero immaginava i viaggi di Ulisse come avvenuti nei mari di occidente \

I termini della questione non si sono considerevolmente mutati dall'antichità ai nostri giorni. Prescindendo dal fatto che vi ha tuttavia chi cerca l'origine di certi miti omerici in fenomeni dello Stretto, (piale, ad esempio , la fata morgana che avrebbe data origine al concetto dell' isola natante di Eolo, una parte dei filologi trova che alcuni, almeno , dei paesi toccati da Ulisse appartengono alla realtà , salvo ad allontanarsi più. o meno dalle antiche identificazioni. Così, per il Wilamowitz-Mollendorff la Thrinakia omerica sarebbe il Peloponneso: ivi la parte delfica dell' inno omerico ad Apollo ricorda gli armenti di Helios, pascolanti presso il Tenaro, e nessun' altra isola avrebbe po- tuto aver dritto ad esser qualificata come tridentiforme più che l' i- sola di Pelope 2. Altri però relega i viaggi di Ulisse, oltre il Tenaro, nel regno della fantasia « dove governano leggi diverse da quelle della realtà quotidiana », consentendo al più con Eratostene che il poeta possa averli concepiti come avvenuti nei mari di occidente.

Io non vedo, in effetto, «piale distinzione si possa fare ragione- volmente tra i vari paesi toccati da Ulisse di dal Tanaro , e per- chè si debba credere che siano immaginarie Aiaie e Ogygia, e non lo siano la terra dei Ciclopi, quella dei Lestrigoni, Thrinakia e Cariddi. Si può ammettere, se si vuole, che nelle descrizioni del poeta ab- biano parte anche elementi reali , derivati da notizie portate da navi- gatori e da commercianti; ma questi elementi non sono facilmente ri- conoscibili , dopo 1' elaborazione che ne ha fatta il poeta. Chi può affermare che il concetto della Thrinakia o «Iella Cariddi sia venuto da notizie relative all'esistenza di un' isola a tre punte o di un vortice marino sia del Bosforo, sia dell'Euripo ì II nome Thrinakia è in realtà un qualificativo, come Ogygia e come Aiaie; nulla ci fa credere che esso sia stato una volta effettivamente in uso, «piale nome proprio di

1 Vedi Strab. I, 2, 20'; 23<-; 24c; 26e etc. Cfr. in generale su questo riguardo K. J. Neumann, Sirabos Urtheil iib. Uovi, in Hermes 1886, p. 134 sgg.

2 Hom. Vnterss. p. 168. Il Wilamowitz pone i Lotofagi in Africa, ed ivi pure i Ciclopi ; ibd. p. 164. [Cfr. pure la identificazione fatta dal prof. Dorpfeld uel suo articolo Thriuakia-Trinakria p. 105 sgg.].

229

una terra qualsiasi; sarebbe, si; mai, il nome con cui il poeta ha voluto indicare un'isola, designandola dalla sua forma, anziché dal vero nome. Noi dunque ci troviamo innanzi alla sola concezione poetica, e non possiamo scorgere se dietro ad essa ci sia o no una realtà. Altronde poi, il poeta medesimo non ha coscienza di questa realtà, più che non ne abbia dell'origine dei miti ch'egli tratta. Supponiamo che Thrinakia sia stata in effetto il Peloponneso: ebbene, noi dobbiamo credere che il poeta medesimo non lo sapesse, tanto più se si ammette che la vì]6og òyvyCij di g ITU era in origine la Thrinakia, prima di divenire F isola di Calipso. Lo stesso può dirsi di ( 'ariddi ; anzi , se il poeta sapeva almeno ciò che significava la parola Thrinakia, può dubitarsi che abbia avuto una visione altrettanto chiara della voce Charybdis. Giacché parrebbe clic colle parole a .'>04 XdQv^dig àvtcQQOifiÓEi il poeta abbia voluto spiegare a ed agli uditori l'etimologia della parola, da cui sorge la ragione del mito. (ìli elementi reali perciò, se in questa parte esistono, si sono staccati dal loro luogo di origine, e sono passati nel regno della fantasia, confondendosi con gli altri elementi immaginari, coi quali il popolo ed il poeta costruivano pezzo a pezzo il mondo ignoto visitato da Ulisse, senza sentire il bisogno di stabilire in quale dei quattro punti cardinali questo mondo dovesse esser collocato.

D'altra parte, la negazione di ogni realtà del paesaggio omerico è stata portata sino a supporre che anche i Hikeloi menzionati in v 383, ove uno dei proci a Telemaco il consiglio di buttar Ulisse e Teoclimeno in una nave e mandarli a vendere presso quel popolo, siano anch'essi una creazione della fantasia del poeta, e non abbiano alcun rapporto con i Siculi e la Sicilia della realtà. La ragione di tale affermazione sta in ciò. clic quest' isola sarebbe troppo lontana perchè si possa credere ammissibile il consiglio di andarvi a vendere un paio di schiavi. I Sikeloi sarebbero perciò un popolo che il poeta immaginava come esistente non lontano da Itaca, e poiché ivi nulla esiste da poter tentare un' identificazione , bisogna supporre che il poeta abbia giocato di fantasia '. Con ciò si viene ad escludere che un poeta possa, da poeta, aver immaginato un fatto o messo in bocca ai suoi personaggi un consiglio, senza avere innanzi valutata rigorosa- mente la probabilità dell'uno e dell'altro; e pur constatando le inesat- tezze che esistono nell'Odissea in riguardo alla situazione del gruppo insulare medesimo che torma il legno di Ulisse 2, si nega la possibilità

1 V., ad es., llahn, d. geogr. Kenntn. dir alt. griech. Epiìcer, Th. Ili (1885) p. 3.

2 In <p 345 sgg. esse suno manifestamente indicate come adiacenti alla costa dell'Elide. Cfr. Hahn o. e. 2 Th. (ISSI) p. 13,

230 M. COLUMBA. PARTE I.

che il cantore omerico abbia avuto notizia dei Siculi, senza sapere con precisione a che distanza si trovino da Itaca. È la stessa critica per cui altri sosteneva che tutto quanto è detto nei poemi omerici . corrispondeva alla realtà. Se anche le ragioni di cotale affermazione fossero più solide, resterebbe contro di essa il fatte» strano ed inve- rosimile che il poeta abbia inventato di suo capo il nome di un po- polo, che non è spiegabile con nessuna ragione etimologica, e viceversa, pei* un caso meraviglioso, coincide con il nome di un popolo in realtà esistente, sia pure a qualche distanza da quello da lui immaginato. Così è che la negazione di cui ci occupiamo, ha trovati scarsi ade- renti, anche tra coloro che dalla parte di occidente limitano alle isole ioniche l'orizzonte geografico dell'Odissea \

Se non si può dubitare, perciò , che questo luogo dell'Odissea accenna ai Siculi , rimane a cercare come e quando siano sorte le altre identificazioni che troviamo già stabilite nel V secolo tra le varie località omeriche e questa isola.

Il greco che sentiva l'antica narrazione del ritorno d'Ulisse, po- teva seguire la nave dell'eroe sino al Maléa ed a Citerà , ma da quel punto egli era trasportato in paesi sconosciuti. Da quest'isola, o, se si vuole, dal paese dei Lotofagi, si perde ogni traccia della direzione seguita dalla nave di Ulisse; è impossibile determinare ove fossero il paese dei Ciclopi, dei Lestrigoni, l'isola di Circe 2. Il complesso della narrazione mostrava soltanto che l'eroe si era perduto di dal Malea, in un mare ignoto, sebbene altronde qualche accenno richiamasse al- l'oriente (/i 3-4), alla Propontide {% 108 etc.) ed all'Egeo (cfr. p. 438 sg.). Quando la Telemachia fu posta accanto ai viaggi di Ulisse, questi ri- masero di necessità limitati verso l'occidente, giacile i viaggi di Me- nelao, nel bacino orientale del Mediterraneo, si svolgevano su di un teatro lontano e diverso da quello dell'Itacense.

È superfluo, del resto, osservare che le identificazioni che troviamo già stabilite al V secolo non sono adattabili alla narrazione omerica.

1 Così, ad es. il Seeck, die Quellen der Odyssce p. 299; 320; 330.

2 Ulisse tenta di girare il Malea, ma è sviato all'altezza di Citerà dai venti di tramontana (t 80 sg.) ; indi è trasportato per nove giorni òloolg àvs^toi6iv (t 83); gli antichi, e cosi in buona parte i moderni , hanno inteso queste due ultime parole nel senso ch'esse designino sempre lo stesso vento di tramontana che ha impedito ad Ulisse di girare il Malea ; onde il paese dei Lotofagi è stato posto a sud (o a sud-ovest) sulle coste d'Africa. Le avventure di Ulisse presso i Lotofagi, i Ciclopi, nell'isola di Eolo e presso i Lestrigoni sou cucite fra di loro da uno stesso verso (t 105; 565; x 77 [cfr. i 62]), che nell'ultimo luogo è ampliato con un'indicazione

PARTE I. SIKELIKA. 231

Una volta identificata V isola di Eolo con una del gruppo di Lipari, Ulisse dovrebbe passare tra Scilla e Cariddi al momento in cui, scortato da Zefiro, muove alla volta di Itaca, o quando dal paese dei Ciclopi va all' isola Eolia , e da questa al paese dei Lestrigoni ; in- vece, egli passa per lo stretto pericoloso, quando dall' isola di Circe muove alla volta della Thrinakia, cioè quando nessuna ragione poteva obbligarlo, da qualunque parte egli venisse, a traversare lo Stretto di Messina per toccare la costa di Sicilia. La tradizione che poneva gli armenti di lielios presso Mylai sarebbe per tal rispetto assurda. Pari- menti, è inammissibile cbe Ulisse abbia dovuto navigare sei giorni e sei notti per giungere dalle Liparee alla costa orientale della Sicilia, tra l'Etna e Siracusa, ov'erano i Lestrigoni : giacché certo nessuno pensava che l'eroe vi fosse venuto da ponente, facendo il giro dell'isola. Ciò prova, io credo, che nella identificazione delle località omeriche non si teneva conto della direzione generale dei viaggi, o dall'itinerario dell'eroe, ma solo di elementi speciali , considerati nel loro più stretto nesso to- pografico. E uno di questi elementi, quello che forma, a mio parere, il punto di partenza delle altre identificazioni, è la Cariddi. Ne nel- l'Euripo Euboico, nel Bosforo, in altro punto dei mari noti ai greci, questi potevano trovare in natura un fenomeno più costante e più vicino alla grandiosità di quello descrittoci da Omero, che nello Stretto di Messina. Lo scoglio di Scilla non aveva nessuna caratteri- stica che lo rendesse altrettanto notevole : Scilla fu posta come conseguenza della localizzazione di Cariddi al punto più angusto dello Stretto di Messina i. Rimanevano a cercare le Planktai, che stanno immediatamente innanzi a Scilla e ('ariddi.

I pericoli per cui dovrà passare Ulisse , da Aiaie alla Thrinakia, son descritti nell'Odissea due volte : la prima nelle istruzioni che al- l'' eroe Circe (fi 36-141), la seconda nella narrazione medesima del viaggio (vv. 1GG-259). Ma il poeta non si ripete: nella prima parte Ulisse apprende ciò che non gli sarebbe stato possibile di percepire coi sensi: quel che può vedere o udire, vien riserbato alla seconda. Ulisse non riuscì a scorgere Scilla (u 292), avrebbe saputo com'era fatta, se non glielo avesse detto innanzi la dea. Le Planktai son nominate e descritte da quest'ultima (/a 59-72); ma nella narrazione del viaggio, viceversa, si vedono tanto meno, quanto più si guarda con attenzione il testo del poeta. Appena perduta di vista 1' isola delle Sirene . y.uxvóv xccl [léya xv[icc ìdov dice Ulisse y.aì Sovxov ccAOvda (202). Ecco le

1 Giustamente osserva Seneca, ep. 79, 1: Scyllam saxum esse et quidam non ter- ribile navigantibus ottime scio.

232 M. COLUMBA.

Planktai ! osservano i commentatori antichi al pari dei moderni l. E in effetto , o esse sono accennate qui , in questo solo verso , <> il poeta le ha dimenticate, nonostante che Circe le abbia descritte così a lungo. E si può con ragione dubitare che il poeta accenni alle Planktai. Ulisse incoraggia i suoi, e fa due raccomandazioni al timoniere : di dirigersi al largo dal xtaivóg e dal nv^ia, e di tener (rocchio lo scoglio per non investirlo (211) sgg.). Il y.a%vóg ed il v.v\ia sono perciò da una parte, lo scoglio dall' altra. Qual è questo scoglio Quello di Scilla, a quanto sembra; ed in vero , Ulisse dice immediatamente dopo (223) che egli tacque il nome di Scilla per non sgomentare la sua ciurma. Il xccjivóg, il %v{ia, il Òovxog son dunque dalla parte di Cariddi : infatti, quando questa vomitava, l'acqua ribolliva tutta (il xv(iu), e gii spruzzi giungevano alla sommità degli scogli (il xaTtvóg); quando poi riassorbiva, la rupe rimbombava spaventosamente tutt'intorno (il óovTtog); vv. 237 sgg. Le Planktai così svaniscono : la lezione óxojtélcov invece di 6xo- Tcélov che dopo il Wolf alcuni hanno adottata, non riuscirebbe neppur essa a farle trovare, e non è strano che ci sia chi interpreti questo luogo nel senso che Ulisse non sia passato dalle Planktai.

Tale interpretazione è altronde legata al valore che bisogna dare alle « due vie » di cui Circe fa menzione ad Ulisse. Dopo aver parlato delle Sirene, essa dichiara che non dirà stzsltcc duivszécog quale delle due vie (òjt7tot£Qì]... òòóg) questi dovrà percorrere : lo esorta a pensarci su; essa parlerà à^cpotsQadsv (57-58). Quindi descrive le Planktai, Scilla e Cariddi. Le due vie son quella delle Planktai da una parte, e quella di Seilla-Cariddi dall'altra '! così si potrebbe credere dall' tvftev [iév con cui comincia la descrizione delle Planktai; ma chi interpreta così, è altronde obbligato ad ammettere che il contrapposto è poco evidente al principio della descrizione di Scilla e Cariddi, v. 73. È coi versi 108-110 che Circe il consiglio che al primo momento aveva differito \ Ulisse passerà tra Scilla e Cariddi, ittter geminae confinici mortis : s'egli ap- pressa a Scilla, va incontro alla perdita di sei compagni; se piega dal lato di Cariddi , il disastro è inevitabile; neppur il dio del mare lo

1 Cfr. Schol. BQ. ix rfjg 6vyKQ0v6sag ned itccQccTQiipsag x&v TJX ce yv.r wv.

2 La dichiarazione di Circe, (i 56 h'frcc roi ovnér' iciteixa dirjvsxécog àyogevoa e sgg. è necessaria, servendo a spiegare perchè la dea si fermi a dare ad Ulisse un'ampia descrizione dei vari pericoli , anziché limitarsi ad indicare la via da se- guire. Tale dichiarazione sarehbe immediatamente violata, se ella dicesse ad Ulisse quel che le fanno dire i versi brutti e in parte oscuri 81-84, i quali si accordano male coi vv. 108-110. Sembra che essi siano il prodotto di due interpolazioni suc- cessive, le quali sono denunziate dal vr\a %aqà ylacpVQjjv del v. 82 e dall'ex viqòg yloxpvQfìs del verso seguente. Ili origine al v. 80 seguiva, come io giudico, F85,

SIKELIKA. 233

può salvare. Circe consiglia perciò ad Ulisse di seguir la prima via, ra- sentare, cioè, Scilla (atCQS&léav 108) meglio perder sei compagni che perderli tutti ! ». È quello che Ulisse, come abbiamo veduto, ordina al timoniere, ed il timoniere eseguisce : egli perde sei compagni, ma si salva col resto dell'equipaggio.

Le Planktai dunque rimangono estranee alle due vie annunziate da Circe. Essa ha detto che nessuna nave è uscita salva da quelle, eccettuata la Argo, che godeva della protezione speciale di Ilera : ep- pure, non ha indicato il modo di evitarle o di superarle , Ulisse ha pensato a domandarlo. Tutto ciò dimostra, se io inni erro, che la descrizione delle Planktai non appartiene al discorso originario di Circe, ma vi è stata inserita dopo; ne è necessario supporre che il principio del verso 73 sia stato ritoccato in seguito a tale inserzione '.

Queste Planktai , a fianco delle (piali sarebbe passata Argo re- duce da Aietes, sono identiche alle Kyaneai che troviamo poi localiz- zate nel Bosforo. Ogni dubbio su questo riguardo è escluso. Le Kyaneai venivano genericamente designate come « scogli erranti (planktai) » ~; esse ricevono nella letteratura le designazioni specifiche di tft'j'ó^ouor o óvvoQ^idÒag, più tardi, sembra, quella di óviixirjyddes !. Ma l'unità di origine delle Kyaneai e delle Planktai non sfuggiva tra gli antichi

1 In questa descrizione vi hanno frasi e versi presi a prestito in maniera poco abile. Il v. 59 7tétQui tnt^ecpteg è tolto da v. 131 èytrìQscféug... ntrgug. Ma in questo luogo 1' t7tì]Q£(fì}g si comprende perfettamente : Ulisse, in fatti, si è allontanato da un porto profondo, a bocca angusta, chiuso da alte rupi (x 87-90), in modo da poter essere paragonato ad una spelonca. Ma un tale epiteto è fuor di proposito nella de- scrizione che Cuce fa delle Plauktai. Anche il v. til sembra un' imitazione poco op portuna di x 305 : qui si tratta di un' erba che Ulisse non conosceva , e quindi non poteva chiamarla se nou col nome che aveva sentito pronunziare al dio. Kel- 1*11. A 103 la doppia nomenclatura è giustificata dal fatto che un mortale parla ad una dea; ed anche negli altri casi, il poeta vuole spiegare certe diploniinie at- tribuendo ad uno dei due vocaboli un'origine divina. Il Xlg TtttQi] del v. (54 è forse nato sotto 1' intlueuza del v. 79 , luogo in cui tale espressione è opportuna più che altrove, poiché spiega come la Scilla Tcergah] sia al sicuro da ogni offesa da parte di chi volesse assalirla dallo scoglio sotto cui essa vive. I versi 445-G erano già, e con piena ragione, segnati di atetesi dagli antichi. Il poeta accompagnava, o meglio , riconduceva Ulisse di nuovo alla Cariddi : non era necessario di farlo trovare di nuovo anche innanzi alle Planktai, se non era stata tirata in scena nep- pure Scilla.

2 Erodoto IV 84 ini tug Kvuvéccg xcdsvuèvccg, rag ■zqÓteqov TcXayxràg ~'EXXt]vég (fuOi {irai. Cfr. ancora Arriano ]'er. Poni, h'u.r. 37 livrea ed Kvàvsui eloiv ug Xtyovciv oi Ttoir^al TcXccyxràg nàXcci sivcci. Cfr. Plinio n. h. XI 13, 32.

3 V. Pind. Pyth, W 210 sg. (370 sg.) ; Simon, fr. 22 (Scbul. Eur. lied. 2): Symplegades appare, se non erro, la prima volta in Euripide, Mal. 2, 1203.

234 M. COLUMBA. PARTE I.

neppure ai critici meno perspicaci l. L'isola Aiaie, dove abitava Circe, è l'Aia, abitata dal fratello di lei, Aietes. Se Argo %uq' Ah'\xao Jtléovóa era passata presso alle petrai Kyaneai-planktai, doveva passar presso a quelle anche la nave di Ulisse, che tornava dalla stessa terra. L'interpo- lazione delle Planktai nel testo omerico si spiega quindi facilmente, tanto più che l'enumerazione che Ulisse fa dei pericoli superati, v. 200 sg. S7id Ttéryctg (pvyo^isv deivYjv te, XccQvfidiv | 2Jxvllijv te, dava adito a pensare che le petrai , anziché essere gli scogli medesimi di Scilla e Cariddi (cfr. 79; 231; 233; 241; 255), dovessero essere qualche cosa di diverso da queste due: e altronde il testo omerico lasciava credere, come s'è veduto, che Ulisse, prima di Scilla e Cariddi, si fosse trovato innanzi ad un altro pericolo, il quale doveva essere appunto quello co- stituito dalle petrai. E si noti che la descrizione delle Planktai è stata collocata per intero nel discorso di Circe : ciò prova che 1' esistenza di questi scogli si riguardava come sufficientemente documentata dal verso 202 nella narrazione del viaggio di Ulisse, e solo faceva specie di non trovarne alcun cenno tra gli ammonimenti dati in precedenza dalla dea. C era dunque una lacinia che il poeta volle colmare.

Fin (pii si può pensare che questa interpolazione abbia tratta la sua ragione di essere dal solo testo omerico. Ma nella, descrizione delle Planktai vi ha, coni' è noto, un tocco estraneo del tutto alla tradizione relativa alle Kyaneai : esso sta nella frase v. 08 jivgòg % òloio fì-vèllai, colla «piale i commentatori hanno messo a confronto il xaxvóg di v. 202 e 219. Tra gli scoliasti alcuni intendono questo" xaitvóg nel senso di nuvola di spruzzi , altri invece interpretano in senso proprio , come fumo, osservando che Omero parla sixÓTcog di questo, perchè di giorno il fuoco non era visibile 2. Quest'ultima interpretazione è la più. antica che noi conosciamo : è quella data da Timeo e da Apollonio Rodio, IV 922-27 il quale ha ampliato il motivo omerico colla descrizione di fe- nomeni vulcanici. Ora, nulla di simile è a noi noto delle Kyaneai; e se non abbiamo tutto il materiale desiderabile per tale verifica, pos- siamo mettercene il cuore in pace, poiché neppure Timeo aveva no- tizia di un tal fatto, e ciò lo convinceva che le Planktai non erano le Kyaneai del Bosforo, e quindi gli Argonauti non erano andati e tornati per la stessa via 3.

1 Strab. Ili 2 , 149' : rat? Sh Kvccvéoug ènolr]6£ (Omero) itaqaTtlì]6Ì(as vecg niayKtdg, xrè. Cfr. I 2, 21<\

2 Schol. BQ. ad v. Scliol. V ibd.

3 Thanm. ak. 105. Questa narrazione è stata rivendicata a Timeo dal Geffcken, Timaios' Gcogr. des Western 1892, p. 131. Cfr. Schol. Apoll. IV 786. La localizza- zione è data dai due escerptori con poca precisione. Pisistrato Lipareo secondo

PARTE I. SIKELIKA. 235

Questo accenno a fenomeni vulcanici che 1' interpolatore ha messo nella sua descrizione delle Planktai v. 68 , presuppone 1' interpre- tazione del y.uTtvóg di 202 nel senso proprio di fumo, e non si spiega se non si ammette che la Cariddi t'osse già localizzata nello Stretto di Messina. Qui la natura dei luoghi completava la suggestione del testo omerico , rievocando le planktai , le quali riflettono l' illusione ottica di chi navighi per le acque di uno stretto di qualche estensione. La descrizione che Giustino fa di questa illusione sullo Stretto di Mes- sina è un po' intenzionalmente adattata alla tradizione delle Symple- gades, ma ha molto di vero l. Nessun lettore spregiudicato, poteva vedere nel xanvóg e nel dovTCog del verso 202 altro che l'effetto del battere dell'onda sugli scogli : ma sullo Stretto di Messina, al cospetto dell'attività vulcanica «Ielle isole di Lipari, la quale sino al I sec. a. Cr. fu ben altrimenti poderosa che non adesso z, queste parole assumevano un significato diverso; esse passavano dalla figura retorica alla realtà. I due fenomeni si univano a formare un fantasma unico : le planlctai fumanti. Queste interpretazioni dovute a ragioni locali son necessarie a presupporre, perchè sia possibile <li spiegare come e perchè nell'in- serire la descrizione delle Planktai di Argo il poeta omerico abbia aggiunte» a queste il tocco delle « procelle di fuoco », ampliando il mo- tivo del xuxvóg del v. 202, interpretato così, come solo sullo Stretto di Messina era possibile interpretarlo. Si comprende che, una volta passata nel testo omerico questa interpolazione, l'interpretazione alle- gorica del xcatvóg abbia perduto terreno. Tuttavia essa è così natu- rale, che non fu mai abbandonata del tutto.

Le Planktai si confusero perciò con le isole di Lipari: questa iden- tificazione e ben nota ad Apollonio che fa manifesta allusione a f/f^« 'HcpccCtirov o (-)éoub()6a (v. 027 'HcpaCótov d'SQuìjv... àvt^v; cfr. II 42 in'tóoio TtXccyxtfig). Senonchè, in grazia all'autorità di Omero, il nome Planktai rimase come proprio delle Kyaneai presso Scilla e Cariddi, e non venne adoperato nella letteratura come designazione speciale delle Kyaneai del Bosforo; in pari modo, poiché Omero faceva passare Argo per le Planktai. diversificate già dalle Kyaneai, la leggenda di Argo si

ogni probabilità era citato da Timeo difficile supporre il contrario ed appar- tiene perciò al IV sec. a. Cr. La fiamma di cui Val. Fiacco, Arg. IV 6f>0 non ha che fare con fenomeni vulcanici; essa è soltanto un effetto della collisione.

1 Cfr. Giust. IV 1, 18 (dello Stretto di Messina) : coeuntibus in se promitntnriis ac rarsas dincedentibus solida intercidi abnumiqne narigia... discederc ac seiungi pro- munturia quae ante i un età fuerint arbitrere. Cfr. GenVken, o. e. p. 122. Del resto, fra i poeti romani le Planktai son descritte coi caratteri della Symplegades.

2 Oros. IV 20, Liv. XXI ti); 51; Strab. VI 2, 27»;' (Polib.) 277'' (l'osi, 1.).

236 M. COLUMBA. PARTE al.

amplificò, e Giasone passò egualmente per le Kyaneai del Bosforo e le Planktai dello Stretto l.

La descrizione «Ielle Planktai è naturalmente anteriore al verso i\) ;^1Ì7-_Ì<S in parte calcati sul verso fi 2(50 sg. Noi dobbiamo tornare un momento ai versi v 383 sg. dei (piali abbiamo parlato (cfr. p. 230sg.). 11 consiglio che uno dei proci a Telemaco di andare a vendere i due ospiti molesti presso i Siculi, è modellato sulla minaccia di Antinoo ad Iros 6 84 sg. da confrontare con quella fatta dallo stesso ad Ulisse qp 307 sgg. Nell'uno e nell'altro caso Antinoo dichiara di voler but- tare l'importuno in una nave, e mandarlo ùg"Ex£tov fia(5iXì]u. 11 poeta di v 383 sg. che aveva in mente la formula di questa minaccia, e la copiava, ha fatto però una modificazione: alle parole sig 'E%etov Tié^a- li8v che dovevano naturalmente venirgli in bocca, egli ha voluto sosti- tuire èg ZJixelovg Tté^co^isv. Abbiamo qui la prova che il poeta aveva il proposito cosciente di tirare i Siculi entro il campo d' azione del- l'Odissea. Lo stesso va detto della 2Jucelri che troviamo menzionata ai servizi di Laerte (co 211, 3(><>, 389) e che in a 191 è soltanto mia vec- chia serva.

Ma col sostituire i Sikeloi ad Echetos, il poeta omerico ha osser- vato in pari tempo come sia poco plausibile il consiglio di intraprendere un viaggio per castigare un importuno, che pur si aveva fra le mani, o per offrire ad un barbablen il gusto di eseguire una mutilazione. Un viaggio, e un viaggio per mare in ispecie, non s' intraprendeva per un capriccio siffatto : onde il nuovo poeta ha cercato 1' adattamento più verosimile dell'antica minaccia, ed ha sostituito alle improficue sevizie il concetto più pratico di una operazione commerciale: odsv tot, a\,iov aXcpoiv. La sede più opportuna- per tale mercato è stata da lui cercata fra i Siculi anziché, com'era da attendersi, in altra piazza della Grecia, dove i prezzi degli schiavi non dovevano essere meno alti. Egli pensava senza dubbio ai Sikeliotai , ma non poteva ammettere che i Greci fossero allora passati nell'isola; e altronde questa era per lui il campo di azione dell'Odissea, verso l'occidente \

1 L'aiuto di ITera , il particolare delie colombe accennato in Omero, si tro- vano ancora , in forma più o meno diversificata , nella tradizione posteriore del passaggio di Argo per le Kyaneai del Bosforo.

2 La leggenda, di cui ci dan testimonianza tardivi eruditi, che Echetos sia stato un re dei Siculi, è sorta da una combinazione dei luoghi omerici qui esa- minati, giacché la maniera analoga in cui son formulate le due minacce di Antinoo e il consiglio dato a Telemaco iuduceva a credere che si trattasse sempre dello stesso luogo. Ma il nomo Bnchetos che sarebbe stato il padre di Echetos, prova, come è stato già veduto, che quest'ultimo in origine era localizzato in Tesprozia, e solo in seguito se ne fece un re dei Siculi.

PARTE I.

8IKKLIKA. 23?

Quanto alla parola Sikanie co M)l essa esige una discussione più lunga di quel che io possa consentirmi in questo articolo. Quel che sin qui si è detto, è sufficiente a dimostrare, io credo, che l'Odissea, come adesso l'abbiamo, porta le tracce della mano di un poeta il quale ha tenuto a mettere la Sicilia in rapporto coi viaggi di Ulisse , ed ha introdotto nel u la descrizione del Planktai seguendo interpretazioni e localizzazioni dell'antica Odissea che dovevano esser proprie dei Greci di Sicilia, e specialmente delle colonie calcidiche dello Stretto. Esso è uno degli ultimi poeti della Odissea, perocché alcuni di questi accenni mostrano una fase tardiva del mito; la menzione dei Siculi fa parte dell'episodio di Teoclimeno, ne si può escludere che la descri- zione delle Planktai in fi sia della stessa mano a cui appartiene il cenno f 327, il quale si lega a (incile ultime parti dell'Odissea, che già gli antichi escludevano dal poema, ed al più può esser nato insieme con esse. Ammettere l'esistenza di un tale omeride nel VI sec. a. Or. non dovrebbe parere strano, anche se noi non avessimo altronde notizia di omeridi venuti in quel secolo a « rapsodia-re » i poemi omerici in Sicilia l.

L'identificazione delle Planktai con le isole di Lipari doveva tra- scinarne con se un'altra : quella di una delle Liparee con l'Eolia, Pisola TcXconj del tesoriere dei venti. Le due identificazioni erano tanto più facili, in quanto le Planktai dovevano essere considerate come isole non meno che come scogli, al pari delle Kyaneai, le quali oltre che TtétQai sono anche viféoncfr. Erodoto IV 85. Ora, un'isola Ttlar^j do- veva essere naturalmente anche un'isola TÙayy.tì}. Una traccia, breve ina eloquente, di questo processo, rimane nel mito (die alla moglie di Eolo il nome di Kyane. Questo nome resta esotico, in mezzo all'amplifi- cazione del unto suddetto, la quale toglie i suoi elementi da nomi lo- cali, come Tirreno, Liparo, Ausono '; esso non è spiegabile se non si ammette la piena coscienza dell'identità delle Kyaneai colle Planktai, se

1 Ippostrato in Schol. Pinci. Xeni. II 1 (ofr. Miiller F.h.G. Ili 133 . K inve- rosimile elio Kynaithos sia sta tu « il primo (!)» a rapsodiare i poemi omerici a Si- racusa nella 69a olimpiade , e die egli era stato a capo di una fiorente scuola di omeridi, i quali avrebbero portato un largo contributo alla formazione dei due poemi. Lo homeriJiOtato* Stesicoro basterebbe a metter fuori di questione la conoscenza dei poemi omerici in Sicilia al principio del VI sec. a. C. Il Welcker ha corretto il G9a in 19a e il Diintzer in 29a. Tuttavia, escluso l'errore del « primo », non avrebbe per me nulla d'inverosimile, che la recitazione di Kynaithos in Sicilia e il fiorire della sua scuola possano riportarsi al mezzo del VI secolo. K probabile che si tratti di un vero errore della fonte dello scoliaste, anziché di un errore meccanico di lettura.

2 Cfr. Diod. V. 7; Schol. Aen. I 52.

238 M. COLUMBA. PARTE I.

non ci riportiamo, cioè, ad una forma della tradizione che non conciliava ancora le due versioni della leggenda degli Argonauti lasciando le Kyaneai al Bosforo e le Planktai allo stretto di Messina. La identi- ficazione di una delle isole di Lipari con F isola di Eolo prevalse, e finì man mano con occupare tutte le planktai, che divennero « isole di Eolo ». Senonchè il fumo, costante testimone dell' attività vulcanica, portò a fianco di Eolo un rivale, liephaistos, che s'impadronì di una di esse e le diede il suo nome.

Ma l'opera dell'omeride inteso a localizzare il paesaggio dell'O- dissea in Sicilia, non si è, come io credo, arrestata ai luoghi sopra esaminati. Due sono le terre che nei viaggi di Ulisse risultano come situate in maniera determinata in occidente : l'isola di Eolo e l'isola di Calipso. Eolo chiude nell' otre il corso dei venti « mugghianti », fivutaav àvé[i(ov {% 20) : dovremmo aspettarci quindi che siano lasciati fuori, genericamente, i venti buoni a navigare , quegli ovqol che scor- tano le navi pel vasto dorso del mare , noti anche alla Telemachia (d 360 sg.). invece, i versi 25-26 ci dicono clic il vento lasciato libero è un solo1, e questo il Zefiro, che nel concetto dell'antico poeta ap- partiene appunto alla categoria dei venti « mugghianti », ed è rap- presentato come un vento pericoloso, temuto dai navigatori, indocile persino alla volontà degli dei 2. Solo una forte preoccupazione di sta- bilire la posizione di Eolo in occidente , preoccupazione estranea al- l'antico poeta, può aver dettato quei due versi, che sono in conflitto colla maniera in cui egli concepiva il carattere e la funzione dei venti. L' antico mito conosce altre isole natanti oltre a quella di Eolo : sono le piotai , abitate dalle Arpie , la cui natura di demoni dei venti non ha bisogno di esser dimostrata. Forse anzi , coni' io credo , la vijóog uìoUij esisteva già prima che sorgesse un Aiolos a spiegarne il nome. Ora così le Arpie, che infliggono il supplizio della fame all'indovino trace Fineo, e sono perseguitate dai figli di Borea, il vento di Tracia, come i nomi affini ad Aiolos (Aiolion etc.) ci ri- conducono all' Egeo settentrionale ed alle coste della Tracia. Le piotai delle Arpie si trovavano in fatti nell'Egeo prima ch'esse, identificate <-on le Strofadi, passassero nel Mar Siculo; e colle altre Piotai doveva trovarsi originariamente nell'Egeo anche la Piote aiolie sede di Eolo. Si

1 Ben diversamente s 383 (Athenaie) t&v aXXcav àvé^iav y,axk8r\6£ xslsv&ovg (cfr. x 20) 385 oìqGs ò'ènì xgantvòv Boqst}v. Il verso x 25 assuona a y 133.

2 Cfr. Bnchbolz , hom. lieal. II 1 p. 24. Basterà considerare come questo vento è raffigurato in /x 408; 426; e 286-90.

PARTE I. SIKKI.IKA. 239

comprende perciò quale ragione abbia potuto ispirare quei «lue fersi intesi ad assicurar bene il posto dell'isola di Bolo in occidente l.

1 Secondo s 271 sgg., Ulisse, partito dall'isola di Calipso, non chiude più gli occhi al sonno, intento a fissar le Pleiadi e Boote, e, se si vuole, il carro e Orione (i vv. 273-75 sono derivati da E 478-489); e un viaggio così fatto sarebbe durato 17 giorni ed altrettante notti, poiché al diciottesimo giorno l'eroe si trova a vista della terra dei Feaci (vv. 278-80). È evidente, ed è stato da lunga pezza notato, che questi due particolari non possono stare insieme, non possono derivare, cioè, dallo stesso poeta : chi narrava che Ulisse non aveva preso sonno nella notte, non poteva altresì supporre un viaggio così lungo (Seeck, o. e. p. 184 [cfr. anche Doerpfeld, 1. e. p. 110]). Quali ragioni potevano indurre un omeride a rissar, senza necessità alcuna, una tale durata al viaggio di Ulisse? La ragione, anzi la ne- cessità, che non si trova nel testo medesimo del poema , potrà trovarsi, io credo, fuori di esso, se si ammette che per questo poeta la Cariddi era localizzata nello Stretto di Messina e l'isola di Eolo era una delle Liparee. Una navigazione fatta senza chiuder occhio la notte, doveva esser pensata come relativamente breve, e questo appunto consigliava il poeta ad intervenire, per coordinare la narrazione alle sue vedute geografiche. Ulisse naviga èvvfjtiaQ per raggiungere da Cariddi l'isola di Calipso (ft 447), ed èvrijuaQ aveva navigato dall'isola di Eolo, quando si trovò, al decimo giorno , a vista di Itaca (jc 28-29) ; la distanza dal paese dei Feaci a quest'isola è breve, egli la percorse in una notte, in una sola tirata di sonno (v 35; 94-95). La distanza da Ogygia ad Itaca importava adunque 18 giorni e al- trettante notti di navigazione , onde Ulisse non poteva trovarsi in prossimità della terra dei Feaci se non al diciottesimo giorno; senza la tempesta, al mattino del giorno seguente si sarebbe trovato sulla costa di Itaca. Tale ipotesi , è , a parer mio, avvalorata dai vv. s 276-77 che tengon dietro all'enumerazione delle stelle tenute d'occhio da Ulisse, per aggiungere che Calipso aveva raccomandato all'eroe di navigare sempre in modo da averle alla sinistra, e manifestano anch' essi la preoc- cupazione di stabilir bene il posto di Ogygia nel lontano occidente. Questi versi erano già al loro posto, quando venne introdotta la narrazione di r\ 241-297 alla quale, naturalmente, doveva esser coordinata la tino della narrazione in a 450 sgg.

Come si comprende , nessuno può affermare che questi ritocchi siano opera di uno anziché di più poeti, fautori della stessa concezione geografica dei viaggi di Ulisse. Si può certo osservare che questo poeta o questi poeti han lasciate sussi- stere parecchie altre difficoltà per la loro tesi, e non hanno eliminata una di esse senza creare un'enorme inverosimiglianza. Ma la risposta è ovvia, ed io la trovo così ben formulata da altri, che posso risparmiarmi la fatica di farlo io: il destino di ogni opera siffatta , messa in servizio di una tesi determinata, è stato sempre questo, di non rimuovere una dillicoltà senza lasciarne inavvertite altre più grandi, e senza crearne qualche volta ancora di nuove.

Palermo.

Gaetano Mario Columba.

ISCRIZIONE CRISTIANA DI CO/AISO.

In quella parte dell' ex feudo Boscorotondo che vien chiamata Serracarcara, si è accertata per casuali scoperte, l'esistenza di una necropoli greca , alcune tombe della quale , come da varii indizii si rileva, vuotate posteriormente, furono usate dai primi cristiani.

Da una di queste tombe fu tratto verso il 1837 un lastrone di pietra arenaria, misurante m. 1,12 X 0,35 con uno spessore di cm. 18, portante incisa un' iscrizione che venne pubblicata dal DeSpucches1 il (piale vi lesse : Tuvyùitii iqijóxì] e{ìUo(3ev èri] li]. Così fu riprodotta dal Kaibel IGS. n. 255. Lo Schubring 2 lesse invece Evqóxi] iQiptà èpicoóev èxr\ u. Ma in effetto la lapide dice :

TAYPGOTTH XPHCTH

ezHceeTH

16

XQrióxi] eyrjóe sti]

Questa iscrizione sembra , ad un dipresso , del III secolo dopo Cristo e presenta di notevole il nome della defunta , TavQÙTti] che, a quel che io so, non ricorre altrove.

1 Bollettino della commissione d'antichità, I (1864) p. 13.

2 In Camarina 'Philolog. XXXII) pag. 58 della trad. di A. Salinas (Arch. Stor. Sic., anno VI, n. 3 e 4).

3 II resto della lapide in tempi a noi vicini fu ricoperto di tentativi di ri- copiare l'iscrizione stessa. Essa è attaccata al muro esterno di una delle case rurali del luogo di proprietà del Cav. Spadaro , ove è stata sempre , contrariamente a quanto dicono e il De Spucches e lo Schubring.

Palermo.

Biagio Pace.

PARTE SECONDA.

16

DI ALCUNE EPIGRAFI SEPOLCRALI ARABE

TROVATE NELL' ITALIA MERIDIONALE.

Nell'ottobre od ai primi di novembre del 1008, eseguendosi nel rione di Chiaia a Napoli alcuni scavi per la fognatura, furono dissot- terrate due lapidi sepolcrali arabe in via del Vasto, innanzi al giar- dino del Principe del Vasto. 11 prof. Michele Scherillo ebbe la cortesia

Fi*. 17.

d'inviarmi la piccola fotografia delle lapidi qui riprodotta, mediante la quale potei decifrare gl'alidissima parte «Ielle iscrizioni. Poco dopo, un eccellente calco eseguito dal dr. (laido della Valle mi permise di compiere il deciframento '. Ai due gentilissimi informatori porgo qui vive grazie.

1 La traduzione <ìi quanto avevo letto in «ine riprese e comunicato volta per volta al prof. Scherillo, venne da lui stampata nel suo articolo: Un'iscrizione araba scavata in Xapoli (Napoli Nobilissima, voi. XIII. fase. IX, settembre 190-1, p. 130-131).

244 C. A. NALLINO. PAKTE II.

La lapido che nella fotografia appare collocata in piedi misura metri 1,02 per 0,30; è spezzata in due, ma i due pezzi combaciano perfettamente. Lo scritto è sormontato da una modanatura ad arco di t'erro di cavallo , simile a quelle che ricorrono in due lapidi sepol- crali del 474 dell'egira (11 giugno 1081-31 maggio 1082) riprodotte in fototipia dall'Amari l. È la foggia, d'arco che, piuttosto rara presso gli Arabi d'Oriente , ha una parte importantissima noli' architettura arabica dell'Africa di Nord-Ovest e della Spagna '. La scrittura, scolpita in rilievo , conservata ottimamente , è di un bel cufico non raro nell'epigrafia arabo-sicula del V e VI secolo dell' egira. Eccone la trascrizione in caratteri nashì , aggiunti i punti diacritici che man- cano tutti nell'originale :

M J.^ p-tó^Jf (2) ^jiì M ^.wo (i)

$ jJU^ *!Ì J*£ (4) 3 0^:5? ^jyJl Jx (3)

^♦i'jjA.I (M>5j.j* l+jf^ (6) O^lf X&jfi ^N^fti (5)

\x4- k^*> «L*Jf i*j£ (<s) -^j rji juLaJf *jj (7)

L\£ j}jàl\ cU/0 yi Li (10) ixJl sLJi L»3 j'is jJii (9)

3 (j^A^àS. j»jj J.3.J' (12) xsuU* ^(j/3^ OsjlaJf -x5 (li)

(j**à*. JULw j r^' ^5 (14) iL^a. ^ 6^ì] _&*Jf (13)

3 AÀlf >)[ *!f ^ J i\^Aj (16) ji^ Xjl^^f^ cX^^3 (15)

^j.*».} sJ^aC <A*2>? (18) „.fj al (iSo-Ài ^ 3l\:^ (17) „\\Jf ^f iLftàifj &5^JIj (20) *! Lò^ ,5 LvaC M **.jS (19)

1. In nome di Allah il clemente,

2. il misericordioso. E sia propizio Allah

3. al profeta Maometto e

1 M. Amari, Le epigrafi arabiche di Sicilia trascritte, tradotte e illustrate: Parte seconda , Iscrizioni sepolcrali , Palermo 1879-81 , tavola I , ur. 4 , e tav. II tir. 2 (= Documenti per servire alla storia di Sicilia pubblicati a cura delhi Società Siciliana per la storia patria: Terza serie (epigrafìa) voi. I, fase. 1-2). La stessa forma d'arco, ma costituita da una leggenda chiusa fra due modanature, ricorre in una lapide del 5 gumàdà II 524 (16 maggio 1130) ; ibid. tav. VI , nr. 4. Limito i raffronti alla colle/ione epigrafica dell'Amari, di cui questo mio scritte- rello può considerarsi una piccola appendice.

2 Cfr. W. et G. Marcais, Les monumenta arales de Tlemcen, Paris 1903, p. 61-65.

PAIttE tt. 1>I ALCCXE EPIGRAFI SEPOLCttAlt AKAP.E. 245

4. alla famiglia sua e fioro] accordi la saluto [eterna] l. Ogni r>. persona assaggerà la morte.

6. Avrete esattamente i guiderdoni rostri soltanto

7. il giorno della risurrezione; allora ehi verrà scostato

8. dal fuoco [eterno] e introdotto nel paradiso

9. avrà conseguito la felicità. Xon è la vita ter-

10. rena se non godimento d'inganno \ Questa è

11. la tomba del qà'id Muiiriz ibn Halìfah.

12. Morì il giorno di giovedì, nella

13. ultima decade di gumàd

14. a secondo, nell'anno cinque

15. e sessanta e quattrocento. Ed egli

L6. attestava che non v'è altro Dio che Allah u-

17. nico, il quale non ha soci, e che

1<S. Maometto è il suo servo e il suo inviato.

li). Abbia quindi Allah misericordia d' [ogni suo] fedele che

legga [quesf epitafio] ed auguri a lui ;{ 20. misericordia e perdono, se Allah vuole.

Xel testo arabo ricorrono tre errori da porsi a carico del lapi- cida: il i^.: della 7a linea, in luogo di _ i^.; ; il nominativo lN.,*^ invece dell'accusativo |l\+2>^ nella linea I8a ; inline il -J in luogo

di Ljj nella L9a.

Del personaggio qui nominato non trovo menzione altrove ; pure e la bellezza della lapide e il titolo di qà'id sembrano attcstarci ch'egli dovette essere persona di qualche conto. Etimologicamente qà'id si- gnifica « colai che conduce, condottiero » : e nell'ordinamento militare dei califfi 'abbàsidi designava il comandante di cento uomini ' . ossia

1 Traduco questa frase augurale, la piti frequente di tutte presso i Musul- mani, ed al Tempo stesso la piti discussa dai teologi per quel che riguarda il vero suo significato, attenendomi all'interpretazione più diffusa. Veggasi in proposito I. Goldziher. Ueber die Eulogien der Muhammedaner (Zeitsch. d. deutsch. morgen- liind. Ges., L. 1896. p. 97-128).

2 II corsivo è tutto una citazione coranica (Cor. III. 182' frequente in iscri- zioni sepolcrali.

3 Cioè al defunto. Formula non rara; altri esempi in Amari p. 57. 69 (senza JjsJ, 77, 88 e 91.

4 Cfr. von Kremer, Cidturgeschichte da Orienta, voi. 1. p. 237, ed il glossario del de Goeje agli Annali d'at-Tabarì, p. CDXXXV. Quale comandante di 1000 uomini appare nell'esercito improvvisato dei «Nudi», accozzaglia di vagabondi e di carcerati evasi che, nel 196 dell'egira (coni. 23 £ctr. 811 , tentarono ia di- fesa di Bagdad contro l'assedio di Tallir ibn al -Uusavn (v. ai-Mas' Cidi , Frairics, YI, 452-453).

246 C. A. NALLINO. PARTE II.

il centurione della milizia romana, 1' txatovtaQXìjg della bizantina. Ma presso gli Arabi d'Occidente la parola ebbe un significato assai più vago; indicò tanto il comandante di pochi uomini (pianto il generale d'un esercito, il governatore civile e militare d'una intera provincia come d'un piccolo villaggio o d'una tribù , sino ad applicarsi sempli- cemente ai funzionari civili del re \ Così in Sicilia , durante la si- gnoria normanna, il titolo di qà'id (xait, xà'Crog, xuirccg, xuir^g, xétìjg, gaytus, gaitus, caitus dei diplomi greci e latini), pur designando talora un capitano di milizie , appare spesso come mero titolo onorifico e fors' anche come titolo di nobiltà 2.

Sulla data non può cader dubbio; nell'ultima decade di guinàdà II del 405 non abbiamo altro giovedì che quello cadente il 24 del mese, cioè il 7 Marzo 1073 d. Or. Sulle ragioni per cui talora vediamo no tati nelle epigrafi il giorno della settimana e la decade del mese, ra- gioni provenienti dall'incertezza nel contare il primo giorno del mese binare, già s'intrattenne l'Amari, Iscrizioni sepolcrali p. 68; aggiungo qui elie tale indicazione di decade , ma onimesso il giorno della setti- mana, si ha in diplomi arabi presso Cusa, I diplomi greci ed arabi di Sicilia, p. 42, 408, 501. Ben più strane sono le date che appaiono in due atti notarili per costituzione di doni nuziali, rogati a Calatayud in Ispagna e casualmente citati dal Sanvaire 3 : uno è della « donie- « nica 27 luglio corrispondente alla prima decade della lima di ra- « madàn dell'anno 028 » (cioè 27 luglio 1522 = .'5 ramadàn 028), l'altro del « venerdì 1 1 novembre corrispondente alla decade media della «luna di muliarram dell'anno 931 » (cioè 11 nov. 1524= 14 muhar- ram 031). Questa divisione del mese in tre decadi appare non solo in sottoscrizioni di manoscritti, ma anche dove meno ce l'attende- remmo. Nei suoi Fh.su.s al-MJcam il famoso mistico [bn 'Arabi ci dice d'aver avuto « nell'ultima decade d' al-muharram dell'anno 027 eg. » la visione che lo spinse a comporre il libro '; e il geografo al-Edrìsi

1 Alcuni utili acceuni in proposito veggansi presso Dozy, Supplémenl aux dict. arabes II, 417, e J. Ri ber a, Origene-? del justicia de Aragón, Zaragoza 1897, p. 47-49. Sull'uso attuale del vocabolo al Marocco , in Algeria ed in Tunisia non e' è che da sfogliare la copiosa letteratura geografica su quelle regioni.

2 La storia delle vicende subite dalla voce qà'id in Sicilia è ancora da scri- versi; un pregevolissimo abbozzo ne diede tuttavia l'Amari, Storia dei Musulmani, III, 260-266.

3 Matériaux pour servir à V hisi. de la numismatique et de la metrologie musiil- mancs (in Journal Jsiatiquc, VII sèrie, t. 19, 1882, p. 323-324).

4 Fusùs (col commento d'al-Qàsàul ed estratti da quello di Bàli Kfeudì), Cairo 1321 eg., p. 6.

PARTE II. DI ALCUNE EPIGRAFI SEPOLCRALI ARABE. 24?

(ed. Amari e Schiaparelli , p. G del testo , 8 vers.) e' informa che il titolo dell' opera sua venne stabilito dal re Ruggero « nella prima decade di gennaio ». Notisi 1' uso di gumàdà al maschile. In iscri- zioni del 440 e 404 eg. (Amari p. 22 e 27) lo troviamo ancora trattato regolarmente al femminile ; invece nelle iscrizioni del 524

e 531 (Amari p. 74 e 77) si ha -à^f ^jr^U.^. , e nel 030 (Amari p. 133) addirittura J»^! òl+.s». , come negli odierni dialetti d'Egitto

e di Siria l. Del resto il Corpus del Van Berchem prova come l'uso di gumàdà al maschile sia un fatto quasi costante nell' epigrafia arabo- egiziana.

L'altra iscrizione, pure in rilievo, trovasi sopra una stela simile a cornice, del tipo di quelle descritte dall'Amari p. 0, che cioè for- mavano una specie d' architrave situata orizzontalmente al di sopra della tomba nel senso della lunghezza, e sostenuta dalle due pietre verticali che segnano le due estremità del sepolcro. I due pezzi rin- venuti, e che nell' incisione figurano accanto alla lapide or ora illu- strata, combinano fra loro esattamente ; manca tuttavia un terzo pezzo che completerebbe l'iscrizione. Questa, in caratteri cufici alquanto sot- tili ed allungati, corre su due linee comincianti in una delle due facce laterali della stela e continuanti in senso contrario sull'altra faccia. Risultano quindi incompleti il principio delle due righe nel recto e la fine delle medesime nel verso. Ecco quanto rimane dell'iscrizione, che trascrivo aggiungendo i punti diacritici :

Recto : -^ U^. dSofi q+ .^ (1)

LioJf slo^f 1*3 ; (2)

2 [*aJLk] J^3 Ifcjfj »>*Jf *M jtjàll £Ux> ^f

Verso : ^ s^f M b*»j & (*^[$ LSwàJf ^-Xk6 (3) J| AjyC pii |vX$ f

j£> JsS *lJf òy

1 La stessa cosa nel 'Oman e Zanzibar (Reinhardt, Ein arabiacher Diaìekt ecc., p. 86) ed al Marocco (Donibay p. 75: Lerchundi, Voeabulario, p. 253).

2 Illeggibile nell'iscrizione, essendo logori i segni.

248 e. a. kallino. partk ii.

Traduco ponendo fra i segni < > le restituzioni sicure :

1. < In nome di Allah il clemente, il misericordioso. E sia propizio

Allah al profeta Maometto e alla famiglia sua e [loro] accordi la salute [eterna]. Benedetto Colui che, se vuole, t'accorderà > cose migliori di ciò: giardini sotto i quali scorrono fi toni , e V accor- derà palagi i. Ogni persona

2. < assaggerà ìa morte. Avrete esattamente i guiderdoni vostri sol-

tanto il giorno della risurrezione ; allora chi verrà scostato dal

fuoco [eterno] e introdotto nel paradiso avrà conseguito la f eli > cita.

Xon è la vita terrena se non un godimento d'inganno 2. Ad Allah

la gloria e la durata in eterno; sulle sue creature 'A. tu scritta3 la caducità. E per voi nell'inviato d'Allah è esempio

e conforto 4. Questa è la tomba di cAbd al '

< Morì il dell'anno cen >

4. to. Ed egli attestava che non v' è altro Dio che Allah, e che

Maometto è l'inviato d'Allah. Dì: essale un annunzio grave, dal

quale rifuggite ° >

Come nella iscrizione precedente, così anche in questa il lapicida si lasciò sfuggire due errori grammaticali , cioè il _aÌ. della prima

linea ed il uN.^5^/0 della quarta, in luogo di fr>ò>» e di IcX^^^.

La stessa prima riga, col suo (S*-^* Li. in luogo di e; -^ ùLi, ,

ci offre un bell'esempio di quella che i paleografi chiamano involutio 7, e che è ben rappresentata nell'epigrafe araba di Salaparuta , ove il Lagumina, col suo abituale acume paleografico, ben riconobbe che il

gruppo tX+^V/O ^ ^xi. andava letto lX.*:A/0 vì>Jj ^^àj; 8.

1 Corano XXV , 11 ; altri esempi dell' uso di questo versetto presso Amari p. 59 e 74.

2 Corano III, 182; cfr. l'altra epigrafe.

3 Cioè decretata da Dio; siili' origine di questa espressione vedasi Goklziher nella ZDMG., LVII, 1903, 396-397.

4 Su questa frase e sulla precedente cfr. Amari p. 10.

5 Dal calco si rileva soltanto che la consonante seguente non può essere la seconda l di Allah.

6 Corano XXXVIII, 67-GS; frase comunissima negli epitafì (Amari p. 9).

7 J. Karabacek, Die Involutio ini arabischen Schriftwesen (Si'tzungsber. d. k. Ak. der Wissenschaften zn Wien, philos.-bistor. Classe, 13d. CXXXV, nr. V, 1896).

8 B. Lagumina, Iscrizione araba di Salaparuta (Archivio storico Siciliano, Nuova Serie, voi. XI, 1886, p. 116-147).

PARTE II. DI AtCt'N'R EPIGRAFI SEPOLCRALI ARABE. 249

Come trovavansì quelle due lapidi nel sottosuolo di Napoli ? Le ossa umane che gli operai addetti allo scavo trovarono accanto a quei pezzi di marmo , sembrano escludere il dubbio che quelle pietre se- polcrali fossero arrivate colà per mero caso. La presenza di sepolture musulmane del XI secolo a Napoli è assai meno strana di quanto possa sembrare a prima giunta ; basti a convincersene quel che scrisse l'Amari, Iscriz. sepolcrali, p. 15-17, intorno ai rapporti della repub- blica di Napoli, di Amalfi e di Salerno coi Musulmani d'Africa e di Sicilia. Senza contare tre epigrafi degli anni 440, 407, .">24 eg. che si trovano nel Museo Nazionale di Napoli, ma di cui è incerta la pro- venienza, noi abbiamo già l'esempio d'una lapide sepolcrale del 417 eg. (coni. 22 febbr. 1026) rinvenuta a Napoli, e di due del 411 (1021) e 47.J (1081) che uscirono alla luce in Pozzuoli l. Notevole poi è la data della morte di quel qà'id Muhriz ibn Halìfah , 7 marzo 107.*$. Nel gennaio 1072, dopo cinque mesi d'assedio, il eonte Ruggero aveva espugnata Palermo 2, e sostituitavi la signoria normanna alla domi- nazione araba; vien quindi naturale di chiedersi se nell'estinto di Na- poli non dobbiamo vedere un profugo siciliano.

Mi si consenta di proporre qui alcune modificazioni alla versione che di due graziosi epitafi ebbe a dare l'insigne illustratore delle epi- grafi arabe di Sicilia.

La prima iscrizione è quella clic porta il nr. 13 presso l'Amari (]>. 45-51) e che trovasi al Musco Nazionale di X<q)oli. Le ultime tre righe formarono una vera erux interpretimi pei miei predecessori, nes- suno dei (piali sembra essersi accorto che si trattava d'uno squarcio poetico , e che quindi la scansione metrica sarebbe stata un valido sussidio per la retta lettura ed intelligenza del testo. Premetto clic l'iscrizione, come notò l'Amari, presenta qualche scorrettezza . come

il mostruoso 34.a5i della 17a riga in luogo di a».<vJ che fa parte di

una formula pia comunissima; ed osservo pure clic in generale i versi scolpiti su lapidi sepolcrali non mancano di licenze metriche disap- provate dai trattatisti severi. L'Amari , di cui sono le vocali e i punti diacritici, lesse :

1 Amari, nr. 3. 2. 13 (pag. 17, 13, 45).

2 Per hi tinta si veda anche I> . Lagninola, Catalogo delle monete arabe existenti velia Biblioteca Comunale di Palermo, Palermo 1892, n. 230.

250 C. A. NAIXINO. PARTE II.

L^A*Jf ÌL (? ^/^) Ò/l (18)

Ly^Jf ^Lu (? iJ^^Jl ovvero sys^Jf) OcX-^Jf ^jLo j.£ o* (19)

*W i^ x^w,^. iJU*} **£/" *&y*° ^*} cr* *^t*" p*"j (20)

e tradusse (cfr. la sua correzione a p. 1G7) :

18 (Passa) come un baleno tra le dolcezze della vita chi

li), serbasi alle mollezze. L'obblio cancellerà le dignità ch'ei [tenne];

sparirà 20. [ogni] vestigio della sua onoranza, dopo breve splendore; e [in- sieme] col suo corpo si consumerà la riputazione della sua stirpe.

Nella riga 19a faccio subito notare che in luogo di (.jLfl è al- trettanto legittima la lettura .jUa , poiché, come appare dalla foto- tipia, nell'iscrizione . e . finali hanno la stessa forma. Inoltre il gruppo seguente J) si può leggere con non minore diritto JJ ; cfr. nella 9a riga jf = ^j| (cioè ^>f) , che l'Amari giudicò a torto essere la parola ..of e che quindi ritenne un errore del lapicida. Infine, nella 20a riga, il gruppo letto ia (o >o ) dal Lanci e dall'Amari, ha nell' iscrizione una forma alquanto strana che permette pure la let- tura ±a . Premesse queste osservazioni paleografiche , applico al nostro testo le regole della metrica e vedo subito che si tratta di versi tawil del tipo :

dal che risulta che la parola da tutti riconosciuta come errata nella 19a riga deve leggersi v^sj^k. = C>x^ ( l'iscrizione ha L-OoJ . La metrica esige la vocalizzazione poco corretta nasayànu, per nisyànu, nella medesima riga 19a, la cui rima è poi fatta all'uso volgare. Leggo pertanto , separando i versi indipendentemente dalle righe del- l'iscrizione :

DI ALCUNE EPIGRAFI SEPOLCRALI ARABE. 251

,. > )

1. Qual baleno nelle delizie della vita [passa] colui ch'è avviato a

sorte tale che l'oblio cancellerà le sue dimore,

2. e sparirà ogni vestigio del suo volto rapidamente dopo aver bril-

lato, e si consumeranno il corpo suo e le sue giunture.

La frase J.) àìào « eh' è avviato a » ricorre in altra epigrafe J sepolcrale presso l'Amari, p. 119, ed ha rispondenza nell'uso della

voce ,aao^ nel Corano, nonché nel verso anonimo citato dai tratta- tisti 1 come esempio del metro madìd mahdiìf:

JUJJ „jIao i Cl^xC- b Xw.^ )-y0) ,.,-«j y

■>J J U •• v-T •• / CIP

L'intera espressione poi ^.^a-o*. ^U jIao trova esatto riscontro in un verso della Hamùsah di Abù Tammàm (ed. Freytag ]>. 32tì , ed. Bùìàq li, 1<><») :

« se ti temiamo, ben abbiamo uno scampo dove ». lutine

il zi/ci ±A « le sue giunture » è un parallelo al sinonimo «>dlAclft/0 tanto frequente nella poesia araba.

Passo ora ad un'altra iscrizione , appartenente al Musco Nazio- nale di Palermo, e commemorante l'estinto Yasin ibn fAli ibn Va ìs. Porta il nr. 43 presso l'Amari, p. 134:138. Nelle righe 5-10 dell'iscri- zione l'illustre arabista riconobbe dei versi; ma sbagliò il metro, giu- dicandolo un ìcàjir, e non si curò di scandere tutto, mentre la scan- sione gli avrebbe additato tre errori di lettura che alterano il senso. 11 metro è il pi/cìl del tipo :

1 As-Sakkiikt, Miftdh al-' illuni, Cairo 1.-U7 , p. 281; Freytag, Darstellung der arabischen Verskunst, p. 180: Gaicin de Tassy . Ehétorìque et prosodie dea langues de VOrient musulman, 2" ed. (Paris 1873), p. 264.

£52 C. A. KALtltfO. fAHTE II.

.Metro ed iscrizione (come ognuno può vedere dalla fototipia) esigono nel primo verso 1+5 e ^5l>v*j in luogo dei L* e »jXÀa*j letti dal-

l'Amari, e nel verso ,-*v.àj in luogo di ,.%aaj . 11 ^^a£ del verso è un semplice errore di stampa per <l>jS- . La traduzione suona quindi così :

1. Ti sei dipartito, e dopo di te non [v'ha più] bene nella vita. Sei

scomparso dal mondo, ne farai ritorno.

2. Dimorerai [nell'avello] sino a che Allah risusciti le creature sue; d'incontrarti non si può sperare, eppur tu sei vicino.

3. Il volto tuo si consumerà ogni e ogni notte; ma l'amor tuo non verrà obliato e tu [sarai sempre] amato.

4. Su te la salute eterna [che vien] da Allah, fin che spuntino astri

[in cielo], e fin che sulle piante di aràk tremoli un ramoscello.

Termino questi appunti con una piccola osservazione circa l'epi- grafe nr. 42 dell'Amari (p. 131-134) , esistente nel Museo Nazionale di Palermo e datata dal 636 eg. (1238 d. Cr.) , nella quale ricorre il nome di donna as-Sitt bint Abì '1-Qàsim ibn Husayn. Xota l'Amari: « Il vocabolo Sitt, Signora , sembra qui usato come nome proprio ». La cosa diviene sicura (piando si pensi che una as-Sitt , parente (hatanah) d'un 'Abd al-Kàfì , si trova appunto in un diploma arabo di Sicilia presso il Cusa p. ~>$1-, e che il sinonimo Sayyidah ricorre più volte come nome di donna in altro diploma della fine di da '1-qa'dah 531 (19 agosto 1137) stampato dal Cusa, pag. 61-67: la venditrice è Sayyidah bint Yùsuf al Qaysì, chiamata brevemente Sayyidah nel corso del documento. Di più un Ibràhìm ibn Sayyidah, colla trascri- zione greca ^4^QK%i^og btclv óéids , compare in Cusa p. 138. Abbiamo in questi casi 1 un'abbreviatura del nome Sayyidat al-aìil « la signora della famiglia », ricorrente appunto in altra epigrafe siciliana del 474 (1081) presso Amari p. 42-4.'> ; nome a cui fa esatto riscontro il Sit- tuhum « la loro signora », che una glossa dell'editore del Tàg al- arus

1 Non mancano gli esempi fuori di Sicilia: Sayyidah bint'Abd al-gant al-'Abda- riyyah, donna erudita morta a Tunisi nel 647 eg. (Ibn nl-Abbàr, Takmilah ed. Co- derà , nr. 2129); e le due as Sayyidah figlie del califfo onimiade di Spagna 'Abd Allah, una delle quali morì alla line del 319 eg. (àl-lìayàn ed. D'»zy 11,15(3 e 221, vers. Fagnan II, 251 e 341). Inoltre SUlah, onde prese il nome il notissimo lessi- cografo Ibn Sldab. Occorre appena ricordare il sinonimo aramaico Martha, Muq&u,

PARTE II. DI ALCl'NE EPIGRAFI SEPOLCRALI ARABE. 253

afferma d'uso frequente in Egitto *, e che Muhammad c Utmàn 'Galàl ci <là come personaggio femminile nella commedia <m-Xim' al-àlimàt, noto rifacimento delle Feimiies savantes di Molière in dialetto cairino. 11 corrispondente maschile Sayyid (ovvero Siri) ahi uh « il signore della sua famiglia » non è raro in diplomi arabi dell'epoca normanna, e viene reso nelle trascrizioni greche con óttéxsXov , 6itxé%eXov , <5i- ré%t Xig , Oiòé%Xov , <5iòé%£ Xov ' ; come non mancano esempi siciliani del semplice as-Sìd in un Abù Bekr ibn as-Sìd3 e nel frequente 's-Sid, trascritto dai Greci con (ìovógit, (ìovGrJT. è(ìov ijXóyjt, (iovóix 4.

1 Tdg al-'aru8, 2a ed. (Cairo 1307), I , 328 in marg. (a proposito del nome proprio femminile sahrbdnu d'origine persiana): sAP» jJL_>-J! S.X>.,w « <l« g-- *-i>^» i-XixJ) ^<~w» ,'vA-i o^* i-.-w.Aji .. ».^wJ cj-va>- /^i<* J^' s^'-*-i iu^fwJu). In Algeria si adopera il sinonimo Lallàhum , registrato nel Vocabulaire destine à fixer la transcription en francais des noms dea indigène», Alger 1891, p. 243.

2 Cusa p. 136, 144. 165, 167 (bis). 177, 248. 251, 267, 280. L'onomastica algerina moderna ci offre Sid en nàs [Vocabulaire p. 350), Sidbum (ibid. 350), Mu- làhum (ibid. 294); cfr. il nome del noto tradizionista lbn Sayyid an-nàs morto al Cairo nel 734 eg.

3 Cusa p. 171. La trascrizione greca (pW'/Jxgp i-xiv i).6r\x è interessante, poi- ché ci mostra la stessa pronunzia Bubker ogui comuiiissima in tutta la Barberia, da apparire talora scritta sotto la forma jCo in atti ufficiali (p. es. A. Mou- lióras, Manuel algérien, Paris 1888, p. 246).

1 Cusa p. 145, 157, 167, 177, 250, 253. 258, 274. Presso uli Arabi di Spagna era frequente questo Sid, as-Sìd, Sayyid , come è facile dedurre dagli indici della Bibliotheca Arabico-Hispana del Coderà.

Carlo Alfonso Nallino.

SU UNA /AONETA 5VEVA RINVENUTA A RAFFADALI.

Fig. 48.

Il prof. Antonino Salina» nelle sue lezioni di archeologia nel Museo Nazionale di Palermo e' insegnava che i negozianti ambi più che al conto tenevano al peso delle monete , e praticamente ci mo- strava una moneta araba di epoea normanna mancante di un pezzet- tino, il quale era servito per ottenere qualche giusto peso. Ora a me pochi anni addietro venne fatto di acquistare tre monete con iscri- zioni arabe , una di Guglielmo II normanno e due di Enrico VI svevo, mancanti ognuna di un pezzetto appositamente strappato. Quelle mo- nete fan parte di un pregevole ripostiglio rinvenuto a Raftadali in provincia di (Urgenti. Una di quelle monete, clic è di Enrico VI, mostra evidentemente la tecnica che all'occorrenza si adoperava. Se il pezzo era di lamina sottile , le forbici bastavano all' uopo; ma se quello era molto spesso , come il più delle volte accade nella mone- tazione normanna e sveva, come si faceva ? La detta moneta di En- rico YI da un lato ha un solco assai largo e profondo e dall' altro due altri solchi leggieri, quasi pentimento che qualcuno abbia avuto di strappare di più di quanto occorreva. Ciò non poteva ottenersi che per mezzo di scalpello molto affilato; una tanaglimi o anche il mar- tello, faceva il resto. I mercadanti quindi per i loro negozi, oltre della indispensabile bilancia coi rispettivi pesi delle monete , dovean essere forniti di forbici, di scalpello e non so se di altro !

A me non è occorso di avere a mano monete di epoca musul- mana appositamente tagliate o rotte, come quelle di epoca normanna o sveva. Agli Arabi la cosa non dovea essere assai comune, perche essi tenevano molto al peso uniforme dei loro dinar e dirhem ; non così ai Normanni, dei quali è raro trovare delle monete, anche dello stesso anno, che si eguaglino nel peso. Le loro monete di oro variano

PARTE II.* SU UNA MONETA SVEVA RINVENUTA A RAFFADALI. 255

di modulo e di peso fin dal 1072 (Egira 4(14) che fu il primo anno quando essi le coniarono in Sicilia, come ho dimostrato colle monete del Duca Roberto col titolo di Re di Sicilia , clic si legano immedia- tamente ai quartigli di Al Mustansir fatimita , ultimo covrano mu- sulmano nell'isola. Ma i Normanni dovettero seguire l'uso degli Arabi, i cui negozianti per ottenere il giusto peso, oltre dei dinar e dei dirliem, si avvalevano di monete rotte o tagliate che chiamavano muqatta'ah e maksurah o mukassarah , e di particelle monetarie alle quali davano il nome di qita'h e di kussiìr. Questo poteva t'arsi nel commercio co- mune, perchè ufficialmente il Tesoro dello Stato ricusava quei fram- menti insieme alle monete rotte o tagliate. I giureconsulti musulmani alla loro volta dichiaravano biasimevole , illecito l'uso di comprare e di vendere con quei pezzi, e allegavano in appoggio una tradizione che facevano risalire sino a Maometto. I Normanni e gii Svevi, ben s' in- tende, non si credevano obbligati a stare alle proibizioni del Profeta.

Aggiungo qualche parola sul nome di Raffadali, che è, come ho detto, il posto dove furono trovate le monete.

Raffadali evidentemente è di origine araba ; il paese però potè esser fondato su o presso qualche stazione di epoca classica : così fa supporre il sarcofago di marmo con figure, di epoca romana , ivi rin- venute» che ora si conserva in quella Chiesa Madre. Vito Amico (Diz. top. della Sic. Voi. II pag. 398), che di arabo non s'intendeva, fa derivare il nome di Raffadali da Uafi'a d'Ali : Rafia sarebbe il nome del terreno, Ali quello del proprietario; ma un pochino più sotto ben ravvisa nel principio della parola Raffa il vocabolo rahal , villaggio, come in altri paesi di Sicilia. L'avv. Giuseppe Picone (Memorie .sto- riche agrigentine, pag. 413) fa derivare Raffadali da l'aliai - afdal, vil- laggio, dice lui, eccellenti. ss imo. A me pare più naturale pensare a Rahal al fadl , villaggio dell' abbondanza, o della grazia, meglio però a Rahal Fadl, villaggio di Fadl. I documenti latini citati da Amico hanno Rahal fadalis.

Girgenti.

Mons. Bartolomeo M. Lagumina.

IL «GUILLAU/AE DE PALERNE »

e i suoi dati di luogo e di tempo.

Nel francese antico, ed anche nel medio alto tedesco, dicevasi, com'è noto, Paterne per Palermo : ve n'è un esempio già nella Chan- son de Roland, v. -J923 del testo di Oxford; altri ne raccolse G. Paris per ima breve comunicazione orale alla Società di Storia Patria di Palermo nel 1875, e l'anno dopo in un succoso articoletto, La Sitile et la Uttérature frangaise au Moyen Age i ; e sin da allora spiegò l'origine di questa forma da una specie di assimilazione con Solerne. Ora parrà strano che il nome di tale città avesse attratto quello di una ben più considerevole; ma Salerno ebbe nel Medio Evo una ce- lebrità maggiore per causa degli studi di grammatica e di medicina, sin dal secolo Vili, e ne fanno fede carmi germanici e francogal- lici 2, mentre Palermo era come tagliata fuori dalle nazioni occidentali latine, per esser divenuta una città araba. Il Cloetta ha recato esempi anche di Palemum, dalla Historia Ecclesiastica di Orderico Vitale, della prima metà del sec. XII; ma pare che egli attribuisca la con- fusione con Salerno ad un'antica, ipotetica, epopea delle geste nor- manne in Italia, nella quale si confondessero insieme avvenimenti delle due città 3.

Quanto al provenzale, per rimanere ancora un poco su questo nome, vi sono le forme Palema e Palernia : Bertran de Born in un serventese politico, Greu m'es, la prima in rima :

E ara dat mais de ricor Que s'era reis de Palema 4 ;

1 Romania, V (1876), p. 108.

2 Giesebrecht , Dell' istruzione in Italia nei primi secoli del Medio Evo , trad ital., Firenze, Sansoni, 1895, p. 38; e Rashdall , Unirersities in the Middle Ages Oxford, 1895, voi. I, p. 75.

3 W. Cloetta, Die der Synagon-Episode des Moniage Guillaume II zu Grunde liegen den historischen Ereignisse, in Abhandlungen H. Prof. A. Tobler, Halle, 1895, p. 253

4 Poésies complètes de B. d. Born, p. Antoine Thomas, Toulonse, Privat, 1888 p. 64. A. Stiinming nella la ed. del suo Bertran de Born , Halle 1879, disse, p. 279 che Paterna era in grazia della rima; non l'ha ripetuto nella 2a del 1892, p. 169

PARTE II. IL GUILLAUME DE PALEKNE. 257

Palerma invece è dato da due manoscritti della lettera epica di lìaini- baut de Vaqneiras, e da parecchi di un serventese di Peire Vida], dentro il verso l. Orbene, se nel nome italiano di Palermo si riflette, per causa di -le- di contro a IIuvoQiiog, la forma araba Bulimìa % bisogna riconoscere che di questa si conservò anche la finale nel nome provenzale e nel francese , dove -me risale ad -ma di contro ad ->•//,->• che è l'esito normale di -rno. Solo è da osservare che l'arabo Bulimia è trascrizione letteraria, non rispondente alla pronunzia effettiva, come mi accerta il collega C. ballino; e che anche di Salerno esiste in Orde- rico l'itale la forma Psalernia, quale che ne sia l'origine.

Il Guillaume de Paterne è un romanzo di avventure, in un poema di 9663 ottonarli accoppiati (uno è perduto), la cui azione si svolge tutta in Italia, e per la maggior parte in Palermo. Fu pubblicato la prima volta nel 1877 di su l'unico manoscritto esistente, del secolo XIII, per la Societé des Anciens Textes dal signor II. Michelant: vi sono tracce di altri manoscritti smarriti, ma l'opera non ebbe vera diffusione nel Medio Evo. Xe fu fatta una traduzione poetica in inglese nel 1350 da un certo William per Sir Humfrey VI conte di Bolinn, cugino di Eduardo III 3, e meglio che per suo uso, a suo consiglio, perchè il conte conosceva benissimo il francese. Assai più tardi, circa latine del sec. XVI, fu ridotto in prosa francese, quando molte chamons ri- tornavano alla luce in lingua moderna. Ma in Italia nessun accenno se ne conosce, neppure nel tempo che il Boccaccio poneva le mani nell'immensa letteratura narrativa della Francia, ne prima ne dopo: probabilmente il nostro grande romanziere, ci sia lecito di chiamarlo così, non lo conobbe, perchè, se non 1' azione principale , certo ne avrebbe cavato qualche motivo. Interessante riesce invece ai filologi

1 O. Scbultz - Gora , Le epistole del trovatore li. de Vaqueiras , trad. it. , Fi- renze, Sansoni, 1898, p. 62 e 107 sg.; veramente egli spiegava la trasformazione di Palerma in Palerna come una facilitazione di pronunzia, cfr. l'edizione tedesca della stessa opera, Halle, Nienieyer, 1893, p. 83. ma il traduttore italiano parla di l'addolcimento ! palerai il ms. catanese della Ventimiliana, cfr. P. Sayj-Lopez, La lettera epica di li. d. V. Halle, 1905, p. 7 estr. da lìausteine zar roma», l'ìd- lologie per Adolfo Mussajia).

- Cfr. Seybold, Die aralische Sprache in den rovianischen Liindern, nel Grundriss der roma». Pliil. del Groeber, I (1888), p. 405 (non dispongo della seconda edizione .

3 Ve ne sono due edizioni, da un sol manoscritto , una del Madden , pel Koxburghe Club, Londra, 1832, 1' altra dello Skeat . per la Early Englisb Text Society, Londra, 1867. Si veda su di esso un diligente studio di M. Kaluza, Das mittelenglische Gcdieltt William of Valerne und scine framòsische Quelle, in Englische Studien, IV (1881), p. 198 sgg.; egli corregge, p. 272 sgg.. alcune delle conclusioni cui era pervenuto, nel ralfronto dei testi francese e inglese, il tei» Drink, Geschichte der englischen Litcratur, I, Berlin 1877, p. 116 sgg.

17

258 N. ZINGARKLLI. BARTK II.

dell'età nostra, anzitutto per la sua antichità, rispettabile in un ro- manzo di avventure; poi per la lingua, elie è di bel conio letterario, potrei dire cortigiano, e proviene da una regione nordica orien- tale, come l'Artois e l' Hainaut; e infine per le fonti alle quali possibil mente rimonta. Il compianto G. Paris lo mentovò tra le opere che dimostrano quale idea si avesse di Palermo e della Sicilia tra i suoi connazionali nell' evo medio. Non sarebbe utile ormai studiare più esattamente le circostanze di luogo e di tempo che vi sono pre- sentate, e la cultura che vi si rinette ì I dispareri non mancano , e durerebbero a lungo perchè difficilmente si torna a studiar di propo- sito un' opera di limitata importanza : dall' altro lato è una legittima curiosità in Palermo conoscere che cosa si pensasse di questa città fuori di qui.

Veramente l'esser ridotti ad un sol manoscritto è uno svantag- gio, perchè i nomi di luoghi sogliono essere i più alterati; ne molto ci affida l'edizione del Michelant, alla quale venne in soccorso la sapienza di un altro grande romanista, mancato teste all'ammirazione di tutti, e all'affetto di quanti ebbero la fortuna di conoscerlo, Adolfo Mussatìa, che propose un numero grandissimo di correzioni l. Poco ci serve d'altronde la traduzione inglese, la quale è piuttosto un rifacimento, e procede alle volte con molta libertà, sia per la diversità del metro, il verso lungo con allitterazione di fronte al breve ottonario francese, sia per il pubblico tutto diverso al quale s'indirizzava, e finalmente pei gusti speciali del rifacitore, che, come bene ha arguito il Kaluza, fu un menestrello, e non un fino poeta di corte. Ma tutto sommato, le condizioni del testo non sono tali da impensierirci, perchè il ma- noscritto fu eseguito con diligenza, per lettori di alta condizione, ed è generalmente buono.

L'azione del poema è costituita dall' amore avventuroso di due giovani, Guglielmo, figlio del re di Puglia e Sicilia, e Melior, figlia dell' imperatore di Poma. Conosciutisi nella corte di Roma da fan- ciulli, si amano, ma non possono rivelare la loro passione perchè Guglielmo è un trovatello, preso nella casa di un vaccaio nei din- torni di Poma. Quando Melior richiesta dal figlio dell'imperatore greco sta per esser condotta all'altare, gli amanti fuggono, e dopo un lungo e pericoloso cammino si ricoverano nella reggia di Palermo : quivi avviene il riconoscimento e si adempie la loro felicità. Ma accanto al giovine protagonista vi è un altro personaggio assai importante, dal quale proviene il meraviglioso e lo straordinario di questa storia.

1 Zeitschrift fiir romanische Philoloyie, III, 244 (su cui v. G. Paris , in Ro- mania, Vili, 627).

PARTE li. IL GUILLAUME DE PALERXE. 2o9'

Esso è un giovine principe spaglinolo in figura di lupo, così trasfor- mato dalla matrigna per assicurare il trono al figliuolo suo proprio. Il lupomannaro rapisce da Palermo il fanciullo Guglielmo, il quale sta per perire vittima di un pretendente; il lupomannaro lo trasporta nelle vicinanze di Roma, e dopo alcuni anni guida l'Imperatore presso la casa del vaccaio che lo aveva ricolto e lo allevava affettuosamente; il lupomannaro scorge e soccorre gli amanti quando coperti di pelli d'orso son fuggiti da Roma, e li conduce a salvamento in Palermo, dopo molti rischi. La soluzione avviene così, che essendo allora Pa- lermo assediata dal re di Spagna per ira contro la vedova regina di Sicilia che non aveva voluto dare la figliuola in isposa a suo figlio (appunto il fratello del lupomannaro), Guglielmo col suo valore straor- dinario riesce a sconfiggere il grande esercito assediante e far pri- gioniero il re e il tìglio; e quando il lupo, venuto innanzi alla corte tutta radunata , tra lo stupore degli astanti inchina umanamente il proprio padre, questi si ricorda delle voci sentite, che accusavano la sua seconda moglie di aver trasformato in lupo il figliastro, e manda messaggi in lspagna a chiamarla ; onde la regina fattucchiera viene in Palermo a restituire la fiera nelle sue forme umane. Allora avvengono, con grandi feste, tre matrimoni in Palermo, alla presenza dell'impe- ratore di Roma e dello stesso principe di Costantinopoli, cioè quello di Guglielmo con Melior, della principessa siciliana col principe Al- fonso, già lupomannaro, e finalmente di Alessandrina, cugina e confi- dente di Melior, con 1' altro principe spaglinolo. Alla morte dell'Im- peratore di Roma, Guglielmo diventa imperatore in suo luogo, e riu- nisce così all'Impero il regno di Puglia e di Sicilia.

Il tessuto principale del racconto evidentemente è di modello bi- zantino, che una serie di romanzi sul tipo di Floire et Blanchefleur, ed anche episodii di poemi, come nel Duurel et Beton , si aggirano intorno alle avventure di amanti cresciuti insieme dalla tenera età, tutt'e due di origine regale, o quasi, ben nota in uno, ignota nell'altro, che l'uno o l'altro tenesse ufficio di valletto o di an- cella. Dicevasi che il lupomannaro, o loup garou, fosse di origine cel- tica 4; secondo il Littré e il Paris la nostra storia sembra anzi aver fondamento sopra due lais, il Bisclavaret di Marie de France, e il Melion di ignoto autore, tutt'e due di fondo celtico, nei (piali il ga- rou ha parte principale 2. Sennonché questa è molto diversa dalla

1 Non di questa origine, noti ammessa ormai dai più, ma dei rapporti del lupo- mannaro con la demonologia tocca Alfred Maury, Croyances et Legende* du Moyin Age, iiouv. ed. Paris, 1896, p. 249. Non mi è riuscito di vedere W. Hertz, Der Werwolf, 1862.

2 É. Littré in Histoire littéraire de la France, XXII, 829 sgg. ; G. Paris, La littérature francaise au Moyen Age, 2e ed., Paris, Hachette, 1890, p. 107 67).

260 N. ZINGARKI.1,1. PAHTK II.

parte elio fa nel nostro poema, dove eompie l'ufficio dei pirati nelle favole bizantine; epperò dobbiamo confessare che il nucleo originario della invenzione del Guillaume per ciò che spetta al lupomannaro ci è ignoto. Quanto alla trasformazione di un essere umano in fiera, per forza demoniaca, è troppo ovvia nelle antiche e nelle moderne leg- gende, rimontando ai poemi indiani assai prima che n\Y Asino d'Oro di Apuleio, ed essendone pieni i romanzi francesi, sino al Jaufre provenzale. Non sarà sfuggito a nessuno che l'invenzione del fanciullo salvato per le cure di un lupo e accolto in casa di un vaccaio è molto somigliante alla leggenda dei fondatori di Koma salvati da una lupa e accolti dal pastore Faustolo. Resta il travestimento degli amanti prima in orsi, poi in cervi, ma credo che non sieno diffìcili i raffronti, sebbene io non sappia ora ricordarmene. A questi elementi che formano l'ossa- tura del racconto vanno aggiunti quelli che ne costituiscono lo spirito, e derivano dalla letteratura stessa in cui è sorto il poema. L'amore dei due giovani principi si esprime perfettamente nelle forme che usa- vano i poeti lirici del tempo, trobadors e trouvères, starei per dire Folchetto di Marsiglia e Amerigo di Pegugliano da una parte, Gautier d'Espinaua e Tebaldo di Navarra dall'altra : i soliloquii degl'innamo- rati, che accusano il cuore e gli occhi, la descrizione dei contrarli affetti che provano, le immagini usate a rappresentarne lo stato (più frequente quella della nave tra i flutti *), e finalmente la purità della relazione tra Guglielmo e Melior si collegano immediatamente con la poesia dell' amore cortigiano, e, in ispecie, dell' amore fino. E questo poema è veramente sorto in una corte molto vicina, per luogo e per persone, a quella di Maria di Champagne, dove furono prima accolti i poeti dell'amore cortigiano nella Francia settentrionale, e quel Chre- stien de Troyes, con i cui romanzi cavallereschi ha molte relazioni il nostro poema in questo rispetto 2. Oltre all'amore vi sono le anni: e la descrizione delle imprese guerresche, una dell'Imperatore di Roma contro il ribelle duca di Sassonia, l'altra sotto le mura di Palermo, è fatta nel modo e nelle forme delle chansons de geste, persino nelle parole e nelle immagini. Per darne un saggio, rarissime e brevi sono queste, proprio come nel Roland-, così a v. 2088 sg. :

Aussi le vont Saisne fuiant Com l'aloe fait l'esprevier;

e a v. 6497 sg. (cfr. Ch. d. Boi, v. 1874 sg.) :

Et aqueudre ses anemia Coinme li faus fait les pertris.

1 Cfr. il mio opuscolo Lanate del Petrarca per nozze D'Alìa-Pitrè, Palermo, 1904.

2 Cfr. H. Suchier u. A. Birch Hirschfeld, Geschichte der franziisischen Litteratur, Leipzig u. Wien, 1900, p. 155.

Parte il. il Guillaume nti palkrxe. 261

Una mossa epica è nella descrizione dei suoni delle trombe, v. 0407 sgg. :

Souent cil cors et ces araines; anatre grans lieues tot plaines En puet ou bien la noise oir;

che rammentano, p. es., Chamon de Roland v. 1004 sg., e 1454 sg. E ritroviamo le descrizioni di battaglie, i sogni profetici, di combattimenti di animali, perfettamente come nelle chansons. L'Imperatore di Roma vecchio, savio, con barba fiorita (v. 3477 sgg.) è immagine di Carlo Magno; Guglielmo che col suo valore fa cambiare inaspettatamente la sorte delle armi ricorda un motivo costante dell'epica, da Tristano a Ogieri sino al tardo Huon Chapet. Un nome tolto ai romanzi cavalle- reschi è quello di Meliadus, guerriero spaglinolo in cui l'invasore Al- fonso aveva riposto le ultime speranze. Il destriero di Guglielmo, Brun- saudebruel, ha intelligenza umana non altrimenti degli epici Veil- lantif e Baiart e Marchegai. E superfluo mi pare ormai addurre altre prove. Ma questi elementi dell'epopea eroica esistono pur essi in an- teriori romanzi di avventure amorose, sicché il nostro poeta non è l'inventore del genere; e persino il nome di Melior deriva dalla fata del Partenopeus; per la qua! cosa il tipo prevalente del poema è del romanzo amoroso. Ma di queste relazioni io qui non mi occupo, e mi è parso di doverle solo accennare in grazia del mio assunto principale. Il carattere favoloso di questo racconto ci deve predisporre a non dar nessuna importanza agli accenni di luoghi e di persone, che servono soltanto a porgere un'apparenza di verità , ma dalla verità sono ben distanti. Un imperatore di Roma col nome di Xatanel ' non è esistito nei tempi moderni ne negli antichi; ne altri, di altro nome, ha dato la figliuola in moglie al re di Puglia e Sicilia. L'imperatore greco è chiamato Patrichidon, suo figlio, il prin- cipe ereditario, Laertenidon, e sono due nomi perfettamente ignoti

1 II Michelant, p. VII, dice, per distrazione, l'imperatore greco, e Io chia- ma Nataniax; ma questa forma, che si trova al v. :!478 e qualche altra volta, e puramente grafica per Natlianiaus, v. 8847: e poiché le sta accanto Xafhaniel, v. 3512, Xatlianael, v. 1191, siamo nel caso di dnmosiax, biax, ostiax, jorrueiax, mor- niax, piax, tonniax, mangonniax, boiax per damoheln, beh, fresteh , osteU . jovenceU, morsel*, peU, tonnels, mangannelx, boicls, quasi tutte coesistenti nel poema, e risa- lenti ad -elio. Manca nella traduzione inglese: il Kaluza. 1. e. p. 247, dice Natha- niel, dopo aver trascritto Xathaniaus. Pare che il poeta l'abbia pescato nei libri sacri , Nathanael dei Sumeri e dell' Evangelo di Giovanni ; e vi avranno contri- buito i Manuel greci.

262 N. /INGABELLI. PARTE II.

alla storia *. Un re di Puglia e Sicilia chiamato Embron, la moglie Felice, figliuola dell' imperatore di Costantinopoli, non appartengono meglio alla realtà ; e così la loro figliuola Fiorenza (Florence, e al- trove Florete che potrebb' essere un errore di lettura) 2. Anche la geografìa è oltraggiata; e vediamo la foresta delle Ardenne, Ardaine, ad una lega da Eoma ; in Ispagna una immaginaria città Carmans capitale del regno di Castiglia. Ma considerando altri fatti, s'intende che il poeta non se ne dava il minimo pensiero; e dove avrebbe po- tuto con lievissima fatica riuscir preciso e schivar la taccia d' igno- rante, egli si è creduto molto superiore a queste miserie, contento del suo racconto e dell'interesse che avrebbe suscitato nel pubblico, ben noto a lui. Pubblico di dame e donzelle, avido del nuovo e dello straordinario, ma specialmente proclive alle scene sentimentali. Fa meraviglia, per esempio, che da Roma a Costantinopoli, e da Palermo alla Spagna si vada a cavallo; e se il chcvaucher dovesse lasciarci in dubbio, ecco i palafreni, v. 2913, i bei muls ambimi 8, y. 7427, che ne manifestano l' ignoranza del gran mare che separa questi paesi. Eppure una bella volta si parla di navi con le quali l'esercito greco viene in Sicilia e lo spagnuolo ritorna in patria! Il poeta sapeva adunque come stesse la cosa, ina non se ne dava nessun pensiero, e si regolava secondo la situazione e gli effetti poetici. Così dove si tratta di poche persone da mettere in viaggio, parla di palafreni e muli, senza perdersi a dire fin dove fosse loro concesso di usarne; dove invece di eserciti, si ricorda del mare e fa sfilare il naviglio. E anche in una delle redazioni del Moniage Guillaume che si nomina seconda, e dove il Cloetta in un episodio ha veduto i ruderi di un poe- ma della conquista normanna in Sicilia (specialmente per la somiglianza dell'appellativo di Fierebrace dato a Guglielmo d'Orange con quello di Ferreabrachia del Guglielmo Bracciodiferro), si parla di Palermo, di un assedio della città, di gente che va e viene a cavallo, passando montagne e paesi, da e verso la Francia, mentre da parecchi luoghi risulta ben nota la posizione marittima della città, e l' isola stessa.

i Veramente il principe è Liheutenidus al v. 3362; ma aveudosi Larienidus, 8947, in funzione di soggetto, e due altre volte Lacrtenidon, 8600 e 8710, di obli- quo, e da ritenere che la prima forma derivi da una g-atia Laherteiiidus non bene interpretata. Il Mussarla, 1. e., lo chiama sempre Partenidou; ma questo è il no- me datogli dal rifacitore inglese.

2 Per verità, uua volta la figliuola di Michele Comneno fu fidanzata al re Guglielmo II, ma non se ne fece nulla, perchè fu poi perfidamente negata. An- che Embron sente di biblico; e nel poema inglese è Ebrouns , la figliuola Flo- rence.

PARTE II. ir. GUILLAUME DE PALERNE. 263

In generale, tutte queste opere romanzesche, comprese le chansons de geste, si segnalano per l'arruffio geografico, che non può meravi- gliare anche in quelle scritte per un pubblico più colto. Qui, nel no- stro romanzo, è possibile vivere in una pelle di orso per tanto tem- po, e a due cervi e a un lupo rimanere inosservati in una barca na- scosti nelle botti; un esercito di ventimila uomini forma dieci schiere di duemila più una di tremila, v. 6050; una volta son sette anni e [>iù che Guglielmo passa nella casa del vaccaio, v. 407(5, 9398; un'altra invece sessanta mesi, v. 5913 ; e si può creare anche un regno di Guascogna, v. 7268, che per un Francese non è poi un paese del- l'Estremo Oriente! Queste inconseguenze, inverosimiglianze e simili servono pure a qualche cosa, ad avvolgere cioè il racconto di pru- denti nebbie, e qui veramente vi è l'ingenuità della novellina popolare, dove non resta allo spirito altro moto che di seguire storie d'affetti innocenti o d'imprese valorose, e assorbirsi in esse.

Eppure in questo poema non è tutto un pasticcio di topografia e di storia; vi è del vero e del reale, di un doppio ordine, uno, per dir cosi, attuale, 1' altro ideale, che rispecchia le credenze e le idee del poeta e dei contemporanei. Queste bricciche di verità noi verremo sceverando tra il molto vago e fantastico.

Non è da mettere in conto Roma, perchè il solo accenno deter- minato, parlandosi di questa città, è, nientemeno, la chiesa di S. Pietro. La regione italiana non è mai designata con un nome solo; ma in modo tutto congruo all'uso volgare del tempo, essa è formata di due parti, Lombardia e Puglia; la Lombardia arriva sino a Benevento, e comprende perciò la Toscana e Poma; la Puglia comincia subito dopo e comprende l'Italia Meridionale e. nel suo ampio significato politico, anche la Si- cilia (cfr. insieme i vv. L'Ili, 3SS0, 4855 sgg., 8800; Lombardie contrap- posta ad Alemaigne v. 1935); ma il re si chiama di Puglia e di Sicilia, come fu dal 1130 con Ruggiero II. L'impero di Roma è detto anche d'Alemagna, e comprende non più che Alemanni e Lombardi, ha so- vranità sid ducato o regno di Sassonia, senza che si sappia in (piali rapporti stia con la Francia, non mai nominata. F noto al poeta che Benevento apparteneva alla Chiesa , ma vuole che la giurisdi- zione suprema, la souveraine justiee , fosse dell' Imperatore. Questi e il Pontefice vivono insieme in Poma in buonissimo accordo, e l' Im- peratore Xatanel è addirittura nativo di Poma, v. 0013. 1/ impera- tore greco è considerato pari in potenza e ricchezza : anzi egli so- spettando che Melior sin l'uggita con l'assenso del padre, sentire una fiera minaccia al collega di Poma . il (piale non protesta . v, 3710 sgg. :

264 *f. ZIXGARELLI.

Mais por celai qui me tist uestre,

Si il estoit chose senre

Con m'enst fiiit par aventure

Ceste chose par malvillanee,

Mar ariés en ìuoi fianco,

Que taut coni vos vivrés mais

Ne vos cbarroit del col cil fais.

L'impero greco è chiamato anche Roumenie, v. 8037 ecc., e così Roumains i Greci al pari degli abitanti di Roma, vv. 774, 0345; ma di solito i Greci sono Grijois e Griffon. Benevento ha 1' aspetto di una grande città, veduta da lontano, vv. 3882 sgg., con torri, mura, e porte; ma nessuna menzione dei fiumi che la bagnano, perchè les eres et leu pescheries del v. 3885 alludono a fontane e laghetti arti- ficiali. All'intorno ha colline e cave di pietre, e a destra, a due leghe e mezza, una foresta. Ma tutto ciò non sorpassa la semplice imma- ginazione : la città, già sede di un potente ducato longobardo, era celebre, oltre che per i suoi studi, specialmente perchè dominio della Chiesa; incuneata quasi al confine della Puglia, pareva un continuo monito ai re che volessero affrancarsi dalla signoria dei Pontefici; qual- che volta questi vi si erano rifugiati, come Alessandro III nelle osti- lità col Barbarossa; era una tappa necessaria ai grandi personaggi che si recavano dal Reame verso il Nord e viceversa. Anche nel Girart de Roussillon Benevento è il luogo dove re Carlo Martello coi cava- lieri attende , quasi a mezza strada tra la Francia e la Grecia , la sposa che viene dalla paterna Bizanzio. Il nostro poeta conosce sol- tanto che tra la Puglia e la Lombardia vi è questa città; e nessun'altra egli nomina narrando il viaggio degli amanti da Roma sino alla punta estrema della penisola. Conosce bensì Reggio , e di qui è più abbon- dante di notizie; v. 4502 sgg. :

Et voient la cité de Rise Qui sor le Far estoit assise, Le port de mer et le navile Qui arrivo desous la vile.

La traversata del Faro in barca si compie tra il sorger della una e i primi bagliori dell' alba , termini piuttosto elastici. E qui bi- sogna riflettere che Rise e il Far erano notissimi così nella poesia epica, p. es. nel Loquifer, come anche nella lirica; e questi versi anzi mi richiamano facilmente un luogo della cronica poetica in cui Ani- broise descrisse il viaggio di Riccardo Cuordileone e di Filippo

PARTE II.

IL GUILLAUME DE PALERNE. 265

Augusto in Palestina, la sosta a Reggio, il passaggio del Faro e il lungo e fortunoso soggiorno in Messina :

Meschiues est une citò

Dont li autor out molt contò,

Et bien et bele assise vile,

Car eie siet el chief de Sezille,

Desus le Far, eucoste Rise,

Que Agolant prist per s'eniprise. l

Le vicende politiche della Puglia e della Sicilia e le Crociate avevan dato celebrità al Faro e alle due città che dagli opposti lidi si guardano.

Tra Messina e Palermo sono mentovati due luoghi, Sainte Marie de la Saie e Chefalus une ette"2. Della prima non ho trovato notizia; perchè una Santa Maria la Sala esiste solo nella provincia di Ve- nezia. () dunque il poeta se l'è inventata, ovvero egli conosceva in- vece e intendeva (se pure non V ha scritto davvero), Santa Maria della Scala, sobborgo a tre miglia da Messina, sede di un celebre ed antico monastero di regia fondazione alle radici del colle di San Piceio, che fu abbandonato dalle monache per la città nel 1347 3. Che sia così, pare avvalorato dal fatto che essendo provvista dell'ap- pellativo di cité la sola Cefalù, quel luogo debba essere considerato come un borgo; e la vicinanza a Messina è forse accennata nel j>o<, poco, di v. 403(5 sgg. :

Sainte Marie de la Sale

Eru poi de tans ont trespassc,

Et Chefalus, une cito.

Questi non erano luoghi famosi; sicché il poeta, senza esservi stato, ne ebbe conoscenza, forse da racconti di crociati o di pelle- grini o di mercanti, forse da relazioni scritte (ed egli frequentava una corte fiamminga cui non era ignota la Sicilia), assai diversa da quella che ha dimostrata per Poma e la Spagna. Se vi fosse stato realmente, non si sarebbe limitato a così poco, e avrebbe fatto più sfoggio.

Palermo è assediata : quando gli amanti vi arrivano, vedono perciò

1 Pertz, Mon. Gemi. Hist. XXVII , 5o5. Neil' ultimo verso si allude alla Chanson d'Axprimont.

2 I nomi di questi luoghi mancano nel poema inglese, cfr. Kai.uza, 1. e. pa- gina 24l>.

3 Vito Amico , Dizionario topografico della Sicilia . ediz. di Gioac. Di Marzo, Palermo, 1856, voi. II, p. 44.

266 N. ZINOAREUJ. PARTE II.

qualche cosa d' insolito , le opere di difesa sulle mura, batti fredi e bertesche, oltre ai grandi campanili, alle torri grandi e piccole, alle splendide case private, sulle quali giganteggia il palazzo reale con l'alta torre, e l'aquila d'oro rilucente, sicché si prova la doppia im- pressione di una città forte e magnifica; vv. 4(>41 sgg. :

Taut ont erre les mnrs en "voient Et les bretescbes qui verdoient, Les baus clochiers et les berfrois, Les riches sales as borgois, Les bretescbes et les donjons, Les enseignes et les penons Dont li mur sont envirouné Tot environ a la cité. Bien samble vile deffensable Et por veoir miilt delitable. Le palais voient priucipal Et sor le maistre tor roial, Ou li riches tresors estoit, L'aigle d'or fin qui relnsoit.

L' aquila d'oro sarebbe un indizio quasi decisivo, perchè un vi- sitatore, meglio che altri, avrebbe saputo che l'arine della città e dei suoi Re fosse appunto un'aquila. Sennonché, ecco, poco dopo, la tenda reale nell'accampamento spaglinolo con l'aquila d'oro sulla cima; e già sulle mura di Benevento si vedeva la stessa insegna. Per il poeta era adunque generalmente 1' emblema della regalità ; e quell' indizio non ha importanza. I nemici tengono assediata la città solo dalla parte di terra; il loro campo si stende nella campagna, e il padiglione reale sta su di una collina lungo un querceto ; il mare è perfetta- mente libero, popolato di navi :

Voient la mer desos la vile, Le riche port et la navile.

Quando 1' esercito nemico sarà ridotto a mal partito, dispererà dello scampo essendo chiuso dal mare, v. 0938. E questa è un'altra ingenuità del nostro poeta, il quale non pensò sicuramente che l'as- sedio di una città marittima è perfettamente inutile quando le si lascia libero il mare. È vero che come tutte le città marittime del Medio Evo, anche Palermo assicurava il suo porto con lo stendere una catena tra due punte di terra; ma questo non avrebbe impedito a lungo i tentativi delle navi nemiche. Pare che il poeta non sappia

PARTE II. IX GUII.I.ACME DE CALERNE. 267

mai nulla di mare; e per verità le sue chansons de geste gli davano i modelli di bei combattimenti di cavalieri vestiti di ferro; lo stesso Moniage Guillaume descrive soltanto combattimenti campali fuori le porte di Palermo, e non si cura del mare : sicché non vi è luogo in questi poemi se non per gli elementi della tradizione poetica, senza rispetto della realtà. E così nel poema del Già , il re del Marocco arrivato con le sue navi nel porto di Valencia , ne sbarca, e fa la guerra in terraferma, senza che il mare entri più per nulla.

La reggia di Palermo sorge ad un capo della città, e accanto sta il suo grande parco popolato di molte fiere, come cervi e caprii e leopardi, che gli assedianti avevano intanto diradati. Questa indi cazione topografica corrisponde mirabilmente alla realtà : il palagio era infatti presso la cinta delle mura; e i re Normanni oltre ad un gran parco, con cinghiali e cervi e altre fiere, a Monreale, ne ave- vano uno più vicino, alla Cuba, costruito da Gugliemo II. Nondi- meno bisogna notare che anche in altre città la reggia stava presso alle mura, come in Napoli Castel Capuano; e di parchi con fiere si dilettavano tutti i sovrani, grandi e piccoli : tntt' al più, di queste magnificenze palermitane era corsa la fama molto lontano.

Come in tutte le descrizioni di battaglie, dall' Iliade alle chan- sons de gente, prima che l'eroe venga ad abbattere un pericoloso av- versario, questi uccide due o tre guerrieri insigni affinchè poi la sua morte apparisca una bella vendetta ed una grande prodezza, esal- tando e rinfrancando il lettore. Così avviene nel nostro poema, e così troviamo nominati alcuni cavalieri dell'esercito siculo -pugliese l. Uno è di Reggio, Marc de Rise, v. 5753, un altro è Casn de Cephalu, v. r>7.">7, poi un palermitano Jasan, v. 57C5; due fratelli di Brindisi, Tardans e Dolans, nomi accoppiati e omofonici come nelle chansons epiche, hanno il privilegio della gabella del porto; seguono tre per- sonaggi la cui patria mi riesce impossibile trovare, Poonciax, cioè Pavoncello, di Bisterne, v. 6593, Geraumes de Melans, v. 0590, Aqui- lani de Candis, v. 6613. Melans sarà mai una storpiatura di Milazzo f Bisterne è detta altrove fabbricatrice di drappi, perchè due volte la Regina siede sor un paile de Bisterne, vv. 7591, 7975, sopra un [tallio di Bisterna \ Non vi è altro di approssimativo che un'antica rocca di da Siculiana, Bissenza, dove i compilatori del Dizionario Topo- grafico Siciliano trovano vestige di antico edilizio e di città distrutta,

1 Nessuno di questi nomi sta nel poema inglese; cfr. Kalnza , 1. e. p. 244.

2 Veramente bei tessuti di lana e di seta a colori e con ricami si facevano in Palermo stesso, anzi nelle stanze basse della reggia, come sappiamo da l'go Falcando; cfr. la nota più oltre.

268 K. ZINGAUKI/Lt. PAKTE II.

il cui nome è incerto. C è poco da concludere, e forse è un nome inventato, o sono tutt'e tre inventati.

Della reggia di Palermo si celebra spesso una grande sala di marmo, dove si aduna un vero popolo di cavalieri e dame, sale marberine, v. 5553, sale perrine, v. 7067; e così un torrione del pa- lazzo, la maistre tor, v. 7152; inoltre lo scalone è ad archi con volte, les degrés des ars rolus, v. 5380. Si corre subito col pensiero a quella gran sala circondata da logge descritta dal cronista Ugo Falcando l. Ma la maistre tor è anche in Roma; la scala con i degrés de V are volu sta pure nella immaginaria Carmans di Spagna : questi sono caratteri generali dell' architettura contemporanea, come era nota al poeta, e non hanno nulla di locale.

Così pure sarà immaginata la descrizione di una causerà da letto della reggia, dipinta e smaltata e incastrata di gemme, v. 7843 sgg. :

Atant son verni en la chambre, Qui painte fu et faite a lambre A ricb.es pieres, a esmaus.

Nella descrizione degli addobbi per le grandi nozze, brilla un'i- dea del lusso e dello sfarzo orientale, per l'oro incastrato nelle pietre degli edilizi, per le camere dipinte, che fanno pensare alla Zisa e alla camera ancora esistente di Ruggiero II; e così pei drappi serici rica- mati con ligure di uccelli, di fiere e di personaggi, vv. 8G30 sgg. :

Atorné furent li palais Qui mult erent et bel et gent, Car tot furent li pavement De blanc liois, de marbré bis, Trestot a or ensi assis. Tot entor fu encortinés De dras de soie a or ouvrós, A oeuvres d'or et a paiutures, A maintes diverses figures D'oisiax, de bestes et de gens. Les chambres furent par dedens Paintes et bien illuminées.

E contuttociò non usciamo dalla semplice immaginazione , soc- corsa probabilmente da tradizioni orali; perchè un francese che avesse

1 Epistola ad Petrum panormitane ecclesie thesanrarium de calamitate Sicilie, in La historia o Liber de regno Sicilie, ed. d. G. 13. Siragusa , Roma, Istituto Storico Italiano, 1897, p. 177 sgg.

TARTE II.

IL GUILLAUME DE VALERNE. 269

visitata Palermo non avrebbe passato sotto silenzio tutto quello che la città aveva allora di veramente singolare e strano per lui : la speciale condizione della convivenza di musulmani, francesi e italiani, i nomi di alcuni celebrati edifizii, come lo stesso Cassaro, e che so altro. Quanto al Mane liois, di cui son fatti alcuni edilizi ed anche le scale della reggia, non è altro che una pietra dei dintorni di Pa- rigi, un calcare compatto e liscio, menzionato bene spesso in altri poemi, come il Partcnopem e il Perceforest, e di cui non esiste in italiano il nome equivalente. Le finestre di marmo del v. (>294 sono un particolare insignificante. Facile era pure immaginare che tutti i vescovi della Sicilia venissero ad assistere alle grandi nozze; il pa- triarca Alexis, e il cappellano regio Moisan sono egualmente fittizi, che anzi l' arcivescovo di Palermo non avea il titolo di patriarca; Moisan astrologo e interprete di sogni fa ricordare tuttavia quei savii arabi onorati nella corte dei Guglielmi, I e II, o accolti dal munifico e dotto Abul - Kasin. Due volte è detto che a Palermo faceva gran caldo, vv. 5836, <>2!)5; ma bisogna riflettere che occorreva al poeta di portare i suoi personaggi alla loggia a prendere il fresco perchè essi potessero guardare fuori nel parco, e vedere il lupo garou che veniva a far la riverenza.

A questo si riduce la conoscenza che della Sicilia e della sua capitale aveva il poeta di (ini Ila urne de Paterne, onde non è esatto ciò che si è asserito in proposito da più d'uno. Guardando invece le tracce lasciate nel poema dalle condizioni storiche, arriveremo a risultati più soddisfacenti. Anche qui non mancano, naturalmente, le fantasticherie : così l'elezione dell'Imperatore di Poma pare fatta col concorso di tutti i Grandi , li baron et li riche houme et les persones de Vonor (v. 1)252), invece che coi pochi Elettori. Ma ben troviamo clic i Peali di Puglia e Sicilia [tossono indifferentemente chiamarsi con l'uno e 1' altro titolo; essi non dimorano stabilmente a Palermo, ma <[iii si riducono di solito. 11 Reame non era soggetto ali1 Impe- ratore romano o d'Alegnama , e nessun accenno si fa ai suoi rap- porti con la Chiesa , sebbene il poeta sia religiosissimo. Il nome di Guglielmo ad un re di Sicilia rammenta evidentemente i due re clic lo portarono; e quello di Embron suo padre è inventato appunto per- chè nessuno dei due Guglielmi storici ha compiute le gesta attri- buite all'eroe. Il quale in battaglia, allorché invoca lo sforzo dei suoi, alza il grido di guerra Palerne ; e non so se questo corrisponda alla realtà , e sonasse nei fatti d' arme compiuti dai Siciliani, salpati da Palermo, sotto i re Normanni in Africa e in Grecia. Quando il re di Castiglia prende commiato dall' Imperatore di Poma, questi gli

270 Hf. ZIXGAUEI.LI. PARTE II.

rammenta di esser sempre pronto a soccorrerlo contro i Pagani, cioè i Saraceni suoi vicini.

In qual tempo è dunque scritto il poema ? L'autore ci ha fatto grazia di svelarci l'epoca dell'azione da lui narrata dicendo che il suo Guglielmo fu consacrato imperatore di Roma da papa Clemente, il quale pontificò tra un Gregorio ed un altro, v. 9354 sgg. :

Sacrés les a et beneis

Pape Clemens, nns apostoiles

Qui fu entre les deus Grigoires.

Abbiamo la scelta tra Clemente II, 1046-1048, che succedette a Gregorio VI, e precedette di 25 anni Gregorio VII; e Clemente III, 1187-1101, tra Gregorio Vili, 1187, e il IX, eletto nel 1227. Così la data fittizia dell'azione si complica con quella in cui fu scritto il poema. Dice il Bòhmer che 1' autore intendeva di Clemente li, e che egli scriveva quando non era venuto ancora Gregorio IX, e dopo il 1187; perchè essendosi con questo papa rinnovato il caso di un Clemente tra due Gregorii, egli non sarebbe riuscito a determinar nulla; distinse adunque il Clemente, III, dei suoi tempi dall'altro sotto il quale avvenne la sua storia, e non si preoccupò d'altro l. Il Paris oppose che 1' autore non volle determinare proprio nulla, e che mise i due Gregori a caso 2; il poema sarebbe anteriore tuttavia al 1227. Certo è infatti che negli anni di Clemente II nessun re Guglielmo aveva ancora la Sicilia ; e in quelli del III non fu consacrato nessun im- peratore. Un altro dato di tempo troviamo nella dichiarazione finale in cui il poeta benedice la contessa Jolanda la quale lo esortò a scrivere la sua opera :

Cil qui tos jors fu et sans li Sera et pardoune briement, 11 gart la contesse Yoleut La boine dame, la loial, Et il destort son cors de mal. C'est livre list diter et faire Et de latin eu roumans traile. Proions Dieu por la boine dame Qu*eu bon repos en mete Panie.

Anche qui i dispareri, ma ben presto eliminati, perchè contra- riamente all'opinione del Littré, per il quale la contessa sarebbe Jo-

1 E. Boebmer, Abfassungxzeit des G. d. I\, in liomaninche Studien III, 131.

2 liomania, VII (1878), p. 470.

PARTE II. IL GUILLAUME DE PALERNE. 271

landa di Xevers, che sposò nel 1205 Giovanni tiglio di Luigi IX, tutti accettano quella del Madden, editore del William and the Wer- wolf, trattarsi di -Iolanda figlia di Baldovino IV di Hainaut, la quale rimasta vedova di Yves conte di Soissons nel 1177 andò in seconde nozze con Ugo conte di Saint-Poi : costei era zia di Baldo- vino VI eletto nel 1204 imperatore di Costantinopoli'. Sappiamo che ella avendo ereditato da suo fratello Baldovino V nel 1198 un manoscritto della Vita Caroli Magni dello Pseudoturpino, incaricò Nicolas de Senlis di tradurlo in volgare 2 ; e ad un Baldovino, pro- babilmente il medesimo, è dedicato VExcoufie, o romanzo dello spar- viero, che nel codice precede il nostro Guillaume de Paterne, ed era anche in altri codici perduti. Non isfugga che il poeta parla della contessa Jolanda come già morta, e questa data è ignota 3.

11 termine estremo, ad. quem, posto dal Paris, del 1227 è giu- stissimo; ma possiamo spingerci oltre la fine del secolo precedente, oltre cioè il 1188, al quale si tien vicino il Suchier col Bòlmier e con loro il Cloetta. Io credo che il poema appartenga ai primi anni del regno di Federico II , quando il monarca e il papa, Innocenzo III e Ono- rio III, vivevano in perfetto accordo. Imperatore nato in Italia, quasi in Poma, fu egli solo; egli era nato appunto da una regina di Si- cilia, (piale il Guillaume della nostra favola. Parlare di imperatori romani nati in Italia quando oramai se n'era perduta la memoria, al tempo del Barbarossa o di Enrico VI, non sarebbe venuto in mente a nessuno. Dipiù . la ribellione del duca di Sassonia , che il poeta chiama ora duca ed ora re, ha il suo sostrato storico nella lotta di Ottone IV, considerato qui come un ribelle, e nella sua invasione in Italia, che le scorrerie del feudatario ribelle in Lombardia sono un episodio importante del nostro poema. Bisogna pur considerare che soltanto in quel tempo un francese avrebbe parlato dell' Impero con tanta simpatia, avendo lo stesso re di Francia soccorso potentemente il giovine Monarca a trionfare del suo avversario. La morte del duca di Sassonia, in prigione, dopo una grande battaglia, rammenta ciucila di Ottone, seguita quattro anni appena dopo la battaglia di Bouvi-

1 Cfr. Michelant, cit. préface, X sg.

2 G. Paris, La lUtérat. frati?, au M. A. cit., ^ 94.

3 Deriva veramente il poema da un testo latino, come dice l'autore ? Il Mi- chelant, p. Ili, crede si tratti di un frammento di cronica italiana, opinione impossibile, sia per l'ignoranza dei luoghi, sia per la natura dell'opera : piuttosto era, se mai, un racconto latino, cui il poeta avrebbe aggiunte illusorie determi- nazioni di tempi e di luoghi. Del resto sappiamo che cosa valgano tali dichia- razioni.

272 N. ZINOARET/LI. TARTE II.

nes del 1214 ; e ci distoglie dal pensare al dissidio tra Federico Bar- barossa ed Enrico il Leone.

Dice l'ignoto poeta clic Felice, la regina di Sicilia madre di Guil- laume, sognò ima figura umana sulla torre di Palermo, rivolta il viso verso il mare, e che a quella tanto si allungassero le braccia da toccare con la destra le mura di Roma , con la sinistra la Spagna : il savio Moisan spiegò clic la buona e infelice regina avrebbe un giorno tenuto autorità in Roma, perchè suo figlio ne sarebbe stato il Sovrano. L'immagine mi pare di quelle con le quali riesce a fer- marsi un grande avvenimento nella mente popolare : forse questa fi- gura vide anche Costanza normanna quando era chiesta in isposa per Enrico VI; e forse ella vagheggiava appunto un governo di pace e giustizia nell' Impero , dopo tante guerre , come quello che il poeta attribuisce appunto a Guillaume divenuto Emperatore (v. 95(50 sgg.), ed era celebrato per il nipote suo , che la storia chiama meritamente il Buono : « Poi mette tale pace nel regno che nessuno è così forte ed ardito da recar torto ad alcuno ; i mercatanti, i forestieri e la gente del paese vanno sicuramente, non hanno timore che si tolga loro nulla; e chi assalisse il paese, non vi metterebbe altro pegno che il proprio corpo da essere appeso, e nessuno potrebbe impedirlo. Ciascuno viene sicuramente : benedetto chi tiene tale potestà. Molto fu valente imperatore e forte e possente nell'amniinistrar la giusti- zia : esalta con ogni suo potere il bene, abbassa e fa cadere il male; piega e tiene giù gli orgogliosi, allontana da se gli adulatori e i menzogneri, giustamente; onora ed innalza i valentuomini; ama Ilio e serve la santa Chiesa ». Lodi eguali fece di Guglielmo II Riccardo da san Germano, e sono un'eco chiarissima della fama lasciata in Eu- ropa dal buon monarca 1 ; ma tuttavia è avvenuta come una crasi col personaggio di Federico II che suscitò più che speranze di un governo di giustizia e di pace. Tale era il concetto popolare dell'Impero; e non è meraviglia se per molto tempo gli fossero affezionati tanti alti spiriti del Medio Evo, specialmente coloro che, come Dante, ebbero bramosia di pace e provarono il disgusto degl'intrighi e delle violenze.

Sicché nel poema di amori e di avventure, con tutte le bizzarrie di geografia e di storia, e le fandonie , vediamo esaltate pure le idee più nobili di ({nel tempo, l'amore, il valore, la religione e la giustizia, concretata nell'impero di Roma; non di proposito, ma perchè così le sentiva l'autore, e così la società per la quale egli cantava.

1 Cfr. Fr. Torraca, II regno di Sicilia nelle opere di Dante. Palermo, 1900.

Nicola Zingarelli.

AARGARITO DI BRINDISI CONTE DI WALTA

E AMMIRAGLIO DEL RE DI SICILIA.

Xella storia degli ultimi re Normanni di Sicilia Margarite), o Mar- garitone, di Brindisi occupa un posto importante : quasi tutti gli scrit- tori e i cronisti del tempo , bizantini , italiani , tedeschi e francesi, riferiscono le imprese ond' egli salì ben presto in fama e potenza l.

L'origine di questo « re del mare », o « Xettuno », come fu detto dal continuatore francese di William de Tyr 2, è un po' controversa; la questione è stata più volte messa innanzi e risoluta in due modi diversi : vi lia chi lo crede « de genere regio Siculorum » , e chi lo ritiene invece un pirata.

Quasi tutti gli scrittori di Brindisi 3, e' hanno impreso con più amore che critica a narrarne le imprese, hanno accolto la prima so- luzione sulla fede del solo Tolomeo da Lucca 4 , vissuto in tempi e luoghi molto lontani dagli avvenimenti , onde sembra eh' egli abbia piuttosto raccolta e riferita la tradizione leggendaria che forse lungo il sec. XIII s' era venuta formando nelle Puglie. L' altra opinione, messa fuori dal La Lumia e dall'Amari, ha il inerito d'esser fondata sulla testimonianza di quasi tutti gli scrittori contemporanei, bizan- tini, italiani e tedeschi 5, che l'Amari ha esaminato in gran parte con vero acume critico.

1 Per tutte le testimonianze. Cfr. Amari, St. dei Mus. in Sicilia, III, pp. 523 a 529, 568, 607 e note. L'Amari e il La Lumia, Studi di Storia Siciliana, 3a ed. voi. I, p. 531 e seg. , hanno scritto su Margarito i migliori cenni biografici che tuttavia si conoscano.

2 Recueil des Historiens des Croisades (Bongars"» , Historiens Occidentaux , t. II, lib. XXIV, cap. 7.

3 Cfr. per tutti Ferrando Ascoli , La storia di Brindisi scritta da un marino, Rimiui, 1886, p. 79 e seg.; Rassegna Pugliese, Trani-Bari 1902, voi. XIX, nr. 11-12 pp. 343-348 Margaritus de Brundnsio » 1130 (?)-1196). Anche il napoletano Gian- none (Ist. civ. del regno di Napoli , 1865, III, p. 301, dice Marg. duca di Du- razzo e principe di Taranto.

4 Muratori , E. I. S. XI , col. 1275 all' anno 1193. A questo annalista dob- biamo pure la notizia del « rex Margaritus Epirotarum », del tutto falsa.

5 Amari, op. cit., Ili, 525 n. 3.

18

274 C. A. GARTJFI. PARTE II.

Un solo punto, a dir dello Spata l, rimarrebbe però dubbio nelle pagine forbite ed eleganti del La Luana e nelle profonde ed acute dell'Amari; e questo punto dubbio si riferirebbe ai §§ 85 e 91 della &B66aXoviv.r\g óvyyQcccp)) t^g eifre vótSQtcg za^avrijv àlùósag' ecc. di Eustazio.

Secondo l'Amari e il La Lumia non sarebbe inverosimile che Mar- garito « abbia lasciato coll'antico mestiere un soprannome datogli dap- prima , e che egli ammiraglio , e poi conte di Malta , sia lo stesso Sifanto, il corsaro ausiliario del re di Sicilia, ricordato dall'arcive- scovo Eustazio nella presa di Tessalonica ».

Per lo Spata siffatta congettura non ha alcun fondamento, perchè «Eustazio poteva sapere se. Sifanto da Brindisi fosse un suddito del re ed invece affermò che era corsaro volontariamente offertosi ai Si- ciliani, previo ingaggio convenuto; il che importa ch'era straniero ». Che Sifanto fosse di Brindisi , Eustazio poteva saperlo , ma non lo disse; che Margarite fosse d'origine pirata, 1' affermano tutti gli scrit- tori e i cronisti contemporanei; che per esser corsaro e offrire i propri servigi si dovesse necessariamente essere straniero è una mera affer- mazione dello Spata.

La questione, a mio avviso, dev'esser posta invece nei seguenti termini :

1. Eustazio nei §§ 85 e 91 col nome Sifanto, o Sifonto (come ritengo sia giusto), allude a Margarite %

2. E se allude a Margarite, si ha a credere eh' egli abbia rife- rito il soprannome col quale era comunemente inteso, o deve piuttosto ritenersi che il nomignolo siagli stato appiccicato dall' autore come fioritura rettorica ?

Mceta Choniate 2 dice che nell'espugnazione di Tessalonica per mare vi presero parte Tancredi conte di Lecce , ammiraglio del re, e. . . . Katà d-alartav 7teiQcctì)g ò KQcctiórog, ó MsyaQsCrr]g.

William de Tyr , Sicardo vescovo di Cremona e Kodolfo de Diceto affermano pure che l'impresa fu condotta da Tancredi e che in Tessa- lonica Margarito si coprì di gloria. Non v'ha dubbio quindi che Tan- credi e Margarito siano stati i principali personaggi in quelle giornate memorande, e che il « potentissimo pirata » abbia dato prove di alto valore.

1 Giuseppe Spata, / siciliani in Salonicco nell'anno 1185 , ovvero La espugna- zione di Tessalonica, narrata dall'arcivescovo Eustazio (tradotta da), Palermo, 1892, pp. XXVIII e XXIX.

2 Niceta Choniate, Isaacius Angelus, ed. Venezia, 1729, t. XXI, lib. I, p. 194.

PARTE It. MARGARITO DI BRINDISI CONTE DI MALTA. 275

Tale constatazione di fatto era necessaria per interpretare giu- stamente i passi Eustaziani. Questo dotto commentator d'Omero, ormai lo ritengono tutti , si compiace della troppo rettorica : nel suo larghis- simo discorso non nomina mai Tancredi e Margarito, in parecchi luoghi però si vede che parla di loro, e non può essere altrimenti.

Lo Spata, e credo bene, ha ravvisato Tancredi nel brano Evvov%og yÙQ rov Qrtyóg, à^iiQàg %r\v ò&jiav del § 103 l, e lo ha pure identificato con « Maurozoma » nell' indice dei nomi propri e delle cose notevoli 2, punto giovandosene nella prefazione. Egli s' è però dimenticato che il Maurozoma di cui si parla nel § 91 è pure ricordato nel § 10. Quivi, Eustazio, parlando di Davide lo stratego , IlQatóXsiov xcd rf[g ^ùv àiKoXdag àxQo&Cviov, afferma ch'era stato mandato UixsXà 6vv ys MuvQolomr] 3. Dal contesto di tutto il paragrafo si desume che colle parole « Siciliano » e « Maurozoma » s' allude a Guglielmo II e a colui cui fu affidata l'impresa di Grecia , cioè a Tancredi II. « Mau- rozoma » poi 91), si noti bene, si trovava nell'ippodromo insieme con « Sifanto », il quale prese con l'arcivescovo, onde non soppor- tasse, come gli si diceva, altri affanni , mentre di fatto lo si voleva costringere a mali peggiori ; perchè 85) Sifanto era « pirata ». E, seguendo il racconto di ciò che gli occorse, così continua : . . . . uree (lo Spata scrive : sita) y.axà ri^ijv iivcìqiov xEXsv&évtsg hxi$f[vai (^

yÙQ OV XOiOVXOV SXSÌVO TO lX7tCC()CdLOV')

Da tutti i brani riferiti a Maurozoma e a Sifanto si vede bene che Eustazio aveva un'alta idea del valore guerresco di quest' ultimo, come Xiceta Clamiate l'aveva del nsigatìig, 6 K^axiótog Margarito, e che stimava « Maurozoma » inferiore al suo alto grado nell' esercito, sebbene ne lodi la' pietà religiosa. Entrambi nel racconto Eustaziano appariscono come le persone più cospicue nell'armata di Guglielmo li. Se dunque lo Spata non ha esitato nell'identificare il Maurozoma con Tancredi, o perchè mai in Sifanto non ha voluto rinvenire Margarito ?

Xiceta Choniate, non è inutile ripetermi, dice Tancredi « ammi- raglio » e Margarito « pirata » ; Eustazio parla di Maurozoma ammi- raglio e di Sifanto pirata , non è evidente che con tali nomignoli ac- cenni a Tancredi e a Margarito ?

Pietro da Eboli , che non ha punto risparmiato Tancredi di bassi epiteti, come ad es. il confronto con Andronico , il « turpis sinica », il « facie senes, statura puellus » ecc. che illustra la miniatura , dove

1 Eustazio, op. cit. nell'ed. Spata eit., p. 170.

2 Idem, p. 252.

s Id. pp. 18, 148, 156.

276 C. A. GARUFI. PARTE II.

lo ha raffigurato come un nano dalla faccia impiastricciata , non rife- risce punto il nomignolo di Maurozoma appiccicatogli da Eustazio, e certamente non ne avrebbe perduto l'occasione se l'avesse conosciuto \ Chi studia il discorso dell' arcivescovo di Tessalonica e non ignora com'egli sia stato reputato il più dotto fra gli Scoliasti d'Omero, si persuade di leggieri che il buon prelato si compiaceva dei suoi riboboli e non tralasciava occasione per foggiare vocaboli.

Il nomignolo di Tancredi, a mio avviso, fu coniato da Eustazio sulla base di Mccvgog, o [lavQÓg, Z&fia, o Zà[irj 2, che varrebbe quasi 1' uomo dalla debole corazza , o dalla debole armatura. L' altro su Margarite, a giudicare dal vocabolo Uupévtog come è stato trascritto dal ms. di Basilea (f. 242 « e 243 & , e come è stato riprodotto dal Brockhoff e dallo Spata, non avrebbe alcun significato 3. A mio pa- rere la lezione dovrebbe correggersi in Hupóvrog , da un originario Ulcpcov 4 , che nel linguaggio marinaresco del tempo vorrebbe signi- ficare « il turbine, la tempesta », onde Margarite sarebbe per Eustazio « il pirata turbine , o tempesta ». In questa guisa interpretando , a- vremmo qualcosa che s'accorda col TteiQUTrjg ó xQoctKStog , e , si noti bene, Eustazio ne parla la prima volta 85), a proposito della ban- diera nemica eh' era stata fissata sul muro rotto di Tessalonica , da uno dei marinai valorosi e destri che navigavano nella nave di Si- fanto, mettendo d' altra parte a riscontro la valentia di quei marinari colla codardia dei soldati che dovevan custodire la città, il vigoroso e subitaneo attacco di Sifanto colla celere fuga di Davide.

È probabile che Margarite sia stato nominato ammiraglio da Gu- glielmo II, poco prima o poco dopo la vittoria navale ch'egli riportò

1 G. B. Siragusa , Le miniature che illustrauo il Carme di Pietro da Eboli nel Cod. 120 della Bib. di Berna, Roma, 1904, estr. dal «Bull. dell'Ist. St. It. » tir. 25, p. 12 ecc.; Id., Liber ad honorem Augusti di Pietro da Eboli, ecc. tavole , Ist. St. Ital., tav. V (carta 6 99) etc. Cf. pure, Guido Bigoui, Una fonte per la St. del reg. di Sic., il Carmen di Pietro da Eboli, Genova, 1901, p. 34 e seg.

2 La parola Zw^icc, nel senso di cinto dei lottatori è usata anche da Omero, 11. XXIII, 683. Il Maurozoma potrebbe anche intendersi come l'uomo « dalla nera corazza », ma tutti i brani Eustaziani pare autorizzino l'interpretazione adottata nel testo.

3 II cod. orig. pare si sia perduto. Cfr. Spata, op. cit. Prefaz. p. XI e seg. Nella coli, degli Scrittori bizantini non trovo usato da altri Cronisti o Storici Maur. Sif.

4 Du Cange, Glossarium media et inf. Graecit. alle voci ZJtcpcov e UicpavàtcoQ.

PARTE II. MARGARITO DI BRINDISI CONTE DI MALTA. 277

in Cipro, dove catturò 70 galee bizantine l ; ma nessun dato abbiamo che ce lo faccia decidere con esattezza. 11 titolo di Conte di Malta, che spunta nelle carte di lui , pare gli sia stato conceduto da Tan- credi tosto che fu re: la congettura sarebbe fondata sull'amicizia e l'attaccamento ch'egli ebbe per Tancredi , pel quale col Presule di Sa- lerno , al dir di Pietro da Eboli 2 , Matteo d'Aicllo ed altri baroni congiurò contro Enrico VI. Altro punto oscuro è la condizione della moglie di cui conosciamo soltanto il nome, Marina , per via della do- nazione ch'egli fece all'Archimandritato del S. Salvatore di Messina 3, ch'è la sola carta che di lui fin' oggi si sia conosciuta.

Nell'Italia Meridionale ho rinvenuto altri tre documenti originali di Margarite, sicché il materiale diplomatico che di lui si conserva è costituito da 1 documenti che vanno dal 1 192 al 1194 4.

1°. 1192, luglio ind. X, donazione alla chiesa di S. Nicola di Pe- ratico. Arch. di Badia di Cava dei Tirreni, Arni. L. 35, perg. orig. con suggello pendente di cera; ined. (App. 1).

2°. 1193, seti. ind. XII, donazione (col consenso della moglie Marina) del casale di Cremaste « in contrata que dicitur de Mascalo apud Siciliani iuxta tenimentum Casatabiani » al monastero di S. Sal- vatore, « quod Mandra Messane dicitur ». Pirri, Sic. Sac. II, 980 Ms. greco-lat. Bibl. Vatic. .S201 f. 10a.

3°. 1194, luglio ind. XII, donazione alla chiesa matrice di Brin- disi. Arch. Capit. di Brindisi, fase. Ili, nr. 15, perg. orig. ined. (App. II).

1°. 1194, ind. XII, per mandato del conte Margarite « Johannes de Brundusio Camerarius Policarii » dona alla chiesa di S. Nicola di Peratico una terra in Colubrario ». Arch. di Badia di Cava, perg. greche n. 80 , perg. orig. edita dal Trincherà , Syllabus etc. n. 237. Cf. Paul Marc, Begister des Byzant. und neugriech. Urie unden material

1 Amari, op. cit., p. 52o e n. 4.

2 Siragusa , Le miniature ecc. cit. p. 40; Id. tav. 42 carta 43-136 del Cod ) e 43 (carta 44-134).

3 Pirri, Sic. Sua: II. 980; Bibl. Vat. Cod. Gr. 8201, e 10a e lOb ; cit. pure in Eassegna Pugliese cit., XIX ur. 11-12 p 346.

4 Rodolfo Francioso , in Rassegna Pugliese cit. a p. 346 , cita un breve di Celestino III del 4 febbr. 1195, diretto al « nobili viro Margarita coiuite Malte», ebe si troverebbe in De Leo, Cod. dipi, Prundusinus, voi. I all'alino 1193. Secondo questo doc. Margarite avrebbe fatto edificare in Brindisi una chiesa al titolo di S. Maria del Ponte. P. Kebr, Papsturkunden in Apulien, <ius den Nadir, d. K. Gesells. d. Wiss. zu Gòttingen, Philologisch-histor. Kl., 1898, Heft. 3, pp. 252-257, non lo ricorda affatto, e a me non è stato possibile di rinvenirlo in Briudui. M' auguro che altra volta sii più fortunato.

278 6- A. (ÌARtTFI. PARTE 11.

etc, in Pian eines Corpus der Griech. UrTcunden etc. Miinchen, 1903, p. 79 nr. 7.

Un solo doc, il 4°, è redatto in greco, gli altri sono in latino, eccetto la firma, o signaculum di Margarito (come è detto in App. I) eli in greco e con nessi un po' intricati :

MccQyccQtftog Kófiqg MsXtxalog. Nel testo egli è detto sempre « Mar- garita» de Brundusio » , sicché è presumibile sia nato in Brindisi da genitori d' origine bizantina. Avvalorano la congettura il fatto che anche il nome, secondo il Du Cange , sarebbe d'origine bizantina e le donazioni, di cui tre in favore di monasteri di rito greco (S. Salva- tore di Messina e S. Nicola di Peratico) ed una per la chiesa « ma- trice » della patria sua.

Nelle tre donazioni (1, 2, 3), in cui egli è autore, la « superscriptio » è « Margaritus de Brundusio dei et regia gratia Comes Malte et victo- riosus Begij stolij amiratus »; il formulario del testo è tal quale quello usato dai conti Normanni delle Puglie \

Nella pergamena di Badia di Cava si trova ancora attaccato coi fili di seta rossa un frammento del suggello pendente di cera ; fram- mento che calcolo circa un quarto dell'intero suggello di Margarito. L'estrema rarità di suggelli cerei signorili nell' Italia Meridionale ac- cresce l'importanza di quest'unico frammento , il quale è ancora più pregevole per le traccie evidenti del controsuggello. Dalla sezione della figura che si vede nella parte del suggello , è facile arguire che l'in- tera impronta (che dovea avere anche la leggenda , di cui non si ha traccia) avea forma circolare , con un diam. di 7 o 8 cm. circa. Ad un dipresso il suggello avea la medesima forma di quelli cerei del- l'imperatore Federico II, di cui il Philippi ha riprodotto alcuni esempi.

1 Mi limito a citare due soli lavori recentissimi : Giovanni Guerrieri , I Conti Normanni di Nardo e di Brindisi , estr. Ardi. St. per le Prov. Nap. , anno XXVI, fase. II. Documenti; E. Rogadeo , Gli Aleramici nell'Italia Meridionale, Trani, 1904, docc. p. 65 e seg.

MARGARITO DI BRINDISI CONTE DI MALTA.

279

Xel nostro frammento, dalla parte del suggello , si vedono il collo di un cavallo bardato e lo scudo che ha per insegna un'aquila colle ali aperte. 11 suggello, non v'ha dubbio si può classificare come ap- partenente al tipo equestre l; e si può stabilire che Margarite come emblema assunse V aquila. Il controsuggello , che costituisce, ripeto, una vera rarità, ha per impronta l'aquila, in proporzioni più grandi,

Fisi. 19.

a cui mancano però la testa e V ala destra. L' aquila è quasi simile a quella che Avignon nei principii del XIII sec. adottò nei contro- suggelli 2.

Coll'aquila assunta come emblema Margarito voleva forse simbo- leggiare la sua potenza; a noi, alla distanza di parecchi secoli, l'aquila apparisce come il simbolo della resurrezione, dopo il perdono dei pec- cati (doc. 1 e 2) , o dei delitti (doe. 3); perdono al quale egli ha di- ritto per l'aiuto prestato agli ultimi re di Sicilia e per la fine mise- randa a cui lo dannò Arrigo VI , facendolo accecare e mandandolo prigione in Germania.

1 Adotto la classificazione del Lecoy de la Marche, perchè lo stato frammen- tario del suggello non permette di assegnarlo con sicurezza alla 2n o alla 4a classe della divisione dello Schlumberger, Sigillographie de l'empire bizantine, Paris, 1884f pp. 11-12.

2 Lecoy de la Marche cit., Lex Sctaux, Paris, 1889, p. 224,

280 C A. GAROTt. PARTE il.

I.

Luglio 1192 iud. Xa ».

Margarito conte di Malta e ammiraglio di Sicilia fa alcune donazioni alla chiesa di S. Nicola di Peratico Colubrario in Basilicata 2. Archivio di Badia di Cava dei Tirreni, Arm. L 35, perg. orig. con sug- gello di cera pendente. Inedita.

MuQyuQr[tos Kófiyjg MsXitalog,

«!» In nomine Dei eterni et Saluatoris nostri Jhesu Christi amen. Anno ab incarnatione eiusdetn Millesimo Centesimo nonagesimo secuudo \ mense Julij decime indictiouis Ecclesiarum iura protegere et eis benigniter subuenire equi- tati conueniens est / et rationi consonans. Inter cetera quidem beneficia fauo- rabilius est ipsorum beneficium a quibus exordiuru regenerationis / nostre re- cipimus. Ea propter nos Margaritus de Brundusio Dei et regia gratia comes Malte et uictoriosus Begij / stolij amiratus - considerautes et animo nostro iu- giter reuolueutes quantum salubre sit ecclesiis beneficium exibere, ex in \ nata nobis benignitate 3 intuitu etiam pietatis et misericordie et prò remissione peccatorum meorum et prò animabus / patris et matris mee - damus et conce- dimus ecclesie beati Nicolai de paradelli quandam peciam terre de nostro dema - / nio. que terra fuit quondam Nicolai Pinne - quatinus terram ipsam libera et siue aliquo seruicio de cetero habeat / possideat et usufructum eiusdem recipiat sine quolibet nostri et successorum nostrorum exactione seu contra- rietate. quam inde tibi uenerabili Nilo 4 et successoribus tuis nos et succes- sores nostri facere uel inferre possimus. Terre / nero flnes hij sunt. Ab oriente est uallis calcenari. ab occidente terra Girardi Papisafri. a parte boree / terra quam tenebat Ugonius de Naueata a parte meridiei terra filiorum Basilii Coci. Ad Imi iis autem donationem, ac perpetuam concessionem nostrum presens

1 Nel Catalogo si trova la pergamena indicata : giugno 1192.

2 Secondo il Guillaume, Essai histor. sur l'Abbaye de Cava eie, Cava dei Tir- reni, 1877, p. LXXXVI, l'abbazia di rito greco di S. Nicola di Peratico sarebbe stati fondata nel 1117 e sarebbe passatu alla dipendenza della badia di Cava nel 1197 per la donazione di Alberada castellana di Colubrario. Di questo Monastero greco si conservano nell'Arch. di Badia di Cava 7 docc. (Pergamene greche nr. 21, 26, 34, 83, 84, 86); cfr. Trincherà, Syllab. graee. memb., docc. ur. 81, 84,94, 110, 228, 231, 237; Paul Marc, op. cit., p. 79.

3 sic.

4 Di questo abbate Nifo si hanno notizie nelle perg. greche cit. nr. 83 84 di Badia di Cava,

Parte il. maugariTo di brindisi conte di malta. 281

scriptum per manus Iobannis de Policaro notarii nostri scribi et nostro signa- culo superius im - / presso et bulla nostra fecimus insigniri. Anno mense et indictione pretitulatis.

Segue disegnata una mano con tutto l'avambraccio.

Locus *f* sigilli cerei.

II.

Luglio 1194 ind. XIIa

Margarito conte di Malta e ammiraglio di Sicilia dona alla cattedrale di Brin- disi tre case con terre, poste verso il porto di S. Giacomo. Arch. Capitolare di Brindisi, fase. Ili, nr. 15, perg. orig. Inedita.

-•!♦ Anno salutifere incarnationis domini nostri Ibesu Cbristi. Millesimo Centesimo nonagesimo quarto Anno primo Regni domini nostri Guillelmi dei gratia. precellentissimi Regis Sicilie. Ducatus Apulie et priucipatus capue, mense Iulij indictione duodecima. Ego Margaritus de Brundusio dei et Regia gratia Comes Malte et Regij uictoriosi stolij amiratus ac domini Regis fami- liaris. Pro remedio animavum patria et rnatris mee et salute mea. atque suoniti], necnon et meorum delictorum remissione, corani Iudicibus Bruudusii et aliis probis bominibus. testibus subnotatis offero et per fustem ac per boc presens scriptum trado Deo et saucte brundusine matrici ecclesie in manibus tuia do- mine. Petre ipsius ecclesie uenerabilis Arcbie piscope. tres domunculas quas babeo in portu sancii Iacobi cum tota terra uacua eis adiacente in parte orien- tali. Quas quidem domunculas et pie- dictam terram. simul cum aliis domibus in eodem loco existentibus quas dedi ipsi brundusine matrici ecclesie, emi a filiis notarii Iobannoccari de Mate-/ra. Quibus domibus adbetent (sic) ipse domuncule et predicta terra ex parte australi, uidelicet inter domos predictas et menam (sic) aque pluvialis. Et boc quidem modo ut/deinceps ipse tres domuncule cum predicta terra iu potestate sint et domiuatione ipsius ecclesie ad babendum perpetuo et possidendum. et uelle suum exinde faciendum sine omnia mea meorumque beredum contradictione et requisitione. Unde uoluu- tariam guadiam dedi tibi predicto domino Arcbiepiscopo uiee ipsius matrieis ecclesie recipienti et me ipsum fìdeiussorem posui. ut Ego et mei beredes banc oblatiouem et tradicionem. semper firniam et ratam babeanius. nec allo adueuienti tempore ' eam corrumpere uel euacuare minuere. seu reuocare per nos aut per alios a uobis solo submissas. allo modo teuiptemus. Quod uero contra que predicta snnt fece- rimus. et per legem nel cautionem predictam ecclesiali] inde misimus. obligo me et nieos beredes eidem ecclesie aureos Regales quiuquaginta componere / et Curie totidem. et ad predicta invitos

282 C. A. tìARUFI. PARTE It.

manere. Ad posterorum itaque memoriam. et ipsius ecclesie ac successorum eius perpetuala securitatem atque defen- / sionem. fecimus inde fieri sibi hoc scriptum. Quod et scribere iussimus Benedictum reginm 1 et publicura Brun- dusii notarium. qui interfuit. mense /et indictione pretitulatis.

MaQyccQfjTog Kó^iì]g Mslvxalog.

••£■ Regalia Iudex Brundusiuorum miles Willelmi subscripsi. *£♦ Ysaac brundusinorum Kégalis iudex. : •»£♦• Regius bruudusiuorum Saraceuus iudex -'.- •»$» Paulus Regulis iudex brundusiuorum.

Lucii8 *|* sigilli cerei (?)

1 Per il periodo di Guglielmo III non si ha alotiua Cancelleria retrnlurmente costituita; come Notti ri regi si conoscevano Sanso o Sanson e Massiminiano di Brindisi che furou pure notavi di Tancredi re. Cf. Garufi , I (lave. ined. <leW cp. norm. in Sicilia. I, 257 e 268 ; Kehr. A. K. , Die Urkanden der Xoriiianiiùch.-Sio. Kònige eie. Iunsbruck, 1902, pp. 63, 64. Possono aggiungersi: Nicola, Dona- zione dell'Ammiraglio Eugenio alla Chiesa di Patti, 1194, maggio ind. XIIa Arch. Cap. di Patti, voi. Pretensioni f. 69 ; Benedetto, che c'è dato dal nuovo documento.

Palermo.

C. A. Garufi.

IL «LIBER DE REGNO SICILIAE »

E LA STORIA DEL DIRITTO SICULO.

Le incertezze annebbiatiti fin qui la figura dello scrittore che ci lasciò il Liber regni Siciliae ' neppur da me saranno interamente dissipate e vinte : mi sembra però , dopo nuovo esame di esso, con- dotto con criterii non ancora sfruttati , di aver per le mani 2 qual- che buon elemento fin qui negletto che potrebbe meglio addurre, se non ad una precisa identificazione di lui, ad una più retta valutazione della persona morale e dell'opera sua.

Altri già ne rilevò come caratteristica l'aver cercato di collocare

1 Lasciate da parte le vecchie stampe di Gervais de Tournay, del Wechel, del Caruso, del Burmann, del Muratori e del Del Re, mi servo della pregevolis- sima edizione del Siragusa , La historia o Liber de regno Siciliae e la Epistola ad Petrum panormitane ecclesie thesaararium di Ugo Falcando , Roma 1897 con le ag- giunte La Historia o Liber de Regno Sicilie e la Epistola ad Petrum panormitane ecclesie thesaurarinm di Ugo Falcando (Lezione del codice di San Nicolò dell' Arena di Catania ora vaticano) Roma 1904. Agli appunti del Vattasso Del Codice benedettino di San Nicolò dell'Arena di Catania contenente la Historia o Liber de regno Sicilie e la Epistola ad Petrum panormitane ecclesie thesaurarinm di Ugo Falcando in Archivio muratoriano (1894) n. 2, ha risposto il Siragusa stesso nella memoria Sul codice be- nedettino di S. Nicolò dell'Arena di Catania contenente la Historia o Liber de Regno Si- cilie e la Epistola ad Petrum panormitane ecclesie thesaurarinm di Ugo Falcando, Pa- lermo 1906 difendendo l'edizione sua che qui sarà per brevità indicata con le sigle LRS. Più innanzi risulterà chiaro il perchè io ho preferita queste ad altre desunte dal nome di Falcando.

2 Per non citare degli scritti in proposito che i più importanti e i più re- centi ricordo il Siragusa, LI governo di Guglielmo I in Sicilia , Palermo 1876 e II regno di Guglielmo I in Sicilia, Palermo 1885-1886 I p. 155-165 ; lo Hartwig , Re Guglielmo I e il suo grande ammiraglio Maione da Bari, in Arch. stor. nap., Vili, fase. 3 ; lo Hillger, Das Verhaltniss des Hugo Falcandus zu Romuald von Salerno, Halle 1878; lo Schròter, Ueber die Heimath des Hugo Falcandus , Gotti ngen 1880; il Salinas in Arch. stor. sic. VI (1887^; il La Lumia. La Sicilia sotto Guglielmo il buono, Palermo 1882 p. 226 e in Storie siciliane, Palermo 1884-1S85. I; il Gabrieli in Rassegna pugliese, I, n. 4 e nel libro Un grande statista barese del secolo FUI vit- tima dell'odio feudale, Tram 1899; la Ancona, La patria di Ugo Falcando, Teramo 1902 estr. dalla Rivista abruzzese.

284 È. BE8TA. f-AKTE II.

la serie degli avvenimenti politici entro 1' ambiente sociale in cui eb- bero a svolgersi fornendo così ima messe di notizie interessantissime intorno alla costituzione del regno normanno , alle condizioni dei feu- datarii, della città, del popolo !; a me nelle sue pagine, ove è il pal- pito della vita e il fremito della passione e, a traverso lo sforzo della obbiettività, domina sempre un esuberante soggettivismo 2, è parso in più di cogliere sotto lo storico il politico e il giurista. E per ciò ap- punto, spingendomi oltre le solite osservazioni, giudicai opportuno l'in- dagare se da quelle speciali cognizioni e da quelle speciali tendenze non possa venir la risposta ad alcuna delle tante questioni che si agi- tano intorno a lui.

1. A dir schietto mi par soverchiamente immiserita la sua in- teressante figura da coloro che in lui, non certo scevro da parzialità, ravvisano niente più che il pedissequo letterato, la penna prezzolata di alcuno fra i baroni ribelli a Guglielmo I 3 : al contrario, egli non risparmiò il biasimo a quelli cui fu più largo di lodi può dirsi quindi che fosse aggiogato al carro dell'uno o dell' altro fra i proeeres.

Forse, benché incoscientemente dominato da simpatie ed anti- patie personali e chi d' altronde può sfuggire completamente al tirannico impero delle simpatie ì mosse da ragioni più alte, da ve- dute fondamentali che lo ressero nei suoi giudizii : la sua stessa acre- dine potrebbe così essere indizio della sincerità con cui, nemico giu- rato delle inutili ambage* e delle tortuose fallaciae della simulazione 4, perseguì i suoi ideali. Ma quali eran essi ?

Al Gabrieli, che pur non difettò d'acume nella calorosa apologia di Maione , sembrò « un nemico della monarchia » 5 : ma come mai potrebbe definirsi antimonarchico colui che con commossa parola pian geva la morte del giovine Ruggiero anice benignitatis ae dulcedinis

1 Capasso , Le fonti della storia delle provincie napolitane dal 568 al 1500, Na- poli 1902 p. 87; Balzani, Le cronache italiane, Milano 1898 p. 212-219.

2 Ciò è indubbiamente vero : ma dal constatar questo al far di lui un libel- lista anonimo ci corre molto !

3 In questo senso vedi sopratutto il Gabrieli op. cit. p. 5. Ne dubitò invece la Ancona op. cit. p. 42 e gi ustamente. Così, p. es., se di Roberto di Basseville il LRS. si tiene gran conto nelle prime pagine è significante la successiva trascuranza: e anche Matteo Bonello, se ebbe lodi , ebbe pur biasimo. Lo stesso è a dirsi nei riguardi di Riccardo eletto siracusano, elogiato prima e riprovato poi. Notevole il biasimo costante rivolto ai vescovi di Girgenti e di Reggio (p. 91-92) e non meno notevole l'elogio costante a Roberto di S. Giovanni.

4 Questi sono appunto i vizi che più rimprovera in Maione, in Matteo d'Aiello, nel vescovo di Girgenti, nei siciliani in generale.

5 Gabrieli, op. cit. p. 5 e 170.

PARTE II. IL « LIBER DE REGXO SICILIAE >. 285

virum appunto perchè aveva privato la Sicilia di un re che avrebbe certamente .seguite le vestigia del nonno, il glorioso fondatore della monarchia sicula i ì

Facile intelligas , scriveva egli , regnarli ni fortitiidinem ac station rirtiitent parere rei) nauti uni tantnmque regni euinslibet gloriam ampliar i non dubites quantum in principe virtutis esse eognoveris 2 : riconosceva quindi apertamente i vantaggi che il regime monarchico può apportare quando le redini dello stato sieno affidate a chi ben le sappia reg- gere. La forza e la saviezza del sovrano sono allora coefficiente po- deroso di prosperità pubblica : ma ben altrimenti suole avvenire quando il regno cada su chi è inetto e all'inettitudine accompagni il disprezzo d'ogni freno salutare nell'uso degli amplissimi poteri. Ora non la mo- narchia fu bersaglio alle critiche di colui che, sulla fede di Gervasio di Tournay , sogliamo identificare in Ugo Falcando , ma piuttosto la persona del monarca.

Il tipo del re fu per lui Ruggiero, di cui pinse con tratti maestri il più lusinghiero ritratto concludendo che, nihil qnod virtntem deceret omittens, neminem regimi aut principimi temporibus suis parem habuerat3; ma P erede della paterna podestà non pareva 1' erede della paterna virtù e colui, che a pena il padre avea creduto degno del principato, tralignava troppo dal buon ceppo paterno. Non re era, bensì tiranno, anzi atrocissimi^ tyramnus ', e contro la sua tirannide 5 lo storico si scagliò con singolare veemenza : e fremeva nello scorgere la supina quiescenza dei popoli che parevano agire perchè tyramnis quandoque non carerent ò e verso chi tentava scuotere il giogo della tirannide era indulgente purché dietro il preteso vindice della libertà comune non si agitasse lo spettro di una tirannide nuova 7. Cruccioso che nei

1 LES. p. 61.

2 LES. p. 7, liti. 13-16.

3 LES. p. 6, lin. 10-11.

4 LES. p. 33.

5 LES. p. 5, 16, 17, 84, 86, 118. Va notato che tyramnis è spesso da lui usato nel senso di inhnmanitas, di crudelitas cfr. 25, SQ, 134, 137. La tyramnis in ìioHles exercitata di p. 17 corrisponde alla nobilium perxecutio di p. 32 : in anilto i casi ti- rannide eqnirale evidentemente a durezza, o mancanza di riguardi.

6 LES. p. 58 e 61.

7 Di qui l'odio contro Maione ch'ei dipinge come un monstrnm quo nulla pestis immanior appunto perchè nulla ad regni perniciem ac subrersionem poterai efficacior inveniri (LES- p. 8). In quella sua avversione partigiana senza dubbio esagerò; bisogna però ricordare che auch'egli si inchinava al suo ingegno, alla sua facondia, alle sue eccelse doti di uomo politico , omise òi mettere in evidenza alcuni tratti che lo dovevano poi necessariamente sollevare nella opinione dei posteri.

286 E. BESTA. PARTE U.

discendenti di Ruggiero chiamati all' onore del trono fosse spenta la scintilla della sua grandezza, sperava nondimeno che, in quibusdam sopita et quasi premortila, potesse ridestarsi in altri alla memoria del- l'avita virtù e con la sua istoria volle spronarli all' emulazione del magnanimo predecessore l.

2. Ma perchè Guglielmo gli appariva tiranno ? E quale con- cetto ebbe egli della tirannide ! Per lui questa fa l'ibrido frutto d'un malaugurato connubio tra la prepotenza e l' insipienza o, la crudelitas e Yineptia nella persona d'un sovrano 2 che, nel falso concetto di far tutto da se, finiva coli' esser vittima delle arti di' pochi maneggioni i quali, avvintolo col dolce veleno delle adulazioni, lo riducevano fa- cilmente strumento passivo delle loro cupidigie , delle loro passioni. Come scernere la simulazione dalla verità , come avere conoscenza sicura e sincera delle condizioni reali dell'amministrazione e dei sad- diti senza il consiglio di più famigliari disinteressati e sereni ì Or Gu- glielmo aveva invece il torto di affidarsi, senza sospettare il tradimento sotto l'apparenza dello sviscerato ossequio, in persone singole che per dominare miravano ad isolarlo da ogni altro consigliero 3. Le maionicae artes 4 tendevano appunto a questo : e quand'anche fosse stata falsa la voce che l'ammiraglio barese avesse voluto por sul proprio capo la corona strappata al sovrano di cui costituiva il braccio destro 5, sarebbe già stato un tradimento 6 l'averlo posto in condizioni tali ch'egli da lui e dall' arcivescovo suo complice udisse regni sui negotia non qualia erant, sed qualia ìjìsì proposito suo conformàbant 7. Per la mo- narchia non era quella la via della rovina 8 ?

Il re saggio deve interpellare spesso e volontieri ad maiorum rerum examinationem le più cospicue personalità politiche del regno perchè dal dibattito delle singulorum opinione» risulti quella che è

1 LBS. p. 4.

2 LRS. p. 61. Cfr. anche p. 50 e p. 25.

3 LBS. p. 8, ceteros omnes excludens cum rege singulis diebus solus habebat collo- quium, solus regni tractabat negotia. Cfr. p. 11, 16, 24.

4 LRS. p. 105. Cfr. ritus et consuetudines admiratus a p. 82.

5 LBS. p. 47.

6 Pare però che al tradimento di Maione il nostro storico credesse davvero: al scelus MaionÌ8 accenna infatti a p. 9, 13, 30.

7 LBS. p. 11 , 1. 4-5. Alle sue falsae suggestiones o persuasiones accenna a p. 11, 13, 21.

8 Anche a Matteo d'Aiello rimproverò il nostro di voler solus regia praeditus familiaritate locum admiratus obtinere a p. 827 e pur a Gualterio arcivescovo di Pa- lermo rinfacciò di essersi avvinto il re suspetta satis familiaritate ut non tam curiam auam regem ipsum regere videretur [p. 165].

PARTE II. IL « LIBER DE REGNO SICILIAE » . 287

sostanzialmente la migliore e perchè possa così ex eis potiorem eligere l: questo avea fatto Ruggiero che, pur a testimonianza di Romualdo 2, soleva chiamare nel suo consiglio mpientes viro* diversorum ordinum ex diversis mundi partibus non sdegnando che gli strenui et praeclari viri, onde amava circondarsi, lo illuminassero con la propria autore- vole voce; ma Guglielmo, al contrario, benché neppur sotto lui la Sicilia difettasse di uomini illustri per senno e per scienza 3, nulla di loro si curava e, dietro le suggestioni di Maione, ceteros omnes excluserat singulis diebus cum eo solus liabens colloquium 4. Ruggiero era stato il provvido istitutore della curia, con Guglielmo invece lo status curie in melius reformatus pessum ivit 5 mentre la integrità e la dignità di essa 6 avrebbe pur dovuto essere al colmo delle sue cure !

Ne è solo per Guglielmo che dallo stato della curia il nostro storico abbia assunto il criterio del suo giudizio : morto Guglielmo, sotto il cancellierato di Stefano di Perche, la reggenza ebbe qualche favore da lui e 1' ebbe appunto perchè allora parve chetata la procella curie "' e questa fu di nuovo in melius reformata 8.

Mi guarderò però bene dal presentarlo per ciò come un illuminato sostenitore di principii democratici la democrazia non era dei tempi e difficilmente avrebbe avuto presa in chi apprezzava tanto la no- biltà della schiatta 9 ma devo pur chiedere se non sia arbitrario e assurdo il persistere nel raffigurarlo cieco sostenitore della oligarchia aristocratica contro le pretese tendenze democratiche di Maione. Xon la baronia per fu oggetto delle sue premure ; bensì gli increbbe vedere appartata dal re e allontanata dalla curia la parte più eletta di essa.

E tanto è vero che la curia fu al colmo dei suoi pensieri che nella sua storia volle insistere sopratutto in hiis quae circa curiam gesta sunt i0 e , in mezzo all' intricata congerie degli avvenimenti

1 LES. p. 5.

2 MM, GG. HH. Scriptores XIX p. 426.

3 LBS. p. 7.

4 LBS. p. 8.

5 LBS. p. 7 liu. 17-20.

6 LBS. p. 108.

7 LBS. p. 103 1. 18.

8 LBS. p. 114 1. 15.

9 LES. p. 7 lin. 22. Nell'appunto di parvenu che gli fece per esser figlio di un olei venditor mi pare che egli non abbia inteso di ferire tanto Maione in quanto i pugliesi in generale per cui ò ben noto ch'ei non nutriva troppa simpatia.

LBS. p. 4 lin. 24-25.

288 E. BESTA. PARTE II.

narrati, collocò sempre lo status euriae l. Il suo lavoro potrebbe de- finirsi come una storia interna di quell'organo importantissimo della costituzione normanna.

3. Essa è quindi per la storia del diritto pubblico siciliano d'importanza somma e può parer strano die finora non sia stata da quest' aspetto compulsata a dovere. Sarebbe risultata ottimo corret- tivo contro certe costruzioni arbitrarie che , affacciatesi già nel se- colo decimosettimo 2, furono svolte nel secolo successivo 3 e sotto il potente suggello della singolare autorità del Gregorio 4 si perpetua- rono poi fino a questi ultimi tempi 5.

Chi dubitò mai dopo il Gregorio che nell' amministrazione cen- trale dello stato normanno esistessero ben tre curie diversamente co- stituite distinte fra loro : l'ima di carattere feudale, la e. d. curia dei pari, composta dal fiore della baronia del regno , l'altra di carattere giudiziario, la e. d. magna curia composta di tre giudici e del maestro giustiziere; l'altra di carattere politico-amministrativo, il e. d. consiglio di stato composto dai grandi ufficii del reguo , dal gran contestabile, dal grande ammiraglio, dal cancelliere, dal siniscalco, dal gran teso- riere, dal gran giustiziere, del protonotario E quante erudite dispute non furono fatte sulle genesi loro ° ? Oggi apparirà che, se anche non sono state assolutamente inutili perchè dal dibattito delle opinioni è

1 LRS. p. 96, 119 ecc.

2 Tu tini , Discorsi de' selle ufficii ovvero de' sette grandi del regno di Napoli, Roma 1666.

3 Giannone, Istoria civile del regno di Napoli, Haia 1753 1. XI e. 6 ; Grimaldi, St. delle leggi e dei magistrati del regno di Napoli, Napoli 1774.

4 Gregorio , Opere rare edite ed inedite riguardanti la Sicilia, Palermo 1873, p. 153 sgg.

5 Palmieri , Saggio storico e politico sulla costituzione del regno di Sicilia , Lo- sanna 1847, pp. 24-25 ; Lamantia , Storia della legislazione civile e criminale di Si- cilia, Palermo 1866, Il p. 198 sgg.; Minieri-Riccio, Dei grandi ufficiali del regno di Sicilia, Napoli 1872; Del Vecchio, La legislazione di Federico II imperatore, Torino 1874 p. 116; Pertile, Storia del diritto ital., Torino 1877, II v. p. 285; Ciotti Grasso, Del diritto pubblico siciliano al tempo dei normanni , Palermo 1883 p. 39 sgg.; Cadier, Essai sur V administration du royaume de Sicile sou Charles I et Charles II d'Anjou, Paris 1891 p. 168 e sg. Un po' di scetticismo si incontra però già nel Caspar, Roger II, Innsbruck 1904.

6 II Giannone li credette derivate da una imitazione franca ; il Gregorio da una imitazione dello scacchiere normanno. Una opportuna reazione contro questi raffronti aprioristici fu promossa dall'Amari (Storia dei musulmani in Sicilia , Fi- renze 1868, III p. 322-326), ma forse accentuò un po' troppo l'inftuenza araba; cfr. ora il Garufi, SulV ordinamento amministrativo normanno in Sicilia, Firenze 1901, estr. àalì'Archiv, stor, ital, ser. V voi. XXVII,

PARTE II. IL « LIBER DE REGNO SICILIAE ». 289

pur emerso qualche cosa di buono, sono state però superflue e lo son stato proprio perchè si è discusso senza darsi prima la pena di con- statare la esistenza concreta di ciò eli' era fatto oggetto alle discus- sioni : la H istoria regni Sieiliae smentisce con non dubbia voce le inge- gnose ma fallaci costruzioni, cui solo per non averla saputa leggere taluno ha creduto di poter trovar appoggio nelle sue pagine.

In queste , tanto per cominciare , il protonotaro l non è punto messo fra le massime dignità del regno, mentre è anzi chiaramente indicata la sua dipendenza del cancelliere e non si fa punto cenno di un gran giustiziere ministro supremo di giustizia 2 bensì di più magi- stri institiani collocati sul piede d'una perfetta eguaglianza di funzioni e di diritti 3.

I sette grandi uffizi si ridurrebbero quindi in ogni caso a cinque, di cui quattro ebbero veramente una corrispondenza con gli archimi- n isteria della corte franca ove si aveva, come si sa, un Senesehalk, un Marsehall, un Kàmmerer , un Kanzler 4. Ma dobbiamo proceder oltre. Mentre in Francia il siniscalco, come sopraintendente della regia domus , ebbe precedenza sugli altri uffici, in Sicilia5 non primeggiò fra essi e rimase nell'orbita delle cariche puramente palatine. Se non m'inganno, egli fu più riguardato come un funzionario dell'ammini- strazione privata del sovrano che come un funzionario pubblico 6 : con ciò i grandi dignitarii si ristringerebbero ancora da cinque a quattro.

1 II protonotarius , che a torto fu confuso da taluno col logotheta , è egregia- mente illustrato dal Kehr, Die Urkunden d. norma nnisch-siciliscen Kònige, Innsbruck 1902 p. 50 e p. 69. A me pare che alla carica di protonotarius sia corrisposta sotto Guglielmo I quella del magister notarius [ib. p. 54-55], il quale preerat notariis e, in mancanza del cancelliere , fungeva da vice con cella rius [LRS. p. 108-109] : gli altri notarli figuravano in qualche modo come suoi serrientes.

2 II Gregorio e parecchi altri dopo lui scrissero bensì che a testimonianza del Falcando Gilberto conte di Gravina avrebbe aspirato alla carica di gran giustiziere perchè in quasi tutti gli affari principi* loco disponeret: ma il LRS. non lo dice affatto.

3 A dimostrare 1' esistenza di un gran giustiziere badisi a non addurre iti campo il doc. del 1159 (Garufi, Dipi. ined. nomi, e svevi, Palermo 1899 n. 34) dove si ricorda un Iìainaldus de Tusa magmi* iustitiarius : costui , incaricato d' una in- quisizione per la delimitazione di una divisa fu nulla più che un giustiziere pro- vinciale. Il magnus iustitiarius corrispondeva al ué'/ctg xQitfjs dei documenti greci.

4 Cfr. per tutti il Meyer, Deutsche u. franzosische Verfassungsgcschichte vom 9 bis zum 14 Jahrhundert, Leipzig 1899, II p. 317 s<j:g.

5 II LRS. p. 24, 31 ricorda come siniscalco Simone cognato a Maione.

6 Accanto al siniscalco troviamo anche in Sicilia il dapifer. Cfr. Caspar reg. 29; Garufi, Doc. nomi. p. 194; Casa, p. 316. Avevano siniscalchi auche i privati, come il conte di Gravina [Chart. cup. n. 106 e 110]: e pur di qui si ricava che il siniscalco era riguardato nulla più. che come un maggiordomo.

19

290 E. BESTA. PAKTE II.

]Se è finita.

Anche l'esistenza del gran contestabile , che nel gabinetto nor- manno sarebbe stato, per così dire, il ministro della guerra, è assai dubbia. Al di sopra dei comestàbuli , comandanti ai singoli riparti1 dell'esercito regio 2 cui davano alimento con i contingenti fendali dei vassalli delle milizie stabili stipendiate 3 , troviamo dei magistri come- stabuli che erano evidentemente ad essi preordinati 4 : ma non v'è poi notizia nell'epoca nostra di un magnns comestabulus che unificasse in se la direzione di tutte le forze di terra 5.

1 LRS. p. 70, 73, 93. È qui opportuno avvertire che accanto alla designa- zione latina di comestabulus fn usata iti Sicilia anche quella germanica di mare- scalata. Presso il Cnsa p. 32, 303, 305, 384, 385, 414, 415, 599,600, 650 leggonsi i nomi di Berardo [1141] . di Guglielmo [1153] , di Goffredo [1090] , di Rinaldo [1122], di Giovanni [1172], di Nicola [1112], ma poiché anche i privati avevano i loro comes tabuli (Giovanni Romano fu appunto comestabulus di Roberto conte di Loritello), è probabile che molti fra essi fossero marescalchi di particolari. Del marescalca» il doc. VI tra quelli pubblicati dal Cadier dice ch'egli provvedeva agli hospitiarii ed alla camera da letto del re.

2 Notevole è che il LRS. p. 73, 76, 77 dove usa la voce exercitus, non parla che delle milizie regie.

3 LRS. p. 7, 12, 13, IT, 19, 20, 29, 30, 32, 49, 64 , 65, 66, 70, 71, 73, 74, 75, 77. 90, 91, 106, 107, 125, 144, 145 = solidarii. Di stipendia si parla a p. 29 e 71. Qualche volta la voce miles indicò il cavaliere in contrapposizione al fante [LRS. p. 77 e 79]. Più spesso indicò il vassallo [LRS. 4, 37, 50, 51. 52, 63, 177]. A p. 13 si accerma ai milites che il vassallo doveva fornire prout feudum suum exigebat : di fronte ad essi egli figurava come un dominus [p. 12].

4 II TjRS. p. 69 li dice praefecti militibus e a p. 13 parla di exercitus sibi cre- ditus. Si suol dire che Roberto di Loritello fu il primo gran contestabile: ma si tratta di un errore derivante dalla frettolosa lettura del LRS. p. 13. Il comestabulus di cui quivi si parla fu invece il conte Simone di Policasfo , il quale coman- dava l'esercito di Puglia : a lui nel 1159 fu sostituito un altro contestabile. Pur Giibertus de Ballano appare investito di quella dignità in un documento del 1155 [Cod. dipi. bar. V. 112]: e nel marzo 1161 fu sollevato ad essa Riccardo de Man- dra [LRS. p. 69], e proprio contemporaneamente a lui si trova detto magister co- mestabulus il Berengario cui nel 1168 [ibid. p. 120] fu surrogato Rogerio tironeuse [ibid. p. 120]. Nel 1163 e nel 1166 [Chart. cnpers. n. 106 e n. 110 troviamo qual magnns comestabulus totius Apulie et principalus Capite Gilberto conte di Gra- vina e si disse pure magister capitaneus Apulie et principatns Capue : poiché questi due titoli doveano quindi essere equivalenti, sullo stesso piede convien porre il Simone, cognato di Maione e siniscalco che nel 1159 fu fatto Apulie ac Terre La- boris capitaneus [LRS. p. 24] e il Petrus de Castro, che a lui succedette come ca- pitaneus in Apatia nel 1155 [ibid. p. 67]. Il LRS. p. 101 sembra dire che il coDte di Gravina fu chiamato a quella carica nel 1166 : ma la locuzione non è così ca- tegorica da poterlo accusare d'anacronismo.

5 II LRS. p. 48, 85, 157 ricorda bensì anche un magister stabuli, ma parrebbe che le due cariche debbano essere distinte.

PARTE II. IL « LIRER DE REGNO SICILIAE » . 291

Lo stesso ò a dirsi nei rapporti del preteso gran tesoriere : al disopra dei camerarii provinciali ! c'erano dei magistri camerarii 2 o protocamerlenghi 3, ma la pluralità delle persone investite contempo- raneamente di quella carica esclude l'esistenza di un unico dignitario che dominasse su tutti. Che poi l'ufficio del magister camerarius non corrispondesse affatto a quello di un ministro da cui dipendesse l'am- ministrazione finanziaria risulta da ciò che talvolta il magister came- rarius cumulò col suo 1' ufficio di magister duanae 4 dando a vedere così la maggior importanza di questo : forse il primo aveva la cura del tesoro regio :' e il secondo quella dei beni fiscali in contrapposto a quelli della corona. Che poi l'uno, l'altro partecipassero di diritto alla curia è esplicitamente provato da un luogo del Liber regni Siciliae 6 che , col mostrar necessaria a tale effetto una speciale deliberazione del sovrano, basterebbe da solo a rovinare la male imbastita costru- zione che, fin dai primi tempi normanni , tendeva a raffigurare il con- sistorium regis ' come un consesso dei sette maggiori ministri del regno e la partecipazione ad esso come una conseguenza derivante ipso iure dalla nomina all'uno o all'altro di quei ministeri.

4. Ben altra importanza ebbero il grande ammiraglio e il can- celliere.

Il primo, ch'era il presta ntissimus ammiratorum 8, non fu già, come i più ripetono per distinguerlo dal preteso gran contestabile, il capo

1 Ne parlerò più innanzi.

2 Cfr. su essi il Garuti Diwan o Eehiquier; loc. cit.

3 Presso il Cusa p. 5.">5 ricordasi come 7tQOTOxau(5QiXlyyog un Peno che al- trove è detto xaufioiliyyos-

4 Così Riccardo che nel LRS. p. 109 è detto magister camerarius palacii e come tale si trova in documenti del 1166 : nel 1169 era già costituito super omnes secretos e nell'87 ebbe appunto il doppio titolo di domini regis camerarius e di magister regie donane de seoretis [Garutì. Doc. non», n. 90]. Anche il gaito Mataracio fu nel 1176 [Siracusa, Guglielmo I, I p. 193-190] sacri palacii camerarius et magister duanae.

5 II doc. VI, fra quelli editi dal Cadier, attribuisce al camerarius la custodia dei cubicula del re e della famiglia, la cura della guardaroba e della dispensa, la riscossione dei proventi spettanti alla camera speciale del re, la cura degli hospita e degli schiavi regi , la nomina degli asserii e dei thesaurarii. Notevole è che il LRS. a p. 6 distingueva i regii thesauri , sorvegliati da appositi custodes [p. 36 e 61], dalla cassa ove si raccoglievano i redditus totius regni sumptibus faeiendis.

6 LRS. p. 109: gaytns quoque Ricliardus magister camerarius palata et gaytus Alartinus , qui duane preerat , consiliis nihilominus intererant et cum familiaribus ne gotia tractabant. Si consigliavano dunque coi familiares, ma familiares non erano.

7 Senza dubbio si riferiva alla curia la voce eonsistorium usata, sulle traccie del C. I. 9, 8, 5 nell'Ass. vat. e. 18 : membri della curia furono i euriales di cui esse parlano nel e. 31.

8 Cfr. Laborantis De iustitia et iusto (ed. Siragusa), Palermo 1886, p. 3.

292 E. BESTA. PARTE II.

della flotta l, ma fu preposto a tutta la difesa del regno 2 : e in tempi in eui la difesa dai nemici esterni ed interni era precipuo interesse del governo e dello stato, fu quella 3 la maxima dignità* implicante (piasi tutta la regni cura et administratio *.

La dignità del grande ammiraglio decadde dopo 1' eccidio di Maione poiché forse contr'essa si riversò l'odio accumulato contro chi l'avea ultimamente coperta : e la maxima dignità* regni 5 diventò al- lora quella del cancelliere G, ambita anche per i ricchi emolumenti ad essa uniti 7. Egli ebbe il maximus Jwnor dopo il sovrano: e fu quasi un viceré 8.

5. Ecco ora quale era invece la curia regis secondo il Liber regni Siciliae.

11 re medesimo di suo pieno arbitrio sceglieva tra le persone di sua fiducia i membri del corpo consultivo che lo dovea coadiuvare nel disimpegno dei più gravi affari pertinenti al reggimento e alla po- litica dello stato e per questi la denominazione di familiare» 9 , pre- ferita dal LBS. , fu veramente tecnica 10 come tecnica fu 1' altra di

1 Questo notò già con molta ragione il Siracusa nel suo Guglielmo I voi. II.

2 Nel 1160 Maione saraceno» arma sua reddire coegit [LRS. p. 57].

3 Alcuni fanno incominciar la serie dei grandi ammiragli dal ben noto Cri- stodulo che portò il titolo di ammiraglio dal 1110 al 1131. Cfr. Ca«par Reg. 13, 22, 25, 38, 42, 46, 48, 52, 68. Ma Cristodulo , che solo al fine della sua carriera rivestì la dignità di protonotaro [reg. 68] ebbe il semplice titolo di admiratus e, per quanto sia stata grande la sua influenza personale, mi pare pericoloso il sol- levarlo , come capo supremo , su gli altri ammiragli suoi contemporanei Giorgio d'Antiochia [reg. 46 e 48] ed Eugenio [reg. 35 e 48]. Come ben rileva il Caspar vi fu un profondo divario tra i poteri di Cristodulo e quelli di Giorgio d'Antio- chia nei tempi in cui questi ebbe il titolo di àyiriQàg x&v &ur}Qud(av [e. 1132 reir. 74]. Or fu questi il primo grande ammiraglio ? Nel ^od. dipi. bar. V. n. 5 parrebbe par- larsi di un Nicolaus dux ducorum (sic) e se invece di dux ducorum si dovesse leggere dux ducum potrebbe ravvisarsi in lui un predecessore di Giorgio; dubito però che una tale correzione si possa fare : qnel Nicola pare lo stesso che nel doc. V. 13 si disse ducalis index nel contesto e si firmò ducis ducum index; dux ducum fu qui chia- mato lo stesso re Ruggiero.

4 LES. p. 8, 11, 19.

5 LRS. p. Ili e p. 118. Prima dipendeva anch'essa dall'ammiraglio [p. 111].

6 Cfr. Kehr. hrk. d. norm. K'òn. p. 94 e sgg.

7 Consistevano specialmente in villae e praedia concessi in beneficio al titolare dell'ufficio [LRS. p. 113]. Ma poi vi era una grande munerum affiuentia da parte di coloro che presentavano petitiones [LRS. p. 118]. Cfr. anche p. 130 lin. 20-21.

8 LRS. p. 136.

9 LRS. p. 25, 29, 48, 70, 74, 81, 87, 88, 90, 93, 97, 117, 125, 130, 139, 142. Altrove parla di familiaritas curiat [p. 102 e 105] o di familiaritas regis. Vago è il senso della parola a p. 27, 28, 34, 37, 39, 40, 47, 128.

10 Cfr. Rotn. sai. in M. G. E. Script. XIX p. 436 ; Riccardo di S. Germano, ibid. p. 323.

PARTE II. IL « I.IBER DE REGXO SICILIAE » . 293

magnate» curia l cui corrispose nei documenti greci hi designazione di ocQ%ovTeg xì]g kóqtì^ '.

I documenti attestano poi l'esistenza di un XQOTorfaiLifouQiog 3 e le sue prerogative sono torse chiarite dal Liber regni Siciliae ove si accenna a membri che nella curia erano ceteris familiaribus potestatis eminentia prelati o che preerant curie o che negotia curie post regem principe loco disponebant. Di qui si può dedurre, panni, che la presidenza della curia non spettava ipso iure all'uno o all' altro dei dignitarii di essa partecipi, ina era attribuita caso per caso dalla fiducia sovrana a chi per saggezza e prestigio meritava di essere veramente ccQycov ràv uoyóvTtùv l.

<>. Non solo del resto la composizione della curia 5 , ina anche

1 LRS. p. 47, 88, 103. 114, 118, 16:2. Codesta designazione torna anche due volte presso Riccardo salernitano e fu pure usata da Pietro De Blois. Quanto ai documenti efr. Siracusa, Guglielmo I. App. p. XXXIX e Garitta, Doc. nomi. p. 189.

2 Spata p. 180, 188, 294. 440; Cusa p. 2(5. 30. 82. 421, 513. Il LRS. p. 46 parla anche di maiores curine. La durata della familiarità* dipendevi! dal volere del re che poteva procedere quandochessia alla remotio a curia [LRS. p. 91 , 96, 102, 105]. Gli ecclesiastici in curia regi* conversante* vi stasano dai sette ai dieci anni. Cfr. Pirro, Sic. sac. I p. 622.

3 Cusa p. 80.

4 Io penso infatti che questo titolo equivalga all' altro di itnotO(puuiXi,dQiog. La precedenza di esso sull'altro di ùu.rjoag ràv àut]Qccóav sarebbe, ciò ammesso, una conferma di quanto il LRS. narra intorno all'alto prestigio della curia sotto Ruggiero II.

5 In nota mi sembra opportuno avvertire che non solo ii LRS. conobbe generica- mente la composizione della curia , ma seppe a volta a volta indicare con piena esattezza coloro che vi furono chiamati a farne parte. L' affermazione che sotto Maione quelli eh' erano già stati familiares di Ruggiero furono da Guglielmo con- dannati all'esilio o al carcere [p. 8] va interpretata in rela/.ioue a quanto si dice poi a p. 23 sulla lotta mossa dall'ammiraglio a tutti i viri forte* sibi ti me tuli; certo la curia mutò aspetto. Ugo, arcivescovo di Palermo [p. 9] e Adenolfo camerario [p. 49] vi entrarono allora per la loro amicizia con Maione. E alla morte di questo vi ebbero poi adito Enrico Aristippo , Riccardo eletto di Siracusa , il conte Sil- vestro di Marsica e Matteo d'Aiello, che in documento del 1160 appare appunto col titolo di familiari* : poi, tramontato Aristippo, vi penetrò e presto s' impose Pietro gaito e poco dopo v'entrarono Riccardo conte di Molise e Riccardo magi- ster camerarius e il Martino gaito che familiares son detti in documenti del 11(16, del 1167, del 1169, del 1176. Allora si verificò quello sciama curiae che il LRS. trat- teggia con vivissimi colori: la procella parvi però sedarsi col cancelleriato di Ste- fano di Perche che portò i curiali a dieci [p. 114] chiamando tra loro Gentile vescovo di Girgenti [p. 101] che da tanto tempo vi aspirava e accanto a quelli elio già conosciamo, Jacopo vescovo di Malta, Romualdo arcivescovo di Salerno, Rug- gero conte di Gerace , Eurico di Montecaveoso e Gualtiero decano di Mazara : di quei dieci ben sei figurano appunto come familiares del re in un documento

294 ti. besta. Parte il.

la sua competenza e il suo funzionamento trovano nel Zi&er regni Si- ciliae una esatta descrizione.

Dipendendo dalla volontà del sovrano il numero e l'indole degli affari ad essa devoluti non può naturalmente farsi una precisa e tassa- tiva enumerazione delle sue attribuzioni : ma si può ben dire generica- mente che soleva esser sottoposto al suo esame tutto ciò che si rife- riva allo status regni. Di conseguenza essa esplicava la sua azione in tutti i rami della pubblica azienda e tanta era la mole degli affari che quotidiana era la sua convocazione ' . Sede normale ne fu un pala- tiolum attiguo al palazzo reale di Palermo 2 , ma, occorrendo, seguiva il re nelle sue peregrinazioni 3.

Ad essa solevansi comunicare i dispacci e le petizioni che gior- nalmente giungevano d'ogni parte del regno 4 : il cancelliere o il pro- tonotaro ne faceva dar lettura '. E si ricevevano e si deputavano le ambasciate e di partivano gli ordini ai varii ufflcii provinciali por- tati con licterae regiae dai cursores 6, dagli hostiarii 7 e da altri dipen- denti della curia.

La quale era anche la suprema tutrice delle finanze esercitando ampio controllo sugli uftìcii cui spettava il maneggio del pubblico denaro e deliberando la misura e il modo delle pubbliche spese. Le concessioni feudali e le consecutive investiture erano disposte e fatte in suo nome che il Liber regni Sicilie potè presentarla ap- punto come dispensiera di terre e benefici 8. Quindi , come con la cancelleria, così era in stretto rapporto con la regia dohana , deposi-

rìel 1169. E nei documenti si riflette pure quel mutamento che il LRS. attesta avvenuto nello status curine poco tempo appresso essendosi eretto su gli altri cu- riali Gualtiero fatto ornai arcivescovo di Palermo, Matteo d'Aiello e Gentile ve- scovo di Girgenti. Cfr. Retar p. 86. Dopo quello che il Kehr ebbe a scrivere a questo proposito è inutile che io insista ancora sulla esattezza delle informazioni date dalla nostra cronaca.

1 LRS. p. 94.

2 Falc, Ep. p. 178.

3 Così seguì Guglielmo II in Messina nel 1166. LRS. p. 129 e nel 1172. Cfr. Gregorio, Op. p. 153 n. 3. L' illustre storico siciliano si abbandona però un po' troppo alla sua fantasia affermando, in base a quel solo documento, che « girando ancor essa e visitando il reame , le più alte giurisdizioni in grado eminente da per tutto esercitava».

* LRS. p. 17, 112.

5 LES. p. 101.

6 LRS. p. 120, 121, 130, 135, 1,8.

7 LRS. p. 62 e 153.

8 LRS, p. 120. In curia si creavano i conti (p. 108).

PARTE lì. IL « LIBER DE REGNO SICILIAE » 295

taria dei defetarii l che al tempo di Guglielmo I e nei primi anni della reggenza non si era forse ancora sdoppiata nella dohana de secretis o nella dohana baronum 2.

Alle funzioni amministrative aggiungeva infine delle funzioni giu- diziarie fungendo da alta corte di giustizia per le cause riservate al sovrano cioè per le cause criminali in reati implicanti pena capitale, tradimento, fellonia , omicidio 3 e forse anche per le cause in appello. Appunto perciò , giungendo ad essa i reclami di tutti coloro che cre- devano lesi i proprii diritti, potè sembrare ad lbn-el-Athir un diwan al maqahlin 4.

7. Convien però notare che nell'esercizio di codeste funzioni giudiziarie mutava alquanto la sua ordinaria composizione, aggiungen- dosi allora ai famiUares dei magistri iustitiarii r' che furono certamente almeno due 6. Ad essi spettava P illuminar la curia sui punti di di-

1 I famiUares esaminavano i plebeas et privilegia. Cfr. Behring, lleg. 192.

2 L'amico Garufì nel suo lavoro per tanfi riguardi notevole Sull'ordinamento amministrativo normanno in Sicilia in Arch. stor. sic. V p. 225 , ammette bensì la posteriore creazione della duana baronum . ma crede poi che già ai tempi di Gu- glielmo I esistessero due dogane distinguendo il djican al mamwr dal diwan al tahqiq al mamwr. Ma le ragioni della distinzione non sembrano a me troppo so- lide : 1' attributo al mamwr per stesso non ha contenuto sostanziale indicando solo la dignità dell'ufficio stesso con un epiteto che potrebbe equivalere al latino florens e al greco àv&àv : stento quindi a credere che il djwan al mamwr indi- casse l'ufficio del tesoro e il diican al tahqiq al mamwr l'ufficio del riscontro emi- nente su quello : esisteva un solo bureau da cui dipendevano gli altri uffici mi- nori per l'esazione dei pubblici redditi affidata spesso a musulmani [LRS. p. 57].

3 Cfr. Pirro Sic. sac. II p. 1021 (marzo 1145) : culpa sanguinis et homicidii quod spectat ad nostrum maiestatem; II p. 800 (aprile 1145) salvis regalibus nostre maie- 8tatis fellonia videlicet, traditione et homicidio: II 1046 (maggio 1141) preservare nostra maiestati... condamnationem proditionis et homicidii. Cfr. C'aspar, Roger I p. 307. E opportuno notare che queste riserve corrispondevano ad usi bizantini ; nel sigillo di Enstazio la giurisdizione è caduta ccvev cpeovov vtteqevxvusvIov] tc5i> fiaedhav... ucci ... SovXcùv àvrmv [Cod. dipi. bar. IV 32]. Nel LllS p. 43 il re osserva: etsi contra regiam maiestatem admivatum aliquid machinari consiaret ad se tamen primo referri debuisse sibique reservari vindici am.

4 In Amari , Bibl. arabo sicula Torino 1881 II p. 444. Su questo punto cfr. anche Genuardi, L'ordinamento giudiziario in Sicilia sotto la monarchia normanna e sveva, Palermo 1906, estr. dal Circolo Giuridico.

5 Cfr. LllS. p. 124 e 139. L'oiigine dei magistri iustitiarii è sempre oscura. A me parrebbe tuttavia possibile di ravvisare i primordii di qnell' istituto nel fatto che nel 1135 Ruggero II, eleggendo a suo vicedominus Gancellino , ut omnibus in j uste patientibus exhiberetur iustitia electo [capuano] simul que magnato cuidam qui vocabatur Haimon de Argencia imposuit. Cfr. Aless. Teìes. , Chron. Ili e. 31 e in- torno a quel ragguaglio, con idee diverse dalle mie, il Caspar op. cit. p. 307.

6 LRS. p. 140. Egii ne ricorda due : Abdenago e Tarentinus. Ma forse erano

296 È. bESTA. PARTE tt.

ritto, ove tutti i membri della curia agivano come iudices e tutti con- correvano a proferire la iudicialis sentendo, l quando, dallo svolgersi del processo, dalla solempnis accwatio e dalla difesa dell'imputato, si fossero formata una propria convinzione sulla reità o sulla innocenza di esso 2 : la sentenza era pronunciata in nome di tutti dal presidente della corte fornito dei più ampii poteri per la tutela dell'ordine. Contro le sentenze della curia non doveva poi esservi appello : e il L.B.8. c'insegna appunto che , quando Biccardo di Molise con una vera blasphematio iudicii protestò contro la sentenza che dichiarava illegit- timo il suo possesso di Mandra e si disse ingiustamente gravato e pronto a provare quod iniquam falsamque protulissent sententiam , il conte Boemondo di Monopoli che presiedeva la curia, lo pose in istato d'accusa come quegli che non solo si era reso colpevole di una injuria in eos qui iudicaverant , ma d'una injuria in caput regium. Allora il- lieo et immediate s' iniziò un altro processo perchè fosse colpito de iuris severitate l'autore di tante contumelie e fu dichiarato infatti pas- sibile di confìsca e di punizione capitale e solo per misericordia regis condannato al carcere 3. Di qui risulta altresì che alla curia era pur deferito 1' esercizio del diritto di grazia già riservato al re e che il iudicium curie era assimilato in tutto allo iudicium regis tanto da applicare a chi quello inforsava le pene stesse che erano dalle costi- tuzioni comminate contro chi avesse disputato di questo : a lato alla misericordia regis 4 si ebbe la misericordia curiae.

Secondo il Liber regni Sicilie parrebbe che anche le cause eccle- siastiche quelle cioè per spergiuro , adulterio e incesto 5 fossero di- scusse e giudicate nella curia 6 : in quel caso però la sentenza era suggerita dai prelati che vi erano intervenuti 7.

di più. In un documento del 1137 dato dal Gattaia, Jccessiones cassinenses I 254, si ricordano tre regalis curiae iusiijicatvres che già il Ficker, Forsch. zur Beichs- u. Iìechtsge8chichte Italiens I p. 351 pensò potessero essere gli antecessori dei magistri iu8ticiarii di poi.

1 LBS. p. 140.

2 LBS. p. 124.

3 LBS. p. 140.

4 LRS. p. 68 : ob etatis lubricum in [eum] non reputavit facimis quam in alvi» crimen atrocissimum iudicabat.

5 LRS. p. 117 : regine pollieitus est... omissurum se questiones ad curiam perti- nentes que penam capitis irrogabant : super his autem que ad ecclesie iura pertinere constaret exactisshne cogniturum..., ... omissis furtis, rapinis, iniuiiis , civium homici- diis et illata constuprate virgini violentia, pcriurii, incestus, adulterii questio ventilatili'. Cfr. Siragnaa, Guglielmo 1, App. XXVII XXXI.

LRS. p. 117. La curia è raccolta ut convocatis episcopis aliisque personis eccle- siastici» et auditis utriusque partis allegationibus quod inde dictaret expedirent. 7 LRS. p. 140.

PARTE il. ti « LIBER DE REGX0 SICÌLIAE » . 29?

8. È d'uopo altresì osservare che, trattandosi di affari i quali meno imperiosamente chiedevano il segreto o di affari che per l'indole loro richiedevano una più larga partecipazione degli ordini sociali, so- levano intervenire nella curia, a lato i familiares, altri procerea l che erano degli adhaerentes curine 2, ma pur venivano ben distinti dai veri magnate* euriae 3 : per il loro intervento era necessaria un' apposita convocatio 4. Venivano tolti sopratutto dai comites o dall'alto clero: ma non è escluso che vi avessero adito dei nobiles viri estranei alla cerchia feudale 5. Nient' altro che una di queste assemblee fu 1' ac- colta di nobiles che approvò nel 1100 la nomina del cancelliere 6 : può darsi che in esse abbia avuto il suo nucleo embrionale il parlamento, ma quelle a tutto rigore non erano parlamenti. Anche la più ampia as- semblea ebbe nome di euria e di fronte ad esse la curia che noi ab- biamo prima studiata figurò come un consesso di familiare* regia per quos negotia curie disponebat 7.

9. Or tanta abbondanza e tanta precisione di notizie non farebbe nascere il dubbio che appunto presso la curia l'autore della Historia regni Sieiliae abbia avuto sede durante la sua dimora nell' isola 8 ? Come avrebbe altrimenti potuto informarci così bene di ciò che in essa era accaduto seguendone a passo a passo e, direi quasi, di giorno in giorno le mutazioni, le vicende f

Xon però è a credersi ch'egli stesso sia stato uno dei /amili a res °:

1 LRS. p. 126 e 134: cfr. Pale, Ep. p. 178.

2 LRS. p. 70.

3 LRS. p. 103 e 109. Cfr. pel significato della voce procerea p. 74, 90, 92, 103, 110, 123.

4 LRS. p. 109, 110, 134.

5 LRS. p. 97.

6 LRS. p. IH.

7 LRS. p. 69. V'erano pur casi in cui entrava in giuoco il popnlus intero. Così per la coronazione del re [p. 58]. Anche Guglielmo II, morto il padre, dopo un lutto triduale fu sub ingentis plebis gaudio rex creatus [p. 88] : tra le forme della elezione fu la solemnis per urbem equitatio. La ragione ereditaria parrebbe che da sola non bastasse a creare il re: per assicurare il trono all'erede del sangue Rug- giero II fece, lui vivente, regni partecipem il figlio [p. 6 e 7] : diversamente operò Guglielmo I nei riguardi del duca Ruggiero. Il re poteva però disporre per testamento del balium sui suoi figli miuorenni [p. 205] e vivendo la madre, questa soleva esserne investita [p. 88 e 96]. Il balium è dal LRS. definito come una regni administratio et cura.

8 Di ciò mi fa anche persuaso la maniera particolareggiata con cui conto di certe sedute burrascose dei familiare» e degli adhaerentes euriae.

9 LRS. p. 62. Contrapponendosi agli alii... qui secreta palatii fatebantur se co- gnoscere parrebbe far vedere che uon era di quelli che frequentavano la reggia.

208 E. BÉSTA. PARTE il.

quelle notizie avrebbe potuto averle anche uno dei notai addetti al servizio della curia ' e si potrebbe supporre con maggior verosimi- glianza ch'egli sia stato fra questi.

Non di rado ci imbattiamo nel suo lavoro in frasi che sanno del curialesco 2 e, quel che più monta, in altre che lo dimostrano fornito

1 A dubitare che quello di Ugo Falcando sia il vero nome dell' autore, lo Hartwig (Ite Guglielmo I e il suo grande ammiraglio Maione di Bari in Arch. stor. nap. Vili f. 3) non fu forse il primo ; quando il Fazello scriveva intorno alla metà del secolo decimosesto che ciò ch'ejjli avea trovato nel tua. della Guiscardo, era stato edito poit aliquot annos sub nomine Hugonis Falconai a Parigi, mostrava evidente il dubbio che quel nomea non fosse il vero: il ms. di s. Nicolò di Rena, ora tanto discusso , non portava infatti nessuna indicazione d'autore, ma solo il titolo di Guiscardo che mal potrebbe esser derivato dal nome di lui, come pensò il Gentile in Studi storici VII p. 294. Lo Hartwig dubitò soltanto che nell'indica- zione di Gervais de Touruay fosse incorso qualche errore e ritenendo che per questa ragione non si sia riusciti ancora h trovar nei documenti contemporanei più. ampie notizie intorno allo storico, senza badar troppo che in ogni caso Hugo era il vero nome e il Falconai successivo non designava che la paternità , propose di iden- tificarlo col cappellano Falcus che fu testimonio a un atto del 1167 riferito dal Garofalo , Tabularium regie oc imperialis cappellai collegiatae divi Petri p. 25 : ma ben ebbe ragione il Siragusa di non accoglier la sua congettura. Lasciando da parte la ipotesi che il primo editore abbia attribuito all'autore il nome di uno dei possessori del codice , io mi domaudo : dacché nel codice stesso l'Epistola al tesoriere Pietro era preposta alla Historia il Gervais de Troyes non avrebbe arbi- trariamente attribuito a quegli , che risultava autore della prima , la paternità della seconda opera? Io non so se la questione sia stata posta da altri; sia io o no il primo a proporla, panni però indiscutibile che meriterebbe d'essere dibattuta e convenientemente vagliata. Tra V Epistola, su cui è da vedere lo scritto del Rossi, Il carattere dell' epistola di Ugo Falcando a Pietro tesoriere della chiesa palermitana in Studi storici , Bologna 1905 p. 247 280 e 1- Historia vi sono differenze rilevanti di stile e di pensiero. Non mi è possibile qui richiamarle tutte : ma sembrano impressionanti fra gli altri questi fatti : che nella Historia i barbari sono i saraceui [p. 5 e 26], nella epistola i tedeschi ; che nella epistola alita uno spirito di sim- patia verso i musulmani e nella Historia è ben più tiepido ; che nella epistola la Sicilia è riguardata con un affetto e un' indulgenza contrastanti con le critiche severe dello storico.

2 Le parole di Maione al re a proposito di Roberto s. Giovanni canonico di Palermo , che il re avrebbe voluto nominar cancelliere : hoc equitati congruere et regnantis esse molestate dignum propositum ut qui fideliter ci diuque servierint tandem regie liberalitatis beneficio non fraudentur [p. 69] pare risentano di qualche arenga come questa : regie sollecitudinis est fidelimn suorum et de se benemevitorum quieti et securitati providere [Kehr p. 56]. Cfr. a p. 131 la concordia posta fra due baroni affinchè actione sopita numquam super hoc de cetero controversiam suscitarcnt e a p. 132 l'ordine dato ai giustizieri perchè controversia legitimo fine concluderent. Notevole anche, a p. 60, la minaccia dello sdegno reale con la formula alioquin posse gvatiam suam... demereri.

Parte ti. Il « lIber de régno siciliaè » . 299

di non superficiale cultura giuridica e conoscitore delle stesse leggi romane.

Già nelle prime pagine della sua storia , difendendo Ruggiero dall'accusa di soverchia inumanità per aver irrogato a molti penas graviores et legibus incognita» l , mostrava di prendere a criterio dei suoi giudizii delle leges che non possono essere se non le romane. Quella severità, a suo giudizio, fu necessaria in novitate regni per sgominare l'audacia dei traditori e persuadere il popolo della propria forza e la condotta di Ruggiero sarebbe stata tale per conseguire lo scopo che neque Jiagitiosii sibì : possent impuntiate blandivi neque beneme- ritos nimia severità.? absterreret; egli avrebbe dunque fatto quello che, se- condo i giuristi romani era il compito del legislatore, render gli uomini buoni tum premium pollicendo tum paenam infligendo.

Un'eco di studi romanistici si rivela pur ove l'autore definì come crassa ignorantia solus ignorare quod omnes praedicant 2 e dove distinse tra Vinvasor e il praecarius possesso)' 3. Ma sopratutto è decisivo per noi il luogo in cui, tra gli argomenti con cui volevasi infirmare la ri- nuncia di Stefano di Perche al cancellierato, si addueeva che sarebbe stata fatta non sponte sed capitalibus dnbiis : « quod autem vi metum gestum fuerit ratum non huberc pretorem », aggiungeva egli, « et eiusmodi vero metum intereessisse qui et in constuntissimum cadere posset nullum dubium erat ». È evidente che gli fu sott'occhio il D. 4, 2, 1 e 6.

Dalle leggi romane fu anche direttamente attinta la curiosa argo- mentazione ch'ei mise in bocca all' arcivescovo Ugo quando voleva dis- suader Maione dall'assumere, dopo 1' eventuale deposizione del re, la tutela dei figli : ttinc omnes fare certissimos nihil aliud quam regnimi appetcre fune adversus eum modis omnibus asperandos : suspectum enim tutorem pueris davi nec mira perni ictere et si datus sit removendum censere \ Pur nelle critiche mosse alla sentenza che , pronunziando il divorzio tra il conte Riccardo de Sagio e sua moglie, chiedeva a questa il giuramento de non coeundo r' o di serbare una perpetua con-

1 LRS. p. 6.

2 LRS. p. 128. Cfr. la Stimma Codici* edita dal Fitting (Halle 1894) I, 1(5, fi che dichiara intolerabilis V ignoranza cmim dexidia aut aecitrita* csset tali* ut quod omnes in civitate sciunt tu ignores.

3 LRS. p. 141.

4 Cfr. D. 26, 10.

5 LRS. p. 108 sgg. La notizia è interessante per la storia dell' istiruto del divorzio: pel decreto di Vermena [Boretius Cap. p. 40 e. 18] la soluzione avrebbe dovuto essere precisamente in senso opposto. Cfr. Esuiein, La mariage in droit ca- nonique, Paris 1891, li p. 08.

300 E. BESTA. PARTE it.

ti)i('nti<( e permetteva a quello di riaminogli arsi , ricorreva all'adagio rouianistico : in cattai* parious idem ius consequenter admitten dum i. lutine alle comuni teorie procedurali alluse altresì senza dubbio quando biasimò la condanna del conte Simone perchè eidem innocenti neque 8uam licuit purgare innocentiam , nec dictis ordine indici a rio respondere 2 e (piando riprovò la carcerazione e l' accecamento del conte Eberardo neque con rictus neque solempniter iure confessa* i)rout o r do i u d ic i a r i u s exposcebat 3.

L' ipotesi eh' ci fosse notaio della curia si avvalora anche per ciò che nella sua storia diede speciale importanza a varii fatti con- cernenti in modo speciale la cancelleria 4. Così pose tra le beneme- renze del cancelliere Stefano 1' aumento del numero dei notai della curia 5 e la determinazione di una tariffa per i compensi cui pote- vano pretendere : e ci insegna che per la rinnovazione dei defetarii bruciati nella rivolta del marzo 1101 G fu necessaria la scarcerazione e la reintegrazione del notaio Matteo e abbastanza precise noti- zie su la divisione delle funzioni nella cancelleria stessa e sul modo con cui erano redatte e spedite le lieterae regiae 7.

1 LRS. p. 106. Al diritto romano è anche inspirata la critica contro il gaito Martino che ammetteva a testare le donne impudicae e gli infame* e i servi.

2 LRS. p. 43.

3 LRS. p. 13. Noto anche per sovrabbondanza di scrupolo le frasi ad d?libe- rationem postulatis induciis [p. 54]; rem in transactionem deducere [p. 20] ; iusiurandi religione... seti quolibet alio satisdationis genere sibi provideri [p. 71 e 351] ; populum immeritum ob aliena crimina non esse puniendum [p. 81]; iudiees miserandum nobis ac triste iustitiimi ab examinandarum litium cognitione suspenderat [p. 83]. Questa col- tura romanistica non stupisce del resto in Sicilia , poiché di essa sono testimo- nio oltre al De institia et iure del cardinal Laborante [ed. Siragusa p. IV] e alle assise il doc. del 1169 edito dal Garriti , Don. norm. n. 46 , che non solo neìì'a- reuga attinse al D. 1, 1, 1, ma nel contesto attinse alla e. 5 § 1 C. 1, 14 scrivendo: regali eonstitutione sancitimi est et insta legis dejinitione decretimi ut ea que contro, leges fiunt non solum inutilia sed etiam prò imperfecta [leggi infectis] habeantur.

4 Egli sa narrare p. es. per filo e per segno le indelicatezze di Pietro notaio [LRS. p. 113].

5 LRS. p. 114 1. 18.

6 LRS. p. 114 : « noturiorum enormem studuit rapaci tatem ad mensuram re- digere certumqne niodum quid a singulis deberent accipere prò negotiorum diver- sitate constituit » . A questi provvedimenti dovettero essere di spinta le esorbi- tanze del notaio Pietro [ibid. p. 113].

7 Non credo che la mia impressione possa essere infirmata dalla impreci- sione che il Kehr credette di trovare nella descrizione della carriera di Maione a confronto della cronaca romoaldina. Romoaldo [p. 426] dice infatti che prima fa 8criniariu8, deinde nicecancellarius, postremo cancellarius e il LRS. invece scrive

PARTE II. IL « LIBEH DE REGXO SICILIAE » . 301

10. Comunque si debba risolvere la questione eh' io toceai ora, è del resto indubitabile ohe, assodata la competenza giuridica dell'autore e la precisione tecnica del suo linguaggio, acquistano tanto maggior valore i ragguagli ch'egli, con mano forse troppo avara in confronto ai nostri desiderii, ci trasmise su la costituzione e sul diritto di Sicilia. Si fa quindi doveroso raggiungere qualche altra osservazione intorno alle materie che finora non ho avuto occasione di esaminare.

Preoccupato sopra tutto dell'amministrazione centrale egli fu assai più parco di notizie intorno ai funzionarii provinciali ; e i pochi ac- cenni agli stratìgoti \ che dice preposti a Provincie e a città 2, agli iudices e maiores delle varie comunità 3, ai magistri degli oppida e ai castellani dei castra 4, ai catapani 5, agli iustitiarii 6, ai camerarii 7 non bastano per precisare le loro speciali competenze e i rapporti inter- cedenti fra loro e gli uffici centrali.

E nemmeno intorno al regime tributario ci quanto avremmo desiderato accennando appena di sfuggita al servitium galearum 8, al-

che ... primum in curia notarili*, gradaiim ad cancella ria tu? pervenerat dignitatem... e quindi all'ammiragliato [p. 8] : ma è poi escluso che appunto dai notarli si vo- lessero togliere gli addetti agli scrinia del re e ohe notaio fosse stato Maione prima che scriniarius t Lo scriniariato e il vicecancellierato sarebbero stati i gradi che l'autore del LRS. credette di poter passare sotto silenzio.

1 LRS p. 82 e 86.

2 LRS. p. 114.

3 Con intenzione uso di questo nome; il LRS. parlando di società contratte fra ciritates e barone* mette in chiaro che quelle avevano una personalità giuri- dica propria. Tra le ciritates noto ch'ei registrò Messina [p. 131], Catania [p. 121 e 175], Napoli p. 29], Salerno [p. 29], Amalfi [p. 30], Capila [p. 11 e 12].Alife [p. 30], Gallipoli [p. 8] e parecchi fra i centri più popolosi di Paglia [p. 21]. Dalle ciritates sono distinti gli oppida [p. 15. 30, 70-73, 131, 132] die probabilmente come i castra [p. 153 e 160] erano in più stretta dipendenza dal governo centrale. Nelle città vi erano consigli che decidevano a maggioranza [p. 29] : la condotta delle città dipendeva perciò dalla maxime civium partis persuasio.

4 LRS. p. 153 e 154. 3 LRS. p. 86.

6 LRS. p. 146.

7 LRS. p. 86. Quivi ricorda un Johannes Calomeni camerarius Calabrie e a pag. 140 un Turaisius residente in Troia e tcrrac illius camerarius. Del primo è notizia anche nel Garutì , Doc.norm. a p. 184. Di un camerarius tcrrac de Ilari si parla anche nel Cod. dipi. bar. V. 121. Sopra i singoli camerarii provinciali vi furono forse dei camerarii regionali : un Bersano magistcr camerarius Jpulic et Terre Labori» si trova nel 1164.

8 LRS. p. 65.

302 E. BESTA. PARTE II.

Yhospitaticum * , all' esenzione accordata ad alcune città di fronte ai tributi indiretti 2, alle redemptio 3.

Molto miglior aiuto ci offre invece per risolvere alcune delle mag- giori quistioni che si dibattono intorno alla storia della legislazione normanna 4.

Anche per l'autore della Historia regni Siciliae Ruggero II fu il primo legislatore normanno. Aliorum regimi et gentili m consuetudines diUgentissime fecit inquiri, dice egli, ut quod in eis puleherrimum aut utile vidébatur sibi transumerei e, benché la sua dizione sia alquanto oscura, parrebbe accennare ad una larga opera legislativa da lui con- dotta in base alle migliori legislazioni precedenti.

È essa a noi giunta f

Allorché Eiccardo , conte di Molise , blasfemò la sentenza della curia fu decretato iuxta constitutiones regum Sicilie che egli dovesse non solum de terra sua , rerum etiam de membris et corpore regis mi- sericordie siibiacere eo quod iudicium curie falsimi dicere presumpsisset ciò costituendo un'ingiuria che non in eos qui i n die aver at, sed in caput reginm pr in cip al iter r edundab at. Dond'era attinta quella norma ì Si pensò già a confrontarla al § 17 dell'Ass. vat. , e il raffronto non parve convincente ; ma si lasciò da parte il § 35 che proprio faceva al caso 5: Observent diUgentissime iudices ut in actione iniuriarum curialium dignitatem personarum qualitatem senten-

1 LRS. p. 74. Il malcontento desili ojypidani nacque evidentemente dal fatto che di solito i singuli milites erano ripartiti fra i singoli proprietarii.

2 Cfr. per Messina a p 131 , dove accennandosi alle quaedam civitatis immu- titi ate8 manifestamente si vuoi alludere al privilegio che fu concesso nel 1160; e per Palermo a p. 63 lin. 17-22. A p. 48 si accenna alla consuetudo di dar la sfrena per il gennaio.

3 Somma pagata per il riscatto dalla devastatio minacciata alle città ribelli : cfr. LES. p. 78, 87, 90. Era raccolta dai magistri camerarii p. 90. Ad essa allude anche Eiccardo salernitano.

4 Come nella decadenza romana consuetudo si disse ogui prestazione al fisco [cfr. p. 63, 91 e 130].

5 Cfr. Merkel , Commentano qua iuris siculi site assisarum regni Sicilie frag- menta ex codicibus tnanuscriptis proponuntur Halle 1856 ; La Lumia , Storia della Sicilia sotto Guglielmo il buono, Palermo I, App. p. 370 sgg. ; Brandileone , Il di- ritto romano nelle leggi normanne e sveve del regno di Sicilia , Torino 1884 , ove la illustrazione del prezioso monumento legale è accompagnata al testo; Perla, Le assise dei re normanni , Caserta 1882 ; Wilda , Zur sieilisehen Gesetzgebung unter k. Friedrichs II Halle 1880; Siragusa, Guglielmo I, voi. II ; Caspar Roger II p. 237 e sgg. È noto che mentre i più [Hartwig , De Blasiis, Perla, Brandileone, P. Kehr, Caspar] lo attribuiscono a Ruggiero; il Merkel, l'Amari , il Siragusa preferirono attribuirlo a Guglieluio I e il La Lumia ne credette autore Guglielmo II.

PARTE II. IT, « LIBER DE REGXO SICILIAE ». S03

tiam ferant... ; ipsis autem faeta iniurias non ad ipsos dumtaxat , sed etiti ni ad regie dign itati* spectat offensam l.

Qui la coincidenza è indisconoscibile : e può tagliar corto con molte questioni. Tanto nell'ipotesi cioè che le comtitutiones , cui s'in- formò la curia nel processo del conte di Molise, fossero precisamente quelle offerte dal ms. vaticano <S7Si>, (pianto nell' altra che siano state semplicemente la fonte cui questo attinse , risulta che furono opera di più re e la paternità del loro corpus non deve quindi attribuirsi a Ruggero II, ma piuttosto a Guglielmo 1 o ai primi anni della, reg- genza seguita alla sua morte 2. All' ipotesi del La Lumia è però di gran lunga preferibile quella del Merkel, dell'Amari e del Siragusa: già nel processo per avvelenamento fatto al medico Salerno e nella condanna a dover soggiacere bonis omnibus spoliatus capitati suppli- ciò solimi ci vi rendi spe in misericordia relieta 3 si può cogliere l'ap- plicazione delle norme riferite nelle Ass. vat. XXXXI1I, 1 e XXXVI 4.

Ma se le comtitutiones furono veramente opera di Guglielmo I conviene ammettere che sieno state pubblicate negli ultimi anni del suo regno. Fino al 1102 il diritto penale, o dirò meglio, quella parte del diritto penale che si riferisce ai reati di lesa maestà 5 non presenta

1 Lamantia, Cenni storici su le fonti del diritto greco-romano e le ossine del re di Sicilia, Napoli 1887 p. 77.

2 La diversità stessa delle titolature assunte dal re nelle Ass. d. Assise posta in rapporto con quella usata nei documenti usciti dalla regia cancelleria avrebbe dovuto bastare a dissipare le confetture che si debbano ad nn solo legislatore. Se pur Ruggiero usò per gli attributi onorifici di nostra celai tudo [Ass. XXXI, 1; cfr. Kehr p. 117, 281, 287]. nostra maiesUs [Ass. I; Kehr p. 287, 117] sol.» da Gu- glielmo I troviamo adoperato quello di clcmencia nostra [Ass. X .; X 27; Behring reg. 150 e 163] e di nostra serenitas [Ass. voi. XXXV].

3 LRS. p. 121-122.

4 Nella epistola ai messinesi [LRS. p. 149] Guglielmo II e Margherita, scri- vevano : Certuni est eos maiestatis crimen admictere non solimi si qnos tanta vis furoris exagitat ut ausu nefario v:te salutique nostri insidiari praesumant, rerum etiam quos in fumiliarium nostrorum necem aliquid ciani palature moliri contigerit. quicquid adversus eos qui negociis nostris invigilant, quorum ope et Consilio regnimi nostrum feliciter gu- bernatur, impietatis sue machinas pniarerint erigendas ed ebbero senza dubbio l'occhio alle norme delle Ass. vat. XVIII , 1. Queste diedero anche materia al discorso messo in bocca al contedi Gravina contro Enrico di Montecaveoso : «... regni qui de m inventile es perturbator et contro maiestatem regioni contnmax et rebellis coque ipso non solum terroni que possidebas amictere, sed et capitatati subire sententiam, nisi feniani Ubi velit regia benignitas indulgere [LJRS. p. 137] ». Il Siragusa vede anche un'applica- zione delle Ass. vat. XIII a p. 115; e non a torto.

5 Come tali il LRS. ricorda la factiones [p. 33 cfr. Ass. vat. XVIII, 2] ; la coniurationes o societatcs o conspirationes [p. 11. 18, 33, 17, 48, 52, 53, 54, 66, 144] stipulate con solenne giuramento di cui era quasi sempre elemento essenziale i'ob-

304 E. BESTA. PARTE II,

troppa corrispondenza con le norme che sul proposito sono riferite dalle assise stesse : nella punizione di essi v'era una crudeltà ecces- siva i che parrebbe essere stata eliminata dalle nuove leggi ove la pena capitale non è inasprita da altri tormenti e al di fuori di quella parrebbe non essere stata ammessa che 1' incarcerazione. Prima in- vece accanto alla hris caesio o alla decapitazione e alla nuspemio o alla impiccagione si ricorreva alla pena che i romani stabilivano pel parricida 2 e il carcere 3 era inasprito con la barbarie dell' acceca- mento 4 o del taglio della destra 5.

Il prologo delle assise vaticane diretto ai proceres e l' insistenza con cui pur nelle singole disposizioni di esse si torna sulla soìlicitiMÌo, sulla providentia, sulla pietas regis o sull' intenzione sovrana di ricon- durre la giustizia sul suo sentiero e di mitigare le asprezze del di- ritto con la clemenza fa credere che, pubblicate dopo un periodo vio- lento di torbidi e di delitti , dovessero costituire come un'arra di pace tra le varie classi sociali 6 : or nessun tempo più adatto ad esse potreb- besi trovare di quel periodo di quiete che susseguì alla domata ri- bellione del 11C2 7.

Il Liber regni Sicilie pone d'altronde fuor di dubbio che nelle As- sise vaticane non è compresa tutta l'opera legislativa dei re normanni e neppur tutta quella di Guglielmo. Tra le condizioni che nel 11G1 i baroni ribelli avrebbero voluto conseguir da Guglielmo era appunto che

bligo del segreto [p. 14, 54 , 134]; le seditiones [p. 12 ecc.]; la fuga al nemico [p. 77 e 78]; la ricettazione dei rei di lesa maestà e 1' aver celato il tradimento a noto [p. 139], il raccogliere intorno a torme di soldati, multitudo militimi absque licentia curie [p. 23 e 146].

1 La confisca era sempre conseguenza del tradimento [LliS. p. 78] anche in- dipendentemente dal capitale supplicium [p. 15].

2 Johar, già magister camerarius palatii fu appunto gettato in pelagus imposito lintro [LliS. p. 77]. Quella pena era già usata pei traditori prima della venuta dei normanni : cfr. Besta, Il diritto consuetudinario di Bari e la sua genesi, Torino 1902, estr. dalla Eiv. ital. p. le scienze giurid. p. 69.

3 II LRS. p. 20 , 23 , 76 fa nn terribile quadro delle carceri cui erano con- dannate le vittime dell'odio politico.

4 Cfr. LRS. 22, 23, 25, 68, 77.

5 LRS. p. 72. Talvolta la curia contro i ribelli vietava anche la sepoltura [p. 85]. All'in/amia derivante dal tradimento si accenna a p. 15. Oltre l'esilio si ricorda come pena la deportatio [p. 51].

6 Questo notò già e molto appropriatamente il Siragusa, Guglielmo I p. 84-85. I ragionamenti che il Perla op. cit. p. 19 e sgg. volle fare sull' uso della parola princeps non hanno alcun valore : lo stesso LRS. prova che vi erano principes estranei alla discendenza reale [cfr. p. 631.

7 LRS. p. 87.

Parte ii. il « liber de regno siciliae ». 505

fosse revocata la norma , la quale stabiliva absque permissione curie filias [baronum] matrimonia non posse contraivi i e pur nelle Assise va- ticane manca questa legge, che dovette essere emanata da Ruggiero poiché altrove 2 ebbi già a ricordare un documento del 1154 che ac- cenna a una traditio uxorie da farsi subordinatamente alla assenza di una contrarietà^ regum 3. Anche allora ne rammentai un altro del 1107 che accenna ad un preceptum da re Ruggero noviter promulgatum in- torno alle formalità da seguirsi nelle alienazioni delle donne 4 e nondi- meno anch'esso non si legge nelle assise vaticane.

11. Al di delle leggi avea efficacia la consuetudine e con- suetudinarie erano , tra 1' altre , le materie feudali. Il L.B./S. e' in- segna che era contro, consuetudinem lo spogliare il vassallo d'un feudo nei casi in cui , violando il sacramentum fìdelitatis 5 , non fosse un proditor o nei casi in cui non fosse stato belìo inutilis 6 : che era consuetudo che i milites, i quali si recavano a visitare il re, avessero regis videndi copia 7. Poi tra le condizioni che i feudatarii afforzati in Caccamo nel 1161 ponevano a Guglielmo I per la loro dedizione ri- corda questa ut, pernitiosis legibm antiquatis eas restitueret consuetu- dines quas avus eius Bogerius comes a Roberto Guischardo prius intro- ductas observaverit et observare fuerit. Ma di queste consuetudini feu- dali eravi una raccolta scritta analoga in qualche modo ai Libri feu- dorum che costituirono una codificazione del diritto feudale lombardo ? Una risposta affermativa si è voluta ricavare dal seguente brano della Historia : « Cum autem [familiaribus regis per quos negotia curie di- sponebat] terrarum feudorumque distinctiones ususque et instituta curie prorsus essent incognita neque libri consuetudinum , quos defe- tarios appellant, potuissent post captum palatium inveniri placuit regi visumque est necessariuin ut Matheum notarium eductum de carcere in pristinum officium revocaret : qui, cum in curia diutissime notarius extitisset..., consuetudinum totius regni plenam sibi vindicabat peritiam ut ad componendos novos defetarios, eadem prioribus continentes, pu- taretur sufficere »; ma, secondo me, a torto. Non è possibile il dissentir qui dall'Amari 8 : le consuetudines, cui lo storico alludeva, non erano qui delle norme obiettive di diritto, ma doveri nella persona dei feu- datarii e diritti da parte dello stato. Per riformulare i principii giuri-

1 LRS. p. 64. A p. 78 ricorda come colpa del conte Ruggero d'Avellino l'aver sposata la figlia della contessa di S. Severino iniussu eiiriae.

2 Cfr. Beata, Dir. cons. bar. p. 19.

3 Cod. dipi. bar. V 107.

4 Cod. dipi. bar. I 50. Il documento non sfuggì neppure al Kehr, p. 226 n. 2.

5 LRS. p. 22. 6 LRS. p. 12. 7 LRS. p. U. 8 Cfr. Kehr p. 132.

20

306

dici ohe regolavano la materia feudale non sarebbe stata indispensabile la liberazione d'un carcerato : ma ben si doveva ricorrere a chi ne era per lunga pratica esperto quando si trattò in base ad elementi difet- tosi e disordinati di rinnovare i registri perduti onde risultavano le ragioni del fìsco.

12. Un'ultima consuetudine mi resta solo ad esaminare : ed ho finito. L'autore del IAber regni Biciliae i narra che Maione e Ugo ar- civescovo di Palermo iuxta consuetudinem siculorum fraterne fedus societatis contraxerunt seque in vicem iureiurando costrinxerunt ut alter alterimi modis omnibus promoveret et tam in prosperis quam in adversis unius essent animi, unius voluntatis atque consili i : quisquis alterimi lederet amborum incurreret offensam. Si tratta di un vero e proprio affratellamento 2 : e l'esempio è prezioso per lo storico del diritto che a quell'uso potrà trovare un notevole riscontro nei costumi della Sar- degna 3. Ma io lo sottopongo all' attenzione degli storici anche per mi altro motivo. Se l'autore del Liber regni Siciliae fosse stato d'ori- gine francese, come ora generalmente si crede 4 , avrebbe egli chia- mata consuetudo siculorum una consuetudine che era tanto diffusa nella sua terra 5! E 1' avrebbe così designata un inglese 6 ? Certo il nostro scrittore non fu appulo 7, siciliano 8 , musulmano 9, greco : ma quella sua caratteristica espressione rende probabile che fosse tuttavia un cismontano. Già la Ancona ha opportunamente osser- vato che un oltramontano non avrebbe così causticamente stigmatizzata la miseria I0, la superbia li e la tracotanza i2 dei transalpini che per lui erano ignari d'ogni libertà 13 : ai suoi argomenti qui se n'aggiunge un altro che mi pare efficace.

1 LRS. P. 10.

2 E come tale lo considerò già opportunamente il Tamassia, L'affratellamento, Torino 1886, p. 31 32.

3 Lo storico del diritto oltre che ai brani relativi alla ordalia del duello [LRS. p. 80] dovrà badare all'accenno al diritto dei propinqui di ratum habere il matrimonio delle donne [p. 35]. 4 Dallo Hillger, dal Salinas etc.

5 Cfr. Tamassia, op. cit. p. 33. 6 Cfr. Tamassia, op. cit. loc. cit.

7 Cfr. le invettive contro gli appuli a p. 126, 117.

8 Cfr. le invettive contro i siculi a p. 30 e a p. 96.

9 A p. 25 parla addirittura di un gentile vitium saracenorum.

10 LRS. p. 110. " LRS. p. 93. 12 LRS. p. 133.

i3 LRS. p. 145. Alla Gallie consuetudo contrappone la libertas civium et oppi- danorum Sicilie [p. 144]. Intorno all'esattezza dell'affermazione saracenos et grecos 8olum qui villani dicantur solrendis redditibus annuisque pensi onibus deputatos [esse] cfr. Amari, Storia dei musulmani in Sicilia, III p. 236 e sgg.

Palermo,

E. Besta.

DI UN'IMPORTANTE MINIATURA

DEL CODICE 120 DELLA BIBLIOTECA CIVICA DI BERNA.

Il codice 120 della Biblioteca civica di Berna contiene, fra altre scritture, l'unico esemplare che si conosca del carme storico di Pietro da Eboli, pubblicato per la prima volta a Basilea da Samuele Engel nel 1740 * e poi riprodotto nel 1770 dal Gravier , 2 nel 1845 dal Del Re 3 e finalmente nel 1874 da Eduardo Winkelmann * pel giu- bileo cattedratico di Giorgio Waitz. Questo Codice, della fine del se- colo XII, è preziosissimo, non solo perchè fu sottoposto a una revi- sione dell'autore e contiene molte correzioni e aggiunte autografe; ma altresì perchè è illustrato da cinquantatre miniature coeve , del cui pregio io parlai nel mio studio su Le miniature che illustrano il Carme di Pietro da Eboli nel Codice 120 della Biblioteca di Berna, 5 e che ora chiunque può esaminare per la pubblicazione splendidamente riu- scita, ad opera dello stabilimento Danesi di Roma, a mia cura nelle pubblicazioni dell'Istituto Storico Italiano.

Queste miniature si trovano sul recto delle carte, mentre sul verso si legge il poema, e sono disposte in maniera clic ovunque si apra il codice, si trova la facciata a destra con una miniatura che è illustra- zione dei versi che si leggono nella facciata a sinistra. Questa corri- spondenza, che in origine doveva esistere per tutto il codice, oggi non si ritrova sempre, perchè vi sono alcune carte mancanti ed altre spo- state. Di siffatte lacune o spostamenti parlo lungamente nella prefa- zione alla nuova edizione del poema che vedrà (pianto prima la luce e che fu preceduta dalle tavole predette. 11 primo editore riprodusse

1 Petri de Ebulo , Carmen de motibus siculi» etc. Basileae , typis Emanuelis Tbnrnisii. MDCCXLVI.

2 Raccolta di tutti i più rinomati scrittori delV istoria generale del Regno di Na- poli etc. Napoli, MDCCLXX.

3 Cronisti e scrittori sincroni Napoletani. Napoli, 1845. I, p. 401-456.

4 Des Magisters Petrus de Ebulo, Liber ad honorem Augusti. Xach der Origi- nalhandschrift etc. Lipsia, 1874.

5 Ballettino dell'Istituto storico italiano, N. 25, Roma, 1904.

308 G. B. SIRAGXTSA. PARTE II.

otto di queste miniature nel miglior modo ch'ei potè coi mezzi d'al- lora, e queste stesse ripubblicò il Del Re, forse valendosi degli stessi rami o per lo meno lucidandoli, ma ne alterò alquanto l'ordine e ne suddivise due in due tavole ciascuna.

Dissi altra volta che se si considera il poema di Pietro come fonte storica, le 'miniature sono forse più importanti del testo, perchè forniscono notizie più precise e determinate; ma notizie nuove, cioè non date dalle altre fonti note, si trovano qua e anche nel poema, sulle quali occorrerebbe uno studio speciale per vedere, non foss'altro, se ba ragione qualche critico moderno a respingerne con troppa sicu- rezza alcune. Fra queste notizie nuove dovevano essere importanti quelle relative alla congiura, vera o supposta , contro l' imperatore Enrico VI , della quale si sarebbero strette le fila poco dopo la morte di Tancredi, nell'interesse e quasi sotto la direzione della regina Si- billa di Acerra; ma disgraziatamente buona parte di questo episodio del poema manca perchè quella carta venne lacerata , come accusa anche lo strapipo irregolare che si vede nel codice. Se manca il brano del poema, non manca, però, la miniatura che la illustrava. Questa porta il X. XL1T delle tavole edite dall'Istituto Storico (e. ±3-136 del codice) e si trova anche nelle edizioni Engel e Del Re.

Su questa congiura molto si è scritto. La negarono alcuni e quasj la credettero una scena preparata per giustificare i supplizi! o il car- cere dei partigiani di Tancredi; altri credettero che fossero confusi i particolari di una prima cospirazione che si sarebbe scoverta nel 1195 con un'altra posteriore ordita nel 1197; ma qui non è il luogo di en- trare in simili discussioni. Dirò solo che per Pietro da Eboli la con- giura fu ordita e che venne scoverta ad opera di un traditore che nel poema è un « quidam » il quale « conscius archani secreta revelat et docet insidias enumeratque viros », ma nella miniatura è un monaco che si presenta umilmente ad Enrico VI in veste di delatore, come spiega anche la leggenda : « Monacus iste coniurationem proditoruin detexit ». Se, però, è possibile di dubitare della congiura, non è pos- sibile dubitare delle pene che ai veri o presunti colpevoli vennero inflitte , poiché di queste abbiamo parecchie e non dubbie testimo- nianze. Ma diciamo prima della miniatura del Codice di Pietro da Eboli.

Questa è divisa in due sezioni disuguali, separate da una linea orizzontale. Nella superiore sono rappresentate : a destra di chi guarda, un dignitario ecclesiastico vestito di tunica , manto , stola e mitria, seduto su uno sgabello e sul quale una mano posteriore a quella del- l'autore di quasi tutte le altre leggende, scrisse : « Presul Salerni »;

PARTE li. DI UN'IMPORTANTE MINIATURA. 309

nel centro, seduto su una scranna, un fanciullo vestito di tunica e a capo scoverto, sul quale la stessa mano scrisse : « Regulus »; a si- nistra su un'altra scranna uno scrivano che verga nel foglio che tiene in mano ciò che gli dettano i due personaggi predetti.

Xella sezione inferiore, che è poco più del doppio della superiore, si veggono sotto un arco ogivale parecchi personaggi raccolti attorno a un tavolino, dove pare che stia un vangelo crocesignato, sul quale tutti stendono le destre in atto di giurare. Nel centro, nel posto più in vista, è una donna in ricco paludamento seduta; a destra tre fi- gure , delle quali una ha in capo una mitria e un'altra è di uomo barbuto; a sinistra sei altre figure tutte a capo scoverto. Tanto i tre personaggi di destra, quanto i sei di sinistra sono inginocchiati.

Questa composizione è spiegata da una leggenda importantissima che i nomi dei congiurati e che è disposta in due colonne così :

Doinus in qua coniurant proditores regni

TJxor Tancredi Comes Biccardus

Presul Salerni Comes Bogerius

Margaritus Comes Biccardus de Agellis

Bogerius Tharthis Eugenius

Comes W. de Morsico Iohannes frater presulis Salerni Comes Bogerius Avilini Aìexius serrus Tancredi

Osservo, anzitutto, clic, i nomi sono dodici, compresa la denomi- nazione perifrastica della regina, che il poeta non chiama mai per nome, ma le figure sono soltanto dieci ; i poi, che la parola ciurant era stata dal Winkelmann letta iniurant, scambiando per i la prima e imperfetta, sottoposta al segno di abbreviazione; che il nome Tharthis, era stato tetto Tharchis, mentre la forma della t, nettamente distinta da quella della e, anche in questa stessa leggenda, non lascia luogo a dubbio, e finalmente che il nome de Agellis, clic per la cattiva ri- produzione dell'Engel era stato letto de Agott, (onde il Del Re s'era ingegnato d'identificare la famiglia de Agottis) letto correttamente dal

1 Gli Aiutale* Marbacnises, . Alan. Germ Ilixt. XVII, p. 166) dicono: « Iiuue-

rator capta uxore Tancradi (sic) et episcopo Salernitano et decetn ali is eiiwleni

terre couiitibus et maioribils, inter quoa erat quidam pyrata precipuus dictus Mar- garita ». Il numero corrisponde esattamente coi dodici nomi del Codice di

Berna. Gli Annahs Jquenses nei Mon citati. XVI p. 687, danno il numero di sedici oltre la regina, i figliuoli di lei e Margarito, « priucipuui pitatarum».

3lO G. B. SIRACUSA. PARTE ìt.

Winkelmann , fa crollare lo strano edifìcio della strana lezione e ci chiarisce che quel Riccardo di Aiello, che è nominato nelle cronache e in molti documenti, come il fratello Nicolò, arcivescovo di Salerno, era il noto figlio del celebre cancelliere Matteo.

La identificazione di questi nomi non è facile; per alcuni anzi è impossibile , non venendoci alcuna luce dai documenti che sinora co- nosciamo.

Cominciando dai quattro personaggi che stanno a sinistra, nes- suna difficoltà presentano, la « Uxor Tancredi », il « Presul Salerai », cioè Nicolò di Aiello già mentovato, e « Margaritus », che fu il ce- lebre ammiraglio Margaritone di Brindisi e che si sa da molte altre fonti essere stato fra i principali accusati della congiura, catturato, accecato e j)ersino evirato *j ma non è ben chiaro chi sia quel « Ro- gerius Tharthis » che è P ultimo dei quattro. Si può dubitare però che si tratti del « Rogerius de Tarsia » che era certamente perso- naggio cospicuo in Sicilia e assai probabilmente in rapporti col can- celliere Matteo; infatti apparisce da un documento 2 che egli e la mo- glie Maria, figlia di Roberto Malconvenant, rinunziarono alla terra di Bisacquino « in presentia domini Matthei regis vicecancellarii et fa- miliaris » e con la testimonianza, fra altre, di Riccardo, figlio di Mat- teo. Dall'elenco di Ansberto già citato, si ricava che un « de Tarsia » fu tra i congiurati, ma ivi è chiamato « Tancredus » e non « Roge- rius » ed è assai probabile che lo scrittore sbagliasse i nomi scri- vendo lontano e sulla relazione altrui , come notai nella nota pre- cedente.

1 II chierico Ansberto Hist. de expedit. Friderici imperatoria. (Nelle Fontes Rerum Austriaoarum( Scriptores, V, pag. 86-87) parlando della congiura contro l'impera- tore Enrico VI, una certa lista di cospiratori, sulla quale sarò costretto a tor- nare più volte. Questo elenco riesce scorretto per l'interpunzione che la edizione citata conservò quasi sempre come era stata data dalla prima edizione di Gius. Dobrowsky nel 1827. Ivi si legge : « Willehelmus filins Tancredi et frater eius Mar- garita, comes Avellinus etc. ». Credo si debba invece interpungere: « Willehelmus fi- iius Tancredi et frater eius , Margarita, Comes Avellinus etc. ». Comunque, è sempre erroneo attribuire un fratello a Guglielmo III dopo la morte del maggiore Rng- giero, che gli scrittori chiamano talvolta Ruggiero III; ma sarebbe doppio errore attribuirglielo e chiamarlo Margarita. Non mi par dubbio che « Margarita», come è anche denominato da altre fonti che citerò appresso, sia Margaritone di Brin- disi. Gli errori di nome in Ansberto non fanno specie, trattandosi di uno straniero che vivea lungi dall'Italia e a cui queste notizie giunsero per relazione altrui.

2 Docum. del marzo 1183 in Garutì. Documenti inediti dell'epoca Normanna in Sicilia, pag. 191,

PARTE II. DI UN'IMPORTANTE MINIATURA. 311

Maggiori difficoltà presenta l' identificazione dei nomi della se- conda colonna. Il primo è un « Comes Riccardus » e non è chi non veda come la semplice indicazione del nome sia all'atto insufficiente; ci aiuta Ansberto che non nomina vermi Riccardo. Se non che l'esser messo in capolista mi pare che accenni a personaggio non solo cospicuo, ma principale; e intatti due fonti tedesche danno come ar- tefici principali della congiura insieme a Margarite, un conte Riccardo. La prima è la Continuatio Weingartensis della Cronaca di Tigone l la quale nomina : Margaritam piratam pessimum » e un « Riccardum nobilem comitem » e dopo di costoro il figliuoletto di Tancredi « nec non et aliis episcopis, abbatibus et mulieribus »; la seconda è la Con- tinuatio Sanblasiana di Ottone di Frisinga 2 la quale anch'essa pone come capi della cospirazione : « Margaritum archipiratam potentissi- mum illius terre baronem cum quodam comite Richardo litteris ap- prime erudito », e poco dopo ripetendosi: « Margaritum archipiratam et Riehardum comitem imperatricis consangui neum » ;!.

Chi sia questo conte Riccardo, letterato e consanguineo dell'im- peratrice io non so, ma dubito che si tratti del conte Riccardo d'Acerra, consanguineo, e precisamente fratello, non dell'imperatrice ma della regina Sibilla di Acerra, moglie di Tancredi; e tanto più panni proba- bile in quanto sulla fede dell' imperatrice Costanza si avevano forti dubbi, tali che una cronaca tedesca, gli Annali di &tade 4, attribuiscono a Riccardo di Acerra il proposito di avvelenare Enrico VI per con- siglio di Costanza; ma la morte di questo conte Riccardo, che sarebbe stato uno dei cospiratori catturati per ordine di Enrico VI, come la narrano le due fonti predette, fu assai diversa da quella orribile e

1 Mon. Gemi. hist. XXI, pp. 478-79.

2 Mon. Gemi, hist. XX, p. 325 e 326.

3 Per le fonti tedesche Margarito fu 1' autore principale della congiura. Le Gesta Heinrici VI attribuite a Goffredo da Viterbo. Mon. Gemi. hist. XXII, p. 337, recano :

« Palatini comites simul congregati,

« Margaritus, regnlus situili sociali

« Cesarem occidere ita sunt iurati ».

« Hoc postquam Cesar scivit, cepit proditores

« Margaritus, regulus et omnes fautores ».

4 Mon. Gemi. hist. XVI , p. 353. « Quondam etiam Ricln»rdum per plateas tractuni suspendi fecit quia eum [iniueratorem] Cousrantie Consilio inipotionare voluit». Il sospetto che Costanza partecipasse secretamente alla e mgiura è rive- lato da parecchie cronache tedesche ed inglesi , passate a rassegna dal Toeche Kaiser Heinrich, pag. 582 sg.

5lÙ G. B. SIltAGUSA. PAR/TE lt.

crudele del Conte di Acerra che ci descrive con ributtanti particolari Riccardo di S. Germano e che sarebbe stata inflitta per ordine dell'im- peratore a Capua nel 1197 e non pel fatto della congiura.

Se però vogliamo limitarci al proposito d'identificare questo Ric- cardo, messo in capolista , dirò che alla congiura, vera o supposta, alla quale si riteneva avessero preso parte la regina e tutta la fami- glia degli Aiello, non poteva credersi, specialmente dai Tedeschi dei quali P. da Eboli era il portavoce, che potesse essere rimasto estraneo il fratello della vedova di Tancredi, che era stato una delle colonne più salde del partito antitedesco.

Anche pel secondo nome « Comes Rogerius » l'indicazione è af- fatto insufficiente ; ma se si ricorda che Ruggiero conte di Molise, forse figlio del noto Riccardo di Mandra , prima partigiano di En- rico VI, era divenuto fautore di Tancredi, dopo essere stato vinto e fatto prigione da Riccardo conte di Acerra i , parrà verosimile che si accenni a lui in questo luogo. Ansberto nel suo elenco nomina tre Ruggieri: il primo sarebbe un fratello di Mcolò arcivescovo di Sa- lerno, ovvero un signore di Trebisacce, se quest'ultimo titolo non si riferisce allo stesso fratello dell'arcivescovo salernitano 2 ; il secondo un « Rugerius nobilis » senz'altra indicazione ; il terzo un « Comes Avellinus Rogerius » del quale j)arlerò più tardi 3 ; ma niuno dei tre si può identificare con questo della leggenda del Codice di Berna.

Il terzo personaggio notissimo è da considerare insieme al sesto. Quegli è Riccardo di Aiello figlio di Matteo cancelliere ; questi sarebbe un fratello di lui e dell'arcivescovo di Salerno Mcolò, che giusta la scritta del Codice di Pietro da Eboli avrebbe avuto nome Giovanni. Secondo questa, dunque, i figli di Matteo d'Ai elio che parteciparono

1 Cf. Annali Casin. nei Mon. Germ. hist. XIX , pag. 315 e Riccardo da S, Ger- mano, ediz. Gaudenzi, pagg, G6 e 68.

8 L'edizione Dobrowsky porta a pag. 124: « Archiepiscopi Salernitani^, comes frater suus, Rugerius de tribus Bysatiis etc. ». Quella delle Fonte» Berum Au8triacarum png. 86: « Archiepiscopus Salernitanus, comes frater suus Rogerius de tribus Bysatiis » , etc. Come si vede anche qui nasce dubbio dall' iuterpun- zione, e non si sa se il conte Ruggiero di Trebisacce fosse, secondo Ansberto, il fratello di Nicolò arcivescovo o se questo fratello fosse un conte innominato e di- verso da un Ruggiero di Trebisacce.

3 Anche qui sorge una difficoltà per la diversa interpunzione nel testo di Ansberto. Abbiamo, infatti, secondo l'ediz. Dobrowsky: « Comes Avellinus, Ro- gerius, Petrus etc » ; secondo quelle delle Fontes B. A.: « Comes Avellinus Roge- rius, Petrus etc. ».

Parte li. bt un'importante miniatura. 313

alla congiura furono tre : Nicolò arcivescovo, Riccardo e Giovanni, e anche la cronaca tedesca di Burcardo e Corrado di Ursberg conferma in generale la notizia, senza dare i nomi. Dice infatti : « [Imperato!-]... vades accepit quosdam nobiles et potentes terrae inter quos erant archie])iscopus Salernitanus et duo comites germani fratres eiusdem, et quidam Margaritus, qui potens fuerat in mari pirata » '.

Di Riccardo si sa che alla elevazione di Tancredi fu nominato conte e che tenne sovente le veci del padre nell'ufficio di cancelliere, onde parecchie concessioni di quel re sono date : « per manus Ric- cardi filii Mathei regii cancellarli eo quod ipse cancellarius absens erat 2 ». Xon v'è dubbio, dunque su questo secondo tìglio di Matteo di Aiello. Dubbio vi è invece sull'esistenza e sul nome del terzo. Rocco Pirro nella sua Cronologia dei re di Sicilia 3 scrive che Enrico VI imperatore mandò prigioni in Germania : Nicolò arcivescovo col fra- tello Riccardo e con lo zio Ruggiero. Xon discuto i particolari di questa notizia che non so a quale fonte fosse attinta; ma il Mungi- tore nella introduzione ai documenti della Magione, citando bene, ma interpretando male il Pirro e l'Ughelli 4 , Ruggiero come tiglio di Matteo, e perciò come fratello di Nicolò arcivescovo: ciò che hanno ripetuto parecchi. Matteo cancelliere ebbe certamente un fratello di nome Ruggiero che fu giudice di Sorrento, come è detto nel diploma di fondazione del monastero di 8. Maria de Latini* , inteso poi del

1 Mon. Gemi, hist., XXII, pag. 364.

2 Cf, concessione di un privilegio ai cittadini di Gaeta , data a Messina nel luglio 1191, (nel Codex Caietanus del Tabularium Casinense , II, pag. 311) e con- cessione alla Chiesa di S. Nicolò di Bari , data a Brindisi nel 1192, (nel Codice diplom. Barese I, pag. 121). Nel 1206 Federico II concedeva al conte di Tropea « domos Riccardi coruitis filii quondam Mathei vicecancellarii , quas in civitate Panornii paterno iure, vel alio quolibet titillo dignoscitur possedisse»; ma nel 1216 Costanza col figlio Enrico, già nominato re di Sicilia, concedeva all'arcive- scovo Nicolò di Aiello le decime « platearum et plancarum terre Ebuli », e nel documento si legge: « Cum tu Nicolae venerabilis Salerni archiepiscope, dilecte fidelis noster, per comitem Ricardum de Avello germanum tuum, tìdelem nostrum, preces nostre celsitudini porrexisses... ». Cf. Winkelmann, Acta imperi inedita, pagg. £2 e 376. Vuol dire o che gli Aiello furono sempre benvisti a Costanza o che riacquistarono il favore di casa Hohenstaufen dopo la loro liberazione.

3 Sicilia Sacra, pag. XXIV, ediz. 1733.

4 Ughelli. Italia Sacra, ediz. Coleti, voi. VII, pag. 414-415. Vi si trova quasi testualmente riprodotto il passo del Pirro. Questo, o fu scritto con estrema tra- scuranza o fu guasto nella stampa, onde si spiega la cattiva interpretazione del Mongitore. Così come è. e come lo trascrivo, è sommamente oscuro : « At eos omues [imperator] cum Nicolao Archiepiscopo Salernitano, Riccardo Avelli cornile, Rogerio fratre Matthei Cancellarli iam defuncti fìliis in Germaniae solum vertere coegit».

3Ì4 G. B. SIRAGÙSA. fARTE lì.

Cancelliere (marzo, 1171) l; ma dalle cronache e dai documenti che mi fu dato di percorrere non mi è riescito di costatare l'esistenza di questo terzo figliuolo di Matteo, né, come panni, la potè costatare il Toeche, il quale, forse ravvicinando il nome Giovanni che lesse nella leggenda alla miniatura di Pietro da Eboli (si ricordi che questa è una delle otto tavole pubblicate dall'Engel e riprodotte dal Del Ee) con non so quale altra notizia, dove parla delle punizioni e delle ricompense date dall' imperatore nel 1195, scrive, ma erroneamente, che al posto del vescovo di Catania , Giovanni di Aiello , fu nomi- nato un partigiano imperiale a nome Ruggiero 2. Ma Giovanni di Aiello vescovo di Catania era stato fratello e non figlio del can- celliere Matteo , ed era morto in Catania nel celebre terremoto del 4 febbraio 1169 o 1170 3, e della morte di lui si era rallegrato in una lettera a Riccardo eletto di Siracusa il celebre Pietro di Blois 4. Ruggiero, benedettino catanese, fu assunto al vescovato di Catania nel 1195 ed ebbe concessioni dall' imperatore Enrico VI che nel di- ploma « Datimi apud Casalenovum per manus Alberti imperialis aulae Protonotarii, nono Kal. Maii, anno domini 1195, ind. XIII », lo chiama « fidelis noster »; ina tra il 1109 o 1170, anno della morte di Giovanni Aiello, al 1195 quando fu eletto Ruggiero, si erano succeduti in quel Adesco vato : Roberto Abbate, dal 1171 al 1184, e Leone di Ravenna, dal 1184 al 1195 5.

A conchiudere, dunque, nulla si può dire di questo terzo figlio del cancelliere Matteo, la cui esistenza ci viene palesata soltanto dalla leggenda del Codice Bernese. Ciò non vuol dire, però, che la notizia sia da respingere come certamente falsa. La nostra ignoranza, derivata dal silenzio delle fonti note, non può escludere il dubbio che Giovanni Aiello, figlio di Matteo cancelliere, sia esistito e che sia stato creduto con gli altri partecipe alla congiura.

1 Cf. il diploma in Garufi; / documenti inediti dell' epoca Normanna in Sicilia, pag. 133.

2 « An Stelle des gefangenen Bisokofs von Catanea , Iohanues von Aiello, wurde ein kaiserlich gesinnter, Roger, erwiihlt ». Kaiser Heinrich VI, pag. 352.

3 Cf. Falcando, Ediz. dell'Istituto Storico Italiano, Ristoria pag. 164 ed Epi- stola pag. 175.

4 Petri Blesensis. epistola 46a ed. Migne, Patrol. lat. CCVII.

5 Cf. i documenti e le notizie in Pirro Sicilia Sacra I, pagg. 529-532. Il Toeche occupandosi poi delle fonti per la storia della congiura nell'appendice nona, a pag. 574, pare abbia dimenticato ciò che aveva scritto: Riportandosi infatti alla

miniatura, scrive : « Der Codex nennt ausserdem Iohann, den Bruder des

Erzbisebofs von Salerno, (wer das ist, ist mir uubekaunt) »,

parte it. r>i un'importante Miniatura. 315

Il quarto nome di questa seconda colonna è quello di un « Eu- genius » senz'altra indicazione di titolo o di dignità, e Ansberto più volte citato, porta anch' egli come ultimo del suo elenco un « Eugenius » e anch'egli senz'altra indicazione. Ciò dimostra che veramente un Eu- genio fu nel numero dei colpiti dalla collera imperiale. Ma chi era costui ? le cronache, ne i documenti editi mi aiutano a rispondere; però un filo di luce mi viene da un documento inedito che io lessi nella badia di Cava, che è del settembre 1174, e nel quale è nomi- nato un « Eugenius magister duane baronum qui a regia celsitudine [Wilielmi II] ad partes istas [Salerni] delegatus est prò exigendis rationibus a baiulis partis istarum » l. Il tempo , il luogo e l'ufficio, non che la certezza che doveva essere persona ben vista a Casa Nor- manna, come si ricava dalle parole riportate, rendono probabile che si tratti di lui. Non vi è dubbio invece sulla identificazione del quinto nome : « Come W[illelmus] de Marsico » mentovato in molti documenti e che fu figlio del noto Conte Silvestro morto prima del 117.") 2.

Restano il settimo e l'ottavo nome della seconda colonna dei quali l'ultimo, quello di « Alexius servus Tancredi » attesta l'esistenza di questo servo umile, ma fedele e tuttavia tanto noto da assurgere all'importanza di cospiratore politico , ma non è facile trovare una cronaca o un documento che ne faccia menzione. 11 penultimo, « Comes Rogerius Avilini », è quello di un personaggio dei più potenti e noto abbastanza. Lo nomina anche Ansberto, ma più correttamente della leggenda del Codice di Berna, lo chiama « Comes Avellinus ». Non panni dubbio che sia quel « Comes Rogerius de Aquila » nominato nel Catalogus Baronum e che era anche Conte di Avellino 3.

A riassumere, dunque, la miniatura del Codice Bernese e la leg- genda che la spiega, conferma la partecipazione alla vera o supposta congiura della regina Sibilla , di Margarite da Brindisi, di Nicolò e di Riccardo di Aiello, di Eugenio, assai probabilmente maestro della dogana dei baroni, e del Conte d'Avellino. Ci rivela la partecipazione probabile di Ruggiero di Tarsia (se il nome Tharthis si può inter-

1 Arca 87, X. 33.

2 Cf. doc. in Garun, Tubiti, di S. Maria la Xuora di Monreale, pag. 9.

3 Caialogus Baronum etc. in Del Re I, pag. 582.

Si è G. tì. SlfcAGTJSA. PARTE It.

pretare Tarsia) di un Ruggiero che non pare difficile sia Ruggiero di 31 oli se, del Conte Guglielmo di Marsico e finalmente ci rivela il nome di un servo di Tancredi e ci costringe a ricercare se il conte Riccardo d'Acerra, o altri dello stesso nome, fu creduto colpevole della con- giura e se esistette e se ebbe nome Giovanni quel terzo tiglio del cancelliere Matteo che vi troviamo nominato.

Comunque, è una testimonianza che, venendoci da un contempo- raneo partigiano imperiale, ha un grande valore storico, malgrado le incertezze, e vorrei dire le perplessità che genera. Se venisse in mente a qualche studioso di fermarsi su questo punto per ricostruire la storia della congiura , come fu veramente ordita o come fu inventata per trovare il pretesto di sbarazzarsi dei fautori del partito nazionale si- ciliano, che aveva combattuto nel nome di Tancredi, questi non potrà non meditare questa miniatura e non sarebbe da biasimare se ne fa- cesse il punto di partenza delle sue indagini l.

E dopo ciò giudichi ognuno se fu avventato giudizio il mio allorché, parlando delle miniature del Codice Bernese, dissi che, se si considera il Carme di Pietro da Eboli come fonte storica, le miniature sono più importanti del poema , poiché danno notizie più precise e meglio determinate.

1 Se la congiura fn veni o inventata non possiamo dire con assoluta cer- tezza. Si vegga a tal proposito la digressione di M. Amari al cap. VI del libro VI della Storia dei Musulmani di Sicilia, voi. Ili, pag. 555 sg.

Palermo.

Gian-Battista Siragusa.

ANNOTAZIONI NUMISMATICHE ITALIANE

XII.

Monete battute in campo dai Fiorentini e dai Pisani.

Un giovane studioso di numismatica, il signor Augusto Franco, ha esordito in questi ultimi ama con alcune pubblicazioni, che dimo- strano in lui una buona attitudine a questi studi e fanno sperare molto del suo avvenire. In una di queste *, egli ha riunito tutti quei brani dei cronisti Fiorentini, relativi ad alcune coniazioni eccezionali, lamentando che la numismatica Toscana sia stata in questi ultimi tempi molto trasturata.

Convengo anch'io, che si avrebbe dovuto tener conto negli elen- chi delle Zecche Italiane , dei luoghi dove quelle coniazioni avven- nero; e panni che la mancanza delle monete relative nelle collezioni, sia stata la causa principale di tale omissione. Infatti, sino ad ora non se ne conosceva che una sola, cioè il grosso detto della volpe, battuto dal Capitano Farnese a Giglione e Spedaluzzo nel 1303 ; e questa, seguendo l'esempio dell'Orsini 2, si considerava da tutti come spettante alla serie comune senza tener conto delle circostanze spe- ciali nelle quali venne coniata.

Oggi, le condizioni sono mutate, perchè altre due di queste mo- nete d'occasione esistono nella collezione di S. Maestà; le quali mo- nete mi accingo a pubblicare.

1. S. Jacopo in Val di Serchio.

Giovanni Villani , nelle Croniche Lib. VI , Cap. 04 , cosi narra la coniazione ivi avvenuta.

« Negli anni di Cristo 1250, essendo ancora di Firenze Podestà

1 Appunti di Numi? malica Toscana Pubblicazione per nozze Firenze 1903 Tip. Bonducciana.

2 Monete della Repubblica Fiorentina Firenze 1740. Cf. al primo semestre del 1363.

318 G. RUGGERO. PARTE II.

« il detto Messer Alamanno i Fiorentini vennero ad oste sopra

« Pisa , insino a San Jacopo in Val di Serchio ; e quivi tagliarono « mio grande pino; e in un sul ceppo del detto pino batterono grande « quantità di Fiorini. E per ricordanza quelli clic quivi furono co- « niati hebbono per contrassegna tra' piedi del S. Giovanni , quasi « com'uno trafoglio a guisa di un piccolo alboro. E dei nostri ve- « demmo noi assai di que' Fiorini.» (Ediz. del Giunti, Firenze 1587). La stessa notizia è ripetuta dal Malispini.

Fig. 50. lì. S. IOHA NNES. B. Santo nimbato con lunga croce nella sinistra; a destra nel

campo e vicino al piede del Santo un trifoglio. B, -*■ FLOR ENTIA Giglio.

Oro Peso gr. 3,47 C>ns. buonissima.

Questo fiorino entrato da poco nella Collezione Reale, corrisponde perfettamente alla descrizione del Villani ; ne può far parte della serie comune Fiorentina, perchè mancante del segno dello Zecchiere, che dovrebbe stare in alto a sinistra tra la E e la testa del Santo. Vi si trova invece il trifoglio a guisa di alberetto, distintivo di quei fiorini battuti sul ceppo del pino a S. Jacopo. A chi volesse far que- stione del trifoglio, che sta a destra e non in mezzo a' piedi, sarebbe facile rispondere: quel tra/ piedi doversi intendere per vicino a' piedi, allo stesso modo che nel parlare comune si dice ad esempio : « mi trovo sempre quest'animale tra' piedi ».

D' altronde , oltre alla sconvenienza artistica, si avrebbe anche lo spazio troppo ristretto per un alberetto in mezzo ai piedi del Santo.

Non sarà oziosa, per ultimo, l'osservazione, che tutti i caratteri di questa moneta, corrispondono all'epoca di cui si tratta in confronto a quelli della serie dei fiorini.

2. Rifredi.

« Nel detto anno (1303) adì 25 di Luglio, i Pisani si parti -

« rono di Pisa, e andarono a Lucca senza prendere arresto se ne

« vennono a Campi, e a Peretola, e quivi fermarono il campo, poi

PARTE II. ANNOTAZIONI NUMISMATICHE ITALIANE. 319

« colle schiere ordinate vennono sino al ponte a Rifredi, e sentendo « sonare le campane del comune a storino, gì' Inghilesi che secondo « 1' uso di loro paese , pensarono, che 1' popolo uscisse a battaglia, « temettono un poco e rincularono. Il perchè i Pisani feciono correre « il palio per traverso a Rifredi e tra le schiere. Più feciono batter « moneta, e al ponte a Rifredi impiccarono tre asini, e per derisione « loro puosono al colle il nome di tre cittadini a ciascuno il suo. »

Così, Filippo Villani, Cap. LXIII (Edizione Giunti Firenze 1581), il quale per altro non dice qual segno avessero quelle monete. Ma questo lo troveremo nel Tronci, Annali Pisani, ad anno, (Ed. Livor- no 1682) :

« inoltre batterno monete d'oro e d'argento con l'impronta della « Vergine col figlio in braccio da una parte, e dall' altra un aquila « Insegna dell' Imperio, sottovi un leone aggranfiato , et impiccorno « per maggior scherno degli inimici tre asini etc »

Era dunque il solito tipo della loro moneta di quel tempo, colla variante del leone in luogo del capitello, sul quale l'aquila stava ap- poggiata.

Fig. 51. D. FEDERICV IMPATOIt Aquila coronata, ad ali aperte, rivolta a sinistra un

animale sotto agli artigli. B. PTEGE* < VIRGOPIS La Vergine seduta in trono col Bambino nel campo a sin. un pugnale.

Oro. Peso gr. 3,47 Cons. mediocre.

Questo è F esemplare della moneta in oro che corrisponde alla descrizione. 11 leone non è molto chiaramente visibile per la conser- vazione scadente in quel punto, e fors'anche per colpa dell'intaglia- tore; ma la forma allungata dell'oggetto che l'aquila tiene sotto agli artigli, è certo di un animale, e questo può passare per un leone.

L' importante si è , che manca il solito capitello caratteristico delle monete Pisane. E poiché non si ha altra memoria dai cronisti, di coniazioni eccezionali all'infuori di quella nel 13G3, questa è Tu- nica moneta che possa acconciarsi alle indicazioni del Tronci. Anche per questa, l'insieme dei caratteri concorda bene con l'epoca.

Ancora un avvertimento è necessario circa la presente moneta.

320 Q. RUGGERO. PARTE II,

Un dubbio potrebbe insorgere in qualcuno dei lettori, cioè quello di un ritocco colla sostituzione dell'animale al capitello. E questo dub- bio sarebbe legittimo, trattandosi di una zecca nella quale, come dirò in seguito, tale fatto non sarebbe unico. Ma nel caso presente, que- sta supposizione è assolutamente da scartarsi per i motivi seguenti: lo spessore uniforme dell'orlo, anche nella parte, dirò così, incrimi- nata : il peso non diminuito , tenuto conto della conservazione i ma più di tutto la maggior distanza tenuta nel conio tra le due parti inferiori della leggenda, quale si rendeva necessaria in questo caso, in cui al solito capitello doveva sostituirsi un oggetto molto più largo.

Secondo il cronista Pisano, pare die a Eifredi siasi coniato an- che l' argento. Speriamo che si possa avere al più presto notizia di qualche esemplare; ed a questo line vorrei che si osservassero bene tutte le monete Pisane delle collezioni pubbliche e private, non es- sendo improbabile che non siasi finora prestata la dovuta attenzione all'oggetto che sta sotto all'aquila.

Ai nostri tempi , queste battiture effìmere in campo senza un bisogno reale, fanno la stessa impressione come tanti altri mezzi al- lora usati per far onta al nemico; ma riportandoci alle idee di quei tempi, si comprende tutta l'importanza dell'atto. La monetazione era ritenuta per la più alta prerogativa della sovranità, ed è perciò che la battitura di monete su terra nemica, equivaleva al miglior modo per dimostrarne la presa di possesso.

XIII. Quanto vi sia di vero, nelle monete del Podestà Bonaccorso da Palude.

Il precedente al quale accennai nella passata Annotazione, di monete Pisane alterate da' falsari, è quello dei due grossi autentici ai quali venne rifatta una leggenda con parte della rappresentazione, per mettervi il nome e 1' arme del Podestà da Palude. Il Viani fu vittima di quell' inganno , e ne prese 1' argomento per due memorie ben conosciute dai numismatici 2 , malgrado che egli fosse rimasto giustamente eolpito dal fatto nuovo ed insolito.

1 Di nove esemplari della serie Pisana nella Coli. Beale, 7 ben cons. vanno da 3,11 a 3,50; due soli, perchè mal cons. pesano soli gr. 3.36 e 3.37.

2 Memoria di una moneta inedita di Pisa. Ivi 1809. Ristampata in Da Morrona , Pisa illustrata etc. Livorno 1812. Ristampata in Rivista Italiana di Numismatica A. V. e Memoria di una seconda moneta Pisana in da Morrona, Op. cit., e nella Riv. come sopra.

TAltTE II. ANNOTAZIONI NUMISMATICHE ITALIANE. 321

Confesso , elio non ho mai potuto prestarvi tede , ina per altro non mi trovavo in cattiva compagnia, poiché fin dal 1870 il Kunz 1, così si esprimeva : « le due monete col nome del podestà Bonaccorso « da Palude , accolte anche in due segnalate nuove pubblicazioni '', « credo doversi escludere dalla serie Pisana , perchè verosimilmente « apocrife. L'occhio del Viani pare non sia stato abbastanza efficace « in quella circostanza ».

Circa due anni addietro, potei averi; in mano il famoso esem- plare illustrato dal Viani nella sua prima memoria, che si conservava religiosamente in un astuccio di ([indi' epoca , insieme con un foglio che era l'edizione originale dello scritto relativo. Appena aperto quel- l'astuccio e presa la moneta, l'opera del falsario mi apparve in tutta la sua evidenza.

Era, come infatti appare dal disegno dell'A. mio di quei grossi anteriori ad Enrico VII, ma che tuttavia non possono rimontare fino all'epoca del da Palude (1242-44), i quali quando son ben conservati pesano gr. 1,05, cioè grani fiorentini 40 scarsi. Ma l'operazione su- bita per opera del falsario, avea tolto al peso originale gr. 0,75, ri- ducendolo a gr. 1,20, cioè grani fiorentini 24 '/2; che è per l'appunto quello dichiarato dal Viani , senza che egli avesse posto mente alla grave differenza. si avvide dell' assottigliamento dell'orlo, del ritocco all'aquila per smorzarne l'eccessivo rilievo che risultava dal- l'operazione. E neanche potè metterlo sull'avviso la differenza fra le lettere nuove e quelle del rovescio, autentiche ed intatte, quella visibilissima fra 1' aspetto generale del dritto, e quello del rovescio.

Il secondo di tali prodotti del falsario di allora, sta nel Museo di Pisa ; e sebbene io non abbia potuto vederlo che dietro il vetro (hd mobile , tuttavia non mi lasciò dubbio alcuno circa al grado di parentela che lo lega al primo.

Per esser giusti , dovremo riconoscere che non tutta la colpa spetti all' A. ma in gran parte al vizio dei suoi tempi. Si era ancora sotto la tradizione del secolo precedente «piando il valori; dello scrit- tore doveva dimostrarsi in quelle interminabili dissertazioni accade- miche, dense di rettorica ma povere di vera critica numismatica. Lo studio analitico ed esatto dei caratteri delle monete, che è la guida più sicura per la classificazione cronologica, era trascurato affatto. E

1 Museo Bottacin, in Periodico delio Strozzi, Firenze A. III. pag. 25.

2 Ritengo che 1' A. abbia voluto alludere al V. Prorais. Tavole sinottiche , Torino 1860 ed al Tonini, Topografia generala delle Zecclie It. Firenze 1869.

21

322 G. RUGGERO. PARTK II.

per questo , il nostro A. che pure era già passato innanzi di molto ai suoi predecessori , non ha potuto avvertire come a' tempi del da Palude non potessero ancora esser coniati i nuovi grossi con i sim- boli monetari. In quell'epoca, anche ammettendo che i grossi primi- tivi colla F da un un lato ed il nome della città nel centro dell'al- tro avessero cessato, ciò che non è ben certo, al più dovevano aver corso i grossi di secondo tipo, cioè quelli colla F e la Madonna.

Intanto, come si è veduto, la favola delle monete di Bonaccorso da Palude ha potuto in grazia dell'autorità del Viani, durare per 96 anni , non solo tra il volgo , ma tra i numismatici grandi e piccini. È tempo oramai che venga fatta giustizia nel nome più autorevole, quello della scienza.

XIV. Della Zecca Aretina sotto il reggimento dei Fiorentini.

La città d'Arezzo era in mano de' Vescovi; e fu ad uno di questi, che Enrico III avrebbe concesso fin dal 1052 il privilegio , cudendi moneta» in ipsa Aretina civitate \ E fu un Vescovo, Guglielmo liber- tini, quegli che nel 1289 guidò gli Aretini a Campaldino, lasciandovi la vita con quasi tutti i suoi. E finalmente, al governo di un Vesco- vo, Guido Tarlato di Pietramala , la città dovette il periodo di sua maggior grandezza e prosperità nel primo quarto del XIV secolo. Ma il fratello di lui, Pietro detto Saccone, vendette la città ai Fioren- tini nel 1337. Riacquistata la libertà dopo 0 anni, gli Aretini poco ne poterono godere per le civili discordie, fino a che nel 1385 le mi- lizie di Ludovico d'Angiò presa la città, la vendettero a Firenze per 42000 ducati.

Nel 1502 Arezzo si ribellò ai nuovi padroni ; ma quel barlume di libertà non durò che pochi mesi , durante i quali sarebbe stata riaperta la zecca 2 coniandovi moneta al tipo tradizionale.

Nel 1530, nuova e breve autonomia durante l'assedio di Firenze ; ed il Fabroni (op. cit.) ci notizia di un ordine per battere mo- neta col busto di S. Donato da una parte e 1' aquila imperiale dal- l'altra.

Stando a questo A. esisterebbe un documento che proverebbe

1 Fabroni Delle monete di Arezzo, in Atti (iella I, R. Accademia Aretina, 1843, p. 62.

2 Fabroni op. cit.

TARTE II. ANNOTAZIONI NUMISMATICHE ITALIANE. 323

l'esistenza di una zecca in Arezzo fino dal 1158. Ma le monete che si conoscono non risalgono tanto addietro. I grossi, specie quelli senza il nimbo attorno alla testa del Santo die sembrano i più antichi, sono certamente della seconda metà del XIII sec. i. E di anteriori a que- sti non si conoscono che i danari di Ugo I Marchese di Toscana del «MÌO circa 2.

È straìio che mentre le monete aretine dovrebbero essere vesco- vili , siano invece comunali. Alcune di esse sono bensì segnate da alcune piccole nutrie nelle leggende, ragione per cui il Bellini, il Promis e (piasi tutti i numismatici credettero di assegnarle alla Si- gnoria di Guido Tarlato; ma non posso dirmi assolutamente convinto di questa attribuzione. Ed invero, il posto che quelle mitrie occupano nelle leggende , mi induce a crederle piuttosto contrasegni dei zec- chieri come le mezzedime, le rosette, i gigli ed altri segni usati per interpunzione nelle monete Aretine. Se avessero dovuto rappresen- tare la Signoria di un Vescovo, certo non avrebbero mancato di te- nere il posto più nobile, che secondo le consuetudini è sempre stato il centro , o quanto meno 1' orlo in alto in principio di leggenda. E perchè non avrebbe quel Vescovo improntato il nome come fecero quei di Volterra ? Pur tuttavia non intendo d'insistere affermandomi contrario alla opinione generale , se tale veramente sarà ; tanto più che questi grossi inaugurano in questa zecca due tipi diversi dal pri- mitivo, cioè il grosso Agontano col Santo in piedi, ed un altro gras- setto col Santo seduto.

Delle coniazioni autonome del 1502 e del 15:50, se veramente effettuate, non abbiamo traccia nei medaglieri; così clic lino ad oggi prevaleva l'opinione, che la zecca si chiudesse definitivamente nel L385.

Ma la monetazione Aretina non fu sempre autonoma , avendosi monete coniate dai Fiorentini; cioè un grosso del XIV S. inedito, ed un quattrino della fine del XV o principio del XVI. Quest'ultimo è

1 Non credo inutile segnare i pesi che si Inumo negli esemplari ben conser- vati. Su circa 20 es. ho trovato un maximum di g. 1.85 in quelli a f. di conio; gli altri non scendono mai sotto a 1.73.

Quelli col nimbo al Santo, danno pesi di poco interiori.

Vengono in seguito i grossi olla croce di 1 asce tra 5 globetti , nei quali trovai il maximum di 1.35. l'Itimi i bolognini coll'A grande nel centro da 1.04 ad 1.07.

Abbiamo poi le moneto colie mitrie, cioè grossi Agontani di circa 2.30 con un maximum di 2.13; ed i grossi col Sauto seduto, di 1.65 a 1.67 quaudo sou di per- fetta conservazione.

2 Promis, in Riv. di Asti 1861, pag. 30.

324 G. RUGGERO.

conosciuto, e lo si trova nelle collezioni, ma andò sempre confuso da tutti tra le autonome anteriori al 1385.

Fig. 52. D. : S. DONATUS : Busto mitrato e nimbato di fronte, tenente il pastorale nella s.

e benedicante colla d. cerchio rigato. R, ♦$* : DEARITIO : Giglio Fiorentino in un cerchio rigato. Arg. Peso g. 1.28 cons. buona. Collezione di S. Maestà.

Non è il caso di spendere molte parole per dimostrare, che questo grosso coi suoi caratteri paleografici ed artistici accusi evidentemente F epoca di origine cioè la prima metà del XIV 8. ; appartiene dun- que al periodo della Signoria Fiorentina in Arezzo dal 1337 al 1342.

Un secondo periodo di monetazione Fiorentina , l'abbiamo verso la fine del XV e principio del XVI. Probabilmente l'Orsini intende di riferirsi a questa, quando riporta l'ordine del 1472... « che passato « il mese di dicembre prossimo avvenire 1472 non si possa nella citta, « contado e distretto di Firenze o suo Imperio spendere, ne ricevere « in alcuno pagaineuto alcuno quattrino se non del segno , et conio « del Comune di Firenze , Pisane et Aretine , et battuto nelle dette « zecche di Firenze, Pisa et Arezzo, sotto pena etc...»

L'unico che ha rilevato questo passo , è il Gamurrini *. Si po- trebbe osservare bensì , che allo stesso modo che qui si tratta di quattrini Pisani che non potevano esser battuti dai Fiorentini, così per quei di Arezzo si trattasse degli antichi che avessero ancora corso. Ma, come già dissi, esiste un quattrino moderno che va con- fuso cogli antichi nelle collezioni, ed è quello riportato dal Bellini 2 sebbene non fedelmente , e riprodotto dal Kunz ;! allo scopo di cor- reggere quel primo , senza riuscirvi totalmente. Infatti, il primo ha messo una chiave in luogo del pastorale in mano al Santo , ma ha veduto bene lo scudo della croce , pure rifacendolo più grande e

1 In Periodico dello Strozzi, An. I, pag. 124

2 De monetis Italùe etc. Voi. I, pag. 10 e Tav. II, n. 6.

3 In Periodico Strozzi, A. Ili, pag. 32 e Tav. I[, n. 8,

PARTE II. ANNOTAZIONI NUMISMATICHE ITALIANE. 325

tondo; il secondo ha messo il pastorale, malia cambiato lo scudo in giglio.

Tutti e due lo ritennero come appartenente alla serie autonoma, cioè anteriore al 1385 , e non so spiegarmi questo errore , special- mente per quel diligente ed acuto osservatore che era il Kunz. Egli avverte bensì la novità del nome scritto alla moderna, ARRETIVM in vece di ARITIVM : ma non considera che le lettere sono moder- ne, quali mai si usarono prima dell'ultimo quarto del XV sec, cioè un secolo dopo la fine della monetazione autonoma Aretina. E questa prova avrebbe dovuto bastargli, anche non avendo ravvisato lo scu- detto della croce che scambiò per un giglietto. E di ciò egli non ebbe colpa, perchè sull'esemplare del Museo Bottacin, come seppi da quel dotto Conservatore al quale mi ero rivolto per ragguagli in propo- sito, quel particolare non è molto chiaro e distinto.

Ad ogni modo, avendo constatato in tutti gli esemplari che ho potuto vedere, come in quelli numerosi della Reale raccolta , la pre- senza della crocetta nello scudo che è l'arnia del popolo Fiorentino, credo utile di dare il disegno della moneta. Questo servirà a retti- ficare le precedenti pubblicazioni.

Fig. 53. D. S DONATVS Busto del Santo mitrato e nimbato di fronte con pastorale cei\

lineare. 11. Scudetto colla croce ARKETIVM. Croce in cer. lin.

Mistura P. g. 0,84 Cons. buona Coli, di S. M.

J)i detto quattrino esistono alcune varianti di punti e di parti- colari di conio, indizio di coniazioni numerose e ripetute. E tutti gli esemplari presentano sempre quei caratteri costanti , dell' epoca po- steriore all'ultimo quarto del XV sec. Tuttavia non panni che possa rimontare all'anno citato dell' Orsini per i quattrini Aretini da rite- nersi in corso; anzi, se dovessi esprimere un parere in proposito, lo riterrei addirittura del principio del XVI. E se con ciò la prova si restringe al XVI, non rimane escluso, anzi è probabilissimo che Fi- renze ne abbia coniati in Arezzo fin dalla seconda metà del XV. Ed io credo , che potendo vedere altri esemplari della moneta che deb- bono abbondare nelle collezioni , non si tarderebbe a trovarne con caratteri di poco differenti e più antichi.

326 G. RUGGERO.

Poiché l'esperienza insegna, che non è lecito apporre ad alcuna serie l'indicazione, completa, così è da sperarsi che possano venir fuori altri prodotti di questa zecca, durante il governo dei Fiorentini.

XV. Di un denaro Lucchese dell'lmp. Lotario, col noma di un nuovo Duca.

Le ricerche intorno alla serie di questi Duchi e Marchesi furono sempre irte di spine. Basti ricordare l'incertezza degli storici sul nu- mero degli IT goni : chi ne voleva uno solo, chi ne accettava due. Co- simo della Rena era fra questi ultimi l, mentre più. tardi il Muratori non ammetteva che il solo Ugo il grande, (v. Diss. 65). General- mente gli storici dopo di lui seguirono la sua opinione; ma vennero le monete a troncare ogni incertezza.

Non è questo un fatto insolito ; che anzi molti se ne hanno a dimostrare la grande importanza di questi documenti parlanti , che portano finalmente quella luce attesa invano dai documenti d' archi- vio. Eppure, sono molti ancora in oggi, e non vi mancano letterati, quelli che trattano le monete alla stessa stregua di quei tanti altri oggetti buoni soltanto a soddisfare le brame dei raccoglitori. si avvedono del torto che fanno a se stessi.

Il San Quintino, colle monete alla mano, ha dunque potuto de- cidere la questione in modo contrario al parere Giuratori a no \ Egli, potè provare che i danari che hanno al />. il monogramma di Ugo, con + MARCHIO niella legg. ed al E. + C I VITATE LUCA, ap- partengono ad Ugo I , vassallo prediletto di Berengario II , e Mar- chese di Toscana, nominato in un documento del 901.

Mentre, quei denari col monog. di Ugo ma diversamente foggiato, e + DVXTVSC1E al J). e + DVX IVDITA LUCA al R. , sono di Ugo II il Grande tìglio di Uberto il salico, e della moglie Giuditta; ed a questo Ugo il Grande Duca di Toscana e Marchese di Lucca, si riferiscono documenti del 970 e del 1002 3.

1 Della serie degli antichi Ducili e Marchesi di Toscana. Firenze 1690.

2 Memorie e documenti per servire alla storia di Lucca, Tomo XI, Lucca 1860.

3 Non voglio tacere , che non mancarono in seguito gli oppositori al San Quintino, i quali ritengono i due tipi diversi di moneta appartenenti al secondo Ugo. Tra i Numismatici, et' il Tonini, Topografìa delle Zecche It. Firenze 1869, a pag. 7 , nota in margine. Ma la differenza nei due monogrammi , quella delle dignità ed il nome della Duchessa iu uno solo dei due tipi , mi sembrano prove più che sufficienti per la differente loro attribuzione.

Ì>AUTE II. ANNOTAZIONI NUMISMATICHE ITALIANE. 327

Questi (lanari , rappresentati da buon numero di esemplari e varianti di conio, non mancano oramai in alcuna collezione.

Nella Raccolta di S. Maestà esiste un denaro Lucchese dell'Imp. Lotario, col nome di un Duca Manfredi tino ad ora sconosciuto.

Fiji, 54. ]>. «J» IMPEUATOR Monogramma di Lotario in un cerchio di perline. R. -•}♦ MAINFRIDUX Noi campo lo 1 lettore LUCA su 2 righe tra 5 «lobetti , senza cerchio.

Arg. Denaro P. g. 1.15 = Cons. buona.

Nei documenti scritti non abbiamo tino ad ora alcuna notizia relativa a questo Duca. Dirò di più : nella serie dei Duchi di To- scana come si trova ora formata , non sembrerebbe che a' tempi di Lotario, cioè dall' 840 all' 855, potesse trovar posto un nuovo nome. Invero, abbiamo notizia da una carta dell'823 e da un'altra dell'828, di un Bonifacio II Duca di Toscana e Conte in Lucca ; nell' 817 e nell'872 abbiamo altri documenti clic si riferiscono ad un Adalberto I che è detto tìglio del precedente , Conte e poi Marchese in Lucca. Ma in queste condizioni, in cui la serie Ducale riposa su pochi punti fissati da documenti a gran distanza l'uno dall'altro, non si può as- serire che essa presenti un insieme ben chiaro , sicuro e sopratutto che non possa dar luogo a possibili lacune e varianti.

Ad ogni modo, abbiamo la moneta, unica bensì fino ad ora, ma genuina in tutti i suoi caratteri , e perciò da non potersi rifiutare. Constatiamo il fatto, ed aspettiamo.

Non è strano, che in una serie in cui le monete servirono già a decidere definitivamente una questione importante, un'altra moneta venga a farci conoscere un nuovo nome.

Ma da questa , abbiamo ancora da rilevare un altro fatto non privo di interesse; quello cioè , che quei Duchi del IX secolo non e rano ancora giunti a quel punto a cui pervennero i loro successori del X, i quali usurparono i diritti regali, sopprimendo qualunque se- gno della dipendenza Imperiale sulle monete.

orna.

Giuseppe Ruggero.

IL TESTAMENTO DI MANFREDI CHIARAMONTE.

Fin dal 1892, proseguendo nell'Archivio di Stato di Palermo e nell'Archivio generale del Comune i miei studj su' Chiaramonte di Sicilia, di cui avevo già dato un saggio per le stampe l'anno innanzi *, ebbi la fortuna di trovare in un fascicolo di Miscellanee dei Xotai defunti, che si conserva nell'Archivio di Stato, un formulario di atti con taluni contratti trascritti in caratteri del sec. XVI. In questo fascicolo, segnato col mini. 243 e compreso nel voi. XIX delle sud- dette Miscellanee, c'è il transunto del testamento nuncupativo dettato il 8 settembre dell'anno XIV Indiz. 1890 da Manfredi Chiaramonte, Conte di Modica, Vicario del Regno di Sicilia , a notar Faustino di Saliceto, da Palermo, dinanzi a' testimonj dalla legge prescritti.

Or, volendo anch'io prendere parte alle onoranze che i professori della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Palermo e i dotti d'Italia e di Europa tributeranno nel prossimo giugno a epici geniale uomo che è Antonino Salinas, pel quarantesimo anniversario del suo insegnamento universitario, mi son deciso a pubblicare nel volume com- memorativo il testamento inedito di colui che fu nel turbinoso pe- riodo che, iniziatosi con la lotta fra le parti latina e catalana, si chiuse con la venuta de' Martini dal regno di Aragona in Sicilia e col tragico fato di Andrea Chiaramonte il più potente dei quattro Vicarj del Regno.

Xon occorre qui narrare per disteso la storia della famiglia Chia- ramonte e i drammatici avvenimenti, che, svoltisi in Sicilia nella se- conda metà del sec. XIV, porsero ad Isidoro La Lumia argomento per uno dei suoi più mirabili racconti : I Quattro Vicarj. Ricorderò solo che prima di questo Manfredi aveva levato grido un Giovanni Chiara-

1 G. Pipitone-Fetìe7-ico I Chiaramonte di Sicilia. Appunti e documenti. Pa- lermo, G. Pedoue-Laui-iel edit. 1891.

Parte ii. il testamento di Manfredi chiaramonte. 329

monte, strenuo difensore, nel 1325, di Palermo da' fieri colpi degli Angiomi, non rassegnatisi, pur dopo il trattato di Caltabellotta, alla rinunzia dell'isola, e rappresentante di Federigo all'incoronazione di Ludovico il Bavaro in Roma ; quindi ribelle al re e fautore ardente del Bavaro; graziato in seguito da Pietro II, e prigioniero nel L339 di Roberto d'Angiò. Dopo Giovanni venne in fama un Manfredi , (Iran Siniscalco del Regno e Capitano Giustiziere in Palermo, clic a tanta potenza crebbe da far coniare dalla Zecca di Messina monete con gli stemmi intrecciati de' Palizzi e de' Chiaramonte. Fu costui Vicario Generale del Regno insieme con Matteo Palizzi e Blasco di Alagona, e signore e arbitro di Palermo. Xell' amministrazione del Comune un Pretore e un forte nucleo di giurati alla sua dipendenza; a' cenni di lui squadre di assoldati briganti e di armati vassalli, scesi giù da' suoi feudi; per propria dimora un palazzo magnifico, che parca sorpassare le proporzioni ordinarie del fasto privato; due fortezze in città, ch'ei teneva presidiate e munite : il Castellammare e la vuota regia de' passati monarchi; un'altra fortezza alla sommità del Caputo: il Castel- laccio, che guardava dall'alto sulla spaziosa sottostante pianura; col dominio di fatto sulla capitale dell'isola una clientela infinita, ad ali- mentar la quale servivano insieme le proprie dovizie e i denari del pubblico, a sua posta amministrati e profusi.

In sul cadere del 1353, morto questo Manfredi, la grandezza della casa riassumevasi nel cosiddetto bastardo Manfredi, figlio pure di Gio- vanni Chiaramonte il giovane. Ereditava costui, col titolo di Conte di Modica, la dignità di Grande Ammiraglio del Regno e diveniva l'ar- bitro della capitale. Nel L378 socio , nel Vicariato del Regno , con Aitale Alagona, balio della giovinetta regina Maria, con Francesco Ven- timiglia, conte di Ceraci, e Guglielmo Peralta, conte di Caltabellotta, ebbe Manfredi in Palermo e nell'isola autorità grandissima; combattè con successo i Barbareschi presso le Ceibe, e la figliuola Costanza im- palmò al giovine Ladislao re di Xapoli ignaro della tristissima sorte che, per queste nozze, preparavasi alla buona fanciulla.

Allorché per le concluse nozze fra Martino, detti» il Giovane, figlio del duca di Monblanco, {Martino ii Vecchio) e Maria regina di Sicilia il giovine e il vecchio Martino si apparecchiavano a venire in Sicilia. Man- fredi volle farsi promotore della difesa nazionale contro quella che molti ritenevano invasione straniera, ma in mezzo agli apparecchi belli- cosi , già innanzi negli anni, moriva, lasciando l'ufficio di Vicario, e con questo l'arduo compito della resistenza, al tiglio Andrea, che la nobile sua condotta di fronte all' invasore avrebbe espiata lasciando la fiera testa sotto la mannaja, sorta nella stessa piazza di quel ma-

530 tì. PIPlTONE-FEDEIUCO. PARTE it.

gnifico Steri, che, testimonio già della sua grandezza, lo sarebbe pure stato della sua fine miseranda.

Il testamento si apre col solito esordio, nel quale notasi l'anno del regno nominale di Maria , già sposa di Martino il giovane , ma non ancor venuta in Sicilia col marito ; e accenna al difetto di giu- dici ch'era allora in Palermo, defectu judieum nondum electorum.

Quindi l'illustre e potente Manfredi Chiaramonte, per grazia di Dio Buca delle Gerbe, Conte di Malta, di Chiaramonte e Modica, Si- gnore di Ragusa e di Naro, Ammiraglio del Eegno di Sicilia e Vicario Generale del Eegno di Sicilia, dichiara di eleggere la primogenita Eli- sabetta erede sia della somma promessa , come dote, al marito di lei, il magnifico Nicolò Peralta, sia della contea di Modica e dell'isola di Gozzo con tutti i diritti, le giurisdizioni, le acque, i corsi d'acqua, i mu- lini, le foreste, i censi, e con tutti gli annessi beni feudali e hurgensaticj, oltre la clausola della decadenza da qualsiasi diritto ereditario se alla morte del padre avesse ella accampato delle pretese contrarie alle pa- terne disposizioni. Dato questo caso, non le sarebbero spettate che sole once mille d'oro, mentre i surriferiti beni immobili si sarebbero de- voluti alla magnifica signora Giovanna, terzogenita del testatore.

Nel caso in cui la magnifica Elisabetta, all'epoca di sua morte, avesse due figli maschi , o più, le vien data facoltà di lasciare ad uno di essi la Contea di Malta e l'isola di Gozzo, a patto ch'egli si fosse obbligato a portare il nome e le armi di Chiaramonte.

Che se il figlio scelto da Elisabetta non avesse adempito l'obligo impostogli , quei beni avrebbero dovuto passare al più prossimo (ad proximiorem) dei maschi della contessa, o al figlio dell'erede da lei scelto, con la medesima invariabile condizione, e così via, di figlio in figlio, con le clausole menzionate. Poscia Manfredi fa obbligo agli eredi di provvedere alla dote conveniente pel matrimonio delle figlie nubili « nisi aliunde liabeant unde se maritare possente etsi non liabeant unde maritare se possent , ad paragium , fiat eis supplimentum usque ad debitam quantitatem ». Continua il testatore disponendo che se i pre- detti ducati e le predette contee fossero pervenuti ad uno dei discen- denti da Elisabetta; e dal figlio di costui, o di un altro discendente, fossero nati due maschi, avrebbe dovuto il padre dividere fra i due figli il ducato e la contea di Chiaramonte e Modica , salve sempre le solite clausole e condizioni, tranne il caso che, sopravvivendo al testa- tore figli legittimi, a favore di costoro si fosse disposto de' beni e de'

PARTE H. II, TESTAMENTO DI MANFREDI CIIIARAMOXTE. 331

titoli suaccennati. In tal caso, però, sopravvivendo Elisabetta, oltre alla dote, le spetterebbero once cento d'oro, e non più.

A Costanza, secondogenita diletta , regina di Ungheria, Gerusa- lemme e Sicilia, lascia Manfredi la dote, che all' epoca del testamento era stata però quasi tutta pagata al marito re Ladislao, seu persone prò eadem etc. , oltre a cinquecento fiorini d' oro (avrà forse detto 500,000 ?). (Mie se costei avesse preteso qualcosa al di dalle paterne disposizioni, sarebbe essa pure decaduta da qualsiasi diritto ereditario già stabilito nel contratto nuziale e avrebbe dovuto tenersi paga di riscuotere soltanto cinquemila fiorini (?)

Alle figlie Giovanna, Eleonora e Margherita lascia il Cliiaramonte seimila once d'oro, cioè duemila once per ciascuna, parte in denaro parte in arnesi e gioielli, ad arbitrio della madre duchessa Eufemia, sua consorte diletta.

Alla prossima nascitura da lui e dalla predetta duchessa lascia 1500 once d'oro, e se da costei fossero nate più temine, anche 1500 once d'oro per ciascuna , parte in denaro , parte in arnesi e gioielli come sopra, rispettate sempre, s'intende, le clausole di rito.

Morendo senza maschi il testatore, avrebbe egli lasciato la pri- mogenita magnifica Elisabetta erede oltre che della dote promessa al nobile Niccolò Peralta, suo marito, della Contea di Malta e dell'isola di Cozzo. E se, venuta a morte la magnifica Elisabetta, avesse lasciato uno o più tìgli maschi, i beni surriferiti dovevano passare ad uno di essi con le condizioni sunnotate. In caso d'inosservanza di tali prescrizioni, i beni medesimi si sarebbero dovuti devolvere « ad proxiniiorem ma- HCìilum diete domine comitisse rei dieti clectì per eam ».

Alla regina Costanza , oltre la dote , lascia Manfredi il ducato Gerbarum et Berbera rum, a patto che. ricuperando questo ducato, la giovine regina desse cinquantamila fiorini alle sorelle. Di tutti gli altri suoi beni instituiva eredi le figlie di Giovanna, Eleonora e Margherita, prelegando alla sua terzogenita, Giovanna, il castello e la terra di Ca- stronovo con tutte le sue pertinenze e con le clausole ripetute; ad Eleo- nora, quartogenita, il castello e la terra di Bivona; a Margherita, quinto- genita, il castello e il casale di Carini, nonché il fortilizio e il feudo di Comiso. Premorendo la primogenita Elisabetta, si sarebbe dovuto so- stituirle, nell'eredità dei beni lasciatile dal padre, la sorella secondo- genita Giovanna, esclusa affatto Costanza: premorendo costei. Gio- vanna, e in ultimo Eleonora. Ciò con le formule consuete riguardanti il diritto di ereditare ne' discendenti tino all'ultimo di essi, nel quale, mancando altri eredi, si sarebbero concentrati tutti i beni de' Chia- ramente.

332 G. PIPITONE-FEDERICO.

Il testamento di cui ho dato un brevissimo sunto non e origi- nale, che gli atti di notar Faustino di Saliceto non esistono nel no- stro Archivio , ma è un transunto rinvenuto, come dissi, per mera fortuna nel voi. XIX delle Miscellanee, le quali, per savio consiglio del- l'archivista eavalier Giuseppe Lodi, approvato dal compianto direttore bar. Starabba, si vanno riordinando, nel detto Archivio, a cura del so- lerte dott. Giuseppe La Mantia. La copia da cui ho trascritto il testa- mento di Manfredi Chiaramonte è, siccome avvertii, del Cinquecento, e le cresce valore la mancanza dell'originale. Trattasi dunque di un importantissimo documento, il quale si collega a quelli già da ine su' Chiaramonte pubblicati in sullo scorcio del 1890, ed in ispecie al primo di essi, in cui, ricordandosi la morte recentissima del conte di Modica, si afferma com'egli nel suo solenne testamento avesse istituito tutrice e curatrice delle minorenni Elisabetta, Giovanna, Eleonora, Margherita, l'Università di Palermo.

Di questo documento , che fu pubblicato in un volumetto dive- nuto assai raro, panni quindi utile ricordare il sommario.

L'Università di Palermo, nominata, per atto in notar Fazino di Saliceto, tu- trice delle figlie minori del fu Manfredi Chiaramonte, insieme con la loro madre Eufemia , attesa 1' impossibilità di poter amministrare direttamente i beni delle minorenni suddette , ne affida 1' incarico a' nobili Federico di Federigo e notai- Andrea di Monaco, cittadini palermitani, i quali, accettandolo, in presenza del Pretore, dei Giudici e dei Giurati della città, giurano su' santi Evangeli di am- ministrar bene 1' asse ereditario procurandone tutti i possibili incrementi e di re- digerne l'inventario. L'Università di Palermo , pertanto , assegna a garenzia dei contutori i proprj beni.

Ed ora ecco il testamento.

TESTAMENTUM

Trans umptum Notarij Faczini de Saliceto

(Transunto di Notar Faustino de Saliceto XIV Iudiz. 1390) Adsit gratia Saucti Spiritus

In nomine domini amen. Anno dominice incarnaciouis eiusdem Mille- simo trecentesimo nonagesimo, mense septembris, octavo die mensis eiusdem, quarta decime Indicionis, Regnante Serenissima domina domina regina Maria dei grada Regni Sicilie Regina ac athenarum et neopatrie ducissa illustri, Regni eius anno XIV feliciter amen. Nos Ubertinus de friderico judex felicis urbis panormi defectu judicum nondum creator um in dieta urbe anno pie-

PARTE II. IL TESTAMENTO DI MANFREDI CHIARAMONTE. 333

senti, fastiuus de saliceto Eegius publicus civitatum et terrarum et locorura totius Insole Sicilie notarius et testes subscripti ad hoc vocati specialiter et rodati, presenti scripto puplico notimi faci no us et testa mur quod II lustri 8 et poteus domiuus manfridus de claramonte dey grafia dux gerbarum etc. Comes meliveti claramontis et niohac, ac terrarum ragusie et nari dominus, regni Sicilie admiratus et Vicarius una cum socijs generalis, sanus per dei graciam niente, licet eger corpore, faciens nos infiascriptos judicem notarili m et testes ad sui presentiani evocavi, considerans divinum judieium repentinum ac ecciam, quod human uni est, movi nolens intestatns sed testatus decedere, de omnibus predictis suis ducatu, comitatibus , alijs omnibus terris, locis et castris suis alijsque ecciam bonis omnibus stabilibus tam pheudalibus quam burgensaticis et mobilibus, in presenciam nostrorum omnium predictorum ad hoc specialiter vocatorum et rogatorum, presens suum per nuncupassiouem condidit testamentnm. Et quia caput testamenti dicitur heredis institucio, idei reo in primis dictus domiuus Illustvis dux testator instituit sibi heredem magni - ficam et egregiam dominam Elisabectam primogenitam suam in dote quam promisit magnifico corniti Xicolao de pevalta contemplacione sponsaliornm (sic) iuter eos coutvactorum et debitorum pio precio inatrimouij iuter eos foeli- citer contvahendi et consumando nec non in comitatu miliveti et insula gau- disij cum omnibus juribus, jurisdicionibus, aquis, aquarum decuvsibus, molen- dinis, foresti*, censualibus et omnibus alijs proprietatibus et pertiueneijs suis et omnibus alijs bonis tam pheudalibus quam burgensaticis in dictis comitatu et Insula gaudisij existentibus, prout et sicut dictus Illustvis dominus dux testator dictum comitatum et dictam insulam tenebit et possidebit tempore mortis sue prò et de quibus voluit et inandavit dictam ruaguificam fìliain suam fore et esse, ac tenere se debere tacitam et contentam de omni et toto juve quod habevet et habere posset tempore movtis dicti Illustvis domini ducis in et super bonis tam pheudalibus quam burgensaticis pvedicti Illustvis domini ducis tcstatovis tam jure successiouis paterne (piani jure nature secundum jura comunia vel muuicipalia, quam quocumque alio jave, racione, occasione, vel causa, ita quod nullo modo possit aliquid aliud petere vel habere in et super bonis omnibus dicti domini ducis tam pheudalibus quam burgensaticis, et in casa quod dieta magnifica et egregia domina comitissa contrafecerit super pvemissis vel aliquo pvemissovum etiam conivoversiam tantum movendo, cadat ab hereditate predicta et habeat et habere debeat jure iustituccionis et recoguiccionis nature quam quocumque alio jure, raccione vel causa, uncias miri mille tantum. Et in eo casa reliquid (sic) comitatum pvedictuin meliveti et insulam gaudisij cum alijs predictis bonis relictis ut supva niagni- fice domine Johanne fìlie sue terciogenite; pvetevea voluit quod in casu quo dieta domina comitissa Elisabecta tempore mortis sue habevet duos tìlios ma- sculos et abinde super quod teueatur et debeat relinquere predictos comitatum meliveti et iusolam gaudisij uni ex filijs suis masculis quem elegerit sub condi- cione quod ille electus teueatur et debeat cognominar] de Claramonte et de- ferre arma de Claramonte, et in casa quo ab intestato decesserit, dicti coini- tatus et Insula gaudisij perveuiant et pervenire debeant ad secuudogenitum

334 G. PIPITONE-FEDERICO. PARTE II.

quem ex nunc prout ex tunc substituit et in predictis bonis pliendalibas diete coraitisse sub condicionibus predictis qaod nomiaetur de Claramonte et deferat arma de Claramonte. Quod si secus factum fuerit per dictam comi- tissam vel illum ex filijs suis ad queni pervenerint dicti comitatus et insola, quod dicti Comitatus et iusola perveniaut et pervenire debeant ad proximiorem masculum diete coinitisse vel dicti electi per eam, descendentem tamen a dicto domino duce testatele sub condicione predicta. Et si ille proximior non imple- verit condicionem predictam, perveniaut ad proximiorem recusantis adimplere condicionem predictam de descendeutibus tamen dicti domini ducis. Et si plu- res erunt proximiores,primogenitus preferatur; quod dictum est de dieta domina comitissa Elisabet intelligatur de quolibet alio ab ea descendeute qui cepit Imbere duos fllios vel plures. Istud capitulum sopradictum sequitur ut infra credo quod in eo difficiunt plures clausule quia concluditur in baros (sic).

Illustri domino duci testatori (?) per lineami masculinam noluit admicti ad successionem suam vel suorum masculorum allo unquam tempore vel modo. Voluit tamen quod quotiescumque alius ab eo desceudens habuerit dieta bona ipsius illustris dominii testatoris in totum vel in partem, et ea habeat resti - tuere virtute presentis disposicionis, alias, ut predicitur, quod dictus fidecom- missarius cui restituenda et postea restituta fuerint dieta bona, virtute presen- tis disposicionis teneatur et debeat maritare flliara vel Alias feminas illius defunti iu cuius locum suecessit per viam substituccionis ad paragium, consi- deratis videlicet condiccione predictarum et numero filiarum ac qualitate et quantitate honorum ad eum perveutorum virtute substituccionis paterne, nisi aliuude babeant unde maritare se possent in totum, et si non habeant unde maritare se possent ad paragium, fiat eis supplirnentutn usque ad debitam quantitatem, quod totum reliquit ad arbitrium (sic) boni virj.

Itera voluit et mandavit quod predicti ducatus comitatus miliveti et alij supradicti comitatus, salte m comitatus clavamontis cum dictis ducato et comi- tatù ad unum pervenerint, aliquo casu quod quandocumque ex dicto tali uno fuerint nati duo filij vel a fìiio ipsius masculo vel aliquo alio descen- dente ab eodem per lineam masculinam fuerint duo filij masculi, prò tali quod ille talis qui primo incepit babere duos fllios teneatur et debeat dividere dictos ducatum comitatum claramontis et mobac inter primogenitura et se- cundogenitura suum sub modiflcacionibus, modo, formis et clausulis supradictis in duobus filijs masculis dicti illustris domini testatoris dictum est. Item reliquit in casu predicto quo fllium masculum unum vel plures baberet dictus Illustris domiuus testator jure jnstituceionis et recogniceionis nature magmifice et egregie domine elisabect primogenite dotera quam promisit magnifico corniti Nicolao de peralta contemplaccione sponsalium inter eos contractorum et deo pro- pizio matrirnonij inter eos foeliciter contrahendi et consumaudi, nec non et uncias auri centuin de quibus et prò quibus voluit et mandavit ipsam fore et esse contentami de omui jure quod liabet et babere potest tara jure na- ture secuudum comunia jura vel muuicipalia, quanijure successionis paterne et quocumque alio jure, raccione et ocaxione vel causa, ita quod nullo modo, vice, vel jure possit aliquid aliud in et super bonis dicti Illustris domini testa-

PARTE II. IL TESTAMENTO DI MANFREDI CHIARAMOXTE. 335

toris petere vel habere, et in caso quo coutrafecerit in preraissis vel aliqvio premissorum cadat ab bereditate predicta et habeat, seu liabere debeat, jure instituccionis et recogniccionis nature, uncias auri centuni tantum. Ite ni eodem jure instituccionis et recogniccionis nature reliquit illustri et spectabili do- mine domine costancie dilecte filie sue secundogenite, Ungarie, Jerusaleni et Sicilie regine, dotem prò ea promissam, que nunc prò maiori parte est soluta et traddita serenissimo principi et domiuo domino lanzalao predictorum regno- rum regi eius viro , seu persone legitime prò eodem, coutemplaccioue spon- saliorum incter eos contractorum; et cum tempus aderit matrimouij deo propi- tio inter eos contrabendi et feliciter consumaudi, nec non in tìoreuis auri quingentis (?) de et prò quibus voluit et mandavit predictam illustrem et incli- tam dominam costanciam fore et esse tacitam et contentali! et sic se tenere debere de omnibus juribus eidem conipetentibus et competituris tempore mor- tis dicti illustris domini ducis in et super bonis predicti illustris domini ducis, parentis et genitoris sui. Ita quod non possit aliquid aliud ulterius petere vel habere iu et super bonis ipsis racione successiouis paterne jure nature secun- dum jura comunia et municipalia, nec aliqna alia racione, ocaxione vel causa. Et si forte dieta Illustris et spectabilis domina regina coutrafecerit in pre- dictis vel aliquo predictorum aliqua racione, occasione, vel causa, movendo que- stiouem seu controversiam tantum con tra testamentum predictum vel aliquid ex contentis in eo, cadat ab bereditate predicta et habeat et habere debeat jure iustituccionis et recogniccionis nature quinque milia rlorenos tantum prò omnibus juribus competeutibus et competituris in bonis predictis.

Item reliquit jure instituccionis et recogniccionis nature maguifice domine Johanne, domine Alionore et domine Margarite, filiabus suis, susceptis et natis ex se et predicta inclita domina ducissa Euphemia eius consorte, sex mille uncias, duomilia videlicet qualibet (per cuilibet), parti m iu pecunia, parti m in ar- nesio et jocalibus sponsalicij ad arbitrium, videlicet, predicte inclite domine du- cisse Euphimie consortis eius dilecte, et, in eius defechi, fidecommissarioruni qui ordinare ac costituir) debent (?) dicti Illustris domini ducis testatoris vel il- lorum ex eis qui tunc supervixeriut.

Item reliquit jure instituccionis et recogniccionis nature postimie (per postume) nasciture ex se et predicta inclita domina ducissa Euphemia uncias auri mille et quiugeutas, et si plures femine nascerentur ex ea, earum cui libet alias uncias auri mille et quingentas, parti m in pecunia et partim iu arnesio et jocalibus sponsaliciis ad arbitrium predictorum sicut supra pio et de quibus voluit et mandavit predictas eius Alias uascituras et earum quamlibet tenere se tacitas et contenta» de oinni et toto eo quod habere et recipere deberent et posseut in et super predicti domino ducis testatoris earum patris jure suc- cessiouis paterne et jure nature secundum jura comunia et municipalia et quacumque alia racione, occaxioue, vel causa. Et si forte aliqua ex predictis filiabus suis coutrafecerit impredictis vel aliquo premissorum, eciam contro- versiam tantum faciendo , cadat ab bereditate predicta et habeat et habere debeat jure instituccionis et recogniccionis nature et prò omnibus alijs juri- bus ei competeutibus et competituris in predictis bonis uncias auri centum tantum sicut jam dietimi est super de filiabus jam natis.

336 G. riPITONK-FEDKRICO. PARTE II.

Iteui casu quo tempore mortis dicti domini ducis testatoris non supere- rint uec superere speraverint fìlij masculi, eo casu instituit sibi heredem magni- ficam et egrcgiam dominam comitissam Elisabet, primogenitam suam, in dotem quam promisit dictus illustris dominus dux magnifico et egregio corniti Nico- lao de peralta racione qua supra dictum est, in instituccione particulariter facta nisi fìlij ma sculi supererint eidem domino duci, nec non in comi tatù meli- veti et insula gaudisij cum omnibus juribus, jurisdicionibus, aquis, aquarum decursibus, molendinis, forestis, censualibus, racionibus alijs spectantibus et pertinencijs suis et omnibus alijs bonis tam pheudalibus quam burgeusaticis in dictis comitatu et insula gaudisij sistentibus prout et sicut dictus illustris dominus dux testator dictum comi tatù m et dictam Insolam tenebit et possi- debit tempore mortis sue prò et de quibus voluit et mandavit dictam magni- ficam tìliam suam fore et esse ac tenere se debere taci tam et contentam de omni et toto jure quod haberet et habere possent tempore mortis dicti Illu- stris domini ducis et super bonis tam phendalibus quam burgeusaticis pre- dicti illustris domini ducis te3tatoris tam jure successionis paterne quam jure nature, secundum jura comuuia vel municipalia quam quocumque alio jure, raccione, occaxione, vel causa, ita quod nullo modo possit aliquid aliud petere et habere in et super bonis tam pheudalibus quam burgeusaticis dicti domini ducis. Et in casu quo dieta maguifìca et egregia domina comitissa contrafe- cerit in premissis ve! aliquo premissorum ecciam controversiam movendo, cadat ab hereditate predicta et habeat et habere debeat jure instituccionis et reco- gniccionis nature quam quocumque alio jure, raccione, vel causa, uncias auri mille tantum et in eo casu reliquit predictum comitatum miliveti et insolam gaudisij cum '.dijs predictis bouis relictis ut supra magniflce domine filie sue terciogenite. Et preterea voluit quod in casu quo dieta comitissa Elisabet tem, pore mortis sue haberet duos filios masculos et abinde supra quod teneatur et debeat relinquere predictos comitatum melivetj et insolam gaudisij uni ex filijs suis masculis quem elegerit, sub condicione quod ille electus teneatur et debeat cognominali de Claramonte et deferre arma de Claramonte; et in casu quo ab intestato decesserit (lieti comitatus et insola perveniant et pervenire debeant ad secundogenitum quem ex uunc prò tunc substituit impredictis bonis pheudalibus diete comitisse sub coudiccionibus predictis quod nominetur de Claramonte et deferre (sic) arma de Claramonte quod si secus factum fuerit per dictam comitissam vel illum ex filijs suis ad quem perveneriut dicti comi- tatus et insola perveniant et pervenire debeant ad proximiorem niasculum diete domine comitisse vel dicti electi per eam descendentem tam a dicto domino duce testatore sub condiccione predicta et si ille proximior non imple- verit condicionem predictam perveniant ad proximioiem recusantis adimplere condieionem predictam de descendentibus tamen dicti domini ducis. Et si plures eruut proximiores, primogenitus pi'eferatur et quod dictum est de dieta domina comitissa Elisabet intelligatur de quolibet alio ab ea descendente qui cepit habere duos filios vel plures.

Item eo casu relinquit jure instituccionis et recognicionis nature Illustri et inclite domine domine regine constaucie dotem per dictum illustrem domi-

Parte li. il testamento di Manfredi crtaramonte. 337

num dacem promissam serenissimo domino regi lanzalao etc. eius viro et per- sone legitime prò eodem et prò ruajori parte solutam racioue qua supra et in florenis auri quiugentis sub modis formis prohibiccionibus, condiccionibus et clausulis apposilis in instituccione et particulariter facta supra quando dictus dominus dus testator haberet fllios masculos unum vel plures, et prete- rea instituit eamclem illustrem dominam reginarn in ducatu gerbarum et berbe- rarum cum onere iufrascripto videlicet: quod in casu quo dieta illustris do- mina regina recuperaverit ducatum gerbarum teneatur et dare debeat quinqua- ginta milia rlorenorum alijs sororibus suis, et si ex eis aliqua morta fuerit libe- ris relictis, omnes eius liberi succedant eo (?) ipsius facti destricte ita quod omnes habeant unicam portionem tantum prout habuisset dieta eorum mater si vixisset.

Item instituit sibi befedes universales in omnibus alijs bonis suis tam pbeudalibus quam burgensaticis magnificam dominam Jobaunam dominam alionoram dominam Margaritam filias suas legitimas et naturales.

Item eo casu prelegavit predicte magniflce domine Jobanne terciogenite filie sue dilecte castrum et terram castri novj cum omnibus juribus etc. sicut supra dictum est de comitatu miliveti et insola gaudisij in personam cotni- tisse Elisabect et in jocalibus robba et arnesium (sic) spousalieijs uncias auri mille sub modis et formis prohibiccionibus condiccionibus et clausulis appositis supra in persona domine comitisse Elisabet, preterea voluit et mandavit quod in casu quo dieta magnifica domina Johanna tempore mortis sue haberet duos filios masculos et aliuude supra quod teneatur et debeat reliuquere predictos castrum et terram illi ex filijs suis quem elegerit sub coudiccionis quod ille electus teneatur et debeat coguomiuarj de Claramonte et non aliter et deferre arma de Claramonte. Et in casu quo ab intestato decesserit dicti castrum et tersa peeveniant et pervenire debeaut ad secundogeuitum diete domine Jo- haune sub coudiccioue predicta quod nominetur de Claramonte et deferat arma de Claramonte quod si secus factum fuerit predictam dominam Jobau- nam vel alium (sic) ex filijs suis ad quem perveuerint terra et castrum pre- dictj quod dictj terra et castrum pcrveuiant et pervenire debeaut ad proxU miorem masculum diete domine Johaune vel dicti electi per eam desceudentem tamen a dicto domino duce testatore sub coudiccioue predicta. Et si ille proxi- mior non impleverit condiccionem predictam perveniaut ad proximiorem recu- sautis adimplere condiccionem predictam et si plures erunt proximiorcs primo- genitus preferatur, et quod dictum est de dieta domina Johanna iutelligatur de quolibet alio ab ea descendeute qui cepit habere duos filios vel plures in casu quo ipsa unicum tantum filium reliuquerit (sic).

Item prelegavit niagnifice domine alionore quartogenite fllie sue castrum et terram bisboue cum omnibus juribus suis et uncias auri mille in jocalibus robba et arnesia (sic) spousalieijs de quibus voluit eam esse contentane

Item prelegavit magnifice domine Margarite quintogenite fllie sue castrum et casalem careni situm et positura in valle mazarie nec non et fortilicium et pheudum chomisi, situm et positura in valle uothi cum omnibus juribus etc. sicut supra; hoc addito quod ubi ibi dicitur suis debet dici his et cuiuslibet (?) ipsarum, 22

338 G. PIPrTONE-EEOERICO. - PARTE li.

Itera voluit et mandavit io casu quod absit quo predicta magnifica do- mina comitissa Elisabet moriretur inpupillari etate vel postea quaudocumque cura fìlijs de suo corpore legitime descendentibus, iu dictis coniitatu et insola gaudisij nec non in omnibus alijs bonis stabilibus pbeudalibus et burgensa- ticis de bonis dicti domini ducis testatori s ad eam perventis quacumque ra- cione vel causa, et specialiter jure institucciouis quam substituccionis substi- tuit illam ex tribus sororibus suis minoribus excepta predicta illustri domina regina costancia , quam ab omni et omnium et cujuslibet suarum sororum substituccione exclusit et excludit etiam si de eius exclusione non fuerit facta aliqua meutio specialis quia per bauc exclusionem generalem voluit vires ba- bere ac si in qualibet substituccione filiarum et cuiuslibet earum exelusa fuisset specialiter quo maritata seu coniugata non fuerit. Et si plures non fuerint maritate seu coniugate, maiore nata (?), et si omues maritate essent seu coniu- gate, similiter maiorem natura ex eis de institutibus beredibus universalibns sub condiceioue cognomiuis et delaccionis armorum de Clararaonte et alijs oneribus et clausufis superpositis impersona diete maguifice comitisse et de- scendentibus ab eadem in alijs autem bonis diete comitisse et substituit et equaliter sorores suas excepta domina (?).

Itera voluit et mandavit quod in casu, quod absit, quo dieta magnifica domina Jobanna moriretur impupillari etate vel postea quaudocumque siue filijs de suo corpore legitirae descendentibus, substituit eidem impredictis bonis stabilibus pbeudalibus et burgensaticis eidera relictis et ad eara pertinentibus de bonis dicti domini ducis per viam institucciouis vel substituccionis, illam ex sororibus suis que non fuerit maritata , seu coniugata. Et si plures essent nou coniugate majorera natu, et sic si omues coniugate fuerint maiorem na- tura ex institutis universalibns sub coudiccione taraen cognorainis et delac- cionis armorum de Clararaonte sicut dictuin est de dieta domina comitissa Jobanna et descendentibus ab ea cura condicciouibus, substituccionibus et clau- sulis impersona diete domine comitisse et descendentium ab eadem appositis iu boc in reliquis autem bouis ei relictis et ad eam perventis de bonis dicti domini ducis substituit eidem omnes alias sorores suas equaliter exceptis pre- dictis domina regina et comitissa.

Itera si dieta magnifica domina alionora, quod absit, moriretur impupil- lari etate vel quaudocumque siue iiberis de suo corpore legitime descenden- tibus, vel postea quaudocumque, substituit eidem in predictis bonis pbeudalibus et burgensaticis eidem relictis per viam institucciouis vel substituccionis illam ex sororibus suis que non fuerit maritata seu coniugata; et si plures essent non coniugate raaiorera natu ex eis et sic si omnes coniugate fuerint maio- rem natu ex filiabus et beredibus universalibus in reliquis alijs autem bonis ei relictis et ad eam perventis ex bonis dicti domini ducis equaliter ei substi- tuit omnes alias sorores suas insti tutas vel heredes.

Itera si dieta domina Margarita in casu quod absit moriretur in pupil- lari etate vel quaudocumque siue Iiberis de suo corpore legitime descenden- tibus vel postea quaudocumque , substituit eidem impredictis bonis pbeuda- libus et burgensaticis eidera relictis per viara institucciouis seu substituccionis

PARTE II. IL TESTAMENTO DI MANFREDI CUIARAMONTE. 339

illam ex sororibns suis que non fuorit maritata; et si pi urea essent non coniu- gate maiorem nata ex ci, et si omnes coniugate fuerint idem disposuit pront saper disposuit impersonali! domine alionore etiam in bonis alijs ei relictis et ad eam perventis de bonis predieti domini ducis.

Itera voluit et raandavit quod si, qnod absit, dieta magnifica domina comi- tissa mortua Tuerit cura liberis legitiinis et naturalibus et postea dicti eorura liberi decesserint sine liberis 1 egiti rais et naturalibus, ita quod millus super- fuerit ex eis descendens legitimus, snbstituit omnibus lil>eris seu ultimo descen- denti ex eis in bonis predictis ad eam perveutis ut supra illam ex filiabus suis quìim substituit cidem magnilìee comitisse , et si il hi premortila tuerit descendentes ab eadera ita quod masculus temine preferatur et raaior natii minori natii cura coudiccioue coguominis et delaccionis arraorum de Clara- monte et uou al iter et substituccionibus omnibus et alijs clausulis in hoc appositis in personis diete comitisse et descendenciura ab eadem; et similiter si dieta domina Johauna fuerit mortua superstitibus liberis legitime descen- deutibus ab eadem et postea liberi eius decesserint sine liberis legitimis et naturalibus ita quod nullus snperfuerit ex ea substituit eisdem liberis seu ultimo descendenti ex eis in bonis predictis eidem fìlie sue relictis ut supra ilìam ex filiabus suis quarti substituit eidem magnifico domine Jobanne. Va- cat pagina alba.

Hec est eius ultima voluutas et ultimura testamentum quam et quod voluit valere jure testamenti, et si iure testamenti non valeret voluit valere et valeat jure codicillorum seu causa niortis aut iuter vivos: et si jure codic- cillorum non valeret voluit valere et valebit jure cuiuscumque sue ultime voluntatis vel alio jure quo melius valere poterit in futurura.

Dal volume di N. 19 delle Miscellanee dei notai defunti, fase. 243, che si conserva nell'Archivio di Stato di Palermo, ramo giudiziario. Collazionato dal dott. Giuseppe La Mantia, bibliotecario dell'Ai eluvio.

Palermo, aprile 11)06.

G. Pipitone-Federico.

PER LA GIUSTA COLLOCAZIONE DI DUE SONETTI

DI FRANCESCO PETRARCA.

11 codice Vaticano latino 3105 che, come tutti sanno, contiene le due prime parti del poema italiano di F. Petrarca (la raccolta di rime che s'è soliti di dimandare il Canzoniere), fu diviso nettamente dal poeta medesimo : la prima parte si chiude col son. Arbor vieto- riosa ; s'apre la seconda con la canz. F vo pensando. Sul verso della e. 49, eh' è 1' ultima della prima parte, scrisse una mano tardiva : Francisci Fetrarce ewj)liciunt soneta de vita [in anxietate] l amoris, et ileo gratias. Sedotto forse da quest'annotazione, messer Pietro Bembo, nella sua edizione delle rime del Petrarca impressa da Aldo Manuzio il 1501, le partì anch' egli in sonetti e canzoni in vita di Madonna Laura e in morte di Madonna Laura 2 5 ma la divisione rimase pur

1 Oggi, come avverte il dr. E. Modigliani nella sua edizione del Canzoniere, Roma, 1904, p. 114 n., questa parola non si legge più per la macchia prodotta da un reagente chimico. Il quale fu adoperato sotto i miei occhi da monsignor Isidoro Carini , allora bibliotecario della Vaticana , e potemmo leggere distinta- mente in anxiet. amor.

2 Che Pietro Bembo, trascritto per Aldo chi sa da qual codice il testo delle Poesie volgari nel Vaticano latino 3197, collazionasse la sua trascrizione, avanti la stampa, sul codice originale, non può parer controverso a chi conosca la storia della questione così lucidamente riferita dal Mestica nel suo lavoro II Canzoniere del Petrarca (estr. dal Giorn. stor. d. leti. ital. XXI, p. 300 e segg\).

Non intendo poi come l'ultimo editore delle Poesie volgari, il dr. Modigliani, dal mio sospetto che «il Bembo dovette avvertire quell'annotazione quand'ebbe tra mano il codice originario, e non gli parendo dispregevole affatto, se n' av- vantaggiò per la stampa d'Aldo Manuzio » si tenga licenziato ad attribuirmi l'idea che il Vaticano 3195 fosse stato 1' antigrafo del Vaticano 3197; « ciò che è er- roneo ». La critica del dr. Modigliani è un po' troppo svelta. S'egli avesse stu- diato direttamente e seriamente il problema, si sarebbe persuaso che il Bembo collazionò per la stampa d'Aldo il suo codice sul codice originario, se bene delle varianti si giovò a modo suo e secondo il suo gusto ; s' egli avesse osservato il Vaticano 3197, avrebbe inteso come non ci sia punto bisogno d'immaginare che il Bembo lo ricopiasse di sul codice del Petrarca, per ammettere che dalla notazione tardiva ed apografa della e. 49 possa esser venuta al Bembo l'ispirazione delle sue

PARTE II. PER LA GIUSTA COLLOCAZ. DI DUE SONETTI DI V. PETRARCA 341

quella del Petrarca. Più tardi, vale a dire nell'aldina del 1514, fu introdotta una partizione novella , eh' è poi la volgata , secondo la quale i componimenti in vita arrivano tino al son. Signor mìo caro e quelli in morte cominciano col son. Oimè il bel riso.

11 rinvenimento del codice originale e in parte autografo di quelle rime consigliò gli editori a tornare all' antica divisione, la (piale, riméssa in onore dal Mestica la prima volta, fu poi seguitata da tutti gli altri. Se non che codesta divisione, autentica quanto si voglia, è, almeno in un punto, irragionevole. E io fai, credo, il primo ad avvertire la cosa in fondo al mio scritto L' ordinamento delle « Poesie volgari » : « E non mi fermo su questo luogo se non per domandare come mai posson trovarsi, dopo la canzone introduttiva alla seconda parte, que' due sonetti Aspro core e stiraggio e Signor mio caro, i soli in tutta la raccolta, i quali contrastino con quello stadio d'una certa unità quasi di poema, determinata particolarmente nei prologhi e negli epiloghi, che si riscontra per tutto il volume » i. Di fatti, mentre la seconda parte contiene rime tutte di religione e di morte, que' due sonetti soltanto sprigionali faville di desiderio e d'amore terreno come tutt'i componimenti della prima parte alla quale si vorrebbero ricongiunti e ricollegati.

Anche Adolfo Mussana stupì della contraddizione 2, riuscì a scavizzolarne un motivo plausibile, come non v'era prima riuscito il Cochin ;5. Giovanni Melodia, che pur seppe acutamente oppugnare l'altrui congetture su questo proposito ', non s'arrischiò di proporne alcuna per conto proprio.

Ma forse il poeta medesimo ci può aprir la via a risolvere il delicato problema.

Era le poesie del Petrarca riprodotte diplomaticamente di sul

due rubriche : Sonetti et Canzoni I Di Messer Francesco Petrarcha \ In l'ita di Ma- donna Laura e Sonetti et Canzoni \ Di riesser Francesco Petrarcha] In Morte di Ma- donna Laura. La quali occorrono, non punto come ci s' aspetterebbe, iu capo a ciascuna delle due parti o sul recto il' una carta di guardia; ma l'uua sul verso della carta che precede la prima pagina delle rime, l'altra in fondo al verso della e. 98, in cui la prima parte Unisce : luoghi entrambi non i più consueti per in- testa/ioni; onde viene il sospetto che il Bembo ve le abbia segnate dopo la tra- scrizione di tutto il suo codice e quando per l'appunto si diede a collazionarlo con quello del poeta.

1 Su le «Poesie volgari» del P. pp. 127-8.

2 Ne' Denkschriften dcr kais. Akad. der Wissenschaft in ììien, Philos.-histor. Classe, ]'». XLVI, VI, 1899, p. 17 dell'estratto.

3 La Chronol. d. Canzoniere, Paris, 1898 , p. 122. Cfr. anche A. Moschetti, nella Pass, bibliograf. 1899, jì. 131.

4 Nel Giornale dantesco, 1900, p. 370.

542 G. A. CESAREO.

Vatic. 3195 a cura del Modigliani, alcune sono segnate sul margine da una crocetta, con la quale, a mio giudizio, il poeta, rivedendo l'opera sua, intendeva ammonire se stesso che avea da recar qualche emenda, sia nella lezione, sia nella collocazione.

Or per l'appunto i sonn. Aspro core e Signor mio caro (n. 205 e n. 200 della raccolta) son preceduti da una crocetta, anzi il secondo da due, l'ima nell' interno dell'iniziale, 1' altra sul margine. In vece, dopo il son. Arbor rictoriosa onde si chiude la prima parte, è un acci- dente ch'io riferirò con le parole medesime dell'editore : « Circa due centimetri sotto questo verso è una larga rasura di parole, ora non più leggibili, scritte su due righe. La prima riga sembra comprendesse due o tre parole e incominciasse con un'A ; la seconda è un po' più lunga, principia con un S e termina con un'o o con un ro ».

Ebbene : io sospetto forte che le parole scritte su le due righe fossero il cominciamento de' due sonetti; così :

Aspro core.

Signor mio caro.

Ognun vede come i dati corrispondano esattamente. La prima riga contiene due parole e comincia con A; la seconda è un po' più lunga, principia con S e finisce con ro. E la trasposizione di quei due componimenti non potrebb' esser più acconcia e, sto per dire, più necessaria.

Chi ha potuto indicare quel tentativo di trasposizione, e chi l'ha cancellato ?

Non essendo stata avvertita alcuna differenza di scrittura fra le lettere superstiti di quelle parole e il rimanente della pagina, eh' è di pugno del poeta , bisognerebbe attribuire la notazione ad esso il Petrarca. Xiun altro difatti, che non fosse l'autore, poteva avere non dirò intelletto da scorgere, ma autorità da indicare una tale mo- dificazione all'opera sua. Più inesplicabile è la ragione della rasura. La quale forse fu consigliata a un tardivo possessore del codice dalla considerazione, che i due sonetti richiamati in quella notazione, ond'egli non intese il significato, si ritrovavano interi poco più oltre.

Se la mia congettura paresse plausibile, un inconveniente non piccolo nell'ordinamento delle Poesie volgari ne verrebbe sanato, e i due sonetti, tornando nella prima parte, occuperebbero il luogo che loro spetta con l'altre rime dell' errore e della passione mondana, mentre la parte seconda apparirebbe composta tutta di rime ispirate a pensieri d'espiazione e di morte. E la trasposizione sarebbe stata accennata dallo stesso poeta.

Palermo.

G. A- Cesareo

ALCUNI EPIGRA/A/AI LATINI DEL RINASCI/AENTO

Come mio tenne tributo di omaggio al nostro caro e valoroso collega, io apporto questi piccoli carmi latini , da me raccolti in codici del rinascimento. Son poca cosa : ma, se si guarda bene, ciascuno, di essi ha qualche punto, che lo raccomanda all'attenzione degli studiosi: qualche accenno storico o qualche tratto felice di buona ispirazione. Spero quindi che non sia per sembrar vano il pubblicarli.

I. Incomincio con un breve epigramma su Roma papale. È nel codice Laurenziano , pluteo 33, eod. 24, cartaceo, della seconda metà del sec. XV, contenente varii carmi di Cristoforo Landino e di Xaldo de Xaldis. A foglio 70 v, di mano posteriore , si legge questo argu- tissimo distico (aggiungo la punteggiatura) :

Roma, vale : vidi, satis est vidisse; revertar Curri meretrix, leno, scurra, cinoedus ero '.

II. Nel codice miscellaneo Ambros., G. 109 inf. del sec. XVI, si legge al foglio 21 il seguente epigramma latino, che noi riprodu- ciamo, aggiungendo solo al terzo verso il tu che è richiesto dal metro :

Flavia cum statuit me gens, nil Roma videbas Pulchrius; imperio pulchrior ipsa tuo. Sed cum non posses tu mi formosa videri, Hausissetque tuas barbarus iguis opes, Snbtraxi ex oenlis tibi me, ne saepe ridendo C'.iui gemitìi decoris admonerere tui. Nunc sibi reddiderit veterem cum Julius urbem, Spectandum refero me tibi nunc iterum.

Chi così parla è evidentemente l'antiteatro Flavio. E l'epigramma deve riferirsi ad una restaurazione del Colosseo fatta sotto Giulio li. Di Giulio II è giustamente detto : sibi reddiderit veterem cum Iuliux urbem. La lapide a lui posta a Roma in via dei Lancili, ha : « urbem

1 Nello stesso foglio sono altri epigrammi; quello Roma retus pubblicato nei Poetac Latini minores ed. "Wernsdorfì' Lem aire , IV, p. 536; l'iscrizione metrica che è, tra gli altri, in Bnecluder , Carmina epigraphica , n. 52: e il distico: Xon nobis est nosse datum quae tempora rerum Condidit in sacro pectore causa prior.

$44 C. PASCAL. PARTE ti.

Romani, occupatae similiorem quam divisele, patefactis dlmensisque viis prò m alesiate imperli ornami ».

III. Uno scherzoso ed elegante epigramma De Curtio si legge nel medesimo codice, Ambros. G, 109 In/., a f. 71. Il Curzio del no- stro epigramma non è il Curzio antico, che si gettò nella voragine per salvare Roma; è invece, in certo modo, la parodia di esso. Que- sto novus Curtius andava dunque a cavallo, quando l'animale si lanciò a gran corsa e stava per precipitarlo giù in un fossato. E il disgra- ziato invocò aiuto. « Se l'antico Curtius volle sagriti carsi per salvare Roma dai suoi malanni, perchè dovrei sacrificarmi io, or che Roma è incolume ? ». E accorrono i giovani e il salvano ; e un lungo co- dazzo di ninfe, dal destro lato del Tevere e dal Lupercale accompa- gnano il cavaliere salvato per le vie. Il poeta leva i ringraziamenti agli dèi tutelari. Bisognerà supporre, affinchè lo scherzo sia salace, che si tratti di alcuno che avesse veramente il cognome Curzio o dirti. Ecco ora l'epigramma :

De Curtio Ciim novus horribili praeceps raperetur hiatu Curtius et celeri chasma pateret equo, 'Quod fatuin immite est, quod fas?' ait, 'alter ut aegra Alter ut incolumi Curtius urbe ruat ? Tollite me actutum, pueri. Num me atra vorago Hauriet ? Audacis pes revocetur equi. Ereptum, Tiberini ululatibus ainne secutae Ab dextro Nymphae quaeque Lupercal habeut. Gratia magna igitur tibi, Phoebe, parensque Qniriue, Et de Tarpeia Iuppiter arce touans, Quod postquam periit dira prior ille mephiti, Noster hic incesto ab limite sospes abit.

Una nota a sospes ha : nel tutus. Actutum è, com'è noto, forma latina arcaicizzante.

IV. Nel medesimo codice Ambrosiano a f. 09 trovo il seguente epigramma sopra Leone X :

De Raph. Car.H et Leone Pont.

Optavit Raphael celebri fulgore tiara,

Supremisque sacris stemma Leo abripuit.

Sumnia fuit postbaec voti lare consummato

Posse fruì atque opibus : haec Leo diripuit.

Excessit. Repetit funus. Leo fata vocat vi

Ante diem moriens, iustaque praeripuit.

« Haud », ait, «haec», Raphael « tam me angunt quam ne et amoeno

Iste locum eripiat iam datum in Elysio».

PARTE II. ALCUNI EPIGRAMMI LATINI DEL RINASCIMENTO. 345

Questo epigramma non è insigne per forma poetica o per finezza, ma credo che abbia qualche importanza storicamente. Il cardinale di cui si parla credo che sia Raffaele Mario , del titolo di San Giorgio. Questi che per ricchezze, splendore di vita e potenza familiare era tra i più autorevoli del Sacro Collegio, era avversissimo a Leone X, anzi a tutta la famiglia dei Medici. Giovanetto , aveva preso parte alla congiura dei Pazzi.

Una medesima promozione portò alla porpora Giovanni dei Me- dici e Raffaele Riario. Ma il primo non dimenticò l'assassinio di suo zio, l'attentato contro la vita del padre suo; il secondo dismise punto i rancori e gli odii della sua giovinezza. Quando il cardinale Petrucci organizzò il complotto contro la vita di Leone X, il Riario, stando a quel che dissero gli accusatori suoi, vi prese parte. Leone X stesso dichiarò che due altri cardinali complici gli avevano con- fessato che l'intesa era di nominar papa Raffaele Riario. E nel no- stro epigramma si legge : Optarit Raphael celebri fulgere tiara.

Imprigionato, fu il 20 giugno 1517 degradato dalla sua dignità (cfr. stemma Leo abripuit). Ebbe però salva la vita ; ed in seguito, per potenti intercessioni, fu anche riammesso nelle funzioni ecclesia- stiche, mediante il pagamento di una grossa ammenda. Il nostro epi- gramma ricorda appunto la devastazione , che Leone fece , del suo patrimonio (haec Leo diripuit). Il vecchio cardinale precedette di poco Leone nella tomba : morì a Xapoli nel luglio 1520. Arguissimo è il motto finale : Raffaele Riario sperava che Leone non gli portasse pur via il posto assegnatogli in paradiso. Nell'epigramma dunque Leone X è messo in una luce molto fosca. Non bisogna però dimenticare che pur tra i contemporanei s'insinuò il sospetto che il Riario fosse innocente e che Leone X tentasse farlo comparire colpevole per ven- dicarsi delle antiche ingiurie fatte alla sua famiglia. E la lettera (ri- portata dal Fabroni , Vita Leoni» X), che il papa gli scrisse dopo il rappacificamento, è concepita in termini così remissivi, che quasi pare

una ritrattazione dell'accusa antica : « remitto Dominationi Ve-

strae Rererendissimae omnem iniuriam, si quam ullo casti aut tempore contro, me fecistis . . . ».

Nell'epigramma l'ignoto fautore del Riario accusa quasi Leone di persecuzione che duri fin oltre la morte; ma lode di magnanima mitezza , per il modo appunto ond'egli trattò 1' avversario suo , gli die Angelo Colocci (cfr. Roscoe, Leone X, cap. XIV, § 13, ediz. di Mi- lano, 1810-17):

Accepere manus Riari vincla nocentes, Ju caput Etrusci qui tulit aruia (lucia.

S46 C. PASCAL. 'PARTE! II.

Vitam orat, vitam lacrimis, Leo magne, dedisti, Debnit exitium dextra, dedit veniam.

Scilicet hoc Medicum est: quod fesso aetate senecti (aie). Tu facis, hoc iu\reni fecerat ante Pater.

Però accanto alla letteratura elogiativa serpeggiavano e si dif- fondevano gli epigrammi denigratori dei fatti e del carattere di Leo- ne. Come saggi da porre accanto al nostro, riporteremo dal Koscoe (cap. XXIIT, § 17 e 19) altri due epigrammi di tal genere, benché non riferentisi al Kiario.

1. Sacra sub extrema si forte requiritis bora Cur Leo nou poterit (sic) sumere : vendiderat.

2. Obruta iu hoc tumulo est cum corpore fama Leonia, Qui male pavit oves, nunc bene pascit bumum.

Catania.

Carlo Pascal.

LA AADONNA DELL'ANNUNZIATA IN TRAPANI.

E ben conosciuta la storia della Madonna di Francesco Laurana che si trova a Monte S. Giuliano. Come narra il Di Marzo, secondo il gesuita Giovanni Amato, « Paolo di Gammiccliia, arciprete di Erice, e Paolo Toscano , allogarono per la lor chiesa madre a Francesco Lau- rana, una statua di Nostra Donna a simiglianza dell'altra più antica nel convento dell'Annunziata fuori le mura di Trapani, pel prezzo di once venticinque (L. 318, 75), per pubblica convenzione fatta pure in Palermo agli atti di notar Antonio di Messina ». 11 Di Marzo aggiunge che non ha potuto trovare tale strumento , di modo che mi pare im- possibile di stabilirne il testo esatto. Quando Laurana ebbe fornito la sua opera « gli uftìziali preposti al municipal reggimento della città [Palermo] impedirono affatto ch'ella ne fosse uscita, e, cominciatosi tosto con religioso fervore a venerarla, l'arcivescovo Paolo Visconti la locò incontanente nel duomo col titolo di S. Maria Maggiore, o di Monte Maggiore. Perlochè, non potendo più averla, gli Ericini con- vennero eoll'artence per un'altra simile statua agli atti del lor notaio Ruggiero di Salute a 10 agosto del 1109, obbligandolo, che di Pa- lermo, isgrossatone il marmo, la portasse e finisse in Erice. Del che è detto, colla testimonianza de' documenti, in un manoscritto di storia ericina di Vito Carvini, della cui autorità si giova l'Amato » ',

Le parole di questo documento che ci interessano più, sono quelle che fanno allusione alla Madonna dell' Annunziazione di Trapani. Paolo di Gammicchia e Paolo Toscano vi obbligano 1' artefice Laurana di fare un'opera « ad instar et similitudinem imagiitis marmoreae P>. M. Virginis, quae est in conventi! S. Mariae Annuntiatae extra civitatem Drepani » 2, e Francesco Laurana promette , dopo clic i Palermitani hanno ritenuto la Madonna ordinata dagli Ericini, di fare « imam aliam hnaginem Virginis praedictae de petra marmorea, (piani dictus Fran-

: Di Marzo, /. Gagini. Palermo, 188:5. I. p. Ili, 17.

2 Di Marzo, /. Gagini. Palermo, ISSI, II, p. S. Come si vede, le parole « più antica > sopra citate, sono aggiunte dal d'Amato.

348 W. ROLFS. PARTE II.

ciscus asseruit de proximo Imbuisse et habere in dieta urbe Panormi, ipsamque imaginem facere melioratam imaginis hujusmodi praedictae civitatis Drepani extra moenia dietae civitatis , vel saltelli ad simili- tudinem imaginis praedictae, et comodo et forma » ete. *

Come, modello delle Madonne di Monte S. Giuliano e del Duomo di Palermo, la Madonna dell'Annunziata di Trapani guadagna dunque un interesse straordinario per lo studioso delle opere di Laurana.

Qnal è la sua storia ?

Sfortunatamente, gli antichi archivi di Trapani furono distrutti 2. « Temporum injuria scriptorumque incuria, liujus S. Imaginis adventus obsenrus est » 3.

Inoltre, la leggenda s' è impadronita della storia con un suceesso completo. Secondo il Ferro « la più fondata opinione » sarebbe quella, « di esserei giunto [il simulacro] nel 1291, sotto il regno del re Gia- como di Aragona. Sembra eerto , che fosse stato scolpito in Cipro; portato in Tolemaide di Fenicia ; e da quei luoghi orientali (invasi poscia dalle armate di Saladino) trasmigrato qui in Trapani. Kon è improbabile la fama, che avesse decorato colà una commenda di Tem- plari, di cui v'era investito un certo cavalier Pisano , di nome Guer- reggio; che giunto in questo porto, assordato egli dalle instanze del popolo , vi dovè lasciare questa imagine , che ha ricevuto un culto sempre grandioso... Si va intanto per infallibili rapporti storici, con- solidati da documenti, che un tal simulacro, sin dall' epoca del suo ar- rivo, fosse stato affidato dalla città alla famiglia Carmelitana. La sag- gezza di una tale scelta giustifica abbastanza la condotta tenuta allora del popolo, e da' suoi magistrati, nell'aver ammesso in mano dei fi- gliuoli di Flia, un monumento così prezioso, e venerando » 4.

Il valore critico di questi « rapporti storici consolidati da docu- menti » è nullo. Tutto ciò che si può asserire è che la Madonna del- l'Annunziazione fu sempre al posto ove si trova ora , e che fu sempre tenuta in somma venerazione. S' intende che per aumentarne il pregio la si faceva molto antica, e il nome del « cavalier Pisano » e signifi- cativo per la ragione che fin adesso non mancano eruditi che l'attri- buiscano all'arte pisana 5.

i 1. e. p. 9. Qui pure non è quistione di una statua «più antica».

2 « Caenobii fuere omnia igne combusta tempore pestis ». Ex Decr. regis Feder. an. 1499, citato dal F[erro], G. M. D., Guida per gli stranieri in Trapani, Tra- pani, 1825, p. 287.

3 Pirri, Sic. Sacra, II, VI, pag. 878, citata dal Ferro, 1. e.

4 Ferro, 1. e, p. 288, 289.

5 Venturi, Storia dell'arte ital., IV, p. 263, la tratta brevemente come imita-

PAKTE II. LA MADONNA DELL'ANNUNZIATA IN TRAPANI. 349

Sarebbe dunque P arte pisana il modello di Francesco Laurana per le madonne siciliane, Parte di Giovanni Pisano ? Quando si esa- mina da vicino la Madonna di Trapani , non vi si vede alcuna traccia di lavoro pisanesco. È vero, che Pesame critico di quelPopera è oltre- modo difficile. La cappella, dove essa è posta, è oscurissima; la Ma- donna stessa è coperta dai piedi fino alla testa da ex-voto d'argento, specialmente di orologi. Guardando così superficialmente non si vede quasi nulla. Però , un esame più attento rivela che la Madonna è senza dubbio lavoro del Quattrocento. E (piando si osservano le teste della madre e del bambino , gli occhi senza pupille e leggermente curvi, le mani lunghe modellate alla maniera lauranesca, i capelli del bambino che toccan la faccia, sopra le orecchie, il movimento di esso bambino quasi attaccato al petto della madre e una quantità di altri indizi, noi ci troviamo subito a fronte dell'idea che il modello delle Madonne di Palermo e di Monte S. Giuliano debba essere, anch'esso, della stessa officina, cioè di Laurana e di Domenico Gagini.

Per quanto ardita possa parere al primo momento questa attri- buzione, essa non ha nulla di straordinario. Xella statua di Trapani trovano tutte le altre particolarità delle madonne del Laurana. Tediamo come la descrive il Ferro, da persona che Pha vista, quando non era tutta coperta da ex- voto : « L' altezza di questa statua è di palmi sei e due terzi... 11 marmo è (niello finissimo orientale, chiamato Xassio, di cui abbonda l'isola di Cipro. Le grazie delle sue forme, i contorni delle sue parti , le sue bellezze non ricercate, ma che nascono dalla natura, la giusta proporzione dei membri , la struttura degli or- gani, ci annunziano chiaramente di essere un'opera degna dei greci, e dei greci dei più bei giorni dell'arte. La Vergine è vestita di una lunga tunica, che le cuopre il piede sinistro. LI (/inocchio destro è un poco rialzato, come in atto di muoverlo. Tiene sul manco braccio il bambino, e colla mano destra stringendo la mano del figlio, se l'avvicina al petto l. Ljo reciproca compiacenza dei loro teneri sguardi , mette un certo riso sulle loro labbra. Rimirato questo simulacro dal suo vero punto visuale, presenta ad un maestoso sembiante un misto di grazia, di leggiadria e di dolce maestà » \ Nemmeno mancano altri segni caratteristici. Il manto

/.ione delle opere di Giovanni Pisano e non dice di che secolo è. Vi è un distinto ricordo dell' arte pisana nel movimento della testa, la quale è volta a sinistra e verso il bambino, e nel vestimento della Madonna cose che non si ripetono nella Madonna di Palermo e di Monte S. Giuliano. Ma questo mi pare non basti per escludere l'ipotesi da tue proposta. Vedi l'illustrazione data dal Venturi, p. 264 (189).

1 Un pezzo di marmo fa sostegno alle mani unendole al petto.

2 Ferro, 1. e, p. 289.

350 W. KOLFS. PARTE II.

e l'abito della statua di Trapani è al pari di quelle di Palermo e di .Munte S. Giuliano guarnito di « parole Siriache in oro», come dice il Ferro. È la maniera ben nota di ornare di lettere così dette « orien- tali » i costumi delle persone della storia santa, maniera che è sem- plicemente un bordo decorativo popolarissimo nel quattrocento.

Abbiamo detto : l'officina di Laurana e di Gagini. Entrambi han lavorato lungo tempo insieme ed hanno avuto, se nulla m'inganna, anche un opifìcio comune in Palermo : così soltanto possono spiegarsi le analogie spesso meravigliose nella maniera in cui son concepite ed eseguite le loro opere siciliane.

Si chiederà : il Laurana non poteva da solo avere compiuta la Madonna di Trapani

Le ragioni che stanno contro questa ipotesi son le seguenti.

Il panneggiamento della statua di Trapani è fondamentalmente diverso da quello di tutte le altre Madonne del Laurana. L'atteggia- mento reciproco della madre e del tìglio è in quella più marcato che nelle altre; esso è già notevolmente più debole nella Madonna di Monte S. Giuliano, e scompare in quella del Duomo di Palermo come nelle altre. È poi assai diffìcile fissare per Laurana un tempo in cui egli possa aver compiuta la statua di Trapani. Xoi possiamo rilevare, specie dal secondo soggiorno di questo scultore in Francia, che egli deve aver accettata contemporaneamente una serie non piccola di commissioni, che perciò non può avere disimpegnate se non per opera dei suoi sco- lari e de' collaboratori del suo opificio; rimane tuttavia a considerare che immediatamente dopo il suo arrivo in Sicilia , nel 1467, noi tro- viamo il maestro occupato in lavori a Partanna ed a Sciacca, e che nel 14C9 la Madonna da eseguire sul modello di quella di Trapani era già pronta e veniva sequestrata dalla città di Palermo per il suo Duomo; è necessario perciò che i lavori del Laurana in Partanna ed in Sciacca , la Madonna di Trapani nonché quella del Duomo di Palermo siano tutte venute fuori nel breve intervallo tra il 1407 ed il 14G9, il che non sarà impossibile, ma non è neppur facile ad am- mettere.

In queste circostanze , io inclino a credere che la Madonna di Trapani è opera uscita dall'opificio di Domenico Gagini, alla quale il Laurana può aver data l'ultima mano : Domenico teneva le Madonne a provvista ciò che e dimostrato dalla lite eh' ebbe a Barcellona.

Lo stesso dobbiamo pensare anche della Madonna di Monte S. Giu- liano. Poiché anche questa, nonostante che in base ai documenti ap- partenga a Francesco Laurana , è in realtà un lavoro della ditta Gagini-Laurana in Palermo e quest' ultimo le die' gli ultimi tocchi

PARTE II. LA MADONNA DELL'ANNUNZIATA IN TRAPANI. 351

quando essa era già al suo posto. Essa porta l'impronta della conce- zione gaginesca e mostra la mano del Dalmata solo nella maniera in cui è ultimata e compiuta, al contrario di quanto si scorge nella Ma- donna di Sciacca, della Cappella Mastrantonio in Palermo , di Noto e di Messina.

In ogni modo , per quel che riguarda la Madonna di Trapani, 1' esame esatto e coneludente non si può fare se non sgombrando il manto di ex-voto che la copre e che ne impedisce lo studio critico oscurato inoltre da una tradizione fantastica.

Miesbach presso Monaco (Baderà).

Wilhelm Rolfs.

UN DOCUMENTO INEDITO DI FRANCESCO DI LAURANA.

In seguito ad un notevole documento palermitano del 1468, già da me rinvenuto e pubblicato sullo scultore Francesco di Laurana *, mi è grato adesso poter darne alla luce un altro del medesimo anno e che pur lo riguarda, non mai fin qui stampato, dai registri del Protonotaro del regno di Sicilia (reg. 66, e. 63) nell'Archivio di Stato in Palermo.

Esso è il seguente :

Pro JHagistro Francisco Laureino sculptori.

Johannes, eie. Vicercx, eie. Nobili Baroni terre partanne eonsiliario B. d. 8. Noviter ni è stato cum gravi querela reverenter expostu pri parti di mastro francisco laurano sculpturi corno commorando ipso in quissa vostra terra ad vostra priyera vi prestao linci sey comu si dichi conteniri in una apodixa subscripla di vostra manu propria; et dimandanduci ipso exponenti li dicli unci sey pir chi intendia partirisi pri fari facti soy, li denegastivo roliri quilli restituiri, et, quod peius est, hacendusi ips- conferuto in la terra di xaeca, vui li fachistico prendivi dui soy figuri sculpiti di alao bastro, li quali ipso havia lavorato, et edam certi altri soy cosi et ferramenti, dichen- dochi volivi chi vegna in la dieta vostra terra pir pigiavi et lavorari dili petri, li quali su in lo territorio di la vostra terra predicta; et non obstanti più volti vi havissi pri- gato et riquesto li volissivo restituiri li dicti dinari, figuri et ferramenti, usque adeo haviti ricusato fatilo in eius grave dapnnm, preiudidum et interesse. Supplicaiidoni propterea humiliter super premissis li volissimo de opportuno juris anxilio debite prò- vidiri, qua supplicacione admissa, ìiiaraviglati nui de premissis , si ita est proni expo- nilur, vi dichimo et comandatilo expresse chi digiati restituiri alo dicto exponenti li dicti mici sey, per ipso a vui prestati ut' saprà, et li figuri et ferramenti predicti ac edam t ucti altri cosi soy, chi haviti. Et si forte aliquod jus pretenditis contra dietimi magi- strum franciscum, digiati legitime comparivi innanli a nui infra termino di jorni odo, a die presentacionis et intimacionis parcium in antea numerando; et auditis juribus utriusque partis, vi sarrà ministrato complemento di justicia, et premissa exequiri cum effectu, non di facendo modo aliquo in contrariarli per quanto haviti cara la grada regia, sub pena unciarum centum regio fisco applicandarum. Datura panhormi xxij.° May prime Ind. (M.° cccc.° lxviij.°).

LOP. XIMENEZ DURREA.

Dominile vicercx mandavit mihi Antonio sollima, et vidit eam Bertus.

1 Nell'opera I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI. Paler- mo, 1883, voi. II, pagg. 7-8, doc. V.

PARTE II. UN DOCUMENTO INEDITO DI FRANCESCO DI LAURANA. 353

Xe appare adunque , che , regnando in Sicilia Giovanni di Ca- stiglia, il viceré Lopez Ximenez de Urrea, in data de' 22 di maggio dell'anno 1408, scrisse al barone di Partanna (allora Onofrio Grifeo, undcciino barone, ed insieme visconte di Galletten in Sardegna), avendo sporto grave querela contro di lui appunto lo scultore Francesco di Laurana. Costui aveva esposto in essa, che, stando in Partanna, terra feudale in quel tempo ed oggi comune in provincia di Trapani, aveva prestato once sei a quel barone con apoca da lui soscritta, e che poi richiestele, dovendo indi partirsi per sue faccende, si era quegli ne- gato a restituirle: oltreché, partitosi egli e recatosi a Sciacca, quel prepotente gli aveva fatto sepuestrare due figure da lui scolpite in alabastro , non che alcuni suoi ferri ed altro, ed avevagli ingiunto che ritornasse per intendere al lavoro di cavamento e d'intaglio di certa pietra del suo territorio. mai eran valse istanze e preghiere per indurlo a restituire il mal tolto; e ciò con grave danno, pregiu- dizio ed interesse dell'esponente. Laonde , avendo fatto appello il Laurana all'autorità del viceré, costui, sorpreso dell'occorso, ordinava al barone, che gli rendesse ogni cosa, danaro, figure, ferri e tutt'altro di suo. Che se poi pretendesse avere alcuna ragione contro lo scul- tore, venisse fra otto giorni a sperimentarla in giudizio; e. dopo udite ambe le parti, si sarebbe fatta giustizia. Invece, non adempiendo, perderebbe la grazia regia, e incorrerebbe in una multa di cent'once, applicabili al regio fisco.

Questo documento è il più antico, che fin ora si sia rinvenuto, del soggiorno del Laurana in Sicilia , essendo anteriore di dodici giorni a quello del 2 di giugno dello stess'anno, ond'egli e Pietro di Bonate si obbligarono insieme per le sculture della cappella dei Ma- strantonio in San Francesco d'Assisi in Palermo , non che di circa quindici mesi all'altro dei 16 d'agosto del 1400, onde promise scol- pire una seconda statua della Madonna per la maggior chiesa di Montesangiuliano. Il documento medesimo precede intanto di tre anni l'altra statua della Vergine col divin Putto, da lui scolpita ed esi- stente in Noto nella chiesa del Crocifisso, recando dappiè riscri- zione: FKAXCISCVS LAVPAXA .AIE FECIT 1471. Con che fin ora appare indubitato almeno un triennio di sua dimora in Sicilia. Non si sa però perchè sia stato in Partanna prima del 22 di maggio del 14(>S, a qual uopo volevasi chVi cavasse e lavorasse del tufo di (pud territorio, (piai destino abbiano avuto le due ligure da lui scolpite in alabastro e che gli furono sequestrate, come sia andata a finire la sua vertenza con «pici barone. Solo ò da pensare che, a parte della scultura , siasi egli pure occupato di fabbriche, e quindi

23

354 G. DI MARZO.

si il stato adoprato a riforme o a decorazioni edilizie in quel. castello baronale. Il che ha più ragione dal fatto, che dalmati entrambi furon Francesco e l'architetto Luciano da Laurana, e ch'entrambi lavora- rono in Napoli , onde non sembra infondata 1' opinione del Muntz, che siano stati della stessa famiglia, e probabilmente fratelli *. Del resto in Partanna nulla vi ha di notevole in fatto di sculture , lad- dove di tredici statuine di marmo, ch'erano nel giardino di quel ca- stello, una, che rappresentava Giovanni Grifeo, capostipite di sua fa- miglia e primo barone, fu ridotta in polvere nel 1854 per dare il bianco alla maggior chiesa, e le altre dodici , che figuravano i mesi dell'anno, decorando i diversi viali, scomparvero tutte e non ne resta vestigio. Non appare intanto che specialmente queste ultime, a giu- dicarne dai soggetti, abbiano potuto avere alcun rapporto col Laurana. Sciacca invece, dove l'insigne scultore si recò da Partanna, adito a migliori indagini intorno ad opere, ch'ei potè avervi fatto, e specialmente nella chiesa di S. Margherita. Questa chiesa , secondo il Pirri 2, fa eretta e dotata dall'infante Eleonora d'Aragona, figlia di Giovanni , duca d'Atene e di Neopatria , e moglie di Guglielmo Peralta, come risulta da regie lettere del 1342 e del 1375. Vi ebbero ospizio i Teutonici, e fu perciò dipendenza della loro Magione in Pa- lermo ; ed altresì vi ebbe sede una congrega di disciplinanti o bat- tuti, di cui è già ricordo dal 1393. Più tardi un Antonio Pardo lar- gheggiò molto del suo in favore di essa, siccome accenna il Fazello 3j ed il Pirri non lascia di notarvi signum marmoreum uffabre scutytum, cioè l'antica statua di S. Margherita, che ancora vi esiste. il culto ne venne meno nel secolo decimottavo, laddove appare che ai 20 di luglio del 1711, per la festività della Santa, vi fu rappresentata una tragedia del martirio di essa, scritta da un Gioacchino Bona e Far- della e stampata in Palermo con dedica a Michele Arone e Tagliavia, barone di Valentino e protettore di detta chiesa *. Oggi però essa,

1 Vedi due articoli di Anatole de Montaiglon, Francesco Laurana, in Chronique des Art» et de la curiosité ; supplément a la Gazette des Beaux-Arts. (Paris, 1881, n. 10, pag. 79; n. 14, pag. Ili); ed ivi una lettera del Muntz. Cfr. Di Marzo, I Gagini, ec, voi. II, pag. 23, in nota.

2 Sicilia sacra. Pauormi, 1733, toni. I, pag. 736.

3 De rebus siculis. Pauormi, 1560, dee. I, lib. VI, pag. 145.

4 Nella Biblioteca Comunale di Palermo ne esiste un esemplare ai segni CXXXVI B 135, n. 1. Ed eccone il titolo : Il Martirio di S. Margherita , vergine antiochena; tragedia di Don Giachixo 3ona e Fardella, da rappresentarsi nel famoso e celebre tempio di detta Santa, eretto nella città di Sciacca, il giorno della sua festività a 20 luglio 1111. Dedicata al signor Don Michele Arone e Tagliavia, barone di Valen- tino e protettore della sudetta chiesa. In Palermo, per Antonio Epiro, 1711. In-16°.

PARTE II. UN DOCUMENTO INEDITO DI FRANCESCO DI LAURANA. 35o

per manco di ogni suo avere, è chiusa al culto e crollante. Laonde occorre apprestarvi riparazioni opportune ; e ciò almanco a scongiu- rare il pericolo che vada del tutto a male quanto vi ha di notevole in arte. Imperocché, a tacere di una pittoresca decorazione architet- tonica in tufo nella porta maggiore, lavoro del '500, vi meritano spe- ciale studio le sculture marmoree pregevolissime della porta laterale, e quelle di xmHcona parimente in marmo nella cappella della Santa al di dentro : le une e le altre opera del Rinascimento e di scalpello italiano, ma che certo non appartengono ad un medesimo artefice.

Quella porta laterale è specialmente di tale eleganza da ben po- tersi annoverare fra le più belle opere di scultura esistenti in Sicilia del '400 l. Rettangolare di forma, reca essa gli stipiti decorati nella parte superiore da due vaghe figurine di Santi in piedi ed in alto- rilievo, la Maddalena e S. Calogero forse , e più in su da graziosi ornati con due conchiglie e quattro testine o busti di angioletti, cui fan riscontro al di sopra nell'architrave retto e sotto la cornice di esso cinque altre testine di angeli o di fanciulli. Fiancheggiano in- tanto gli stipiti, ed il vano della porta con essi, due colonnine svelte e sottili , elegantissime , faccettate da più della metà in giù, ed ivi legata ciascuna da un bel nodo, pur con testine angeliche, alla parte superiore, che si compone di cordoncini in fascio. Sul più vago e fine corinzio dei due capitelli ricorre poi la cornice dell'architrave, dando luogo al di sopra in mezzo ad un semicerchio , ricco di tini ornati come a ricamo, dentrovi S. Margherita di fronte ed in mezza figura, con libro aperto in mano ed al di sotto prosteso il dragone infernale, mentre quattro angioletti, due per ciascuna banda, le son daccanto genuflessi in atto di preghiera. Una larga cornice esteriore del semi- cerchio indi si allunga elegantemente nel mezzo , sviluppando sovra esso un bel pennacchio cuspidale , che ha nel centro un Dio Padre benedicente in mezza figura , fra quattro angioletti in ginocchio dai lati, oltreché tre altri in piedi gli stanno dietro. Ed altri due begli angeli in piedi e con le braccia conserte sul petto fiancheggiali ora esternamente la sommità della cuspide , sporgendo isolati dal muro, in cui non si sa (piando furon muraci. Ma son fuor di luogo, benché dello stesso scalpello ; e non dubito ch'essi in prima doveano aver posto in cima a due candelabri, che certo ergevansi da' lati del se- micerchio fin presso al Dio Padre, e di cui ora non restano (die due belle figure sottostanti della Vernine Annunziata e dell'angelo Ga-

1 Vedi iìg. 55, da una fotografia del signor Sebastiano Agati.

356

G. DI MARZO.

bride sulle due estremità della cornice dell'architrave e sui capitelli delle due colonnine. Tali figure in fatti sporgono entrambe in alto- rilievo dal marmo, che bruscamente d'ambo le parti è rotto al di so-

Fiz. 55.

PARTE II. UN DOCUMENTO INEDITO DI FRANCESCO DI LAURANA. 357

pra, talchi' ancor vi si vedono più o meno unitilo due conchiglie, con cui cominciavano i due candelabri distrutti. Ne questa sola mutila- zione ebbe a subire bella opera d'arte, laddove altresì la cornice esterna del semicerchio centrale vi è monca «l'ambo i lati nella parte inferiore. Ma nonpertanto per tutto il resto essa è tale opera da non doversi attribuire che ad eccellente maestro.

Sommamente ne differisce per una eerta fiacchezza di stile ed inferiorità di tecnica V icona parimente di marmo, eretta sull'altare della cappella di S. Margherita nella chiesa medesima l. Sopra una predella, in cui ricorrono undici mezze figurine di Sante vergini dai lati d'una del Cristo in passione , che occupa il centro , si ergono quattro pilastri corinzii con fregiature già sviluppate del Rinasci- mento, le quali pure adornano due larghe fasce verticali ed aderenti ai due pilastri esteriori. Altre due simili fasce più strette aderiscono internamente agli altri due , decorando gli stipiti d'una nicchia nel mezzo, dove in grandezza del vero sorge una pregevole statua della Santa titolare. Dai lati, negli spazi intermedi fra pilastro e pilastro, ricorrono sei scompartimenti, tre per ciascun lato, dentrovi storiette della vita e del martirio della Santa in altorilievo. Indi sui quattro pilastri ricorre un architrave retto con fregio fra due cornici, e sovra esso, in un vano rettangolare nel mezzo e fra due pilastrini è rap- presentato il Presepe col nato Gesù, laddove inoltre dai lati sono fra due candelabri due nicchie con le statuette di San Pietro e San Paolo, non che nel vertice con allungati fioroni. Sul vano intanto del Pre- se})!' ha luogo una cornice con tre testine di serafini, alla (piale so- vrasta un mezzo tondo coll'Annunziata e l'Angelo fra due minori candelabri, e più su in cima si erge una mezza figura del Dio Padre, che benedice. Dal complesso poi dell' /con a par ch'essa debba prove- nire da tale artefice, che o precedette o seguì di poco il primo levarsi del genio di Antonello (ìagini , ben potendosi argomentarlo dall'ana- logia del congegno e specialmente dell'ornamentazione con simili opere del sovrano scultore palermitano. Laonde non sembra dubbio ch'essa sia stata scolpita non pochi anni dopo la decorazione marmorea della porta laterale di quella chiesa, indubitata opera del più bel quattro- cento, ed altresì non pochi anni dopo il triennale soggiorno del Lau- rana in Sicilia. Qui dunque gioverà meglio non tenerne conto più oltre, e lasciarla, come suol dirsi, Cuori combattimento.

.Ma che andò a fare a Sciacca il Laurana, recatovisi da Partanna

1 Vedi rig. 5(>. da una fotografia del prof. Salinas.

$58

G. DI MARZO.

PARTE II.

prima del maggio del 1468 ? Non vi andò certo pei bagni termali, ne per mangiarvi le sogliole, ma pri fari facti soy, siccome scrisse il viceré Durrea, cioè per suoi affari dell'arte. Or dell'arte, in cui tanto

egli valse, viene in mente potergli attribuire la preziosa decorazione architettonica e scultoria in marmo, dinanzi descritta , dell'anzidetta chiesa di S. Margherita , siccome quella che ben rivela dallo stile

PAKTE II. UN DOCUMENTO INEDITO DI FRANCESCO DI LAURANA. 339

appartenere appunto al tempo della dimora del medesimo in Sicilia, e che risponde al delicato sviluppo di sentire ed all'eleganza di scal- pello, di cui egli in quest' isola generalmente die mostra nelle sue opere. Provano ciò , a mio avviso, i rapporti stilistici delle sculture figurative di essa porta con l'autentica sua statua della Madonna col divin Pargolo in grembo, già detta della Presentazione e poi di Li- bera Inferni, nel duomo palermitano, con quella di simigliante sog- getto e da lui stesso firmata in Xoto, con una parte e forse la più pregevole delle sculture della cappella de' Mastrantonio in San Fran- cesco d'Assisi in Palermo, ed ivi molto probabilmente altresì col pre- gevolissimo busto di Eleonora d'Aragona, di già trovato dal professor Salinas nell'antico monastero benedettino di S. Maria del Bosco di Calatamauro e di trasportato al Museo Nazionale. In proposito del quale busto giova ora considerare, ch'esso rappresenta ({nella mede- sima infanta Eleonora, maritata a Guglielmo Perai ta, la quale eresse e dotò al suo tempo la chiesa appunto di S. Margherita di Sciacca, e fu altresì prodiga di sue beneficenze al monastero anzidetto del Bosco, presso Giuliana. Quivi adunque in un monumento funebre in memoria di lei, eretto nel '400 non poco tempo dopo la sua morte, ebbe luogo il connato busto, ch'è ora nel Museo di Palermo; e poiché la finissima tecnica di un tal busto mirabilmente risponde a quella delle sculture, che decorano in Sciacca la porta laterale della chiesa di S. Margherita , di già fondata e dotata dalla medesima infanta, ben è da stimare che l'imo e le altre siano state allogate allo stesso scultore, e quindi più o meno contemporaneamente eseguite. La cer- tezza poi, che ora si ha dell'andata del Laurana a Sciacca non molto prima del maggio del 14(58, accresce peso storicamente a pensare, ch'egli forse ne sia stato l'autore.

Esistono intanto busti più o meno simili a quello, di cui qui è discorso, e di conforme finezza d'arte, frai (piali ben rinomato quello dell'Incognita al Louvre, ed altri nelle collezioni di (instavo Dreyfus ed Eduardo André in Parigi, e nei musei di Berlino, Vienna e Fi- renze: oltreché un altro, ma danneggiato, ne pervenne al museo di Palermo dal vicino convento di Laida. Dei busti anzidetti giudica il Lode, dotto conservatore del museo di Berlino, che sien opera ap- punto di Francesco di Laurana, siccome pure il Courajod aveva opi- nato dinanzi. Pelò emeriti critici d'arte francesi ne dissentono , non trovando alcun riscontro fra essi e le sculture eseguite dal Laurana in Avignone. Laonde fu prima stimato che appartenessero alla Scuola fiorentina e più precisamente a Desiderio da Settignano. Ma altri- menti opinò André Michel, non riconoscendovi l'opera di Desiderio e

360 ' G. I>I MARZO.

concludendo, che in proposito si rimanga in assoluta ignoranza. Lo stesso tenne anco il Muntz, e propose dar luogo ad un nuovo arte- fice, nomandolo il Maitre des bustes de femmes et des masqucs. Ed inoltre E. Molinier dichiarò incisamente , che l'attribuzione di quel busti al Laurana è « una delle maggiori enormità che giammai si siano prodotte », promettendo bensì « dar presto la soluzione documen- tata di questo piccolo problema artistico ed iconografico », Ma la so- luzione dal 1892 si fa ancora attendere , ed il problema rimaneva insoluto \ Entrò allora nel campo della controversia il nostro pro- fessore Salinas , e, giovandosi di fotografìe tirate da lui medesimo, pose in confronto in una sua lettera la testa della Madonna di Noto col busto di Eleonora di Aragona nel museo di Palermo , e l'ima e l'altro con quello del Louvre, e ne rilevò che a torto si era combat- tuta l'attribuzione di essi al Laurana. Il che era avvenuto i>erchè lo si era soltanto studiato nelle sculture dell'ultima sua maniera in Avi- gnone, e non già in quelle anteriori da lui eseguite in Italia e spe- cialmente in Sicilia 2. Ma di ciò in Francia non si restò convinti, negatasi bruscamente l'identità di espressione, di forme e di tecnica fra la Madonna di Noto ed il busto di Palermo '\

Nondimeno io consento all'opinione del Salinas, pur non vedendo fra l'ima e l'altro identità di espressione e di forme. La quale iden- tità non vi è, ne vi dev'essere, stante la differenza dei soggetti rap- presentati. L'ideale della Vergine Madre di Gesù nulla può aver di comune col ritratto aristocratico d'una gran dama di regio sangue, qua! fu Eleonora d'Aragona ; e la diversità di ciò dee rispecchiarsi nell'arte. Ma ben altrimenti è per la tecnica di tali sculture, giacche l'identità della tecnica io la ravviso in esse , convincendomi che dei pari sieno uscite da un solo scalpello in ragion dell'estrema finitezza ed eleganza, che, a mio avviso, vi han chiaro riscontro. Dico altret- tanto ponendo in confronto il busto medesimo con la Madonna del duomo di Palermo, benché deturpata da brutti colori nel volto e spe- cialmente nei capelli, e parimente in Palermo coi Padri della Chiesa in altorilievo nella cappella de' Mastrantonio in San Francesco di Assisi , ed ora altresì con la porta marmorea in S. Margherita di

1 Su La question Laurana vedi la rivista mensuale Les Arts. Paris, 1902, nu- meri 2, 3 e 4.

2 Nella rivista cit. Les Arts. Paris, 1902, n. 12.

3 Iu una nota della direzione della rivista Les Arts , in fine alla lettera del prof. Salinas.

PARTE II. TJX DOCUMENTO INEDITO DI FRANCESCO DI LAURANA. 361

Sciacca, dove l'eleganza dell'architettura decorativa lia mirabil risalto dalle preziose figure, che ne fan parte. Nonpertanto è mestieri rico- noscere , che il Laurana in merito non è mai eguale a stesso, e che talora nell'arte rivelasi un proteo addirittura : dal che si spiega com'egli abbia potuto dare alla Madonna di Montesangiuliano un volto privo di espressione e così fiaccamente condotto da nulla in ciò aver di comune con le altre due Madonne di Palermo e di Xoto e sembrar cosa piuttosto da debole scalpellino. Laonde , sospettando che quivi sia mano d'altri, e non potendo provarlo con documenti, giovami rilevar meglio siccome nella Madonna di Xoto, una delle ul- time opere del soggiorno del Laurana nell' isola, il Bambino, ch'ella sostiene in braccio e che amorosamente la guarda in viso, in nulla risponde per finitezza di esecuzione all'intera figura di lei, sembrando invece appena sbozzato e quasi non finito. Il che forse fu inizio di quell'ultima sua maniera, che poi tanto prevale nelle sue sculture di Francia. Queste perciò differiscono dai lavori lasciati in Sicilia, giacche la tecnica dell'artefice ebbe in esse generalmente smarrito l'anteriore perfezione; quella perfezione, dico, ond'egli con le sue statue di Pa- lermo e di Xoto si lasciò addietro Domenico Gagini ed il suo socio Pietro di Bonate, ed onde ora con la certezza della sua anelata a Sciacca si apre ancor l'adito a sospettare che sia di lui la porta di S. Margherita. Laonde, venendo or questa altresì in appoggio con la sua somma eleganza e delicatezza di sculture , ben può cercarsi il Maitre des bustes in Sicilia e riconoscerlo in non altri che nel Lau- rana nel suo triennio qui di soggiorno ; e ciò pure non escludendo ch'egli abbia adottato per essi busti una maggior cura e finitezza che altrove. Del resto occorrono ben altri argomenti a troncare la contro- versia, ed io troppo oltre per ora mi son condotto ad illustrare un sol documento.

Il precedente articolo era già scritto quando il dottor Guglielmo liolfs , veivuto due volte in Sicilia in traccia di sculture del Laurana, e recatosi a Sciacca ad osservarvi, a mio suggerimento, diverse statue della Madonna esistenti in quella maggior chiesa, da me già vedute di passaggio in mia giovinezza , ne ha trovato ivi una appunto del detto scultore in quella della Madonna della Catena. Di essa ha già pubblicate due fototipie in un suo articolo intitolato : Die erste sizi-

)62 G. PI MARZO.

lianìsche Madonna des Franz Laurana i ; e non è menomamente da dubitare, a mio avviso, del giudizio del dotto tedesco. Perocché, a tagliar corto , rivelasi evidente l'analogia di forme e di stile fra la detta Madonna di Sciacca e quella firmata esistente in Noto, talché stimerei enorme errore il voler contrastare una si chiara attribuzione. Neppure inoltre si può agevolmente dileguare il sospetto , ormai messo in campo dal medesimo Rolfs, che possa bensì esser opera dello scul- tore dalmata la pregevolissima statua di Nostra Donna in piedi col bambino in grembo, comunemente detta la Madonna di Trapani, quivi esistente nella chiesa dell'Annunziata , già del convento ora abolito dei Carmelitani. A simigliarmi della quale il Laurana si obbligò indi a scolpir quella, che doveva aver luogo nella maggior chiesa di Monte- sangiuliano e che fu trattenuta nel duomo di Palermo, dove rimane 2. Oltreché la presunta origine pisana della Madonna di Trapani insin da tempo anteriore al 1291 non procede che da una leggenda desti- tuita di fondamento e così piena di contraddizioni, che fiocco Pirri, stimato meglio non tenerla in conto , giudicò invece dovere affermare : Tcmporum injurià, scriptorumque incuria, huius ss. imaginis adrentus óbseurus est \ Gioverà dunque attivare le indagini per trovar docu- menti coevi , che facciali luce in proposito , e cercare insieme ogni mezzo da potere attentamente osservare la detta Madonna sgombra di tutti i gioielli, degli ori e degli argenti, di che in tutta la persona, e non meno in quella del divin Putto , la ingombrò la pietà dei fedeli. Imperocché se da tali documenti e da complete osservazioni potesse mutarsi in certezza il sospetto del dottor Kolfs che quella statua sia uscita dallo scalpello del Laurana, non sarebbe più luogo a dubbio ch'egli e non altri sia stato il Maitre des bustes , che inutilmente si va cercando fin ora. Tanta finitezza e perfezione d'arte trovasi in essa così nella testa della Madre che in quella del Figlio, cioè in quanto è dato vederne al presente, da dovervi scorgere un7 esecuzione con- forme a quella dei detti busti 4.

1 In Zeitschrift fur bildende Emisi. N. F. XVII. H. 8. 193-195.

2 Di Marzo, I Gagini, ec, voi. II, doc. VI, pag. 8.

3 Pirri, Sicilia sacra. Panormi, 1733, tom. VI, not. VI, pag. 878.

4 Non comprendo però fra essi , come opere del dalmata , il busto di Pietro Speciale nella scala del suo antico palazzo in Palermo , e V altro del giovinetto (probabilmente suo tìglio, a lui premorto) nel Museo Nazionale palermitano. Pe- rocché ambi quei busti, fino a prova contraria, stimerò sempre di Domenico Ga- gini, preferendo alle altrui vaghe impressioni le induzioni basate su documenti.

NUOVI DOCUMENTI DI PIETRO DI BONATE

Scultore lombardo in Sicilia nel Quattrocento.

Neil' Archivio Storico Messinese (anno IV, Messina, 1903, pag. 221 e seg.) il cav. Gaetano La Corte Cailler diede già in luce circa una terza parte soltanto di un documento inedito notevolissimo del 1408, riguardante il lombardo scultore Pietro di Bonate, latinamente de Boni- tate l, non che il compimento della sontuosa decorazione marmorea della porta maggiore del duomo di Messina; il qual documento egli attinse dai rogiti di notar Leonardo Camarda in quell'Archivio Provinciale di Stato. E poiché molto innanzi , mercè un altro documento palermi- tano da me rinvenuto 2 , io era riuscito pel primo a disseppellir dal- Pobblìo la memoria di un tale artefice , che con Francesco di Laurana e Domenico Gagini fé' parte di una insigne triade di rinnovatori della scultura in Sicilia , stimo qui ora utile dar fuori intero il documento messinese anzidetto insieme a due altri , che vi sono allegati e che fedelmente trascrivo, corredandoli di une osservazioni. Leggesi dunque 3:

Ultimo octobris [indiz. II, an. 1468].

Magister petrus de bonitate, lombardus, residens in presenciarum in urbe felici panormi, couseuciens, etc, sponte se constituit et sollepniter obligavit sollepni stipulatone, interveuientibns magnitìcis viris Johanni de faleonibus, Johanui de Johanne, angelo de lignamine et petro de stayti, tamquain jnratis nobilis civitatis messane et in eodem officio Juracie perseverantibus, nec non et maguiflcis Jacobo campulu, ci vi messane, tamqnara anno preseuti magistro opere sive fiabrice opere sancte inajoris messanensis ecclesie, nec non et An- thonio muleti et petro de stayti similiter tamquain magistris opere frabrice

1 Bonate superiore e Bonate inferiore sono un connine di Lombardia in pro- vincia e circondario di Bergamo, mandamento di Ponte San Pietro. Fi da un tal luogo di sua nascita si cognominò lo scultore, che pure il Muntz appella di Bonate.

2 Cfr. Di Marzo, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XI' e XVI. Pa- lermo, 1883, voi. II, doc. V. pag. 7 e seg.

3 Agli atti di notar Leonardo Camarda nel volume degli anni Uti8-71 , nel- l'Archivio Provinciale di Stato in Messina.

o64 G. DI MARZO. PARTE II.

predicte diete ecclesie in ai ori s messar.ensis, in ordine sequentibus post pre- beutem annum, presentibus et stipuhmtibus prò dieta opera et frabrica diete ma jori s messtmensia ecclesie : lune ad anuos duos proximo venturos, ut ma- zouus, ut decet , compiere subscriptam jauuam maiorem diete sancte raaioris niessauensis ecclesie cura lapidibus marmoreis et aliis quibuscumque expeusis dicti magi stri petri, et expedire et compiere fabricani et jauuam predictam, hacteuus inceptam et apparentem secundum designimi in forma diete janue complende per ipsum magistrum petrum, visutn recoguitum et sibi exbibitum et obsteusum in tela , pcrmanendnm penes magistrum opere predictum et consocios suos , etiam in dicto officio animatila sequentes , cimi omnibus et singulis ornamentis, foglagiis, fìguris et aliis quibuscuuque necessariis, diete janue necessariis et ceteris aliis apparentibus hedificiis diete janue agiture conformis, et dictam jauuam cimi lapidibus marmoriis fabricare, expedire et compiere, ut decet, cimi omnibus fìguris marmoreis, foglagiis , volugiis et aliis quibuscunque necessariis oruamentis : Et hoc prò unciis auri duo centis quinquaginta £ dicto magistro petro solucionibus et temporibus infrascriptis, de quibus iu presenciarum dictus Jacobus eidem magistro petro presenti prò... parte solucionis fabrice predicte se nomiuibus quibuscunque constituit solutorem unciarum auri quinque unciarum quatraginta quinque ad compli- mentimi unciarum quinquaginta, secundum suinitur prò eius officio anno pre- senti; eidem magistro petro seu alteri legitiine prò sui nomine ei prò parte... prestantis fìdeiussiouem per ipsum magistrum petrum in urbe panormi, gratam maguificis domino pliilippo eampuli et Johanni de Joliaune, seu aliis quibus deeet in officio prenominato , de implicando dietas uneias quinquaginta in la- pidibus marmoriis ad opus fabrice et complimentimi diete jauue , afferendis messanam, sub omni et quocunque risico et perieulo dicti magistri petri, iu centrata videlicet in portu nobilis eivitatis messane, consignandis in centrata auula 2; quorum dicti magnifici prezii predicti, quantum serra, nomine dicti magistri petri, solvere teuentur et eonstituerunt : quos lapides dicti magnifici eorum sumptibus se eonstituerunt deferri tacere a ni ari ti ma ad locum depu- tatum prò fabrica predicta fìeuda : quibus lapidibus ibi delati s, idem magister petrus se ad mastbazenuin opere predicte, prope ecelesiam maiorem, consti- tuit taniquam mazonum pio compiendo dictam januaui laborare per se et eius laborautes et vacare in expedimento et fabrica jauue predicte usque ad fìnem: reliquas uutias auri ducentas ad complimentum integri precii dictus magni- ficus antonius de inoletis, magister opere anni terzie Ind. primo venturi, prò rata eum nomiuibus quibus supra contingenti , eidem magistro petro solvere

1 Fin qui soltanto trascrisse e pubblicò il La Corte Cailler; e tutto il rima- nente, lasciato inedito, fu indi <ia me trascritto ed ora la prima volta viene qui in luce.

2 Non son certo di questa lezione del nome proprio della contrada, potendosi fors'anco leggere rinula o vivida. ad alcuna contrada della marina messinese, a quanto io mi sappia, rimane ora alcun nome di tal natura.

PARTE li. NUOVI DOCUMENTI DI PIETRO DI BOXATE. 365

et pagare tenetur et promisit in pecunia numerata cum laboraverit et vaca- verit in fabrica et expedinieuto janue predicte : magnificila Johannes de Job arine , nomine et prò parte magnifici a ti toni i saccani . diete fabrice ma- gistri opere in anno quarte Ind., se constituit soluturum eidem magistro petro ratam precii predicti coutingentem dicto antouio saccano tari qua in magistro opere diete fabrice prò anno quarte Ind. proxime futuro, cimi dictus magister petrus laboraverit et vacaverit iu fabrica predicta. Similiter magnificila al- fonsins de stayti, nomine magnifici nucii de boniilio, magistri opere predicte in anno quinte Ind. proxime futuro, eidem magistro petro, presenti prò fa- brica et complimento diete janue, se constituit soluturum ratam contingeutem dicto micio , tamquam magistro opere , prezii predicti. Similiter maguificus alfonsius de stayti , tamquam magister opere predicte in anno sexte Ind. proximo future, se constituit soluturum eidem magistro petro ratam contin- geutem ipsius pretii... nominibus pretii predicti: qui magister petrus tenetur et promisit in dieta fabrica nere lapides marmoreos , magisteri um eius et attìngere seu assictari lu lavuru bi havira taglata : magistri opere predicte tenentur et debent iu dieta fabrica et expedinieuto predicto ponete pontes, magistros moratores et manuales , calcariam calcis et alia necessaria : ulterius tenentur et promiseruut, durante dieta fabrica, eidem magistro petro prò se et famulis suis si ve laborantibus mastbazenum opere predicte dum vero ma- gister petrus , famuli eius et laborantes sui possint habitaro et morari iu masthazeno opere prediete; in quaruin aliqua solueione... dicti magistri... te- neri voluit dietis maguificis nomine diete opere ad omnia dapna , expensas et interesse: iu quo casa liceat dietis magnificis, nomine diete ecclesie, sumpti- bus omnibus et expensis dicti magistri petri coiupleri facere ad dietas fabri- cam et complimentimi janue predicte usque ad debitum fine-m; in quo casa possit beri executio brevi maini in persona et in bonis dicti magistri petri. Que omnia, etc.

Presentibus magnifico domino Jolianue de stayti milite, ven. fratre leonta de falconibus et no. antbonello de aza fello.

Vi è inoltre inserita quest'apnea in egual data :

Eodem. Dictus magister petrus sponte prò causa predicta coufessus est se recepisse et Imbuisse a discreto et maguifico Jaymo rizu presenti, velati procuratore et crideuzerio opere prediete , per banconi miucii mimila, uncias auri quiuque .... l'enunciando, etc, et tarenos sex pri farisi spisa prò rece- dendo a civitate messane et se conferendo iu urbe panormi. Presentibus matlieo de cathaudo et dannano spinella.

E poi del tempo, in cui l'opera fu compiuta dopo quasi nove anni, vi ha questa seconda apoca a saldo di tutto il prezzo :

xj frebruarii x.1' lud. m.° cccclxxvj 1 dictus magister petrus de bouitate... de precio diete janue, videlicet de precio predicto.... de dietis unciis duo-

1 Anno 1476 col vecchio stile, ma 1477 col nuovo.

366 G. DI MARZO.

centi* quinquagintn, computatis omnibus solucionibus .... sibi factis, est con- fessila sibi integre et in totum fuisse solutum et satisfactum , ])resentibus presbitero berto di la castello, presbitero Jobauue pisanello et berico micbo de leone.

Or dai detti tre rogiti messinesi evidentemente risulta , ehe ai 31 di ottobre del 14(58 lo scultore Pietro di lionate, essendo andato da Palermo a Messina, vi ebbe allogato tutto il lavoro di compimento della decorazione in marmo della porta maggiore di quel duomo; che non potè ivi incontanente por mano all'opera , essendosi pure allora obbligato mandarvi in prima i marmi da lavorarsi; clie quindi tosto, avuti tari sei per le spese del viaggio, sen ritornò a Palermo , sua ordinaria dimora , e che poi molto più tardi si occupò di quella in Messina, laddove essa non ebbe termine se non circa nove anni ap- presso, quand'egli con l'apoca degli 11 di febbraio del 1177, e non prima, sen dichiarò soddisfatto di tutto il prezzo. potè essere stato altrimenti (checché ne abbia pensato in contrario il cavalier La Corte Cailler) i, giacche, pure ignorandosi gli altri suoi impegni anteriori in Palermo , è certo che lo stesso scultore , insieme a Francesco di Laurana, dovea decorarvi di sontuose sculture la cappella de' Mastran- tonio in San Francesco d'Assisi, allogategli a 2 di giugno dello stesso anno 1468, cinque mesi avanti che la porta del duomo messinese 2; e non è a dubitare che le abbia fornite molto pria d' intendere ad essa. Ma ciò non è tutto. Perocché indi trovo una lettera in data di Palermo a 13 di ottobre del 1472 , onde il viceré Lopez Ximenez de Urrea ingiungeva ad un Guglielmo Vaccaro, canonico palermitano e collettore delle rendite dell' arcivescovo (allora Paolo Visconti) , che, qua! debitore di quest'ultimo , pagasse trentacinque onze a maestro Pietro di Bonate, incaricato del lavoro del soglio reale in marmo nel duomo. Il qual documento, che trascrivo dai registri del Protonotaro del regno di Sicilia (reg. 71, e. 37 v. a 38, an. 1472-73) nell'Archivio di Stato in Palermo, è il seguente.

Pro mayistro petro bollitati.

Joaunes, etc. Vicerex, etc. Venerabili guillelmo vaccaro, canonico pa- normitano, collectori redditnuui R.mi archiepiscopi panorinitani, oratori regio dilecto, saluterei : Cimi sit chi la eclesia raajuri di quista felichi cintati di pa-

1 In Archivio Storico Messinese. Anno IV. Messina, 1903, pag. 220 e seg.

2 Cfr. Di Marzo, / Gagini, oc, voi. II, doc. V, pag. 7.

PARTE ìt. NUOVI DOCUMENTI DI PIETRO DI BOXATE. 36?

lertno seiupri sia stata la sedia et loco ondi soli sediri venendo ala dieta eclesia la Maistà delo signuri Re et soy presidenti seu vicegereuti , et per farisi altri fabrichi et ornamenti in lo choro di la dieta eclesia la dieta sedia sia guastata et levata, la qual cosa nui sapendo indi raxonammo cum hi dicto R.m0 archiepiscopo , lu quali ni promisi fari la dieta sedia et contribuii la mitati di la dispisa di la dieta opera , et P altra mitati si divia pagari dili denari dili marammi : Et nui , per honnri dilo dicto Signuri Re ac soi suc- cessuri, bagiamo dato ordini fabricarisi la dieta sedia di marmori, sicut decet; divendosi pagari lo mastro dila dieta opera, et sapendo nuy vui esseri de- bituri alu dicto R.m0 archiepiscopo, vi dicliimo, hortamo, requirimo et qua- tenus opus est comandamo qaod de pecuniis elicti debiti digiati pagari et con- sigliar! a mastro petro de bollitati , maystro marmoraro , uuci xxxv per la mitati contingenti alu dicto archiepiscopo, recipieiido vuy da ipso apoi'a de recepto, prò vestri cautela ; li quali unci xxxv comandamo volimo vi siano admissi dali audituri di vostri cuneti seu procuraturi di lu dicto archiepiscopo, non fachendo di czo lu contrario pirchì ni fora displachenti... , sapendo nuy lu dicto archiepiscopo esseri contento et permìsinilo. Datum Paiiormi xiij octobris vj.e Ind. Lop. X1MENEZ DE Urrea.

Dominus vicerex mandavit mi/ti gerardo agiata prothonotario.

Da ciò adunque è innegabile che Pietro di Bonate era tuttavia in Palermo nel 1472, intento al lavoro del soglio reale in marmo, al- logatogli dal viceré pel prezzo di settanta once, rilevante anziché no per quei tempi, da pagargli in metà l'arcivescovo ed in metà la Ma- ramma ossia l'Opera della fabbrica del duomo. Sembra perciò che fin allora non fosse ritornato in Messina a darvi principio ai lavori di compimento alla decorazione in marmo della gran porta di quel mag- gior tempio ; ed anzi è probabile che ancor non poco egli abbia in- dugiato a recarvisi, benché obbligatosi dal 1408, laddove l'ultima sua apoca a saldo del prezzo di quei lavori è poi del 1177.

Ma qual fu ivi l'opera ornamentale del lombardo scultore a com- piervi la decorazione marmorea preesistente ? È indiscutibile in vero che, quand'egli a ciò fu adibito , propriamente il grande arco acuto di quella porta era stato già tutto decorato delle ricche sculture in marmo, ornamentali ad un tempo e figurate, che vi si ammirano tut- tavia. Son quelle degli stipiti in doppia fascia con le ligure dei pa- triarchi e dei re della genealogia del Redentore, non che con varie altre figure in bei meandri di ornati; e nell'architrave retto le mezze figure degli Evangelisti coi relativi lor simboli e col divin Pargolo in mezzo , e sul detto architrave in un lungo cartoccio ed in lettere go- tiche P iscrizione : liane vitam accomodabit xps qui prò co certabit l7

1 Così precisamente sta scritto : ma la parola qui dee leggersi vui per far senso.

368 Cx. DI MARZO.

frammezzata questa da una corona, che sovrasta al Bambino sotto- stante : oltreché vi sono alle estremità quattro scudi, due per ciascuna, con le armi della casa regnante di Aragona e della città di Messina, svolgendosi poi al di sopra un ampio e stupendo fregio ad archetti e meandri ornatissimi, il quale decora la parte più acuta dell'arco. qui si limitò la decorazione più antica, dovendosi con la interiore contare ancor 1' altra più sporgente , che tutto esternamente adorna l'arco medesimo dall'imo al sommo. Questa, che fino all'altezza del- l'architrave prospetticamente riancheggia gli stipiti, si compone di due ordini di parecchie sottili colonne per ciascun lato, legate le inferiori da tralci di vite con molti putti ignudi, che vi si appendono, mentre al di sopra vengon fuori da archetti a trifoglio sei mezze figure mu- liebri, tre per ciascuna banda e forse ritratti, alle quali sovrasta il second' ordine di colonne , adorno pure in mezzo da tralci di vite e grappoli e con ricchi capitelli di acanto spinoso e di stile settentrio- nale. Su questi poscia è impostata l'esterna ornamentazione della parte più acuta dell'arco in cordoni concentricamente disposti, dei quali il maggiore e mediano ricorre con un bel fregio a meandro con foglie e grappoli d'uva, e l'estremo ed esterno luogo ad un'elegante cor- nice di archetti a rovescio.

Non dubito intanto che tutta cotale opera, non meno ammirabile e preziosa nel complesso che nelle singole parti , appartenga più o meno alla prima metà del trecento, siccome ad un tempo dimostrano ed il carattere innegabile delle sculture di essa e gli scudi con le regie armi d'Aragona, che vi sono apposti. Laonde forse non si diva- gherebbe dal vero pensando, che ne sia stato primo e precipuo scul- tore quel medesimo Goro o Gregorio di Gregorio da Siena, di cui si legge il nome con l'anno 1333 nel sarcofago dell'arcivescovo Guidotto de Tabiatis nel duomo stesso di Messina , dove altresì ne esiste sopra un altare una Madonna col Bambino , mezza figura in marmo , che prima facea parte dello stesso sarcofago. Notevole analogia di sviluppo e di carattere stilistico si avverte ivi intanto fra le sculture di esso e quelle della parte più antica della porta maggiore ; e ciò appunto rafforza l'opinione , che Goro non siasi recato a Messina soltanto per quel sarcofago, ma bensì per la sontuosa opera della porta medesima, e che pei lavori di essa, più che per altro, non sia indi più ritornato in terraferma. Perocché quivi , dopo 1' urna di San Gerbone , da lui fornita sulle migliori tracce dell'arte nella cattedrale di Massa in Ma- remma nel 1323, non si ha contezza di altre sue opere l. Vuoisi anzi

1 Cicognara, Storia della scultura.., in Italia. Prato, 182o, voi. Ili, cap. V, ig. 297.

PAItTE II. N'UOVI DOCUMENTI DI PIETRO DI BOXATE. 369

aggiungere che probabilmente in Messina non sia stato ideato se non da lui l'intero disegno della decorazione dell'anzidetta porta del duomo con la gran cuspide sovrastante nel mezzo e coi due grandiosi can- delabri sporgenti dai lati con dieci statue, e ch'egli, forse prevenuto da morte, non sia stato a tempo ad eseguirlo del tutto. Certo è che quando nel secolo seguente venne allogato a Pietro di Bonate il com- pimento di grand'opera, espressamente si volle ch'ei la compiesse 8ecundum design ti m .... risimi, recognitum et siiti exhibitum et obstensum in tela, cioè un disegno non suo, ma certo preesistente e fors' anco lasciato da Goro.

Comunque egli sia, i detti due grandi candelabri dei lati nel loro complesso ornamentale non sono ad attribuirsi, a mio avviso, che al- l'arte del trecento. Sorretto ciascuno da una colonna, col fusto a treccia di cordoni e con capitello a piccole foglie, poggiando sul dorso di un leone secondo Fuso prevalso dal medio evo, luogo esso al di sopra siccome a quattro tabernacoli, 1' uno siili' altro, con relativi cappelli in marino ornatissimi e dagli archetti a trifoglio, con la maggior pre- valenza di antico e nordico stile. Dentrovi in ambo i candelabri son otto statue, più o meno grandi, una per ogni tabernacolo, oltre due di angeli in piedi al di sopra . standone una al sommo di ciascuno dei candelabri medesimi e dandovi termine. Ma di cotali dieci statue non è contezza da chi e quando siano state scolpite, tranne che di (incile degli apostoli Pietro e Paolo, opera del carrarese Giambattista Mazolo insieme all'altra della Madonna sedente col Bambino in grembo, posta sull'architrave in mezzo al vano dell' arco, tutte e tre scolpite e collocate tra il 1524 e il .'»4. Sembra però evidente, a rilevarlo dallo stile e dal grado di sviluppo dell'arte, che al sorgere del cinquecento altresì appartengano le cerniate statue dei due angeli in cima , ed allo stesso secolo più o meno le due minori statuine giovanili , special- mente quella dell'angioletto con le braccia conserte al petto, ossieno in basso le due prime, che si levano sulle colonne. Le due seguenti più in alto, che son di due sante vergini, di cui una par S. Barbara, non è poi a dubitare clic siano di scalpello più antico : ma non è fa- cile precisare di quanto. Ed indi quelle dell'Annunziata e dell'Arcan- gelo, che stanno all'altezza del cominciar della cuspide e la fiancheg- giano, rivelansi sculture del secolo XV. e tali da potere fors' anco ascriversi a Pietro di Poliate, specialmente osservando clic ivi la poca genialità di espressione della figura della Madonna ha molto riscontro con la fiacchezza della statua di essa siili' altare della cappella de* Mastrantonio in San Francesco d'Assisi in Palermo. 11 che certo è da ascrivere ai tanti problemi, di cui non di leggieri trovasi il ban- dolo in fatto di cose d'arte. 24

370 G. DI MARZO. PARTE II.

L' opera di compimento di magnifica decorazione in marmo della porta maggiore del duomo messinese, qua! fu allogata a Pietro nel 1468 e terminata dal medesimo nel 1477 , io tengo intanto che principalmente sia stata la sontuosa cuspide marmorea sovrastante al grand'arco di quella. Sull'estrema cornice della parte più acuta di esso arco ei quindi cominciò dall' aggiungere una fascia, nella quale ricor- rono fra le loro ali spiegate tredici teste vaghissime di serafini, lad- dove legò inoltre ai candelabri laterali una bella cornice a dentelli ed a fogliettine di acanto, la quale luogo al gran triangolo della cuspide. Questa poi esternamente della detta cornice decorò di grandi fogliami con rosoni , otto per ciascun de' due lati , e la terminò in cima con un bel capitello corinzio, i>ostavi sopra la consueta mezza figura di Dio Padre benedicente e col libro in mano. Quivi l'aura del Rinascimento spira più viva che altrove in tutte le forme architetto- niche ornamentali, e non men certamente nel soggetto figurato al di dentro. Perocché tutto lo spazio interiore del detto triangolo ei de- corò nel mezzo con un gran tondo o medaglione marmoreo, vagamente fregiato di archetti a trifoglio in giro , dentrovi in altorilievo le due figure sedenti e bellissime della Vergine , che a mani giunte riceve sul capo la corona dal Redentore : oltreché indi egli colmò i tre spazi minori triangolari , che restan fuori del gran medaglione di centro, con nove mezze figure di angeli, tre per ogni spazio, in atto di suo- nare strumenti musicali, ovvero preganti. Si nota di essi che non han la bellezza e l'espressione delle due principali figure, e che per merito di tecnica ne stan molto più in basso, e che son posate come tipica- mente. Ma forse così volle lo stesso scultore, acciò le figure accessorie non distraessero dal soggetto primario. Del resto cotale insigne opera di cuspide senza fallo è da annoverarsi fra le più pregevoli sculture dell'arte lombarda in quel tempo; e ch'essa sia quella appunto onde si volle che Pietro di Bonate desse compimento alla gran decorazione marmorea, di cui è discorso, pare risulti evidente dall'atto stesso di convenzione coi Messinesi , benché non vi sia espressa con termini precisi, ma cennata generalmente con termini, che vi alludono. Vi si legge di fatti , eh' egli doveva farla cum omnibus Jiguris marmoreis, foglagiis , volugiis et alils quibuscunque necessarils ornamentis ; ed il prezzo fissatovi di onze 250 (L. 3187, 50), in rapporto al valore della moneta in quel tempo , ben corrisponde alle spese ed al merito del lavoro.

Finisco, aggiungendo qualche notizia del suddetto soglio reale in marmo, del quale , per ordine viceregio , lo stesso Pietro occupavasi nel 1472 nel duomo di Palermo. In esso duomo, finché non fu van-

PARTE II. NUOVI DOCUMENTI I>I PIETRO DI BOXATE. 371

dalicamente rifatto, poggiavano ai pilastri dinanzi al coro due sogli in marmo, un dalla destra dell'altare pel re o pel viceré, e l'altro dalla sinistra per l'arcivescovo. Del secondo risulta (checche ne sia stato dinanzi), che per pubblico atto del 7 di novembre del 1544, già da me pubblicato 1 , si obbligarono insieme a farlo di marmo i fra- telli Giacomo e Fazio Gagini di unita ai loro congiunti e scultori Fe- dele e Scipione di Carona, padre e figliuolo ; e fu certamente quello, ch'esisteva al tempo del Mongitore, che lo descrisse 2, ma che poi scomparve affatto, sostituito da uno posticcio in legno. Però non ri- sulta fin ora che il soglio regio fino al declinare del settecento abbia giammai subito alcuna essenziale rifazione dacché l'avea fornito Pietro di Bonate, onde, a mio avviso, è da credere, che , tranne in alcune modificazioni accessorie, fattevi dopo , vi corrisponda in sostanza la seguente descrizione , che pure ne lasciò il Mongitore 3 : « Il solio « reale dalla parte del Vangelo ha cinque scalini di marmo, alto dal « pavimento cinque palmi. Xe' suoi fianchi gli fan riparo due gran « tavole di marmo, lavorate a craticola. Lunga palmi 10, alta 4, la « spalliera è messa a mosaico con porfidi e diaspri. Sopra si vedono « due angioli volanti , che sostengono nel centro una corona gigliata. « La piegatura della spalliera , che si piega a forma di tosello , di « sopra forma un cielo tempestato di stelle e rose d' oro. Sopra detta « copertura si alza a dar finimento al solio un timpano con due cor- « nici, in mezzo alle quali in una fascia si legge a lettere ben grandi : « piuma sedes corona RECiis et regni CAPVT. Sopra si vedono tre « scudi tenuti ognun di essi da due angioletti. Quel di mezzo ha l'armi « della Sicilia , quel della destra 1' armi della chiesa palermitana , e « quel della sinistra l'armi della città di Palermo. In altro timpano « a triangolo era in uno scudo il nome di desìi a lettere gotiche, e « fu levato nel 1525 ... e collocato nella cappella della Madonna di « Libera Inferni , come pure fu tolto uno scudo, che era in cima del « timpano, coll'armi dell'imperatore Carlo V, ec. ». Questo scudo era stato di certo aggiunto nel tempo, in cui Carlo regnava in Sicilia, e, durante il suo regno, era stato ancor tolto lo scudo col nome di Gesù a lettere gotiche, cioè col sacro monogramma, che, ideato e diffuso da San Bernardino da Siena nella prima metà del quattrocento, era molto

1 Cfr. Di Marzo. I Gagini ec, voi. II, doc. CCII, pag. 252.

2 Nella sua opera inedita sn La Cattedrale di Palermo : ms. autografo nella Biblioteca Comunale Palermitana a' segni Q<i E 3, eap. XXV, pag. 159. Cfr, Di Marzo, I Gagini, ec, voi. I, cip. IX, pag. 512 e seg.

3 La Cattedrale di Palermo. Ms. cit.. pag. 157 e seg.

312 G. DI MARZO. PARTE II.

in uso nel 1472, e quindi fin da principio dovea far parte del soglio. Questo poscia in complesso, ripeto, durava fino al tempo del Moni- tore, clie lo descrisse, lasciandoci almeno un'idea dell' opera, che fu dovuta al lombardo scultore. Ma tutto poi ne andò a male quando l'antico duomo fu manomesso dal 1781 fino allo scorcio di quel se- colo. Eimosso allora l'antico soglio reale dal luogo o v'era dinanzi al coro, in ogni parte andò sconvolto o distrutto. Sol ne rimane l'iscri- zione in una lastra di marmo ed a grandi lettere in tre righi , ripor- tata dal Mongitore , la quale fu trasferita e murata nel portico me- ridionale, dove fin oggi si vede, in alto della parete di fronte, a destra entrando. I grandi caratteri di essa iscrizione per la lor forma chia- ramente rivelano l'opera del quattrocento. All'antico poi fu sostituito il soglio di nuova fattura, qual ora si vede in fondo al coro, a destra dell'altare. Si erge pur esso con cinque gradini in marmo bianco : ma ne mancano affatto le due sponde marmoree laterali, sostituite invece da sconce balaustre di legno. La spalliera, piana del tutto, è decorata di un moderno musaico ornamentale, che imita lo stile arabesco dei pavimenti delle chiese normanne; e simiglianti musaici han luogo al di sotto dai due lati esteriori del soglio. L'iscrizione in alto della spal- liera è finalmente riprodotta in grandi lettere di bronzo dorato sopra una nuova lastra di marmo. Così un architetto di genio vandalico, Ferdinando Fuga, sostituendo il moderno all'antico, distruggea l'opera di Pietro di Bonate.

Palermo, dicembre 1906.

Gioacchino Di Marzo.

XILOGRAFIE SICILIANE

IN UNA EDIZIONE MESSINESE DEL SECOLO XVI.

Mentre sul cadere del XV secolo le immagini xilografiche delle edizioni di Norimberga fanno già presentire l'abilità di cui gli inci- sori daranno prova più tardi sotto l' influenza di Alberto Durer, ed in Italia gli intagli del Decamerone (1492) e del Polifilo (1499) gareg- giano per la purezza del segno e la leggiadria dei soggetti colle mi- gliori incisioni su metallo, nelle più antiche stampe siciliane di quella fine di secolo, tuttavia esistenti, adorne di figure e di fregi 1 : le Con- stitutiones (1497) 2 e le Consuetudine* (1498)% entrambe raccolte da Pietro Appaio, l'incisione in legno appare ancora imperfetta e troppo vicina alle sue umili origini.

La differenza è perfino sensibile nelle pagine stesse del primo dei due libri, ove si confrontino lo stemma aragonese e le diverse capo- lettere colle piccole e ben composte vignette, che in due o tre tipi di

1 Nessuna xilografia del 400 si è fin qui ritrovata in Sicilia, che corrisponda alle moltissime, di carattere sacro, in vendita allora in Germania, e alle poche ita- liane illustrate dal Kristeller e da Lionello Venturi. Sembrerebbe pertanto accetta- bile, per quanto riguarda l'isola, l'an'ermazione, dimostrata non vera, del Liupmann, (Der italienischc Holzschnitt im XF Jahrhundert. Berlin, Grote, 1885), il quale am- mette soltanto verso la fine di quel secolo un notevole sviluppo delle immagini xilografiche nell'Italia settentrionale. Qualcuno di questi Iragili documenti deve tuttavia esistere nelle chiese, nelle biblioteche, negli archivi siciliani, in gran parte inesplorati, poiché non è da supporre, anche per la presenza degli stampatori te- deschi, stabiliti a Messina e a Palermo, che un'industria così lucrosa fosse del tutto sconosciuta.

2 Mongitore , Bibliotheca Sicilia, II, appendix, pag. 24 Mira, Bibliografia , I, 169-170. I due esemplari della Comunale di Palermo , i soli forse esistenti , non sono perfettamente eguali nel testo; v. La Mantia, Antiche consuetudini delle città di Sicilia. Palermo, 1900, in nota alla pagina LXXVI.

3 Mira, op. cit., I, 255. Esistono a Palermo due esemplari di quest'opu- scolo, uno alla Comunale, l'altro alla Nazionale, quest'ultimo in cattivo stato di conservazione. Un terzo esemplare fu acquistato a Messina dallo Hartwig, che lo vendette alla Biblioteca del Senato, (v. La Mantia, op. cit., pag. LXXX).

374 C. MATRANGA. PARTE II.

re sbarbati, (sempre uguali), con corona, globo e scettro ci danno, nel- l'intenzione del tipografo, la serie non breve di sovrani da Giacomo (1285) a Ferdinando il Cattolico (1470). Queste invero risentono del gusto e dell'eleganza precisa di un miniatore, già convertito ai nuovi metodi illustrativi , che tuttavia non osa abbandonare le dimensioni più adatte ai suoi inezzi; quelle invece dell' imperizia di un umile al- lievo di stamperia, die vuol provarsi in un'arte, ritenuta affine alla propria, e nella distribuzione degli ornati e delle leggende, che com- pletano gli emblemi, smarrisce anche quel senso di armonia decora- tiva comune alle molteplici manifestazioni della vita e dell' arte nel Kinascimento. È da supporre quindi che dallo stampatore Andrea di Bruges si adattassero al testo matrici importate, e che la parte illu- strativa più. debole costituisca una delle prime esercitazioni dei xilo- grafi siciliani.

Equilibrio maggiore e maggior sicurezza si trovano poco dopo in quell' enigmatica figura alata, racchiusa in una cornice rettangoìare collo stemma messinese, posta in fine delle già citate ConsnetudÌHe.s l, malgrado non abbia con esse alcun rapporto apparente. Pur respin- gendo l 'affermazione di Agostino Gallo *, (non esclusa dal Di Marzo) 3, che la ritiene opera di un Jafo de Grannore, sol perchè questo nome si legge a grandi lettere bianche su fondo nero al di sotto della sega, che fa da piedistallo all' uomo dalla lunga zimarra, cui credo debba riferirsi 4, si può tuttavia ammettere che siciliano dovette essere l'a- nonimo xilografo non solo per le particolarità dello stemma e della abbreviatura dialettale nella leggenda, notata dal Di Marzo r>, ma più ancora per la purezza quasi ingenua del tratto, immune da qualsiasi traccia di contorcimento nordico.

Da questi scarsi esempi ha origine in Sicilia lo sviluppo notevole delle illustrazioni xilografiche nella prima metà, del XVI secolo e pre- cisamente sino al 1522 , dopo il quale anno parecchi ne trascorrono pria che da Pietro Del Po, Filippo Juvara e Pietro Dell'Aquila l'in- cisione siciliana, trasformata, riceva nuovo e fecondo impulso.

11 singolare aspetto di coteste xilografìe è conseguenza di quella tenàcia conservatrice, abbastanza sensibile nei monumenti delle arti

1 La riproduce il Mira, Man. di Bibl., Palermo, II, 394.

2 A. Gallo, Elogio storico di Pietro Novelli. Palermo, 1830, pag. 62.

3 G. Di Marzo, La Pittura in Palermo nel Rinascimento. Palermo, 1899, pag. 326.

4 Nei ritratti xilografici : la firma dell'incisore, rarissima, non occupa mai uno spazio troppo in vista, di frequente è indicata da un misterioso monogramma.

5 Op. cit., pag. 326,

PARTK II. XILOGRAFIE SICILIANE. 375

principali, onde i caratteri del secolo tramontato permangono qua e malgrado le diverse aspirazioni e insieme a forme più. evolute. Così mentre una classica larghezza già piega e arrotonda le foglie e i rami, che egualmente inquadrano i monogrammi riuniti dei tipografi Antonio Maida e Giovanni Pasta nei frontespizi delle Pragmatico e dei Capitala (1511) l , le due opere del mazarese Giovanni Giacomo Adria (15151516) 2 e la traduzione di Silvestro Sigona (1521) 3 sono adorne di figure e di fregi, che, pur non ripetendo la loro origine da intagli più antichi , conservano certi particolari stilistici evidentis- simi in altre xilografie del XV secolo tedesche e toscane 4, inserite nelle stesse stampe, quasi a dimostrare la persistenza dei modelli an- cora in uso.

Da tali soluzioni di continuità, che turbano 1' unità illustrativa dei libri ricordati , F arte xilografica apparirebbe in Sicilia soggetta sempre alla tradizione di determinate influenze, se a rivendicarne i caratteri originali, distruggendo ogni ipotesi pessimista, non si incon- trasse in una stampa messinese del 1522 un gruppo omogeneo di grandi e belle xilografìe, fin qui poco accessibile agli studiosi, e non mai de- scritto con intendimenti critici. Alludo alle incisioni del rarissimo trat- tato : Sequitur la quarta Opera de arithmetica et Geometria facta et or- dinata per Johanne de Ortega spagnolo pale ut ino 5, (di cui una copia trovasi da poco tempo nel Museo di Palermo), che x>ei loro rapporti

1 Evola , Storia tipografico-letteraria del secolo XVI in Sicilia. Palermo , 1878, pag. 191 e 298, u. 52, 225. Può darsi che anche qui si tratti di matrici impor- tate. I fregi infatti rivelano un unico intaglio più grande e non eseguito per le dimensioni delle pagine, cui invece un incisore locale li avrebbe certamente adattati.

2 G. Salvo Cozzo, Le edizioni siciliane del secolo XVI. Palermo, 1885, pag. 6 e seg.

3 G. Salvo Cozzo, op. cit., pag. 13.

4 Uno studio analitico come quello fatto dal Bartsch sulle xilografie del XV secolo, non incise pei libri, gioverebbe non poco alla ricerca degli originali. Cu- riose rassomiglianze esistono p. e. tra il Combattimento di cavalieri al verso della terza carta nell'opuscolo del Sigona ed una xilografia tedesca del 1476, riprodotta dal Eosenthal al n. 195 del suo Catalogo, (Incunabula xilografica et chaleographica. Miinchen), utile anche per riconoscere le vignette tedesche delle Laudi dell'Adria, pubblicate dal Maida nel 1529, quando cioè la decadenza dell'incisione in legno cominciava a manifesfarsi.

D Antonio (Biblioteca Htspanica 1-750), trascrive il titolo di un trattato di aritmetica dell'Ortega ripubblicato a Granata nel 1563 e a Siviglia nel 1573, che comprende probabilmente le tre prime parti della Quarta opera. Questa è iu modo imperfetto riportata in molte bibliografìe (Bruuet, Graesso , Mira, Evola etc.) e solo con esattezza dal Dott. Gaetano Caracciolo, che, a pag. 15 delle citate Edizioni del Salvo esamina la copia esistente nell'Università di Messina,

376 e. matranCtA. parte ii.

di indiscutibile identità ci inducono a ritenere come certa l'esistenza a Messina in quell'epoca di un artista xilografo dalla tecnica personale e vigorosa , inspirata sempre ad un verismo sincero e ricca di nuove risorse.

Eeputo quindi non inutile di descrivere, per la prima volta, le importanti xilografìe con speciale riguardo alle figurazioni.

I (carta 18, verso)

Carlo V in trono. Siede quasi nel mezzo , ha sul capo la co- rona imperiale , sulla mozzetta di ermellino il toson d' oro , in una mano lo scettro, e volge a destra il viso, completamente raso, per ri- cevere un librOj che un giovane dalla barba a punta e vestito di una lunga tunica , aperta ai fianchi , gli offre in ginocchio. Ai lati della sedia a baldacchino con due leoni alati a guisa di bracciuoli , sulla quale leggesi REX CAliOLVS : IMP. stanno due gruppi di cortigiani, (ciascuno di quattro personaggi), nei più svariati costumi : spaglinoli tedeschi e orientali , che commentano il gesto del donatore. Il fondo è occupato da una tenda a minute pieghe. Dim. mm. 213 X 172.

L' incisione, che rende assai bene il movimento delle figure, non fu fatta pel trattato dell'Ortega, come il soggetto potrebbe far credere; si incontra invece una prima volta nei Capitala, pubblicati dagli Spira nel 1521 *, ed è poi riprodotta in quelli del 1526 2. Nessuna somi- glianza vi è infatti tra il personaggio inginocchiato e il ritratto del- l'Ortega, di cui parleremo in seguito.

II (carta 29, recto)

Santa Caterina, (fig. 57) In piedi nel mezzo, vista di fronte, Xiiega un po' verso sinistra la testa coronata e adorna di lunghi ca- pelli, chinando i grandi occhi a mandorla sopra un libro aperto, che tiene fermo al fianco coll'indice e il medio della destra distese e le altre dita ripiegate. La mano, che resta libera, poggia con eleganza non priva di energia siili' elsa a croce di un pesante e largo spadone,

1 Salvo, op. cit.f pag. 12, n. 8.

2 Salvo, op. cit.t pag. 19, n. 12. In questa comune stampa del XVI secolo si nota anche un legno tirato in più esemplari e rappresentante un re in trono ora giovine, ora vecchio, che riceve i Capitala tra due gruppi sempre eguali di digni- tari. Le curiose immagini sono ottenute con due matrici mobili incastrate, secondo il bisogno, nell'intaglio principale. La xilografia di scarso valore artistico rivela tuttavia lo stile dell'autore del Carlo V, ed è forse l'ultima da lui incisa.

PARTE II.

XILOGRAFIE SICILIANE.

377

presso il quale trovasi la ruota dentata e infranta del martirio. Un lungo e classico panneggio, fermato sotto il collo, avvolge l'esile figura, lasciando scoperto il busto verginale, chiuso come in una guaina da un corpetto a larghe striscie di pelliccia, e nascondendo in parte il vecchio steso per terra e poggiato sul destro braccio , di cui si intra- vedono solo il viso e la grande barba da fiume pagano. In fondo al di di un vasto terreno ondulato e fertile, da una parte roccioso, si stende

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Fi-. 57.

una città marittima col porto fortificato, le torri e le cupole, (che nulla hanno di gotico), e gli alti campanili, qualcuno dei quali supera il li- mite netto dell'orizzonte. Dim. mm. 235 X 183.

La xilografia, che non si trova in nessun'altra edizione del 500, sta qui a rappresentare la protettrice delle scienze e delle lettere. È la più bella della serie, e la maniera dell'oscuro maestro vi si rivela per intero nella eleganza dei contorni sintetica e misurata.

3?8 C. MatraKga.

Ili (carta 36, verso)

8. Sebastiano. In piedi, legato a un albero , che si biforca in alto, volge il viso dai lineamenti nobilissimi verso destra con espres- sione apollinea di calma e di serenità , ed ha il corpo ignudo e vigo- roso già ferito da più treccie. Il terreno è disseminato di pianticelle a lunghe foglie, come nella Santa Caterina. In fondo a sinistra un fos- sato rettilineo e un castello dalle mura merlate. Dim. mm. 161X099. È un'immagine di devozione, inserita, nel libro.

IV (carta 56, verso)

Un astronomo l. È seduto per terra sulla vetta di un monte con una gamba distesa e l'altra ripiegata, ha il capo protetto da un tur- bante, il corpo da una lunga zimarra stretta alla cintola, e, levando in alto la mano sinistra, misura le distanze tra gli astri del cielo con un compasso, le cui punte toccano due stelle. Presso a lui tra le ine- guaglianze della roccia si vedono una sfera celeste e alcuni libri. Dim. min. 092X070. Curiosa xilografia riprodotta probabilmente da qualche opuscolo popolare, di scienze occulte.

V (carta 64, verso)

S. Girolamo. Il Santo dalla folta barba, seminudo, è inginoc- chiato a sinistra presso un'alta roccia, tiene nella destra una pietra e nell' altra mano il crocifisso, sul quale sono diretti i suoi sguardi. Dietro a lui appare la testa del leone, per terra dalla parte opposta è posato il cappello cardinalizio. Dim. mm. 159 X 099. Xilografia in- feriore di merito alle altre e sommariamente espressa. È anche questa un' immagine sacra, che non ha alcun rapporto col testo (v. n. III).

VI (carta 65, recto)

Ritratto di Giovanni de Ortega. (flg. 58) L'autore dell'opera è seduto sulla cattedra, visto di fronte, e il suo volto raso, di forma un po' allungata, dalla fronte breve coronata di alloro, non ha alcun ca- rattere che ricordi la nsonomia giovanile del personaggio , descritto al n. I. Veste una tunica larga con mantellina a squame, ed accenna

1 Non Euclide, come crede il Caracciolo.

PARTE II.

XILOGRAFIE SICILIANE.

379

coll'indice della mano sinistra ad una figura geometrica, racchiusa in una superfìcie rettangolare. Più in basso ai due lati, nei banchi a piano

À POI cB in tutte Ter egule & capitali padri teho in tfgnato fi mete in che modo & manera fefara qua! teuoglia re gufa mcr<

Fig, 58.

inclinato stanno quattro discepoli dai capelli lunghi e lisci in attitu- dini diverse di profonda attenzione. La cattedra, sulla cui predella si

380

C. MATRANGA.

legge il nome : Johanne De Orteca, è adorna di due sfingi, che intrec- ciano le code. Accanto al maestro si notano una squadra ed alcuni libri, uno dei quali, sopra un leggìo a destra, con le pagine coperte di grossi numeri. Dim. mm. 122 X 107.

Questa xilografia ha valore di documento, e supera nello studio dei particolari, che ne rendono non dubbia l'autenticità, quella, cui dobbiamo il ritratto del vecchio Adria , due volte ripetuta nelle ci- tate stampe palermitane, e di recente riprodotta da R. Stanley Faber 1.

A queste belle figurazioni si alternano nel libro stemmi ed em-

Fig. 59.

blemi, resi con ampiezza decorativa; (primeggia la splendida arma del- l'Impero, (fig. 59), espressa con energia di segno, non facile ad imitare), svelte candeliere, fregi a foglie, a meandri, ad animali chimerici, che inquadrano le pagine, ed infine eleganti motivi stilizzati, come quello del legno longitudinale, in cui due putti sopra un alto albero, popo- lato di uccelli, raccolgono fiori per due giovani donne, che stanno sul prato ad attendere.

Anche questa parte ornamentale ricca e varia e , dirò di più, per- fino la raccolta insignificante di esempi, che completano i problemi, riu-

1 Printing in Sicily (1478-1554). A papcr read before the Bibliorjraphieal Society. Fehruary 19, 1900. London 1901.

PARTE li. XILOGRAFIE SICILIANE. 381

niti in fondo al volume, sono condotte nello stile delle figure a con- torni rapidi ina precisi, ombreggiati sempre da tagli trasversali, che cambiano di pendenza e di direzione a seconda dei valori diversi del chiaroscuro e degli effetti prospettici : e contribuiscono a ben deter- minare la fisonomia dell'ignoto e unico illustratore.

Ma chi fu mai il modesto artefice, indubbiamente formatosi alla scuola del grande Antonello, la cui opera è tutta, chiusa come in un albo, nel raro in-folio, uscito dai torchi di Giorgio e Pietruccio Spira ''. L'indagine non è facile , può giovarsi del sussidio di prove certe, ma, pur limitandola al solo esame dei rapporti stilistici, è forza rico- noscere in lui le qualità e i difetti dell' anonimo messinese della Di- sputa di 8. Tommaso, (Museo di Palermo) , e dei Magi, (Chiesa paler- mitana del Cancelliere) , che qui ripete con tecnica diversa ma non meno ferma il carattere e i lineamenti fisonomici dei suoi personaggi dalle ricche vesti, disposti con egual simmetria, facendo al solito gran- deggiare nei piani più remoti, contro le leggi del disegno e della pro- spettiva , le figure principali a scapito delle secondarie , piccole ed umili nella brevità degli spazi, loro concessi.

Da queste intime analogie nuova conferma riceve una giusta at- tribuzione del Cavalcasene , accolta dal Brnnelli , il quale non solo scorge nelle tavole suddette la mano di Antonio De Sabba, ma gli assegna con ragione il *S'. Sebastiano di Berlino, (affine all' immagine incisa) ; ed infatti dall' intaglio in legno ornamentale , che il pittore apprese dal padre Giovanni, ed esercitò da solo con perizia l, all'in- taglio xilografico è breve il passo , e giustifica inoltre la soverchia preziosità decorativa, a torto censurata dal suo severo biografo ?, che si ritrova non meno leggiadra e varia nella serie descritta , riflesso discreto, ma ancor vibrante della pura giovinezza quattrocentesca.

1 G. Di Marzo, / Gagini. Palermo, 1883, I, 171, 678 a 680; II, Doc. ai nu- meri : CCXCVI-CCXCIX.CCC -CCCI.

2 E. Brunelli, Antonello De Saliba. v. V Arte, anno VII ; 1904), pag. 271 e seg.

Palermo.

Cesare Matranga.

LO STENDARDO DELLA SANTA LEGA DEL 1571

Lo Stendardo della Santa Lega, benedetto da Pio V e consegnato solennemente nel tempio di Santa Chiara in Xapoli a Don Giovanni d'Austria dal Cardinal Granvela il 14 agosto 1571; spiegato sublime su la galea Beale il 7 d'ottobre, al momento d'ingaggiare la grande battaglia, e salutato quattr' ore appresso dall'immenso grido di vittoria dei Cristiani; quello Stendardo , dopo di avere invano cercato, nel suc- cessivo anno, nuovi raggi di gloria nei mari del Levante , veniva tri- stamente abbassato nel porto di Xapoli ai venti d' aprile del 1573, quando improvvisa e inattesa vi giungea la nuova del disfacimento della Lega, per la conclusa pace di Venezia col Turco.

Che ne avvenne dopo ? E che memoria ci resta di glorioso ci- melio 'ì E, prima d'ogni altro, come e quale era esso ?

Cercherò, per quanto è possibile, di appagare il giusto desiderio di queste domande , interrogando , tra l' ingente numero di scrittori coevi al memorando avvenimento della Lega, quei che veramente sono al caso di farci conoscere quanto occorre, o perchè sotto a quella In- segna pugnarono, o perchè con amore e diligenza ne raccolsero e di- vulgarono i fasti '.

Ferrante Caracciolo , un prode che con la spada e con la penna illustrò Lepanto e le altre imprese di Don Clio vanni contro i Turchi, scrive che « il Papa gli mandò lo Stendardo con 1' armi de Collegati, sopra le quali era un Crocifìsso 2 ». Bartolomeo Sereno, altro valoroso che alla fede e all'onore della propria nazione consacrò tutta la vita

1 Nella Biblioteca dell'Escuriale, tra le varie scritture mss. del sec. XVI re- lative alla vittoria navale del 7 ottobre 1571 , ne trovo fuggevolmente ceunata una su lo Stendardo di Lepanto, ebe ignoro qual valore ed estensione abbia. Cfr. Gli Archivi e le Biblioteche di Spagna in rapporto alla storia d'Italia in generale e di Sicilia in particolare; Relazione di Isidoro Carini ecc. (Palermo, Tipografìa dello Statuto, 1884), Parte prima, pag. 431.

2 / Commentarii delle guerre fatte co' Turchi da D. Giovanni d'Austria, dopo che renne in Italia , Scritti da Ferrante Caracciolo Conte di Biccari (In Fiorenza, M.D.LXXXI. Appresso Giorgio Marescottij, pag. 11.

PARTE II. LO STENDARDO DELLA SANTA LEGA DEL 1571. 383

dando il braccio ed il senno, notava : « Fn nella galea Reale di D. Gio- vanni inarborato il grande Stendardo della Sacra Lega, il quale dal Papa era stato mandatogli con gran circostanze di devozione , a fine che non prima che il giorno della battaglia si dovesse spiegare; nel quale Stendardo una gran figura di nostro Signore Crocifisso era di- pinta i ». Paolo Paruta e Giovan Pietro Contarmi, in forma pressoché identica fanno solo conoscere , che lo Stendardo della Lega inalzato su la Beale portava le armi dei tre Potentati confederati 2; ma Uberto Foglietta con più precisione: « Austrius , omnibus rebus ad imminens certamen instructis, Yexillum, in quo sub imagi ne unanimi Xuminis in- signii foederatorum Principimi expressa erant, à Pontefice transmissum -extollit 3 ». Meglio specificando , Tomaso Costo menziona « lo Sten- dardo della Lega mandato dal Pontefice , su il quale era dipinto un Crocifisso con l'arme de' Collegati a' pie, nel mezzo quella del Papa, a man destra quella del Ee , et a sinistra quella de' Venetiani 4 ». E qualche altra particolarità aggiunge lo storico della vita di Pio V, Giovann' Antonio Gabuzio : « Quo quidem in Vexillo Jesu Christi affixi cruci imago mira auro et argento adumbrata erat : sub qua locata in medio Ponti ficis maximi, a dextera Philippi Regis, a laeva ftenatus Ve- neti, atqae ex iis quibusdam annexa catenulis ipsius Johannis pendebant insignia 5 ». Meritano , in fine , che si riportino le parole di Cesare Campana per un ultimo particolare che gli altri non hanno : « Lo Sten-

1 Commentari della Guerra di Cipro e della Lega dei Principi Cristiani contro il Turco, di Bartolomeo Sereno; ora per la prima rotta pubblicati da ms. autografo con note e documenti per cura de' Monaci della Badia Cassincse (Pei Tipi di Monte Cas- sino, MDCCCXLV), lib. Ili, pag. 191.

2 Storia della Guerra di Cipro, libri tre di Paolo Parata (Siena, dalla Tipografia di Pandolfo Rossi all'insegna della Lupa, MDCCCXXVII) , lib. II , pag. 279; Historia delle cose successe dal principio della guerra mosca da Selim Ottomano a' Ve- netiani , fino al della gran Giornata Vittoriosa contra Turchi. Descritta non meno particolare che fedelmente da M. Gio. Pietro Contarini, Venetiano (In Venetia, Ap- presso Francesco Rampazetto, MDLXXII), f. 48.

3 liberti Folietae De sacro foedere in Selimnm libri quatuor. Eiusdem varine expe- ditiones in Africani. Eiusdem obsidio Melitac (Gennae MDLXXV), lib. Ili, pag. 168.

4 Del Compendio dell' Istoria del Regno di Napoli, di Tomaso Costo Napolitano. Parte terza. Aggiuntovi in questa ultima editione il Quarto libro che supplisce per tutto l'anno MDCX ecc. (In Venetia MDCXIII, Appresso i Giunti), lib. II, pag. 38.

5 Jo. Ant. Gabutius. De vita et rebus gestis Pii F(Romae, 1605), lib. V, cap. I, pag. 127. Girolamo Catena, nella Vita del gloriosissimo Papa Pio Quinto (In Roma, M.D.LXXXVII) descrive a pag. 170 lo Stendardo di damasco rosso col Crocifisso e i SS. Pietro e Paolo consegnato a M. A. Colonna come Ammiraglio della flotta pontificia, ma non dice verbo dello Stendardo della Lega.

384 S. SALOMONE-MARINO. PARTK II.

dardo della Lega... era di color turchino, con Otri sto in Croce dipinto nel mezzo, et a' piedi Parme de' tre Collegati ne' luoghi convenienti i ».

Quanto poi a quel che riguarda la qualità della stoffa e la forma dello Stendardo, nessuno ha pur una i>arola; salvo per la stoffa il do- cumento siciliano che più giù si reca, il quale, descrivendolo con esat- tezza dice, che era di « damasco azzurro ».

Abbiamo dunque : Stendardo grande di damasco azzurro, con al centro grande figura del Crocifìsso dipinta, sotto la quale son disposte l'arme dei Confederati : quella del Papa in mezzo, a destra di essa quella del Re Filippo II, a sinistra quella della Serenissima, e sotto a tutte, pendente da certe catenelle, aggiunta quella di Don Giovanni. I fregi d'oro e d'argento , si intende che eran sul Crocifìsso , presu- mibilmente nel nimbo del capo, e fors' anco su la fascia avvolgente i lombi.

Consultando poi un documento del tempo di natura diversa, cioè la medaglia commemorativa della consegna dello Stendardo in Santa Chiara 2, rileviamo : Che esso è mediocremente grande, se si tien conto delle proporzioni fra esso e le persone rappresentate in funzione; che, apparendovi il drappo in voluta, attesa la rigidità che questo pre- senta, dimostra esser fatto di un tessuto molto spesso (il che è na- turale); e dimostra in fine, che non è a punta, ne molto lungo, se il Crocifìsso che vi si scorge delineato sta al centro, come ragionevol- mente deve essere e come lo storico Campana scrive che era.

Or, tenuto presente tutto questo che precede , io credo di aver trovato e di poter indicare la figura e forma precisa dello Stendardo della Lega in un disegno di alquanto rozza esecuzione che trovo im- presso in due rarissime stampe della fine del 1571, cioè subito dopo della vittoria di Lepanto. Sono esse le seguenti :

1. Raccolto Di Tvtto il Svccesso segvito da che si Fermo la Santa Lega de Christiana per j\r. $. Pio Quinto sino a questo giorno. Nel quale si contiene ogni ^articolar auuiso della Battaglia et Botta Nauale data all'Armata Turchesca per il Sereniss. Don Giouanni d'Austria Generale

1 Delle HÌ8torie del mondo, Descritte dal si g. Cesure Campana, Gentilh uomo aqui- lano, volume primo, che contiene libri dieci: Ne' quali diffusamente si narrano le cose avvenute dall'anno 1570 fino al 1580. Novamente stampati ecc. (In Pavia. Appresso Andrea Viani MDCII), lib. I, pag. 34.

2 Ne conserva un esemplare il Museo Nazionale di Napoli ; è riprodotta da Luigi Conforti, I Napoletani a Lepanto (Napoli, Casa Ed. artistico-letteraria, 1886), tav., e da Sir William Stirling-Maxwell, Don Iohn of Austria ecc. (London; Long- raans, Green, and. C, .MDCCCLXXXIII), voi. I, chap. XIV, pag. 359.

PART.R II.

LO STENDARDO DELLA SANTA LEGA DEL 1571.

383

dell' Armata di detta Manta Lega. Per annitrì hauuti da sua Serenità e da altri Signori ritrouat'm presenti in detto conflitto. In <S°, di pp. :\'l non nuiner. È uno dei più importanti libretti del tempo, ed è eviden- temente stampato dagli Eredi del Biado di Roma. 11 disegno dello Stendardo vi è inserito nel testo, alla pag. 8.

2. Ritratto D'Yna Lettera scritta all'Ili.™ Et Ecc.™ K.or Amba- sciator Cesareo Dalla Armata. Donde si hanno molti nuoui , belli , et particolari ragliagli circa la Vittoria hauuta contro Turchi. In Roma Appresso (/li heredi di M. Antonio Biado Stampatori ('omerali. In 8°, di pp. 4 non mini. Non meno importante libretto anche questo, nel (piale il disegno dello Stendardo è impresso nel frontispizio, dopo il titolo e prima del luogo di stampa '.

^Ne metto ai lettori sott'oeeliio la riproduzione in zincotlpia : e ci si accorge subito, dai particolari del Crocifisso, dalle arme de' Colle- gati e disposizion loro, dai fregi del bordo e perfino dai nove fori del

Fi<

margine laterale per i quali il drappo doveva legarsi all'asta, che noi ci troviamo innanzi ad una precisa rappresentazione, più ne meno, dello Stendardo della Santa Erga, il (piale si vede che lo stampatore romano volle appunto conservare a ricordo, nei suoi libretti d'occasione.

1 La mingine del Crocifìsso, soprastante ai tre blasoni dei Collegati, trovasi ancora nel frontispizio dell'altro opuscolo: (ìratione de l'Ili: Signor D: Gasparro Turai tu <d Sercniss. Signor 1) : Ciardi/ d'Austria (In Napoli , Appresso Giuseppe

Caccbij 1572); ma qui non si trovano i contorni dello Stendardo.

386 S. SALOMONE -MARINO.

Apparisce lo Stendardo composto nettamente da otto teli uniti per lungo, dei quali i due estremi giungono a poco più che la metà degli altri. Il Crocifisso occupa il centro della parte più larga, ed ai suoi piedi stanno gli stemmi dei Collegati e del Generalissimo, disposti e legati da catenella, precisamente così come ce li han fatti conoscere nella sommaria descrizione gli scrittori coevi. Notisi poi la speciale forma sua,- che non è la quadra ne quella a punta, ma una forma che dell'una e dell'altra partecipa, e che potè forse esser così creata appositamente acciocché con nessun'altro Stendardo potesse nella mi- schia venir confuso quello del Generalissimo. E non vale dire che bastava il Crocifisso per distinguerlo; perchè , non tenendo conto di Stendardi minori che lo avevano, noto che l'istesso Crocifisso in grandi proporzioni era stato anche dipinto su lo Stendardo ammiraglio delle galee pontificie , Stendardo che ondeggiò pur esso al vento il sette d'ottobre nel mare di Lepanto l.

Debbo qui far rilevare che in varj dipinti e disegni incisi, che ho potuti vedere , rappresentanti la grande battaglia , lo Stendardo della Lega che sventola su la Reale ha bensì il Crocifisso, ma quanto alla forma non differisce da tutti gli altri delle galee cristiane. Ma fo presente, che non sono, essi, riproduzioni storiche nello stretto senso come oggi le intendiamo, ed è troppa presunzione il volervi trovare l'esattezza e precisione dei minimi particolari ; perchè, da un canto, l'arte ha le sue esigenze e bizzarrie, e, dall'altro, in piccole rappre- sentazioni grafiche non possono aversi segnate che le cose di maggior rilievo 2.

Trovato così quale era e come fatto lo Stendardo della Santa Lega, ricerchiamo, se ci riesce, come e dove sia andato a finire.

Tra i preziosi ricordi di Don Giovarmi e della vittoria di Lepanto che restano all' Escuriale o in altri luoghi di Spagna , lo Stendardo della Lega non c'è 3. Una inesatta tradizione , accettata anche da di-

1 Cfr. Catena, <>p. e loc. cit,; Marcantonio Colonna alla battaglia di Lepanto, per il P. Alberto Guglielmotti ecc. (Firenze, Felice Le Monnier, 1862), lib. I, cap. II, pag. 13; Lettere di Onorato Caetani Capitan Generale delle Fanterie Pon- tificie nella battaglia di Lepanto, pubblicate da G. B. Carinci (2a ediz. Roma, For- zani e C. Tipografi del Senato, 1893), pag. 77.

2 Valga per tutti 1' esempio del grande affresco del Gerardi nel Palazzo Co- lonna iu Roma, ove lo Stendardo pontificio dato a Marc' Antonio, noto a tutt'i Romani massime dopo il Trionfo del 4 dicembre 1571, fu dall'artista dipinto in giallo !

3 Cfr. Roseli, Historia del Combat naval de Lepanto ecc. (Madrid, Impronta de la Real Academia de la Historia. 1853), cap. IV, pag. 127, nota 48, e Adiciones, pag. 255. '

I>ARTE II. LO STENDARDO DELLA SAXTA LEGA DEL 1571. 38?

ligenti moderni cultori di storia, credere tino a ieri eh' esso fosse donato da Don Giovanni stesso per voto alla Cattedrale di Gaeta, ove, ritagliato poi e messo in cornice, si venera pur oggi su l'altare mag- giore '. Ma un recente accuratissimo scritto del Prof. P. Fedele ha sfatato la leggenda ed ha luminosamente ed inappellabilmente pro- vato, che quel quadro è bensì un cimelio prezioso della battaglia di Lepanto, che fu bensì Stendardo benedetto pur da Pio V , ma lo Sten- dardo ammiraglio della flotta pontificia, consegnato a M. A. Colonna il 11 giugno 1570, e da questi donato per voto alla Cattedrale di Gaeta, dopo disfatta la Lega 2.

E allora, lo Stendardo della Lega, che è ancor più prezioso, come e dove è finito ! È certo, che Don Giovanni non lo spiegò più su la propria Beale dopo il 20 aprile 1573, lo avrebbe potuto: che ne fece dunque ?

Un documento siciliano, che non è coevo, ma non molto lontano agli avvenimenti, ci reca in proposito delle notizie, che vai la pena di far conoscere per intero e sottoporre a disamina.

Nella Chiesa del Monastero di San Girolamo in Marsala , su l'al- tare della seconda cappella a sinistra di chi entra, si venera da antico tempo l'immagine dipinta di un Crocifisso, che costantemente in pas- sato e fin ad oggi si è chiamato e chiama : il Crocifisso della Batta- glia, ed è con gran divozione festeggiato annualmente nel giorno 7 d' ottobre.

Il quadro, in tela, è alto metri 3,20, largo metri 2,40. Al centro vi ha incollata una Croce, alta (pianto il quadro, da cui pende il Corpo di Cristo ; Croce e Corpo dipinti a guazzo con colori giallo e nero ormai sbiaditi , sopra un tessuto grossolano , evidentemente diverso

1 Conforti, op. cit. , cap. VI, pag. 32 e segg.; Jurien de la Gravière, La Guerre de Chypre et la Jìataille de Lépante ecc. (Paris, E. Plon, Nourrit et C, 1888), tome II, partie III, ebap. I, pag. 150; Pompeo Molmenti, Sebastiano Venterò e la Battaglia di Lepanto (Firenze, G. Barbèra ed., 1899), cap. IV, pag. SG.

2 P. Fedele, Lo Stendardo di Marco Antonio Colonna a Lepanto (Perugia, Unione Tipografico Cooperativa . M.DCCCC.III). Il Prof. Basilio Magni (Storia dell' arte italiana, Roma, 1902, voi. III, pag. 560) avea già corretto l'errore della tradizione dei Gaetini.

Rilevo qui in nota l'equivoco, in cui è incorso il D.r Cornili. Carlo Dell'Acqua (Di San rio V Papa ecc., Milano, Tip. Ed. Cogliati, 1901. cap. IV, pag. 83) scri- vendo die lo Stendardo della Lega è in Cagliari presso l'Arciconfraternita del Rosario. Questo di Cagliari è uno Stendardo di Compagnia spagnola, come si di- mostra per la forma e pei colori, e appartenne probabilmente alla valorosa Com- pagnia di Arcbibugieri Sardi clic sotto il comando di Lope de Figueroa pugnò su la Beale di Don Giovanni. Cfr. in proposito G. L. Mulas , I Sardì a Lepanto (Ca- gliari; Tip. Ed. dell' «Avvenire di Sardegna», 1887).

S88

S. SALOMONE MARINO.

lWIiTE li.

dalla tela del quadro l. Il corpo ed anche la testa del ('risto sono scorrettamente disegnati. Nel fondo della tela (oltre a Maria e San Giovanni che stanno in prima linea) è disegnato il golfo con le mon- tuose rive e il mare di Lepanto, in cui sono le due riotte avversarie nel momento che vengono all'attacco 2.

Fiar. 61.

1 È pressoché impossibile, per l'impiastricciatura dei colori e della colla, che si conosca se il tessuto sia seta o tela; bisognerebbe staccarne qualche filo o sot- toporlo ad esame, ove ciò fosse consentito.

2 Non essendo stato possibile ottenere la fotografia del quadro originale, pre- sento quella d'una stampa del secolo scorso, che la riproduce abbastanza esatta- mente nell'insieme, ma dando corretto il disegno del corpo di Cristo,

Parte ir. lo stendardo della santa lega del 1571. .'J89

A illustrazione del quadro e del nome, in una tabelletta appesa al muro della cappella stessa, leggesi (pianto appresso :

« h' e I a z i o ne Del Crocifisso (iella Battaglia lasciato in questo Monostero di S. Giro- lamo dai Serenissimo Principe />. Giovanni d'Austria.

« Avendo Se-lini Imperatore de Turchi violato colla solita infe- deltà la pace che aveva giurato A Veneziani , portò sotto il comando di Mustafà l'anni in Cipro, dominio di questa Republica , e coll'espu- gnazione di Nieolosia ' , una delle principali piazze dell'Isola, le passò all'assedio di Faniagosta, dalla cui caduta dipendea l'acquisto totale di quel fioritissimo regno. Ad una così amara nuova stordirono i Ve- neziani colti alla sprovista dalla proditoria doppiezza di quel Barbaro, e niente di meno s'addolorò la Santità di Pio V, Pontefice allora re- gnante , che invigilando con attenzione pastorale al bene comune del Cristianesimo per impedire i progressi all' ostinato nemico del nome Cristiano, s' ingengnò a tutto sforzo di sostenere la fortuna cadente di quella Serenissima Bepubliea, e non trovando negl' altri Principi ne disposizione ne forze da collegarsi, si espresse all'Invittissimo .Mo- narca delle Spagne Filippo Secondo di sempre gloriosa memoria, ck'aco- piando al titolo un genio veramente catolico, non ricusò di concorrere nel gusto del Pastore Vniversale a difesa della Cristianità allora per le vittorie ottomane pericolante; e così a 25. di Maggio 1571. si con- chiuse in Roma nel sacro Concistoro una lega santa tra il Pontefice, il Re Catolico e la Signoria Veneta, in virtù della (piale si pose su- bito in mare da Collegate una poderosissima Armata, al cui comando generalizio fu destinato il serenissimo Principe I). Giovanni d'Austria figliolo del già Imperatore Carlo Quinto e fratello del Ile Catolico, che subito sciolse da Barcellona eoi l'armata di Spagna e di passagio in Napoli prese con sollenne cerimonia nel Monastero di S. Chiara dal Cardinal Granvela, Viceré di (pici Pegno e Legato di sua Beati- tudine a quest* effetto , lo Stendardo della Santa Legha. Era di da- masco azzurro , in cui stavano dipinti a riccamo 2 1' armi del Papa, a destra quelle del Catolico, e all'altro lato quelle della Republic;), dalle «piali pendevano colla bizzarria di un attacco artificioso altresì quelle del Generalissimo I). Giovanni :! : che fornita la funzioni;, si

1 Sic. Il trascrittore avrà letto male il Nicossia dell' antica scrittura, o è un suo trascorso di penna.

2 Dipinti a riccamo , espressione non felice , ma che ci conoscere che gli stemmi erau fatti a ricamo l'orse sopra un tracciato dipinto.

3 È omessa la cosa più importante, la lìgula del Crocilisso ; però se ne tien conto più innanzi.

390 S. SALOMONE-MARINO.

fece subito alla vela per Messina , nel cui porto si dovea unire il corpo lutto dell'armata; che però , avendovi precorso la Pontifìcia e la Ve- neta, uscirono ad incontrare colle maggiori dimostrazioni di giubilo e collo sparo di tutto il cannone il lor supremo Comandante. Ivi, ras- segnata a tutta fretta la milizia, provistosi di viveri ed attrezzi da guerra, ordinato il modo della navigazione, e invocato con divotissima processione Pagiuto del (Melo, partì subito alla volta di Levante.

« Gemea il mare sotto l'incarco di 313. legni Cristiani, e in essi volava a militare in ossequio della Fede il flore della Nobiltà d'Eu- ropa; e fra gli altri avventurieri molti Prencipi liberi , come Alessan- dro Farnese Prencipe di Penna *, quello dWrbino e I). Francesco di Savoja. Nel progresso del loro velegiare udirono da un bergantino candioto la resa a patti di Famagosta in potere de Turchi, e che fu- rono da quei barbari violate le leggi delle genti coli' inosservanza delle capitolazioni. Attizzò magiormente quest' aviso el zelo ell'ardore di quei petti Catolici e generosi , onde sollecitarono al possibile la navigazione per attaccare l'armata ottomana e fare di quei sagrileghi una memorabile vendetta. Quindi a 7 8bre giunti a certe Isolette di- sabitate dette Escorzolare , entrando per un canale nel golfo di Co- rinto, scoprirono l'armata Turchesca, che affidata nell'esorbitante mol- titudine [era] uscita dal porto di Lepanto in busca della Cristiana; allora I). Giovanni postosi in una leggiera fragata , ordinò con ammi- rabile valore e desterità 1' armata in forma di battaglione ; e fatto l'istesso dal Turco, caminava ciascuna di paro coragiosamente ad in- vestirsi, solo con questo divario, che i Maomettani venivano secondati dal vento ; inalberandosi però nella Beale Cristiana un Crocifìsso in tela benedetto dalla Santità di Pio V. mutossi al punto la traversia in un favorevole sopravento. Si spiccano in ciò le Beali due, e attac- cando la zuffa si cambiò di repente il mare di regione d'acqua in un inferno di fuoco; ma alla fine, doppo lunga e ostinata tenzone, si di- chiarò la vittoria da parte de fedeli. Restorno prese in questo conflitto da 200. Galere de Turchi, oltre delle sommerse. Gl'uccisi de nemici furono 30 mila, i prigioni tì. mila, e liberati lo. mila schiavi cristiani; rese perciò da tutti furono le grazie al Signore degl'Eserciti.

« Voltò l'armata le prore al ritorno , e toccando Messina, ove si disciolse l'armata de Collegati. Il Serenissimo I). Giovanni, portatosi di passo 2 in Marsala, per contracambiare l'umilissimo ossequio pre-

1 *Stc. Ma si vede subito che, leggendo male l'originale, il copista mutò Parma in Renna. Il Villabianca a sua volta, copiando dalla copia, corresse in Benda.

2 Passaggio.

PARTE II. LO STENDARDO DELLA SANTA LEGA DEL 1571. 391

statoli da questa fedelissima Città, in pegno del suo amore, nel 1573 lasciò in questo venerabile Monastero di S. Girolamo 1' accennato Cro- cifìsso in tela, che sotto titolo del Signore della battaglia s' adora in questa divotissima Cappella , a gloria della Religione ed in memoria della munifieenza di quel Serenissimo Principe, ove di continuo eser- cita a prò' de' fedeli la pienezza delle sue misericordie con evidenza di molti miracoli ».

Questa Relazione, in caratteri del secolo XVII I ma evidente copia di un originale antico che più non esiste, trovo identicamente trascritta negli Opuscoli Palermitani del Marchesi; di Villabianca, tra le memorie ch'egli ivi raccolse della città di Marsala , intorno al 1780 '. K in- nanzi a lui l'ebbe sott'occhio il Sac. Angelo (reumi, il quale, nel suo Annate cronologico della Città del TÀlibeo 2, dopo di aver cennato alla Santa Lega e descrittone lo Stendardo con le x>arole stesse della Re- lazione, continua : « Il Generale venne in Marsala da Messina a ot- tobre 1573 con 100 galee, entrò in porto, e disbarcato fece sollenne entrata; al quarto giorno, occorrendo la festività di S. Francesco, fu nella Chiesa dei PP. Cappuccini, come si legge in una lapide posta nella stanza pria della sagrestia sopra la porta che conduce alla ('ap- pella maggiore 3 ... e dopo altri giorni diede in dono al Venerabile Monastero di S. Girolamo lo Stendardo di l'io V. col Crocefisso, che si venera nella Chiesa sotto titolo del Crocefisso della battaglia ». Ma più in là, tornando su l'argomento, l'Autore aggiunge : « Per quello che riguarda alla bandiera del Crocefisso benedetta da S. Pio V. Papa, di cui si è parlato a foglio 1*57, che si conserva in questo Monastero nell'Altare primo dopo l'arco maggiore della Chiesa, son di parere che S. A. 1\. I). Giovanni d'Austria l'anno 1572 (sic) venuto in Mai- sala l'avesse data in dono al Cavaliere Margio, che dispose l'edilizio del Monastero nel suo testamento l'anno 15S7, eseguito l'anno 1003, o pure al Magistrato, il quale per maggior venerazione lo ha posto in Chiesa ».

1 Bella Nobiltà della Città di Marsala, ò ma del Lilibeo antico, e moderno : Jìc Iasione minuta topografica, e Commentario Storico colla notizia insieme della qualità delle di lei Famiglie antiche e moderne che formano il nobile suo corpo Governante. Opuscolo del Villabianca. Negli Opuscoli Palermitani Storici, tomo XX, pagg. 19-53, iris, segnato Qq. E. 96, nella Biblioteca Comunale di Palermo.

2 Manoscritto iuedito, conservato nella Biblioteca Comunale di Marsala, a fo- glio 257. Me ne ha fatta comunicazione il compianto e dotto amico Cav. Salva- tore Struppa.

3 Sopprimo la iscrizione, che qui non ha interesse.

S92

S. SALOMONE-MARINO.

Dalle quali parole si dee concludere, che il Genna non avea pre- cisa ne sicura conoscenza del come e del quando lo Stendardo era divenuto quadro, ne di chi lo avea regalato alla Chiesa di San Gi- rolamo. Accoglie dapprima quanto la Relazione afferma , ma poi , di fronte alla indubbia data di erezione del Monastero , si corregge ed esprime il parer suo : o che lo Stendardo fu regalato dal Principe al Cavalier Margio fondatore del Monastero, o che fu regalato al Magi- strato Municipale, che per maggior venerazione lo pose in Chiesa.

La supposizioue prima, va sicuramente scartata. Girolamo Margio, nobile marsalese senza prole, nel suo testamento del 12 settembre 1587 *, disponeva, che nella casa sua e con le rendite proprie si fondasse un Monastero con annessa Chiesa (che veniva infatti compiuto ed inau- gurato nel 1(503 2), da intitolarsi al Santo suo omonimo; ed ivi enu- mera i quadri che possedeva, designando come e dove li desiderava collocati nella erigenda Chiesa ; ma non menziona affatto Crocifisso Stendardo. Del resto , con che ragione o diritto avrebbe potuto ot- tenere sì prezioso dono dal Principe ? dal testamento appare, altrimenti si sa , che il Margio avesse seguito le insegne di lui in quelle imprese contro gl'infedeli, che con lui avesse avuto relazioni di sorta 3. Se mai, volendo dimostrar gratitudine o affetto ad un pri- vato marsalese, l'Austriaco avrebbe potuto lasciare il glorioso ricordo al nobile Baldassare Barbara, Regio Capitano della Città , che amba- sciatore della stessa andò a incontrarlo a Trapani , e poi 1' ebbe in Marsala ospite per una settimana *; ma pel Margio non se ne vedrebbe proprio il perchè.

Esaminiamo pertanto se la seconda supposizione si può reggere.

In mancanza di più antiche testimonianze invano cercate nell'Ar- chivio municipale di Marsala ed altrove, comincio dall' esaminare la Relazione, il documento che solo ci rimane oltre il Quadro.

Leggendola, si rivela indubbiamente scritta nel seicento. Per la maniera come vi si ricorda il Re Filippo li , per la precisione dei

1 Agli Atti di Notar Giovati Tommaso da Cremona, nell'Archivio Comunale di Marsala.

2 Vedi Atti di Notar Giovanni Navarretta, 25 aprile 1603, nell'Archivio Co- munale cit.

3 Nella iscrizione sepolcrale, ch'è nella Chiesa sotterranea o Grotta del Con- vento degli Agostiniani scalzi di Marsala , il solo titolo eli' è dato al Margio è quello di Giurato della città: Patrie IvraUls.

* Cfr. Villahianca, loc. cit., pag. 65, e Registro 1578-74 nell'Archivio Comu- nale di Marsala.

PARTE II. LO STENDARDO DELLA SANTA LEGA DEL 1571. cQ'A

particolari con cui si narra della Santa Lena e della giornata di Le- panto , si potrebbe pensare che fu stesa da tale che la memoria ne conservava viva, e potrebbe assegnarsi ai primi anni del secolo; ma sorge tosto la obiezione, che uno che avesse scritto in tali anni dovea ben conoscere che il Monastero di San Girolamo era sorto dalle fon- damenta pur allora, al 1603, e per conseguenza non avrebbe assolu- tamente vergate le parole : « il Serenissimo I). Giovanni... nel 1573 lasciò in questo venerabile Monastero di S. Girolamo l'accennato Cro- cifisso »; e perciò è necessità che spostiamo di parecchi anni hi scrit- tura, portandola verso la metà del secolo. Ma non per questo il valore della Relazione vita meno. Essa ci registra un fatto , che non poteva inventarsi di sana pianta; essa illustra un cimelio, che era già vene- rato dai cittadini per ragioni che non nascono d'improvviso ed inco- scientemente, ma hanno base nella costante tradizione che muove dal fatto reale , il dono dello Stendardo che il Principe fa « per contra- cambiare l'umilissimo ossequio prestatoli da questa fedelissima città ». Il dire, dopo due terzi di secolo, che il dono fu fatto al Monastero proprio dal Principe e non dal Magistrato della Città, o è ignoranza, o è meditato artificio in prò' della venerabilità del Monastero, o anche del giustificato orgoglio per la possessione di una reliquia di alto valore e di tanta venerazione presso i ciltadini.

Don Giovanni d'Austria, disciolta la Lega, volse tutto 1' animo suo e tutte le forze navali e terrestri di cui disponea, alla lungamente vagheggiata impresa di Tunisi. L' accolta si fé' nel vasto porto di Marsala; ed egli giungeva in questa città il d'ottobre 1573 , e vi permaneva a dar gli ultimi provvedimenti fino al 7, giorno in cui le- vava le àncore. In Marsala ricevè feste ed accoglienze come maggiori quella cittadinanza potè farle, ed augurj caldi e sinceri di nuovi trionfi. Egli inalberò per la nuova impresa lo Stendardo Reale di Spagna. Quello glorioso della Lega non restava più presso di lui clic come un caro ricordo. Or, ripugna forse a supporre, a credere che egli . nel- 1* atto di accingersi alla nuova impresa . per rispondere degnamente alle splendide manifestazioni di stima ed ai fervorosi voti di vittoria, per dare un attestato della sua gratitudine, un « pegno del suo amore ». lasciasse in dono quel glorioso e caro Stendardo .' >»To , certo. Anzi appare naturale . appare logico e giusti» che quel dono fosse legato alla Sicilia, e in Sicilia si conservasse ; che in Sicilia Don Giovanni d'Austria ebbe i maggiori aiuti per le sue imprese, le più splendide feste e onoranze . il più sincero affetto . la devozione più illimitata. E poiché Marsala fu la città augurale donde egli mosse per la prima impresa dopo la dissoluzione della Lega, a Marsala, degna rappreseli-

594

S. SALOMOXE-MARINO.

tante dell'Isola, donò quel suo santo ricordo, santo per la benedizione di l'io V, santo per i divini raggi della vittoria che lo ricingevano.

Nei Registri dell'Archivio Comunale di Marsala non si trova un cenno, non si conserva un documento che provi sicuramente il dono prezioso, il quale è impossibile che non avesse lasciato vestigi ; ma è ad osservare, che que' Registri non sono completi, hanno molte la- cune, e questo potrebbe spiegarci la mancanza che lamentiamo. Però nei rogiti di Notar Bartolomeo Passalacqua l, in un atto del 2 aprile 2H indizione 1575, il compianto mio amico S. Struppa ha trovato che il nobile Vito Frisella, marsalese , uti Alferins militie hiijus civitatis Màrsalie, dichiara di avere ricevuto dai Giurati banderiam Compagnie diete militie. Quain banderiam dietus nobilis Alferius promisit dare, re- stituere et reeonsignare dietis dominibus Juratis quo stupra nomine sti-

pulantibus statini et incontinenti 2 pace. Quam consignationem dicti

domini Jurati dixerunt ferisse et facere coacte non volentes aliud agere timore jniunetionis liodie facte per Ill.mum dominum Comitem Bussemj viearium et armorum Capitane) diete civitatis et hoc ad literas excellencie sue et non aliter 3.

Il mio amico scriveami : « Ohe sia questa la bandiera che ci preoc- cupa ? »

Io dico, che la prova netta, assoluta, non e' è; ma che è ben pos- sibile, che è anche probabile che i Giurati di Marsala abbian voluto con giustificato orgoglio mettere la propria Milizia sotto una Insegna gloriosa e santa, donata da tanto famoso Principe; e allora mi spiego e trovo giuste e doverose, la riluttanza dei Giurati a concedere che essa Insegna uscisse dalle mura cittadine per andare in provincia, la imposta promessa di restituzione, e la solenne dichiarazione che ce- dono alla coartazione del Vicario e Capitano e degli ordini di Sua Ec- cellenza il Presidente del Regno.

E così ugualmente dico possibile e probabile e spiegabilissimo il fatto, che in prosieguo di tempo, essendosi reso logoro il glorioso Ves- sillo per l'uso a cui ora stato destinato, i Giurati lo abbiano voluto salvare dalla totale rovina e conservare alla venerazione dei cittadini,

1 Si conservano nell'Archivio Comunale di Marsala.

2 Illegibile perchè ròsa la carta.

3 Don Giuseppe Requesenz Conte di Buscemi , Vicario e Capitan d' armi a guerra in Marsala fiu dal 31 agosto 1573, avea giurisdizione nel Val di Mazzara e andava con le milizie in sorveglianza e difesa del litorale contro le temute in- vasioni di Turchi e Barbareschi. Cfr. Bcgistro 1572-73 nell'Archivio Comunale di Marsala.

PARTE II. LO STENDARDO DELLA SANTA LEGA DEL 1571. 395

donandolo al Monastero delle Agostiniane di San Girolamo. Donde il successivo necessario ritaglio del Crocifisso, e l'adattamento di Esso su la nuova tela, e la dipintura della battaglia navale in questa, e per ultimo la .Relazione che ne tacesse la illustrazione e ne dicesse la origine. E quindi la grande e vetusta venerazione , sino a qui non estinta, del popolo marsalese per questo Crocifisso ; quindi il nome di Crocifisso della Battaglia, non senza ragione dato fin dal principio e mantenuto per tre secoli.

E pertanto , dopo tutto questo che sopra ho esposto , io tengo ferma convinzione, come già sin dal 1875 annunziai l, che sia questo Crocifisso, che è in San Girolamo di Marsala, il Crocifisso che rifulse sublime nello Stendardo della Santa Lega il della memoranda vit- toria. Questo immortale è il 7 d'ottobre: il 7 d'ottobre è anche il della partenza di Don Giovanni da Marsala , e presumibilmente quello del dono prezioso dello Stendardo al Comune ; non senza ra- gione quindi e non senza alto significati» il popolo di Marsala festeggia appunto il 7 d'ottobre questo suo Crocifisso, di valore artistico nullo, ma di inestimabile valore per la storia e per la gloria tutta italiana della giornata di Lepanto.

L'insigne Stendardo della Santa Lega del 1571, che ora parti- colarmente abbiam potuto conoscere, no, non è del tutto perduto; ne permane la parte principale e più significante, il ('risto, sotto i cui auspici si strinse la Lega, che fu con viva fede acclamato vero Duce della flotta alleata al momento del combattere , e nel cui nome si gridò la vittoria. E questo sacro cimelio, questo Crocifisso della Battaglia, Duce sempre ne le battaglie che come quella di Lepanto si combat- tono per la Lede, per la Civiltà, per la Libertà dei popoli , merita- mente sopravvive in Sicilia, su l'altare di San Girolamo in Marsala. ed ha culto fervoroso; un culto che non menomerà, che durerà sem- pre, tino a che Fede, Civiltà, Libertà, sono l'alto faro luminoso a cui tende l'occhio e l'animo del t'atigato umano navigatore '.

1 C'fr. Descrizione delle feste della eittà di Palermo a Don Giovanni d'Austria dopo la vittoria di Lepanto ecc. in Nuove Effemeridi Siciliane », Serie terza, voi. I, pag. 27 (Palermo, 1875).

1 Scrissi già al 1875 e ripeto ora qui, che fa pena e disdoro il veder tenuta con poca cura la preziosa tela, indifesa perlina angli oltraggi della polvere e del- l'umidità.

Palermo.

Salvatore Salomone-Marino.

UN AUTOGRAFO DEL PITTORE PIETRO NOVELLI.

Il documento che io pubblico è un memoriale autografo di Pietro Novelli scritto nel 1025, quando egli contava ventidue anni. Sin qui non si conosce, salvo qualche firma, altro autografo del celebre pittore siciliano : e però il documento di cui diamo la riproduzione (fig. 02), è pregevolissimo, restando come unico termine di paragone di fronte ad ogni altro autografo, che in seguito possa riferirsi al Novelli. E scritto nella parte anteriore di un foglio doppio di carta bambagina di centi- metri 30X21, la quale è contrassegnata dai due soli timbri traspa- renti della carta siciliana dell'epoca. Sono chiari e ben conservati il carattere e l'inchiostro, e la scrittura procede con poche abbreviature.

Che il memoriale sia veramente autografo , ce ne persuade anzi tutto la natura stessa del documento, il quale non risente per nulla lo stile e le formule curialesche del tempo , ma ha il semplice tono di un esposto o di una lettera di preghiera.

Or non si vede la necessità , ne la convenienza per cui il No- velli, che sapeva scrivere, avesse dovuto o voluto adibire altra persona in sua vece per formare un esposto così semplice e così breve. Del resto, in questo autografo del 1025 il nome di Pietro Novello calligra- ficamente corrisponde benissimo con le poche firme che troviamo dal Novelli apposte nel 1045 in alcune cautele di opere eseguite per conto della Città di Palermo, le quali cautele si conservano in un registro del 1645 presso l'Archivio Comunale di detta città, al n. 1655.

Una sola differenza si osserva tra il cognome del Novelli scritto nell'autografo del 1625 e l'altro apposto alle cautele del 1645, ed è questa, che il cognome del pittore nell'autografo ha la desinenza in o mentre nelle cautele l'ha in i.

Su tale proposito, però, piace notare che dal 1510 al 104.'> in tutti gli atti parrocchiali e notarili il cognome della famiglia del nostro pittore fu sempre Novello; dal 1044 al 1047 per contrario lo troviamo modificato in Novelli. E nel testamento dell'infelice pittore Monrealese, stipolato a 20 agosto 1047, vediamo che non solamente Novelli chia- masi il testatore, ina Novelli si chiama Costanza, sua moglie, Novelli Pietro Antonio, suo figlio maggiore, e Novelli la Posalia, pittrice gen- tile che meglio (Fogni altro ritrasse lo stile paterno.

L'avere poi il pittore stesso negli ultimi anni della sua vita pie-

PARTE II. IN AUTOGRAFO DEL PITTORE PIETRO NOVELLI. ài)7

ferito la desinenza in i nel suo cognome, e l'avere adottata questa

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Fig. 62. Autografo di Pietro Xotcili.

medesima forma i suoi credi e discendenti in cagione per cui all'intiera famiglia Novello tu attribuito generalmente il cognome Xovellìx

o98 G. M1LLUNZI. PARTE II.

11 contenuto ])oi del memoriale autografo del pittore Pietro Xo- velli si riferisce ad un furto perpetrato in suo danno nei giorni della morte del pittore Pietro Antonio suo padre. Questi, il 4 maggio 1625, colpito dalla peste bubbonica, dettava il suo testamento nel lazzaretto di Monreale, e moriva due giorni dopo.

Nel testamento istituiva erede universale suo tìglio Pietro pur riconoscendo 1' altro tiglio Vincenzo ascritto alla Società di Gesù , e faceva ricordo dettagliato non solo dei beni immobili che lasciava, ma anche di non pochi quadri da lui o compiti o solamente comin- ciati, di alcune incisioni in rame , di pietre di mosaico e ferramenti che appartengono ad indorare.

Intanto in quel tramestìo della peste, e in mezzo alle angustie della morte e del lutto non mancò chi abusasse dell' assenza dei fi- gliuoli appropriandosi indebitamente non solo alcune quantità di monete ma ancora oro, argento , ramo, stagno ferro et altre simile come anco robbe di lana, lino, seta, stiglie et arnesi di casa et dello esercizio con- cernente alla pettura, scripture, contratti, palisi et altre.

Cessato però il contagio della peste, il nostro Pietro Xo velli, erede universale del defunto Pietro Antonio, scrive di suo pugno il Memo- riale consaputo, col quale domanda a Mons. Gabriele de Santostefano, vicario generale dell'Arcivescovo di Monreale, che voglia minacciare la scomunica, come usavasi in quei tempi di buona fede, contro chiun- que avesse occupato, rubato ed occultato oggetti appartenenti alla sua casa paterna, trattandosi di una somma rilevante di più di onze due- cento in circa in grave damno pregiudieio et interesse del' esponente. Ecco il testo intiero del memoriale :

lll.mo e Eev.mo Signore,

« Pietro novello figlio et herede Universale del già defunto Pietro An- tonio novello di questa citta di Monreale dice a V, S. Illuni che limanti et dopo la morte di quello li sono stati denegati , occultati, et Rubbati non solo alcune quantità di Monete ma ancora Oro Argento , Ennio, Stagno ferro et altre simile come anco Robbe di lana, liuo , seta stiglie et arnesi di Casa, et dello esercitio concernente alla pectura scripture estratti, polisi et altre, del che lo esponente non tiene ne bave altro modo di poterli trovarle ne sapere chi l'havesse tenesse o sapesse , se non con il Keinedio et Modo Ec- clesiastico trattandosi la somma di più d'onze ducento Incirca in grave damno preiudicio et Interesse del expouente per tanto vieni a supplicare V S. Ulma si degni restar servita ordinare, se li facciano lettere Monitorale a chi spetta in questa Citta accio possa sapere et recuperare la robba et beni ereditarli del Modo suddetto Occupati Rubati et Occultati tanto più il detto quondam bavere morto in lazzaretto in quel tempo tanto suspetto et confuso che il tutto oltre esser giusto lo recevera a gratia etc. ut Altissimus etc. »

parte n. un autografo del pittore Pietro novelli. 399

Nel dorso dello stesso memoriale del Novelli il Vie. Gen. de Santo- stefano scrisse la provvista « die XII0 novembri* 9 ind. 1625. Fiant litere monitoriales in forma. Santostefano V. (ì. »

E dalla Curia Arcivescovile (come leggesi nel Reg. Spir. 1025- 1020 , fol. 58) furono subito spedite le lettere Monitoriali ai Rev.mi Canonici e Parroci della Cattedrale di .Monreale, nelle quali oltre alla fedele trascrizione del Memoriale del Novelli si leggono le seguenti disposizioni :

«In civitate Moutis Regalis die xijo Novenibris 9 ind. 1625: ex parte Revmi Domini Vie. Gen. de Santostefano fiant litere Monitoriales in forma. Anton. Griandili vigni Mag. Not. Ordinarius. Et trattandosi oltre la somma di onze cinco prout cum juramento fuit aftirmatum et sub eodem jurameuto de non utendo criminaliter revelationibus forte fiendis uisi tantum agi prò civili interesse ita quod per preseutes non comprehendantur persone certe nec alie de jure prohibite et sunt nonnulli iniquitatis et perditionis filii im- memores salutis eterne quos ipse significans prorsus ignorat in animarum suarum maximum periculum et ipsius significantis non modicum detrimentum et interesse quia a nobis ecclesiasticum remedium supplicavit et quia veritas aliter haberi non potest : qua supplicatione admissa vobis et vestrum cuilibet dicimus et mandamus quatenus infra terminimi trium ebdomadarum pio prima secunda et tertia monicione canonica assiguainus omnes et singulos utriusque sexus Christifideles premissa scientes et non revelantes monere debeatis quod habeaut et debeant penes acta nostre curie arcliiepiscopalis huius civitatis Montis Kegalis revelare et revelasse alias dicto termino elapso et nequiter et raalitiose non revelantes nec restitueutes ad seutentiam exeomunicationis procedatis babita prius a nobis liceutia et premissa cum effetti! exequamini sub pena unciarum quinquagiuta curie arcbiepiscopali applicanda. Datum die Xll° novembris 9 ind. 1625. Gabriel De Santostefano V. G. >

E la triplice pubblicazione di questa scomunica nella Cattedrale di Monreale fu fatta al popolo dal parroco nelle tre domeniche con- secutive dei giorni 10, 23 e 30 novembre 1025, come risulta dai re- gistri parrocchiali. Ma sortì l'effetto desiderato.' Chi lo sa!

A noi però il memoriale del 1025 ha procurato la felice occa- sione di possedere un raro autografo del Novelli, il quale anche per la parte storica ha la sua importanza , perche ci riferisce con una in- genuità grande e gli usi dei tempi, e l'animo del Novelli e un aned- doto della sua vita , il quale ben si riallaccia all' epoca della peste siciliana del 101*4 e L025, al testamento e alla morte del pittore Pietro Antonio Novelli , suo padre , e alle condizioni finanziarie della sua famiglia.

Monreale,

Gaetano Millunzi.

NOTIZIE INEDITE SUL EONTE ORIONE IN MESSINA.

Nella primavera del 1547 , il giorno della solenne festività del Corpus Domini , al cospetto del magistrato cittadino e della popola- zione esultante, accorsa in gran folla nella piazza del Duomo, allora chiano di S.ta Maria la Nuova, inauguravasi in Messina 1' acquedotto del ('amaro, che, iniziato sin dal 1530, portavasi a compimento con ingentissima spesa , dopo che il peritissimo architetto Francesco La Canicola era riuscito a ben costruire le gallerie attraverso le montagne clic a sud-ovest fan corona alla città '. Così le acque scaturenti dai colli peloritani verdeggianti allora di boschi e di castagneti , che, per la varia ed abbondante selvaggina tur di delizia per la caccia agli antichi re di Sicilia allacciate dalla nuova conduttura ed in- trodotte per la porta dei Gentili 2 , fra il compiacimento dei cittadini, le squille festose delle campane e lo sparo dei mortaretti , fur viste scorrere fino a quella piazza, dove si attinsero , notava il contempo- raneo Cav. Buonflglio :i , da un picciolo fonte, finché dirizzò quel no- bile, di ricco e vago la raro clic .si vede, (piale è quello scolpito dal Mon- torsoli, ammirato quale splendida opera d'arte.

1 « Gli acquedotti sotterranei ne' monti forati , opra furono di Francesco la Canicola, Messinese». Buoufiglio , La Messina Nobilissima. In Venetia MUOVI, pag. 8r. Nella piccola lapide interna, linora inedita, esistente sulla spalla sinistra della galleria Arcipeschieri si logge:

CIUCO LA CAM 10LA PCHAVLI MO NTAGNI E FICHI VIN Ilil LAQVA A LA C H ITATI 1548

2 Msiurolico , Sicanicarum rerum Compendium , Messauae , apud Pctruin Spira, MDLXII, pag. 215v.

3 tintoria Siciliana, parte li, In Venetia, appresso Bonifacio Ciera, MDCVI, pag, 491.

PARTE II. NOTIZIE INEDITE SUL FONTE ORIONE IN MESSINA. 401

Messina traversava a quei giorni uno dei periodi più fortunosi della sua floridezza economica e commerciale. Le condizioni di gene- rale benessere, pur alimentando il culto del bello e delle arti, forte- mente concorrevano allo immegliamento edilizio ed igienico della città con l'ingrandirsi della cinta delle mura e dei fortilizi, con l'apertura di spaziose vie, con le costruzioni di palazzi pubblici e privati. Sicché dopo che i giurati ed il consiglio , per maggior decoro della città e per completare con nobile monumento la recente condotta delle pub- bliche acque, ebber deliberato di erigere sulla piazza del Duomo un fonte « con un ornamento grandissimo di statue » , eransi all'uopo recati a Roma alcuni messinesi « a cercare d'avere uno eccellente scul- tore ». F benché essi, attesta il Vasari l, « avevano fermo Raffaello da Montelupo, perchè s'infermò quando appunto volea partire con esso loro per Messina », fecero altra risoluzione , e condussero il frate Gio. An- gelo Montorsoli (1506-1563) da Poggibonsi , anch' egli tra i migliori discepoli del Buonarroti, e già salito in grande fama per le varie opere eseguite nella sagrestia di S. Lorenzo in Firenze , in Arezzo, in Ge- nova ed in Napoli, dove, da poco, avea scolpito la grandiosa e ricca tomba del Sannazaro, la quale ha tutte le impronte e 1' atteggiamento michelangiolesco nelle statue , quantunque negli ornati si mostri un po' pesante 2.

Nel giugno del 1517 trattenendosi egli in Roma , ove tornando da Genova si era recato per rivedervi il maestro , seppe della com- missione dei messinesi e della malattia del Montelupo, per cui « con ogni instanza e qualche mezzo cercò d' avere quel lavoro » , che gli fu allogato assai probabilmente mercè l'ingerenza di Gio. Francesco Verdura, nobile messinese e canonico , elevato in seguito alla dignità di vescovo di Corone 3, come ricordò soltanto Antonio Filoteo da Ca- stiglione J, che , essendo stato mandato due anni appresso in quella

1 Le Vite ecc. Fra Giovanni Agnolo Montorsoli, voi. VI, Firenze, Le Mounier, 1881, pag. 647. Del Montorsoli si hanno altre notizie dal Di Marzo, Degli scultori della penisola, che lavorarono in Sicilia nei secoli XIV, XV e XVI, in Archivio Sto- rico Italiano, Firenze, 1872, serie III, tomo XVI , pag. 340 e seg. e nella magi- strale opera dello stesso : / Gaglni e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI, voi. I, Palermo, 1883, pag. 769 e seg.

2 B. Croce. La tomba di Jacopo Sannazzaro e la chiesa di S. M. del Parto in Napoli Nobilissima, voi. I , Napoli, 1892 . pa^. 68-76. Il chiarissimo autore porta in proposito anche l'autorità dell'insigne critico d'arte Gustavo Frizzoui.

3 Morì in tal dignità , a Corfù , il 14 dicembre 1570. Archivio della confra- ternita degli Azzurri di Messina, voi. XIV.

4 Descrizione della Sicilia, nel voi. XXIV della Biblioteca storica e letteraria di Sicilia del Di Marzo. Palermo, L. Pedone Lauriel, 1876, pag. 34.

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402 G. ARENAPRIMO DI MONTECHIARO. PARTE II.

città per il disbrigo di alcuni incarichi affidatigli dal marchese Gioeni i, avrà potuto saperlo dall'istesso prelato e compatrioto.

Nel settembre Giovan Angelo Montorsoli , o il fiorentino , come il chiamavano, era di già in Messina insieme col nipote Martino Mon- tanini, suo allievo, che gli era stato di aiuto nei grandi lavori della cappella e della sepoltura di Andrea Dori a nella chiesa di S. Matteo a Genova. Quivi, assunta la carica di capo mastro sculturi de li fon- tani , con lo stipendio di onze 110 (Lit. 1402, 50) e provvisto di al- loggio anche a spese della città , si die con sollecitudine al ritiro dei marmi da Carrara ed all'acquisto di altri blocchi e di frammenti che potè trovare in Messina 9. Depositati questi nei magazzini della Mu- nizione — dove è ora il teatro che serba questo nome cominciò con i suoi lavoranti scalpellini ed intagliatori a preparare i pezzi, le tazze e le statue della grandiosa fontana , rappresentante il trionfo di Orione , favoloso restauratore di Zancle. Opera di alto ingegno ed assai ben riuscita e della quale si hanno particolareggiate descrizioni dallo stesso Vasari 3 e dal Buonfìglio 4, dal La Farina 5, dal Di Marzo 6, e dalla recente Guida a cura del Municipio 7. Molto probabilmente l'allegoria del soggetto che rappresenta e la disposizione delle varie parti avran potuto esser suggerite al Senato della città, o allo stesso Montorsoli, dal nostro illustre Francesco Maurolico, che pure illustrava quella insigne opera d' arte dei suoi distici stupendi 8, e che , allora nel vigore degli anni, rifulgeva fra quanti per ingegno e per dottrina onorassero il paese.

1 Di Marzo, op. cit. Prefazione, pag. XII.

2 « Adì 21 de genn.ro oz duj per tanti ne e fatto debitore detto Jo: salvo balsamo per una polisa di oz 2 di la cita al detto governatore, li quali oz 2 foro per lo predo una marmora era in S.to basili Servio ala fontana di la m.ri ecc.0 ». Dal voi. II della nobile confraternita degli Azzurri di Messina. « lunidi addi xxviij di marzo [1558] bastiano dansalonj tesorexj per conto di lacqua dilj Camarj oz setti conM per sua po- lisa a antonello bonjorno cond.m luca dissiro li paga per polisa dili Jurati dili 25 dito presentj et foro per lo prezo duna colonna di marmora chi rindio ala cita at opra di la fontana di detta cita... oz 7. Archivio della Tavola Pecuniaria di Messina. Primo giornale contanti 1558, segn. N. 5.

3 Le vite cit., voi. VI, pag. 647-49.

4 La Messina Nobilissima, pag. 8.

5 Messina ed i suoi monumenti, Messina, 1840, pag. 82 83.

6 / Gagini e la scultura in Sicilia ecc., voi. I, pag. 770.

7 Messina e dintorni, Messina, 1902, pag. 243-48. Si hanno i disegni di questo fonte nell'opera di Hittorff e Zauth, Jrchitecture moderne de la Sicile, Paris, 1828.

8 Macrì Giacomo. F. Maurolico nella vita e itegli scritti, Messina, 1901, pag. 114 e seg.

parte ii. notizie inedite sul fonte orione in Messina. 403

Attesta il Vasari che questo grandioso fonte fu dal Montorsoli e dai suoi scolpito con « molta prestezza ». Nonostante ciò trascorsero ben sei anni perchè fosse collocato nella piazza, come si ricava dalla iscrizione su marmo bianco che è stata da recente scoverta nella gal- leria sotterranea del fonte medesimo l, (piale iscrizione conferma piena- mente quel che'ne avea scritto il Maurolico 2, contrariamente al Buon- figlio, anch' egli contemporaneo, il quale assicura essere stato innalzato nel 1551 3. Più preciso Antonio Filoteo da Castiglione * , che tro- vandosi in quegli anni in Messina , potè ammirare tra i primi « la eccellentissima fontana , di bellissimo e sottilissimo artifìcio , dalla quale ben si conosce quanto li Messinesi si debbano alli antichi Ito- mani paragonare », che ei dice finita nell'anno 1554. Sembra questa affermazione assai sicura massime per gli ultimi rifinimenti apportati alla fontana, se si pensi che solo in sullo scorcio del 1552 il Senato fa ce a promulgare il bando invitatorio per lo staglio della fabbrica delle fondazioni di essa.

Ecco il bel documento, rimasto finora inedito :

iiij augusti 1552

Leonardus Lugli Publicus Preco Nobilis Civitatis Messanae retulit qua- liter de mandato Sp.lhm Do.ri<m Juratorum emissit infrascriptum bannum per loca solita et consueta hujus Nobilis Civitatis, cujus tenor est ut infra, videlicet

Sia uoto et manifesto ad ornili persona tanto citatina conio foristera qual- ìuenti li Sp.1' Sig.rì Jurati pretendino dar ad Staglio tutta la fabrica de lo palamento de la nova Fontana si liavira di hedificar jn lo plano de la Mayore Eccl.a di questa Cita juxta la forma de lo modello li sarà dato da M.r0 Jo : angelo montorsuli capo mastro de la Cita, cura li condicioni jnfrascritti, la qual fabrica havirà da esser beu fatta juxta la ordini li sarà dato per detto M.r0 Jo: angelo, et cui vorrà veder lo modello predetto anderà jn casa di dicto M.r0 Jo : angelo.

In primis, quella persona prindirà lo detto Staglo perchè la Cita al pre-

1 Pubblicata per la prima volti dalla Commissione municipale per la guida, Messina e dintorni cit., pag. 248 e poscia dal eli.™' Mous. Di Marzo, Di un aned- doto del Montorsoli nel suo soggiorno in Messina, in Archino Storico Siciliano, anno XXIX, pag. 92. Palermo, 1904.

2 « Per idem tempus [1553] Messanae fons marmorea juxta Templum maximum, perfectis jam statuis, sculpturis, atque inscriptionihus, completa fistulis aquas ejacula- batur». Sicanicarum rerum compendia m, Messanae, MDLXII, pag. 215.

3 La Messina Nobilissima, pag. 8.

4 Descrizione della Sicilia cit., pag. 34.

404 G. ARENAPRIMO DI MONTECHIARO. PARTE II.

senti non sta comoda di dinari farà vi spi sa attratto et mastranza ad sua dispisa, la quali si reimburserà de la gabella de lo dinaro de lo pani depu- tato a la fabrica de la acqua da vendirsi di settembre xje Iud.nis proximijn tutto januarj, juxta la forma che si ha venduto per lo passato , de la qual gabella detti Sig.ri Jurati siudi reservano uncj XXV0 lo misi per lo lauro de li marmori et altri dispisi nece&sarj per ditta acqua.

Item, a cui restirà detto Staglo si oblighirà compiili lo ditto pidamento fra termine di uno misi numerando da lo jorno de la liberacioni de lo ditto Staglo.

Item, quando fra detto termini di uno misi non complissi la fabrica de lo dicto pidamento lo restanti de la fabrica si bavera da compiili si darra tt. 3 manco per omui canna si havirà da fabricari.

Item , quella persona piglirà lo d.° Staglo non poza dar ad Staglo la fabrica preditta ad maestri, et chi di tutto lo predetto ni haveranno di fari contratto publico cura dar jdonea et sussistenti plegeria.

Item, a cui rimanirà lo ditto Staglo li sarra concesso di far far petra, calci et tutto lo attratto che sarà bisogno.

Item , lo detto Staglo si bavera da vindiri per dicti Sig.1' Jurati a la candii a , et liberarsi ad quella persona che farra offerta più utile a la pre- ditta Cita, lo quali si havrà di mettiri a la candila fra giorni quattro.

Ex Actis Offieij lll.mi Senatus hujus Nobilis Fid.mae et Exemplaris Urbis Messanae extracia est praesens copia l.

Coli/ salva f 1. s. Salesius Mannamo Keg. M.r Not. Ex lib. Diversorum anni 1551 et 1552, fol. 135 r.°

L'illustre Monsignor Di Marzo, a proposito di un curioso episodio di cui fu principale attore un Lazzaro da Carrara 2 che abusando della fiducia del Montorsoli , barattò o bruciò alcuni affusti e legname che questi si avea ricevuto in consegna dalla città nel magazzino della Munizione crede attribuire il ritardo della collocazione della sontuosa fontana non solo « alla ricchezza dei lavori di essa ed alla costruzione dall'acquedotto dalla sorgente del Camaro » inaugurato di già, come si è scritto « ma bensì all'essersi addetto il Montorsoli ad altre note- v >U opere , che gli furono allogate. Fra le quali non dubito egli dice ascrivere il bellissimo sepolcro degli Staiti, eretto in un che la detta fonte nel 1553 » , e che anch'io , allora giovinetto , ricordo

1 Dal : Misceliamo di scritture per Affari Pubblici di questa Città di Messina, voi. Ili, pag. 97 (raccolto da Salesio Mannamo Mastro Notaro del Senato), presso il Municipio di Messina. Ms. del 1803.

2 Di un aneddoto del Montorsoli ecc., pag. 92.

PARTE II. NOTIZIE IXEDITE SUL FONTE ORIONE IX MESSINA. 405

in sullo spiazzale della chiesa <li S. AL di Gesù , detta del Ritiro, dove era stato collocato dopo l'alluvione dell'ottobre 1863 , che avea di- strutto l'altra chiesa, eretta sull'antica, di già investita ed interrata dal torrente nel 1855. Sarà stato come vuole il Di Marzo, quantun- que io abbia ragione di credere che il ritardo sia stato provocato dalle lunghe pratiche necessarie per ottenersi dalla Sede Apostolica e dal viceré di Sicilia 1). Giovan De Vega il breve e la conferma di potersi abbattere la chiesa di S. Lorenzo, che ergevasi dove fu postala fontana; pratiche, che iniziate nel 1547, furono spesso interrotte per le reci- proche pretese ed anche per la sede vacante alla morte del pontefice Paolo Ili, e che ebber line con la licenza data al Senato dal nuovo papa Giulio 111 nel 1550 , a condizione di riedificarsi la ecclesia in lo plano in luogo opportuno e di far celebrare una mensa quotidiana in perpetuo.

E già noto che il disegno «Iella nuova chiesa di S. Lorenzo, col prospetto sulla piazza, dirimpetto la fontana, e facente angolo con la via anticamente «letta degli A stari e poi del fiume, fu dato dall'istesso Mon- torsoli, che die' saggio di sua perizia anche nell'architettura in questa opera, assai lodata l, notò il Vasari, e degna di essere considerata con attenzione, aggiungeva il Gallo 2 « pella perfetta ordinanza di tutte le sue parti e per la sveltezza delle tre cupole ovate al di sopra ». Se ne continuarono i lavori dopo il 15(51) 3 , rispettando sempre il mo- dello dato da quel!' insigne artista , il cui soggiorno in Messina dal 1547 al 1557, fu di grande incremento al rifiorire delle belle arti e della scultura principalmente.

1 « In sulla piazza del medesimo Duomo [il Montorsoli] ordinò con bella ar- chitettura il tempio di San Lorenzo, che gli fu molto lodato ». Vasari, Le Vite ecc., pag. 651.

2 Annali di Messina, Apparato, voi. I, In Messina, MDCCLVI , pag. 159. Se ne vede il disegno nelle Vedute di Messina, della fine del secolo XVIII, incise da Francesco Sicuro.

3 La fabbrica procedeva nel 1557 sotto la direzione amministrativa dei de- putati a ciò preposti Giovanni Minatoli e Vincenzo di Messina. Il consiglio ci- vico a 21 giugno 1569 stabiliva di « darsi altre oz. 200 per il proseguimento delli lavori, da pigliarsi dalli danari dell'acqua delli Caulinari ». Giuliana di scritture del- V Archivio Senatorio, ms. del sec. XVIII, presso l'A.

Messina.

G. Arenaprimo di Montechiaro.

ABROGAZIONE DELLE TRASFORMAZIONI DELLE RICETTILE

IN COLLEGIATE.

§ 1. Della laicalità e della trasformabilità delle rieettizie in col legiate il concordato 1818 non si occupa.

§ 2. Bolla Inipensa 13 agosto 1819 e disposizioni relative costi- tuiscono convenzioni o disposizioni dipendenti dal concordato : laica- lità rispetto alle imposte ed alla nomina differenziava le rieettizie dalle collegiate nel sec. XVIII; dopo il concordato 1818 solo rispetto alla nomina, sino alla Bolla 1819 : collegialità « quoad lionores tantum » si riferiva alla laicalità , non a diritti speciali delle collegiate vere e proprie, i quali non esistono.

§ 3. Perciò decreto 17 febbraio 1861 : nel richiamare in vigore il dispaccio 26 agosto 1797 è esplicativo, non tassativo : richiama in vigore tutto il diritto, anteriore al concordato 1818 , sulle rieettizie: abroga tutte le disposizioni posteriori al 1818 sulle rieettizie : anche i provvedimenti di trasformazione in collegiate posteriori al 1819.

§ 4. Interpretazione Mancini : non riflette la laicalità : non con- traria a noi nel caso speciale : richiamo del solo dispaccio 26 agosto 1797 basterebbe per la abrogazione delle trasformazioni.

§ 5. Dispacci del sec. XVIII , compreso quello 26 agosto 1797.

§ 6. Sicilia e resto d'Italia, eccetto il Xapoletano.

§ 1. Nel Concordato 16 febbraio -7 marzo 1818, pubblicato con legge 21 marzo medesimo anno, Concordato tra la S. Sede ed il Be delle Due Sicilie, rispetto alle chiese rieettizie vi è solo il seguente accenno : dopo disposto intorno alla congrua parrocchiale o supple- mento di congrua a carico dei Comuni, e dopo soggiunto che « questo articolo non comprende le chiese parrocchiali di giuspatronato » , si stabilisce : « pure vi restano comprese le chiese rieettizie , sieno numerate, sieno innumerate, i capitoli e le collegiate con cura di anime, avendo la loro congrua nella massa comune » (art. 7).

Questo accenno evidentemente riguarda solo la quistione dell'o- liere della congrua o supplemento di congrua , e non anche 1' altra

PARTE II. ABROGAZIONE DELLE TRASFORMAZIONI DELLE RICETTIZIE. 407

della laicalità od ecclesiasticità delle ricettizie, e perciò neppure quella connessa della trasformabilità delle ricettizie in collegiate.

Agli effetti di quest' ultima controversia giova tener presente anche l'art. 10, relativo al conferimento dei canonicati delle collegiate (nonché di quelli delle cattedrali) : « I canonicati di libera collazione, tanto dei capitoli cattedrali, che dei collegiati, si conferiranno rispet- tivamente dalla Santa Sede, o dai Vescovi , cioè nei primi sei mesi dell'anno dalla Santa Sede, e nei secondi sei mesi dai Vescovi. La prima dignità sarà sempre di libera collazione della S. Sede ».

Dunque nel concordato LSI 8 non si dispone intorno alla laicalità delle ricettizie ed alla loro trasformabilità in collegiate. Ma da ciò non si può concludere che le « disposizioni e provvedimenti » poste- riori al 1818, coi (piali alcune ricettizie furono trasformate in colle- giate, non siano da considerarsi come « dipendenti » dal concordato e dalle altre « convenzioni » relative, e perciò non abrogati col decreto 17 febbraio 1801 , n. 218 , che abolisce il concordato e convenzioni relative e richiama in vigore il diritto anteriore.

Giacche il citato decreto luogotenenziale 17 febbraio 18G1 e abro- gatorio non solo del concordato 1818, ma anche « dell' altra conven- zione del 16 aprile 1831 posta in osservanza con la legge del 30 feb- braio 1839, che parimenti è abrogata ; e di tutte le altre convenzioni anteriori e posteriori stipulate tra il cessato Governo delle Due Si- cilie e la Corte Romana; nonché delle disposizioni e dei provvedimenti di esecuzione, che siano dipendenti dalle convenzioni medesime» (art. 1).

§ 2. Occorre dunque ricercare, se della laicalità e trasformabilità delle ricettizie si sia trattato e concluso con qualche altra conven- zione fuori quella del 1818.

Anteriormente, no; lo Stato delle Due Sicilie aveva legiferato da se in proposito contro la chiesa, rivendicando la laicalità delle ricet- tizie e sancendo la loro non trasformabilità in collegiate.

Ma dopo il concordato 1818 vi è la Bolla Pontifìcia Impensa 13 agosto 1810, con la quale le ricettizie in sostanza vengono trasfor- mate da enti laicali in enti ecclesiastici, in quanto la nomina dei par- tecipanti non si fa più da quelli già esistenti di ciascuna chiesa, per cooptazione, ma dall'autorità ecclesiastica ossia dal Vescovo : « in av- venire alla partecipazione stabilita nelle chiese ricettizie siano sol- tanto ammessi quei sacerdoti e quei chierici , che dai nostri venerabili fratelli arcivescovi, vescovi o ordinari] dei luoghi rispettivi saranno trovati più commendabili o per pietà o per dottrina: quindi ordiniamo, che. (piante volte abbia ad ammettersi in dette chiese ricettizie (piai-

408 T . SCADUTO. PARTE II.

cheduno nel possesso del diritto di conseguire la stabilita porzione. si faccia prima esperimento dell'ingegno e dei costami di coloro che desiderino esservi ammessi, e si istituisca di essi l'esame in presenza degli stessi ordinarli e dei loro viearii generali e almeno di tre esa- minatori sinodali; eseguito il quale esame, Y Ordinario elegge quelli ehe in sua coscienza e integrità conoscerà più degni, e li metta nel pos- sesso del diritto ili conseguire la stabilita porzione. Costoro . in tal modo eletti, e ninniti della commendatizia del loro Ordinario, che li dichiari aggregati ed ascritti alla tale determinata chiesa ricetti zia, e posti nel po*se**o del di ritto di c*>H#egnirne le stabilite porzioni , noi vogliamo che tali siano riconosciuti ».

Xel secolo XVIII allorché gli enti ecclesiastici erano ancora nel godimento della esenzione dalle imposte, nn altro elemento della lai- calità delle ricettizie consisteva appunto nella mancanza di tale godi- mento. Ma nell'epoca del concordato del 1818 questa cosiddetta im- munità reale era scomparsa completamente. Perciò dicevamo, che colla Bolla Inipensa 13 agosto 1810, sostituendosi al diritto dei partecipanti di nominare quello del Vescovo, le ricettizie sostanzialmente si tra- sformavano da laicali in ecclesiastiche . giacche questo rappresentava l'ultimo elemento essenziale di laicalità.

Così, sostanzialmente, scompariva anche la differenza fra ricettizie e collegiate : un tempo le prime , laicali rispetto alla non esenzione dalle imposte ed alla nomina per cooptazione; le seconde sempre ec- clesiastiche, un temp«> per la esenzione dalle imposte e per la nomina dei canonici da parte dell'autorità ecclesiastica . ora soltanto per la nomina.

La distinzione tra ricettizie collegiate « quoad honores tantum » e collegiate vere e proprie aveva ragione di esistere nei due suddetti elementi i-elativi alla imponibilità ed alla nomina; oggi non più. giacché i detti elementi eran venuti meno. !Xè ora era il caso di distinguere la collegiata « quoad honores » da quella « quoad honores et jura »: giacche la collegiata diritti speciali, di fi-onte ad altri enti ecclesia- stici . non ne gode : non tiene la cosidetta « jurisdietio » : non tiene altro che diritti onorifici, non diversi da quelli che tenevano nel se- colo XVIII le ricettizie trasformate in cosidette * collegiate quoad honores tantum ». Perciò . se in alcuni decreti posteriori alla Bolla Impensa 13 agosto 1810 si parla di « diritti » oltre che di « onori » di ricettizie trasformate in collegiate, tali pretesi diritti . distinti da quelli onorifici, sono una mera lustra, non rappresentano nulla di concreto, nulla di giuridico.

Ci si potrebbe osservare, che questa bolla, trasformatoria delle

PARTE II. ABROGAZIONE PELLE TRASFORMAZIONI OELLE RICETTIZIE. 409

rieettizie da laicali in ecclesiastici, resa obbligatoria con decreto reale 7 settembre 1811*. non rappresenti una « convenzione stipulata tra il cessato Governo delle Due Sicilie e la (orti- Romana », ne una « dispo- sizione e provvedimento ili esecuzione . che sia dipendente dalla con- venzione medesima »: sicché non sarebbe stata abrogata col decreto luogotenenziale 17 febbraio 1861, u. 248.

Questo però parla non semplicemente di « concordato ». ma anche di « convenzioni ». quantunque «stipulate tra il cessato Governo delle Due Sicilie e la Corte Romana » . e parla pure di « disposizioni" e provvedimenti di esecuzione ». Cioè contempla non solo i concordati veri e proprii, ossia stipulati nelle forme diplomatiche . ma anche i concordati per così dire di fatto, cioè le convenzioni stipulate senza forma diplomatica, semine, si sottointende rispetto a queste ultime, in quanto siano lesive «lei « diritti inerenti alla i>olitica Sovranità dello Stato » (decreto 17 febbraio 1801, art. 1 .

Ora . che la laicalità delle rieettizie si ritenesse inerente ai di- ritti essenziali dello Stato . secondo il concetto che dei medesimi si aveva nel 1861 e nel secolo XVIII, è fuori dubbio. Resta quindi a vedere, se la Bolla Inipensa ed il relativo decreto Reale che ne or- dina l'osservanza, rappresentino una «^ convenzione » tra la S. Sede ed il Re. o se invece ciascuna delle due parti abbia disposto \k-y conto proprio, la S. Sede di sua iniziativa, il Re approvando senza previa intesa.

Il testo della stessa bolla dimostra, che è vera la prima ipotesi. cioè che si tratti di « una convenzione » . di un'aggiunta al concor- dato del 1818, quantunque fatta senza le forme diplomatiche vere e proprie, solenni.

Infatti . nella bolla si premette che il Re abbia fatto osservare al Papa la convenienza di disporre l'accennata riforma delle rieettizie: si aggiunge che « poiché nell" ultimo Concordato non trovasi alcuna disposizione particolarmente data a riguardo delle chiese rieettizie. abbiamo trovato conveniente di aderire al desiderio manifestato dal Sovrano e di provvedere colla nostra autorità apostolica ». Riferiamo il passo : <.< Egli e perciò che volenterosi abitiamo accolti» le preghiere che il Nostro Carissimo tiglio in Cristo Ferdinando 1. Re del Regno delle Due Sicilie, ha disi>osto che si fossero da noi dati gli opportuni provvedimenti per la più utile amministrazione di quelle Chiese che appellansi Rieettizie. esistenti nei suoi domi ni i al «li qua del Faro. Or egli ci ha fatto esporre esservi di tali Chiese Rieettizie. delle quali altre Numerate son dette, secondo che sono ivi ammessi o un deter- minato numero di Ministri, o generalmente tutti i preti del luogo, e

410 V. SCADUTO.

queste della proprietà de' fedeli arricchite di congrue rendite da di- stribuirsi prò rata a testa tra coloro che addetti sono al servizio di essa, e precisamente alla cura delle anime per lo più alle medesime Chiese annesse; ed esser però necessario che si prescrivesse qualche norma secondo la quale, tolta via ogni accettazione di persone, asse- gnassero alle indicate Chiese ricettizie tali ecclesiastici, i quali sareb- bero per ricevere le porzioni destinate, o mensualmente o annualmente; ma che commendabili essendo per pietà, per dottrina o per prudenza fossero in grado di disimpegnare ottimamente i loro doveri in utilità e vantaggio de' fedeli; ed a tale oggetto ricercarsi la nostra autorità apostolica, perchè una tal norma si stabilisca , e che dagli ordinarli de' luoghi , dai noi loro commessa , accuratamente si osservasse. Avendo noi quindi ravvisato che questo desiderio del piissimo Sovrano sarebbe stato per tornare a sommo vantaggio delle anime, e maggior decoro delle medesime chiese, abbiamo stimato annuirvi, senza esita- zione alcuna; e poiché nell'ultimo Concordato conchiuso con la prefata Maestà Sua non trovasi alcuna disposizione particolarmente data a riguardo delle Chiese Ricettizie, abbiamo trovato conveniente il prov- vedere con la nostra autorità apostolica alla più vantaggiosa ammi- nistrazione delle j>redette Chiese in quella misura che nel Nome del Signore abbiam giudicato più propria ».

§ 3. Posto che la Bolla Impensa ed il relativo decreto Reale rap- presentano una delle « convenzioni », di cui parla, abrogandole, l'art. 1 del decreto luogotenenziale 17 febbraio 1861 , segue che il periodo sulle ricettizie collocato in fine dell'art. 2 del medesimo decreto luo- gotenenziale ha carattere esplicativo, e non tassativo. Spieghiamoci. Stabilitosi nell'art. 1, che il Concordato 1818 e le altre convenzioni ecc. sono abrogati , nell' art. 2 si soggiunge che si richiama in vigore il diritto anteriore, e poi si dice : « Quanto alle chiese ricettizie , sono ripristinate in vigore le disposizioni contenute nel Real dispaccio del 20 agosto 1797 ». Ora, posto il carattere esplicativo di questa pro- posizione, segue che la Bolla Impensa ed il decreto Beale relativo sono considerati come « convenzione », perciò abrogati, e non solo essi, ma anche tutte le « disposizioni e provvedimenti di esecuzione » dei me- desimi, quindi anche tutte le trasformazioni delle ricettizie in colle- giate fatte in seguito agli stessi. Dunque non si tratta soltanto di richiamo in vigore del Beai dispaccio 20 agosto 171)7, ma addirittura di abrogazione della bolla e relativo decreto reale, nonché di tutte le disposizioni e provvedimenti di esecuzione dei medesimi : perciò anche quelli o quelle parti che non contraddicono al real dispaccio 171)7, si

PARTE II. ABROGAZIOBE DELLE TRASFORMAZIONI DELLE HICETTIZIE. 411

intendono, ciò non ostante, abrogati; e, se l'argomento si trova con- templato iu altre disposizioni anteriori indipendenti dal detto dispaccio 171)7, esse si intendono pure richiamate in vigore : sicché è richiamato in vigore non soltanto il dispaccio 171)7, ma anche altre disposizioni anteriori o posteriori al medesimo che non siano in contraddi/ione con lo stesso: nel decreto luogotenenziale abrogatorio 17 febbraio 180] si parla del dispaccio 171)7 soltanto, perchè, in fatto, esso riassumeva tutto il diritto pubblico giuri sdizionalista sulle ricettizie anteriore al Concordato 1818 , e perchè tale diritto non era stato modificato tra il 1797 ed il 1818 : ma, se ciò spiega l'accenno speciale ed esclusivo al Reale dispaccio 20 agosto 171)7 nell'art. 2 del decreto luogotenen- ziale 17 febbraio 1861, non esclude che, a rigore d'interpretazione, si intende richiamato in vigore tutto il diritto pubblico sulle ricettizie anteriore al concordato 1818 : questa distinzione in fatto è pura- mente teorica; giacché , siccome vedemmo , discendendo dal concetto che la bolla Impensa ed il relativo decreto reale costituiscono conven- zione , porta la conseguenza che sono abolite anche le « disposizioni e provvedimenti di esecuzione » , che perciò debbono ritenersi abro- gate le trasformazioni delle ricettizie in collegiate, e deve perciò am- mettersi il diritto dei comuni sulle rendite delle medesime giusta la legge 15 agosto 1807, art. 2, diritto che altrimenti potrebbe preten- dersi escluso.

§ 4. Alla nostra interpretazione , che le disposizioni sulle ricet- tizie, posteriori al concordato 1818, siano dipendenti dal concordato medesimo, contraddice la dicasteriale 20 giugno 1SIJ1 per le provincie napoletane, emanata dal Ministro di Grazia e Giustizia e Culti della Luogotenenza, Mancini, dicasteriale che chiarimenti sulla intelli- genza bell'art. 2 del decreto luogotenenziale 17 febbraio 1861, n. 218, abolitivo del concordato del 1818. Essa dice : « D'altronde le RR. Istru- zioni del 1823 e le altre posteriori disposizioni riguardanti le chiese ricettizie emanarono dalla civile sovranità nell' esercizio delle proprie prerogative , senza necessaria dipendenza dal Concordato con la Sede Pontificia; e quindi non possono ritenersi abrogate, se non in (pianto possono scorgersi in qualche parte inconciliabili col R. Dispaccio del 171)7, dalla stessa civile potestà richiamato in vigore ».

Xoi abbiamo invece dimostrato la dipendenza.

Del resto nella specie possiamo prescindere da questa quistione generale. Giacche la circolare Mancini nega l'abrogazione delle dispo- sizioni posteriori al Concordato, non in modo assoluto, ma, come ri- sulta dal testo del Decreto-legge luogotenenziale 17 febbraio 1801,

412 F. SCADUTO. PARTE II.

testualmente, solo in quanto non siano contraddittorie col R. Dispaccio 2<; agosto 1797 : o, più precisamente, il detto decreto luogotenenziale 17 febbraio 1861 testualmente richiama in vigore il E. Dispaccio 2G agosto 1797, e la questione resta solo sulle altre disposizioni poste- riori al Concordato 1818, che mai non siano in contraddizione col Dispaccio 26 agosto 1797.

Aggiungiamo che la specie, che dette occasione alla circolare Man- cini, non è la trasformazione delle ricettizie in collegiate , ma la nu- merazione e la divisione delle partecipazioni in maggiori e minori, e la conclusione della circolare stessa riflette solo questi due punti : « In conseguenza, per la retta applicazione dell' art. 2 del citato de- creto 17 febbraio 1861, mentre è richiamato in osservanza il dispaccio del 26 agosto 1797 , deve restar fermo quanto altro finora è stato disposto circa le chiese ricettizie di queste provincie, tanto per man- tenerle numerate e regolate dei proprii statuti, salvo le possibili ul- teriori modificazioni dei piani e degli statuti medesimi , quanto per la divisione delle partecipazioni in maggiori e minori , per la loro idoneità a servire di titolo canonico di promozione agli ordini, e per lo prelevamento delle congrue parrocchiali dalla massa ».

Ancora. Il Mancini considera che su questi due punti principali, e sopra altri accennati nel passo riferito, non vi sia del resto contrad- dizione, anzi vi sia conformità, fra le disposizioni posteriori al con- cordato da una parte ed il E. Dispaccio 26 agosto 1797 dall' altra.

Dunque la circolare Mancini non riflette la laicalità delle ricet- tizie, esplicitamente; anzi, implicitamente, la riflette , in quanto con- ferma (e di fronte al testo dell' art. 2 del Decreto-legge luogotenen- ziale 17 febbraio L861 non avrebbe potuto fare altrimenti) il richiamo in vigore del dispaccio 1797, nel quale appunto precisamente è con- fermata la detta laicalità.

Sicché, indipendentemente dalla tesi, che le disposizioni sulle ri- cettizie, posteriori al concordato 1818 sono dipendenza del medesimo, basta il richiamo in vigore dei dispaccio 26 agosto 1797 , richiamo testualmente fatto col decreto luogotenenziale 17 febbraio 1861 e con- fermato colla circolare Mancini 20 giugno 1861 , per concludere che le trasformazioni delle ricettizie in collegiate, avvenute dopo il 1818, sono « convenzioni, » o « provvedimenti di esecuzione » del concordato, o, ad ogni modo, contraddittorie al dispaccio 26 agosto 1797; e quindi, ad ogni modo, abrogate col decreto luogotenenziale 17 febbraio 1861.

§. 5. Eesta a dimostrare la detta contraddittorietà, ossia che le ricettizie, secondo il dispaccio 26 agosto 1797 sono enti laicali, e non ecclesiastici.

PARTE II. ABROGAZIONE DELLE TRASFORMAZIONI DELLE RICETTIZIE. 413

Il ripetuto dispaccio non solo considera le ricettizie quali enti laicali , ma ritiene che la trasformazione in collegiate implicherebbe ecclesiasticità , quindi la vieta , e la permette solo « quoad honores tantum » cioè in quanto possano ottenere gli onori di collegiate senza per altro perdere la natura essenziale di ricettizie e perciò di enti laicali.

E su questo riguardo il dispaccio 26 agosto 1797 è pienamente conforme alla legislazione anteriore, rispetto alla quale perciò non fa altro che confermarla.

Giuridicamente a noi basterebbe di riferire i passi del detto di- spaccio relativi ai detti due punti della laicalità delle ricettizie e della non trasformabilità delle medesime in vere e proprie collegiate. Ma, per abbondanza di prova, riferiremo anche i dispacci anteriori, i quali nettamente e ripetutamente sanciscono tali principii.

Facciamo lo spoglio dal Gatta Diego, « Regali dispacci, nelli quali si contengono le sovrane determinazioni dei punti generali, o che ser- vono di norma ad altri simili casi , nel Regno di Napoli » , Napoli, 1773-77; parte I, tomo I, titolo XXVIII , dispacci 3-6 ; tomo 4 , ti- tolo 31, dispacci 1-6, 9, 22.

1757, settembre, 20. Parte I , tomo I, titolo 28, dispaccio 3. Ru- brica : « Si ordina dalla Maestà del Re , che nelle chiese ricettizie curate e non curate li primiceriati, cantorati , decanati e simili non sono benetìzi, ma semplici e meri uffizi, titoli di onorificenza e pre- cedenza solamente e dignità ventose. Perciò nelle provviste di quelli nessun diritto o ingerenza ha la Corte di Roma , ne l'Ordinario del luogo, ma la elezione spetta alli soli partecipanti dello stesso ceto di essi, nella stessa forma e mainerà , che gli compete nello ammettere li preti patrimoniali alla partecipazione ; purché non vi sia annesso lo esercizio della cura delle anime , nel (piai caso solamente spetta all' Ordinario il diritto di esaminare e approvare lo eletto dalli par- tecipanti ».

175!), luglio, 20. Ibidem, dispaccio 4, idem.

1766, agosto, 2. Ibidem, dispaccio 5. idem.

1700, agosto, 9. Ibidem, dispaccio 7. idem.

1750, dicembre, 20, tomo IV, titolo 31 , dispaccio 1, pagg. 1-2. Rubrica : « Si proibisce erigersi in collegiata la chiesa curata ricet- tizia di S. Agata di Reggio ».

1753, luglio. 22. Ibidem, dispaccio 2. pag. 2. Rubrica : « Si nega il R. Exequatur alla bolla di Roma , con la quale si voleva erigere in collegiata la chiesa ricettizia curata di S. Giovanni Rotondo ».

1750, aprile, 27. Ibidem, dispaccio 3, pagg. 3-4. Rubrica : « Il Re

414 F. SCADUTO. PARTE II.

permette che una parrocchia , ossia un benefizio parrocchiale, si com- muti in chiesa ricettizia : perchè li beni da ecclesiastici ritornino alla natura e stato laicale. E ordina che, fatta questa commutazione, non possa mai più mutarsi questo nuovo stato , e le porzioni dei parte- cipanti sieno meramente temporali. Che queste mai potessero pren- dere la qualità di benefizio ecclesiastico. E finalmente dichiara , che colli benefizi ecclesiastici niente hanno che fare le chiese ricettizie ».

1756, luglio, 24. Ibidem, dispaccio 4 , pag. 5. Rubrica : « Il Re permise alli cleri delle chiese ricettizie di S. Maria in Silvis lo uso delle insegne, che il Vescovo a loro aveva conceduto. Ma colla espressa condizione, che per lo uso di quella o di qualunque altra onorificenza non mai possono le divisate chiese qualificarsi colli loro cleri per col- legiate e canonici, anche puramente onorarii e di solo titolo; ma ri- maner sempre nel perpetuo stato attuale di chiese ricettizie aperte innumerate, e quelli preti meri partecipanti : perchè la insegna il nome fa il canonico ».

1757, settembre, 20. Ibidem, dispaccio 5, pagg. Q-S. Rubrica : « Si ordina dalla Maestà del Re, che nelle chiese ricettizie curate e non curate i primiceriati , cantorati , decanati e simili non sono benefizi ecclesiastici o prebende erette in titolo , ma semplici e meri uffizi, titoli di onorificenza e precedenza e dignità ventose. Perciò nelle prov- viste di quelli nessun diritto e ingerenza ha la Corte di Roma , l'Ordinario del luogo, ina la elezione spetta alli soli partecipanti, da cadere nelle persone dello stesso di loro ceto , nella stessa forma e maniera , che a essi appartiene il dritto di ammettere i preti patri- moniali alla partecipazione. Purché non vi sia annesso lo esercizio della cura delle anime, nel qual caso solamente spetta all'Ordinario il dritto di esaminare e approvare lo eletto del clero partecipante, presso cui risiede la cura primaria ed ordinaria ».

1759, maggio, 25. Ibidem, dispaccio 6, pagg. 9-11. Rubrica : « Il Re permette una chiesa parrocchiale commutarsi in ricettizia, e as- segnarsi a quella le rendite delle cappelle e luoghi pii laicali; sul ri- flesso che, essendo la chiesa ricettizia di sua natura laicale, li beni delle cappelle e luoghi pii laicali rimangono della stessa natura e qua- lità laicale e temporale, e non si pregiudica la regalia , la re- gale giurisdizione, lo Stato ».

1760, agosto, 23. Ibidem, dispaccio 9, pagg. 14-15. Rubrica :.« Si ordina che nelle partecipazioni o siano porzioni delli partecipanti delle chiese ricettizie non dee praticarsi alcuna sollennità di possesso, altra formalità : perchè non sono benefizii ».

1774, agosto, 6. Ibidem, dispaccio 22, pagg. 30-32. Rubrica : « Per

PARTE II. ABROGAZIONE DELLE TRASFORMAZIONI DELLE RICETTIZIE. 415

hi chiesa matrice della terra di (Calatone il Re ha comandato » di

quanti debba essere il numero dei partecipanti; e soggiunge « senza dipendere ne dalla Corte di Roma, ne dal Vescovo per tali provviste ». Ed ora veniamo al Reale dispaccio 20 agosto 1707: (Giustiniani Lorenzo), « Nuova collezione delle prammatiche del Regno di Napoli », Napoli, 1803-1805, tomo 3, titolo 07, dispaccio .'50, pagg. 370-73. Esso, nell'art. 1, conferma il detto principio che le ricettizie, anche se de- corate di onorificenze collegiali, dovranno sempre conservare la natura di ricettizie, e spiega che perciò debbano essere sempre considerate come enti laicali, e soggette ai tributi, e libere dall'autorità ecclesia- stica nella nomina alle partecipazioni : « I. Che le partecipazioni delle rendite delle sole chiese vere ricettizie , o numerate , o innumerate, ancorché fossero decorate di titoli di dignità di semplice e puro nome, dovranno in ogni futuro tempo conservare la natura, e qualità di puri beni laicali, senz'alani carattere di be?iefìcii ecclesiastici, siccome sono state dichiarate colle precedenti sentenze di magistrati, e con Sovrane risoluzioni, che S. M. conferma in quest'occasione. E quindi saranno soggette a pagare i pesi pubblici a tenore del Concordato, delle Istru- zioni Camerali e degli ultimi Reali Stabilimenti. Non dovranno esser mai divise in quote, o once; e non saranno mai sottoposte , (piando dovranno esser provvedute, ad interposizioni di decreti, e spedizione di Bolle delle curie ecclesiastiche e della Dataria Romana ».

§ G. Sicilia.

L'art. 2, comma ultimo, della legge lo agosto 1807, che devolve ai Comuni la rendita delle ricettizie curate , riflette tutto il Regno, quantunque, in fatto, le ricettizie fossero assai più numerose nelle Provincie napoletane.

Le sovracennate disposizioni, sulle ricettizie, posteriori al Con- cordato 1818 tra la S. Sede ed il Re del Regno delle Due Sicilie, riguardano solo le provincie napoletane, siccome è detto espressamente nelle disposizioni medesime. Similmente l'abrogazione del Concordato 1818 fu, col Decreto luogotenenziale 27 febbraio 1801, disposta solo per le provincie napoletane.

Inoltre le disposizioni anteriori al Concordato ISIS sopra riferite pare che siano state pubblicate pure solo nelle provincie napoletane, e non anche in Sicilia.

Da questi dati segue :

1. Che tutte le quistioni , sopra esaminate, relative alla dipen- denza o meno, dal Concordato 1818, delie disposizioni posteriori al medesimo, ed alla abrogazione delle medesime, ed al richiamo in vi- gore delle disposizioni anteriori, sono estranee all'Isola di Sicilia.

416 V. SCADUTO. PARTR II.

2. Che, in mancanza di. disposizioni speciali tassative per l'Isola di Sicilia, ritenendo il principio generale della laicalità delle ricetti zie confermato colla legge 15 agosto 1867, è applicabile anche all'Isola di Sicilia, come a qualsiasi altra regione del Regno, la devoluzione <lelle rendite delle ricettizie curate ai comuni.

3. Che nella ipotesi che una ricettizia prima della legge 15 ago- sto 1807 sia stata trasformata in vera e propria collegiata, non può, diversamente che nel Napoletano, aver luogo la devoluzione a favore dei comuni ne in Sicilia ne in altre parti del Eegno.

Napoli.

Francesco Scaduto.

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