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Full text of "Miscellanea di archeologia, storia e filologia dedicata al Prof. Antonino Salinas nel LX anniversario del suo insegnamento accademico"

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5^<  A 


MISCELLANEA  SALINAS. 


Miscellanea 


DI 


ARCHEOLOGIA,  STORIA 


e  FILOLOGIA 


DEDICATA  AL 


Prof.  ANTONINO  SALINAS 

NEL  XL   ANNIVERSARIO 
DEL  SUO  INSEGNAMENTO  ACCADEMICO. 


PALERMO. 

STABILIMENTO  TIPOGRAFICO  YIRZÌ. 
MDCCCCVII. 


THE  GETTY  RESEARCH 
INSTITUTE  !  I"-"oy 


ANTONINO  •  SALINAS 

VIRO  •  DE  •  REBVS  •  SICVLIS  •  OPTVME  •  MERITO 

AMICI  •  CONLEGAE  •  DISCIPVLI 

QVORVM  •  NOMINA  •  SVBSCRIPTA  •  SVNT 

OB • EXACTVM 

QVADRAGENS1MVM  •  ANNVM 

MAGISTERO -EIVS 

D-D-D 


Contessa  Maria  Airoldi -Palermo. 

Prof.  Carl  Aldenhoven,  Direkt.  d.  Museums  Wallraf-RichaHz  -  Kòln. 

Conim.  Michele  Amato  Poiero,  Senatore  del  Regno  -  Palermo. 

t  Doti.  Solone  Ambrosoli,  Direti.  d.  Gabbi.  Numism.  di  Brera  -  Milano. 

B.ne  G.  Arenaprimo  di  Montechiaro  -  Messina. 

March.  Orazio  Arezzo  -  Palermo. 

B.ne  G.  Atenasio  di  Montededero  -  Palermo. 

t  Comm.  Arcano.  Baglio  -  Palermo. 

Conte  Ugo  Balzani,  Presid.  d.  Società  di  Storia  Patria  -Roma. 

t  Comm.  Nob.NicoLÒ  Barozzi,  Dirett. del  Museo  del  Palazzo  Ducale-Venezia. 

Gr.  Uff.  Prof.  Ernesto  Basile,  della  R.  Scuola  di  Applicazione  -Palermo. 

Prof.  Giovanni  Baviera,  della  R.  Università  di  Palermo. 

Prof.  Vittore  Bellio,  della  R.  Università  di  Pavia. 

Prof.  Giulio  Beloch,  della  R.  Università  di  Roma. 

Dott.  Prof.  Otto  Benndorf,  Direct,  d.  K.  K.  Oesterr.  Ardi.  Instituts  -  Vienna. 

Prof.  Cosimo  Bertacchi,  della  R.  Università  di  Palermo. 

Prof.  Enrico  Besta,  della  R.  Università  di  Palermo. 

Senatore  Prof.  Pietro  Blaserna,  Presid.  della  R.  Acc.  dei  Lincei  -  Roma. 

Dott.  Prof.  Pietro  Boccone  -  Palermo. 

Prof.  Gaston  Boissier,  Secret,  perp.  de  l'Acadcmie  Francaise  •  Parigi. 


—  VI  — 

Gr.  Cord.  Prof.  Camillo  Boito  ,  dell' Accad.  scientifico-letteraria  -  Milano. 

Cav.  Ing.  Giovanni  Bonadonna,  R.  Ispett.  dei  Monumenti  -Taormina. 

B.ne  G.  Chiaramonte  Bordonaro,  Senatore  del  Regno  -  Palermo. 

Comm.  Prof.  Antonino  Borzì,  della  R.  Università  di  Palermo. 

Monsignor  Gaspare  Bova,   Vescovo  di  Samaria  -  Palermo. 

Dr.  Charles  Buls,  ancien  Bour ginestre  de  la  ville  de  Bruxelles. 

Cav.  Prof.  Vincenzo  Casagrandi,  della  R.  Università  di  Catania. 

Cav.  Prof.  Giov.  Alfr.  Cesareo,  della  R.  Università  di  Palermo. 

Cav.  Prof.  Saverio  Ciofalo,  R.  Ispett.  dei  Monumenti  -  Termini. 

Baronessa  Anna  Ciotti- Palermo. 

Cav.  Ferdinando  Ciotti  -  Palermo. 

Cav.  Luigi  Ciottì- Palermo. 

Comm.  Avv.  P.  Ciotti-Grasso  -  Palermo. 

M.  Jules  Claretie.  de  V Académie  Franqaise  -  Parigi. 

Comm.  Prof.  Enrico  Cocchia,  della  R.  Università  dì  Napoli. 

Cav.  Ferd.  Colonna  di  Stigliano,  R.  Ispett.  dei  Monumenti  -  Napoli. 

Prof.  Giovanni  Colozza,  della  R.  Università  di  Palermo. 

Benedetto  Columba  -  Sortino. 

Prof.  Gaetano  Mario  Columba,  della  R.  Università  di  Palermo. 

Cav.  Ing.  A.  Coppola  -  Palermo. 

Ten.  Generale  Carlo  Corticelli  ,  Comandante  la  Divisione  dì  Palermo. 

Prof.  Innocenzo  Dall'Osso,  Ispett.  nel  Museo  Nazionale  di  Napoli. 

Comm.  Prof.  G.  Damiani  Almeyda,  della  R.  Scuola  di  Applicazio?iePa\?vmo. 

Gr.  Uff.  Alfredo  d'Andrade,  Direlt.  dell'Ufficio  dei  Monumenti  -Torino. 

March.  Prof.  G.  de  Gregorio,  della  R.  Università  di  Palermo. 

A.  J.  Delattre,  des  Pères  Blancs,  Direct,  du  Musée  Lavìgerie  de  S.  Louis 

de  Carthage. 
Prof.  Attilio  De  Marchi,  dell'Accademia  scientifico-letteraria  -  Milano. 
Comm.  Girolamo  De  Martino,  Senatore  del  Regno  -  Palermo. 
V.  De  Pace  -  Chiusa-Sclafani. 

Comm.  Prof.  Giulio  de  Petra,  della  R.  Università  -  Napoli. 
Prof.  Gaetano  De  Sanctis,  della  R.  Università  -  Torino. 
Cav.  Avv.  Cal.  de  Stefani,  R.  Ispett.  dei  Monumenti  -  Sciacca. 
Ing.  Angelo  Di  Bartolo,  R.  Ispett.  dei  Monumenti  -  Terranova. 
Comm.  Fr.  Di  Bartolo  -  Catania. 

Prof.  Hermann  Diels,  Rettore  dell'  Università  di  Berlino. 
Prof.  Mattia  di  Martino- Noto. 

Monsignor  Gioacch.  Di  Marzo,  BibliotecarioCapo  della  Comunale  Palermo. 
S.  E.  il  March.  Antonino   di   S.  Giuliano  ,  Ambasciatore   di   S.  M.  il  Re 

d'Italia  -  Londra. 
Visconte  Melch.  de  Vogué,  de  Vlnstitut  de  France  -  Parigi. 
Prof.  Wilhelm  Doerpfeld,  Sekretàr  d.  K.  D.  Archàol.  Instituts  -  Atene. 
Prof.  Friederich  v.  Duhn,  dell'Università  di  Heidelberg. 
Dott.  Prof.  Matteo  Enia  -  Mazzara. 
Dott.  Prof.  Vinc.  Epifanio  -  Monreale. 
Prof.  Federico  Eusebio  della  R.  Università  di  Genova. 
Conte  Don  Guido  Falconieri  di  Carpegna,  Senatore  del  Regno  ■  Roma. 
Prof.  Pio  Carlo  Falletti,  della  R.  Università  di  Bologna. 
Cav.  G-  Emmanuele  Fazio  -  Palermo. 


—  VII  — 

S.  E.  il  Comm.  Gaspare  Finali,  Presidente  della  Corte  dei  Conti,  Sena- 
tore del  Regno  -  Roma. 
Prof.  Giuseppe  Fraccaroli,  della  R.  Università  di  Torino. 
Doct.  G.  Wilhelm  Froehner  -  Parigi. 

Prof.  Fausto  Gherardo  Fumi,  della  R.  Università  di  Genova. 
Don.  Prof.  Eugenio  Fusco  -  Noto. 

Dott.  Prof.  Ettore  Gabrio,  del  Museo  Nazionale  di  Napoli. 
Prof.  Carlo  Alberto  Garufi  della  R.  Università  di  Palermo. 
Dott.  Prof.  R.  Gerbasi  -  Palermo. 
Cav.  A.  Giannitrapani  -  Trapani. 
Prof.  Giacomo  Giri,  della  R.  Università  di  Roma. 
Dott.  Prof.  Ugo  Giri -Roma. 

Prof.  Liborio  Giuffrè,  della  R.  Università  di  Palermo. 
Comm.  Ercole  Gnecchi  -  Milano. 
Cav.  Francesco  Gnecchi  ■  Milano. 
Antonino  Grassi-Grassi  -  Acireale. 

Carlo  F.  Gray,   Vice-Console  di  S.  M.  Britannica-  Marsala. 
Comm.  Prof.  Andrea  Guarneri,  Senatore  del  Regno,  Presid.  della  Soc.  Sic. 

di  Storia  Patria  -  Palermo. 
Colonn.  Giov.  Guarneri  -  Palermo. 

Prof.  Cosmo  Guastella,  della  R.  Università  di  Palermo. 
Prof.  Nob.  G.  B.  Guccia,  della  R.  Università  di  Palermo. 
Miss  Malet  Hill- Taormina. 

Prof.  Doct.  Christian  Huelsen,  Sekretàr  d.  K.  D.  Archàol.  Instituts- Roma. 
Doct.  Fr.  Imhoof-Blumer  -  Winterthur. 
Prof.  G.  Impallara  -  Palermo. 
Prof.  Georg  Karo,  dell'  Università  di  Bonn. 
Prof.  R.  Kekule  von  Stradonitz,  dell'Università  di  Berlino. 
Prof.  Karl  Krumbacher,  dell'  Università  di  Monaco  (Baviera). 
Comm.  G.  La  Farina,  Presid.  della  Camera  di  Commercio  -  Palermo. 
Monsignor  Bartolomeo  Lagumina,   Vescovo  di  Girgenti. 
Canon.  Prof.  Gius.  Lagumina  -  Palermo. 
Prof.  Spiridion  Lambros,  Rettore  dell'  Università  di  Atene. 
Dott.  Franc.  La  Mantia  -  Palermo. 
Dott.  Gius.  La  Mantia  -  Palermo. 
Prof.  Giorgio  Lampakis,  dell' Università  di  Atene. 
t  On.  Ignazio  Lampiasi,  Deputato  al  Parlamento  -  Trapani. 
Avv.  Domenico  Lanza  -  Palermo. 
Conte  G.  Lanza  di  Mazzarino  -  Palermo. 

Princ.  P.  Lanza  di  Trabia  e  di  Butera,  Deputato  al  Parlamento  -  Palermo. 
Comm.  Axt.  Lanzirotti,  Conserv.  nel  Museo  Nazionale  -  Palermo. 
t  On.  Giuseppe  Licata,  Deputato  al  Parlamento  -  Sciacca. 
Giuseppe  Lipari  Cascio  -  Marsala. 
Dott.  Prof.  Sante  Lo  Cascio  -  Palermo. 

Dott.  Cav.  Giuseppe  Lodi,  Segr.  Gen.  d.  Soc.  di  Storia  Patria  -  Palermo. 
Prof.  Emanuele  Loewy,  della  R.  Università  di  Roma. 
Comm.  Mariano  Lo  Faso,  Sindaco  di  Termini  Imerese. 
Comm.  Prof.  G.  Lumbroso  -  Roma. 
P.  Emmanuele  Magri  -  Gozzo  (Malta). 


—  Vili  — 

Prof.  Giovanni  Maisano,  della  R.  Università  di  Palermo. 

Dott.  Prof.  E.  Malgeri  -  Messina. 

Ing.  Pasquale  Mallandrino,  R.  Ispett.  dei  Monumenti  -  Messina. 

Comra.  Prof.  Luigi  Manfredi,  Rettore  d.  R.  Università  di  Palermo. 

B.ne  Gr.  Uff.  Antonio  Manno,  della  R.  Accademia  delle  Scienze -T 'orino. 

Coram.  Prof.  Emidio  Martini.  Llrett.  della  Biblioteca  Nazionale  -Napoli. 

Dott.  Cesare  Matranga,   Vice- Ispettore  nel  Museo  Nazionale  -  Palermo. 

Prof.  Giovanni  Melodia,  della  R.  Università  di  Catania. 

Comm.  Ing.  Filippo  Mendolia,  R.  Ispett.  dei  Monumenti  -Gii  genti. 

B.ne  G.  Merlo  di  Tripi  -  Palermo. 

Sac.  A.  Messina,  Arciprete  di  Monte  S.  Giuliano. 

Comm.  Prof.  A.  L.  Milani,  dell'  Istituto  di  Studi  Superiori,  Direttore  del 

Museo  Archeologico  -  Firenze. 
Can.  Gaetano  Millunzi,  Rettore  del  Convitto  Arcivescovile  -  Monreale. 
Cav.  Dott.  E.  Monastra  -  Palermo. 

Conte  L.  M.  Maiorca  Mortillaro  di  Francavilla  -  Palermo. 
Prof.  Carlo  Alfonso  Nallino,  della  R.  Università  di  Palermo. 
Prof.  Eduard  Naville,  dell'Università  di  Ginevra. 
Prof.  Oreste  Nazari,  della  R.  Università  di  Palermo. 
Prof.  Francesco  Novati,  dell'  Accademia  Scientifico-lettei  aria  -  Milano. 
Dott.  Prof.  Ant.  Oddo  -  Mazzara. 

Prof.  Franc.  Orestano,  della  R.   Università  di  Roma. 
Dott.  Franc.  P.  Orlando  -  Palermo. 

On.  Prof.  Vitt.  Em.  Orlando,  già  Ministro  della  P.  I.  -  Roma. 
Dott.  Prof.  Paolo  Orsi,  Dirett.  del  Museo  Archeologico  di  Siracusa. 
Biagio  Pace  -  Palermo. 

Prof.  Ettore  Pais,  della  R.  Università  di  Napoli, 
t  Comm.  V.  Pantaleo  -  Palermo. 

Prof.  Giuseppe  Paolucci,  della  R.  Università  di  Palermo. 
Prof.  Lucio  Papa-d'Amico,  della  R.  Università  di  Palermo. 
Conte  N.  Papadopoli  Aldobrandino   Senatore  del  Regno  -  Venezia. 
Princ.  M.  Turrisi  di  Partanna  -  Palermo. 
Prof.  Carlo  Pascal,  della  R.  Università  di  Catania. 
Prof.  Ing.  L.  Paterna-Baldizzi  «Torino. 
Prof.  Giovanni  Patroni,  della  R.  Università  di  Pavia. 
Prof.  Astorre  Pellegrini  dell'  Istituto  di  Studi  Superiori  -  Firenze. 
Prof.  Giuseppe  Pennesi,  della  %.  Università  di  Padova. 
B.ne  S.  Pennisi  di  Floristella  -  Acireale. 
March.  Pennisi  di  S.  Alfano  -  Acireale. 
Conte  Agostino  Pepoli  -  Bologna, 
Prof.  Georges  Perrot,  Secrétaire perpétuel  del' Académie  des  Inscriptions 

et  BB.  LL.  -  Parigi. 
Comm.  Ing.  C.  Pintacuda  -  Palermo. 

On.  Vincenzo  Pipitone,  Deputato  al  Parlamento  -  Marsala. 
Prof.  G.  Pipitone-Federico,  della  R.  Università  di  Palermo. 
Cav.  Prof.  Francesco  Pometti,  della  R.  Università  di  Roma. 
Dott.  Prof.  Salvatore  Puccio  -  Palermo. 
Can.  Prof.  Franc.  Pulci  -  Caltanissetta. 
Comm.  Prof.  Vittorio  Puntoni,  Rettore  d.  R.  Università  di  Bologna. 


—  IX  — 

Dott.  Quintino  Quagliati,  Dirett.  ff.  del  Museo  Arheologico  -  Taranto. 

Prof.  Vincenzo  Ragusa  -  Palermo. 

Prof.  Pio  Rajna,  dell'  Istituto  di  Stadi  Superiori  -  Firenze. 

Prof.  Felice  Ramorino,  deli  Istituto  di  Studi  Superiori-  Firenze. 

Ing.  Giuseppe  R-ao,  Dirett.  ff.  dell'  Ufficio  dei  Monumenti  -  Palermo. 

Prof.  Theodore  Reinach,    V.-Prés.  de  la  Socie'té  de  Linguistique  -  Parigi. 

Prof.  Paolo  Revelli,  della  R.  Università  di  Torino. 

Prof.  Giuseppe  Ricchieri,  dell'Accademia  scientifico-letteraria  -Milano. 

Comra.  Dott.  Corrado  Ricci,  Direttore   Generale  delle  Antichità  e  Belle 

Arti-  Roma. 
Prof.  Serafino  Ricci, Dirett.  ff.  del  Gabinetto  Numismatico  di  Brera-ìlW&no. 
Prof.  Salvatore  Riccobono,  della  R.  Università  di  Palermo. 
Comin.  Avv.  D.  RiOLO-Naro. 

Prof.  Giulio  Em.  Rizzo,  Dirett.  ff.  del  Museo  Nazionale  -  Roma. 
Cav.  Giuseppe  Robbo  -  Palermo. 

Cav.  Pietro  M.  Rocca,  R.  Ispettore  dei  Monumenti  -Alcamo. 
Dott.  Prof.  A.  Romano  -  Palermo. 
Prof.  Giovanni  Battista  Rosano  -  Roma. 
Prof.  Francesco  Rossi,  della  R.  Università  di  Torino. 
Generale  Comm.  G.  Ruggero  -  Roma. 

Prof.  Remigio  Sabbadini,  dell'  Accademia  Scientifico-letteraria  -  Milano. 
Cav.  Prof.  S.  Salomone  Marino-  Palermo. 
Dott.  Prof.  A.  Sanfilippo  -  Partanna. 

Comm.  Avv.  Giacomo  Sanfilippo,  già  Deputato  al  Parlamento  -  Palermo. 
Avv.  Salv.  Sangiorgi  -  Palermo. 

Prof.  Alfonso  Sansone,  della  R.  Università  di  Palermo. 
Prof.  Luigi  Savignoni,  della  R.  Università  di  Messina. 
Prof.  Francesco  Scaduto,  della  R.  Università  di  Napoli. 
Prof.  F.  E.  Scandurra  -  Palermo. 

Prof.  Luigi  Schiaparelli,  deli  Istituto    di  Studi  Superiori  -  Firenze. 
M.  Gustave  Schlumberger,  de  ilnstitut  de  France  -  Parigi. 
Prof.  Theodor  Schreiber,  deli  Università  di  Lipsia. 
Dott.  Prof.  E.  Sclafani  -  Palermo. 

Cav.  Prof.  Giovanni  Setti,  della  R.   Università  di  Padova. 
Princ.  G.  Settimo  di  Fitalia  -  Palermo. 
Prof.  Arch.  Ambrogio  Seveso  -  Milano. 
Prof.  Luigi  Siciliano  della  R.  Università  di  Sassari. 
Comm.  Avv.  A.  Siragusa  -  Palermo. 

Comm.  Prof.  Giov.  Batt.  Siragusa,  della  R.   Università  di  Palermo. 
Prof.  Antonio  Sogliano,  Direti  degli  Scavi  di  Pompei  -  Napoli. 
Comm.  Giuseppe  Sorge,  Prefetto  della  Prov.  di  Girgenti. 
Cav.  Pietro  Spadaro  -  Palermo. 

Cav.  H.  Springer,  Console  deli  Impero  Germanico  -  Palermo. 
Prof.  Comm.  Ettore  Stampini,  del  Cons.  Sup.  deli  Istruzione,  Direttore 

della  Rivista  di  Filologia  -  Torino. 
B.ne  Gius.  Starrabba  -  Palermo. 
f  B.ne  Raff.  Starrabba  -  Palermo. 
Cav.  Avv.  Ang.  Sterlixi  -  Palermo. 
Prof.  Vincenzo  Strazzulla,  della  R.  Università  di  Palermo. 


—   X   — 

Dott.  Prof.  B.  Stumpo-Nìcosì.i. 

Prof.  J.  N.  Svoronos,  DireU-  d.  Museo  Naz.  di  Numismatica  -  Atene. 

Prof.  Giuseppe  Tarozzi,  della  R.  Università  di  Bologna. 

Cav.  Giuseppe  Tasca-Lanza,  Senatore  del  Regno,  Sindaco  di  Palermo. 

Victor  Auguste  Taunay,  Prés.  de  l'Ass.  de  la  Presse  Judiciaire  -  Parigi. 

Avv.  Antonino  Traina  -  Palermo. 

Cav.  Uff.  Giuseppe  Travali  -  Palermo. 

Giovanni  UGDULENA-Palermo. 

Comm.  Giulio  Vaccai,  Capo-Div.  al  Ministero  degli  Esteri  -  Roma. 

Comm.  Prof.  Dante  Vaglieri,  della  R.   Università  di  Roma. 

Ing.  Francesco  Valenti,  dell'Ufficio  dei  Monumenti  -  Palermo. 

Prof.  Luigi  Valmaggi,  della  R.  Università  di  Torino,  Dirett.  del  Bullet 

tino  di  Filo/,  classica. 
Comm.  F.  Varvaro-Pojero -Palermo. 

Comm.  Prof.  Adolfo  Venturi,  della  R.  Università  di  Roma. 
Prof.  Pasquale  Villari,  Senatore  del  Regno  -  Firenze. 
Cav.  Ortensio  Vitalini  -  Roma. 
Dott.  Prof.  E.  Vitrano  -  Palermo. 
Prof.  Nicola  Vulic',  dell'  Università  di  Belgrado. 
Comm.  G.  I.  S.  Whitaker  -  Palermo. 
Dott.  Prof.  C.  Natalia  Zappulla  -  Palermo. 
Prof.  Nicola  Zingarelli,  della  R.  Università  di  Palermo. 
Cav.  Prof.  Carlo  Oreste  Zuretti,  della  R.  Università  di  Palei  ino. 


PUBBLICAZIONI  SCIENTIFICHE 
l  »  1  v  I  -     PROF.     ANTONINO     SAIvINAS 

(sino  a  tutto  il  1905). 


abbrkviazfoxi  :  —  AICA  (=  Annali  deìV Istituto  di  corrispondenza  archeologica,  Komal; 
ASS  (-  Archivio  Storico  Siciliano,  Palermo);  BC  (--  Ballettino  della  Commi ssioue  di  anti- 
chità e  belle  arti,  Palermo):  LP  (=  La  Favilla.  Palermo.  Lio);  NMICA  (=-  Nuove  memorie 
dell'Istituto  etc,  Lipsia,  Krockhaus);  NdS  (=-  Xotizie  degli  Scavi.  Roma):  PUS  (—  Perio- 
dico di  numismatica  e  di  sfragistica.  Firenze,  Rieci);  SA  (=  Rcrue  urchéoloyiquc  Paris, 
Didier):  SL  (=  Rendiconti  dell'Accademia  dei  Lincei,  Roma):  RN"  (-=  Rivista  Nazionale, 
Palermo):  KNN  (—  Berne  numismatiqne  nouvelle,  Paris.  Thunot);  Sii  (=  La  Scicna  e  la 
Letteratura,  Palermo,  Lo  Bianco):  BS  (=  Rivista  siculo,   Palermo). 


Appendice  alla  memoria  sulle  monete 
punico-sicule  delV  abate  Gregorio 
JJgdulena  ed  esame  della  stessa. 
(SL.  a.  I,   1858,  con  tavole). 

Su  di  alcune  monete  puniche  di  Mozia, 
lettera  al  barone  Pasquale  Pennisi. 
Palermo  ,  Lao  ,  1858  ,  in  8°  gr. 
con  tavv. 

Sopra  di  una  moneta  di  Intera  illu- 
strata dal  prof.  C.  Gemmellaro} 
lettera  allo  stesso  (LF.  1858,  con 
vignette) . 

Documenti  relativi  alla  Sicilia  che  con- 
servami nel  E.  Archivio  di  Torino. 
Palermo,  Lao,  1861,  in-8°  pp.  21. 

Sulla  pubblicazione  intitolata  :  Sopra 
alcune  monete  scovei'te  in  Sicilia 
che  ricordano  la  spedizione  diAga- 
tocle  in  Affrica,  meni,  del p.  G.  Ro- 
mano. Lettera  a  Fr.  S.  Scavo. 
(LF.  1863) 
Su  di  alcuni  monumenti  sepolcrali  re- 
centemente scoperti  nell'antico  Ce- 
ramico esteriore  in  Atene.  (Nella 
Gazz.  Uff.  ddBegno,  1863,  n.  153). 


I  monumenti  sepolcrali  scoperti  nei 
mesi  di  maggio  ,  giugno  e  luglio 
1863  presso  la  chiesa  della  Santa 
'Trinità  in  Atene.  Torino  ,  Eredi 
Botta,  1863,  in-fol.  pagg.  40  con 
5  tavv.  fotografiche. 

Notice  sur  deux  statues  nouvellement 
decouvertes  àAthènes  près  de  V  fla- 
gia  Trias.  (RA.  1864,  con  tavole). 

Lettre  à  Mr.  le  prof.  Gr.  Ugdulcna 
sur  deux  pièces  d?argent  portoni 
le  noni  phénicien  d'Hiniéra  et  les 
ti/pes  de  Zancle  et  d'Agrigente. 
(RNN.   1864  con  vignette). 

Notice  sur  une  monnaie  de  Camarilla 
avec  le  noni  d'Exaléstidas.  (RNN. 
1864,  con  vignette). 

Descrizione  di  una  raccolta  di  piombi 
antichi  siciliani  detti  mercantili. 
(AIC A.  1864,  con  4  tavv.  in  rame). 

Examen  de  quehpies  contret'arons  an- 
tique* des  tétradrachmes  de  Sgra- 
cuse  ,  et  du  prétendu  noni  de  gra- 
veur  Eumélus.  (RNN.  1SG4,  con 
una  tav.  in  rame). 


—  XII  — 


Nettuno  ed  Amimone  ,  pittura  di  un 
lelytlws  fjcìoo  del  B.  Museo  di  Pa- 
lermo.  (HC.  1864,  con  una  tav.  a 
colore). 
Illustrazione  di  alcune  monete  di  ar- 
gento imeresi  riconiate  a  Selinunte. 
(NMICA.  1865,  con  tav.  ia  rame; 
riprod.  nella  Rivista  Nazionale  di 
Pai.  1866). 
Pallade  in  lotta  con  giganti.  Dipinto 
arcaico  di  un  vaso  di  Gela.  (RNN. 
1866  cou  uua  tav.). 
Dello  stato  attuale  degli  studi  archeo- 
logici in  Italia  e  del  loro  avvenire. 
Prolusione  letta  addì  12  die.  1865 
nella  B.   Università  di  Palermo. 
(UN.  a.  I,  1866). 
Scavi    di    Solunto.    Primo    articolo. 

(RN.  a.  I,  1866). 
Description  d'un  dépót  de  très  petites 
monnaies  d'argent  frappées  en  Si- 
tile.  (RNN.  a.  XII,   1867). 
Di  due  monete  della  regina  Filistide, 
al  comm.  Gaetano  Daita.  Lettera. 
{La  Sicilia  a.  Ili  u.  20  1868). 
Di  due  monete  della  regina  Filistide 
donate  al  B.  Museo  di  Palermo. 
(PNS.  a.  I,  1869). 
Di  un'  antica  iscrizione  cristiana  rin- 
venuta in  Palermo,  lettera  al  cav. 
G.  B.  De  Bossi  (RS.  1869). 
L'iscrizione  di  Tallo,  donata  al  B.  Mu- 
seo   di    Palermo.  (RS.    voi.   Ili, 
a.  II,  1870). 
Catalogo  del  Museo  dell'ex  monastero 
di  S.  Martino  delle  Scale  presso 
Palermo.  Palermo,  Morvillo,  1870, 
pagg.  93  in  8°. 
Ancora  dell'iscrizione  palermitana  di 
Pietro  Alessandrino.  (RS.  1870). 


Di  due  monete  delVantica  città  di  Pa- 
ropo  in  Sicilia.  (PNS.  a.  Ili,  1870, 
con  due  vignette). 

Sul  tipo  dei  tetradrammi  di  Segesta  e 
su  di  alcune  rappresentazioni  nu- 
mismatiche di  Pane  Agreo.  (PNS. 
1870,  con  due  tavole). 

La  collezione  numismatica  posseduta 
dal  sig.  Pasquale  Pennisi.  Parte 
prima.  (Sicilia).  Palermo  ,  Lao, 
1870,  iu-4°,  pagg.  40. 

Le  monete  delle  antiche  città  di  Sicilia 
descritte  ed  illustrate.  Palermo, 
Lao,  1870,  fase.  I-VII  in-4°  gran- 
de, pagg.  XVI-52  con  XIX  tavole 
in  rame  (sino  a  Catana). 

Tre  anelli  segnatorj  con  iscrizione 
greca,  trovati  in  Sicilia.  (PNS. 
a.  Ili,  1871). 

Piombi  antichi  siciliani.  Primo  arti- 
colo. (AICA.  voi.  XXXVIII,  1871). 

Bassegna  archeologica  siciliana.  N.  1, 
2  e  3.   (RS.  1871,  con  vignette). 

Suggelli  siciliani  del  Medio  Evo.  Serie 
prima.  Suggelli  bizantini.  Paler- 
mo, Lao,  1871,  in-4°  con  34  fac- 
simili. 

Suggelli  siciliani  del  Medio  Evo.  Serie 
seconda.  Tabularlo  di  Monreale. 
Palermo  ,  Lao  ,  1871  ,  in-4°  con 
35  fac-simili. 

Sigilli  diplomatici  italo-greci.  (PNS. 
1872,  con  una  tavola  in  rame). 

Suggello  del  Comune  di  Palermo  (PNS. 
1872  con  una  tavola). 

Bassegna  archeologica  siciliana.'^. 4-7 
(RS.  1872,  con  tavole). 

Del  B.  Museo  di  Palermo.  Belazione. 
Palermo,  Lao,  in-8°,  pp.  73  con 
cinque  tavole. 


—  xm  — 


Sul  tipo  delle  teste  muliebri  nelle  mo- 
nete di  Siracusa  anteriori  al  IV 
secolo  a.  Cr.  (BC.  1873). 

Del  Museo  Nazionale  di  Palermo  e 
del  suo  avvenire.  Discorso.  Paler- 
mo, Lao,  1874,  in-8°  pp.  32. 

Sigilli  diplomatici  italo-greci.  N.  12-24 
e  25-39  (PNS.  1874  con  due  ta- 
vole). 

Breve  guida  del  Museo  Nazionale  di 
Palermo.  Palermo,  Tip.  del  *  Gior- 
nale di  Sicilia  »  ,  1875.  In-16°  , 
pp.  99  con  due  tavole. 

Frammenti  dell'  iscrizione  arabica  della 
Cuba.  Lettera  del  Prof.  Michele 
Amari  ad  A.  S.  (ASS.  1877,  a.  I). 

Le  grondaie  del  Tempio  d'Imera  con- 
servate nel  Museo  Nazionale  di  Pa- 
lermo. (ASS.  1877  con  due  tavv.). 

Catalogo  di  ghiande  missili  siciliane. 
(AICA.  1878.  cod  unatav.in  rame). 

Iscrizione  greca  di  Termini.  (NdS. 
1878). 

Il  Caduceo  degli  Imacaresi.  Cenni. 
(  Pel  cinquantesimo  anniversario 
delV Istituto  di  Corrispondenza  Ar- 
cheologica)—(ASS.  a.  Ili,  1879). 

Di  alcune  iscrizioni  del  sec.  XIII  nel 
soffitto  del  Duomo  di  Cefalh  (ASS. 
a.  IV  1880,  con  una  tavola). 

Due  iscrizioni  cefalutane  del  sec.  XIII 
(ASS.  a.  IV,  1880,  con  vignette). 

Escursione  archeologica  a  S.  Marco, 
S.  Fratello,  Patti  e  Tindari.  (NdS. 
1880). 

Di  un  preteso  Fra''  Paolo  abate  di 
S.  Maria  di  Altofonte  e  arcivescovo 
di  Monreale  nel  sec.  XIV.  (ASS. 
a.  IV,  1880). 

Necropoli  della  Ciachia  di  Capaci. 
(NdS.  1880,  con  due  tavv.). 


Di  un  documento  inedito  relativo  ad 
una  icona  fatta  dipingere  in  Cata- 
logna da  Pietro  di  Queralt  per  la 
Cattedrale  di  Monreale(ASS.  a  IV, 
1880  [pubblicazione  fatta  in  colla- 
borazione con  A.  Balaguer  y  Me- 
rino]). 

Documenti  siciliani  nelV Archivio  della 
Casa  Caetani  di  Roma.  (ASS. 
a.  V,  1881). 

Sarcofago  romano  sulla  Chiesa  di  S.  M. 
di  Gesù  presso  Palermo.  (ASS. 
a.  IV,   1881). 

Di  un  diploma  greco  del  Monastero 
di  Scilla  in  Calabria.  (ASS.  a.  IV 
1881). 

La  Ninfa  Aretusa  in  una  moneta  si- 
racusana della  Collezione  Perniisi 
di  Acireale.  Palermo,  ISSI,  pagg.  6 
in-16°. 

Camarina.  —  Memoria  del  Dr.  Giulio 
Schubrìng  tradotta  dal  tedesco. 
(ASS.  a.  VI  1882  con  una  tav.). 

Guida  popolare  del  Museo  Nazionale 
di  Palermo.  Palermo,  Tipografia 
«  Tempo  »,   1882,   con  tavole. 

La  Colonna  del  Vespro  ed  il  castello 
di  Vicari  (Bicordi  e  Documenti  del 
Vespro  siciliano.  Palermo,  1882, 
con  tre  tav.  in  fotot.  e  una  in- 
cisione). 

Escursioni  archeologiche  in  Sicilia.  I. 
Caltanissetta.  (ASS.  a.  VI,  1882). 

Bicordi  di  Selinunte  cristiana.  (ASS. 
a.  VII,  1882,  con  due  tavole). 

Di  una  pretesa  iscrizione  in  volgare 
del  mille  esistente  in  Monte  S.  Giu- 
liano. (ASS.  a.  VI,  1882). 

Cenni  intorno  ad  una  dissertazione 
sid  Vespro  Siciliano.  (ASS.  a.  VI, 
1882). 


—    XIV 


Lettere  fenicie  sulle  mura  di  Monte 
S.   Giuliano  (ASS.  a.  VII,  1883). 

Le  mura  fenicie  ài  Erice.  (NdS.  pp.  6 
con  3  tavv.). 

Escursioni  archeologiche  in  Sicilia.  II. 
Mussomeli  e  Sutera.  (ASS.  a.  VII, 
1883). 

Dei  sigilli  di  creta  rinvenuti  a  Seli- 
nunte  e  ora  conservati  nel  Museo 
Nazionale  di  Palermo.  (NdS.  1883 
pp.  27  con  7  tavv.). 

Un'  iscrizione  latina  di  Palermo  ed 
una  di  Vicari.  (NdS.  1883,  con 
2  tavv.). 

Di  un  registro  notarile  di  Giovanni 
Maiorana,  notaio  di  Monte  S.  Giu- 
liano nel  sec.  XIII.  (ASS.  a.  VIIT, 
1884,  pp.   32). 

Di  un  bozzetto  del  monumento  messi- 
nese di  Carlo  II  modellato  da  Gia- 
como Serpotta. (ASS  a.  VIII,  1884). 

Sopra  una  nuova  epigrafe  romana  di 
Naso.  (NdS.   1884). 

Paliotto  d'altare  di  S.  Cataldo.  (NdS. 
1884). 

Osservazioni  intorno  a  due  diplomi 
greci  riguardanti  la  topografia  di 
Palermo.  (ASS.  1884  a.  IX  pp.  27  |. 

Aggiunta  all'articolo  sulla  statua  di 
Carlo  II.  (ASS.  a.  IX  1884). 

Solunto  ,  ricordi  storici  ed  archeolo- 
gici. Palermo,  1884,  pp.  33  in-16° 
con  5  tavv. 

Di  una  stazione  dell'età  della  pietra 
alla  Moarda  presso  Palermo  nel 
Comune  di  Monreale.  (NdS.  1884 
con   una  tavola). 

Oggetti  antichi  scavati  a  Gibil-Gabib 
presso  Caltanissetta.  (NdS.  1884). 

Oggetti  rinvenuti  a  Selinunte  nel  1883. 
(NdS.  1884  con  3  tavv.). 


[Studi  storici  e  archeologici  sulla  Sici- 
lia. Palermo,  1884,  pp.  219,  con 
17  tavv.]. 

Nota  sopra  un  frammento  epigrafico 
di  Segesta.  —  Scoperte  a  Selinunte. 
(NdS.   1885). 

Nota  sulla  iscrizione  greca  del  Mona- 
stero dei  Santi  Pietro  e  Paolo  di 
Forza  d'Agro.  (NdS.  1885). 

Gli  acquedotti  di  Selinunte.  (NdS.  1885 
con  una  tav.). 

Di  una  scultura  di  Bonaiuto  Pisano 
sul  prospetto  del  Palazzo  Sclafani. 
(ASS.  1885,  a.  IX). 

Il  monastero  di  S.  Filippo  di  Fra- 
galà.  (ASS.  a.  XII,  1888). 

Ripostiglio  Siciliano  di  monete  antiche 
di  argento. (NdS.  1888,  con  3  tavv.). 

Sui  lavori  fatti  a  Selinunte  negli  anni 
1885-87.  (NdS.  1888,  con  una  ta- 
vola [in  collab.  col  prof.  G.  Pa- 
tricolo]). 

Relazione  sugli  oggetti  rinvenuti  nei 
lavori  fatti  a  Selinunte  nelV  in- 
verno 1884-85.  (NdS.   1888). 

Le  collane  bizantine  del  Museo  Nazio- 
nale di  Palermo  rinvenute  a  Cam- 
pobello  di  Mazzara,  Palermo,  1888, 
con  una  tav.   a  cromolitografìa. 

Nuove  metope  arcaiche  di  Selinunte 
(Monumenti  antichi  dell' Acc.  dei 
Liucei),   1892,   con  tre  tavv. 

Relazione  sommaria  intorno  agli  scavi 
eseguiti  in  Selinunte  dal  1887  al 
1892.   (NdS.   1894). 

Sigillo  greco  di  un  Mansone  Patrizio 
e  doge  dì  Amalfi.  (ASS.  1894 
a.  XIX,  con  vignette). 

Di  una  rara  epigrafe  ricordante  Sesto 
Pompeo.  (NdS.   1894). 

Ripostiglio  di  monete  campane.  (NdS. 
1894). 


—    XV   — 


Piombi  antichi  rinvenuti  in  Beggio  Ca- 
labria. (NdS.  1895,  pp.  21  cou 
vignette). 

Nuove  scoperte  archeologiche  a  Mar- 
sala. (RL.,  sed.  21  aprile  1895). 

Di  una  rarissima  tessera  hospitalis 
[comunicazione  di  Barnabei,  osser- 
vazioni a  proposito  della  lilibe- 
tana].  (RL.   1895  voi.   IV). 

Palazzolo  Acrcide.  Scoperta  di  un  te- 
soretto  di  monete  antiche  d'argento. 
(NdS.   1897). 


Selinunte.  Nuovi  scavi  presso  i  tcmpj 
della  Acropoli  ed  alla  Gaggcra. 
(NdS.   1898). 

Carini.    Scoperta    di    catacombe    cri- 
stiane.  (NdS.   1899). 
Racalmuto .   Scoperta  di  forme  romane 
iscritte,  per  lastroni  di  zolfo.  (NdS. 
1900  con  vignette). 

Monumenti  inediti  di  Lentini  e  di  Noto 
(neWArte,  Roma,  a.  VI  ,  1903, 
con  vignette). 

Iscrizioni  onorarie  di  Lilibco.  (NdS. 
1905  con  vignette). 


Museo  Nazionale  di  Palermo   (secondo  cortile) . 


PARTE  PRIMA. 


ARCANA    CEREALIA. 


Cereris  Bacchique  religiones  constat  in  Graecia  olim  rusticis  ho- 
niinibus  curae  fuisse.  inde  explicatur  et  cur  spretae  siut  ab  heroicis 
poetis  et  cur  ipsa  rustieitate  caerimoniarum  posteriorum  mores  poli- 
tiores  oflfenderiut.  hinc  simul  explicatur,  cur  inde  a  sexto  fere  saeculo 
utriusque  religionis  arcana  magis  magisque  misceri  coepta  sint,  quod 
in  Eleusiniarum  dearuin  cui  tu  manifesto  videmus  «su  venisse,  antiquis- 
siinus  quidein  in  Cererein  hymnus  ,  qnem  ante  sacra  Eleusinia  cimi 
Atheniensium  re  publica  iuncta  confectum  esse  recte  existimant,  nulla 
vel  paene  nulla  fert  vestigia  bacchicae  religionis.  i  at  Pisistratidarum 
imperio  ,  quod  in  agricolis  maxime  nititur  ,  Bacchi  et  Cereris  sacra 
augeri  et  misceri  ,  Eleusiniae  deae  Athenas  transferri,  Iacchus  Eleu- 
sina traduci  coepti  sunt.  et  cum  bis  temporibus  Onomacrito  praecipue 
auctore  sacra  carmina  in  Orphicorum  usuili  i.  e.  ad  baccbicuni  moduui 
contìcerentiir  ,  non  mirtini  est  vel  tum  vel  panilo  post  etiam  Cereris 
religionem  in  Orphicorum  cui  tu  in  ac  poesin  esse  transvectam.  testis 
hymnus  ilio  Cereris,  queni  sub  Musaci  personati  nomine  Lycomidarum 
gens  Orphica  sacra  coleus  ferebat  '  ;  testis  poeta  ille  quisquis  fuit  qui 
sub  Orphei  nomine  Proserpinae  Cererisque  res  inde  a  raptu  virginis 
usque  ad  fruges  per  orbem  terra-rum  sparsas  et  sacra  constituta  de- 
scripsit  3;  testes  etiam  lamniinae  il lae  aureae  quarto  fere  saeculo  ante 
Chr.  sepulcris  Thurinis   impositae  ,    cimi    Orpheotelestae    litteras  pro- 


1  Xvaiov  au  itediov  (v.  17  Odofredns  Muellerus  ad  niythologiam  bacchicam 
recte  videtur  rettnlisse.  quod  iam  altero  a.  Chr.  saeculo  in  hymno  lectum  esse 
papyrns  nuper  in  Aegypto  affossa  docet,  quam  significavi  iu  Laterculis  Alexandrinis 
(Abh.  d.  Beri.  Ah.  1904  p.  15).  sed  ibidem  cum  omnia  haec  Cereris  sacra  in  Or- 
pheum  mysteriorum  primum  doctoreni  referantur  ,  elucet  quam  late  postea  baec 
sacrornm  mistura  patuerit. 

2  Paus.   I  23  ,   7.  etiam  in  papyro  illa  Musaei  praeter  Orpbeutu    sunt  partes. 

3  Marni.  Par  11  (p.  7  Jacoby)  :  ^cap'  ov  'Opgpaì'g  ò  OiàyQOV  xal  KuV.ió-xr\g^> 
vlb<^s  x^:r\<^v  é^uvrov  7toir\6iv  èj-^é^&rpe ,  KÓQttg  te  ÙQ7cayf}v  xcà  Ji]iirixQog 
^Tqxr\6iv  v.cà  xov  avtov ^gyri&svta  6-xqqov ,  ov  ìdida^s  xo  nXfj^&og  xwv  vrtoSe^unévcov 
xov  xccQTtóv.  idem  carmen  respicit  Orph.  Argon.  26  JìjU7]TQÓg  xs  rtldv^v  xal  <&£Q- 
GEcpóvris  \iéya  névQ'og. 


4  H.    DIELS.  PARTE   I. 

pempticas  ad  Proserpinam  aliosque  Eleusine  cultos  deos  infero»  quasi 
mortuomm  manibus  commissas  conscribere  fabulasque  Eleusinias  novo 
coque  subrustico  more  versibus  explicare  coepissent.  l 

Etiam  in  posterioruin  Orphicoruni  fragmentis  ,  quae  quando  con- 
seripta  sint,  dubia  est  quaestio,  multa  insunt  ex  Cereali   cultu  trans- 
lata, nullum  autem   vel  mirabilius  vel  magis  virorum  doctorum  contro- 
versiis  temptatum  quam  Baubonis  hoc  sive  elogium  sive  opprobrium 
quod  serva vit   Clemens  Alexandrinus   ex    erudito    satis  scriptore  ex- 
cerptum  in  Protrept.  2  (p.  17  Potter,  p.  15,27  Staehlin):  tixovv  de 
trjvixade  tr\v  'EXevóiva  ol  yrjyevelg  '  òvóiiatcc  avtolg  Bavflò  uuì  AvGav- 
Xrjg  xal  TolntoXeiiog,  eti  de   EvpoXnóg  te   xal  EvfiovXevg  (fìovxóXog  ó 
ToiittóXeiiog  r\v ,  noiiirjv    de    ó  Ev[ioXrtog ,    óvflcotrjg    de    ò    EvftovXevg, 
àqp'  òv  tò  EvpoXmd&v   xal    tò    KrjQvxav ,  tò  leoocpavtLxòv    drj  tovto 
M^vtjói  yévog,  rjv&rjóev).  xal  drj,  ov  yào  àvrjóa  pi]  ovyl  elnelv,  %evC- 
6u6a  i]  Bav^à)  ttjv  Ar\b  boiyei  xvxe&va  avtfj'  tfjg  de  àvaivopévrig  Xa- 
fìeiv  xal  itielv  ovx  èdsXov(Sr]g  (rtev&rjaiig  yào  r]v),  neQLaXyrjg  r\  Bavfico 
yevojiévrj  <bg  viteQOQafreióa  dfjfrev,  àvaótéXXetai  tà  ccldoia    nal  èmdei- 
xvvev  tfj  dea  '  ^  de  reciterai  xf\  bfyei  r]  zfrjò  xal  póXig  note  dé%etat  tò 
Ttorbv  r\6xtel6a  tà  %-eàpati.  tavt'  etiti  tà  xov(pia  t&v  'A&^valcav  iivótrj- 
Qitt,  tavtd  tot  xal  'Ooqievg  àvayoacpei.  7tccQad,t]<30{iaL    de    6oi   aita  tov 
'OQyécog  tà  eitrj,  Tv'   eyr[g  pdotvQa  tr\g  àvai6%vvtlag   tòv  (ivtitayayóv 
&g  eÌTtovóa  iténXovg  aveóvoato,  dei%e  de  ndvta 
óófiatog  ovde  nqenovta  tvTtov'  Ttalg  d'  i)ev  lax%og 
%eioù  té  [ilv  QÌ7tta6xe  yeX&v  Bav(iovg  imo  xóXnoig  ' 
f]  d'  ènei  ovv  peCdr]óe  &eà  ,  peldiq6  '   evi  &v[i<p , 
5  debuto  d'  alóXov  ayyog ,  èv  <p  xvxehv  èvixeito. 
codex  P,  in  quo  hic  Clementis  liber  solo  positus  est,  videtur  derivatus 
esse  (ut  Philonis  de  opificio  Vindobonensis )    ex   Caesareensis  biblio- 
thecae  exemplo,  quo  quarto  saeculo  Eusebius  utebatur.  tanta  est  saepe 
in  corruptissimis  consensio.  velut  in  v.  4  neglegenter  praeceptum  est 
lieCdrjGe  in  priore  ex  posteriore  hemistichio.    quod  communiter  pecca- 
tum  in  P  et  Eusebio  sanavit  G.  Hermannns,  dum  restituit  : 

i]  d'  ènei  ovv  èvór)6e  dea,  {leid^ó'   evi  &vn<p. 
nani  quod  Lobeckius  suaserat  etdrjae  et  si  qua  alia  ab  aliis  prae  Her- 


1  de  his  cf.  quae  scripsi  in  libro  Gomperzio  oblato  1902  p.  1  sqq.  (Orphischcr 
Demetcrhìjmnii8),  lamrainam  postea  ipse  Neapoli  vidi  et  contali  et  paene  omnia 
quae  illic  aliis  fisus  ut  extantia  protuli  nunc  oculatus  testis  tueor,  neque  minus 
rationem  explicandi  ,  quatn  displicuisse  video  G.  Murrayo,  viro  doctissimo ,  in 
J.  E.  Harrisoa's  Proleg.  to  the  Study  of  Greek  Religion  (Cambr.   1903)  p.   669. 


PARTE    I.  ARCANA   CERE  ALI  A. 


ninnili  invento  sordent.  *  hoc  igitur  vitinm  in  aperto,  seti  apparet,  qui 
hos  versus  vel  explicaturi  sint  vel  emendaturi,  a  tradita  eos  lectione 
non  multimi  aberrarre  debere  ut  in  loco  satis  antiquis  testibus  mu- 
nito, quare  per  se  liaud  piaceli t  quae  nuper  viro  erudito  ac  sagaci 
A.  Ludwichio  in  menteni  venerunt  2  : 

a>g  el%ov6a  7tè%Xovg  àvsóvQccto  '  dei^e  dh  %&vxa 
óàucctog  ovdh  Ttoiicovxa  xvnov  —  naìg  d'  fjsv  ìecXXog — 
%biqC  té  piv  QÙntaóK '  *  èyéXcov  Buvflovg  vico  xóXito  i. 
rj  d'  ènei  ovv  aiv  ideóxe  fìsci,  usuàrio'  évi  ftvuà, 
5  denaro  d'  alóXov  ayyog  ,  èv  co  xvxeàv  èvsxsito. 
qui  vir  doctus  recte  quidem  proflciscitur  ab  Arnobio  V  25  sq.  de  Bau- 
bone  eadem  referente  ,  at  graviter  errat  cuui  communi  auetore ,  non 
ipso  Clemente  romanum  scriptorem  usum  esse  opinatur.  neque  enim 
hoc  uno  loco,  sed  per  totani  caput  et  ultra  Arnobius  duce  Clemente 
utitur,  quem  sane  libere  et  rhetoriee  amplificat  et  ad  suum  arbitrium 
explicat.  nihilo  minus  versio  eius  ac  pedestris  circumscriptio  valde 
utilis  est  nobis.  nani  tum  temporis  (tertio  saeculo  exeunte)  multa  an- 
tiquae  religionis  vestigia  etiam  vigebant ,  unde  vel  obsoleta  rectius 
ille  quam  nos  intellegere  posset.  sic  igitur  ille  1.  e.  p.  19(5,  19  Reif- 
fersch.  :  e.  25  obstinatissime  durai  Ceres  et  rigoris  indomiti  pertinaciam 
retinet.  quod  cum  saepius  fieret  neque  ullis  quiret  obsequiis  ineluctabile 
propositum  fatigari,  vertit  Baubo  artes,  et  quam  serio  non  quibat ,  alti- 
cere  ludibriorum  statuii  exhilarare  miraculis  :  partem  Ulani  corporis, 
per  quam  secus  femineum  et  subolem  prodere  et  nomen  solet  adquircre 
genetricum,  longiore  ab  incuria  liberai,  facit  sumere  habitum  puriorem 
et  in  speciem  levigari  nondum  duri  atque  hystriculi  pusionis.  redit  ad 
deam  tristem,  et  Inter  Ma  communia,  quibus  moris  est  frangere  ac  tem- 
perare maerores,  retegit  se  ipsam  atque  omnia  Illa  pudoris  loca  revelatis 
monstrat  inguinibus.  utque  pubi  adjìgit  oculos  diva  et  manditi  specie 
solaminis  pascitur  :  tum  diffusior  facta  per  risum  aspernatam  sumit 
atque  ebibit  potionem,  et  quod  diu  nequìvit  verecundia  Baubonis  espri- 
mere ,  propudiosi  facinoris  extorsit  obscenitas.  20.  calumniari  nos  im- 
probe si  quis  forte  hominum  suspicatur,  libros  sumat  Threicii  vatis,  quos 
antiquitatis  memoratis  esse  divinae,  et  inveniet  nos  nihil  neque  callide 
fingere  neque  quo  sint  risili    deum    quaerere    atque    efficere  sanctitates. 


1  quoti  in  V  ante  correctorem  fuisse  videtur  mcìiAHk  e  (abnndanti  iota  ut  saepe 
scriptum)  nihilo  plus  valet  quam  HlGN  quod  v.  2  prò  ne  N  fuisse  videtur.  de  hac 
orthographia  cf.  Comment.  in  Theaetet.  ed.  Diels  et  Schubart  (Beri.  1903)  p.  xm  sq. 

2  N.  Jabrb.   f.  class.  Pbilol.   141  (1890)  p.  57. 


H.    DIELS. 


ipsos  namque  in  medio  ponemus  versus,  quos  Calliopae  filius  ore  edidit 
(/racco  et  cantando  per  saccula  generi  publicavit  humano  : 

sic  efata  simul  vestem  contraxit  ab  imo, 

obiecitque  oculis  formatas  inguinibus  res. 

quas  cava  succntiens  Baubo  manu — nam  puerilis 

ollis  vultus  crai — plaudit  contrectat  amice. 

tum  dea  dejigens  augusti  luminis  orbes 

tristitias  animi  paulum  mollita  reponit  : 

inde  manu  poclum  sumit  risuquc  sequenti 

perducit  totum  cyceonis  laeta  Uquorem. 
Ex  Arnobii  paraphrasi  et  versione  primum  elucet  recte  emenda- 
timi esse  bvóì]6e,  timi,  quod  pluris  est,  nullum  esse  lacchimi,  quein 
iani  Lobeckius  acldubitaverat  i  et  Liuhvichius  restituto  v.  2  izcclg  $'  iqsv 
ìalXog  (  infans  pudendis  efectus  ludibrium  erat  )  e  medio  tollebat.  nam 
Arnobius  etsi  band  recte  sui  saeculi  neqnitia  abnsus  2  putat  glabrum 
piipulnm  formatimi  esse  ex  inguinibus  Baubonis,  cum  explicat  in  spe- 
ciem  levigari  nondum  duri  atque  hystriculi  pusionis,  tamen  recte  omnino 
intellegit  quod  latine  vertit  «  nam  puerilis  ollis  (scil.  inguinibus)  vultus 
erat.  ergo  laz%ov  sonare  vidit  pudendum  muliebre,  quod  nostrates  fu- 
gisse  sane  permirum  est.  Dionysium  quidem  maiorem  tyrannum  Si- 
ciliae,  qui  in  tragoediis  suis  obsoletis  et  abstrusis  utebatur  vocabulis, 
tòv  %oìqov  dixisse  constat  icck%ov.  3  nimirum  in  sermone  sacro  et  re- 
condito ano  tov  la%SLv  vel  lax%slv  vocabatur  ó  %oioog ,  ut  a  grunniendo 
in  Testamento  porcelli  M.  Grunnius  Corocotta  inducitur.  eiusniodi 
glossis  quanto  opere  olim  oraculorum  poetae ,  tum  ditkyraniborum 
delectati  sint ,  in  vulgus  notum  es':.  ipsi  Orpliici  poetae  luxuriant 
lmius  modi  glossis  sacris  velut  fr.  252  Abel  : 

xaì  (ìédv  vviLcpdcov  xataXsi^etai,  àyXabv  vòcoq. 
ipse  Clemens  ex  Epigene  ITsol  tr\g  'Oocpsag  Ttoitfósag   integrimi  glos 
sarium  excerpsit ,  quod  operae  pretium  est  Ime  afferre.  4  nani  eiiisdem 


1  Aglaopham.  p.  826  coque  suspectior  redditur  ille  palpator  lacchus ,  quem  ncque 
Arnobii  inierpreiatio  admittit  ncque  aliunde  cognitum  habemus. 

2  Casa.  Dio  48,  44  naiSlov  xi  x&v  ipi&vQwv  ola  ai  yvvaixsg  yvpvà  mg  tiItJ&ei 
à&VQ0v6ai  TQStpovaiv  cf.   Birt  de  pueris  niinutis  Ind.   lect.  aest.  Marpurg.   1892. 

5  Atbeu.  Ili  98  D  '  Aftavig  S'  èv  a  UixsXixwv  xov  avxóv  qpr}6i  <diovv6iov  v.a\ 
xov  fiovv  yaoóxav  xaXsìv  v.aì  tov  %oìqov  ìay.%ov.  de  purpurati  poetae  delira- 
mente, quae  praeivit  Euphorionibus,  cf.  Meineke  Anal.  Alexandr.  p.  136. 

4  Stroin.  V  675/6  Pott.  hsqkl6i  xayinvló%Q(ù  oi  xolg  àpóxooig  \ir\vvso&ai , 
6tr[U,06i  8è  xolg  aviari,  iilxov  dh  xò  6TtéQ\ia  àllr\yOQel6Q,aL.  naì  ddxgva  zliog 
xov  oufinov  6r\lovv ,  Moigag  Sé  ai  xà  ^éor}  xf\g  6£%iqvr\g ,  xgiaxdda  v.aì  itavxexai- 
$exdxriv  xcà   vov\ir\vlav  •  dio  v.a\    XevxoaxóXovg   avxàg  v.aXùv  xov  'Oocpéu  cpcoxòg 


parte  i.  arcana  cere  ali  a. 


esso  farinae  omnes  istas  voces  atque  ì<xk%ov  neminem  latet.  atqui 
%oìqov  in  vulgari  sermone  naturarli  muliebrem  significare  cimi  aliunde  1 
notimi  est  timi  ex  Acliarnensiiun  iocis.  ergo  duplici  nietaphora  usus 
Orphicus  Baubonis  inguina  (non  solimi  ipsam  mulieris  naturani )porcum 
primum,  timi  iacchum  nuncupat,  quodArnobius,nisi  e  contextu  versuum 
divinaverat,  ex  lexicis,  qualia  tum  ferebantur,  facile  liaurire  potuit. 
Idem  recte  intellexit  quae  continuantur  %uqI  ré  \iiv  QÌ7tra6xE  dieta 
esse  de  Baubone  palpante  ac  quasi  ventilante  sua  inguina.  ergo  hoc 
quoque  recte  expressum  : 

quas  cava  succutiens  Baubo  manti  .  .  . 

plaudit  contrectat  amice. 

de  vitio  metrico  ,  quod  inesse  queruli  tur ,  nolo  loqui  uberius  ,  quia 
non  meiini  esse  sentio  definire,  quid  concessum  fuerit  rhetori  Africano 
in  re  metrica  ,  quoniam  in  universum  constat ,  quanta  lieentia  timi 
vulgares  poetae  (velut  epigrammatiini  a  Buechelero  collectorum)  et 
christiani  sint  grassati.  at  omnino  quaeritur ,  mini  mera  subsit  negle- 
gentia.  nani  qui  sacra»  velarier  et  coronarie)'  pinos  consulto  dixit  V.  7 
(p.  179,24),  ut  prosam  ornaret ,  et  qui  in  proximo  versu  olii 8  ad 
Ennii,  Lucretii,  Vergilii  exemplum  posuit,  ne  ille  etiaui  illuc  delabi 
potuit,  ut  correptis  iambis  cava  et  manu  neseio  quo  pacto  antiqui- 
tatem  imitali  sibi  videretur.  2  utut  est ,  de  sensu  interpretationis  Ar- 
nobianae  nulla  est  controversia,  nude  iam  graecis  paulo  magis  impli- 
catis  verbis  lux  bau  scio  an  affulserit.  nihil  enim  niutandum  ,  modo 
intellegas  poetani  istum  vulgarem  vulgariter  interposuisse  explicandi 
gratia  %slql  ré  [tiv  (jCjiraóxe    ili  ter    ea   quae   arte   inter  se  nexa  sunt 

TCalg  d'  ì]sv  ÌL(tic%og  ...  yslàv  Bavfiovs  vxò  Y.6X%oig. 
sub  sinu  scilicet  apparent  Baubonis  inguina    retecta  taniquam  pueri 
os  idque  ut  par  est  (hoc  inest  in  particula  rè)  plaudit  et  contrectat 
nutricum  more.  3  ergo  totum  fragmentum,  imam  Hermanni  emenda- 


ov6ag  (légr}.  ndliv  av&iov  ulv  xb  è'ap  dia  xì]v  cpvaiv,  àQyióa  dh  xì)v  vvy.ru  Sia 
xx[V  àvcc7tccv6iv ,  Y.UÌ  FoQyóviov  8h  xì]v  6elrtvr]v  Sia  xb  èv  avxfj  ngóacoTtov,  AcpQO- 
8 ixr\v  Sh  xbv  xaigóv,  xa-fr'  ov  SsZ  G7tsiQSiv,  Xéysó&cci  Ttagà  xch  Q-soXóya.  Cfr.  Protr. 
2,22:  xfjg  Géuidog  rà  ànÓQQ^xu  ovufiolcc ...  ,  xxeìg  yvvaixsìog ,  o  Ì6xiv  sv(pì']ucog  ■nat 
lLV6xi%à>g  siitsìv  iiÓqiov    y  vva  iv.  eìqv. 

1  velut  x0lQiVCiL  conchnlae  a  similitudine  partis  nniliebris  nomen  aceeperunt 
(cf.  O.  Jalin  Ber.  d.  sachs.  (ics.  d.  Wiss.  1853  p.  18;  tab.  V  (3),  tuui  a porcellis  istis 
niateriae  similitudine  porcellana  vasa  vocata  sunt. 

2  de  similibus  Ausonii  arebaismis  egit  Leo  Gòtt.  gel.  Jn:.  1896  p.  791  et 
Skutscb   in  libro  Fégag  Fiekio  oblato  p.    113. 

3  Buecbelerus,  qui  vehementer  probut  et  Cletuentis  et  Aruobii  bas  vindicias, 
amicissime  mibi  suggerit  Persii  uotam  illam  aviam,  quae  cuuis  eximit  puerum  et 
tunc  manibus  quatit  (2,35).  illaque  etiam  uotior  est  Hector  Astyanacta  palpaus  : 
ènei  Y.v6B  7tf\lé  xe  %bq6Ìv  (Z  ili). 


8  tt.    DIELS.  t»ARTE    t. 

tionem  si  excipias,  sic  ut  traditimi  est  habeto  integrimi  et  intemeratimi: 
<bg  slrtovóa  %é%Xovg  àvsGvQaxo,  dsiè,s  de  itàvxu 
(Sòliatog  ovds  jiQÉitovTcc  tvitov  '  %alg  <T  Ìjev  ìccx%og 
{%eiqI  té  piv  óItvtuóxs)  yeX&v  Bavfiovg  vtiò  xòXitoig. 
y]  d'  ènei  ovv  èvótjós  fred ,  peCòrìa'   évi  dv^ià, 
Secato  d'  alóXov  ayyog,  èv  ó  xvxsòv  èvsxEito. 
quod  sic  latine  verto  brevius,  opinor,  at  apertius  qnam  Arnobins: 
sic  efata  palam  sublata  veste  pudenda 
corporis  ostendit.  namque  os  puerile  ferebant 
inguina,  quae  tremulos  Baubo  cri  spante  cachinnos 
edebant.  haee  visa  deae  risum  peperere. 
tum  dextra  calieem  prendit,  quem  cinnus  adimplct. 
Baubonis  igitur  ludicrum  snbrnsticnm  hoc  fnit,  ut  sublata  veste  in- 
guina  i.  e.  totani  sub  sinu  (vnò  xóXitoig)  sitani  partem  ventris  pube 
tenus  nudaret  atque  concusso  abdomine  et  rugis  eius  varie  distortis 
Immani  oris  aspectum  daret  circa  umbilicum  velut  nasum  ridicule  se 
ruganti»,  qua  in  re  nondura  expl  oratimi  est,  cuiusnam  sexus  speciem 
hoc  ventris  os  prae   se  tulisse  dicatur  ;  quippe   verba  haec  naìg  i]sv 
lax%og ,  masne  an  feniina  repraesentetur ,  in  dubio  relinquunt.  de  fe- 
mina  sane  quilibet  primum  cogitet ,  nisi  Arnobii   interpretatio  inter- 
cedat. 

At  quid  tandem ,  inquies ,  in  hac  re  ludicri  ì  nonne  Arnobius 
recte  (e.  27  p.  198,  22):  quidnam  quaeso  in  spectu  tali,  quid  in  pu- 
dendis  fuit  verendisque  Baubonis,  quod  feminei  sexus  deam  et  consimili 
formatam  membro  in  admirationem  converteret  atque  risum,  quod  obiectum 
lumini  conspectuique  divino  et  oblivionem  miseriarum  daret  et  kabitum 
in  laetiorem  repentina  hilaritate  traduceret  f 

Haec  si  quis  obiciat ,  ego  ludi  cuiusdain  commonefaciam  ,  quam 
in  Helvetiae  quodam  vico  oliai  se  vidisse  narrare  memini  virum  doctum 
sane  ac  severum,  sed  plebetulae  mores  studiose  riniantem.  «  Versabar, 
inquit ,  ante  aliquot  annos  per  feriaruin  aesti  varimi  otia  in  Helvetiae 
oppidulo  regionis  anioenitate  conspicuo,  verura  popularibus  magis  quam 
externis  hospitibus  celebrato .  ibi  post  cenam  ,  cimi  pluviae  exitimi 
arcerent ,  unus  ex  adulescentibus  ,  Helvetius  natione  ,  qui  picturae 
Monaci  id  temporis  operam  dabat ,  Turcum  ventriosum ,  quod  verna- 
cule  dicebant  Bauchturlce ,  acturum  se  esse  professus  est.  quod  cum 
a  iunioribus  cum  plausu  acceptum  esset,  post  aliquantum  morae  ac 
praeparationis  pone  mensam  coram  sjiissa  corona  hospitum  prodiit 
Turcus  ille  mirum  in  modum  vestitus.  eteniin  inferiora  corporis  mensa 
obtegebantur ,  superiora  quae  eminebant  amplissiuio  panno  viridi 
tamquam  tiara  (Turban  dici  solet)  operta   erant.  at   inter   utrumque 


PARTE   I.  ARCANA    CEREALIA. 


venter  adulescentis  nudus  apparebat  fuligine  in  oris  Immani  eflBgiem 
coloratus .  in  centro  extabat  umbilicus  velut  nasus ,  supra  oculi  duo 
superciliis  magnis  circumdabantur,  infra  suberat  immanis  rictus .  iam 
procax  adulescens  conciliente  musica  latera  movere,  ventrem  crispare, 
abdominis  rugas  line  illue  iiectere  coepit,  ut  virgines  Helvetiae  —  nani 
paucae  quae  aderant  Britannicae  ilico  cum  clamore  aufugerant — cum 
senioribus  viris  matronisque  popularibus  risii  paene  dirumperentur  ac 
summa  eius  coetus  binari  tas  einceretur.  »  sic  mihi  auctor  gravissimus 
narravit,  qui  tamen  cum  ex  eo  quaererem ,  imin  forte  antiqui  moris 
Ilelvetii  vestigia  (ut  flt)  in  ludicra  versi  superessent ,  nescire  se  fate- 
batur,  quae  esset  eius  ioci  origo,  ac  ne  illud  quidem  se  scire,  utrum 
is  ex  Belvetiorum  popularibus  ludicris  an  ex  artificum  Monacensium 
fescenninis  sit  petitus  .  utut  est ,  hoc  elucet  quam  nullo  apparati!  lio- 
mines  simplices  iiossint  ad  summam  festivitatem  commoveri .  ipse  nie- 
mini  panlo  decentiore  ludo  mimicos  subinde  liomines  mensibus  sublatis 
malum  quoddam  vel  vulgare  vel  sinicum  mappa  involutum  sic  agitare, 
ut  capitis  Immani  similitudine  in  varios  modos  inclinati  omnium  ,  qui 
spectabant,  vultus  in  hilaritatem  etfunderentur. 

Xon  dubito,  quin  ei  quibus  popularium  morum  studium  cordi  est 
similia  multa  proferre  possint.  1  nos  interim  iugulum  petimus.  quae- 
ritur  enim  ,  mini  quod  eius  rei ,  quam  Orpliicus  poeta  obscuris  ver- 
sibus  significat,  in  ipsis  Cereris  sacris  relictuin  sit  vestigium  .  nani 
cum  antiquissimus  ille  quem  tenemus  hynmus  Eleusiniis  deabus  in 
testo  oblatus  ita  compositus  sit,  ut  mysticarum  caerimoni arimi  series, 
qnas  singuli  deinceps  mystae  per  feriarum  celebritatem  ipsi  vel  pa- 
trabant  vel  patiebantur,  in  epicani  de  dearum  fatis  narrationem  sol- 
veretur,  consentaneum  est  Baubonis  obscena  ludicra  non  sine  ipsius 
testi  Cerealis  exemplo  versibus  celebrata  esse,  (pia  in  re  Jambes  simi- 
litudinem  viri  docti  din  attulerunt ,  cuius  personae  naturani  ex  iam - 
borimi  religione  Eleusine  et  Tari  culta  explicandani  esse  onines  con- 
sentiunt.  etsi  Eleusine  Baubonis  atticae  mulieris  nulla  adirne  vestigia 
inventa  sunt,  quod  facile  intellegi  potest ,  in  aliis  regionibus  minus 
perpolitis  agreste  illud  nunien  plus  auctoritatis  retinuisse  videtur, 
velut  in  ipsa  insula  Paro,  cuius  Cerealia  Arcliiloclii  parentes  induxisse 
videntur.  illic  enim  extat  votimi  Erasippae  l'rasonis  filiae  "Hqtj,  Jr\- 
liy]tQi  QsónocpÓQip  zal  Kóqt]    zccl   Jd  EvfiovXsì  xcd  Bavfioi  erectum  '*, 


1  procul  taiuea  habenda  exerupla  yvvuiY.ùv  voi  per  petulantiaru  vel  per  iram 
àvaovQauévav  ,  de  quibus  cf.  O.  .Tabu  1.  e.  p.  93.  ueque  vero  itQoficcaxdviov  est 
Baubonis  gestus,   ut  destissima  virgo  putat  J.  E.  Harrisou  Prolcgomcna  p.  570. 

2  Becbtel  iu  Collitzii  JJialektinschr.  Ili  2,590  n.  5441. 


10  H.    DIELS.  PARTE   I. 

quod  ad  hanc  Baubonem  pertinere  nomo  negavit.  1  quod  oliin  lege- 
batur  BABOI,  mine  correctum  est  postquam  Y  litteram  super  A  in 
lapide  scripta  reperta  est.  sed  neri  potest,  ut  Baftco  vulgaris  fuerit 
forma,  nani  ftavfiàv  et  ftafiàv  (de  eoncubitu)  idem  est  2,  et  liane  popu- 
larem  matrimonii  patronam  eum  antiquissimis  caerimoniis  eoniunetam 
fuisse,  quae  ad  agros  feeundandos  valerent,  et  per  se  credibile  est  et 
confirmatur  cognatarum  nationum  (ut  alienas  sileam)  ritibus  rustieis, 
velut  e  germanicis  et  slavicis  moribus  multa  eiusmodi  Mannliardtius 
noster  collegit  et  seite  interpretatus  est.  3  sed  in  hunc  quaerendi  cam- 
pimi qui  latissime  patet  nolo  excurrere. 

Imnio  explicare  studeo  et  amplificare  ea  quae  in  Poetis  Philosophis 
p.  106  ad  Empedoclis  Ir.  153  suecinete  significa veram.  Hesych.  s.  v. 
/3av/3a>  :  TitbjV??  zJi]g.r]TQog'  óijucclvsl  de  xal  xolUccv,  cbg  tiuq'  'Eg.TtsdoxXsl. 
ibi  adnota veram  liaec  :  «  nomeii  ìllustratur  absonis  illis  figaris  figlinis, 
quae  in  tempio  Cereris  Prienensi  1899  inveritele  sunt.  caput  enim  deest7 
venter  curri  inguine  tamquam  os  ornatur.  »  de  liac  explicatione  Ioannes 
Sclirader,  Prienes  repertor  ac  descriptor  doctissimus,  aliquid  dubita- 
tionis  movit  4  :  «  Ber  Kreis  »,  inquit,  «  in  dem  die  Erldarung  zu  suchen 
ist  und  die  Art  ivie  solehe  unjeheuerlichen  Bildungen  mutande  kommen 
Iconnten,  wird  durch  diese  Stelle  sieher  riditi g  bezeiclmet;  ob  man  frei- 
lich  die  Beschreibung  der  Figuren  als  zutreffend  anerlccnnen  will,  muss 
daliingestellt  bleiben  :  der  erste  Eindruck  ist  der,  dass  der  Kopf  unmit- 
telbar  auf  die  Beine  gesetzt  ist ,  nicht  dass  Brust  und  Kopf  fehlen  und 
der  Bauch  als  Gesicht  gestaltet  sei.  » 


1  cf.  O.  Kern  Baubo  (Pauly-Wissowa  E.  Euc).  Crusius  ad  Herond.  p.  128. 
addo  nuuc  in  papyro  illa  Baubonem  (vitiose  Bqccv^ò  vocatur)  Metauirae  parte» 
agore,  ubi   Demophoutis  sors 'narratili". 

2  Dieterich  Philolog.  42,  4.  fìuvfìàv  Herodeus  etsi  cohaeret  cum  verbo  flav^ày, 
nihil  tamen  vinculi  babet  cum  Baubonis  persona. 

3  Baumkultus  e.  5  p.  422  sqq.  Mythol.  Forsch.  p.  238  sqq.  (Cereris  et  Iasionis 
niatrimoniuni). 

4  in  grandi  ilio  opere  Priene  (Beri.  1904)  p.  163.  ad  usum  legentium  e  figu- 
rarum  illarum  multitiutine  M.  Liibke  pictor  Beroliuensis  dnas  bic  accuratius  deli- 
neavit.  ac  d.  8615  respondet  simulacro  lucis  ope  confecto  152  in  libro  Priene  p.  161, 
at  non  idem  exemplam  delineator  expressit ,  contra  u.  8612  clarior  est  imago 
eiusdem  exempli  f.  153  illic  exhibiti.  typos  Prieneuses  etiam  F.  Walter  reddidit 
in  suo  libro  Typen  d.  fig.  Terrakotten  (Anìike  Terrak.  Ili  2)  p.  223  n.  1-5.  quod 
ille  figuras  comicas  caricatas  videre  sibi  visus  est,  a  Scbradero  satis  ex  loci,  ubi 
inventae  sunt  plurimae  ,  sanctitate  refutatum  est.  ceterum  multa  exempla  Musei 
Beroliuensis  ex  eodem  protypo  expressa  sunt  ,  at  aliud  alii  praestat  ideo  ,  quod 
tìgiilus  in  nonnullis  mollem  argillam  stilo  accuratius  postea  expolivit  orisque  li- 
neamenta  altius  impressi!.  —  de  Baubonis  tìguris ,  quas  olim  (cf.  Miller  Mèi.  d.  Ut. 
grecque  p.  459)  et  uuper  (Joum.  of  Hcll.  Stttd.  XXV  128)  aguovisse  sibi  videbautur, 
tacere  malim. 


PARTE  I. 


ARCANA  CKREALIA. 


11 


Contra  liane  viri  aulicissimi  dubitationem  non  redibo  ad  ea,  quae 
supra  de  Baubone  exposui,  neque  Empedoclis  illa  glossa,  unde  pro- 
fectus  crani ,  abutar.  hoc  eniui  esset  principium  petere.  eeterum  contra 
archaeologum  oeulis  decet  non  glossis  pugnare,  suis  eniin  quisque  oculis 
in  eis  exemplis  ,  quae  delineanda  curavi ,  sinc  dubio  intelleget  non 
caput  cruribus  impositum  esse,  sed  ventrein  feniineuin  ipsa  sexus  hu- 


mus. Berol.  n.  8615.  Mus.  Berol.  n.  8612. 

Fig.   i  —  Baubonum   Prienensium  (saec.  IV)  exempla  duo. 


tura  conspicuum.  1  quid  eniin  esset  caput  muliebriter  ita  desinens  l 
ergo  venter  sane  agnoscitur,  sed  in  Immani  capitis  is  forinain  mutatus.  2 
quid  hoc  sibi  vult  prodigium  'ì 


1  maxime  iusignes  bac  parte  suuì  fig.    119  et  151. 

2  non  caput,  sed  08  in  illa  adnotatione  dixeram  quia  pars  adversa  tantum  ab 
artifìce  enucleatius  expressa  est.  ceterurn  non  hoc  est  controvorsiae  iugulimi. 


12  H.    DIELS.  t>ARTE   t. 

In  remotissimam  liane  antiquissimamque  partem  rustieanae  reli- 
gionis  lucem  mihi  afferre  videtur  mira  masculi  membri  formatio,  quae 
per  omnem  antiquitatem  valet.  dico  virilia  aut  in  animalium  aut  in 
virorum  speciem  integra  vel  ex  parte  transformata.  i  atque  idem  fere 
interesse  pnto  inter  virum  mentulatum  et  ipsuin  phallum  quod  inter 
]ovem  fulmeu  gestantem  et  ipsum  Ksqccvvóv.  2  atque  ut  fulmen  primum 
alatnm  repraesentant ,  tum  aquilae  totani  figuram  addunt,  sic  phallum 
primum  alis  ornant,  tum  animalis  corpore  augent,  denique  hominis  ca- 
pite et  corpore  adiunctis  spirantem  viventem  vigentem  fingunt.  sic 
quod  prisci  illi  homines  in  virilitate  divinum  potensque  inesse  sentiunt, 
sui  iuris  esse  volunt,  sic  eum  deum  phalloplioria  pie  venerantur,  quem 
ad  rei  rusticae  incrementum  pluriinum  valere  vident. 

Similis  Cereris  religio:  in  agrorum  ubertate,  in  animalium  fecun- 
ditate,  in  matrimonii  fertilitate  omnis  spes  agricolae.  haec  a  sua  quisqne 
dea  expetit,  Ime  omnis  votorum  ratio  vergitur.  iam  vero  ut  Bacclius 
masculos  adamat  ritus,  ita  Cereris  fìsti {wcpÓQov  religio  ad  matronarum 
magis  sensa  et  cogitata  spectat.  Eleusinius  quidem  ritus  paene  totus 
est  matronalis.  bine  igitur  facile  intellegi  potest,  cur  priscis  temporibus 
ab  agricolis  peculiaris  dea  Concuba  indigitata  et  sub  uteri  forma  eulta 
sit.  nani  aut  piane  fallor  aut  sic  res  explicanda  est.  Prienenses  xoiMav 
i.  e.  /3av/3eó  humano  ore  expressam  humanisque  cruribus  incedentein 
iingebant ,  ut  qui  spectabant  mentis  venerationisque  aciem  in  liane 
potissimum  partem  converterent  et  hoc  maxime  numen  sibi  affore 
crederent. 

Veri  est  simillimum  Baubonem  illam  primitus  seorsum  cultam, 
tunc  ut  Ceraunum  in  Iovis  dicionem  ,  sic  illam  in  Cereris  nobilem 
coetuin  receptam  esse,  hinc  ut  niagnae  deae  sive  nutrix  sive  ancilla 
et  alio  et  in  Ioniam  translata  est.  hinc  symbolis  variis  ut  Eleusinii 
cultus  famula  ornata  est.  nani  apud  Prienenses  quidem  creberrima 
est  illa  figura  quam  n.  8615  (v.  tab.)  repraesentat ,  puella  in  ventre 
capitato  poma  gestans  velut  uvam  et  mala,  hoc  exemplum  piane  re- 
spondet  Priapo  ,  qui  nudato  et  ipse  inguine  humanam  fecunditatem 
prodit  simulque  in  sinu  fructuum  ubertatem  exhibet.  3  gemella  igitur 


1  exempla  abundant  cf.  0.  Jahnii  diss.  de  fascinatione  Ber.  d.  sachs.  Ges.  1855. 
von  Hiller  Thera  III  18Ó  Inscr.  Gr.  XII  3  Suppl.  1658.  vide  praeterea  Kaibeliuiu 
Nachr.  d.  Gòtting.   Ges.  d.    Wiss.  1901,  49. 

2  Usener  Keraunos  in  Mus.  Bhen.  60,  i  sqq. 

Cornutus  27  (Priapus)  è^icpaivsi  yàg  rò  {léyed'og  ràv  cclSolav  xr\v  nlsova- 
goveav  iv  xà  &£(h  GnEQy.axiy.riv  dvvayiv .  i\  S'  èv  xolg  xÓItiois  cciixov  7tu.yv.aQ7t ice 
xi]v  daipdsiav  xtòv  èv  xalg  olxsiaig  coQaig  èvxòg  xov  xéliiov  cpsQO^évav  xaì  àvadsixvv- 
péveov  xaQTtwv.  cf.  O.  Jahn  Ber.  d.  s.   Ges.  VII  (1855)  237, 


PARTE  I.  ARCANA  CEREALIA.  13 

lmius  frugifera  dea  Baubo,  ut  similis  species  cauistri  etiam  in  aliis 
mysteriorum  et  matrimonii  eaerimoniis  adhibetur.  alia  figura  in  capite 
gestat  calathum ,  cuius  exempli  niliil  nisi  delineationem  in  ninsei 
scriniis  snperesse  dolco,  symbolnm  ipsam  in  Bleusinio  ri  tu  nihil  expli- 
cationis  indiget.  nec  magia  tertiae,  quam  expressam  videtis  8012  (sn- 
[>ra)  fax;  quarta  (fig.  150)  lyra  insignis;  quinta  (cuius  exemplum  in 
privatis  aedibus  inventum)  hydriam  portata  omnes  fere  figurae  comis 
in  muliebrem  modum  ornatis  puellas,  ut  consentanemn  est,  non  pueros 
repraesentari  docent.  varia  haec  niinisteria  etsi  band  dedecent  sacri 
famulatus  ancillas,  cave  taineu  credas  plures  Baubones,  si  licet  hoc 
iam  nomine  nti  ,  per  dies  festos  sanctis  coetibus  interfuisse.  imnio 
lyrae  symbolum  ad  aliain  nos  ducit  coniecturam.  constat  Cereris  sacra 
ut  similia  mysteria  chorearum  strepita  personari  solita.  '  itaque  fide 
indignimi  non  est  illani  corporis  nudationem  ,  quam  Orpliicas  poeta 
significat  et  Prienensium  vota  repraesentant,  pertinere  ad  mysticum 
quendam  initiatarum  mulierum  chormn,  qui  Baubone  duce  cordacem 
quendam  dactare  et  hac  ipsa  lascivia  fecunditatem  et  sibi  et  agris  a 
deis  exoptare  assaeverit. 

Xe  boc  quidem  loco  tangam  quae  apud  alios  populos  siaiilia  in- 
veniantar  2 ,  at  facere  non  possum  qain  ammalimi)  psallentium  chorum 
commemorem  ,  qui  in  pepli  Lycosurensis  limbo  ab  artifice  saec.  fere 
alterius  a.  Chr.  3  fìctas  est.  ex  figuris  in  eodem  Despoinas  fano  in- 
ventis  singularibus  apparet  ibi  antiquissimos  illos  animalium  choros 
in  sacris  adhibitos  faisse  ,  qaos  oliai  in  Bacchicis  acó^ioig  personas 
equis,  hircis,  avibas,  ranis  assimilatas  egisse  constat.  4  ut  igitur  figlili 
Lycosurae  vota  conficiebant,  quae  sacri  maneris  memoriam  et  salata- 
rem  vim  qaasi  multiplicabant ,  ita  Prienenses  quoque  artifices  e  sa- 
crarum  chorearum  recordatione  similemque  in  usimi  vota  ista  agrestia 
maliercalis  reliaiosis  fabricabantur.  5 


1  merninerÌ3  velim  lacchici  chori,  cuius  adumbrata  imago  extat  in  Ranis. 

2  cf.  Weinhold  Z.   Gesch.  d.  heidn.  Ritua    (Abh.  d.  Beri.  Ah.  1896)  p.   29  sqq. 

3  Conze  Sitzun<j8b.  d.  Beri.  Ak.  1904  p.  1135.  ipsani  imaginern  pepli,  qui  iu  mu- 
seo nationali  Atheniensi  extat,  habes  ap.  Cavvadian  Fouilles  de  Lycosoura  IAth.  1893. 

4  cf.  Perdrizet  Bull.  d.  con:  hell.  XXIII  (1899)  635. 

5  ne  pistores  quidem  abhorrent  ab  bis  religionibus  cf.  Atben.  XIV  (547  A  do 
Tbesmophoriis  Syracusanis  (Jcpi]§sici  yvvuixeìa  a  xaXEÌG&ai  xcerà  Ttà6av  rrtv  Eixsliuv 
livllovg  Kcd  7iEQicf£Qa6&cti  recìg  &saìs,  de  quorum  nomine  cf.  Columba  Archir.  Stor. 
Sic.  N.  S.  xm  fase.  3),  647  i?  {'/oiqÌvcu\  cf.  Lobeck  Aglaoph.  1067.  scilicet  pem- 
matologia  sacra,  quam  ille  subsannabat ,  seria  qnaestione  admodum  digna:  de 
germanicis  rebus  cf.  Hofler  Zeitschr.  d.  Ver.f.  Volksk.  Beri.  1902,  431:  1904,  431: 
1905,  319.    Breviter  tamen    boc    moneo  rcónuvu   dadexóucpcda  (Inscr.  Gr.   Ili  77, 


14  H.    DIELS.  PARTE    I. 

Ilaec  si  recte  coniectura  nostra  enucleata  sunt,  facilius  explicatur, 
quod  Magnesiae  ad  Maeandrum  Baubo  cum  Coscone  et  Thettale  tria- 
dem  Maenadum  offici t,  qua  sacra  Bacchica  (&La6ovg  Bccx%olo)  secunduin 
Thebanum  ritum  ibi  instituta  esse  sacerdotes  Magnesii  fìnxerant.  l 
si mul  bine  iteruin  elucet,  quani  arto  rinculo  tutti  Cereris  et  Bacchi 
niysticae  religiones  inter  se  nexae  fuerint. 

Quodsi  ex  Empedoclis  ilio  frammento  hoc  certe  constat  ne  in  Si- 
cilia quidem  Baubonis  nuinen  inaliditimi  fuisse,  et  oninino  eam  insulain 
prae  ceteris  Cereali  cultu  enituisse  tot  ac  tanta  terapia  deabus  Eleu- 
siniis  sacra  ibi  eruderata  confiriiiant,  spes  inilii  aliquanidiu  erat  etiam 
in  Sicilia  vota  inveniri  posse  similia  Prienensibus.  at  cum  ante  duos 
annos  musei  Panormitani  hypogaeum  opere  figlino  refertissimum  cum 
otio  et  studio  perquirerem  nihil  ego  invelli,  nihilo  setius  gratiae  mihi 
agendae  sunt  nunc  quoque  promo  condo  illius  thesauri,  praesidio  ac 
decori  archaeologiae  Siculae,  qui  etiam  abditas  suas  opes  libéralissime 
in  menili  usimi  reclusit  et  beneflciis  multis  publicis  privatisque  hospi- 
tis  aniiimm  in  aeternum  sibi  devinxit. 


Priugsbeim  Zur  Gesch.  d.  deus.  A'ults  Miincben  1905,  103)  vel  nolvóiicpcdcc  (Cleru. 
Protr.  2,  22)  deabns  Eleusiniis  praeeipne  oblata  videri  ex  eadetn  seutieudi  anti- 
quitate  ,  unde  Baubonis  ventreni  explicare  studili,  nimirum  Telluris  non  solum 
ubera  (ucc6roi)  dicuntur  ,  sed  etiam  umbilicus.  quare  in  Apollinis  sacro  Delpbico, 
qnod  olirn  Telluris  fuisse  constat  ,  extat  vestigium  antiquissiruae  religionis  rag 
ò(icpaXóg ,  itemque  in  Eleusinio  tempio  òacpalóg  in  bouore  fuit,  quod  quidem  non 
erat,  cui-  viri  docti  mirarentur  (cf.  Priugsbeim  1.  e.  p.  65),  si  origines  maternae 
religionis  late  sparsas  in  antiqua  Graecia  reputasseut.  ompbali  sacri  eam  explica- 
tionem,  quam  A.  Dietericb  Mutter  Erde  (Leipz.  1905)  p.  106  iudicat  neque  tamen 
ipse  fìdenter  commeudat  ,  ut  idem  sit  ac  pballus  ,  commemorasse  satis  esto.  nec 
cum  Robdeo  consentio  (Psyches  l2  132),  qui  ex  ftóXov  forma  et  religione  umbili- 
cum  explicat. 

1  O.  Kern  Inscr.  Magri .  215,  24  sqq. 

Berolini. 

Hermannus  Diels. 


LE  PAROLE  URECHE  SELLA  TOPONOMASTICA  DELL'ELBA. 


Nella  toponomastica  dell'  isola  dell'Elba  s' incontrano  poche  pa- 
role greche  e  per  la  massima  parte  sono  quelle  che,  ottenuta  in 
tempi  diversi  la  cittadinanza  latina,  entrarono  nel  dominio  comune 
delle  lingue  romanze.  Segniamo  in  questa  categoria  :  TujU/iog,  donde 
la  Tomba  (Marciana);  xqvxti],  donde  la  irrotta  (passim),  il  Grottarione 
o  Grottaione  (Rio);  xdv&ttoog,  i  Gancheretti  (Rio);  à^ivyddlr],  la  Man- 
dola (Marciana);  òqcczcqv,  il  Dragone  (S.  Ilario);  xardataóig,  le  Cataste 
(Marciana);  %alàv  (?),  la  Cala  (passim),  le  Galanehe  (Campo),  Galon- 
chiele  (Porto  Longone);  (puldyyi],  Palancito  (S.  Ilario);  ym\my\,  la  Gamba 
e  Gambetto  (Marciana),  Gambale  (Campo);  óTcd^tov,  Spartaia  (Marciana), 
^dyyavov,  i  Mangani  (Rio),  xaXa^iCtrjg,  Calamita  (Porto  Long.),  \Lalvr\ 
(pesce),  Treméndore  (Porto  Long.),  jd^O-pov,  i  Cairi,  il  Catro  (S.  Ila- 
rio), il  Cadrò  (Porto  Long.),  sixóva  biz.,  l'Acona  o  la  Gona  (Porto 
Longone);  zarovva  (?)  n.  gr.,  Val  di  Catone  (Rio),  la  Cafona  (Porto- 
ferraio);  Gvjtov  (?),  i  Sugali  (Porto  Longone),  Si g hello  (S.  Ilario);  e  forse 
il  suffisso    (ora  in  Morota  (Campo)  e   Caracota  (ib.). 

Dei  nomi  locali  greci  applicati  direttamente  e  anticamente  al- 
l'Elba appena  tre  si  son  salvati:  niata^àv,  Alftalùa  e  lAoyiòog;  e  di 
questi  solo  il  primo  vive  ancora  sotto  le  varie  torme  orni'  è  sentito, 
pronunziato  e  scritto  :  Pietamone,  Pietramone,  Piedamone,  Pie  d' Am- 
inone. Si  designa  con  tal  nome  un  monticello  presso  le  miniere  di 
Rio;  ma  anziché  intendere  ziXuxcì[igìv  nel  significato  di  piano,  come 
vorrebbe  indicare  il  Chiatamone  di  Napoli,  preteriamo  riferirlo  alla 
tecnica  mineraria  e  intendere  con  esso  lo  strato  minerale  di  una 
lapicidina  o  d'una   latomia  l. 

Gli  altri  termini  che  vivono  nell'Elba  in  connessione  con  la  na- 
tura minerale  del  suolo  o  con  1'  industria  che  vi  si  esercitava  e  vi 
si  esercita  sono  tutti  ti'  origine  latina  e  in  generale  di  data  re- 
cente. Hanno  rapporto    con    la    natura    del    suolo  i  seguenti  :   Costa 


1  Questo  significato  ba  •jiluranùv  in  due  passi  di  Strabone:  V  2,  6  (par- 
lando delle  miniere  dell'Elba)  xcc&ditSQ  rovg  xlccrcuiùvds  rpccoi  robg  èv  PóSm....\ 
XII  2,  8  nluTuyLwvss  */uq  etaiv,  àcp  iov  rìtv  Xi&luv  £%eiv  ucp&ovov  6vu{ìuiv£i.... 


16  R.    8 ABBACINI.  PARTE   I. 

Argentiera  (Rio),  Spiaggia  Ferrata  o  Ferrato  (Porto  Longone),  le  Ve- 
nelle  i  (Ilio),  il  Filone  (Rio),  Terranera  (Rio)  ,  dal  color  suo,  e  Grds- 
sera  (Rio),  uno  dei  più  vetusti  paesi  dell'isola,  distrutto  nel  1534  dal 
Barbarossa,  indicato  nei  documenti  medievali  con  Grassula  e  Grassola  e 
che  io  ricondurrei  a  crassa  (cioè  terra,  humus),  in  quanto  quel  suolo  o 
il  suolo  vicino  conteneva  abbondanza  di  ferro  2.  I  seguenti  nomi  accen- 
nano invece  all'industria  mineraria:  la  Cava  dell'oro  (Porto ferraio),  le  Ca- 
vacele e  la  Gavina  (Rio),  la  Cava  del  Pistello,  del  Poppaio  e  di  Grat- 
tarino  (Rio),  la  Cava  di  Vigneria  (Rio),  da  vinea,  senza  escludere  il 
composto  Vineae  Rivi  o  Venae  Bivi  3  ;  le  Fabbriche  (Rio),  Monte  Fab- 
brello  (Porto  ferra  io),  nel  qua!  proposito  avvertiremo  che  sino  almeno 
dal  101)5  i  lavoratori  del  ferro  erano  detti  fabbri  o  fabbricherà  ;  4  gli 
Schiumoli  o  Stiumoli  (Portoferraio),  con  che  s'  intendono  le  scorie  del 
minerale  bruciato,  che  in  certi  paesi  dell'Elba  son  chiamati  rosticci, 
in  certi  altri  schiume  e  schiumoli;  le  Fornacette  e  il  Fornello  (Porto- 
ferraio)  e  le  Fornacelle  (Rio)  ,  dove  però  in  luogo  dei  forni  per  cuo- 
cere i  metalli  potrebbero  essere  significati  i  forni  della  calcina;  e  in 
fine  Portoferraio,  così  denominato  modernamente,  dovechè  ad  es.  nel 
121)0  era  chiamata  Ferraio,  5  col  qual  nome  è  ancora  oggi  designata 
dal  popolo,  che  dice  andare  in,  esser  di,  venir  di  Ferrala;  onde  rico- 
struiremo la  forma    primitiva  in  Ferrarla,   supplendo  officina. 

Xon  vive  più  il  nome  di  AìftaMa,  Alfrccleia,  Ald-dlr],  nel  quale 
per  puro  scrupolo  accenniamo  che  si  potrebbe  scorgere  una  base  etni- 
sca, p.  e.  Aita  (Plutone)  o  Setlans  (Vulcano),  mentre  pensiamo  che 
risalga  a  una  base  greca,  già  riconosciuta  dagli  antichi  in  cd&aXog, 
uì&ulri  6  «  fuliggine,  favilla,  fiamma  ».  Ma  per  rendersi  ragione  cornei 
Greci  appellassero  l'Elba  «  la  terra  della  fuliggine  e  delle  fiamme  »  dob- 
biamo rinunziare  a  credere  che  in  essa  ojìerasse  una  fonderia  cen- 
trale, quale  sarà  stata  a  Populonia,  dove  secondo  le  testimonianze 
di  Varrone  e  di  Strabone  7    veniva    trasportato    il    minerale    elbano 


1  Con  vena  ancora  oggi  gli  isolani  designano  il  minerale. 

2  Grassera  era  situata  più  in  su  di  Rio,  dove  ora  sorge  la  chiesetta  di  S.  Ca- 
terina. 

3  Rio  deve  il  suo  nome  al  ruscello  (rivus)  ,  che  dopo  il  minerale  forma  la 
sna  maggior  ricchezza. 

4  F.  Pintor  in  Studi  storici  Vili,   1899,   55. 

5  Id.  ih.,  Vili,  20. 

6  Diod.  Sic.  V  13,   1;  Steph.  Byz.  s.   v.  Ai&dXr}. 

7  Serv.  ad  Aen.  X,  174  Farro  et  aliud  dicit  ,  nasci  quidem  Mie  (apud  llvam) 
ferrum,  sed  in  stricturam  non  posse  cogi  nisi  transvectum  in  Populoniam  Tusciae 
civitatem.  Strab.  V  2,  6  eiSo^lsv  (in  Populonia)  dh  ucci  tovs  èQya&iiévovs  xhv  6Ì8r\Qov 
xov  ex  rfjg  Al&cdiocs  xofu£ójxsi'Oi>  •  ov  yùq  òvvatai  GvXXiTtccivEO'Q'ai  xa^iivEvó^iEvog  èv 


PARTE    I.  PAKOLE    GRECHE    NELLA    TOPONOMASTICA   DELL' ELBA.  17 

per  la  cottura;  ci  figureremo  piuttosto  che  in  ogni  luogo,  dove  fosse 
Iogurt  drt  far  carbone  e  una  polla  d'acqua,  gli  isolimi  piantassero  un 
forno  e  vi  bruciassero  il  minerale  per  proprio  conto  :  e  con  tanti 
forni  che  fumavano  in  tutta  l'isola  sarà  ovvio  capire  che  ai  naviganti 
greci  cllii  si  presentasse  un'  alftalia. 

A  persuaderci  che  la  faccenda  procedesse  così  potrebbe  venirci 
in  soccorso  un  indizio,  che  a  me  non  sembra  mancar  d'importanza, 
quantunque  non  rimonti  al  periodo  greco  e  forse  nemmeno  al  pe- 
riodo antico  romano.  Ad  ogni  modo  lo  accenno  per  invogliare  altri 
ji  studiare  con  maggior  competenza  la  questione. 

Da  relazioni  altrui  mi  risulta  che  nelle  vicinanze  di  Rio,  dove 
è  il  nucleo  delle  miniere,  si  trovano  scorie  di  minerale  bruciato:  p.  es. 
alla  Marina  di  Rio  e  sul  Monte  Fico;  scorie  in  gran  quantità  s'  incon- 
trano ai  Magazzini,  nei  pressi  di  Portoferraio,  e  fino  nel  Piano  di 
Procchio,  lontano  da  Portoferraio  e  assai  più  da  Ilio,  e  più  in  là 
ancora,  al  Poggio,  sul  Perone  e  nella  valle  di  S.  Cerbone  (Mar- 
ciana). Io  poi  lio  esaminato  e  percorso  a  palmo  a  palmo  il  ter- 
reno che  intercede  tra  Capo  Pero  e  Vignola,  tra  Montegrosso  e  il 
Lentisco;  e  su  una  superficie  di  pochi  chilometri  quadrati  mi  sono 
imbattuto  in  diciannove  forni:  uno  al  Vallone,  uno  al  Pisciatoio, 
uno  al  Lentisco,  uno  all'Acqua  Moresca,  uno  ai  Chiassi  (presso  la 
fontana),  uno  alle  Campelle,  uno  nel  fosso  al  Ziro,  uno  alla  fonte  di  Vi- 
gnola, uno  alla  Fonte  la  Chiusa,  tre  sotto  la  fonte  della  Pergola,  uno  rti 
Pozzoni,  uno  nel  fosso  della  Calcinala,  uno  nella  Valle  del  Bianco  (Fan- 
ghiccia),  uno  al  Castagno  ',  uno  alle  Paffe,  uno  alle  Fornacelle,  uno  a 
Capo  Pero  (presso  il  pozzo).  Tutti  questi  forni  sono  rovinati  e  non  esi- 
stono che  le  scorie  ammassate  in  monticelli;  in  taluno  si  vedono  tuttora 
avanzi  di  terra  refrattaria.  Essi  di  regola  si  trovano  vicini  a  un  bosco  che 
dava  la  legna  per  farne  il  carbone  :  ciò  è  chiaro;  sono  inoltre  vicini  al- 
l'acqua sia  di  un  ruscello,  sia  di  un  pozzo,  sia  di  una  fonte,  sia  di  una 
conduttura  2,  sia  del  mare:  e  ciò  non  è  chiaro,  almeno  a  me  3.  Tali  torni. 


rf]  vì\6ì>ì  •  xotu'£sTai  S'  Ev&bg  ex  x&v  ahràllav  eìg  vrtv  ì'jtcsiqov.  Il  non  posse  di  Var- 
rone  e  1'  oh  Svvarat  di  Strabone  si  riferiranno  alla  scarsezza  rìbl  combustibile,  ma 
a  una  scarsezza  temporanea. 

1  II  forno  del  Lentisco  è  generalmente  noto  agli  abitanti  del  luogo  ;  quelli 
del    Vallone  e  al   Castagno  mi  furono  indicati   dal  sig.   Giuseppe  Giannoni. 

2  II  forno  delle  Campelle  era  prossimo  alla  conduttura  roniaua  ,  che  portava 
l'acqua  da  Vignola  a  Capo  Castello. 

3  Letrgo  in  H.  Bluemner  Technoloyie  und  Terminologie  der  Gewerbc  und  Elitiste 
bei  Griechen  und  Romeni  IV,  212-213  che  gli  antichi  adoperavano  l'acqua  o  per 
spegnere  immediatamente  l'acciaio  e  renderlo  più  duro  o  per  lavare  il  minerale 
prima  di  bruciarlo. 

2 


18  R.    SABBADINI. 


non  so  se  per  tradizione  popolare  o  per  congettura  dotta,  son  chia- 
mati all'Elba  catalani  o  alla  catalana.  Anche  su  questo  non  posso 
interloquire;  solo  faccio  voti  che  coloro  i  quali  vengono  all'  Elba  a 
visitare  le  miniere  per  iscopo  industriale  e  quattrinaio  non  perdano 
intieramente  di  vista  lo  scopo  scientifico,  perchè  quest'  isola  è  tutta 
un  museo  geologico  e  storico;  e  quanto  alle  scorie,  la  loro  analisi  do- 
vrebbe portare  a  stabilire  la  natura  e  il  metodo  della  cottura  e  se 
si  tratta  di  forni  catalani  o  di  forni  romani.  Indizi  esterni  che  essi 
risalgano  a  una  certa  antichità  non  mancano.  Intanto  i  rosticci  dei 
forni  della  Pergola  e  delle  Campelle  furono  adoperati  nella  costruzione 
delle  macerie  che  sostengono  il  terreno  a  uso  di  coltivazione  :  mace- 
rie che  non  sono  tanto  recenti;  di  più  i  rosticci  dei  Chiassi  sono 
incastrati  nelle  rive  del  fosso  a  un  livello  abbastanza  inferiore  al 
suolo  presente;  a  maggiore  profondità  stanno  quelli  dell'Acqua  Mo- 
resca, che  hanno  sopra  di  se  quasi  due  metri  di  terra;  e  il  forno  del 
Lentisco  è  vicino  a  un  pozzetto,  che  potrebbe  sembrare  dei  bassi 
tempi  romani. 

Se  pertanto  con  questi  forni  arrivassimo  all'età  romana,  non  sa- 
rebbe fuor  di  proposito  ammettere  nei  metodi  metallurgici  elbani  una 
tradizione  non  interrotta  dall'epoca  dei  Greci:  nel  qua!  caso  anche 
in  quei  tempi  i  privati  avrebbero  seguito  l'uso  di  bruciarsi  per  conto 
proprio  il  minerale  nei  luoghi  che  più  si  offrissero  opportuni  per  la 
legna  e  per  l'acqua:  indi  la  molteplicità  dei  forni,  che  sarebbe  stata 
cagione  che  l'isola  fosse  chiamata  Ald-ccUcc. 

Rimane  l'ultimo  nome  greco,  ttQycoos,  attestato  sin  dal  secolo  ILI 
av.  Cr.  da  Timeo.  1  Argoo  viene  concordemente  identificato  con  l'o- 
dierno Portoferraio;  e  l'identificazione  era  stata  già  intraveduta  dagli 
storici  locali:  2  io  la  rincalzerò  con  un  argomento,  che  ci  viene  for- 
nito dalla  tradizione  greca.  Gli  antichi  connettevano,  per  una  falsa 
etimologia,  l'origine  del  Porto  Argoo  con  la  nave  Argo;  e  infatti 
narra  Apollonio  Rodio  IV  654-658  che  nel  viaggio  di  ritorno  gli  Ar- 
gonauti approdarono  anche  all'Elba  e  che  ivi  si  asciugarono  il  sudore 
(ISqSì  uXi§)  con  sassolini  (il>r]cpì6iv)  che  giacevano,  tutti  di  un  sol  co- 
lore (xqoltj  sìxeXca),  sulla  spiaggia.  Strabone  V  2,  6  commentando  la 
leggenda  aggiunge  che  quei  sassolini  (tlfìjcpovg)  c'erano  ancora  ai  tempi 
suoi  (òianèvsiv  iti  ucci  vvv);  ma  altera  alquanto  il  racconto  del  poeta, 
perchè  dice    che    erano    variegati  (diwjiomtXovg)  e  che  non  preesiste- 


1  Cfr.  Diod.  IV,  56,  4. 

2  P.  es.  [A.  Cesarotti]  Istoria  del  principato  di  Piombino,  Firenze  1788,  I,  92  ; 
t  Porto ferrajo,  anticamente  chiamato  Port'Argo», 


PARTE  I.       PAROLE  GRECHE  NELLA  TOPONOMASTICA  DELI,' ELBA.  19 

vano  all'arrivo  degli  Argonauti,  essendosi  invece  formati  dalle  ra- 
schiature di  sudore  cadute  dai  loro  corpi  e  indi  rassodate  (tcbv 
à7Co<STleyyi(j^ckcov  Jtayévrcov). 

Strabone  pervenne  solamente  fino  a  Populonia;  se  avesse  conti- 
nuato il  suo  viaggio  tino  a  l'orto  Argoo,  avrebbe  modificato  la  sua 
relazione,  ma  avrebbe  in  ogni  modo  verificato  coi  propri  occhi  l'esi- 
stenza dei  sassolini.  E  quei  sassolini  esistono  pure  tutt'oggi  sulla 
spiaggia  esterna  di  Portoferraio,  la  (piale  da  essi  ha  ricevuto  il  nome 
di  Ghiaie,  e  costituiscono  anzi  la  caratteristica  più  singolare  della 
costa  settentrionale  dell'Elba,  onde  a  chi  naviga  da  quella  parte  salta 
subito  all'occhio  di  lontano  la  lunga  striscia  bianca  delle  Ghiaie. 
Poiché  tutte  bianche  son  quelle  ghiaie,  e  in  ciò  Apollonio  era  più 
nel  vero  di  Strabone,  e  provengono  dai  detriti  della  roccia  quater- 
naria di  eurite  del  prossimo  Capo  Bianco  * ,  donde  i  venti  del  quarto 
quadrante  da  decine  e  decine  di  secoli  staccano  e  chi  sa  per  quante 
altre  decine  staccheranno  quei  ciottoli,  che  vanno  a  coprire  la  spiag- 
gia :  superiormente  le  ghiaie  son  grosse  e  di  mano  in  mano  che  si 
discende  rimpiccoliscono,  finché  al  pelo  dell'acqua  si  riducono  alle 
dimensioni  di  grani  di  miglio,  in  modo  che  non  sono  più  ghiaie  e 
non  sono  ancora  arena. 

A  quelle  ghiaie  bianche  deve  il  suo  nome  il  Porto  Argoo,  che 
io  non  esito  a  ricongiungere  con  ÙQyóg  (bianco);  la  tradizione  greca 
posteriore  lo  connesse  con  la  nave  Argo. 


1  B.  Lutti  Descrizione  geologica  dell'isola  (V Elba,  Roma  1886,  238  :  «  Merita  di 
essere  rammentato  quel  considerevole  accumulamento  di  ciottoli  candidi  di  eurite... 
cbe  acquistossi  per  ciò  appunto  il  nome  di  Ghiaie.  Un  tale  deposito  di  ciottoli 
è  dovuto  ad  una  corrente  littorale,  probabilmente  determinata  dal  predominio 
dei  forti  venti  del  quarto  quadrante,  la  quale  trasporta  continuamente  detriti 
euntici  delle  coste  del  non   lontano  Capo  Bianco». 

Milano. 

Remigio  Sabbadini. 


«  Eaccolta  /  di  /  lettere  /  scritte  J  in  j  Egitto  /  (1816  ■  1818)  J 
da  [  Scalini  Francesco  j  di  j  Como  ». 


È  questo  il  titolo  di  un  volume  in  4°  di  309  pagine,  manoscritto 
ed  autografo,  da  me  posseduto,  per  essermi  stato  donato  nel  dicem- 
bre 1897  da  mio  figlio,  che  lo  acquistò  alla  vendita  (Roma,  Dario 
Eossi)  della  «  Bibliotheca  Lucini  Passalaqua  ». 

Francesco  Scalini  appartiene  alla  non  piccola  schiera  di  Italiani 
che  nel  periodo  reazionario,  succeduto  alla  Rivoluzione  francese  ed 
all'impero  napoleonico,  o  dovettero  o  preferirono  abbandonare  la  pa- 
tria, gli  uni  per  sempre,  altri,  come  il  nostro,  temporariainente  ed 
anelando  presto  al  ritorno.  In  quei  tre  anni  vissuti  in  Egitto,  egli 
fu  dapprima  e  per  pochi  mesi  segretario  presso  il  Consolato  Austriaco 
n  Cairo,  poi  divenne  il  tesoriere,  l'amministratore,  l'uomo  d'affari  di 
Giovanni  Baffi  Romano,  d'Ancona,  creatore  colà  di  fabbriche  di  pol- 
veri e  nitri.  Non  è  qui  il  luogo  di  insistere  su  gli  uffici,  le  occupa- 
zioni, l'attività,  la  furia  giovenile,  del  colto  ed  operoso  comasco  sem- 
pre in  moto.  Secondo  un  mio  vecchio  scopo  e  programma  '  ,  passo 
senz'altro  a  cogliere  nel  volume  Vantico,  di  cui  la  distruzione  in  ser- 
vizio molteplice  e  spietato  del  nuovo,  nonché  l'emigrazione  per  opera 
di  consoli  collezionisti,  tennero  così  gran  posto  nel  regno  famoso  di 
Mehemet  -  Aly. 

Dunque  nel  1810,  sul  principio  dell'  impiego  e  del  carteggio 
(pag.  29,  32,  34),  Francesco  Scalini  scrive  al  suo  principale,  dal  Con- 
vento Embabescioi  al  Lago  Matrone  :  «  Ho  dato  ordine  di  atterrare 
un  pezzo  di  muro.  Quest'ordine  cagionò  ne'  Frati  un  tal  dispiacere, 
che  tutti  piansero,  e  gridarono,  ed  anzi  il  di  loro  direttore  aveva  già 
preso  i  panni  per  ambirsene,  ma  Calil  mostrandogli  la  sua  ignoranza 
nel  lamentarsi  di  cosa  di  sì  piccol  momento  lo  trattenne.  11  convento 
è  pieno  di  luoghi  inutili  che  dar  ponno  delle  eccellenti  pietre  a  calce, 
ed  a  lavoro  di  muraglie  »,  poi  :  «  Non  essendovi  più  mattoni  vecchi 
nel  convento,  si  deve  ricercarli  fra  le  lontane  mine  de'  conventi  cir- 


1   «  Descrittori  italiani  dell'  Egitto    e    di  Alessandria  »  ,   nelle   Memorie  della 
Reale  Accademia  dei  Lincei,  del  1879  e  del  1892. 


PARTE  I.  RACCOLTA  DI  LETTERE  SCRITTE  IN  EGITTO.  21 

convicini  ».  E  nel  1S17,  da  Terane  (p.  205)  :  «  i  villaggi  tli  Ekmas, 
Katatba,  e  Triss  si  esibiscono  di  andare  a  scavare  al  deserto  il  nu- 
mero de'  mattoni  che  devono  pagare,  e  di  darli  tutti  interi,  non  cal- 
colando gli  spezzati.  »  Il  cosidetto  sebac,  su  cui  possono  vedersi  le 
belle  e  feconde  osservazioni  del  Wilcken  nell'  «  Arcliiv  far  Papyrus- 
forschung  »  (t.  II,  p.  300  segg.),  figura  più  d'una  volta  (p.  55,  70.  83) 
nelle  lettere  al  Baffi  :  «  Ditemi  se  devo  pagar  gli  asini  che  traspor- 
taron  terra  nitrosa;  come  pure  se  devo  cercare  a  Kafer  Davut  una 
trentina  di  Boricela,  almeno  per  10  o  IH  giorni  onde  rammassar  molto 
sebac  sulla  sponda  del  deserto  ». 

Sempre  al  Baffi  (p.  69)  :  «  Sono  avvertito  da  Bagnasco,  che  le 
mine  di  Zani  nel  Delta,  ridondano  di  eccellenti  mattoni,  di  marmi, 
di  colonne,  di  pietre  calcari,,  e  che  uno  scavo  in  esse  non  sarebbe 
infruttuoso.  Se  per  approfittare  di  tali  cose  vi  sono  necessari  ordini 
del  Governo,  procurate  di  munirvi  di  essi,  ma  che  siano  scritti  nella 
più  ampia  forma  ».  Con  altri  però  (p.  257,  da  Terane,  1  sett.  1817, 
al  S.r  Ivabitzsch),  paulo  meliora  canti  :  «  Godo  che  sianti  giunti  i  li- 
bri in  buono  stato,  e  che  le  Medaglie  e  la  Venere  siano  di  tuo  pia- 
cimento... Il  metodo  che  tu  m'indichi  per  avere  delle  antichità  non 
è  per  nulla  convenevole,  ed  io  ho  già  pensato  e  penserò  come  sod- 
disfare a  questo  tuo  nobile  desiderio;  frattanto  sta  certo  che  alla  tua 
venuta  in  Terane  avrai  alcune  belle  monete  antiche  di  rame,  e  forse 
una  qualch'una  d'argento...  Il  S.r  D.re  Burghard  è  qui  da  alcuni  giorni, 
ed  in  due  corse  che  fece  ad  un  villaggio  detto  Zani  che  sta  nel 
Delta  rimpetto  a  Terane,  raccolse  alcune  antichità  e  medaglie;  ma 
quella  fonte  è  inessiccabile,  e  vi  rimana  ognora  dell'acqua  pura,  an- 
che quando  quest'  avido  antiquario  vi  si  sarà  dissetato.  Sino  a  che 
lui  qui  rimarrà,  io  non  [tosso  per  civili  convenienze  seguitare  i  di 
lui  passi.  Pare  che  il  prelodato  S.1'  I).1'  non  abbia  intenzione  di  fare 
scavo  alcuno.»  «Bramerei  (scrive  a  questo  stesso  amico,  10  marzo 
1817,  da  Terane,  pag.  151)  che  tu,  che  sei  uno  dei  soej  che  fanno  le 
nuove  ricerche  nelle  viscere  delle  Piramidi,  mi  mandassi  una  descri- 
zione delle  scoperte  fatte  dall'indefesso  Capitan  Caviglia.  Esse  mi 
saranno  carissime  in  queste  solitudini  da  dove  non  posso  per  ora 
sbucciare  onde  appagare  il  desiderio  clic  ho  di  vedere  le  sin'ora  in- 
tentate vie  di  uno  de7  più  misteriosi  monumenti  dell'  alta  antichità 
Egizia.  Tur  anche,  se  è  possibile,  mandami  un  estratto  di  quegli 
scritti  che  va  stendendo  sulle  scoperte  del  nuovo  Colombo  delle  Pi- 
ramidi, il  matematico  Belletti». 

Sono  per  noi  curiose  e  notevoli,  in  una  sua  lettera  al  Baffi  del 
1817,  queste  poche  linee  (p.  197)  :  «  La  Mareotide  fu  già  una  delle 


22  O.    LUMBROSO. 


più  beile  Provincie  dell'  Egitto  ;  era  il  giardino  dell'  antica  famosa 
Alessandria,  e  palesano  abbastanza  la  sua  antica  grandezza  e  gli 
immensi  lavori  che  xi  furon  fatti,  quella  gran  quantità  di  vastissimi 
pozzi  ancora  in  ottimo  stato  che  veggonvisi  a'  nostri  dì;  da  ciò  de- 
durre si  può  pur  anche  con  quanto  interesse  gli  antichi  cercassero 
di  mantenere  questa  provincia  abitata,  e  coltivata,  e  quanto  profitto 
ne  traessero.  Questa  provincia  che  ha  più  terre  e  migliori  da  colti- 
varsi, di  tutto  l'intero  Fayum,  non  ha  per  abitanti  che  un  pugno  di 
arabi,  e  per  case  che  delle  tende  ». 

Particolarmente  interessanti,  poi,  alcune  ultime  lettere.  P.  358  : 
«  Samanut,  8  Giugno  1818,  al  S.r  Giovanni  Baffi,  Bedrescene  »  :  «  Vi 
scrivo  dal  campo  di  battaglia.  Dopo  una  faticosa  e  sempre  notturna 
navigazione  di  dodici  giorni,  giunto  qui,  corsi  prima  d'ogni  altra  cosa 
a  visitare  il  sarcofago,  e  lo  trovai  mezzo  rinchiuso  in  un  muro  di 
una  piccola  moschea  di  un  Santone  detto  Scek  Gheitass  :  questa  dif- 
ficoltà non  mi  spaventò,  cosicché  volai  immediatamente  al  Mahalle 
per  presentare  l'ordine  del  Kyaya  Bey  al  Kaschef  :  Egli  sulle  prime 
mosse  mille  dubbj,  dicendo  che  il  Bacino  serve  a'  divoti,  a'  passa- 
gieri,  ad  un  campo  di  soldati  che  vi  sono  attendati  ;  ma  finalmente 
colle  buone  parole  e  col  favore  del  fucile  (piccolo  dono  per  il  vero 
ad  un  Kascef  che  fa  le  veci  di  Bey  e  che  comanda  200  villaggi) 
ottenni  da  lui  una  lettera  per  il  Kaimakam  di  Samanut  perchè  mi 
somministrasse  tutti  gli  ajuti  necessari,  anzi  gli  ordina  di  incaricarsi 
lui  stesso  della  condotta  del  sarcofago  alla  barca  purché  io  paghi  ed 
il  muro  da  demolirsi,  e  la  spesa  di  far  un  bacino,  e  tutto  l'occorrente 
di  corde,  uomini,  legnami  ed  altro.  Presentata  la  lettera  mi  vennero 
fatte  le  stesse  difficoltà  del  Kascef;  più  l'impossibilità  di  trovar  uo- 
mini bastevoli  oggi  che  sono  tutti  impiegati  ne'  lavori  de'  fili  e  delle 
tele  del  Pascià  per  la  fiera  di  Tanta,  ed  il  malcontento  del  popolo 
di  veder  tolto  ad  una  [moschea]  un  Bacino  che  serve  alle  sacre  ab- 
luzioni, ma  con  buone  parole  fra  le  quali  lasciai  brillare  qualche 
raggio  di  regalo,  e  coli7  aiuto  di  un  certo  Mahamet  Effendi  soprain- 
tendente  a'  lavori  delle  tele,  e  che  conobbi  a  Terane  da  Kircor,  giunsi 
ad  indurre  il  Kaimakam  a  venir  con  me  questa  mane  a  dar  principio 
al  lavoro.  Giunti  sul  luogo  i  soldati  s'opposero  caldamente  allo  stesso 
Kaimakam,  dicendo  che  una  cosa  di  pubblico  e  sacro  benefizio  deve 
essere  incontaminata,  e  vidi  il  momento  in  cui  il  Kascef  inducevasi 
a  mal  partito  :  corsi  allora  dal  capo  di  soldati  e  postegli  nelle  mani 
piastre  50  n'ebbi  il  subitano  effetto  di  vederli  tranquillizzati  tutti, 
ed  i  Fellah  gli  consolai  colla  speranza  di  far  un'elemosina  alla  Mo- 
schea, e  colla  promessa  di  costruir  un  bacino  più  grande  del  sarcofago. 


PARTE   I.  RACCOLTA   DI    LETTERE   SCRITTE    IN   EGITTO.  23 

Pacificato  il  tutto,  il  Kaimakam  fece  incominciare  la  demolizione  de' 
unni,  e  spero  che  questa  sera  il  sarcofago  sarà  libero  ad  esser  smosso 
dal  luogo  :  ma  come  condurre  al  Nilo  un  peso  così  enorme  di  90  a 
100  Kantara  !  Il  Kascef  ini  disse  che  per  trasportarlo  al  luogo  dov'è 
vi  vollero  500  uomini  e  20  buoi,  e  la  strada  era  corta  !  come  farò 
io  ì  eolla  forza  del  santissimo  denaro;  ma  se  le  spese  saranno  grosse, 
la  preziosità  di  questo  antico  e  torse  unico  monumento  in  tal  genere 
le  compenserà.  I  geroglifici  sono  così  minuti,  come  teste  di  spilli,  e 
dove  incisi  ì  nel  più  bel  granito  roseo,  fra  le  pietre  durissima;  e 
tanta  si  è  la  moltitudine  di  essi  su  tutti  i  lati  esterni  ed  interni  del 
monumento,  che  io  dispero  sino  che  l'accurattezza,  e  la  pazienza  del 
nostro  buon  architetto  possa  giungere  a  disegnarli.  Il  Kaimakam 
mi  promise  di  ragunar  dimani  tutti  i  falegnami  del  villaggio  per 
fare  un  carro  ad  8  ruote,  di  cui  gli  ho  dato  il  disegno,  onde  tra- 
scinar il  monumento  alla  sponda  del  Nilo  :  il  lavoro  è  lungo  diffi- 
coltoso e  dispendioso,  ma  qui  ci  corre  il  guadagno  dell'  Evangelio 
del  100  per  uno.  Credo  necessario  di  spedirvi  il  presente  corriere 
per  intorniarvi  delle  prime  operazioni  ;  perchè  mi  spediate  un  re- 
galo per  il  Kaimakam,  che  io  credo  indispensabile,  essendo  tutto 
il  lavoro  sulle  di  lui  spalle,  e  non  su  quelle  del  Kascef;  e  perchè 
m'informiate  sulla  quantità  dell'elemosina  che  devo  lasciare  al  San- 
tone. Il  sarcofago  dalla  parte  della  testa  è  circolare,  cosa  rara;  e  se 
la  materia  di  quel  di  Belzoni  è  più  preziosa  di  quella  del  nostro,  la 
difficoltà  dell'incisione  di  cosi  minute  figure  nel  granito  l'eguaglia  al 
pregio  del  Belzonico.  L'esser  poi  estremamente  pesante  proviene  dalla 
grossezza  del  fondo,  e  dalla  solidità  dei  lati.  Partecipate  questa  mia 
a  M.r  Coste,  e  rispondetemi  prontamente.  Ecco  (pianto  ni'  occorreva 
scrivervi.  Addio.  »  Giorni  dopo,  un'altro  analogo  trasporto  :  P.  301  : 
«da  Bedrescene  li  10  luglio  1818  al  S.r  Enrico  Salt  console  generale 
Brittannico  »  :  «  Il  giorno  8  corrente,  giorno  della  di  lei  partenza  dal 
Bedrescene,  feci  trasportar  felicemente  sino  alla  sponda  del  Nilo  da 
(IO  uomini  la  bella  Vasca  di  granito,  primo  e  magnifico  monumento 
dissotterrato  fra  le  mine  dell'antica  Menili  :  e  mentre  apparecchiava 
il  tutto  per  farla  scendere  nella  barca  ove  sta  il  sarcofago  di  Sama- 
nut,  sopraggiunto  il  Rais  di  quella  con  altri  Rais  di  altre  barche,  mi 
convinsero  con  forti  ragioni  essere  cosa  del  tutto  pericolosa  e  fuor 
di  senno  il  caricar  una  sola  barca  di  tanto  peso  :  credetti  adunque 
prudenza  d'  accondiscendere  a'  consigli  del  Rais,  e  così  la  Vasca  ri- 
marrà sulla  sponda  sino  a  che  Lei  si  compiaccia  scrivermi  ulteriori 
disposizioni  in  proposito.  »  lutine  da  Alessandria  ^stando  sull'ali  per 
tornare  in  patria),  li  19  settembre    1818,  al  tì.r  Giovanni  Baffi,  Be- 


24  G.   LUMBROSO.  PARTE   i. 

drescene  :  «  ...Il  sarcofago  è  giunto  felicemente  in  Alessandria  e  di- 
scaricato alla  sponda  del  mare;  le  spese  da  Eossetto  in  Alessandria 
sono  state  pagate  da  Nardi  e  credo  ammontino  a  piastre  440.  Dro- 
vetti  lo  vide,  gli  piacque  assaissimo,  lo  stimò  piastre  25,000  con  più 
giustizia  del  Console  inglese,  e  mi  disse  che  parlerebbe  con  voi  per 
acquistarlo,  nel  passare  che  farà  dal  Bedrescene  portandosi  nell'alto 
Egitto  ». 

E  qui  finisce  il  mio  modesto  «  voyage  d'un  antiqnaire  autonr  de 
sa  chambre  »,  di  cui  mi  approfitto  per  collaborare  (molto  povera- 
mente, ma  molto  cordialmente)  al  volume  in  onore  del  prof.  Salinas 
e  di  Palermo. 

Roma. 

Giacomo  Lumbroso 


DUE  TESTE  DI  RILIEVI  FUNEBRI  ATTICI 

RINVENUTE  IN  SICILIA. 

(Vedi  Tav.  I). 


Mssuno  meglio  del  mio  illustre  collega  A.  Salinas,  che  da  mezzo 
secolo  scruta  e  fruga  il  suolo  della  sua  isola,  sa  per  esperienza  quanta 
penuria  di  buone  scolture  greche  vi  sia  in  Sicilia.  Io  non  voglio  in- 
dagare, se  questa  scarsezza  vada  imputata  alla  mancanza  di  scuole 
autonome  ed  indipendenti  di  scultori,  ovvero  al  difetto  della  materia 
prima,  il  marmo;  ed  in  ogni  modo  non  mi  sento  di  commisurare  la 
povertà  della  Sicilia  in  fatto  di  opere  plastiche  antiche  colle  spoglia- 
zioni di  cui  essa  fu  vittima  all'epoca  romana,  e  coi  disastrosi  sac- 
cheggi del  medioevo.  Questo  so  ed  affermo,  che  ben  altra  messe  di 
statue  e  di  scolture  sarebbesi  attesa  da  un  paese  così  fortunato,  dove 
per  ben  quattro  secoli  prosperano  città  insigni  nella  storia  politica, 
floridissime  nella  condizione  economica,  celebrate  per  sontuosità  di 
monumenti  pubblici. 

Alla  Sfrena,  onde  colleghi,  amici  ed  ammiratori  intendono  fe- 
steggiare il  giubileo  accademico  di  Antonino  Salinas,  parvenu  non 
poter  meglio  contribuire,  che  illustrando  due  inedite  scolture  di  ot- 
tima epoca  greca,  che  la  fortuna  ci  ha  in  quest'anno  restituite  e  che 
andarono  ad  accrescere  la  non  ricca  serie  plastica  del  Musco  di 
Siracusa. 

Negli  anni  1903-04-05  tre  lunghe  campagne  di  scavi  sono  state 
dedicate  ad  esplorare  in  modo  esauriente  la  vasta  necropoli  di  Ca- 
marina,  che  si  stende  a  mezzogiorno  della  città,  sulle  collinette  ilo- 
minanti  la  sinistra  del  Kefriscolare,  1'  antico  Oanis.  Sono  stati  sco- 
perti ed  esaminati  1215  sepolcri,  e  sebbene  questa  necropoli  non 
fosse  la  più  antica,  uè  la  più  ricca  della  città,  siamo  ora  in  grado, 
dall'esame  della  copiosa  suppellettile  vascolare,  di  definirne  con  cer- 
tezza la  cronologia,  collocandola  Ira  due  termini  storici  precisi,  la 
ricostruzione  della  città  avvenuta  nel  4(11,  e  la  distruzione  per  opera 
dei  Romani  nel  258  \    Il  vasto  campo  funebre  doveva  essere  in  ori- 


1  Orsi,   Camarilla,    scavi    del  1899  e  1903  pag.  200    (in  Monumenli  Antichi  dei 
Lincei  voi.  XIV,  1904). 


26  P-    ORSI.  PARTE    I. 

ghie  decorato  di  una  quantità  di  segni  esterni  di  sepolcri,  cioè  di 
iscrizioni,  stelai  e  cippi  STtirv^^ioi,  che  valessero  a  contrassegnare  ed 
a  far  riconoscere  almeno  le  sepolture  più  ragguardevoli;  ne  dovevano 
in  origine  mancare  anche  le  scolture,  sia  architettoniche  sia  figurali. 
Se  nonché  sn  quel  snolo,  deserto  e  desolato  per  secoli  e  secoli,  pare 
che  già  in  antico  sia  passata,  spezzando  e  spazzando  (pianto  emer- 
geva dal  soprassuolo,  una  violenta  bufferà,  che  solo  i  sepolcri,  sca- 
vati a  varia  profondità,  lasciò  pressoché  tutti  intatti.  Penso  che  tale 
mina  sia  dovuta  ai  Romani,  assedianti  nel  258  la  città,  che  in  questo 
punto  elevato  e  militarmente  importante  posero  il  loro  campo.  Ap- 
punto per  ciò  non  mi  fu  possibile  rinvenire  un  solo  avanzo  epigra- 
fico, ma  bensì  invece  più  di  un  frammento  spettante  alla  decorazione 
architettonica  dei  sepolcri,  e  frammenti  di  cippi  e  pilastri  scorniciati. 
E  di  avanzi  plastici  due  soli  frammenti  ebbi,  uno  rinvenuto  nella 
campagna  del  1896  ',  e  l'altro,  argomento  alla  presente  nota,  in 
quella  della  primavera  del  1005. 

Alla  tavola  I  vedesi  un  frammento  di  lastra  marmorea  ,  a  mi- 
nuto impasto  cristallino  (Pentelico),  sulla  cui  superficie  1'  azione  di 
23  secoli  ha  stesa  quella  mite  tinta  aurata,  che  colla  sua  nota  tie- 
pida tanto  s'addice  a  render  gradevoli  i  vecchi  marmi  greci,  smor- 
zando l'abbagliante  candore  ch'essi  avevano  in  origine.  Il  frammento 
ha  un'altezza  di  cm.  20,  uno  spessore  massimo  di  cm.  7  l/z,  e  nel 
rovescio  porta  gli  avanzi  obliterati  ed  abrasi  di  una  più  antica  scol- 
tura non  funeraria,  ed  a  quel  che  pare,  abbozzata  e  non  finita.  Xel 
dritto  invece  una  bella  testa  di  guerriero  adulto  e  barbuto,  coperto 
di  un  elmo  campanato  che  gli  protegge  tutta  la  calotta  craniale,  dal 
ciglio  all'occipite.  La  barba  è  trattata  sommariamente  a  bioccoli  la- 
nosi ricciuti;  l'occhio  profondo  coll'orlo  delle  palpebre  arrotondato, 
abraso  il  naso,  le  labbra  piccole  e  carnose,  asciutte  le  guaneie  ;  il 
fascio  dei  muscoli  occipitale  e  sterno-cleido-mastoideo  indicato  con  pochi 
ma  vigorosi  piani.  In  complesso  un  lavoro  per  niente  minuzioso  e 
dettagliato,  anzi  sommario  e  quasi  rude,  come  il  volto  del  guerriero 
di  cui  rendeva  le  sembianze,  vigorose  ed  indurite  sui  campi,  ma 
aperte,  franche,  e  composte  a  calma  serena. 

Nessuno  porrà  in  dubbio,  che  questa  scoltura  non  appartenga 
ad  un  rilievo  funebre  colla  intera  imagine,  grande  al  vero,  di  un 
guerriero  caniarinese  della  seconda  metà  del  sec.  V,  anzi,  per  essere 


1  Orsi,   Camarilla  ,  campagna    aruhco logica    del  1896  pag.  66    (in   Monum.   Ani. 
dei  Lincei   vii.  IX,   1899). 


PARTE    I.  DUE  TESTE  DI  RILIEVI  FUNEBRI   ATTICI.  27 

più  precisi,  di  un  guerriero  morto  alla  fine  di  esso.  Qualche  breve 
osservazione  merita  anzitutto  la  forma  conica  o  meglio  campanata 
dell'elmo,  che  noi  troviamo  espressa  in  rappresentanze  vascolari,  in 
bassorilievi,  e  che  ci  è  anche  tramandata  da  qualche  raro  originale. 
È  la  forma  di  elmo,  comunemente  detta  laconica  od  arcadica,  che 
malgrado  l'epiteto  fu  usata  un  po'  dapertutto;  propriamente,  attesa 
la  sua  foggia,  è  un  %lXog  %ak%ovg,  rispondente  all'esemplare  della  rac- 
colta Lipperheide,  l  di  fresco  entrata  ,  colla  sua  magnifica  ed  unica 
serie  di  elmi,  nel  Museo  di  Berlino,  ed  anche  all'esemplare  di  Do- 
dona.  '  Si  è  una  volta  creduto  che  questa  foggia  fosse  una  specialità 
portata  dai  guerrieri  apuli,  essendosi  in  Apulia  rinvenuti  esemplari 
in  bronzo  e  numerose  repliche  in  terracotta,  e  vedendosi  tale  elmo 
pileato  nei  vasi  apuli,  messo  in  capo  a  guerrieri  indigeni  che  com- 
battono contro  ai  Greci  3.  Ma  ammessa  anche  una  particolare  diffu- 
sione di  questa  copertura  militare  in  Apulia,  essa  vi  deve  essere 
stata  introdotta  dalla  Grecia,  che  colle  sue  intense  e  continue  in- 
fluenze aveva  dato  il  colore  alla  civiltà  locale,  determinando  persino 
il  sorgere  di  fabbriche  indigene  di  vasi  figurati.  Ne  ho  bisogno  di 
dare  uno  spoglio  delle  rappresentanze  di  vasi  attici,  dove  tale  forma 
occorre,  perchè  troppo  mi  dilungherei;  mi  basti  citare  un  solo  esem- 
plare, un  cratere  camarinese  (Orsi,  o.  e.  tav.  VII)  di  stile  rosso,  con 
Amazzonomacliia,  della  line  del  sec.  V.  Ricorrendo  all'Attica,  l'elmo 
a  Ttllog  ci  si  affaccia  in  taluni  rilievi  funebri,  ancora  di  ottima  epoca, 
come  nella  stele  di  Mica  ed  Anfidemo,  in  quella  di  Lisas  di  Tegea, 
e  finalmente  nel  superbo  monumento  di  Aristonautes  '.  E  sempre 
per  dimostrare  la  diffusione  di  tale  copertura,  viene  a  proposito 
l'Heroon  di  Trysa,  che  forse  unico  fra  tutti  i  monumenti  greci  con- 
tiene nei  suoi  rilievi  la  più  copiosa  serie  di  figure  militari;  a  propo- 
sito   di  queste  il    Benndorf  ha   composta    un'  accurata    statistica,  no- 


1  Archaeologischer  Anzeiger  1905  pag.   20-21. 

2  Carapanos,   Dortona  et  ses  ruines  tav.  LVI,  7. 

:!  Lindenschniidt  ,  Die  Alterthiimer  unserer  heidn.  Vorzeit  (voi.  I,  3  tav.  Ili; 
elmo  di  Cimosa);  Leuormant,  Gazzette  archéologique  a.  VII,  pag.  99  (esemplari  tit- 
illi  di  Lecce,;  Gerhard,  Jpulische    l'asen   (passini). 

4  La  prima  di  codeste  scoltnre  (Die  attisclten  Grabreliefs  tav.  XLIX  testo  pag.  40) 
è  ritenuta  dagli  editori  ancora  della  line  del  sec.  V;  auche  qui  è  un  guerriero 
barbuto  che  si  separa  dalla  moglie.  Quella  di  Lisas  di  piccole  dimensioni,  ed 
assai  inferiore  alla  nostra  testa  per  stile,  è  tuttavia  ritenuta  dello  scorcio  del 
sec.  V  (testo  pag.  250),  contro  l'avviso  del  Pottier.  che  la  porta  alla  line  del  IV. 
Al  quarto  secolo  invece  va  riferita  la  grandiosa  stele  di  Aristonautes  (tav.  CCXLV) 
con   figura  in   prospetto. 


28  P.    ORSI.  PARTE   I. 

tando  conio  \-i  sieno  77  elmi  attici,  23  corinzii,  29  frigi  e  143  a 
t'orina  di  pilos,  la  quale  «  non  di  rado  s'  incontra  anche  su  monu- 
menti attici  »   1. 

E  di  fatto  sui  rilievi  funebri  attici,  che  costituiscono  il  corpus 
pili  ricco  e  svariato  di  questo  ramo  della  scoltura  greca,  già  dal 
sec.  VI  a  tutto  il  IV  noi  vediamo  sfilarci  davanti  le  diverse  cate- 
gorie di  cittadini,  uomini  e  donne,  adulti  e  fanciulli,  soldati  e  bor- 
ghesi, cavalieri  e  fanti,  donne  mature  e  fanciulle;  insomma  una  mi- 
niera ricchissima,  dove  si  rispecchia  la  vita  ed  il  costume  ateniese 
di  oltre  due  secoli,  e,  ciò  che  più  monta,  la  evoluzione  della  scol- 
tura attraverso  un  periodo  così  lungo  e  glorioso.  Dolci  sensi  di 
affetto  vi  sono  espressi  accanto  a  severe  figure  di  soldati  e  ad  agi- 
tate imagini  di  garzoni  che  s'addestrano  ai  forti  esercizi  della  pale- 
stra; guerrieri  eroicamente  caduti  in  difesa  della  patria  accanto  a 
dolci  scene  d'  intimi  affetti  famigliari ,  per  sempre  spezzati  dalla 
morte.  Tutte  le  risorse  dell'arte  attica,  dalle  espressioni  dure  e  severe, 
alle  più  gentili  sentimentilità  femminili  sono  state  trasfuse  in  questa 
preziosa  serie  di  scolture,  che  è  vivo  e  spontaneo  riflesso  della  vita, 
del  costume,  del  sentimento,  della  potenzialità  artistica  di  genera- 
zioni di  cittadini,  e  di  artisti  che  lavorarono  sulle  orme  delle  grandi 
scuole  dominanti,  rispecchiandone  la  maniera  e  l'indirizzo. 

Quanto  ai  soggetti  militari  ,  nelle  stelai  non  si  dura  fatica  a  rim- 
tracciarne  esempi  in  tutte  le  epoche,  direi  anzi  di  preferenza  fra  le 
arcaiche;  principe  quella  dipinta  di  Aristione  ,  ed  alcune  altre  coeve  \ 
Guerrieri  armati  da  capo  a  piedi  noi  troviamo  in  cinque  stelai  che 
fanno  capo  e  si  raggruppano  a  quella  di  Velanideza  colla  firma  di 
Aristocle,  e  che  vennero  scolpite  fra  520-500  3  ;  nudo  della  nudità 
eroica,  coperto  del  solo  elmo,  era  il  tarchiato  efebo  della  stele  di 
Nisyros  del  470  circa  4);  per  altri  guerrieri  coperti  dell'elmo  pileato 
ho  già  di   sopra  citato  gli  opportuni  riscontri. 

I )o])o  questa  analisi  formale  e  stilistica  io  non  credo  di  andar 
lungi  dal  vero  nello  affermare,  che  la  nostra  scoltura  è  dovuta  ad 
un  artista  attico,  e  che  dell'arte  attica  sentiva  profondamente  lo  spi- 
rito ed  il  fascino  nei  tempi  immediatamente  posteriori  a  Fidia.  An- 
zitutto attica  è  la  forma  del  rilievo,  perocché  non  altrimenti  dob- 
biamo imaginarlo  nel  suo  stato  originario  e  completo,  che  come  una 


1  Benndorf,   Dus  Ileroon  voti  Gjiilbaschi-Trysa,  pag.  236. 

2  Die  attixvhen   Grabreliefs,   tav.   II,   1  e  2;   tav.   Ili;   tav.    Vili,   1. 

3  Heinach  in  Berne  Archéologique  1901,  Il  pag.   163* 

4  Reme  Archéol.  1901  tav.  XV. 


PARTE    I.  DUE  TESTE  DI  RILIEVI  FUNEBRI  ATTICI.  29 

stele  a  rilievo  piatto,  alta  e  slanciata,  colla  figura  del  defunto  grande 
al  vero  e  perciò  stesso  isolata,  sormontata  in  alto  da  una  grande 
palmetta.  Forma  nobilissima  clic  gli  Attici  tolsero  certo  dall'Ionia  '  , 
e  clic  imposta  al  sepolcro  sembra  volesse  immortalare  il  defunto, 
scolpito  nel  marmo  duraturo,  e  clic  s'aderge  solenne,  ([nasi  eroizzato, 
nella  pompa  austera  del  suo  costume  guerresco,  mentre  il  suo  frale 
si  consuma  sotterra.  Il  Furtwaengler,  clic  a  queste  stelai  del  periodo 
fidiaco  ha  dedicato  pagine  acute  e  sapienti  ~  ,  ci  adduce  una  serie 
delle  medesime  trovate  fuori  dell'  Attica,  anche  in  lontane  regioni, 
ma'  attiche  di  stile  e  di  sentimento,  le  (piali  attestano  dell'influenza 
possente  dell'arte  di  Fidia  e  della  sua  scuola.  Sotto  questo  rispetto 
adunque  nulla  di  strano,  se  unii  scultore  attico  od  inspirato  all'  At- 
tica lavorava  negli  ultimi  lustri  del  sec.  Va  Camarilla,  modesta  città, 
che  artisti  propri  difficilmente  avrà  avuti,  e  che  per  necessità  di  cose 
attingeva  al  più  grande  e  luminoso  centro  dell'  arte  contemporanea, 
ad  Atene  ed  all'Attica. 

Ma  vi  ha  di  più;  il  tipo  antropologico  dei  (ìreci  nella  seconda 
metà  del  sec.  A"  era  supergiù  eguale,  ed  anzi  l'unità  etnico-risica  era 
allora  più  accentuata  che  non  sia  oggi  fra  gli  italiani  del  sec.  XX; 
e  dal  solo  aspetto  risico  credo  sarà  stato  difficile  discernere  un  Ate- 
niese genuino  da  un  Sicelioto  delle  colonie  d'occidente,  se  non  fosse 
per  qualche  raffinatezza  del  tratto,  per  qualche  particolarità  del  co- 
stume e  sopratutto  per  la  maniera  della  pronunzia.  Anche  il  modo 
di  trattare  la  barba  e  la  chioma  presso  le  persone  per  bene  non  era 
gran  fatto  dissimile;  dalla  metà  del  sec.  V  al  IV  le  persone  distinti' 
portavano  capelli  corti,  barba  accurata  e  mustacchi  ::  ,  ciò  che  è  di- 
mostrato dai  ritratti  di  Pericle  e  Sofocle,  dalle  figurazioni  dalle  stelai. 
Ond'io  non  trovo  ragione  di  sorpresa,  se  l'anonimo  guerriero  eainari- 
nese  presenta  tratti  facciali,  barba  e  chioma  tali,  da  confonderlo  colle 
imagini  dei  suoi  contemporanei  dell'Attica  o  di  altre  regioni  dove  la 
scoltura  funebre  attica  si  afferma.  Ala  se  v'  era  un  t'ondo  tisico  co- 
mune, non  va  escluso  che  lo  scultore  attico  prediligesse  dare  ai  suoi 
soggetti  (pici  caratteri  formali  che  egli  era  abituato  a  scorgere  fra 
la  folla  ateniese,  o  nei  modelli  delle  grandi  officine,  dove  egli  aveva 
fatto  il  suo  tirocinio.  Ne  veniva  quindi  una  certa  convenzionalità 
nelle  teste,  un  tipo  tradizionale  che  appunto  rivela  lo  scalpello  attico 
dell'artista.   Ond'è  che  lo  sconosciuto  guerriero  di  Camarilla,  colla  sua 


1  Collignou,   Histoirt:  de  la  sculpture  grecque  voi.   I   pag.  381, 

2  Die  Sammlung  Sabouroff  pag.   5  e  seg». 

3  Baumeister,  Denkmaeler  voi.  I  pag.  255. 


30  .  P.    ORSI.  PARTE   li 

corta  chioma,  colla  barba  a  bioccoli,  col  caratteristico  mento  depresso, 
coi  lunghi  mustacchi  abbassati,  colle  labbra  alquanto  prominenti,  ap- 
pare fratello  al  cavaliere  di  una  stele  vaticana,  che  si  vuole  della 
Beozia  (Collignon,  voi.  II  fig.  72),  all'adulto  di  Carystos  (8.  Sabouroff, 
tav.  VI),  al  marito  in  doloroso  congedo  di  una  stele  della  via  sacra 
di  Eleusi  (ibidem  tav.  XVIII),  e  a  tant' altri  soggetti  funebri,  che  tutti 
poi  si  riconducono,  qual  più,  qual  meno,  ai  venerandi  thallofori  del 
fregio  del  Partenone.  Si  direbbe  che  questo  tipo  attico  dell'  adulto 
barbuto  abbia  pervaso  tutte  le  contrade,  dove  l'arte  attica  si  afferma. 
La  stele  era  ad  una  sola  figura,  e  questo  è  di  grande  peso  nel 
collocarla  alla  fine  del  sec.  V,  anziché  al  principio  del  IV.  Essa 
dev'essere  perciò  anteriore  alla  distruzione  della  città  avvenuta  per 
opera  dei  Cartaginesi  nel  405,  ed  io  vado  ancor  più  oltre,  collocan- 
dola, per  ragioni  storiche,  prima  della  famosa  spedizione  ateniese  del 
415-413,  che  col  tragico  epilogo  dell' Assinaros  segna,  per  lunga  data, 
la  scomparsa  dell'influenza  politica  e  del  commercio  attico  in  Sicilia. 
Negli  anni  427-415  l'antipatia  di  Camarina  per  Siracusa  fu  tale,  che 
si  preferì  contrarre  alleanza  con  Atene,  ed  Archia  capitanò  sempre 
una  politica  ostile  alla  metropoli  1  ;  è  molto  verosimile  che  in  questo 
periodo,  o  poco  prima,  un  artista  attico  lavorasse  in  Camarina,  dove 
gli  Ateniesi  incontravano  simpatia  e  favore;  non  certo  dopo  il  413, 
anno  che  segna  per  molti  lustri  la  cessazione  di  ogni  influenza  po- 
litica, commerciale  ed  anche  artistica  di  Atene  sull'isola. 


Le  osservazioni  fatte  intorno  alla  testa  pileata  di  Camarilla  mi 
hanno  spianata  la  via  allo  studio  di  un'altra  testa  a  rilievo,  difresco 
acquistata  dal  Museo  di  Siracusa  e  casualmente  rinvenuta  da  conta- 
dini in  contrada  Burgio,  un  cinque  chilometri  a  ponente  di  Pachino, 
in  un  terreno  archeologicamente  sconosciuto,  che  ha  dato  sepolcri 
greci  e  ruderi  di  età  tarda,  e  dove  non  pare  improbabile  s'abbia  a  col- 
locare la  tanto  controversa  Casmena.  Ma  è  bene  per  ora  lasciare  im- 
pregiudicata codesta  difficile  questione  topografica,  sino  a  tanto  che 
degli  scavi  sistematici  non  abbiano  messo  in  chiaro  l'indole,  l'età  e 
la  pertinenza  della  necropoli. 

La  testa  di  Burgio  a  rilievo  piatto  è  scolpita  in  marmo  greco 
a  grana  finissima,  impastata  di  minuti  tritumi  di  scintillanti  cristal- 
lini; la  superficie  ha  lieve    patina    bruno  aurata,  le  dimensioni    sono 


1  Schubring,  Kamarina  pag.   499  (Rhein.  Museum  XXXII). 


PARTE    I.  DUE  TESTE  DI  RILIEVI  FUNEBRI  ATTICI.  31 

circa  al  vero  ;  essa  è  data  di  tutto  profilo  sinistro,  ed  accurata- 
mente ritagliata  nel  contorno,  anzicchè  staccarsi  e  risaltare,  come  la 
camarinese,  sul  tondo  abbassato  della  stele  marmorea.  Essa  reca  la 
effigie  di  un  adulto  nella  pienezza  della  virilità,  colla  fitta  chioma  a 
brevi  ciocche  ricciute,  ognuna  delle  quali  solcata  per  il  lungo  da  una 
o  più  incisioni.  Alquanto  diversamente  è  trattata  la  corta  ma  fìtta 
barba,  pettinata  a  tratti  verticali  lievemente  ondati,  ed  i  lunghi  mu- 
stacchi, che  tagliati  al  labbro  superiore  scendono  rigidi  a  confondersi 
colla  massa  unita  della  barba  stessa.  L'  occhio  colle  palpebre  forte- 
mente rilevate  non  porta  indicazione  della  pupilla;  il  naso  è  in  buona 
parte  asportato  dalla  punta  alla  radice;  un  po'  abraso  l'arco  sopra- 
cigliare ed  il  padiglione  dell'orecchio;  il  collo  non  è  rotto  ma  di  pro- 
posito tagliato  netto  al  primo  terzo  superiore.  In  complesso  il  ritratto. 
che  tale  era  certamente,  ci  mostra  una  persona  vigorosa  e  forte,  dalle 
fattezze  esprimenti  energia  e  tenacia,  composte  in  una  concentrazione 
tranquilla  e  serena.  11  singolare  rilievo  alto  cm.  25,  con  uno  spessore 
massimo  di  o,  è  attraversato  presso  il  vertice  craniale  da  un  foro 
cilindrico,  contenente  ancora  un  getto  di  piombo  per  fissarlo  alla  pa- 
rete di  sfondo;  il  rovescio  è  lavorato  in  rustico. 

Qualche  ulteriore  osservazione  stilistica  si  rende  qui  necessaria 
a  completare  quelle  già  fatte  a  proposito  della  testa  camarinese.  In 
essa  l'elmo  copre  e  cela  la  parte  capelluta,  che  qui  invece  risalta  in 
tutta  la  sua  bellezza,  e  lascia  scoperto  tutte»  il  contorno  craniale, 
con  quella  bella  ed  euritmica  sagoma  (piasi  rotonda,  caratteristica 
delle  migliori  opere  dell'arte  attica,  ond'esse  si  contraddistinguono  dai 
tipi  policletei.  La  chioma  copre  tutta  la  calotta  craniale  di  brevi  e 
fitte  ciocche,  (piasi  compresse  ed  aderenti,  lavorate  con  somma  cura 
e  finezza,  e  divise  ognuna  mediante  uno  o  due  solchi  in  due  o  tre 
liste  con  estremità  arricciata;  una  foggia  anche  codesta  peculiare  alla 
buona  scoltura  attica  del  V  e  IV  secolo,  a  cominciare  dalla  tesla  di 
Armodio,  dove  per  ragione  di  tempo  le  ciocche  sono  più  rigide  e 
schematiche,  passando  al  mironiano  idolino  di  Firenze,  fino  al  nobi- 
lissimo e   raffinato  ritratto  di    Pericle,  dovuto  a  ('resila  di  Kydonia  '  . 

L'occhio  non  molto  profondo  ed   un   pò*    volto  in   alto,  (piasi   con 


1  Questo  argomento  delle  teste  attiche,  e  sopratatto  del  modo  di  renderne 
la  capigliatura,  è  stato  di  recente  trattato  con  molta  larghezza  da  parecchi,  di 
cui  io  citerò  qui  i  più  autorevoli  :  Furtwaengler.  Mcisterwerke  pai;.  517;  Heruianu, 
Alhenische  2Iitthtihingen  1891  pag.  316;  Kekule  ,  Ucber  citi  ISildniss  des  Perich'8 
pag.  10;  Beundorf,  Oesterr.  Jahreshefte  1903  pag.  T-S;  Ameluug,  Jahrbuch  1903 
pag.  112;  Richardsou,  Athen.  Mittheilungen   1903  pag.   132. 


32  P.    ORSI.  PARTE   I. 

intensificazione  dello  sguardo,  ha  il  bulbo  alquanto  arrotondato,  rac- 
chiuso fra  le  palpebre  dall'orlo  prominente,  angoloso  ed  acutamente 
tagliato;  anche  la  glandola  lacrimale  è  indicata;  chiusa  decisamente 
la  bocca.  Nello  insieme  la  testa  è  elaborata  con  grande  finezza  ed 
amore,  riuscendo,  sotto  tal  riguardo,  di  gran  lunga  superiore  alla  ca- 
marinese,  anche  per  la  maggior  vivezza,  per  il  risalto  delle  caratte- 
ristiche individuali,  e  per  quella  nota  di  freschezza  cui  sempre  ten- 
devano gli  scultori  dei  rilievi  funebri  attici.  Ma  oltre  ai  particolari 
del  dettaglio  noi  dobbiamo,  e  sopratutto,  badare  all'insieme  dell'ope- 
ra, per  dedurne  un  attendibile  giudizio  stilistico  e  cronologico. 

E  della  bontà  dell'  epoca  è  indice  sicuro  la  nobile  e  composta 
bellezza,  l'aspetto  signorile  e  distinto,  la  nota  di  grandezza  e  tran- 
quillità che  aleggia  su  questo  volto,  che  non  certo  appartiene  alla 
serie  delle  opere  dozzinali  e  bottegaie,  le  quali  dalla  metà  del  sec.  IV 
vengono  sempre  più  corrompendo,  col  loro  carattere  manuale,  la  pri- 
mitiva e  tradizionale  nobiltà  della  scoltura  funebre.  L'esame  dei  pan 
neggi,  ne  sono  sicuro,  avrebbe  aggiunto  nuove  conferme  all'analisi  sti- 
listica che  io  ho  svolta,  ma  poiché  essi  mancano,  è  inutile  toccare 
un  campo  meramente  ipotetico. 

Resta  che  io  prenda  a  studiare  l'ultima  e  difficile  questione  tec- 
nologica ;  perocché  è  una  particolarità  inusitata  e  rarissima,  forse 
anzi  nuova,  questa  di  un  rilievo  elaborato  a  parte,  accuratamente 
ritagliato,  imposto  ed  applicato  ad  uno  sfondo  di  altra  materia,  forse 
di  altro  colore,  quasi  un  cammeo  che  risalta  sul  fondo  scuro,  rispar- 
miato ad  arte. 

Per  quanto  di  età  e  di  stile  molto  diversi,  io  debbo  anzitutto 
ricordare  le  metope  del  tempio  E  di  Selinunte,  nelle  quali  le  teste,  le 
braccia,  le  mani  ed  i  piedi,  in  genere  tutte  le  parti  nude  delle  fi- 
gure muliebri,  sono  in  candido  pario,  lavorate  a  parte  ed  innestate 
sui  corpi  di  tufo,  ravvivati  dal  colore.  Ma  qui  è  tutt'altro  il  princi- 
pio e  la  ragione  determinante  questo  infantile  e  pur  efficace  ripiego, 
che  ricorda  la  scoltura  crisoelefantiiica  e  piti  la  pittura  vascolare 
attica  a  f.  n.  da  cui  venne  forse  suggerito.  l. 

A  Camarilla  nel  campo  funebre  di  Passo  Marinaro  nei  miei  scavi 
del  1896,  assieme  ad  alcuni  frammenti  architettonici  spettanti  ad  una 
edicola  funebre,  io  raccolsi  una  placca  marmorea  a  medio  rilievo,  con 
porzione  di  un  corpo  panneggiato  ,  che  va  dai  fianchi  alla  punta  delle 
ginocchia  2  ;  la  placca  lavorata    in  rustico    nel    rovescio  e  ritagliata 


i  Benndorf,   Die  Metopen  voti  Selinvnt  pag.  42. 
2  Orsi,  Camarilla,  campagna  del  1896  pag.  66. 


PARTE    I.  DUE    TESTE    DI    RILIEVI    FUNEBRI    ATTICI.  33 

lungo  il  lato  destro,  doveva  essere  applicata  ad  uno  sfondo  prepa- 
rato; se  poi  il  rilievo  funebre  constasse  di  una  o  di  due  ligure  non 
fui  in  grado  di  stabilire. 

Spigolando  nel  vasto  campo  degli  Attìschen  Grabreliefs  trovo 
unico  esempio  alla  tav.  CCXIl  un  corpo  di  guerriero,  al  quale  era 
applicata  una  testa  di  riporto,  ora  smarrita.  Per  due  teste,  maschile 
una  muliebre  l'altra,  del  Museo  Civico  di  Trieste  (o.  e.  n.  1207  e  1298  a.), 
mi  assicura  l'egregio  direttore  Alberto  ruschi  che  esse  sono  ritagliate 
nel  contorno. 

Ma  è  nel  fregio  dell' Erechtheion  d'Atene  che  noi  troviamo  1'  e- 
sempio  più  attagliato  al  caso  nostro;  esso  constava  di  uno  sfondo  di 
pietra  nerastra  di  Eleusi,  sulla  (piale  erano  applicati  mediante  perni 
metallici  i  bassorilievi  in  Pentelico,  ritagliati  figura  per  figura,  in 
modo  da  risaltare  come  grandi  cammei  sul  fondo  cupo.  I  conti  del- 
l'opera, fortunatamente  pervenutici,  ne  accertano  che  questo  lavoro 
venne  terminato  e  pagato  negli  anni  408  e  407  l.  Le  scolture  sono 
dovute  a  parecchi  artisti  di  secondo  ordine,  mediocremente  ricom- 
pensati, i  quali  miravano  sopra  tutto  ad  ottenere  effetti  pittorici,  e 
che  alla  grande  arte  applicarono  in  qualche  modo  il  sistema  dello 
stile  rosso  dei  vasi,  le  cui  figure  spiccano  sul  fondo  nero.  Lo  seni 
tore  della  testa  di  Burgio  si  è  attenuto  allo  stesso  metodo,  ed  ha 
tentata  la  stessa  novità. 

Ma  conobbe  egli  i  rilievi  del  fregio  dell' Erechtheion,  od  attinse 
ad  altre  fonte  che  noi  non  conosciamo  ?  Sarà  ben  difficile  rispondere 
a  tali  quesiti,  che  si  collegano  intimamente  con  altri.  Io  mi  sono 
adoperato  a  mettere  in  evidenza  i  caratteri  attici  di  questa  testa,  e 
le  ragioni  che  m'  inducono  a  ritenerla  dell'  ottimo  tempo  della  scol- 
tura funebre,  cioè  dell'ultimo  terzo  del  sec.  V.  Ma  se  valgono  i  cri- 
teri storici  addotti  per  la  testa  di  Camarilla,  anche  questa  dovrebbe 
essere  anteriore  al  415-413,  e  quindi   alle  scolture  dell' Erechtheion. 

E  di  conclusione  in  conclusione  a  quest'  altro  risultato  noi  per- 
veniamo, che  cioè  queste  due  opere  «Iella  fine  del  sec.  V  rappresen- 
tano quanto  a  stile,  scuola  ed  indirizzo  una  eccezione  in  mezzo  alla 
serie  di  scolture  siceliote  del  VI  e  V  secolo,  sin  qui  conosciute,  le 
quali  per  unanime  consenso  degli  archeologi  si  attribuiscono  a  maestri 
e  scultori  delle  scuole  peloponnesiache.  Che  le  metope  di  Selinunte 
si   richiamino  fortemente  ad  Olimpia  fu  già  dimostrato,  fino   all'  esa- 


1  Collignon  ,   Hist.  de  la  sculptiirc  grecque  voi.   II  pag.  04-95  ;    Overbeck,   Gè- 
schichte  dcr  griech,  Plastik,  4  ed.   voi.   I  pag.  475. 

3 


34 


gerazione,  dal  Kekule  '  ;  per  le  teste  ed  i  torsi  arcaici  rinvenuti 
nell'isola  tutti  van  d'accordo  nel  non  riconoscervi  nessuna  nota  od 
impronta  di  originalità,  ma  una  dipendenza  dalle  scuole  del  Pelo- 
ponneso 2 .  Quando  i  munifici  principi  siracusani  all'inizio  del  sec.  V 
vogliono  immortalare  le  loro  vittorie  agonistiche  mediante  sontuosi 
anathemata,  non  trovano  in  Sicilia  artisti  di  valore,  e  danno  le  com- 
missioni ai  bronzieri  di  Argos  e  di  Egina;  perfino  nelle  terrecotte  e 
nelle  monete  noi  troviamo  fino  agli  ultimi  lustri  del  sec.  V  mante- 
nuto questo  asservimento  alle  scuole  peloponnesiache  3. 

Solo  con  Fidia  l'arte  attica  divenuta  arte  ellenica  %at  è%o%ì]v,  si 
impone  gloriosa  nei  tipi  monetali  di  Siracusa,  ed  i  grandi  decadrammi 
ce  ne  porgono  decisiva  testimonianza.  Anzi,  strano  contrasto,  è  l'arte 
attica  trionfa trice  che  viene  chiamata  ad  eternale  nel  saldo  argento 
la  disfatta  militare  e  politica  di  Atene;  ma  il  tipo  del  decadramma 
sorto  alquanti  lustri  prima  della  rotta  all'Assillavo  permane  e  si  per- 
feziona, per  opera  di  artisti  asserviti  a  Siracusa,  anche  dopo  il  di- 
sastro ateniese. 

Ma  altra  cosa  sono  le  arti  minori  ed  industriali,  che  s'infiltrano 
ovunque,  altra  la  grande  arte  in  servizio  del  culto  e  dello  stato,  e 
di  questa  grande  arte  attica,  per  (pianto  io  mi  adoperi,  non  riesco 
a  trovare  in  Sicilia  affermazioni  decise  durante  il  sec.  V.  Onde  ri- 
torno alla  mia  precedente  dichiarazione,  cioè  a  rilevare  la  rarità  ec- 
cezionale delle  nostre  due  teste,  indubbiamente  attiche  in  suolo  si- 
celiota,  le  quali  coincidono  e  segnano  l'influenza  esercitata  dall'arte 
grandiosa  del  ciclo  fidiaco  anche  in  Sicilia,  influenza  affermata  sin 
qui  dalle  sole  monete. 

Avrei  finito,  se  non  dovessi  muovere  un'  altra  domanda.  Erano 
gli  autori  delle  nostre  scolture  artisti  attici  lavoranti  in  Sicilia,  op- 
pure residenti  nell'Attica,  che  assumevano  ed  eseguivano  per  conto  di 
Sicelioti  le  commissioni  1  Una  domanda  analoga  non  so  se  sia  stata 
posta  a  proposito  dei  copiosi  rilievi  funebri  attici,  fuori  dell'Attica 
segnalati.  Nel  caso  nostro  la  mancanza  di  marmi  nell'isola  mi  muove 
a  porre  il  quesito,  alla  cui  soluzione  nell'uno  o  nell'altro  senso,  mi- 
litano argomenti  del  paro  validi.  Se  è  stato  già  ammesso  da  parec- 
chi, e  ragionevolmente  ,  4  che  in  Sicilia    invece  dei  pesanti    blocchi 


1  Archeol.  Zeitung  1883  pag.  229;  idem,  Archaiseher  Frauenkopf  ans  Sicilie». 

2  Poterseli,  Boemische  Mittheilun gen  1892  pag.  65  e  segg.  ;   1897  pag.   124  e  127. 

3  Veggasi  in  proposito  la  eccellente  monografia  di  G.  E.  Rizzo,    Di  una  statua 
fittile  di  Inessa  e  di  alcuni  caratteri  dell'arte  siceliota  (Napoli   1904Ì. 

4  Rizzo,  o.  e.  pag.  27  nota  4. 


PARTE   I.  DUE   TESTE    DI   RILIEVI   FUNEBRI   ATTICI.  35 

grezzi  si  importassero  statue  belle  e  fatte,  e  grandi  bronzi  già  fusi, 
non  vedo  perchè  eguale  concessione  non  s'abbia  a  fare  anche  per  le 
stelai,  le  quali  in  breve  tempo  potevano  eseguirsi  in  Atene  stessa 
su  schizzi  e  disegni,  che  nella  traduzione  in  marmo  venivano  al- 
quanto abbelliti  e  dirci  quasi  idealizzati.  Mi  si  obbietterà  che  se  era 
malagevole  il  trasporto  per  mare  delle  lunghe  e  non  .spesse  lastre 
grezze,  era  ben  più  rischioso  rinvio  di  una  stele  già  scolpita,  lunga 
e  sottile  e  quanto  mai  fragile.  Ma  io  mi  domando,  se  non  debba 
appunto  attribuirsi  ad  una  garenzia  nel  trasporto  il  fatto  che  la  stele 
di  Burgio  era  formata  di  più  pezzi,  forse  tre,  per  modo  che  il  rischio 
di  lesioni  era  di  molto  diminuito.  Del  resto  le  migliaia  e  migliaia  di 
vasi,  anche  grandiosi  e  preziosi,  che  le  fabbriche  dell'Attica  per  (piasi 
tutto  il  sec.  V  scaricarono  sui  mercati  di  Agrigento,  Gela,  Camarilla, 
Siracusa  etc.  avevano  fatto  certamente  apprendere  tutti  i  sistemi  più 
perfezionati  d'imballaggio  e  di  spedizione. 

Comunque  vogliano  risolversi  questi  quesiti  secondari  sul  luogo 
dove  vennero  scolpite  le  stelai,  io  dico  che  le  due  teste  portano  un 
fattore  al  tutto  nuovo  nello  studio  della  plastica  siceliota  in  sul  de- 
clinare del  V  secolo.  Colla  loro  sana  e  vigorosa  bellezza,  colla  nota 
serena  e  solenne  che  alita  sui  loro  volti,  esse  sono  un  nobile  esem- 
pio di  quell'arte  del  periodo  aureo,  che,  per  quanto  attenuata,  si  af- 
ferma anche  al  di  là  dei  ristretti  contini  dell'Attica.  Esse  dimostrano 
ancora  che  la  Sicilia,  priva  di  grandi  maestri  e  di  scuole  proprie, 
avea  profondo  il  senso  ed  il  culto  della  plastica,  e  come  al  principio 
del  sec.  V  s'era  resa  tributaria  alle  scuole  del  Peloponneso,  di  Argo 
e  di  Egina,  alla  fine  dello  stesso  secolo  accoglieva  e  ricercava  i  pro- 
dotti degli  artisti  formati  alla  scuola  immortale  di  Fidia. 

Siracusa. 

Paolo  Orsi. 


UNE  VISITE  À  LA  NÉCROPOLE  DES  RABS 

prètres  et  prètresses  de  Carthage. 


Le  22  octobre  1903,  j'avais  le  plaisir  de  recevoir  la  visite  de 
M.  le  Professeur  Salinas  et  de  1'  accompagner  à  notre  chantier  de 
fouilles,  c'est  à  dire  à  la  nécropole  des  Babs,  prètres  et  prètresses 
de  Carthage. 


Fig.  2.  Vue  de  la  nécropole. 
(Photographie  de  M.  H.  Bourbon). 

Cette  antique  nécropole  du  IVe  sièele  environ  avant  notre  ère 
est  toute  entière  constituée  par  des  rangées  de  puits  à  orifice  ree- 
tangulaire  s'enfoneant  verticalement  dans  le  roelier  et  atteignant 
parfois  une  profondeur  de  plus  de  20  mètres.  Dans  une  des  parois 
étroites,  les  Carthaginois  ont  creusé  une  ou  plusieurs  chambres. 

De  semblables  nécropoles  doivent  assuréinent  exister  en  Sici- 
le  1.  Ann  d'attirer  1'  attention    des   archéologues  italiens  sur  les  sé- 


1  Je  pourrais  dire  aussi  qu'il  doit  exister  de  ces  mèrnes  sépultures  daus  l'Ile 
de  Sardaigne. 


PARTE   I.  UNE    VISITE   1   LA   NECROPOLE    DES    RABS.  37 


pultures  de  ce  genre  ,  je  donne  page  38  la  doublé  coupé  d'  un  des 
puits  explorés  cette  année. 

Dans  une  des  parois  étroites,  ordina irement  du  coté  du  sommet 
de  la  colline  existe  le  caveau  funéraire  ou  Ics  chambres.  Cliaque 
caveau  a  son  entrée  sur  le  puits.  Jamais  on  ne  trouve  de  chambres 
communiquant  horizontalement  entre  elles,  si  ce  n'est  par  suite  de 
la  chute  de  la  inince  cloison  de  roche  qui  parfois  les  séparé  \ 

Le  plus  souvent,  on  a  creusé  dans  la  chaìnbre  deux  auges,  une 
à  droite  et  l'autre  à  gauche.  La  partie  du  rocher  qui  séparé  les  auges 
est  ordinairement  assez  large  pour  avoir  recti  un  cadavre.  Quelquefois, 
mais  rarement,  une  petite  niche  a  été  tailleé  dans  une  des  parois  de 
la  chambre. 

La  plupart  de  ces  caveaux  sont  des  sépultures  de  famille.  On 
y  a  depose  les  corps,  d'abord  dans  Ics  auges,  puis  sur  la  banquette 
mediane.  Les  cadavres,  noyés  ou  non  dans  une  couche  de  rèsine  étaient 
renfermés  dans  des  cercueils  de  bois  et  parfois  la  chambre  a  été 
remplie  de  bières  jusqu'au  plafond.  Si  la  place  venait  encore  à  man- 
quer,  on  entaillait  le  rocher  pour  donner  place  à  un  dernier  cercueil. 

Le  bois  des  cercueils,  trés  épais,  était  peint  en  rouge.  On  en  a 
aussi  trouve  qui  étaient  polychromés  et  dorés.  A  coté  des  cadavres, 
on  a  souvent  depose  des  ossuaires.  ('e  sont  de  petits  récipients  rec- 
tangulaires  en  pierre  calcane  avec  couvercle  en  dos  d'àne.  Ils  ne  ren- 
ferment  (pie  des  ossements  humains  calcinés  et  brisés.  Les  cendres 
étaient  mises  à  part  dans  des  amphores. 

Le  cercueil  de  bois  est  rarement  remplacé  par  un  sarcophage 
de  pierre  ou  de  marbré.  Xous  avons  eu  cependant,  depuis  le  début 
des  fouilles,  la  bonne  fortune  de  rencontrer  quatorze  grands  sarcopha- 
ges  en  marbré  blanc,  tous  ornés  de  moiilures  peintes  2.  Quatre  de  ces 
sarcophages  porteut  sur  leur  couvercle  l'image  du  mort  habilement 
sculptée  en  relief.  L'armi  ces  statiies,  il  en  est  une  d'un  art  merveil- 
leux.  Elle  représente  une  prétresse  carthaginoise  dont  le  costume  et 


1  Pour  1'  étude  complète  de  cette  interessante  nécropole  on  petit  consulter 
les  nombreux  rapports  que  j'ai  aòressés  a  l'Académie  des  Inscriptions  depuis  le 
commencement  de  LSU8  jusqu'à  cette  année.  On  petit  aussi  consulter  mes  autres 
ptiblications  :  La  Nécropole  ptinique  voisine  de  la  colline  de  Sainte-Monicpic,  ler  mois, 
2me  mois,  3me  mois,  2me  trimestre,  2'ne  semestre,  2me  année,  et  Les  grands  Sarcophages 
aniìiropoides  du  Musée  Lavigerie. 

2  Je  n'ai  rencontré  en  Sicile  qu'tin  seni  sarcophage  de  marbré  semblable  à 
ceux  de  Carthage.  Il  se  trouve  dans  une  des  sacristies  de  la  Cattedrale  de  Gir- 
geuti  où  S.  G.  Mgr.  Lagumina  me  l'a  mentre.  Les  acrotòres  du  couvercle  sont  plus 
grands  qu'à  Carthage.  La  cave  porte  sur  sa  moulure  supérieure  et  sur  l'inférieure 
un  décoratiou  peiute.  Une  grecque  peinte  orne  la  trauche  du  couvercle  sur  ses 
quatre  faces. 


38 


À.    L.    DELATTRE. 


I*ARTE    I. 


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C-nijtes  transversctlcs 
sur  les  chambres. 


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Coupé  longitudinale  sur  le  Puits 
et  les  chambres. 


Coupé  transrersale 
sur  les  Puits. 


Fig.  3. — Coupes  verticales  d'un  puits  funéraire  carthaginois  avec  ses  chambres. 

(exploré  le  29  juin  1905.  —  Dessin  de  M.  Elie  Blondel). 


PARTE   t. 


UNE  VISITE  A  LA  NKCROPOLE  DES  RABS. 


39 


la  coiffure  comportent  un  mélange  d'ornements  grecs  et  égyptiens. 
La  téte  est  encadrée  du  klaft  et  surmontée  d'une  tète  d'  épervier. 
Le  haut  de  la  poitrine  porte  un  riclie  gorgerin  forme  de  bandes  de 


Fig.  4.  Statue  de  la  pròtresse  (Couvercle  du  sarcophage). 
(Photographie  de  M.  II.  Bourbon). 

couleurs  cernées  d'un  large  filet  d'or.  La  tunique,  aux  plis  nns,  était 
retenue  sous  les  seins  par  une  eeiuture  dorée.  Tout  le  bas  du  eorps, 
sauf  les  pieds,  est  enveloppé  par  deux  grandes  ailes  de  vautour  peintes 
et  dorées. 


40  A.    t.   DELATTRÈ.  PARTE   I. 

La  main  droitè  abaissée  tient  une  colombe,  tandis  que  la  mairi 
gauche  porte  une  boìte  à  offrandes. 

Le  visage,  aux  traits  calmes  et  graves,  a  les  yeux  peints,  ce  qui 
lui  donne  une  expression  extraordinaire;  les  oreilles  sont  ornées  de 
pendants  qui  étaient  dorés  et  sur  le  con  un  doublé  cercle  de  petites 
boules  dorées  soutenait  un  disque. 

C'est  une  pièce  d'art  aussi  étrange  que  magniflque.  Elle  ravit 
d'admiration  tous  les  visiteurs  du  Musée  Lavigerie.  Je  n'  oublierai 
jamais  1'  exclamation  enthousiaste  du  Prof.  Salinas  lorsqu'  il  la  vit 
pour  la  première  fois.  Il  ne  pouvait  se  lasser  de  contempler  cette 
CBuvre  merveilleuse. 

Mais  il  est  temps  que  je  dise  un  mot  du  mobilier  funéraire  des 
hypogées  de  la  grande  nécropole  en  question.  Les  morts  son  accom- 
pagnés  d'un  certain  nombre  de  pièces  qui  font  rarement  défaut.  Ce 
sont  des  urnes  à  queue  ,  des  lampes  plates  et  bieornes  avec  leurs 
patères,  des  lampes  de  forme  grecque,  des  unguentaria,  des  amphores 
à  base  conique  *  par  paire  et  portant  chacune  la  mème  inscription 
en  caractères  puniques,  des  vases  étrusques  peints,  des  cenoclioés  de 
bronze,  des  miroirs,  des  rasoirs  à  doublé  face  ornée  de  personnages  et 
de  palmiers  tìnement  ciselés  dans  le  bronze,  des  monnaies  carthagi- 
noises  et  siciliennes,  des  bagues  sigillaires,  des  armilles  ,  des  brace- 
lets,  des  pendants  d'oreille,  des  cymbales,  des  sonnettes,  du  fard,  de 
nombreuses  amnlettes  2 ,  des  colliers,  etc...,  etc...  Des  lamelles  d'ivoire 
découpées  et  couvertes  de  délicates  ciselnres  représentant  souvent 
des  i>ersonnages,  méritent  aussi  d'Otre  signalées. 

De  temps  à  autre,  il  sort  de  ces  sépultures  quelque  objet  plus 
précieux,  anneau  d'or  ou  d' argent,  intailles,  chefs  d'(euvre  de  glypti- 
que,  des  figurines  de  terre  cuite  de  provenance  variée,  enfili  de  cu- 
rieux  vases  de  forme  particulière. 

Les  fouilles  nous  ont  permis  de  former  de  belles  séries  de  figu- 
rines et  une  riclie  collections  d'épitaphes  puniques. 

On  trouve  aussi  parfois  dans  ces  sépultures  des  anses  d'ampli o- 
res  rliodiennes  estampillées  ,  mais  sans  aucun  vestige  des  amphores 
elles  mèmes.  On  y  trouve  aussi  des  estampilles  puniques  cornine 
celles  de  Sélinonte  3. 


1  On  signalait  dernièrement  la  déconverte  en  Béotie  de  vases  de  forme  co- 
nique avec  cette  mème  particularitd  que  la  pointe  du  cone  se  trouve  vers  la  base. 

2  Parmi  ces  amulettes,  on  rencoutre  assez  souvent  un  doublé  masqne  en  pàté 
de  verre  identique  à  celui  que  le  Prof.  Salinas  a  publié"  panni  les  objets  trouvés 
à  Sélinonte  (Notizie  degli  scavi,  anno  1884,  Tav.  V,  n.  422). 

3  Notizie  degli  scavi,  1884,  Tav.  V. 


PARTE    I. 


UNE  VISITE  À  LA  XECROPOI.E  DES  RABS. 


41 


Lorsque  le  22  octobre  1903,  j'arrivai  à  la  nécropole  avec  M.  Sa- 
liuas,  on  venait  de  sortir  du  f'ond  d'un  puits  et  d'une  chambre  funé- 
raire  une  très  elegante  aiguière  en  terreeuite  ,  unique  en  son  geme. 
Cette  découverte  remplit  de  joie  1'  éminent  professeur.  Voici  la  des- 
criptioo  de  eette  intéressante  pièce  de  cérainique  antique  (fig.  5)  : 


Piar.  5.  Dessin  du  M.s  d'Anseline  de  Puisaye. 


Haut  de  0m,  31  ,  ce  vase  est  d'  uno  torme  très  élancée.  Sur  un 
disque  d'appui  de  0m,075  de  diametro  s'élève  le  corps  du  vase.  ("est 
une  sorte  de  cornet  haut  de  plus  de  0m,  20  ,  très  étroit  ì\  la  base 
(0m,  030)  et  ne  s'arrondissant  qu'au  sommet  où  il  atteiut  0'",  OS  de  dia- 


42 


A.    L.    DKLATTRE. 


PAÌITE    I. 


mètro.  Sur  cotte  pansé  s'élève  un  col  étroit  (0m,  025)  haut  de  0m,  08, 
à  orifice  trilobé.  Une  anse  à  nervures  avec  tote  imberbe  cornine  point 
d'  attaché  supérieur  et  tete  barbue  comme  point  d'  attaché  inférieur 
donne  à  l'ensemble  une  gràce  toute  particulière. 


Pifr.  6.  T,a  montóe  d'un  sarcophage. 
(Photugraphie  de  Ai.  II.  Bourbon). 


Ce  beau  specimen  de  céramique  est  en  terre  rougeàtre,  mais  il 
a  recu  une  converte  jaunatre  ,  légèrement  brillante  et  d'un  velouté 
doux  au  toucher  J. 


La  couverte  de  ce  vase  et   sa  dócoration  peuveut  ètra  rapprochées,  comme 
conleur,  des  tuìles  de  Sélinoute  {Notizie  degli  scavi,   1881,  Tav.   VI). 


UNE  VISITE  À  LA  NÓCROPOLE  DE8  fcABS. 


4à 


Passons  maintenant  a  la  décoration.  La  couleur  em.ployée  est  le 
rouge  brun.  Le  pieci  porte  une  nervure  dont  Paréte  est  marquée  d'un 
mince  tìlet  formant  cercle.  Plusieurs  autres  tìlets  atteignent  le  bas 
du  corps  mème  du  vase  et  supportent  une  ligne  de  flots  surmontés 
eux-mèmes  d'un  mince  tìlet. 

Vers  le  milieu  du  cornet,  une  bande  large  d'  un  centimètre  en- 
viron  a  recu  un  complément  de  décor  trace  a  la  pointe  sèdie  après 
la  cuisson.  L' instrument  semble  avoir  difflcilement  attaqué  la  torre 
cuite  et  la  forme  des  rinceaux  dessinés  s'en  ressent. 

L'espace  compris  entro  cotto  bando  et  la  naissancc  du  col,  c'est- 
à-diro  la  partie  que  nous  pourrons  appeler  la  pauso  est  presque  en* 
tièroniont  remplio  per  uno  branche  d'  arbnste  à  feuilles  en  forme  do 


Fig   7.  Sarcophage  de  marbré    blanc  peint 
(l'hotographie  du  M.  H.  Bourbon). 

coeur  et  portant  plusieurs  tìours.  Cotte  branche  fortoment  ondulée 
prend  naissance  à  la  base  de  l'anse,  puis  so  dirigo  à  droite  en  pous- 
sant  des  tiges  très  tìnes  qui  forment  d'élógants  rinceaux.  Près  de  rejoin- 
dre  l'anse,  à  la  partie  opposée  do  la  pansé,  olle  so  tonnine  par  une 
très  largo  fleur.  Dans  co  décor  du  genio  volubili*  ,  les  fleurs  sont 
complétées  par  dos  traits  pratiqués  a  la  pointe  sèdie. 

Le  sommet  de  la  pause  porto  un  largo  tìlet  sur  lequel  V  artiste 
a  trace  à  la  pointe  une  palme. 

Ce  tìlet  ou  cercle  sort  de  support  a  cimi  longues  dents  de  loup 
qui  entourent  le  col  et  en  atteignont  l'oriftce. 

Cornino  je  l'ai  dit  plus  haut,  celui-ci  est  trilobé.  À  la  naissancc 
des  lobes  latéraux,  deux  nervuros    coloroos  cu  rougo-brun   accompa- 


44 


A.    L.    DELATTRE. 


PARTE    I. 


gnent  la  téte  formant  point  d'attaché  à  F  anse.  Cette  téte  qui  offre 
le  visage  (rune  temine  se  montre  au-dessus  de  1'  orifice  da  vase  ,  ee 
«[ni  donne  a  l'anse  sa  tournure  gracieuse. 

Le  masque  qui  lui  sert  de  point  d'attaché  inférieur  sur  la  pansé 
est  une  téte  barbue  l  à  ampie  chevelure.  Elle  était  en  partie  peinte. 
La  couleur  se  distingue  encore  aux  lèvres. 

Tel  est  ce  beau  vase,  de  forme  élancée  sans  rien  perdre  de  sa 
gràce  ni  de  son  élégance,  à  déeor  si  interessane  C'est  un  specimen 
de  céramique  de  luxe,  sorti  d'une  fabrique  qui  doit  avoir  fourni  des 
échantillons  a  la  Sieile,  tandis  qu' a  Carthage,  ils  sont  jusqu'à  pré- 
sent  excessi vement  rai-es. 


Fig.  6.  Vue  des  puits  funéraires  —  Leur  disposition. 
(Photographie  de  M.  H.  Bourbon). 

Je  suis  heureux  de  pouvoir  accompagner  cette  description  d'un 
beau  dessin  dù  a  la  piume  habile  du  marquis  d'Anselme  de  Puisaye. 
»!  e  me  réjouis  en  inéme  temps  d'avoir  cette  heureuse  occasion  de  re- 
m  et  tre  sous  les  jeux  de  l'éminent  professeur  cette  pièce  de  céramique 
qu'il  admira  sur  place  avec  enthousiasme  au  moment  meme  où  tonte 
li  umide  encore  de  son  séjour  vingt-trois  fois  séculaire  sous  le  sol,  elle 
venait  de  reparai  tre  à  la  lumière. 


1  Daus  la  sèrie  d'oouochoés  de  bronzo  provenant  de  la  nccropole  cìes  Rabs,  cette 
forme  d'ause  revient  souvent.  Il  y  en  a  raèrue  de  très  enrieuses  et  artistiques  dans 
lesquelles  figurona  des  personnages  ou  des  animaax,   tels  que  lions  et  béiiers. 


PARTE    I.  UNE  VISITE  À  LA  NÉCROPOTE  DES  RABS.  45 

Je  ne  puis  oublier ,  comme  pour  la  prétresse,  l' impression  que 
produisit  sur  M.  Salinas  la  vue  de  ce  curieux  specimen  de  céramique 
artistique.  Jamais  non  plus  je  n'oublierai  son  apostrophe  au  chef  de 
chantier  qui  avait  pris  ce  beau  vase  par  l'anse  ponr  nous  le  remet- 
tre.  «  Jamais,  fit  observer  M.  Salinas,  on  ne  prend  par  l'anse  un  vase 
antique  de  valeur».  A  cette  lecon,  on  reconnait  le  savant  professeur 
et  l'éminent  directeur  du  musée  de  Palerme. 

11  m'est  parti culièrement  agréable  de  profiter  de  la  fète  dont  il 
est  l'objet  aujourd'  lini  pour  lui  rappeler  ce  doublé  souvenir  ,  la  dó- 
couvert  de  l'oenoclioé  et  la  vue  de  la  merveilleuse  statue  gréco-égyp- 
tienne  de  la  prétresse  carthaginoise. 

Saint  Louis  de  C'artkage. 

Alfred-Louis  Delattre. 


RITRATTO  PROBABILE  DI  LISI/AACO 

marmo  del  Gabinetto  archeologico  della  R.  Università  di   Pavia. 

(Vedi  Tav.  II). 


Il  busto  marmoreo  figurato  di  prospetto  e  di  scorcio  nell'annessa 
tavola,  e  inversamente  di  profilo  e  di  taccia  per  la  testa  clic  è  for- 
temente volta  a  destra,  rappresenta  evidentemente  un  generale  greco 
o  stratego,  caratterizzato  dal  balteo  che  si  vede  traversargli  il  petto. 
11  tipo  mostra  a  prima  vista  un'energia  e  una  imperiosità  non  co- 
muni, che  annunziano  india  persona  rappresentata  una  spiccata  in- 
dividualità, e  nell'artista,  non  certo  di  second' ordine,  che  la  ritrasse, 
1'  intenzione  di  far  valere  in  tutta  la  sua  forza  il  carattere  così  ac- 
centuato del  soggetto.  Tutto  dice,  insomma,  che  qui  non  si  tratta 
d'un  condottiero  di  poco  conto,  ma  di  una  figura  che  s'impone  anche 
nella  muta  anonimità  del  marmo. 

11  nostro  busto,  che  appartiene  al  Gabinetto  archeologico  della 
R.  Università  di  Pavia  i  ,  non  è  però  il  solo  ritratto  della  stessa 
persona.  Il  Museo  di  Napoli  possiede  anzi  un  busto  simile  2  ,  del  me- 
desimo taglio  e  della  stessa  forma,  cava  posteriormente  con  sporgenza 
a  naso;  e  il  busto  di  Napoli  (fig.  9  i  è  non  solo  un  ritratto  della  mede- 
sima persona,  ma  una  replica  del  busto  pavese.  Se  non  che  tra  i  due 
busti,  non  ostante  la  somiglianza  della  forma  esteriore,  vi  sono  tali 
differenze  di  trattamento,  che  a  mio  avviso  escludono  la  riproduzione 
immediata  da  un  originale  comune  (non  dico  l'ipotesi  inverosimile  che 
l'uno  sia  copia  dell'altro)  e  fanno  piuttosto  pensare  che  ci  troviamo 
in  presenza  di  due  variazioni  da  un  prototipo  già  così  conformato  a 
busto,  delle    quali  una    almeno  è  lontana  dall'  originale  per  ripetute 


1  Senza  notizie  di  provenienza  :  alcune  vecchie  carte  accennano  vagamente 
che  i  marmi  figurati  del  Gabinetto  siano  stati  trovati  a  Velleia.  Il  busto  che  io 
pubblico  è  non  solo  inedito,  ma  non  ricordato  :  pubblicando  pochi  mesi  or  sono 
nei  Rendiconti  dell'  Accademia  di  Napoli  una  testa  marmorea  pure  posseduta  dal 
mio  Gabinetto,  e  nella  quale  io  riconosco  una  copia  eccellente  della  Sosandra  di 
Calamide,  ho  soltanto  accennato  in  generale  ad  altri  buoni  pezzi  che  avrei  fatto 
conoscere  altrove. 

2  Invent.  6141  ,  Gerhard  376  ;  pubblicato  in  Arndt-Bruckmann  ,  Portrats, 
109-110. 


RITRATTO    PROBABILE   DI    LISIMACO. 


47 


riproduzioni  intermedie  e  conseguenti  alterazioni.  Infatti  nella  replica 
di  Napoli  sono  un  po'  più  accentuati  alcuni  minuti  particolari  della 
superficie  della  cute,  con  danno  dell'  insieme  e  dell'  espressione  :  si 
sente  in  ciò  il  copista  romano  in  marmo,  che  s'indugia  nelle  minuzie 
e  le  fa  di  maniera  ;  così  le  rugosità  caratteristiche  della  pelle  d'un 
vecchio,  così  i  capelli,  sempre  difficili  a  riprodurre  in  plastica,  e  qui 
fatti  anch'essi  di  maniera.  Il  busto  di  Pavia  è  opera  molto  superiore 
per  merito    artistico,  per  forza  d'  espressione,  per   franchezza  e  bra- 


Fig.  9. 


vura  di  trattamento,  che  non  è  punto  manierato.  Vi  sono  qua  e  là 
meno  particolari  di  superficie,  ma  con  grande  guadagno  dell'insieme; 
il  che  mostra  (anche  se  ciò  non  fosse  chiaro  dall'accuratezza  e  finezza 
del  lavoro  e  dalla  bella  politura  del  marmo  nelle  parti  che  rappre- 
sentano la  cute  umana)  clic  abbiamo  qui  non  una  trascuratezza,  un 
sopprimere  particolari  esistenti  nel  modello,  ma  nini  sapiente  subor- 
dinazione delle  piccole  alle  grandi  forme,  quale  è  propria  in  grado 
eminente  dell'arte  greca,  dal  momento  clic  si  libera  di  ogni  arcaismo 


48  G.    PATRONI. 


fino  ti  quello  in  cui  si  trasforma  secondo  il  gusto  romano,  e  come  in 
particolar  modo  si  mostra  nei  lavori  di  bronzo  o  che  stanno  sotto 
l'influenza  dello  stile  del  bronzo.  Affatto  diverso  è  il  trattamento  dei 
capelli  nella  testa  pavese,  dove  quasi  dimostrano  ancora  con  le  pic- 
cole ciocche  ammassate,  specialmente  su  la  nuca  e  su  l'occipite,  la 
modellatura  originale  fatta  in  argilla  o  in  cera  durante  la  posa  del 
modello  vivo.  Con  somma  cura  dell'effetto,  mentre  la  cute  nuda  è 
tirata  a  forte  pulimento,  i  capelli  della  testa  pavese  sono  lasciati 
greggi,  anzi  nel  lato  destro,  che  doveva  addossarsi  ad  una  parete  o 
nicchia,  sono  soltanto  sbozzati  a  piccoli  solchi  ondulati  superficiali. 
Uguale  cura  dell'  effetto  si  ha  in  originali  greci  del  IV  sec,  come 
l'Hermes  di  Parassitele:  nei  miei  appunti,  presi  in  Olimpia  dinanzi  al 
marmo,  trovo  notato  che  la  superfìcie  ò  lasciata  greggia  nella  parte 
posteriore,  lavorata  col  picchierello  ;  è  raspata  e  non  levigata  nel 
panno;  è  levigata  e  lustrata  nel  nudo.  Il  collo  del  busto  di  Napoli  e 
poi  decisamente  trascurato  :  la  sporgenza  dell'osso  ioide  è  esagerata' 
ma  il  rilievo  del  muscolo  sternocleidomastoideo  è  trattato  superfi- 
cialmente e  di  maniera,  come  in  un  collo  qualunque  ;  il  contorno 
interno  del  detto  muscolo  è  rettilineo,  e  manca  affatto  tutto  quel 
fine  movimento  di  piani  che  nella  regione  ioidea  del  busto  pavese 
rende  così  bene  1'  aspetto  del  collo  di  un  robusto  vecchio.  Del  pari 
non  v'ha  dubbio  che  alterazioni  prodottesi  nella  serie  di  riprodu- 
zioni che  separa  il  busto  di  Napoli  dall'  originale,  siano  altresì  il 
mento  troppo  aguzzo,  le  palpebre  superiori  e  l'apertura  delle  labbra 
più  scavate.  In  questi  ultimi  due  particolari  non  solo  la  copia  napo- 
letana segue  l'uso  degli  scultori  romani,  mentre  la  pavese  segue  tra- 
dizioni greche  soprattutto  nel  mostrare  a  fior  delle  labbra  la  chiostra 
dei  denti — (basterà  ricordare  l'originale  eleusino  dell'Eubuleus ,  ora  in 
Atene,  di  cui  v.  la  bella  riproduzione  in  Furtwàngler,  Masterpieces, 
tav.  XVI;  quella  scultura  offre  pure  il  contrasto  fra  l'opacità  dei  capelli 
e  il  lustro  dell'epidermide);  —  ma  l'espressione  ne  risulta  notevolmente 
mutata,  più  bonaria  e  un  po'  triste  nel  busto  di  Napoli,  fiera  e  indomita 
senza  ombra  di  tristezza  in  quello  di  Pavia.  A  questa  impressione  diversa 
che  fanno  i  due  busti-  contribuisce  pure  in  parte  la  collocazione  del 
busto  di  Napoli  sul  peduccio  moderno,  col  petto  troppo  in  avanti  e 
la  testa  troppo  all'  indietro,  mentre  il  marmo  pavese,  che  conserva 
intatto  e  libero  il  suo  piano  di  posa,  ci  attesta  che  nell'  originale  il 
petto  era  più  verticale  ed  il  dorso  mostrava  una  forte  incurvatura, 
in  parte  derivante  forse  dall'  età  del  soggetto  rappresentato  ,  ma  in 
parte  pure,  con  grande  probabilità,  dalla  posa,  fosse  essa  scelta  per 
predilezione  di  scuola  o  per  dissimulare  quel  difetto,  Giacche  la  forte 


PARTE   I.  RITRATTO   PROBABILE   DI   LISIMACO.  49 

elevazione  che  nei  due  busti  ha  la  spalla  destra  mal  si  concilierebbe 
con  l'idea  che  non  soltanto  il  loro  prototipo,  ma  addirittura  il  primo 
originale  fosse  un  busto,  e  fa  piuttosto  pensare  ad  una  statua  l. 

Agli  altri  pregi  il  busto  di  Pavia  unisce  poi  la  più  perfetta 
conservazione  che  si  possa  desiderare,  mentre  in  quello  di  Napoli  il 
naso  e  parte  del  padiglione  delle  orecchie  sono  di  restauro.  Indizio 
di  lavoro  eseguito  in  tempi  ellenistici,  non  ancora  romani,  è  pure 
nel  busto  pavese  l'uso  di  un  marmo  compattissimo  d'un  leggero  tono 
bigiognolo  con  chiazze  livide,  affatto  simile  a  quello  che  si  vede  ado- 
perato nelle  statue  che  si  ritiene  ornassero  l' ex-voto  di  Attalo,  il 
qua!  marmo  i  competenti  ascrivono  alle  cave  d'  Asia  Minore.  Sic- 
ché possiamo  considerare  il  nostro  busto  come  una  eccellente  copia 
di  fattura  greca,  mentre  quello  di  Napoli  è  senza  dubbio  di  buon 
lavoro  romano;  e  forse  il  busto  di  Pavia  è  anche  un  originale,  al- 
meno nel  senso  che  lo  stesso  artista  che  eseguì  la  statua,  la  quale 
fu  probabilmente  di  bronzo,  potè  essere  incaricato  di  riprodurre  il 
busto  in  bronzo  ed  in  marmo  ed  in  parecchi  esemplari,  uno  dei  quali 
potrebbe  essere  quello  che  si  trova  attualmente  nel  Gabinetto  ar- 
cheologico di  Pavia.  Certo  è  ad  ogni  modo  che  la  forma  o  il  taglio 
del  busto  non  furono  trovati  dal  copista  che  eseguì  1'  esemplare  di 
Napoli,  ma  erano  stati  scelti  e  fissati  molto  tempo  prima.  Certo  è 
pure  che  ogni  ricerca  fondata  siili'  espressione  e  sul  carattere  della 
persona  ritratta,  deve  avere  per  base  non  il  busto  napoletano,  ma  il 
pavese. 

Tutto  ciò,  ed  anche  meno  di  ciò,  basterebbe  a  giustificare  la  pub- 
blicazione di  quest'ultimo  e  l'offerta  che  mi  è  grato  farne  per  le  ono- 
ranze giubilari  dell'illustre  collega  A.  Salinas,  il  decano  ancor  vegeto 
dei  nostri  professori  universitari  di  archeologia.  Ma  è  possibile,  nel 
pubblicare  un  così  bello  e  raro  ritratto  greco,  rinunziare  ad  ogni 
tentativo  di  dargli  un  nome  ì 

11  nome  di  Arato,  che  prima  si  dava  al  busto  di  Napoli,  si  fon- 
dava sullo  sguardo  rivolto  al  cielo.  Il  Bernouilli  2  crede  che  si  vo- 
lesse alludere  all'Arato  stratego  della  lega  achea,  ma  non  è  così  :  la 
tradizione    tuttora   viva    presso  i   vecchi  custodi  del  Museo  e  perfino 


1  Petto  raccorciato  e  dorso  inarcato  si  presentano  nella  posa  dell'Alessandro 
di  Monaco  e  nel  bronzetto  ercoianese  in  cui  il  Visconti  ravvisò  Demetrio  Polior- 
cete,  i  quali  hanno  la  gamba  dr.  alzata  su  un  appoggio,  e  l'ultimo  scarica  in  parte 
sn  di  essa  il  peso  del  corpo  mediante  l'interposizione  del  braccio  corrispondente. 
Il  dorso  inarcato  è  una  caratteristica  della  scuola  di  Lisippo,  cui  la  tradizione 
attribuisce  pure  ritratti  d' Alessandro  Magno  e  dei  suoi  compagni  ed  amici. 

2  Gr.  Ikonograph.  II,  p.  153. 

•1 


50  G.    PATRONI. 


in  guide  e  leggende  di  fotografìe  che  sono  in  commercio,  dice  chia- 
ramente  che  si  alludeva  all'astronomo  di  Soli,  in  base  al  criterio  an- 
zidetto £  ;  e  del  resto  per  pensare  proprio  al  mite  Arato  della  lega 
Aclica,  che  visse  poco  più  di  CO  anni,  e  negli  ultimi  lustri  ebbe  una 
posizione  affatto  subordinata  ai  re  di  Macedonia,  mancherebbe  qui 
ogni  appiglio.  Se  non  che,  lo  sguardo  rivolto  al  cielo,  che  si  trova 
davvero  nelF  Arato  astronomo  del  Bernouilli,  non  esiste  nello  strate- 
go, dove  è  un  semplice  effetto  della  cattiva  collocazione  del  busto 
sul  peduccio.  L'esemplare  di  Pavia  mostra  invece  che  si  tratta  di  uno 
sguardo  d' imperio  spinto  nel  lontano  orizzonte,  sia  che  il  generale 
scruti  gli  ordini  delle  sue  milizie  fino  alle  ultime  schiere,  sia  che  il 
dominatore  misuri  la  terra  a  lui  soggetta. 

Noi  abbiamo  dunque,  ora  che  la  nostra  cognizione  dell'antichità 
e  i  nostri  mezzi  di  ricerca  e  di  confronti  sono  tanto  progrediti,  pa- 
recchi criteri  assai  migliori  di  quello  illusorio  ed  inesistente,  di  cui 
si  valsero  i  nostri  vecchi;  e  il  valore  di  tali  criteri  è  aumentato  dalla 
singolare  perfezione  e  somma  eccellenza  artistica  del  marmo  pavese. 

Innanzi  tutto  ragioni  di  storia  dell'arte,  cioè  lo  stile  della  scul- 
tura, e  di  storia  del  costume,  come  il  viso  accuratamente  sbarbato, 
limitano  la  ricerca  ai  tempi  di  Alessandro  Magno  o  piuttosto  poste- 
riori, non  però  di  molto,  alla  sua  morte. 

In  secondo  luogo  il  campo  è  ancor  più  strettamente  circoscritto 
dal  grado  e  qualità  della  persona  rappresentata,  dal  balteo  che  unito 
alla  posa  imperiosa  denota  chiaramente  il  generale.  Ma  generale  sol- 
tanto e  non  anche  dominatore  ì  È  di  gran  lunga  più  probabile  la 
seconda  ipotesi  :  siamo  in  un  tempo  in  cui  mancano  o  scarseggiano 
strateghi  di  stati  liberi,  mentre  i  generali  d'Alessandro  diventano  a 
loro  volta  re.  È  vero  che  vediamo  qui  trascurata  l'insegna  propria- 
mente regia,  il  diadema;  ma  anche  l'iconografìa  monumentale  di  Ales- 
sandro non  di  rado  lo  trascura,  e  però  a  mio  avviso  questo  argomento 
non  avrebbe  valore  contro  la  possibilità  che  la  persona  raffigurata 
nel  nostro  busto  sia  un  generale  di  Alessandro,  specialmente  quando 
vengano  a  concordare  parecchie  note  caratteristiche  che  non  è  facile 
trovare  insieme,  almeno  in  ugual  grado. 

Ora  il  nostro  personaggio  presenta  tre  note  in  grado  molto  ca- 
ratteristico :  F  età,  la  costituzione  fìsica  e  F  indole  dell'  animo  quale 
trasparisce  dai  tratti  del  volto  e  dal  portamento. 

L'  età,  come  si  riconosce    soprattutto  nella  veduta   che  presenta 


1  Allo  stesso    modo  si  chiamava    Archimede  1'  Archidamo  ,   benché  vestito  di 
corazza. 


PARTE   I.  RITRATTO   PROBABILE   DI   LISIMACO.  51 

il  viso  in  prospetto,  è  quella  di  un  vecchio  che  ben  poco  «lista,  in 
più  o  in  meno,  dai  settantanni,  pur  conservando  e  dimostrando  chia- 
ramente (basta  guardare  nel  marmo  pavese  la  nuca  e  il  rilievo  dei 
muscoli  dorsali)  una  complessione  atletica,  erculea,  e  una  indomita 
energia  e  nerezza,  si  direbbe  anzi  addirittura  ferocia  d'animo.  Il  ter- 
ribile vecchio  ti  guarda  aggrottando  le  sopracciglia,  con  la  bocca  se- 
miaperta, (piasi  digrignando  i  denti,  che  deve  ancora  conservare  in 
ottimo  stato,  come  si  vede  dalla  forma  delle  labbra  e  come  non  è 
strano  in  così  fatte  tempre  di  ferro;  considerandolo,  a  volte  par  «piasi 
che  ti  voglia  saltare  addosso  per  farti   a   pezzi. 

Ora  fra  i  generali  d'Alessandro  ve  n'è  uno  che  presenta  le  stesse 
tre  note  riunite,  e  in  grado  ugnale  al  personaggio  raffigurato  nel 
nostro  busto;  ed  a  Ini  anzi  si  corre  col  pensiero  appena  vista  la  pos- 
sibilità di  cercare  in  quel  ciclo.  Lisimaco,  morto  a  settantanni  se- 
condo Appiano  '  ,  a  settantaquattro  secondo  Giustino  2  ,  combattendo 
contro  Seleuco,  era  allora  al  colmo  della  sua  potenza,  avendo  quattro 
anni  prima,  già  settantenne  o  «piasi,  aggiunto  ai  regni  di  Tracia  e 
d'Asia  Minore  quello  «Iella  Macedonia  (280  a.  C),  il  «piai  fatto,  spe- 
cialmente trattandosi  degli  antichi  domimi  «li  Alessandro,  ben  poteva 
dar  occasione  ad  una  statua  che  lo  celebrasse  e  ricordasse.  La  com- 
plessione erculea  «li  Lisimaco  era  famosa  :  gli  autori  antichi  riferi- 
scono, con  varietà  di  particolari,  che  egli  lottò  perfino  con  un  leone 
e  riuscì  ad  atterrarlo,  riportandone  però  delle  ferite.  Infine  anche  la 
ferocia  dell'animo  di  Ini  era  non  meno  famosa,  e  già  gli  antichi  ave- 
vano osservato  3  che  egli  era  divenuto  con  gli  anni  sempre  più  cru- 
dele, tanto  «la  porre  a  morte  anche  il  suo  valoroso  primogenito  Aga- 
tocle. 

Così  stando  le  cose,  parrebbe  assai  probabile  che  il  nostro  busto 
rappresenti  non  altri  che  Lisimaco,  cui  si  convengono  v  il  carattere, 
e  la  robustezza,  e  l'età.  Anzi  sarebbe  assai  diffìcile  indicar»'  per  qual- 
siasi altro  stratego  o  diadoco  un  fatto  storico  «li  così  alta  importanza 
«•he  abbia  potuto  dare  occasione  a  ima  statua  la  «piale  lo  raffigurasse 
in  età  «li  circa  settant'  anni   4  ,  e  «li  cui   la   tradizione    storica   ricordi 


1  Syriaca,  61. 

2  XVII,  1.  In  Ilieronym.  apud  Lncian.,  Jlacrobioi  11,  si  equivoca,  a  mio  modo 
di  vedere,  con  l'età  del  vincitore  Selenco,  che  aveva  appunto  80  anni:  quindi  quel 
dato  è  da  scartare. 

3  Athen.   VI,  p.   216,  251;  XII,   p.   610. 

4  Quando  Seleuco  vinse  Lisimaco,  che  perì  nella  battaglia,  egli  era  più  vec- 
chio, di  circa  80  anni,  nò  aveva  compiuta  l'opera  sua:  che  anzi  passò  in  Europa 
appunto  per   conquistare  i  dominii  macedoni    di  Lisimaco,  e  fu  assassinato  a  Li- 


52  G.    PATRONI.  PARTE   I. 

appunto    una    statua    riferibile   a   quegli    anni    della   vita    di    lui  i. 

Se  non  che  il  Six  ha  creduto  riconoscere  Lisimaco  in  un  busto 
di  bronzo  ercolanese  2.  Il  che,  se  fosse  vero,  toglierebbe  subito  ogni 
possibilità  alla  identificazione  da  me  proposta,  poiché  la  differenza 
d'età  (il  busto  in  bronzo  mostra  un  quarantacinque  anni)  non  baste- 
rebbe a  dar  ragione  delle  profonde  dissomiglianze  fra  quello  e  il  no- 
stro di  marmo,  che  appartengono  certo  a  due  persone  diverse.  Ma 
la  identificazione  del  Six  ha  fondamenti  così  deboli  che  poche  parole 
bastano  a  dimostrarla  fallace.  Il  Six  non  si  preoccupa  che  la  sua 
identificazione  non  sia  in  accordo  con  nessun  dato  tradizionale,  nò 
studia  le  particolarissime  qualità  d'animo  e  di  corpo  che  offre  la  fi- 
gura di  Lisimaco,  ma  si  contenta  di  concludere  :  «jedenfalls  besitzen 
wir  kein  Eild  des  grausamen  argwohnischen  Greises  der  letzten  Jahre, 
sondern  des  kràftigen  Kàmpfers  seiner  frùheren  Zeit;  «  —  quasi  che 
la  struttura  corporea  e  le  qualità  dell'  animo  potessero  radicalmente 
mutare.  Egli  si  fonda  unicamente  su  le  monete,  ma  su  (piali  ?  Sui 
più  bei  tetradrachmi  argentei  di  Lisimaco,  ove  i  numismatici  ricono- 
scono generalmente  l'effìgie  di  Alessandro  Magno,  munita  di  corna 
d'ariete  3. 

Il  Six  pensa  che  queste  monete  rappresentino  Alessandro,  ma 
conformato  alle  fattezze  di  Lisimaco.  Io  penserei  precisamente  il  con- 
trario. Ai  tempi  di  Alessandro  Magno  doveva  avvenire  nell'  arte,  e 
soprattutto  nella  piccola  arte,  quello  che  è  avvenuto  più  recentemente 
ai  tempi  di  Napoleone  il  Grande.  GÌ'  incisori  francesi  di  cento  anni 
fa  davano  il  profilo  napoleonico  a  qualunque  figura,   perfino,  come  il 


simachia,  la  città  fondata  dal  rivale,  senza  che  avesse  realizzato  il  suo  disegno. 
Inoltre  le  fonti  non  ci  dicono  che  fosse  di  corporatura  erculea  ne  di  animo  così 
feroce.  Le  monete  poi  di  Seleuco  I  Nicatore  non  hanno  somiglianza  col  nostro 
busto. 

1  La  statua  supposta  da  me  per  Lisimaco  concorderebbe  con  quella  nota 
alla  tradizione  letteraria  (Paus.  I,  9,  4),  che  sorgeva  in  Atene  innanzi  all'odeion 
di  Pericle,  e  secondi)  i  calcoli  del  Wachsmuth  (Stadt  Athen,  I,  p.  624,  2)  sarebbe 
contemporanea  al  decreto  onorario  prò  Philippide,  ossia  del  284 '3  quando  cioè  Li- 
simaco aveva  appunto  68  o  72  anni. 

2  Bronzi  d'Ercolano  I ,  tav.  69  e  70  ;  Comparetti-De  Petra  ,  Villa  Ercolanese, 
tav.  IX,  3;  Arndt  -  B:uckmann,  Gr.  u.  Boni.  Portr.,  n.  93  e  94,  cfr.  n.  186  e  187. 
Vedi  J.   Six,  Ikonographische  Studien,  in  Bòm.  Miti.  IX,   1894,   p.   103  sgg. 

3  Head,  Historia  numortim,  p.  242,  fig.  172;  Imhoof  Blumer ,  Bortriitkopfe  auf 
aniiken  Aitimeli  hellenischer  u.  hellenisierter  Volker,  p.  17,  tav.  II,  14.  Il  testo  cor- 
rispondente alla  tavola  ha  per  errore  bronzo,  mentre  si  tratta  di  un  tetradramma 
d'argento.  Anche  l'Imhoof  riconosce  Alessandro,  senza  peraltro  escludere  che  in 
alcune  monete  sia  rappresentato  Lisimaco. 


PARTE    I.  RITRATTO    PROBABILE   DI   LISIMACO.  53 

Cléner,  a  quelle  dei  vasi  dipinti  greci  ed  italioti;  eosì  gli  artisti  del- 
l'epoca dei  primi  diadochi  vedevano  dappertutto  i  lineamenti  di  Ales- 
sandro. 

Ma  se  è  vero,  come  ammette  il  Six,  che  vi  sono  monete  di  Li- 
simaco con  particolari  fisiognomici  repugnanti  ad  Alessandro,  e  che 
non  v'è  mai  una  somiglianza  assoluta  con  le  vere  monete  d'Alessan- 
dro, si  concluderà  che  aveva  ragione  il  nostro  Visconti,  il  quale  sag- 
giamente osservava  *  che  alcune  delle  monete  di  Lisimaco  chiara- 
mente rappresentano  un  principe  assai  più  avanzato  in  età  che  non 
fosse  Alessandro  alla  sua  morte;  e  che  riconosceva  senz'  altro  su  le 
monete  in  questione,  col  nome  di  Lisimaco  e  con  una  testa  di  re,  la 
testa  dello  stesso  Lisimaco,  al  pari  di  quel  che  avviene  nella  numi- 
smatica degli  altri  diadochi.  11  Visconti  ebbe  inoltre  il  inerito  di  ri- 
cordare un  passo  di  Ebano,  il  quale  dimostra  che,  qualunque  spie- 
gazione si  voglia  dare  dell'  aver  Lisimaco  assunto  le  corna  d'  ariete 
spettanti  ad  Alessandro  come  presunto  tiglio  di  Zeus  Ammon  2 ,  gli 
antichi  pertanto  conoscevano  come  cosa  usuale  (senza  dubbio  dalle 
monete)  teste  di  Lisimaco  col  diadema  ornato  di  corna  d'ariete  3. 

Or  se  il  Six  avesse  meglio  studiate  le  serie  monetali  di  Lisi- 
maco, si  sarebbe  accorto  che  appunto  le  monete  con  teste  meno  idea- 
lizzate presentano  caratteri  affatto  diversi  dalle  teste  di  Alessandro, 
e  dal  busto  in  bronzo  ercolanese  il  (piale  ad  esse  somiglia,  come  già 
aveva  ben  visto  l'Arndt.  Nella  ricerca  iconografica  non  sono  la  bel 
lezza  e  la  perfezione  del  conio  quelle  che  contano,  bensì  la  fedeltà 
e  la  rassomiglianza  dei  lineamenti,  sian  pure  rozzamente  eseguiti. 
Ognuno  sa  che  arti  rozzissime  ebbero  talora  fedeltà  ed  efficacia  ri- 
trattistica meravigliosa,  mentre  le  arti  raffinate,  soprattutto  nel  campo 
della  piccola  arte  o  dell'industria,  idealizzando  secondo  un  tipo  pre- 
concetto di  bellezza,  risultano  infedeli  nel  riprodurre  le  fisonomie. 
Così  i  più  fedeli  ritratti  assai  spesso  non  si  trovano  su  le  più  belle 


1  Iconographie  grecque,  II,  p.   139. 

2  v.  Eckhel  ,  Numi  anecdoti,  p.  (53;  Doctrina  numorum  ,  II,  50;  Visconti,  o. 
e,  p.  138  sgg.il  fatto  riferito  da  Appiano,  Syriaca,  64  e  da  Giustino  XV,  3,  che 
cioè,  avendo  Alessandro  in  mancanza  d'altra  benda  cinto  col  proprio  diadema  la 
fronte  ferita  di  Lisimaco,  si  diffuse  nell'esercito  la  superstiziosa  credenza  che  que- 
sti gli  succederebbe,  poteva  bastare  perchè  Lisimaco  si  credesse  o  volesse  dare  ad 
intendere  che  si  credeva  il  vero  successore  di  Alessandro. 

3  Eliano,  Hist.  anim.  XV,  2,  descrivendo  il  pesce  detto  xqioì  (==  ariete)  per- 
chè ha  una  specie  di  benda  di  color  bianco  a  guisa  di  corna  d'  ariete,  dice  :  ò 
roivvv  uqq^v  xqiÒs  Xbvxt}V  tÒ  (isrconov  Tcariuv  t%si  iitQi&tovGav  •  ei'Ttotg  av  Av6i- 
y.u%ov  xovto  dmò-qua,  ì)   Avtiyóvov,  ì\  tivoì  tù>v  tv  Maxsóorlu  [ìucùéav  uu.ov. 


G.    PATRONI. 


monete,  ma  proprio  su  le  più  brutte.  Bisogna  dunque  metter  da  banda 
le  belle  monete  di  Lisimaco  che  ci  ammanniscono  l'IIead  e  l'Imhoof 
Blumer  e  che  hanno  tratto  in  inganno  il  Six.  E  in  medaglieri  ben 
forniti  come  i  tre  da  me  consultati  (quello  di  Brera  in  Milano,  quello 
del  Museo  Nazionale  di  Napoli,  e  quello  Santangelo,  depositato  nello 
stesso  museo  ina  di  proprietà  del  comune)  non  sarà  difficile  trovare 
una  serie  di  tetradrachmi  di  Lisimaco  con  teste  più  realistiche.  La 
fedeltà  di  queste  teste  delle  monete  d'argento  è  confermata  dalla  pre- 
senza di  una  serie  di  stateri  d'oro  di  Lisimaco,  che  offrono  un  tipo 
realistico,  accanto  alla  serie  di  tipo  ideale.  Produco  qui  un  esemplare 
di  un  tetradrachma  e  di  uno  statere  del  medagliere  Santangelo,  da 
fotografie  di  calchi  fornitimi  dalla  cortesia  dell'  amico  (ràbrici  e  del 
R.  Commissario  comm.  Gattini.  Il  lettore  vedrà  facilmente  che  essi, 
benché  ringiovaniscano  pur  sempre  il  soggetto  com'è  ovvio  nelle  mo- 
nete, offrono  caratteri  fisiognomici  totalmente  diversi  dalle  teste  di 
Alessandro,  e  dal  busto  di  bronzo  ercolanese,  in  modo  da  rendere 
impossibile  la  identificazione  proposta  dal  Six.  Ma  quel  che  più  im- 
porta si  è  che,  a  prescindere  dalla  chioma,  nelle  monete  sempre  ideal- 
mente apollinea,  mentre  secondo  il  nostro  busto  di  marmo  il  vecchio 
settuagenario  la  portava  ormai  corta,  giacche  gli  si  cominciava  an- 
che a  diradare  su  la  fronte  —  a  prescindere  dunque  dai  capelli,  ri- 
corrono su  queste  monete  i  medesimi  caratteri  fisiognomici  del  busto 
di  Pavia,  che  sono  appunto  quelli  che  repugnano  all'  iconografia  di 
Alessandro  :  forme  ossute,  angolose,  quadrate,  magre  ;  occhiaie  pro- 
fonde -,  sopracciglia  fortemente  aggrottate  ;  linea  della  fronte  e  del 
naso  spezzata  a  gradino  e  sfuggente  in  dietro  ;  naso  corto  a  larghe 
narici;  portamento  del  capo  eretto  e  superbo. 

Anche  i  bronzi  di  Lisimachia,  non  ostante  il  cattivo  conio  e  la 
scarsa  conservazione,  si  accordano  piuttosto  con  i  tratti  nonalessan- 
driani,  come  aveva  già  veduto  il  Visconti,  anziché  con  gli  alessan- 
driani,  come  a  torto  ha  creduto  vedere  il  Six. 

Adunque  la  numismatica  di  Lisimaco,  compulsata  a  dovere,  non 
solo  non  menoma,  ma,  se  io  non  m'inganno,  aumenta  di  molto  le  pro- 
babilità che  il  ritratto  di  quel  re  guerriero  sia  stato  a  noi  conser- 
vato nel  mirabile  marmo  greco  di  Pavia  e  nel  buon  marmo  romano 
del  Museo  di  Napoli. 

Pavia. 

Giovanni  Patroni. 


BRICCICHE. 


1.   LUCERNA  CRISTIANA  DEL  IV°  O  V°  SECOLO. 


Fu  trovata  in  Sicilia  nel  1882,  zappando  un  podere  fra  Alcamo 
e  Partinico.  Donatami  dal  .signor  Ispettore  scolastico  Ponte  ,  passò 
nel  Museo  privato,  or  disperso,  del  Conte  Hernandez  di  Trapani.  È 
molto  simile  ad  altra  che  ho  veduta  nel  Museo  di  Castelvetrano  e 
che  fu  pubblicata  dal  prof.  Salinas  nelle  Notizie  degli  Scavi,  Luglio, 
1885,  p.  294  ,  n.  20.  Se  non  che  in  questa  nostra   gli  ornamenti  in 

forma  di  cuore  son  (5  e  non  14,  e  per  es- 
sere alquanto  più  consumata  si  vedono 
meno  nettamente  gli  ornamenti  del  mono- 
gramma di  Cristo.  Anche  i  due  fori  \)ev 
l'olio  non  sono  paralleli  ,  come  in  quella 
di  Castelvetrano.  Del  resto  abbiamo  i  so- 
liti caratteri  ben  distinti  da  quelli  delle 
lucerne  pagane  e  indicati  dal  Prof.  Sali- 
nas,, cioè:  creta  più  rossastra,  grandezza 
maggiore,  becco  più  largo  e  più  sporgente 
in  avanti  ,  manico  aguzzo  e  non  forato, 
due  buchi  per  l'olio  anziché  uno  solo.  Co- 
me quelle  dei  musei  di  Castelvetrano  e  di 
Palermo  questa  nostra  è  insudiciata  «l'o- 
lio e  di  fumo  all'estremità  del  becco.  Il 
Prof  Salinas  crede  che  questo  sia  un  ca- 
rattere peculiare  delle  lucerne  cristiane; 
ma  a  me  occorse  di  notare  siffatte  insudiciature  anche  in  qualche  lu- 
cerna pagana.  Xè  è  maraviglia,  «piando  in  vece  di  lucerne  nuove  la 
misera  plebe  poteva  contentarsi  talora  di  collocar  nelle  tombe  anche 
lucerne  vecchie  e  inservibili. 


56  A.   PELLEGRINI. 


2.   ISCRIZIONE  CARTAGINESE. 

Trovo  nel  Museo  archeologico  di  Firenze  im  frammento  di  pietra 
calcare,  alto  0,11,  largo  0,14,  contenente  porzione  d'un'iscrizione  car- 
taginese. È  uno  dei  soliti  ex-voto  alla  gran  coppia  divina  cartaginese. 
XelP  inventario  del  Museo  dove  questa  pietra  è  registrata  sotto  il 
n.  240  ,  apparisce  donata  nel  1870  dal  marchese  Carlo  Strozzi ,  che 
assicurò  provenisse  da  Cipro.  Eccone  il  testo: 

tri*  "jEnSvaS  "naS 

■p  mpSiB-p.v  r: 

******** 

Magnae  Tanitliidi  faciei  -  Ba  alis  dominoque  Ba  ali 
Hammoni  (votum)  quod  vovit  rAbd-Melqart,  jìlim.  .  . 

Le  lettere  sono  del  tipo  elegante  cartaginese  ,  e  non  del  ciprio. 
Dunque,  come  altre  iscrizioni  congeneri  trovate  altrove,  sarà  piovuta 
in  Cipro  come  materiale  di  zavorra.  Supporre  che  sia  stata  scolpita 
in  quell'isola  da  qualche  cartaginese,  sarebbe  far  voli  di  fantasia,  pari 
a  quello  di  un  certo  rabbino,  che  avendo  saputo  come  si  fosse  trovata 
ad  Olivola,  presso  Casalmonferrato,  fra  le  macerie  d'una  villa,  una  di 
queste  iscrizioni,  s'infervorò  a  crederla  scolpita  da  un  soldato  d'An- 
nibale, e  in  quella  pietra  vide  un  indizio  sicuro  del  passaggio  in  quei 
luoghi  del  generale  cartaginese.  Dopo  accurate  indagini  si  venne  poi 
a  sapere,  che  la  pietra  d'  Olivola  era  stata  parecchi  anni  addietro  por- 
tata in  quel  luogo  da  un  ufficiale  reduce  da  Tunisi,  e  dal  medesimo 
fatta  murare  sulla  parete  esterna  della  sua  villa  ! 

Firenze. 

Astorre  Pellegrini. 


CUA\A  ITALICA. 


Le  scoperte  e  gli  studi  recenti  ci  mettono  in  grado  di  rasentare, 
se  non  di  cogliere  a  dirittura  la  verità  nella  esposizione  delle  origini 
della  Cuina  r]  èv  'Omfc  ,  come  la  designa  Tucidide.  A  noi  studiosi  , 
tìgli  di  quella  Xeapolis  ,  che  fu  alla  sua  volta  figlia  di  Clima,  assai 
più  che  ad  altri,  incombe  il  dovere  di  rivolgere  la  nostra  attenzione 
a  quest'antichissima  colonia  greca  di  occidente,  la  quale  fu  maestra 
di  civiltà  non  soltanto  alla  Campania  ,  ma  anche  al  Lazio  ed  alla 
stessa  Roma.  E  per  vero  possiamo  affermare  con  sicura  coscienza  clic 
ad  un  tal  dovere  i  dotti  napoletani  non  siano  mai  venuti  meno  :  un 
principe  napoletano,  il  Conte  di  Siracusa,  col  consiglio  di  uno  stu- 
dioso napoletano,  il  Fiorelli  ,  fece  eseguire,  tra  il  1852  ed  il  185G, 
importanti  scavi  nella  necropoli  di  Clima,  e  la  copiosa  messe  di  og- 
getti tornati  a  luce  in  questi  scavi  forma  ora  la  splendida  Raccolta 
Cuinana  del  nostro  Museo  Nazionale. 

Un  suddito  inglese  ,  ma  napoletano  di  cuore  e  di  educazione  , 
Riccardo  Emilio  Stevens  ,  rinnovando  la  figura  del  mercante  fioren- 
tino del  nostro  bel  cinquecento,  il  quale  divideva  le  cure  del  banco 
con  quelle  degli  studj  ,  esplorò  nel  corso  quasi  di  un  ventennio,  tra 
gli  anni  1878  e  1896,  in  vari  posti  la  necropoli  Cumana,  prendendo 
giorno  per  giorno  note  molto  accurate,  le  quali,  consacrando  le  circo- 
stanze materiali  delle  scoperte  compiute  e  descrivendo  i  sepolcri  in  rela- 
zione coi  monumenti  antichi  in  essi  contenuti  l  ,  danno  a  quegli  scavi 
un  alto  valore  scientifico,  valore  che  non  ebbero  gli  scavi  del  Conte 
di  Siracusa.  Ma  di  un  così  lungo  e  fecondo  lavoro  lo  Stevens  riuscì 
a  pubblicare  solo  una  relazione  riassuntiva  concernente  i  primi  tre 
anni  e  più  di  scavo  ~  :  egli  si  proponeva  <li  fare  una  grande  pubbli- 
cazione, quando  tutte  le  esplorazioni  fossero  compiute  ,  persuaso  co- 
me era  che  in  fatto  di  ricerche  archeologiche  non  bisogna  aver  fretta 
a  trarre  illazioni  storiche  ,  che  un  colpo  di  zappa  potrebbe  distrug- 
gere.  Sennonché   i    dolori    domestici  sopravvenuti,   spegnendo    la    sua 


1  Stevens  in  Notizie  1883.  p.   270. 

2  Notizie  cit.  ii.  270-284,  tav.   IV-VI, 


58  A.    SOGLIANO. 


bella  intelligenza,  fecero  vano  il  suo  nobile  proposito  ;  ed  oggi  scri- 
vendo di  lui,  che  langue  in  una  casa  di  salute,  mi  addolora  assai  il 
pensare  che  non  possa  pervenirgli  questo  pubblico  attestato  di  gra- 
titudine, che  gl'invio  in  nome  degli  studiosi  di  ogni  paese.  Se  dun- 
que la  importante  raccolta  Stevens  fu  sottratta,  dopo  la  sventura  toc- 
cata al  suo  possessore,  agli  artigli  dei  negozianti  di  antichità  che  vi 
ronzavano  attorno,  ed  ora  si  ammira  nel  Museo  Nazionale  di  Napoli, 
è  gran  merito  degli  amministratori  napoletani  preposti  a  questo  Isti- 
tuto. Il  Pellegrini  i  scrive  :  «  La  raccolta  Stevens  è  entrata  da  poco 
«  ad  arricchire  le  collezioni  del  Museo  Nazionale  di  Napoli  ed  anche 
«  le  note  prese  giorno  per  giorno  dal  signor  Stevens,  con  un'accura- 
«  tezza  ed  una  diligenza  che  gli  fanno  veramente  onore,  sono  passate 
«  a  far  parte  dell'Archivio  del  Museo  ».  Tranne  la  lode   dovuta  allo 
Stevens,  la  brevità  quasi  telegrafica,  con  cui  il  Pellegrini  segnala  al 
pubblico  dei  dotti  questo  importante  fatto,  mi  obbliga  ad  aggiungere 
qui  qualche  chiarimento.  E  prima  di  ogni  altro  quel  da  poco,  per  la 
circostanza  di  tempo  in  cui  apparve  la  pubblicazione  del  Pellegrini, 
la  quale  è  del  1903,  potrebbe  dar  luogo  ad  equivoci  che  è  bene  dis- 
sipare :  1'  acquisto  della  pregevole    raccolta  da  parte  dello    Stato    fu 
trattato  e  condotto  a  termine  dall'amministrazione  De  Petra  2  ,  e  però 
ad  esso  fu  del  tutto  estranea  la  successiva  amministrazione,  alla  quale 
il  Pellegrini    appartenne    per    breve  tempo.  In  quanto  poi  alle   note 
prese  giorno  per  giorno  dal  sig.  Stevens  e  che  ,  come  lo  stesso   Pelle- 
grini (1.  e.)  riconosce  ,  costituiscono  un   documento  archeologico  e  topo- 
grafico di  prim'ordine,  sappiano  gli  studiosi  che  quelle  note  il  signor 
Antonio  Stevens,  fratello  dello  sventurato  possessore,  le  volle  affidate 
a  me  come  persona,  e  che  uscito    spontaneamente  nell'  ottobre  1901 
dall'  amministrazione  del  Museo  e  degli  scavi  di   Napoli,  consentii  a 
renderle,  unicamente  per  un  doveroso  riguardo  all'amico  che  vedevo 
in  grande  imbarazzo  per  la  esazione  della  prima  rata  di  pagamento 
dovuta  agli  eredi.  Ciò  risulta  da  documenti    amministrativi  e  da  un 
atto  legale  del  7  aprile  1902,  rogato  dal  notaio  Enrico  Bonucci,  e  la 
cui  copia  conforme  conservo  presso  di  me.  È  questa  tutta  una  storia, 
alla  quale,  dato  il  momento  in  cui  venne  fuori  la  pubblicazione  del 
Pellegrini ,  un  animo  sereno  ed  obbiettivo  avrebbe  sentito  il  dovere 
di  accennare. 


1  Tombe  greche  archaiche  e  tomba  greco-sannitica  a  tholos  della  necropoli  di  Cuma 
in  Mon.  Ant.,  pubblicati  per  cura  della  E.  Accad.  dei  Lincei  ,  voi.  XIII  (1903), 
p.  201,  nota  2. 

2  Cfr.  De  Petra ,  Intorno  al  Museo  Nazionale  di  Napoli ,  Napoli  1901  ,  p.  36. 


CIMA    ITALICA.  59 


Dotti  napoletani  finalmente,  quali  il  De  Petra,  il  Patroni,  il  (ìà- 
briei,  lian  fatto  o  fanno  oggetto  delle  loro  ricerche  l'antichissima  sto- 
ria di  Clima.  Sia  dunque  lecito  a  me,  studioso  napoletano,  che  ebbi 
anche  ad  occuparmi  e  non  una  volta  sola  di  antichità  cumane  ,  di 
riassumere  e  discutere  i  risaltati  delle  scoperte  e  degli  stadj  recenti 
relativi  a  questo  importante  tema. 


Senza  dubbio  la  esistenza  di  una  Cuma  preellenica  è  ano  dei 
fatti  più  salienti  che  l'archeologia  ha  acquisito  alla  storia  in  questi 
ultimi  anni;  ed  il  merito  di  tale  scoperta  spetta  al  Patroni,  che  nel 
1<S!M>,  volendo  assicurai*'  alla  scienza  il  più  importante  risanamento 
degli  scavi  eseguiti  a  Coma  dallo  Stevens  ,  pubblicò  e  descrisse  1  i 
più  notevoli  rappresentanti  delle  varie  forme  di  vasi  e  dei  bronzi  che 
li  accompagnavano,  appartenenti  alla  suppellettile  funebre  antichissi- 
ma dei  primi  abitatori  indigeni  di  ([nella  città.  Il  Pellegrini  2 ,  pur 
riconoscendo  che  le  stoviglie  prese  in  esame  dal  Patroni  debbano  at- 
tribuirsi ad  una  popolazione  indigena  che  abitò  ('ama  prima  della  ve- 
nuta dei  Greci,  dissente  dal  Patroni  circa  l'epoca  da  assegnarsi  alle 
tombe  in  cui  tali  oggetti  si  raccolsero  e  che  lo  studioso  napoletano 
non  esita  a  porre  bene  innanzi  al  X  secolo  a.  C.  3.  Per  il  Pellegrini 
le  tombe  in  parola  rappresentano  lo  stadio  immediatamente  precedente, 
se  non  per  certi  punti  concomitante,  con  la  colonizzazione  greca  di  Cli- 
ma che  per  nessuna  ragione  ormai  può  farsi  risalire  ,  in  cifra  larga  , 
più  su  della  metà  del  secolo  Vili  a.  G.  Egli  quindi  non  si  crede  au- 
torizzato a  far  risalire  (incile  tombe  più  in  su  dell' Vili  sec.  a.  C,  o, 
al  massimo,  della  metà  del  sec.  IX.  Come  si  vede,  il  Pellegrini  ap- 
partiene a  quella  scuola  storica,  che  tatto  ha  tranne  il  senso  storico, 
poiché  il  voler  restringere  la  evoluzione  della  civiltà,  specie  nei  suoi 
inizi,  in  spazi  di  tempo  assai  angusti  significa  appunto  mancanza  as- 
soluta di  un  tal  senso.  (ìià  il  Patroni  i  sostenendo  la  giusta  opi- 
nione che  i  dati  archeologici  non  abbiano  autorità  per  infirmare  od 
abbassare  di   molto  la   data   tradizionale  della    fondazione  della   greca 


1  Nuovi  monumenti  di  una  Cuma  italica  anteriore  alla  fondazione  dilla  Colonia 
greca  in   Bull,  di  Paletti,  ital.  A.  XXV,  p.   183  sgg. 

2  Op.  cit.  p.  207  nota  2. 

3  Patroni,   Cuma  in  Xapoli  d'oggi,  Napoli  11)00,  p.  56. 

4  Intorno  ai  più  recenti  scavi  ed  alle  scoperte  archeologiche  della  regione  corri- 
spondente alle  antiche  Campania  e  Lucania  in  Atti  del  Congresso  internazionale  di 
scienze  storiche  voi.  V,  p.   217,  nota   1. 


60  A.    SOGLIANO.  PARTE   I. 

Cuma,  aveva  osservato  che  le  tombe  arcaiche  superstiti  si  trovano  in 
posti  lontani  dall'ambito  dell'antica  città  di  Clima,  mentre  nella  zona 
di  necropoli  più  vicina  alle  mura  sono  state  distrutte  dai  seppelli- 
menti posteriori.  Si  ha  dunque,  conchiude  il  Patroni,  la  massima  pro- 
babilità che  le  tombe  più  vicine,  distrutte,  fossero  più  antiche  delle 
lontane  giunte  a  noi,  e  quindi  lo  stabilirsi  del  primo  più  importante 
nucleo  di  popolazioni  elleniche  avesse  preceduto  di  50,  100  o  più  anni 
le  abbondanti  testimonianze  di  vita  intensa  che  abbiamo  a  Clima  dalla 
metà  dell' Vili  secolo  in  poi  e  che  da  solo  attestano  una  colonia  già 
sviluppata  e  fiorente. 

E  qui  mi  piace  di  ricordare  che  l'Holiu  i  non  la  pensava  diver- 
samente, quando  scrisse  :  «  la  non  esistenza  di  sepolcri  cumani  simili 
«  a  quelli  di  Micene  non  prova  l'assunto  dell' Helbig,  perchè  noi  non 
«  siamo  certi  di  conoscere  tutte  le  necropoli  di  Clima,  di  cui  la  più 
«  antica  può  essere  stata  distrutta,  perchè  in  generale  le  città  che  vi- 
«  vono  di  una  vita  forte  e  prospera,  non  conservano  i  monumenti  del 
«  passato  ,  ma  li  distruggono  ogni  giorno  per  far  posto  ad  altre  co- 
«  struzioni  richieste  dai  nuovi  bisogni  del  tempo  ,  e  perchè  i  primi 
«  Cumani  possono  aver  seppellito  i  loro  morti  in  un  modo  affatto 
«  semplice  ». 

Ma  1'  alta  antichità  del  materiale  indigeno  cumano  studiato  dal 
Patroni  è  confermata  dal  riscontro  che  esso  offre  con  quello  venuto 
fuori  dalle  antichissime  necropoli  di  S.  Mar  z  ano,  di  Striano,  di  S.  Va- 
lentino nella  valle  del  Sarno  ;  riscontro  ,  del  quale  il  Pellegrini  non 
volle  o  non  seppe  tener  conto.  È  pur  questo,  checché  si  voglia  oggi 
da  altri  far  credere,  un  merito  insigne  del  Patroni,  il  quale  sin  dal 
1901  rivelò  ai  dotti  quelle  antichissime  necropoli,  citando  i  confronti 
cumani  2.  Oggi  Clima  colonia  greca  non  è  più  da  considerare  ,  per 
servirmi  delle  stesse  parole  del  Patroni  3 ,  come  un  pezzo  di  Eliade 
pura  trasportato  in  Italia,  senza  alcuna  influenza  precedente  o  concomi- 
tante di  altri  popoli  orientali ,  e  senza  alcun  contatto  con  gli  abitanti 
ed  i  dominatori  del  paese:  oggi  Clima,  prendendo  posto  accanto  a  que- 
gl'  importanti  nuclei  abitati  della  età  del  ferro,  quali  ci  sono  noti  a 
Suessula ,  a  Xola  ,  a  Capua  e  nella  valle  del  Sarno,  entra  di  pieno 
diritto  nel  gran  quadro  della   civiltà  protostorica  degl'  indigeni  della 


1  In  Archivio  Storico  per  le  pror.  nap.  anno  XI,   p.  38. 

2  Necropoli  antichissime  della  valle  del  Sarno  in  Bull,  di  Paletn.  itxl.  anno  XX VII, 
n..  1-3,  1901. — Cfr.  la  mia  nota  :  Di  un  nuovo  orientamento  da  dare  agli  scavi  di  Pompei 
in  Iiendic.  d.  E.  Acc.  d.  Linai  a.   1901. 

3  Atti  del  Congresso  intera,  di  scienze  stor.  voi.  V,  p.  217. 


CUMA   ITALICA.  61 


pianura  campana,  e  però  la  questione  cronologica  non  può  risolversi 
se  non  al  lume  di  quei  riscontri  monumentali  che  la  stessa  regione 
campana  ci  presenta. 

Sta  in  fatto  che  i  principali  dati  riferiti  dal  Patroni  ai  primitivi 
abitatori  indigeni  di  Cuma  sono  costituiti  da  una  ceramica  indigena, 
generalmente  rozza  ,  povera  ed  inabile  nelle  forme  costruttive  e  più 
nella  decorazione,  e  da  bei  bronzi  d'importazione.  È  anche  constatata, 
almeno  per  un  gran  numero  di  tombe,  l'assenza  completa  di  vasi  con 
ornati  dipinti  che  formavano  il  principale  commercio  degli  Elleni  ed 
erano  quasi  il  contrassegno  del  loro  arrivo.  D'altra  parte  sta  in  fatto 
che  dalla  necropoli  della  valle  del  Sarno  ,  a  S.  Marzano  ,  Striano , 
S.  Valentino,  tornò  a  luce  una  simile  ceramica  locale  di  argilla  impura 
fatta  a  mano,  cui  vanno  a  poco  a  poco  associandosi  prima  vasi  con  or- 
nati dipinti  geometrici  ,  primissimi  prodotti  dei  più  antichi  stabili- 
menti costieri  ellenici;  poi  vasi  di  bucchero  fabbricati  dagli  Etruschi 
della  Campania,  accompagnati  da  piccoli  e  rari  e  tini  vasetti  corinzi. 
È  assodato  inoltre  che  le  tombe  dello  strato  più  recente  della  necro- 
poli di  S.  Marzano  diedero  buccheri  e  vasetti  corinzi  del  VII  sec.  a. 
C,  e  che  a  Striano  ai  molti  vasi  d'impasto  artificiale,  non  torniti  e 
mal  cotti,  accedono  pochi  vasi  di  argilla  figulina  torniti  e  cotti  alla 
fornace,  alcuni  con  ornati  geometrici  del  più  antico  stile  greco-cam- 
pano, mentre  manca  affatto  il  bucchero;  la  quale  assenza  stabilisce 
inconfutabilmente  la  precedenza  della  influenza  ellenica  su  quella  de- 
gli Etruschi  in  Campania.  Ora  ,  se  buccheri  identici  a  quelli  di  Ca- 
pila, cioè  del  miglior  periodo  di  fabbricazione,  ricorrono  nello  strato 
più  recente  della  necropoli  di  S.  Marzano  insieme  coi  piccoli  vasi  co- 
rinzi del  VII  sec.  ,  è  da  ammettere  che  la  produzione  del  bucchero 
locale  ,  o  se  piace  meglio  ,  la  diffusione  di  tale  industria  cominci  in 
Campania  alla  fine  dell'VIII  sec.  E  se  a  Striano  manca  del  tutto  il 
bucchero,  e  associati  alla  ceramica  indigena  si  rinvennero  pochi  vasi 
con  ornati  geometrici  del  più  antico  stile  greco-campano,  evidente- 
mente prodotti  delle  colonie  elleniche  fondate  sulle  coste  ,  ne  segue 
che  tali  prodotti  d'imitazione  debbano  assegnarsi  all'VIII  sec;  e  con- 
cessa una  certa  evoluzione  dal  periodo  del  commerciò  a  quello  delle 
industrie  locali,  si  raggiunge  a  un  di  presso  il  IX  secolo,  epoca  in 
cui  i  prodotti  più  perfezionati  dell'  oriente  ellenico  «  prima  soppian- 
«  tarono  e  restrinsero  agli  usi  più  vili  e  comuni  il  vasellame  indige- 
«  no,  poi  furono  imitati  nel  territorio  stesso,  sorgendo  col  progresso 
«del  tempo  in  tutta  l'Italia  meridionale  (come  altrove)  numerose  fab- 
«  briche  di  vasi  che  adoperavano  tutti  i  sistemi  greci,  e  molte  delle 
«  (piali  ornavano  anche  di   composizioni   tigniate,  secondo  una  tecnica 


62  A.    S0GLIAN0.  PARTE  I. 

«derivata  principalmente  dalle  officine  attiche,  le  superficie  dei  va- 
«  si  *  ».  Ma  il  vasellame  indigeno  di  Clima  ,  mentre  è  quello  stesso 
clic  gl'indigeni  della  valle  del  Sarno  usavano,  si  mostra  d'altra  parte 
ancora  non  tocco  da  influenze  straniere  dirette;  dunque  quel  vasella- 
me può  ben  datarsi  dal  X  secolo  in  su.  Xon  trovo  quindi  ragione 
sufficiente  per  rigettare  col  Pellegrini  la  cronologia  assegnata  dal  Pa- 
troni alla  Clima  preellenica  e  che  non  ha  in  se  nulla  di  cervellotico, 
ma  è  fondata  su  dati  di  fatto  integrati  dal  ragionamento  più  rigoroso. 

Che  poi  la  costa,  dove  sorgeva  la  Clima  preellenica,  fosse  nota 
ai  navigatori  dell'oriente  greco-asiatico,  assai  meglio  che  il  commer- 
cio dei  bei  bronzi  rinvenuti,  i  quali  in  parte  forse  potrebbero  essere 
stati  anche  importati  da  quei  centri  di  civiltà  ricchi  di  prodotti  enei 
che  si  erano  già  formati  nell'  Italia  media  e  superiore,  lo  fa  intuire 
la  forte  e  geniale  ricerca  del  Cabrici  sul  valore  dei  tipi  monetli  nei 
problemi  storioi ,  etnografici  e  religiosi  2  ed  ora  lo  dimostra  un'  altra 
nota,  ancora  inedita,  dello  stesso  autore  dal  titolo  :  Relazioni  artisti- 
che e  religiose  fra  Cuma  degli  Opici  e  l'Oriente  greco-asiatico,  rivelate 
dalle  monete.  Per  il  Cabrici  i  navigatori  di  Mileto,  di  Samo  ,  di  Ci- 
pro, delle  isole  di  Podi  e  di  Creta  e  di  altre  parti  dell'Asia  Minore, 
importarono  per  secoli  i  loro  prodotti  sulle  coste  della  penisola  ita- 
lica e  della  Sicilia.  Prima  della  greca  vi  fu  una  civiltà  indigena  delle 
coste,  di  fondo  greco-asiatico  ;  ed  in  quanto  a  Cuma  i  suoi  contatti 
secolari  con  l'oriente  greco-asiatico  sono  oggi  dimostrati  dalla  perfetta 
identità  di  alcuni  tipi  monetali  con  altri  di  quella  città  cosmopolita 
che  fu  Cizico.  Ed  ecco  che  la  indagine  numismatica,  serenamente  ed 
acutamente  fatta,  spiana  la  via  alla  soluzione  dell'importante  proble- 
ma storico  concernente  le  origini  della  colonia  greca  di  Cuma. 

11  Pellegrini  a  tal  proposito  scrive  :  3  «  Questi  fatti  importali- 
«  tissimi  [la  corrente  commerciale  continentale  greca  e  la  corrente 
«  commerciale  greco-asiatica]  per  lo  studio  della  civiltà  italo-greca 
«nel  secolo  Vili  a.  Cr.  trovano  a  Cuma  —  e  questo  è  forse  il  ri- 
«  sultato  più  notevole  delle  nostre  scoperte  —  una  splendida 
«  ed  inaspettata  conferma  nella  tradizione  che  alla  fondazione  di 
«Cuma  italica  presero  parte  non  solo  i  Calcidesi  di  Eubea,  ma  an- 
«  che  una  gente  venuta  dalle  colonie  greche  dell'Asia  Minore  ,  cioè 
«  i  ('umani  di  Eolide.  Eforo  nel  suo  epitomista  Skymnos  da  Cirio  e 
«  Strabone,  che  forse  attinse  a  Timeo,  completati  a  vicenda,  ci  han- 
«  no,  come  è  noto,  conservata  questa  tradizione. 


1  Patroni,  Nuovi  mon.  di  una  Cuma  italica  in  Bull.  cit.   p.   183. 

2  In  Atti  del   Congresso  intem.  di  scienze  stor.  voi.  VI,  p.  55  sgg. 

3  Op.  cit.  p.  292  sgg. 


fAKTE   I.  CUMA   ITALICA.  63 

«  La  quale  però  non  ebbe  fra  gli  storiei  e  gli  archeologi 
«  più  recenti  quell'  accoglienza  che  a  me  sembra  per  tante 
«  ragioni  spettarle.  Lo  Helbig,  che  vide  così  addentro  nella  que- 
«  stione  cronologica  della  fondazione  di  Clima,  vi  sorvolò  sopra,  so- 
«  spettando  della  sincerità  di  Eforo  cumano  nel  riferire  un  fatto  che 
«  troppo  da  vicino  interessava  la  sua  patria.  Il  Beloch,  partendo  da 
«  uno  stesso  punto  di  vista,  volle  vedervi  una  leggenda  sorta  poste- 
«  riormente  a  cagione  della  identità  del  nome  delle  due  dime  — 
«  scambio  analogo  a  quello  per  cui  si  potè  credere  Clima  italica  fon- 
«  data  nel  secolo  XI  a.  Cr. — e  fece  dipendere  il  nome  di  questa  da 
«  un  oscuro  villaggio  dell'  Eubea  ,  ricordato  da  Stefano  di  Bisanzio. 
«  Solo,  per  quanto  io  mi  sappia,  il  Boehlau,  esaminando  alcuni 
«  elementi  della  civiltà  etnisca  negli  strati  paralleli  ai  nostri  di  Clima, 
«  vide  la  possibilità  di  una  conferma  da  darsi  a  quella  tra- 
dizione in  base  ai  monumenti». 

Per  il  Pellegrini  dunque  le  reliquie  della  Clima  degli  Opici  si 
troverebbero,  come  quelle  della  omonima  città  eolica,  in  terra  donde 
la  civiltà  sia  tramontata  da  secoli  e  dove  qualche  dotto  tedesco  di 
tanto  in  tanto  si  rechi  a  rivelare  i  tesori  nascosti.  Sennonché  era  ri- 
serbato a  lui,  nella  pienezza  dei  tempi,  di  trovare  la  inaspettata  con- 
ferma della  tradizione  conservataci  da  Eforo  e  di  annunziali  il  verbo 
dell'elemento  eolico  nella  fondazione  della  Clima  italica.  Tutto  questo 
sarebbe  veramente  deplorevole,  se  nell'affermazione  del  Pellegrini  si 
volesse  vedere  qualcosa  di  più  che  una  grande  leggerezza. 

Ventini  anno  or  sono  ,  illustrando  una  epigrafe  cumana  arcaica 
di  non  più  che  sei  parole  in  un  sol  rigo  i  ,  io  che  da  un  decennio 
circa  mi  ero  dato  a  coltivare  quegli  studi ,  ai  quali  ho  la  coscienza 
di  avere  arrecato  contributi  forse  non  inutili,  quantunque  da  taluno 

non  apprezzati,  così  scrivevo  (pag.  355)  :  « non  sarà  di  certo  sfng- 

«  gito  a  nessuno,  che  per  la  intelligenza  di  una  così  breve  epigrafe, 
«  io  abbia  dovuto  far  ricorso  per  ben  due  volte  al  dialetto  eolico  : 
«  anche  il  dorico  rovtsl  contribuisce,  sino  ad  un  eerto  punto,  a  con- 
«  fermare  tali  tracce  di  eolismo.  Ed  è  questo,  a  mio  parere,  il  fatto 
«  più  importante  che  ci  rivela  la  nuova  epigrafe  cumana  ».  Ed  in 
nota  aggiungevo  (pag.  355  nota  4)  :  «  Xon  credo  sia  fuori  di  propo- 
«  sito  il  prendere  qui  in  esame  un'opinione,  non  ha  guari  messa  fuori 
«sulle  origini  della  nostra  Kyme.  11  Beloch  (Campanien  ,  p.  147-48) 
«  rigettando  ,  perchè  suggerita  unicamente  da  un  eccessivo  amor  di 
«patria,  la  testimonianza  di  Eforo,  secondo  la  quale  la  Kyme  cam- 


1  Notizie,  a.  1884,  pag.  352-357. 


64  A.    SOGLI  ANO.  PARTE   I. 

«  pana  sarebbe  stata  colonia  della  Kyme  eolica,  accetta  invece  quella 
«  di  Strabone  (p.  243)  che  dice  essere  la  nostra  Kyme  Xalxidéav  ucci 
«  Kv[icc£gjv  TcaXaióxuTov  %tÙ6^a  :  però  avverte  il  dotto  tedesco,  che  qni 
«  non  si  ha  da  pensare  alla  Kyme  asiatica,  ma  all'omonima  città  del- 
«  l'Enbea.  Egli  spiega  le  tracce  di  eolismo,  che  qua  e  là  s'incontrano 
«  nella  Kyme  campana  ,  e  che  indussero  Eforo  a  ritenerla  per  una 
«  fondazione  eolica,  coli' ammettere  che  coloni  di  questa  città  non  fu- 
«  rono  esclusivamente  quei  di  Calcide  e  di  Kyme  euboica,  ma  anche 
«  quei  di  Eretria,  di  Estiea,  Beoti  ed  Attici,  gli  Elleni  in  somma  di 
«  ambe  le  rive  dell' Euripo.  A  questo  risultato  egli  è  condotto  dallo 
«  osservare  che  i  nomi  delle  fratrie  napoletane,  le  quali  naturalmente 
«  dovevano  essere  le  antiche  fratrie  della  metropoli  cumana,  si  ran- 
«  nodano  tutti  all'Eubea  ed  alla  costa  Beotica. 

«  Veramente  in  questa  opinione  ,  che  attribuisce  alla  Kyme  eu- 
«  boica  le  origini  della  Kyme  campana,  il  Beloch  è  stato  preceduto 
«  dal  Bursian  (Geographie  von  Grieehenland  II,  pr.  3,  p.  427),  il  quale 
«  va  più  oltre  ancora ,  ritenendo  per  probabile  che  anche  la  Kyme 
«  eolica  dell'Asia  Minore  sia  stata  fondazione  della  città  euboica.  Non 
«  si  può  negare  che  l'opinione  dei  due  dotti  tedeschi  sia  seducente, 
«  poiché  collocandosi  sul  medesimo  suolo  dell' Eubea  i  due  popoli  ci- 
«  tati  da  Strabone  come  fondatori  della  italica  Kyme,  s'intendono  me- 
«  glio  quei  rapporti,  che  li  abbiano  potuti  spingere  a  stabilire  insie- 
«  me  una  colonia.  Ma  la  base  sulla  quale  essa  si  poggia ,  mi  pare 
«  tutt'  altro  che  solida.  Innanzi  tutto  fra  gli  scrittori  antichi  il  solo 
«che  faccia  menzione  di  una  Kyme  euboica  è  Stefano  Bizantino;  e 
«  sembra  che  di  tanta  grandezza  ,  quale  il  Bursian  specialmente  le 
«  attribuisce  ,  all'autore  degli  'E&vixcbv  non  sia  giunta  neppur  l' eco, 
«  poiché  egli  se  ne  sbriga  in  due  parole  dicendo  :  jta'u^  [Kv^ii]]  xì\s 
«  EvftoCccg.  Ne  come  ragione  di  questa  fuggevole  citazione  potrà  ad- 
«  dursi  l'età  di  Stefano,  posteriore  di  molto  al  fiorire  della  città  eu- 
«  boica  ,  una  volta  che  egli  non  adopera  lo  stesso  laconismo  nel  ri- 
«  cordare  la  Kyme  eolica.  A  ciò  si  aggiunga  che  non  tutti  i  critici 
«  sono  di  accordo  nell'  accettare  la  testimonianza  di  Stefano  intorno 
«  alla  esistenza  di  una  Kyme  nell'Eubea;  ma  vi  ha  chi  la  rigetta  ad- 
«  dirittura,  vedendo  in  essa  nuli' altro  che  una  confusione  di  città  o- 
«  monima  (cfr.  Stephani  Thesaurus  e  Pape  Onomasticon).  Così  stando 
«  la  cosa  ,  la  ricostruzione  storica  del  Bursian  e  del  Beloch  rimane 
«  ben  poco  salda.  Ma  dato  anche  che  una  Kyme  vi  fosse  stata  nel- 
«  l'Enbea,  non  trovo  sufficiente  ragione  di  non  tenere  in  nessun  conto 
«  la  testimonianza  di  Eforo  ,  per  rannodare  a  quella  le  origini  della 
«  città  campana.  L'  amor  patrio  di  Eforo  ,  che  il  Beloch  adduce  per 


CUMA   ITALICA.  65 


«  attenuare  la  fede  sinora  prestata  alla  testimonianza  del  logografo, 
«  è  un  coltello  a  doppio  taglio;  poiché  se  da  un  lato  poteva  turbare 
«  il  giudizio  storico  di  lui  e  indurlo  alla  esagerazione  ed  al  vanto, 
«  dall'altro  lo  stimolava  anche  a  raccogliere  con  cura  amorosa  e  di- 
«  ligente  le  tradizioni  della  sua  città  natale,  dove  meglio  che  altrove 
«  è  da  credere  che  esse  si  fossero  conservate  possibilmente  inalte- 
«  rate.  L'  eolismo,  che  qua  e  là  trapela  dalla  ionica  Kyme  campana 
«  e  che  il  Beloch  giunge  a  spiegare  per  una  via  indiretta,  non  senza 
«  un  certo  tour  de  force,  trova  la  sua  più  naturale  spiegazione,  se  si 
«  concilia  la  testimonianza  dello  storico  eolico  con  quella  di  Strabone 
«  e  degli  altri  scrittori,  i  quali  attribuiscono  alla  nostra  Kyme  un'o- 
«  rigine  puramente  jonica». 

Dopo  un  ventennio  e  pia,  le  recenti  scoperte  mi  obbligano,  per 
la  tutela  dei  miei  legittimi  diritti  di  studioso,  ad  esumar  questa  pa- 
gina, nella  quale  son  lieto  di  non  dover  correggere  nulla,  tranne  forse 
il  vezzo  dovuto  all'  influsso  tedesco  di  scrivere  Kyme  per  Clima  !  Se 
non  compiuta,  fosse  almeno  cronologicamente  esatta  la  enumerazione 
del  Pellegrini,  che  alla  opinione  del  Beloch  fa  precedere  quella  del- 
l'Helbig,  il  cui  libro  apparve  la  prima  volta  nel  1884.  Ma  se  il  Pei 
legrini  non  mi  fa  l'onore  di  annoverarmi  fra  gli  storici  e  gli  archeo- 
logi più  recenti,  la  stessa  esclusione  vien  da  lui  inflitta  all'  Holm,  il 
quale  nelle  sue  Ricerche  sulla  storia  antica  della  Campania  pubblicate 
nel  1886  l  tratta  diffusamente  (pag.  28-45)  e  chiaramente  delle  ori- 
gini della  nostra  Clima;  ed  in  riguardo  alla  dibattuta  questione  se  la 
metropoli  di  Clima  sia  stata  l' eolica  Kyme  nell'  Asia  Minore  ovvero 
un'altra  Kyme,  tenendo  pur  conto  della  opinione  da  me  espressa,  così 
conchiude  :  2  «  In  favore  dell'eolica  milita  la  grande  importanza  della 
«  città  in  generale,  la  sua  operosità  colonizzatrice  provata  con  la  fon- 
«  dazione  di  Side,  e  l'opinione  comune  dell'  antichità  ;  in  favore  del- 
«  l'euboica  si  può  invece  addurre  la  vicinanza  di  Calcide.  Ma  que- 
«  st'  ultimo  argomento  sarebbe  esso  abbastanza  forte  per  spossessare 
«  l'eolica  città  di  una  gloria  che  essa  vanta  da  tanti  secoli  ?  Xoi  cre- 
«  diamo  che  l' opinione  del  Bursian  rimarrà  sempre  per  quanto  inge- 
«  gnosa  una  mera  congettura  e  che  non  è  mica  inammissibile  1'  op- 
«  posta  che  attribuisce  ai  Kymei  dell'  Asia  Minore  di  aver  concorso 
«  a  fondare  o  ad  aggrandire  la  città  Campana  ». 


1  In  Archivio  Storico  per  le  province  nap.,  anno  XI,  p.  21  sgg. 

2  Op.  cit.  p.  45. 


66  A.    SOGLIANO.  PARTE   I. 

Il  Pellegrini  in  più  di  un  luogo  (pag.  207  nota  2  e  pag.  284, 
afferma  che  la  colonizzazione  greca  di  Clima  non  possa  risalire  più 
su  della  metà  dell'VIII  secolo  a.  0.,  e  con  lui  va  pienamente  di  ac- 
cordo il  Karo  *).  Anche  intorno  all'  epoca  di  questa  colonizzazione  il 
dimenticato  Holm  2  aveva  già  espressa  la  sua  opinione,  venendo  ,  dopo 
un  sereno  esame  degli  argomenti  dell'  Helbig ,  alla  conchiusione  se- 
guente :  Cuma  fu  assai  più  antica  di  Nasso  e  di  Siracusa,  di  Sibari 
e  di  Taranto.  Può  essere  che  sia  stata  fondata  già  circa  il  1000  a.  C. 
Ma  la  opinione  di  uno  studioso,  modesto  quanto  immune  da  precon- 
cetti, non  può  avere  alcun  valore  agli  occhi  degl'ipercritici,  pei  quali 
il  solo  Helbig  vide  così  addentro  nella  questione  cronologica  della  fon- 
dazione di  Cuma.  Fra  i  vari  argomenti  addotti  dall'Helbig  per  infir- 
mare la  data  tradizionale  Vunico  che  abbia  apparenza  di  validità,  sul 
quale  egli  insiste  sin  dal  1876  3  e  che  perciò  viene  ora  rimesso  in 
campo  dal  Pellegrini  e  dal  Karo  è  l'assoluta  mancanza  di  «  miceneo  » 
a  Cuma.  A  un  siffatto  argomento,  ex  silentio  e  quindi  assai  poco  strin- 
gente, mossero  gravi  obbiezioni  prima  1'  Holm  e  poi ,  indipendente- 
mente da  questo,  il  Patroni,  pel  quale  quegli  stessi  dati  archeologici, 
che ,  a  giudizio  del  Pellegrini  e  del  Karo  ,  contrastano  con  la  data 
tradizionale  ,  non  hanno  invece  autorità  per  abbassarla  di  molto.  Si 
ha  dunque  da  un  lato  la  tradizione  classica  concorde  nell'  affermare 
l'alta  antichità  di  Cuma,  e  dall'altro  la  indagine  archeologica  che  non 
ha  sino  ad  ora  nessun  fatto  positivo  da  opporre  a  quella  tradizione. 
Così  stando  la  cosa,  piuttosto  che  far  giustizia  sommaria  della  tradi- 
zione classica,  dichiarandola  ormai  assolutamente  insostenibile  (pag.  283), 
il  Pellegrini  avrebbe  dovuto  tener  la  via  di  un  prudente  riserbo  im- 
posto dalla  virtù  dell'attesa. 

Sennonché  il  Karo  ,  che  pur  segue  così  dappresso  il  Pellegrini 
tanto  nelle  omissioni  quanto  nelle  illazioni  storiche,  apre  gli  occhi  a 
quella  luce,  che  pare  offenda  la  vista  del  Pellegrini.  E  questa  luce  è 
l'elemento  etrusco,  cui  il  Karo  4  giustamente  attribuisce  le  oreficerie 
filigranate  di  una  delle  tombe  cimiane. 


1  Tonile  arcaiche  di  Cuma,  iu  Bull,  di  paletn.  ital. ,  anno  XXX  (1904)  pag.  20 
e  21. 

2  Op.  cit.,  p.  30-42. 

3  Ann.  d.  Inst.  1876,  p.  231.  Cfr.  Von  Duhn.  Delineazione  di  una  Storia  della 
Campania  preromana  (traduzione  di  L.  Correrà]  ,  in  Rivista  di  Stor.  atti.  ,  1895, 
anno  I,  n.  3,  p.   53  nota  4. 

*  Op.  cit.,  p.  27-28. 


CUMA   ITALICA.  67 


Ma  anche  il  Karo,  come  bene  osserva  il  Patroni  l,  concede  troppo 
all'ellenismo  e  troppo  poco  agli  Etnischi  della  Campania  e  agli  altri 
elementi  etnici;  e  però  rimandando  il  lettore  alle  osservazioni,  con  le 
quali  il  dotto  napoletano  combatte  le  deduzioni  del  Karo  circa  il 
tempo  e  la  durata  della  dominazione  etnisca  nella  Campania  e  am- 
mette la  influenza  di  altri  elementi  etnici ,  soprattutto  del  fenicio, 
sulle  coste  campane  ,  tengo  qui  a  rilevare  V  imbarazzo  nel  quale  si 
dovè  trovare  il  chiaro  studioso  della  toreutica  antica  di  fronte  alla 
sorpresa  di  oreficerie  etnische  venute  fuori  da  una  ricca  tomba  cu- 
lmina; imbarazzo  che  ben  si  rispecchia  nel  suo  dotto  studio.  Vietan- 
dogli la  sua  coscienza  storica  di  attribuire  quella  tomba  ad  un  di- 
nasta etrusco  regnante  a  Coma  (p.  20)  e  parendogli  un'ipotesi  arbi- 
traria il  pensare  a  qualche  ricco  mercante  etrusco  stanziatosi  nella 
colonia  greca  (p.  20  nota  3) ,  egli  ritiene  per  certo  che  dall' Etr uria 
legata  con  Cuma  da  stretti  vincoli  commerciali,  sin  dall'  Vili  secolo, 
il  capo  guerriero  deposto  nella  nostra  tomba  abbia  ricevuto  i  gioielli 
che  lo  adornavano  (p.  28).  Ed  in  nota  aggiunge  :  Queste  pacifiche  re- 
lazioni non  hanno  che  vedere  coll'inva sione  etnisca  in  Campania,  av- 
venuta solo  alla  fine  del  VI  secolo.  Dunque  i  preziosi  avanzi  archi- 
tettonici di  Capua  e  di  Pompei,  il  piano  regolatore  di  Ercolano  ,  di 
Pompei,  di  Capua  ,  e  gli  atrii  calcarei  di  Pompei  e  in  generale  la 
domus,  che  studi  recenti  hanno  rivendicato  agli  Etruschi ,  sarebbero 
effetto  o  di  semplici  relazioni  pacifiche  intercedute  fra  l'Etruria  e  la 
Campania  sin  dall' VII!  secolo  ovvero  della  invasione  etnisca  (non  do- 
minazione ,  si  noti)  avvenuta  alla  line  del  VI  sec.  e  che  non  lasciò 
tracce  profonde  nel  paese!  2.  Ma  l'etruscologo  italiano  zar  è£,o%riv,  Luigi 
Adriano  Milani 3,  con  quelle  autorità  che  gli  viene  dal  lungo  studio 
e  dal  grande  amore,  dichiara  senz'altro  protoetrusca  la  tomba  fu- 
mana del  dinasta  guerriero. 

Non  minore  è  l'imbarazzo  del  Karo  dinanzi  alla  tomba  cumana 
a  tholos,  che  egli  riconosce  simile  alle  tombe  a  cupola  etnische  del- 
l'Vili  e  del  VII  secolo;  ma  poiché  non  crede  che  la  influenza  poli- 
tica etnisca  giungesse  in  quei  remoti  tempi  fin  nella  Campania  ,  si 
limita  a  vedere  nella  tomba  a  tholos  di  Cuma  una  tarda  sopravvi- 
venza del  tipo  antichissimo  «  miceneo  »,  dovuta  alla  influenza  diretta 
della  Sicilia  o  di  Taranto,  ove  l'impulso  di  quella  civiltà  giunse  nel 
secondo  millennio  a.  C.  4.  Dato  pure  che  non  si  possa  parlare  di  una 


1  Atti  del  Congr.  intern.  di  se.  stor..  voi.   V,  p.  217  nota  1. 

2  p.  23,  dove  è  invece  parola  di  dominazione  etrusca  durata  appena  un  secolo. 

3  Studi  e  materiali,   voi.  Ili  ,1905)  p.  197,   nota  317. 

4  Qp.    cit.    p.   3  8gg, 


68  A.    SOGLIAMO.  PARTE   I. 

vera  e  propria  dominazione  etnisca  nella  Campania  in  quei  tempi  as- 
sai remoti,  non  bastano  forse  a  spiegare  quella  sopravvivenza  «  mi- 
cenea »  in  Clima  le  relazioni  pacifiche  di  commercio ,  che  il  Karo 
stesso  ammette  fra  l'Etruria  e  la  Campania  sin  dall'VIII  secolo  per 
spiegare  la  presenza  delle  oreficerie  etnische  in  una  tomba  cumana? 
Assai  più  conforme  al  vero  sembrami  la  opinione  del  Patroni,  il  quale 
(1.  e.) ,  non  essendo  persuaso  che  proprio  non  possa  trattarsi  di  mo- 
numento arcaico  occupato  ed  anche  modificato  da  gente  d'età  tarda, 
giudica  la  tomba  cumana  a  tholos  una  persistenza  micenea  dovuta 
ad  influenza  degli  Etruschi  e  degli  altri  elementi  orientali.  Ed  io  ag- 
giungo che  il  fatto  dei  blocchi  intonacati  esternamente  e  provenienti  con 
tutta  verosimiglianza  da  un  altro  edificio  più  antico  l  ,  il  qual  fatto 
costituisce  l'argomento  più  valido  fra  quelli  addotti  dal  Pellegrini  in 
sostegno  della  seriorità  del  monumento,  non  ha  poi  quella  importanza 
che  il  Pellegrini  ad  esso  attribuisce,  poiché  intonacata  era  parimente 
la  colonna  etnisca  di  Pompei  2  ,  e  similmente  intonacati  e  apparte- 
nenti ad  altro  edilìzio  erano  i  capitelli  adattati  su  i  pilastri  d'ingresso 
di  un  antichissimo  edifizio  pompeiano,  risalente  senza  dubbio  al  pe- 
riodo etrusco  3.  Certo  la  tomba  cumana  a  cupola  dovette  subire  delle 
modificazioni ,  quando  venne  adibita  per  le  posteriori  deposizioni  :  i 
chiodi  di  ferro,  dai  quali  dovevano  pendere  ghirlande  e  festoni,  tro- 
vano un  perfetto  riscontro  negli  uncinetti  di  ferro  con  testa  a  pera 
infissi  fra  le  commessure  dei  cunei  della  vòlta  di  una  magnifica  ca- 
mera sepolcrale  appartenente  alla  necropoli  dell'  antica  Abdlinum  e 
da  me  descritta  nel  1881  4.    Il  confronto  non  andava  trascurato  per 


1  Pellegrini,  op.  cit.  p.  220. 

2  Mau  in  Mitteilungen  des  K.  D.  Areh,  Inst. ,  a.  1904  ,  p.  124  sgg.  Patroni  , 
in  Rendiconti  d.    B.  Acc.  d.  Lincei  a.   1903,  p.   367  sgg. 

3  Mau  in  Mitteilungen  des  E.  D.  Arch.  Inst.,  a.   1902  ,  p.   310  e  1904  p.   130. 
Che  questi  capitelli    abbiano  di  già  appartenuto  ad   altro    edilìzio  (cosa  non 

notata  dal  Mau)  risulta  dalle  osservazioni  seguenti  :  1.  il  capitello  del  pilastro 
nord-ovest  poggia  su  restauro  moderno  ,  ma  lo  spigolo  della  gola  cava  non  cade 
a  piombo  del  blocco  ultimo  di  tufo  che  posa  sul  suolo  e  che  è  certamente  antico, 
misurando  la  larghezza  di  quella  gola  in.  0,71,  mentre  la  larghezza  del  blocco  è 
di  m.  0,78.  2.  Le  modanature  del  lato  posteriore  di  questo  capitello  s'internano 
nella  fabbrica  antica.  3.  Il  capitello  del  pilastro  nord-est  combacia  perfettamente 
col  primo  blocco  di  tufo  che  ha  gli  spigoli  sfottati ,  terminanti  superiormente  a 
becco  ,  il  che  non  si  riscontra  nei  blocchi  sottoposti  ;  evidentemente  capitello  e 
blocco  formavano  un  insieme  tolto  da  altro  edifizio.  4.  I  due  capitelli  non  sono 
di  uguale  grandezza,  poiché  la  larghezza  di  quello  nord-ovest,  misurata  sull'a- 
baco, è  di  m.  0,89,  mentre  la  larghezza  dell'altro  è  di  m.   1,11. 

4  Cfr.  Notizie  degli  scavi  ,  a.  1881,  p.  229.  Ne  proposi  il  trasporto  al  Museo 
Nazionale  di  Napoli  ,  ma  il  compianto  Ruggiero,  direttore  degli  scavi  ,  non  cre- 
dette, per  ragioni  economiche,  di  accogliere  la  proposta. 


PARTE   I.  CUMA   ITALICA.  69 

la  storia  del  costume  della  gente  sannitica ,  ed  è  veramente  strano 
che  anche  quest'altra  omissione  del  Pellegrini  debba  riguardarmi  ! 

Ma  che  il  Karo  sia  in  fondo  d'  accordo  con  la  tradizione  assai 
più  che  egli  stesso  non  creda ,  lo  rivela  la  chiusa  del  suo  accu- 
rato lavoro  :  «  Poiché  sono  convinto,  egli  dice  (p.  28-29),  che  questi 
«  [i  Tirreni]  vennero  in  Italia  per  mare ,  corsari  audaci  che  soggio- 
«  garono  i  contadini  umbri  e  regnavano  sopra  di  essi  da  despoti  po- 
«  tenti  non  solo  per  coraggio  e  virtù  guerresca,  ma  anche  per  quel 
«  patrimonio  di  scienza  secolare  che  portavano  dalle  loro  antiche  sedi. 
«  Quando  quei  neri  avventurieri  si  avviarono  per  conquistare  una 
«  patria  nuova,  nel  XIX  secolo  trovarono  stabilite,  nel  golfo  di  Ta- 
«  ranto  ed  in  Sicilia  ,  le  relazioni  commerciali  che  i  Greci  avevano 
«iniziate  sin  dall'epoca  «micenea»,  e  forse  già  qualche  principio  di 
«  colonia  greca. 

«  Dovettero  trovare  occupata  anche  la  costa  della  Campania,  poi- 
«  che  passarono  oltre  a  quelle  contrade  fertili  e  ridenti ,  per  appro- 
«  dare  poi  alla  costa  maremmana  ove  in  breve  sorsero  le  loro  grandi 
«  città  marittime,  vicine  ai  monti  della  «  catena  metallifera  »  che  of- 
«  friva  loro  delle  ricchezze  uniche  in  Italia.  Furono  i  mercanti  di  Cu- 
«  ma  che,  a  quanto  pare,  accorsero  per  i  primi  in  cerca  di  quelle  rie- 
«  chezze  e  che  portarono  non  agli  Etruschi  ,  ma  alle  nascenti  città 
«  del  Lazio,  Roma  e  Preneste,  il  dono  prezioso  dell'alfabeto.  Di  que- 
«  sto  primo  grande  incivilimento  dell'Italia,  coperto  tuttora  da  un  fitto 
«  velo  di  cui  appena  si  solleva  un  lembo  ,  delle  prime  relazioni  tra 
«  le  genti  che  portarono  in  Italia  i  germi  della  sua  grande  civiltà  le 
«  nostre  tombe  cumane  sono  monumenti  oltremodo  preziosi».  Chi  ben 
la  consideri ,  troverà  una  tal  conclusione  conveniente  più  ad  un  so- 
stenitore che  ad  un  oppugnatore  della  data  tradizionale,  che  fissa  in- 
torno al  1000  a.  C.  la  colonizzazione  greca  di  Clima  ! 

Ed  ora  mi  piace  di  chiudere  questo  scritto,  col  quale  ho  cercato 
di  rimettere  a  posto  i  termini  del  possesso  intellettuale  degli  studiosi 
napoletani  nel  campo  delle  difficili  ed  importanti  questioni  relative 
alle  origini  della  nostra  Clima  ,  ricordando  il  recente  contributo  ar- 
recato alla  storia  di  Clima  dall'illustre  decano  degli  archeologi  napo- 
letani. Il  De  Petra  i  ha  rilevato  il  valore  storico  certissimo  di  uno 
statere  cumano,  di  stile  arcaico,  che  presentando  una  fronda  di  alloro 
con  una  bacca  dietro  alla  testa  femminile  del  diritto  e  sul  rovescio 
la  conchiglia,  emblema  di  Clima,  e  intorno  quattro  delfini  ricorrentisi 


1  La  data  di  due  monete  greehe  in  Atti  del   Congr,   intern.  di  scienze    stor.  ,  voi. 
VI,   p.  163  sg. 


70  A.    SOtìLIANO.  PARTE   I. 

in  giro,  i  quali  sono  assolutamente  propri  della  moneta  di  Siracusa, 
allude  evidentemente  al  soccorso  prestato  ai  Cumani  nelF  anno  474 
a.  C.  da  Gerone  di  Siracusa  contro  gli  Etruschi  e  alla  vittoria  ripor- 
tata da  quel  potente  tiranno.  Troviamo  così  tramandata  a  noi  tardi 
nepoti  la  espressione  di  gratitudine  dei  nostri  antichi  Cumani  verso 
quella  gloriosa  Sicilia,  di  cui  è  vanto  il  collega  da  noi  onorato. 

Napoli. 

Antonio   Sogliano. 


XPI2TIANIKAI   KErXPEAl. 

To— oypacpia  to  v  Ksy^psiTv. 


Asv  vo;xi£,o;j.£v  avay/.aiov  va  ava— T'j<;toysv  ti;  tj  i<>Topu.7j  /.ai  aoyaio- 
Aoyuo)  à£ia  xwv  Kìyypscov  Sia  tov  ypiGTiavi/.òv  jc,g<7|/.ov.  Eìvai  yvtocTOV  òri 
à— ò  toù  Rivivo;  toutou  s^S'/j  è  'AxogtoAoc  Ha^Ao;  xal  à— '  aùrou  [X£Ta 
\\piG/.'ik'krlc  stai  toÌJ  'A/.'jAa  à~ s— Asutìv  sì;  Supiav.  *  'Ev  Ksyypsaì;  l'Spucre 
TTjv  mtó'njv  ot'jTOÙ  év  Ils>.o— ovvvjcw  éjcxtojGwcv  o  [xsya;  ' A-octoao;.  'Ev 
Ksyypsai:  Tjvéypa'-Uv  ó  'A— ottono;  ttjv  —pò;  'Poiyiatou;  é~ ittoA7(v,  vjv  tj  Sià- 
/.ovo;  ttj?  £j«tXvj<jta;  TauT'/j;  <Ì>ot[ivj  ;v.£TSO£psv  sì;  'Pwjxìfjv,  jcaì  —spi  ^5  p'/jT<7; 
év  tv]  é-iTToAvj  Taur/j  ypàocov  ó  IlaùXo;  Xsysi.  «  Zuvt<ro)u.i  Ss  uiAìv  <£oi(3y]v 
ttjv  à$SÀ<py)v  r^xwv  ,  oucav  oiàxovov  tyj;  é/./.A-/j<7ia;  T/j;  év  Ksyypsai;  •  iva 
a'jTrv  Trpo'jbé^'/j'jiVì  év  Kuptw  à^ito;  tcììv  àyitov  /.al  7rapa<rr?JT£  aÙTÌj  év  co  àv 
uixtòv  /p'^'C'/)  "pàyy.aTi.  x.al  yàp  ai'V/j  -posTari;  t:oAA(3v  éysvv^xb] ,  /.al  ai'Tof 
éu.ou.  »  2 

'A—ò  tou  Xiasvo;  tuv  Ksy/pswv  Sia  tcr  na'jAou  si'  -/jyysAiT&rj  to  TrpcTTOV 
Ta  T7J;  yapiTo;  tj  slSio'XoAaTpi;  Kópivfro;,  /.al  oià  t*?,;  Sia/.óvou  ty;  éxjcAY]- 
<7ia;  twv  Kìyyp£<òv  sXafisv  YJ  jcoc{/.oxpaT(op    'Po)[A7j    ttjv    éauTYJ?    énaToV/v. 

Ti    STI    77 ASOV    8-S^O'JLSV  ; 

"I  ìSr,    év    t<5     àoyaioAovi/.<o    ^'jvsSpiw    toj    '  Afrr'vr.Ti    g'jveAO-ovti  ,     TV) 
,       --  190.)  £v  a-oA'jTco;   ysvixai;  ypa»/.aai;  avs/.oivcoaay.sv  Ta  tc-jv  Jvev- 

1  1     A-piA.  '  Hit  1  i 

yoscòv  /.al  STTESeicaasv  tov  totoyoxoi/.ov  yàcTTiv  toutcov  ,  ov  ~xox/Shraz'. 
tt;  ypicTiavi/.v;;  '  ApyaioAoyiJCTJ;  'ETaipsta;  /.al  svtoAvj  tv;;  '  Eaa/jvi/.yj;  ivj[isp- 
v/asco;  éì;£77Óv7J<7Sv  éTiT/;^:  é/.ìì^s  aToaTalsl;  ó  jAVjyjxvtxò;  /..  K.  Aay-poTO'jAo;. 
'E/.ìl  oto'j  oàaots  r^v  y.syaA'/]  •/;  va'JTix.^  x,£v/j<ri;  /.al  ^wvj,  ij.syaAa  Sé 
G-jvì'jcops'JovTO  -ao'jt'/j  Sia  t/;v  àcpvstòv  Kópivfrov  ,  (jvjjAspov  ^co^òg  èfìeixCcov 
/.al  ^ylj^vg  ^oijc^Acdv  J^  t£  r^g  yijg  xai  vtò  T?)y  ■0,aAa^<5av  roù  Xipévog 
óvvTQLMidtcov,  Ò£i/.vtjGi  to  ~ap£Ai>òv  asyaAsiov. 

'Ev    TTj     |7.£A£T7]    7)17 (OV    TaiV/]    77apai)£T0y.£V. 

I).  rsvLxbv  ToxoyQcccpr/.òv  ducyQcc^iia  Ksyypscòv-KopìvOou. 3 
II).  Elòixbv  toTCoyQacpixóv  didyQC([.iua  to~  Aiy.évo;  t<ov  Kìy/^sòjv  aòTa 

Tolv    T£0'4    T7£0l(jC0i>£lGtòv    àp/^aiOT^TCOV. 

1  Hpal.  tO-'  18. 

2  Pwu.  ig    1.  2. 

3<Wè  rotoùro  Aó'/ou  à^iov  vtco  toù  Chundler  d/juoctevO'èi'  xà>  1765. 


72 


FEmQyiog  Aa[ntdxrig. 


PARTE  i. 


rENIKON 

TOnorPA&IKON  AIATPAMMA 

KErXPESIN-KOPIN&OT. 


>:  tavoli  o  ò  \j 


Eixòv  11. 


PARTE   I. 


Xqi6ticcvikccI  Ksy^QBai. 


73 


74 


rswgyLog  Aa\L%àY.r\q. 


parti:  i. 


ITX^v  (ìz  T(òv  TO~oypa<pixcov    toutwv    §iaypoc;x[zàTcov    "rrapa&STOf/.sv  dvo 
ysvtxà;  cp(oToy()cc(pi%à;  àrtótyeis  t&v  Key%QS(ov,  vrp  j/iv  utt'  àptih  1  à::ò  Ttfi 


Elxàv  13. 

E'/jpa;  ::pò;  ròv  )ayiva,  tyjv  Ss  ù~ '  àpvih  2  à~ò  tou  Allevo?  Trpò^T'/jv  E'/jpav. 

r;  »,  •••■• 


Elxàv  14. 

Eì;  tc.  pa-Oot;  ttJc;  ux'  àpi-9-.  2  ebcovo?  ù^oùtoci.  yj  'Ax.poxóptv-9-o?,  uo'  r.v 
/.errai  Y)  TCaXaià  Kópiv&o.;,  Trpò?  v]v  arcò  toù  auj.svo;  toutou  [/.eré^Y]  ó  'A~ó- 
cto>.o;  IlauAo;. 

Tà  à-*to^.oy<j)Tspa  Sé  tùv  u,V7]u.sigìv  ,  àriva  ém  toov  sostTutov  jcoci  toù 
~ki[j.hoc,  twv  Ksyypewv  7rapsTy]pvj<7a{/.sv  xaì  àveupojxev,  elei. 

a)    2?£lpà    TtUQUllUZGìV  olxqflUTaV,  OJV  Tà  StATTpOG&ev  /.OCTaJCAU^OVTai  uttÒ 


PARTE   I. 


XQiGTiaviKul  KeyxQeccL 


75 


f/j;  tìaXaTcr/];.  *  Ka&'  ^[/.à;  Taura  vjaav  àTrofrvjxat.    xal    oi/.r]aaTa  éfjwróptóv 
xal  ~3tvoo/£Ìa,  si;  à  ~pò  r   jxsrà    tov    /.aTot— Xouv  àvsasvov    oi    TroX'j—Xrj&sì; 

Tr]v  9-sctv  toc'jttjv  wapiarvjaiv  yj  C~'  àotft.  3  ebtoìv. 

,3)  JtaAAeuxa  iiaQUccQOijjrjcpod'strjiiccTa  èdcccpovg,  o~sp  ìrspusiv  év  svi  twv 
rapaXia^càv  ot/.oòoa^y.aTtov  toutwv  àvsupojASv,  éipsro;  Sì  ttj  10  'Ioimou  (1905) 
a  vecxa^a(/.ev  xaì  éj'.aftapiaaasv. 

Tà  ^Tj^pad-eaija&Ta  'taùra  jceivrat,  Svfra  év  ttj  ut:'  àpiih  3  sbecvi  eupicxsxai 
ó  {/.evo;  x.a{)7jy.svo;  àvD-pto—o;,  6  ©sptov  txoct: av/jv. 

'E*    TCJÌJV    (j/in®l$<i)V    TOUTtOV    •/.3CTìi>£'Ja'V.ÌV    Tivà:    év     TW    Ypt<TTtaVUC<3     Mo'j- 

ffstw  17?  àpift.  5410. 


Encàr  15. 


y)  Xqxcùos  èXXrjvixbg  itvQyos (icwrsputw;  ;;//■/..  4,4.),  TrAa-r.  3  xai  -o/o; 

Toijrpu   1,80)  ,    o;  *vx;j.o£óà<o;  syjjy^ijxeys  -pò;   opo-jpàv  /.al  àa^ateutv  toò 
Xijxsvo?.  'Et:'    ocùto~  (SpaSuTSpov  TrpocsTS^v)   9-oXto-r/j  GTsyv]  (eì*.  3).  2 

S)  rcl^vc  t>jrò  r>>   frcUatftfav  oìxodo/* r^drcov  é;  àp/auov  cyxoX&iov 


1  Xarà  rag  yewXoyiìiàg  itccQccxrtQrJ6zig  tov  tfoqpoù  yscoXóyov  xaì  «pwjjv  ijroreyoS  Ari 
xwv  o/xovofux&v  Tjjs  'EUados  x.  #.  Aey??]  4  bakaeou  aitò  2.000  &ài>  dvefa  ;te(>ì  rà 
tQta    {tèrga  {Extrait  des  comptes  rendw  de»  séances  de  V Académie  du  Ir  Aout  1904). 

2  'Ano  xf\g  6xéyr,g  xovxov  ècparoyQacprjcunsv  xì\v  vn  ùqi&.  2  unotyiv. 


76 


remQyiog  Aa]inà%r\q. 


PARTE   i» 


ouviGTocf/ivtov  ,  àriva  év  ttj  utc'  àpiik  3  sixóvt  (3as7to[7.£v  x.sty.eva  éyyuTocTa. 
to~  saXyjvixoij  xupyou. 

s.)  appaia  sXXrjvixà  XQccóJieòa  TrapaAia;  ^  jaojaou  &)<7«uto>?  rà  vuv 
u~ ò    rij?  d-aXacrtn);  *0CT<X5t/\.u£ó|/.£va. 

llocràjci;  àpà  ys  èrcì  tvj;  xapaAia;  tocutvjs  Sèv  TCSpiSTC aV/jiTav  tj  c1>ol[ìV], 
Téprio?  6  ypaosù;  tou  'AtcogtÓXou  llauXou,  RpicTCo?  ,  Paio?  xaì  STécpavo?, 
"EpaffTO?  ó  oì,x.ovó|7.o?  Kopivìlou  xai  KoóapTo;  6  àoeXcpócj  ; 

^YEQBÙTCìa  %Qi6tiaviKfis  Baóiliìcfig  1V-V alcòvog,  r$  tò  ispòv  [Ì7);ao.  xal 
fotavòv  [Aspo;  tou  vaou  xaTa>cXu(,STai    tócauTco;    otto  ttj?   OaXàcrcr/];  (sìjc.  4). 

"AjAa  tyj  eìaooo)  tou  vaou  toutou  àvsupOfASv    xal  j^pwmavwcoùcj  T<x<pou;. 

'H  Dici;,  é<p'  vjcj  év  T'/j  eùcóvi  ó^ourai  pafìoo?  TCocpÉcrojcn  tyjv  àpwrrspàv 
ytoviav  T(3v  frspXAiwv  ttj?  '  E)ocXy]cyfa<;. 


Eixàv  16. 


'H[/.sT;  <ppovou[/.sv  oti  7^  àpyaia  yptcmavoa)  Koivotvj;  twv  Ksy/pecov 
àvvjyetps  tov  vaòv  toutov,  gtvjpi^ojasv'/]  stcì  auvsyou?  xapaoóffsw;  oti  stc !  ttjcj 
■ì)ia£(o;  rauTT]?  £— s^àc-i)-/]  v]  àxspi[3ot(7'&7]  to  — p<3tov  6  'AttoctoXo;  IlauXo;. 

'  Orcicritev  to~  ispou  ^TjfxaTO?  écaxoXoutìòT  ?raps)CTSivo[/.sv/]  [/.axpà  cstpà 
oUodO(/.7j[AàTtóv,  àriva  cócauTtó;  jcaTa>cXu£ovTat  orco  ttj?  tì-aXóffcnji;. 

()  'Etcì  tou  xutìu-ivo;  tou  Xiuivo;,  Sv  &ià  Xs^ou  XsTCTO[/.sp<3?  éc-ouSà- 
or<x[/.sv,  TCapsTrjpyjcafAEv  èddcprj  èótQCo^éva  dia  %XCvd,(avì  TCowciXa?  oijcoSo{Aa?, 
Totcpou;  )caì  TCowttXa  àvTix.ei[A£va  tc/iXivwv  imo);  auvTpiu.p.àTCi)V. 

-/]  )  Où  ;Aax.pàv  Tvj?  rapaXta;  ,  stcÌ  r?^  tìécEco? ,  vjti?  <xyjiASto~Tat  év  tu! 
£iòix(ò  TOTCoypacpi/,c3  •  maypà[/.[/.aTi ,  sSpvjTai  ds^a^isv^  ("//)/..  2,40  ,  t:X.  2, 
Patì.   1,50)  aQ^aicov  iQiGxiavmcòv  %qóvgìv  (sìx.  5)  év  yi  E'wtovi^STai  crraupòcj 


PARTE   I. 


XqióticcvixccÌ  KsyxQECtL 


77 


(oó    [AGAl?    [AtXpÓv    TS|7.0C/tOV    ÒlS<T0>tì7]     TO'J    /.7TO)     (X'JTOU     [A£CO'JC)     TCSpl    OV    77 Spt- 

77X£o'jtlv  iy i>uc,  'j77oaiav/-'7/.ovTì;  ^{/.Tv  to'j;  Àóyou;  toù  ieporj  A.ùyo'j<XTtvo'j 
«  «ed  wos  pisciculi  secundum  1X0 YN  nostrum  Tesum  Chrixtum  in  aqua 
nasci mur.  »  '  Oi  ì/Dv;  oOto',  £<pspov  ypo>j/.aToc,  oiv  oi£Ttói)-/j<jav  DAym-zx  'tyv/j. 
Kt.t'  àp/à?  'j77(i)7wTS'j<7ajJ!.sv  [/.tJttw?  S'jpiTx.óy.ììlx  rrpò  ypwxiavucoij  (3a<7Ti(;T7|- 
piou  ■  £77i|AeXÉ(JTepov  oy.to;  tocut/jv  £^£TacravTSc ,  STrsicJhjiASv  ori  TcpóxsiTai  77Spl 
os^aj/.gvri5  àpyaiou  ypiGTiavoù  ,  otti?  t/(v  sv  toj  Jcn^aTi  t.'jto'j  rìscay.òv^v 
Y.y.-z/Jjn'j.rpz  otà  twv  jrpwmavtxóiv  to'jTujv  cj^ÓAtov.  vHto  àpà  ys  £v  ?w  tottco 
xouTtp  7]  jcaroi/tia  <t>oifÌ7j;  rvj;  cW./.óvo'j  -^   TspxiO'j  toù  ypayavTo;  ttjv  7700; 

'Ptù'AOCtO'j;    cTT'.TTOArV  ;   2 


Efocbv  17. 
Oi  ì/iKk  tyjv  (jiyr.v  t/.óvr.v    a'jTwv    -oo'ìxaao'jG!.v  ,   o'jo£|Aia;    £77iypacp7j; 

£/C£t    U7rap/0'J<JVjC. 

})■)  77£pi   tov  Xi'xÉva   x.a.1  sv   toT;  77£sic   scve'joo'aev   Òtto  tt.v  vr(v    77£pl   T7.; 
òr/.a  |At/.pà;  xcctccxónfiag  ~£pi£yo'j<7a;  Trspl  to'j;  6-10  raoo'j;. 

hi;  [Aiav   toutcov   ttv  too;   T7.   AO'JTpà    ttj;  'Kasvvj;  z,£ia£V7jv ,   o'j:   317707 

Tj'AÌV,    SUpÉO-7]    77A3CC    |J  ÌTà    GTOC'jpO'J  ,   VjTi;  V~jV   E'j'p^TXl  ÌV   T(ò   777.07.   TTjV    KópiVi)0V 
/Wpife)    MsAlGCTtOV    Jtaì    7}V    77SOTlD-£y,£>bc    VX    <7770'JOIX<7<0|A£V. 

i)  'Y^r.Aa  £77Ì  TO'J  syvù;  opou;    sCpr^ai    óztjlaiov  y.akovuevov  «  tov 


1  De  Civit.   Dei  I.   18. 

2  :Pcou,  15.   21'. 


78  remgyiog  Acc(iitdxr}g.  paktk  i. 

j4.%o6x6Xov  JJavlov  ».  Ilspl  tx  ;xépv]  toutou  <puovT<xi  r^spa  «pura  xoivto; 
«  aapva;./.— ma  »  jcal  «  yoi/Xtà  »  x.aXou[X£va.  Taura  oi  éscsT  ywptxoì  àvacpspouffi 
£/.  — apaftócsco;  ori  scttsiosv  ó  ' Attotto'Xo;  Flauto;. 

"Ori  ó  'A— gottoso;  Uxvko$  sv  KsyypsaT;  y]  xKkxyo\>  Sèv  Sarcstps  «pura 
TOiaura,  eT[/.s9-a  (3s(3aioi.  "Oti  oaw?  sffwetpe  to  xpòiTov  et;  xà  aépT]  TaìiTa  tov 
<7T:ópov  toÌ)  Eùayys'Xio'j  écrviv  u7rsp(3s(3aiot. 

Àaj/.7Cpà  la'ix.yj  —  apaooais  oti  ó  'A— ócrro'Xo;  Flauto;  t^to  ó  TTropsù;  toù 
véou  oioày  [/.aro?  tou  ECayysXiou  sì;  rà  jxépvj  tx~jtx.  'O  Xaò;  Sèv  évvosì  ttjv 
■qfrucqv  tou  EùavysXiou  t?j;  yàprro;  cvopxv.  Taór/jv  j/,STS^>spev  si;  T7jv  cruvxe- 
3cpi«/.{/,sv7)v  a— opàv  Ttov  rjiisQosv  cpvt&v.  Mtjxo);  vj  òioacxaXia  tou  EuavyeXiou 
Ssv  (Ó^okÓOv]  77pò;  T7:ópov  ;   ' 

ta')  7rap£T7]p7]«rajj.sv  u.9cp|Aapivou;  xiova;  wò  ttjv  vsóof/.m'ov  oi/„iav  'Itoàvvou 
Map>cs7.Xou  2  uTrap/ovxa; ,  oì'tivs;  ,  co;  [j.oi  àvéapepov  ,  [AST/jvé^^aav  sxei  sx, 
tv];  xapà  tt^v  x>x\xggxv  (3a<iiXtx,VK. 


1  MaT#.  ty'.  4  x.  é£. 

2  Et?  rò  vnégd'VQOv  xìjg  oix'iug  xoixov  è-nl  fiapjiapov    (0,27x0,27)  àvsyvoo{isv 
xì\v  ào%odccv  èTtiygaq)ì]v  xccvxt}v. 

&AABION  TPGJlAON 
$(OKAEIC  AJEA&G) 
KAI  API&TJI  BOTKOAA 
MNEIAC  XAPIN 
HPCQC  XPHCTE 
XAIPE 
Avxr\  idr^io6isv9,ri  èv  xà>  C.   I.  G.  xov    M.  Frnenkel  xóp.  I.   6sX.  34.   apiah  207. 
'Avsyvw&ri  Sé  &AABIOI  TPcolAOI  àvxl  &AABION  TPniAON. 
Kal  ini  èxégug  olxiccg  xov  %<oolov  Ttaoà  xr\v  &vqccv 
A[ovKiog]  IOTAIOC  NEIKO 
CTPATOC  CAPJIANOC 
IIAIC  IIAAAICTHC  ACI 
ONEIKHC  ETG3N  IH 
Avxrj  èdrnio6tsv&r)  èv  xà  C.  I.  G.  xov  M.  Fraenkel  TÓft.  I.  6sX.  34.  &Qid:  206. 
Ov  (lccxqÙv  òè  xov  vvv  %<ùq'iov  x&v  Ksy%QEwv  Evor\xcci  &q%cùov  Xccxo[ieìov,  ècp  ov 
àvèyvayav 

nPAITCOPIA  ;  NOI 

rNAiocno 

MIIHIOC 

ZHNACA 

rOPANO 

MHCACJ 

IOCJION 

CO  JET;  I;  T 
Elg  xov  é'xEQOv  dh  x&v  (5qc£%iÓv(ov  xov  Xi^isvog  xòv  àQi6xeQà  xà  Ù6eQ%o[ièv(p 
tvQO\itv  xà  la^iaxixà  Iovxqcì  xf\g  '  EXévr\g,  tieqÌ  <bv  iSLav  [lovoygucpittv  è£eitóvr}Gsv  ò 
6ocpog  xov  ^fisxégov  II(xv£7ti6xri[iiov  y.a&r\yr\xrig  x.  Xgrj6xo(i<ivog  (Xflimir}  àvdXvóig  xfjg 
/a^arixjjs  JtTjyr/s  xov  %aoà  xàg  KsyxQsàg  xov  Koqlv&ov  Xovxqov  xì)g  '  EXévr^g ,  V7tq 
A.  XQT\cxoy,uvQv.  1902.  A&fjvai), 


PARTE    I. 


Xqi6xiccviy.uI  KsyyQsaL 


79 


Eixwv  18. 
ù  toitco    /topico    twv  '  Ee;aL/,iXitov    crraupG;    outo;  ,ris[iaiw; 


i(3)  Eì;  tc,  'Trsp^-upov  to~  sv  tc7  topav  à-s/ovTi  /copico  rcòv  'EgajAiXiwv 
vaou  to~  àyiou  Ayjir/jTpiou  àveópoy-sv 
ótavQov  [JLSxà  toù  ispoù  jy.ovoYpay-^.ocTO? 
A  >wci  CD  Trfi  'Airo5taXui}/so><;  twv  -pwTtov 
£Ìpyjvixwv  /póvtov  TY|?  'ExxXyjcria;,  o; 
u~ o[/.i[/.vrir;z.si  tj^ìv  tov  Sta  ^.ovoYpay.- 
f/aTtov  WGoaTto;  /.al  tou  A  *<*<■  UJ  ~?p 
'AttoxocXu^sw;  x£/.ocr;7.7]yivov  GTaupòv  tov 
x.ò/apayyivov  év  é-iYpaovj  (N.°  104)  é~ì 
Tìópou  Xifrou  sòpierxof/ivv]  év  xw  é&vix,to 
Mouffsiw  to~  IIaXspfjM)u  ;x£Tà  tou  òvo- 
[xocto;  XPTCIC. 

'O  £ 
jASTSvrj/ito]  £VT(Xufta  site  ex.  twv  Key^pewv,  s'ite  ex.  twv  épsi— itov  twv  àp/aiwv 

éxxX'/JCTlWV    T7J;    KopiV#OU. 

"O— £p  <ìz  xal  (3a<?tXo«jv  aiYATjv  zìe  tov  àXXto;  iTTopixwTaTOv  toùtov 
Taceva  twv  Key^pstov  TCpocrot&ocriv,  écmv  gti  38  sttj  -pò  tv;;  àXwasto;,  r,TOi 
tt   [/.svocXt]  llapa'jx.ì'j'/j  tou    1415    [/.apTiou  29,  ó   XijxTnv   outo:  s$sc;<xto  tqv 

STulCJXS^lV    TOU    AÙTOXpÒCTOpO?    TOU    Bu^OCVTlOU  MoCVOUTjX  TOU  1  laXaioXÓyOU,  oc» ti; 

Tvj  20  àrcpiAiou  rjpcaro  àvaxaS-aipstv  jcaì  àvoutoSotistv  to  'E^atuXiov  ,  àvx- 
crT^Ta;  £-'  ocutoS  153  rcópyou;,  ots  sì;  ?à  uipT]  tocùtoc  àvsups-fb]  /.al  •/)  £ti- 
ypaor  ouTT)"  «  ^rag.  £x.  epeotog.  freoq.  ccX^&rjvog.  ex.  &eov.  aXt]&i]VOV.  (pvlcc^iq. 
tov.  ccvtoxqcctoqcc.  Iovótiviccvov.  xcci.  navrag.  tovg.  sv,  Elludi.  owovvxag. 
tovc.  sv.  ©EG).  t,covtag.  l 

'H  £—  lypacpvj  auTT]  yòyX'j^y.svvj  s~l  XiDou  Xsuxou  |j.ap»/.apou  (jatjx..  yXX. 
[X£Tp.  1.  tcX.  0,62)  supvjTat  cy^aspov  sv  t9j  sieróso)  t'7;  A'/^.ap/ix;  KopivìVou, 
xai  r(v  f,i/.si;  àvsyvti)|./.sv  outw;. 

+  <I>G0C  GK  <J>G0TOC  0GOC  A  ATT(-)I\OC 

eiv  eeor  aahoinoy 

<I>VAA±II  TON  ATTOKPATOPA 
IOYCTINIANON  RAI  TON 
niCTON  ATTOT  AOYAON 
BIRTCOPINON  AMA  TOTC 
OIROrOGIN  6N  GAAAI 
TOTC  K[ATA]  OGGON 
ZCONTAC     + 


1  IIsqI  tfjg  àcpl^Ecog  ravrrig  tov  avroy.QUTonog  MavovrjX  roD  TTcdaioXóyov  ,  rfjs 
àvevQÌGscog  r&v  7Cvgycov  xat  rìjg  svQS6sag  tfjg  èmyQacpfjg  tccvttìs  idi  Xqovixov  Ilaa^à- 
liov,  TtatQol.  edit.  Migne,  tów.  92  Ducangii  nome  osi.  170  xcd  Xqovixov  TIcìOxccI.iov 
edit.  Bonnae  róa.  II.  notae  Gel.  254  xul  Jovxu  edit.  Bouuae  róu.  21  crei.  102  xal  év 


80  remgyios  Aa[iitàitrig.  parte  i. 

Kal  tocutoc  jasv  outo)?. 

"Oti  Ss  [/iya;  y^iaxcuvvAOc,  v.ó<j[J.oc,  óxò  ttjv  y9jv  t<3v  Ksyypswv  uttvwttsi 

7rSpt    TO'JTOV    ObSÓÀtO?    à|./..Cpl(3àAAO|/.SV. 

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Tofg  G%oXioig  rov  avrov  ró[iov  6sX.  575.  Tjjv  àvcorégco  èitiyQacpfjv  «  qpràs  &t  cparòg...  » 
/<?è  xal  C.I.G.  tÓ/ì.  IV.  n.  8640.  £v#a  àvayivmGKsrcu  TOTC  EN  GECO  ZcoNTAC. 
llagd  r.  $pavr£jj  i)  èmyQatpr]  avxr\  Xsysi  «  xai  nàvtag  tovg  èv  ry  '  EHadi  oltiovvxag, 
tovg  ex  &eov  gwvrccg  »  («mì.  Bonnae  (TsL  107).  ' E8r\\JL06i£v\)'r\  8h  xccì  Monceaux,  G.a- 
zette  iirilié.»l.  9.  1884.  277.  Zxiàg,  'Eqprjftep.  aQ%aioX.  1893.  osX.  123.  aeX.  13.  Ovrto 
Xriysi  xa?  èxiyQacprj  tig  EVQi6y.0[ièvì]  èv  tà  èv  Verona  èitiyQacpMà)  Mov6sicp,  ijtig  ccq- 
%ztai  «  f  '  Ay[ia  Magia  ©soróxs...  »  xal  Xrjyei  «  EN  KOPIN0G3  K@EC3NiZcoNTAC  f  • 

'  Ev  k&rjvaig. 


PARTENOPE  5ICULA. 


In  due  luoghi  assai  distanti,  dice  Strabene1,  vengono  collocate 
le  Sirene:  taluni  le  mettono  al  capo  Pelerò,  altri  sul  promontorio  Sor- 
rentino, tra  i  golfi  di  Napoli  e  di  Posidonia.  Ma  noi,  pur  riconoscendo 
la  giustezza  dell'informazione  data  dall'antico  geografo,  dobbiamo  ri- 
tenere, clie  la  localizzazione  vera  e  propria  di  questo  mito  sia  stata 
fatta  unicamente  nella  seconda  località  da  lui  indicata.  Poiché,  come 
fu  notato  già  dallo  pseudo  Aristotile2,  e  ripetuto  da  Strabone,  le 
Sirene  avevano  un  tempio  sul  declivio  Sorrentino,  e  si  chiamavano  Si- 
renuse  le  tre  vicine  isolette  dalla  parte  del  golfo  di  Posidonia;  oltre 
a  ciò  le  origini  ed  una  parte  della  vita  di  Napoli  si  svolsero  intorno 
al  nome  di  una  Sirena.  Per  modo  che  la  Campania  si  collega  alle 
donne-uccelli  per  il  culto,  per  un  nome  geografico  e  per  un  sostrato 
storico,  mentre  la  Sicilia  ha  per  se  niente  altro  che  una  interpreta- 
zione del  libro  XII  dell'Odissea. 

Le  memorie  notevolissime  del  periodo  miceneo  consegnate  nel  dia- 
letto ionico,  ossia  nell'epos  omerico,  danno  qualche  fondamento  al- 
l'opinione, che  include  gli  doni  tra  i  fattori  del  materiale  miceneo. 
Se  però  questa  partecipazione  è  semplicemente  probabile,  mi  pare  as- 
solutamente certo  che  essi,  navigatori  arditissimi,  siano  stati  fra  i 
principali  diffusori  di  (niella  produzione,  portandola  su  le  coste  più 
lontane.  Erano  gli  Joni  anche  immaginosi  e  loquaci;  quindi  parecchie 
delle  favole,  che  si  sono  credute  un  parto  della  fantasia  de'  poeti,  si 
possono  attribuire  all'intiera  stirpe.  Vale  a  dire  che,  tornando  quei 
viaggiatori  dalle  lontane  loro  peregrinazioni,  si  compiacevano  di  ma- 
gnificare le  proprie  avventure,  vantando  gli  affanni  durati  per  scam- 
pare da  mostri  orrendi  e  da  altri  inventati  pericoli.  Queste  loro  fole 
furono  materia  di  canti  clic,  dapprima  slegati,  trovarono  posto  più 
tardi  nel  racconto  delle  avventure  di   Odisseo. 

Ma  uè  i  canti  nella  loro  forma  sciolta,  uè  l'epos,  in  cui  furono 


1  Strab.  I,  2,  §  12. 

2  Aristot.  De  mirab.  ause.  103.  —  E.  Pais  (in  Eendic.  Accad.  Arch.  Napoli,  1905, 
pg.  184)  indica  nella    regione  detta  Fontanella  il  tempio  Sorrentino  delle  Sirene. 

6 


82  G.    DE    PETRA.  PARTE    I. 

innestati,  dettero  alle  Sirene,  a  Scilla,  a  Cariddi,  alla  Thrinakia  una 
chiara  determinazione  geografica  i  ;  la  quale  neppure  venne  assegnata 
nell'Odissea  da  noi  conosciuta.  Sol  quando  con  un  errore  fondamen- 
tale di  grammatica  2  si  disse,  che  &QLvccxCrj  ì  aleva  quanto  TQivcatQCa, 
allora  soltanto  venne  fuori  un  elemento  geografico,  e  la  contesa  fra 
l'interpretazione  orientale  e  l'occidentale  fu  decisa  a  favore  di  questa 
ultima.  Giacche  nella  creazione  di  quelle  favole  avendo  avuta  la  loro 
parte  così  gli  Egei  dell'oriente,  che  solcavano  il  Ponto  Eussino,  come 
quelli  dell'occidente,  che  avevano  perlustrato  il  Mediterraneo,  e  vo- 
lendo gli  vini  e  gli  altri  tirare  secondo  il  proprio  desiderio  l'interpre- 
tazione del  divino  poema,  gli  Joni  d'oriente  facevano  viaggiare  l'eroe 
nel  mar  Nero,  quelli  d'occidente,  o  i  Calcidesi,  nel  Mediterraneo  3. 
Ma  pel  nesso  di  successione,  che  era  stato  dato,  nella  definitiva  re- 
dazione del  poema,  alle  avventure  di  Odisseo,  buona  parte  di  esse,  e 
specialmente  le  Sirene  venivano,  con  la  introduzione  della  tqivccxqCcc, 
a  raggrupparsi  intorno  alla  Sicilia  o,  come  dice  il  mitografo  Igino,  in 
luogo  qui  est  Inter  Siciliam  et  Italiam  4. 

Questa  geografia  omerica  fu  adottata  dai  poeti  greci  susseguenti: 
le  Argonautiche  Orfiche  5  dopo  Lilibeo  e  l'Etna  ricordano  le  Sirene; 
Licofrone  6  dopo  li  scogli  di  Scilla  e  Cariddi  pone  quelli  dove  stavano 
le  fanciulle-uccelli;  ed  Apollonio  Eodio  7  cominciando  dalle  Sirene  passa 
a  Scilla  e  Cariddi.  Ciò  nonpertanto,  un'altra  sede  fu  data,  e  con  più 
largo  assentimento,  alle  Sirene. 

I  Tafii,  gente  vaga  di  correre  i  mari  pirateggiando  8,  stavano  di 
casa  a  nord  d'Itaca,  nelle  isolette  poste  fra  Leuca  e  l'Acarnania.  Su- 
perati i  pericoli  della  navigazione  attraverso  lo  stretto  di  Messina, 
esplorarono  la  ricchezza  mineraria  della  Sila,  e  stabilirono  a  Temesa 
(nel  golfo  di  S.  Eufemia)  una  fattoria,  per  estrarre,  con  l'aiuto  degli 
indigeni,  il  rame  dai  monti.  Del  metallo  così  ricavato  dalla  Calabria 


1  «  Seirenen,  Skylla  und  Charybdis,  Thrinakia  tragen  in  sich  keinen  fiir  den 
«  redactor  charakteristischen  localen  zrjg».  Wilamowitz-Mollendorff,  Homcrische 
Unteisuchungen,  Berlin,  1884,  pg.   165. 

2  Wilamowitz-Mollerjdorff,  Op.   cit.,   pg.  170. 

3  «  Was  die  Jonier,  die  der  redactor  repriisentirt,  taten,  indem  sie  den  Orìys- 
«  seus  im  Pontos  fahren  liessen,  den  ihre  schiffe  durchkreuzteu,  das  taten  die 
«  Chalkidier  im  westeu».  Wilamowitz-Mollendorff,  Op.  cit.   pg.   169. 

4  Hygin.  Fabul.  141. 

5  Orph.  Argonaut.  vs.   1250-85. 

6  Lycophr.  Alexandr.  vs.  649-53. 

7  Apollon.  Rhod.  Argonaut.  IV,  vs.  891-923. 

8  Odyts.  I,  vs.  105,  184,  417;  XV,  427;  XVI,  426, 


PARTENOPE    SICULA.  83 


in  tempo  assai  remoto,  e  che  serviva  per  le  armi  di  difesa,  vi  è  il 
ricordo  non  soltanto  in  Omero  *,  ma  nella  moneta,  che  i  Greci  dei 
tempi  storici,  colonizzatori  di  Temesa,  coniarono  imprimendovi,  come 
emblema  della  città,  un  elmo  e  due  schinieri  2.  Diciamo  che  i  Tafii 
non  si  arrestarono  a  Temesa,  ma  continuando  a  veleggiare  pel  mar 
Tirreno  arrivarono  alle  coste  dell'Ausonia;  perchè  mia  tradizione,  ac- 
colta da  Virgilio  e  da  Tacito  ,  pone  a  Capri  i  Teleboi,  e  questi  eran 
tutt'uno  co'  Tafii  3.  Stando  in  quell'isola  si  persuasero,  che  la  dimora 
delle  Sirene  fosse  stata  sull'opposta  sponda  Sorrentina;  forse  perchè 
il  sorriso  di  quel  cielo  e  di  quelle  spiaggie  si  accordava  con  la  malia 
del  loro  canto;  forse  perchè  il  mare  sempre  mosso  alle  bocche  di  Capri 
prenunziava  il  pericolo  che  si  correva  nell'  indugiarsi  ad  ascoltarle; 
certo  vi  era  una  perfetta  rispondenza  tra  la  natura  del  luogo  ed  il 
carattere  delle  Sirene  allettatoci,  insidiose,  affascinanti. 

Che  i  Teleboi,  o  Tafii  di  Capri,  siano  stati  essi  a  collocare  le 
Sirene  sul  continente  opposto  a  quell'isola,  io  l'argomento  dal  nome 
14%Elotdeg,  AcJwlo'ides,  Acheloiades,  dato  loro  dai  poeti  greci  e  latini 4. 
L' Acheloo,  il  maggior  fiume  della  Grecia,  e  venerato  dai  tempi  più 
antichi,  si  scarica  nel  mare  quasi  dirimpetto  alle  isole  Teleboidi;  esso, 
perciò,  ha  con  queste  un  rapporto  evidente  ,  e  i  Teleboi,  colonizzatori 
di  Capri,  per  rannodare  alla  madre  patria  il  loro  nuovo  stabilimento, 
dissero  che  le  Sirene  eran  figlie  dell' Acheloo  5. 

Xon  presumo  di  ricostruire  tutti  i  passaggi,  per  cui  la  fantasia 
degli  antichi  arrivava  a  spiegarsi  le  Sirene  generate  dall'Acheloo  sul 
mar  Jonio  e  aspettanti  sul  mar  Tirreno  la  nave  di  Odisseo.  Certo  è 
che  la  favola  fu  portata  nell'Ausonia  prima  che  si  desse  a  d-QivayJìj 
la  interpretazione  di  Uizeluc,  perchè  altrimenti  le  donne-uccelli  non  sa- 
rebbero state  localizzate  sul  promontorio    Sorrentino.   Ed  è  certo  al- 


1  Odyss.  I,   vs.  184. 

2  Garrucci,  Monete  dell'Italia  antica,   1885,  pg.   167,  tv.  ex  vi,   27. 

3  Virg.   Aen.   VII,  733-5,  Tac.   Ann.  IV.  67:  Plin.    Eist.  Xat.  IV,  12,  53. 

4  Apollon.  Rhod.  Argon.  IV,  893;  Ovid.  Metani.  XIV,  552;  Sii.  Ital.  XII,  44; 
Cianci.  Rapt.   Pros.   Ili,   254. 

5  Davasi  come  madre  delle  Sirene  una  Musa  (Apollon.  Rhod.  IV,  895-896; 
Eustath.  ad  Odys.  817,31;  Apollod.  Bibl.  1,  3,  4;  Hygin.  Fai.  125.  141  Serv.  ad 
Georg.  I,  8},  perchè  P Acheloo  nasce  sul  Pindo,  che  era  una  sede  delle  Muse.  Però 
questa  conseguenza  derivata  dalla  paternità  dell'Acheloo,  contraddice  al  carattere 
marino,  che  le  Sirene  hanno  in  Omero.  Se  avessimo  notizia  di  tutte  le  leggende 
formatesi  intorno  ad  Acheloo  ed  alle  Sirene  ,  probabilmente  si  troverebbe  qual- 
cuna, che    del    fiume    considerava    non  la  sorgente,  ma  la  foce. 


84  a.  de  petra. 


tresì,  elio  la  conclusione  data  al  mito  con  la  catastrofe  delle  Sirene  l, 
fu  svolta  ne'  suoi  particolari  con  perfetta  rispondenza  alla  dimora  au- 
sonia di  quelle  donne  favolose;  in  quanto  che  una  di  esse,  Partenope, 
andò  a  morire  nel  golfo  di  Napoli,  la  seconda,  Leucosia,  nel  golfo  di 
Posidonia,  e  la  terza,  Ligeia,  presso  Terina  2. 

Da  ultimo  una  leggenda  ricordata  spesso  dai  poeti  (che  però  non 
sono  i  più  antichi)  mette  le  Sirene  tra  le  ninfe  che  accompagnavano 
Proserpina,  nel  giorno  in  cui  fu  rapita  da  Plutone.  L'  inno  omerico 
non  indica  chiaramente  dove  successe  il  ratto  famoso;  ma  fra  i  tanti 
luoghi  della  Grecia  ,  dell'Asia ,  dell'  Italia,  che  si  contendevano  quel 
vanto,  nessuno  raggiunse  la  celebrità  della  Sicilia,  dove  aspiravano 
ad  aver  veduto  Proserpina  quum  legeret  vernos  flores  3  un  luogo  presso 
Siracusa,  un  altro  vicino  all'Etna,  e  specialmente  la  città  di  Enna. 
Per  modo  che  è  probabile  che  Claudiano  esprimesse  un'opinione  ge- 
neralmente ricevutai  ne'  tempi  più  tardi  quando  scriveva,  che  Cerere 
commendat  Siculis  furtim  sua  gaudio,  terris  4.  Così  le  Sirene  diven- 
tano siciliane  ,  non  nel  senso  di  quelle  che  abitavano,  secondo  l'in- 
terpretazione data  all'Odissea,  un'isola  posta  fra  la  Sicilia  e  l'Italia, 
ma  siciliane  nel  vero  e  stretto  senso  della  parola.  In  ciò  sta  una 
prima  differenza  tra  le  Sirene  omeriche  e  le  seguaci  di  Proserpina, 
in  quanto  quelle  vivono  in  riva  al  mare,  e  queste  sono  terrestri.  Una 
seconda  differenza  scaturisce  dal  contenuto  morale  ,  le  une  essendo 
fìnte  e  ingannatrici,  le  altre  indubitatamente  buone,  perchè  compagne 
della  vergine  Proserpina. 


1  Era  destino  delle  Sirene  morire  quando  un  uomo  avesse  saputo  resistere 
alla  malia  del  loro  canto;  e  la  credenza  generale  era  che  Odisseo  portasse  il  fato 
delle  Sirene  (Lycophr.  vs.  712  ;  Eustath.  ad  Odys.  1710  ,  34  ,  in  Dionys.  Perieg. 
cp.  358;  Hygin.  Fai.  125).  Le  Argonautiche  Orfiche  (vs.  1282-7)  collegano  la  morte 
delle  Sirene  al  passaggio  degli  Argonauti;  ma  quest'opinione  può  considerarsi  come 
isolata;  perchè  nelle  altre  Argonautiche,  quelle  di  Apollonio  Rodio,  tale  incontro 
è  riferito  in  modo  assai  diverso.  Le  Sirene,  cioè,  che  nel  poema  precedente  gettano 
le  tibie  e  la  lira  dopo  aver  udito  il  canto  di  Orfeo,  e  si  precipitano  in  mare, 
dove  sono  trasformate  in  scogli,  non  possono,  secondo  la  narrazione  di  Apollonio, 
farsi  udire  dagli  eroi,  perchè  Orfeo  soffoca  la  voce  loro  col  suo  canto,  e  così  il 
loro  destino  non  si  compì  allora.  Ma  Odisseo  che  le  udì,  e  nondimeno  rimase  at- 
taccato all'albero  della  sua  nare,  fu  causa  della  loro  morte. 

2  Aristot.  1.  cit.  ;  Lycophr.  vs.  717-29  ;  Eustath.  in  Dionys,  Perieg.  cp.  358; 
Strab.  VI,  1,  §  1;  1,  2,  13,  18;  V,  4,  7;  Nei  sarcofagi  (Robert,  Sarkophag-Reliefs, 
voi.  II,  1890,  tv.  52)  le  Sirene  son  sempre  tre,  e  come  dice  Servio  (ad  Aen.  V,  864): 
hàrum  una  voce,  altera  tibiis,  alia  lyra  canebal. 

3  Ovid.  Mei.  V.  554. 

4  Claudian.,  Rapt.  Proserp.  I,  139, 


PARTENOPE   SICULA.  85 


Mitografi  e  poeti  crearono  a  loro  arbitrio  altre  differenze.  Taluno  i 
le  rappresentò  come  fanciulle  non  dissimili  dalle  altre,  e  che  diven- 
nero alate  per  volontà  di  Cerere,  la  quale  in  tal  modo  le  punì  per 
aver  fatto  mala  guardia,  e  per  l'aiuto  non  dato  a  Proserpina.  In  Clau- 
diano  2  sono  alate  fin  dal  principio,  ma  divengono  cattive  pe'  rimpro- 
veri di  Cerere,  e  con  rapido  volo  fuggono  verso  il  capo  Peloro,  dove 
col  canto  e  la  lira  attirano  i  miseri  naviganti,  per  farli  perire.  Ovidio  3 
le  ritrae  come  buone  fanciulle  e  senz'ali,  prima  e  dopo  il  ratto  di  Pro- 
serpina, e  sol  dopo  aver  girato  inutilmente  su  tutta  la  terra  in  cerca 
della  diva,  impetrarono  e  ottennero  le  ali  dagli  dei,  per  trovarla  su 
i  mari. 

La  bontà  data  alle  Sirene  doveva  riuscire  assai  gradita  ai  Na- 
poletani, i  quali  avevano  concentrata  in  Partenope  la  miglior  parte 
della  loro  religione  e  la  storia  più  antica  della  città.  Forse  essi  non 
furono  estranei  a  un  tentativo  di  riabilitare,  se  non  tutte  le  Sirene, 
almeno  quella  che  era  loro  propria,  della  qual  cosa  troviamo  un  in- 
dizio nella  leggenda,  riferita  da  Eustazio  ',  di  una  Partenope  pentita 
ed  in  lutto,  che  viene  a  prendere  stanza  nella  Campania.  Ma  più  di 
questa  versione  incontrò  il  favore  dei  Napoletani  la  Partenope  Sicula 
e  buona;  la  quale  si  radicò  tanto  nella  credenza  popolare  ,  che  due 
testimoni,  la  Cronaca  di  Partenope  e  il  Boccaccio,  la  ritrovarono  alla 
fine  del  Medio  Evo  nella  tradizione  orale  del  popolo  napoletano,  con 
lineamenti  senza  dubbio  alterati,  ma  chiaramente  riconoscibili. 

Nella  Cronaca  di  Partenope  si  legge  (cp.  v.)  :  «  Parthenope  era 
«  una  Giovanotta  non  maritata  et  Vergine,  de  una  exceliente  e  gran- 
«  dissima  bellezza  ,  fegliola  del  re  de  Sicilia,  la  quale  venendo  con 
«  gran  moltitudine  de  nave  ad  chiaga,  se  ammalò  et  in  quel  mede- 
«  simo  loco  de  quella  infirmità  fo  morta.  Et  in  quello  loco  fu  sepe- 
«  lita  :  per  la  (piale  sepultura  li  fo  facto  el  tempio  ».  E  il  Boccaccio 
(nell'Ameno)  attingendo  alla  stessa  tradizione  orale  ricorda  i  dimani, 
che  in  «  luogo  sollevato  con  picciolo  colle  »  avendo  cominciato  a  fon- 
dare una  città,  e  «  nelli  eminenti  luoghi  »  avendo  rinnovato  «  i  co- 


1  Hygin.  Fai.  141. 

2  Claudian.  loc.  cit.  254-58. 

3  Ovid.  loc.  cit.  552-60. 

4  Eustath.  ad  Dionys.  Poieg.  cp.  358.  Il  luogo  di  Dionisio  Periegete  (vs.  357-60), 
a  cui  le  parole  di  Eustazio  servono  di  commento,  è  forse  esso  stesso  un  accenno 
alla  Partenope  buona  ;  poiché  il  geografo,  pur  collocando  le  Sirene  al  promon- 
torio Sorrentino,  dove  le  fanciulle  alate  dovevano  essere  le  insidiose  ed  inganna- 
trici, che  si  precipitarono  in  mare  quando  non  riuscirono  ad  attirare  Odisseo, 
chiama  Partenope  santa  o  casta  (àyvrjv). 


86  G.    DE    PETRA. 


minciati  fondamenti  altra  volta  »,  «  nel  primo  fondare,  di  candido  marmo 
una  nobile  sepoltura  nel  ventre  della  terra  trovarono,  il  titolo  della 
quale,  di  lettera  appena  nota  tra  loro,  leggendolo,,  trovarono  che  dicea  : 
Qui  Partenope  Vergine  Sicula  morta  giace.»  E  nella  fine  del 
Quattrocento  questa  opinione  durava  così  vivace,  che  il  Pontano  !,  pur 
conformandosi  alla  tradizione  letteraria  di  Sorrento,  quae  Sirenum  ipsa- 
rum  sedes  tunc  esset,  ammise  nondimeno  Partenope  regina,  per  la  ra- 
gione che  avendo  essa  avuto  il  sepolcro  sul  colle  dove  ora  è  Napoli, 
sepulcrum  ipsum  indicio  est  Parthenopen  colli  imperitasse  ».  Donde  si 
può  raccogliere,  che  la  credenza  in  una  Partenope  Sicula  e  buona  sia 
durata  in  Napoli,  attraverso  il  Medio  Evo,  anche  più  di  quanto  nel 
mondo  classico  durò  la  fede  nelle  Sirene  omeriche. 


1  Pontani,   Opera,  Venetiis  1519,  VI,   pg.  315. 
Napoli. 

Giulio  de  Petra. 


DI  UNA  PRETESA  DISFATTA  DEI  FRANCHI 

SOTTO  GORDIANO  III. 


Oltre  alla  spedizione  contro  i  Persiani  e  alle  vittorie  sopra  di 
essi  avute,  nessun'altra  impresa  militare,  tale  che  abbia  reso  illustre 
e  il  nome  e  il  regno  di  Gordiano  III,  conosce  con  sicurezza  la  Storia. 
Tuttavia  si  vuole  che  sotto  questo  principe  sia  stata  riportata  anche 
una  non  trascurabile  vittoria  sui  Franchi,  che,  varcato  il  Beno,  sa- 
rebbero andati  vagando  per  tutta  la  Gallia,  nemici  nuovi  di  Eoma. 

La  vittoria  sarebbe  quella  conseguita  da  Aureliano,  allora  tribuno 
della  Legione  YI  (Gallicana  ?)  a  Mogontiacum,  della  quale  Vopisco  ci 
dà  notizia  nella  vita  di  questo  principe  *.  Lo  storico  a  tale  fatto  non 
assegna  alcuna  data,  ma  non  è  sembrato  difficile  poterla  determinare, 
specialmente  per  un  verso  d'  una  canzone  militare  che  ci  si  afferma 
sia  stata  composta  per  l'occasione.  In  essa  si  dice  2:  Mille  Sarmatas, 
mille  Fvancos  semel  et  semel  occidimus,  mille  Persas  quaerimus.  La  vit- 
toria sui  Franchi  fu  dunque  riportata  mentre  si  stava  preparando  o 
combattendo  una  guerra  contro  i  Persiani.  Tale  guerra  poi  parecchi 
critici  dal  Tillemont 3,  per  non  andare  più  in  là,  ad  oggi,  ed  oggi  special- 
cialmente,  4  ritengono  che  sia  quella  che  trascinò  alla  rovina  il  terzo 
dei  Gordiani.  Xaturalmente  la  medesima  sarebbe  avvenuta  poco  in- 
nanzi alla  morte  di  questo  imperatore,  quindi  fra  il  242-1*44;  sebbene 
qualcuno,  come  il  Wietersheim  5,  propenda  per  una  data  di  poco  poste- 
riore, fra  il  244-246.  Tutto  ciò  pare  che  in  certo  modo  venga  ad  essere 
confermato  da  Capitolino  che,  nella  vita  di  Gordiano,  riferisce  l'epi- 
taffio ove  si  vuol  far  credere  sia  stato  scritto   sulla  tomba  dell'infe- 


*  Aurei;  7  e  segg. 

2  1.  e. 

3  Hist.  d.  Ernp.  Paris  1691;  III  pp.  550-594. 

4  Cfr.  Dakn,  Urgesch.  der  German.  u.  Roman.  Volker,  Berlin  1881;  I  p.  203. 
Goyau,  Chronol.  de  VEmp.  Boni.  Paris  ,  1899  (all'anno  241).  Blanchot  ,  Lea  Tré- 
sors  des  monnaie8. 

5  Wietersheiiu-Dabu,  Gesch.  der  Volkerwanderung.  Leip.  1880  I  p.  214  e  622 
nota. 


lice  vittima  di  Filippo;  in  esso  quel  principe  è  detto  Victor  Germa- 
norum. 

Ma  c'è  di  più.  Come  apprendiamo  dalla  cantilena,  e  come  Vopisco 
stesso  ci  fa  sapere,  prima  della  vittoria  sui  Franchi  erano  stati  vinti, 
nell'  Illirico  ,  i  Sarmati  irrompenti.  Ora  in  quest'  epitaffio  medesimo, 
riferito  da  Capitolino,  Gordiano  apparisce  anche  col  titolo  di  Victor 
Sarmatarum.  Dunque  sembrerebbe  di  poter  concludere  che  ambedue 
queste  vittorie  furono  riportate  nel  nome  di  Gordiano  e  quindi,  per 
il  tempo,  non  furono  posteriori  al  244. 

A  me  sembra  che  tutto  quest' edifi  zio  non  abbia  base.  Credo  che 
la  guerra  persiana  alla  quale  si  allude  nella  cantilena  non  sia  quella 
condotta  da  Gordiano  ,  ma  quella  che  portò  1'  imperatore  Valeriano: 
pongo  quindi  sotto  il  regno  di  questo  principe  la  vittoria  sui  Fran- 
chi, i  quali  penso  che  solamente  adesso,  per  la  prima  volta,  compa- 
iano, ben  costituiti ,  in  lotta  con  Eoma.  Mi  convinco  infatti  che  fra 
i  dati  fornitici  dal  racconto  di  Vopisco,  quali  direttamente  indichino 
che  la  vittoria  in  quistione  deve  porsi  durante  il  regno  di  Valeriano 
e  Gallieno,  poco  innanzi  alla  spedizione  contro  i  Persiani,  così  misera- 
mente terminata  nel  260;  quali  vengano  a  combattere  la  congettura 
che  Aureliano  sia  stato  il  fortunato  vincitore  dei  Franchi  sotto  Gor- 
diano III.  Altre  considerazioni,  indipendenti  dal  racconto  vopisehiano, 
ci  fanno  abbandonare  l'ipotesi  che  sotto  questo  principe  ci  sia  stato 
con  i  Franchi  qualsiasi  combattimento  vittorioso,  del  quale  l'avveni- 
mento non  trova  conferma  in  nessuna  moneta  o  epigrafe,  ma  di  cui 
si  vorrebbe  ricavare  la  notizia  dalla  molto  ambigua  e  molto  dubbia 
testimonianza  di  Capitolino. 

Che  questo  avvenimento  sia  da  porre  sotto  il  regno  di  Valeriano 
e  Gallieno  ,  parecchi  critici  hanno  pensato.  F  se  alcuni  non  hanno 
veramente  spiegato  da  quali  ragioni  essi  siano  stati  mossi  a  stabilire 
questa  cronologia  ,  come  il  Clinton  *  ,  il  Duruy  ?  ,  lo  Schiller  3  e  il 
Mommsen  ',  qualche  altro  s'è  fermato  a  discutere  la  quistione,  e  con 


1  Fast.  I,  278;   all'anno  256. 

2  Hi8t.  des  Romains  ,  Paris  18  9  ,  VII  ,  p.  332.  Egli  veramente  non  precisa 
l'anno  ,  ma  pone  la  vittoria  di  Aureliano  durante  la  campagna  laboriosissima  di 
Gallieno  contro  i  Germani;  sicché,  forse,  verso  il  256.  Ma  non  è  vero  che  la  data 
di  questo  fatto  «  est  tout  à  fait  iucertaine  ì>  pel  Duruy,  come  afferma  il  Goyau  (1.  e.) 

3  Gesch.  der  Boni.  Kaiserzeit,  Gotha  1883  I,  p.   815  n.   3. 

4  II  Mommsen.  I'rov.  Rom.  (tr.  De  Ruggero)  Rooia  1887.  I,  p.  151,  non  parla 
di  questo  fatto,  ma  pensa  però  che  adesso,  sotto  Valeriano  e  Gallieno,  i  Franchi, 
apparsi  per  la  prima  volta,  prendano  l'offensiva  contro  i  Romani. 


PARTE   I.  DI    UNA   PRETESA   DISFATTA   DEI   FRANCHI.  89 

acutezza  ,  come  il  Becker  f  e  il  Bernhardt  2  ;  certo,  però,  non  suffi- 
cientemente. 

Argomento  per  me  principalissimo,  a  convincere  che  sotto  Va- 
leriano sia  da  porre  la  vittoria  in  quistione,  è  nella  lettera  di  que- 
st'  imperatore  a  Ceionio  Albinio  ,  riferita  da  Vopisco  3.  Tale  lettera 
pel  fatto  che  viene  indirizzata  a  chi  allora  era  prefetto  di  Roma,  porta 
con  se  la  data  del  250.  In  essa  Aureliano  viene  chiamato  liberator 
lllyrici  et  GaUiarum  restitutor.  Sarebbe  da  concludere  che  tale  frase 
alluda  ai  due  scontri  di  Aureliano  con  i  Sarmati  e  coi  Franchi,  dei 
quali  poco  innanzi  ha  parlato  Vopisco.  Mi  parrebbe  illogico  infatti 
pensare  che  Valeriano  parlasse  con  tanto  entusiasmo  '  di  vittorie  avve- 
nute parecchi  anni  avanti,  quando  il  vantaggio  conseguito  con  esse 
sarebbe  stato  reso  inutile  dal  sopravvenire  di  nuove  inondazioni  bar- 
bariche sul  territorio  romano.  11  ricordare  tali  vittorie,  avvenute  pa- 
recchi anni  avanti  il  2ÒI),  quando  l'imperatore  stesso  e  il  figlio  Gal- 
lieno dovevano  difendere  appunto  quel  territorio  che  invece  si  ver- 
rebbe a  dire  reso  libero  e  sicuro  da  Aureliano  ,  significherebbe  non 
far  elogi  di  quest'ultimo,  ma  berteggiarlo  atrocemente.  Xè  si  può  pen- 
sare che  la  lettera  di  Valeriano  sia  ironica,  che  anzi  quel  linguaggio 
così  entusiastico  trova  spiegazione  precisamente  nella  contempora- 
neità di  questi  due  fatti  :  le  vittorie  di  Aureliano  e  la  lettera  del 
principe. 

Che  dunque  in  tale  lettera  ci  sia  un  argomento  di  molta  impor- 
tanza per  assegnare  la  data  alla  vittoria  sui  Franchi,  è.  per  me,  inne- 
gabile. Ma  contro  il   valore  di  quest'argomento  si   fanno  opposizioni. 

Vi  ha  di  quelli  i  quali  ,  poiché  Vopisco,  come  gli  altri  Scripto- 
res  H.  A.  fu  proclamato  reo  di  falsità,  spingono  la  loro  circospezione, 
quanto  al  servirsi  di  certe  notizie  da  lui  forniteci ,  fino  al  punto  di 
non  servirsene  affatto.  Le  notizie  (cosa  davvero  curiosa)  delle  «inali 
pare  che  specialmente  si  dubiti,  sono  quelle  che  appariscono  in  veste 
ufficiale  nella  Raccolta  delle  biografie  dei  principi.  La  lettera  di  Vale- 
riano, la  quale  ci  fornisce  un  dato  di  così  rilevante  importanza  ,  ha 
dunque  il  peccato  originale  d'appartenere  alla  Storia  Augusta.  Si  com- 


1  Imp.   L.   Domitius   Aurelianus  reni,   orò..   Monastero   1866  p.    12-13   n. 

2  Geschichte  lìoms  von    Valeriana  bin  zu  Diocletians  Tode,  Berliu   1867,   p.  20  u. 

3  Aurei.  9,  i. 

4  1.   e. 


90  U.    GIRI.  PARTE   I. 

prende  però  che  tali  peccati,  come  altri  del  medesimo  genere,  hanno 
di  originale  soltanto  il  giudizio  che  su  di  essi  si  suole  portare.  Pel 
caso  nostro,  mi  piace  infatti  di  notare  che  nessuna  prova  esiste  per 
congetturare  che  sia  falsa  la  lettera  di  Valeriane  In  ciò  è  convenuto 
anche  l'Homo  '  che  l'ha  esclusa  dai  documenti  dei  quali  ritiene  sicura 
la  falsificazione. 

Ma  ammettiamo  che  tale  lettera  sia  falsificata:  che  ne  consegue? 
che  sia  falsa  anche  la  notizia  riferita!  Sarebbe  molto  strano  che,  men- 
tre si  presta  fede  a  una  notizia  qualsiasi  riportata  dalla  Storia  Augu- 
sta, purché  non  si  trovi  in  opposizione  con  altre  delle  quali  la  fonte 
si  ritenga  meno  torbida,  poi  si  venissero  a  mettere  in  dubbio  ,  anzi 
non  si  considerassero  affatto  quelle  notizie,  forniteci  ugualmente  dalla 
Storia  Augusta  ,  solo  perchè  esse  ci  appariscono  in  una  forma  uffi- 
ciale la  quale  vorrebbe  che  loro  prestassimo  fede  maggiore. 

Sicché  pur  concedendo  anche  che  la  lettera  di  Valeriano  non  sia 
che  uno  squarcio  di  una  non  bella  prosa  vopischiana,  non  è  certo  da  s 
rigettare  ciò  che  in  essa  si  dice,  se  non  appaia  evidentemente  errato. 

^Nel  peggiore  dei  casi  dunque  dovremo  concludere  che  Yopisco 
ha  messo  sotto  forma  epistolare  una  notizia  eh'  egli  ha  appreso  da 
una  sua  fonte,  la  quale  doveva  dire  che  la  vittoria  di  Aureliano  sui 
Franchi  avvenne  nel  256;  certo  durante  il  regno  di  Valeriano  e  Gallieno. 

Ad  altri  critici  poi,  e  sono  quelli  che  esaminarono  la  quistione 
prima  del  famoso  atto  d'  accusa  del  Dessau ,  le  parole  della  lettera 
di  Valeriano  fornirono  argomento  per  sostenere  che  la  vittoria  sui 
Franchi  fu  precedente  al  regno  di  quest'imperatore. 

Il  Tillemont,  a  cagione  d'esempio,  ritiene  che  le  parole  contenute 
nella  lettera  di  Valeriano,  con  le  quali  Aureliano  viene  detto  liberator 
Illyrici  et  Galliarum  restitutore  non  si  riferiscano  a  quelle  vittorie  sui 
Sarmati  erumpentes  in  lllyrico  e  sui  Franchi  inruentes,  cum  vagaren- 
tur  per  totam  Galliam,  delle  quali  precedentemente  Vopisco  ci  ha  par- 
lato. La  ragione  di  questo  ragionamento  sta  nel  fatto  che  non  pare 
al  Tillemont  corrispondente  sì  grande  titolo  a  ciò  che  lo  avrebbe  cau- 
sato, cioè  ai  «  mille  Francois  qu'il  (Aurélien)  avait  pris  ou  tuez  vers 
Fan  242»  e  alla  «  simple  qualité  de  tribun».  In  altri  termini  la  vit- 
toria sui  Franchi  dovrebbe  essere  del  tempo  anteriore  a  Gallieno  per- 
chè, come  trovo  nel  Dritter  Excursus  del  Wietersheirn-Dahn  2  e  come 
in  fondo  ripetono  più  o  meno,  senza  portare  altri  argomenti,  i  soste- 
nitori di  questa  cronologia,   «  er  damals  nur  Tribun  der  sechsten  Le- 


1  Op.  cit.  p.  13. 

2  Op.  cit  p.  622  n. 


PARTE   I.  DI    UNA   PRETESA   DISFATTA   DEI   FRANCHI.  91 

gioii  war,  Ienes  Erhebung  aber  schon  viel  hoher  in  Dienat  gestanden 
haben  muss,  weil  es  in  Frage  kam,  Gallien  seiner  besondern  Leitung 
anzuvertrauen  (Vopiscus  a.  a.  O.  e.  8)». 

Davvero  che  queste  argomentazioni  non  mi  pare  abbiano  grande 
valore  !  Al  Tillemont  che  crede  di  poter  arguire  dal  numero  dei  mille 
Franchi  presi  od  uccisi  presso  Mogontiacum  ,  che  il  combattimento 
sia  stato  di  importanza  così  trascurabile  che  Aureliano  non  possa, 
per  questo,  aver  meritato  il  titolo  di  restitutor  Galliarum,  osservo  che 
Vopisco  ci  dà  tale  cifra  come  quella  dei  nemici  fatti  prigionieri  e  uc- 
cisi dal  solo  Aureliano. 

Per  vero  tale  autore,  anche  poco  innanzi,  dandoci  notizia  della 

vittoria  sui  Sarmati  nelF  Illirico,  dice  che  1  refert  Theoclius Aure- 

lianum  manu  sua  bello  Sarmatico  una  die  quadraginta  et  octo  interfe- 
cisse,plurimis  aiitem  et  diversis  diebus  nongentes  quinquaginta.  Che  poi 
Aureliano  ,  perchè  solamente  tribuno  ,  non  potesse  aver  meritato  il 
titolo  di  restitutor  Galliarum,  non  si  comprende.  Xon  è  raro  il  caso 
che  un  tribuno  possa  venire  eccezionalmente  a  sostituire  un  vero  e 
proprio  legatus,  massime  trovandosi  a  capo  di  parecchie  vexillationes 
formanti  un  contingente  di  uomini  spesso  superiore  di  molto  a  quello 
d'una  legione.  Che  dunque  Aureliano  a  Magonza,  ch'è  quanto  dire  in 
un  punto  strategico  di  prim'  ordine  ,  in  una  posizione  che  domina  e 
sbarra  il  vero  adito  alla  Germania,  collocata  com'è  fra  la  catena  del 
Taunus  da  un  lato  e  i  declivi  dell' Odenwald  parallelamente  dall'altro, 
abbia  potuto,  con  le  milizie  di  cui  disponeva,  riportare  una  splen- 
dida vittoria  sui  Franchi,  non  vedo  perchè  debba  parere  strano.  Nulla 
di  straordinario  dunque  che  Aureliano ,  tribuno,  possa  avere  in  una 
speciale  circostanza,  e  anche  per  qualche  tempo,  salvato  il  paese  che 
difendeva,  reso  un  grande  servigio  alle  Gallie  così  da  meritare  il  ti- 
tolo che  troviamo  nella  lettera  di  Valeriano.  Del  resto,  potrebbe  avere 
il  principe  anche  abbondato  nelle  lodi  del  tribuno  ed  avere  ingran- 
dito la  vittoria  ,  tanto  più  che  la  direzione  generale  della  guerra 
era  dei  sommi  governanti,  e  tali  elogi  indirettamente  venivano  a  rica- 
dere sopra  di  essi. 

Ma  nella  storia  poi  ci  sono  vittorie  colossali,  immensi  scontri  di 
uomini,  i  quali  non  portano  cambiamenti  sociali  e  politici  così  impor- 
tanti, come  alcuni  fatti  piccolissimi  in  apparenza. 

Dumouriez,  coll'occupazioue  della  foresta  d'Argonne,  nel  1791'.  col 
suo  conseguente  allacciarsi  col  Ivellermann  su  Valmy  e  col  relativo 
cannoneggiamento,  rende  alla  Francia  un  servigio  ben  più  grande  di 
quello  che  non  rendesse  più  tardi  Napoleone  con  qualche  sua  splen- 
dida vittoria.  Xel  caso  nostro  però  non  si  sostiene  neppure  che  Aure- 


92 


liano  abbia  prodotto  un  bene  duraturo  al  paese  che  difendeva  :  si 
vuol  spiegare  solo  una  frase  che  potè  essere  stata  scritta  appena  dopo 
la  vittoria,  nel  25G. 

Del  resto  conferma  questa  nostra  congettura  una  epigrafe  del 
256  l  la  quale  dà  a  Valeriano  il  titolo  di  Germanicus  Maximus  ;  ed 
un'altra  ancora  2 ,  del  medesimo  anno,  che  lo  stesso  titolo  dà  a  Gal- 
lieno. Onde  non  è  improbabile  che  la  vittoria  di  Aureliano  sui  Fran- 
chi sia  stata  riportata  nel  nome  dei  principi  regnanti;  e  mi  pare  evi- 
dente allora  che  ad  essa  si  debba  attribuire  la  data  del  256  ,  ossia 
quella  della  lettera  di  Valeriano  in  cui  a  tale  vittoria  si  accenna. 

L'argomento  del  Tillemont  credo  che  per  tutto  questo  non  ab- 
bia più  valore. 

Naturalmente  le  osservazioni  del  Wietersheim  che  hanno  tanto 
di  comune  con  quelle  del  Tillemont  non  appariscono  pia  solide.  Solo 
al  Wietersheim  osservo  che  nessun  argomento  abbiamo  per  ritenere 
che  Aureliano  sotto  Valeriano  e  Gallieno  fosse  salito  molto  più  in 
alto,  nella  carriera  militare,  di  quello  che  non  ci  apparisca  quando, 
tribuno,  vinse  i  Franchi  presso  Magonza.  Il  e.  8  dell' Aurelianus  parla 
di  una  lettera  scritta  a  Valeriano,  nella  quale  si  muove  rimprovero 
al  principe,  d'aver  affidato  il  giovane  nepote  suo  Gallieno  iuniore, 
Cesare,  invece  che  ad  Aureliano,  a  Postumo,  cui  non  si  sarebbe  dovuto 
affidare  neanche  l'esercito.  Ora  nulla  di  strano  in  tutto  questo  ,  se 
si  ammette  che  Aureliano,  per  la  recente  vittoria,  si  fosse,  come  si 
dice,  rivelato  e  fatto  conoscere  ufficiale  dei  più  valorosi  e  stimabili. 
Certo,  se  il  punto  forte  delle  argomentazioni  del  Wietersheim  è  qui 
(e  non  vedo  che  sia  altrove) ,  bisogna  pur  concludere  che  esse  sono 
molto  deboli. 

Nò  apparisce  senza  stranezze  il  fatto  che  l'Homo,  mentre  giudica 
«  impossible  d'admettre  la  chronologie  de  Th.  Bernhardt  et  de  H.  Schil- 
ler 3  (dimentica  il  Becker)  citi  ,  a  sostenimento  della  sua  tesi  ,  il 
Wietersheim-  Dahn  4;  di  cui  dunque  accetta  il  ragionamento  poggiato 
in  modo  precipuo  su  un  documento  eh'  egli  in  altro  luogo  dichiara 
falso,  e  quindi  privo  di  valore.  Infatti  la  lettera  che  Vopisco  riferisce  al 


1  C.  I.  L.  Vili  2380. 

2  C.  I.  L.  Vili  2381  .  Sebbene  questa  epigrafe  segui  la  TR.  POT.  Ili  di 
Gallieno,  ciò  che  la  farebbe  del  255,  mi  pare  che  debba  accettarsi  l'ipotesi  messa 
fuori  nel  commento  che  a  tale  epigrafe  trovo  nel  Corpus  :  che  cioè  il  III  sia  da 
scrivere  IIII.  Infatti  questa  iscrizione  e  quella  antecedente  di  Valeriano  sono  in 
basi  gemelle  e  appartengono  al  medesimo  anno. 

3  Op.  e.  p.  33  n. 
*  Op.  cit.  p.  13. 


PARTE   I.  DI   UNA   PRETESA   DISFATTA   DEI    FRANCHI.  93 

c.  8  dell'  Aurelianus  ,  indirizzata  da  Valeriano  al  console  Antonino 
Gallo,  è  il  primo  dei  documenti  per  i  quali  l'Homo  riconosce  sicura 
la  falsificazione. 

Ma  un  altro  lato  debole  di  tutto  il  ragionamento  del  Tillemont 
Wietersheim  (poiché  quello  dell'uno  si  compcnctra  e  si  compie  in  quello 
dell'altro),  è  in  questo,  che  il  Tillemont  è  poi  costretto  ad  ammettere 
poco  innanzi  il  256,  e  proprio  nel  255,  una  vittoria  di  Aureliano  sui 
Germani,  la  quale  gli  faccia  meritare  il  nome  di  restitutor  Galliarum. 
Così  nel  Dahn  :  «  Dass  er  aber  auch  unter  Valerian  und  Gallienus 
sich  gegen  die  Germanen  auszeichnete,  beweisen  Valerian' s  Worte 
(ebenda  e.  9),  der  ihn  Galliarum  restitutor  nennt  ».  Ma  dunque  Vo- 
pisco  avrebbe  narrato  della  vita  di  Aureliano  due  fatti  di  poca  im- 
portanza, mentre  avrebbe  taciuto  di  due  grandi  vittorie  che  a  quello 
avrebbero,  più  tardi,  guadagnato  i  titoli  di  liberator  Iltyrici  e  di  resti- 
tutor  Galliarum!  E  lo  strano  è  questo,  che  Aureliano  fra  il  253-56 
avrebbe  riportato  due  vittorie  ,  come  verso  il  242-44;  e  proprio  con- 
tro i  medesimi  popoli  die  avrebbe  vinto  dieci  anni  innanzi  !  La  con- 
gettura di  questa  seconda  edizione  delle  due  vittorie  d'Aureliano,  non 
confermata  dal  più  lontano  accenno,  dal  più  piccolo  indizio  ,  giudico 
assolutamente  insostenibile. 

Da  quanto  s'  è  detto  mi  pare   che  risulti  in  modo  molto  chiaro 
che  milita  dalla  parte  nostra  un  argomento  d'importanza  indiscutibile. 
Altre  considerazioni  ci  confermano  nel  nostro  convincimento. 
Si  è  veduto  che  la  vittoria  sui  Franchi  fu  preceduta  da  un'altra 
sui  Sarmati.  Un  verso  della  cantilena,  cantata  in  quell'  occasione,  di- 
ceva infatti:  Mille  Sarmatas ,   mille  Francos  semel  et  semel  oceidimus. 
Ora  si  cerca  di  determinare  la  data  di  questo  combattimento  sarmatico. 
Dice  Vopisco  :   '    Erumpentes    Sarmatas    in  Illirico   cum    trecentis 

praesidiariis    solus  (Aurelianus)  adtrivit.    Refert  Theoclius Aurelia- 

num  manu    sua    bello    Sarmatico  una  die  quadraginta    et    oclo  interfe- 
cisse  etc. 

Vediamo  se  tale  fatto  possa  collocarsi  durante  il  regno  del  terzo 
Gordiano:  se  ciò  non  è,  per  questo  stesso,  noi  dovremo  ritenerlo  acca- 
duto sotto  Valeriano  e  Gallieno,  tanto  più  che  non  ci  mancherà  un 
argomento  per  riferire  la  vittoria  sui  Sarmati  proprio  al  tempo  di 
questi  principi.  Se  noi  dovessimo  prestar  fede  al  silenzio  eloquentis- 
simo  delle  epigrafi  e  delle  monete,  dovremmo  subito  concludere  che 
uè  da  Gordiano,  uè  da  altri  sotto  il  nome  di  lui  furono  vinti  mai 
i  Sarmati.  Ma   contro   tale   conclusione   starebbe  la   testimonianza    <li 


1  Aurei.  6,  3  segg. 


94  U.    GIRI.  PARTK    I. 

Capitolino,  die  riferisce  l'epitaffio  che  ci  vnol  far  credere  sia  stato 
posto  sulla  tomba  del  giovane  principe.  Esso  sarebbe  stato  così  for- 
mato i  :  Diro  Gordiano  viatori  Persarum  ,  victori  Gotìiorum  ,  victori 
Sarmatarum  Repulsori  Eomanarum  seditionum,  sed  non  viatori  Philip- 
porum.  Aggiunge  poi  lo  stesso  storico  chiosando  tale  epitaffio:  2  quod 
ideo  videbatur  additimi  ,  quia  in  campis  Philippis  ab  Alanis  tumultua- 
rio proelio  rictus  abscesserat ,  simul  etiam,  quod  a  Philippis  videbatur 
occisus.  Non  so  chi  voglia  prestar  fede  a  tale  epitaffio  così  com'è  com- 
posto ;  che  non  isfugge  che  in  esso  la  tendenza  ,  la  quale  appare  a 
prima  giunta  molto  chiara,  di  glorificare  il  principe  si  trovi  in  forte 
contrasto  con  la  chiusa  indubbiamente  ironica. 

Il  Wietersheim  pensava  :  3  «  es  liegt  seher  nahe ,  in  dieser  In- 
schrift,  eine  mystification  Capitolina  zu  vermuthen. 

Se  tale  epitaffio,  scritto  et  Graecis  et  Latinis  et  Persicis  et  Iudai- 
cis  et  Aegyptiacis  litteris  non  è  uno  scherzo  dei  soldati,  tollerato  da 
Filippo,  e  quindi  di  nessun  valore  storico,  cerchiamo  di  trovarne  la 
interpretazione. 

Capitolino  dice  4  che  Gordiano,  nel  242,  cum  exercitu  ingenti  et 

tanto  auro  ut facile  evineeret  Persas ,  movendo  alla  guerra  5  feeit 

iter  in  Moesiam  atque  in  ipso  procinctu ,  quicquid  hostium  in  Thacia 
fuit,  delevit,  fugavit,  expulit  atque  submovit. 

Dunque  nessun'impresa ,  nessuna  vittoria  avanti  il  242  ,  avanti 
di  partire  per  la  spedizione  persiana.  Si  apprende  infatti  che  fino  a 
quest'  anno  egli  attese  a  tutt'  altro  che  alla  guerra.  Le  240  costitu- 
zioni che  nel  codice  Giustiniano  portano  il  suo  nome  mostrano  la 
grande  attività  legislativa  del  suo  governo.  Pertanto  se  dal  238  al 
242  non  avvenne  alcuna  guerra,  e  se  la  pace  non  fu  turbata  che  in 
quest'anno  in  cui  Gordiano  aprì,  per  l'ultima  volta,  il  tempio  di  Giano, 
quando  sarebbe  avvenuto  il  bellum  Sarmaticum  di  cui  parla  Vopisco, 
durante  il  quale  Aureliano  riportò  il  noto  brillante  successo?  L'Homo  6 
è  molto  sbrigativo  nel  risolvere  la  questione;  dice  :  «  il  est  question, 
en  242  ,  lors  du  depart  de  Gordien  III  pour  la  campagne  d'  Orient, 

d'une  guerre   contre  les  Sarmates ;  peut  ètre  (on  ne    peut  se  pro- 

noncer  avec    certitude) ,  la  victoire    d'  Aurélien    sur  les  Sarmates  se 


1  Gordian.   34,  3. 

2  Ib.  34,  4. 

3  Op.  cit.  p.  193. 

4  Gord.  26,  3. 

5  A-20,  4. 

6  Op.  cit.  p.  31, 


PARTE    I.  01    UNA    PRETESA    DISFATTA    DEI    FRANCHI.  95 

place-t-elle  à  ce  moment,  ou  est-elle  légèrement  antérieure  »,  Ma  noi 
qui  non  domandiamo  quando  possa  essere  accaduto  il  combattimento 
in  cui  si  segnalò  Aureliano  ,  che  potrebbe,  considerato  in  sé,  essere 
seguito  anche  adesso,  come  pensa  l'Homo;  ma  invece  quando  sia  acca- 
duto il  bellum  Sarmaticum,  di  cui  lo  scontro  di  Aureliano  non  fu  che 
un  episodio.  Ora  tale  guerra  bisogna  pur  concludere  che  sotto  Gor- 
diano non  potò  aver  luogo.  Principalmente  perchè  ,  dato  che  questo 
principe  abbia  vinto  i  Sarmati,  ciò  potrebbe  essere  stato  in  qualche 
combattimento  e  non  in  una  guerra;  di  poi  tale  zuffa  sarebbe  avve- 
nuta nella  Tracia  e  non  nell'illirico,  come  vuole  il  passo  vopischiano. 
Se  l'Illirico  fosse  stato  invaso  dai  Sarmati  e  fosse  stato  da  Gordiano 
liberato  al  momento  del  suo  passaggio  per  la  guerra  persiana  ,  Capi- 
tolino non  ce  lo  avrebbe  taciuto.  Tanto  più  che  ,  dandoci  notizia  di 
grandi  vittorie  nella  Tracia,  doveva  poi  contradirsi  parlandoci  della 
sconfìtta  patita  da  Gordiano  a  cagione  degli  Alani.  Dunque  anche 
gli  scarsi  accenni  che  troviamo  nella  //.  A.  ci  confermano  una  notizia 
che  e  monete  ed  epigrafi  ci  forniscono  col  loro  silenzio.  Sicché  il  ti- 
tolo di  Victor  Sarmatarum  che  si  sarebbe  trovato  sull'epitaffio  di  Gor- 
diano, va  interpretato  in  modo  molto  differente  da  quello  che  non  si 
faccia.  Se  esso  non  è  proprio  una  invenzione  di  Capitolino,  dobbiamo 
pensare  che  sia  improntato  a  quell'ironia  che  evidentemente  traspare 
nella  sua  chiusa.  Un  medesimo  sentimento  deve  per  ciò  avere  ani- 
mato l'autore  o  gli  autori  di  esso.  Non  potrebbe  allora,  con  quel  Victor 
Sarmatarum,  essersi  fatta  allusione  alla  sconfitta  toccata  da  Gordiano 
in  campis  Philippis,  a  cagione  della  popolazione  Sarmatica  degli  Alani 
dai  quali  non  è  illogico  che  abbia  liberata  la  Tracia,  con  quel  tanto 
auro  che  aveva  portato  con  se  ?  Sono  spinto  a  interpretare  così  il  signi- 
ficato dell'epitaffio,  anche  dalla  considerazione  che,  altrimenti,  in  esso 
si  verrebbe  a  dire  che  Gordiano  fu  prima  vincitore  dei  Sarmati  e  poi 
dei  Sarmati  non  vincitore.  Xè  credo  che  differente  mante  debba  interpre- 
tarsi il  Victor  Germanorum.  Anche  Caracalla  sarebbe  stato  chiamato 
Geticus  per  l'uccisione  di  Geta. 

Dopo  tutto  questo  mi  par  che  possa  stabilirsi  che  il  bellum  Sar- 
maticum cui  accenna  Vopisco,  che  ebbe  per  teatro  l'Illirico  e  di  cui  fu 
episodio  il  combattimento  vinto  da  Aureliano,  non  accadde  sotto  lo 
imperatore  Gordiano, 

Ciò,  l'abbiamo  detto,  sarebbe  sufficiente  per  farci  concludere  che 
la  guerra  in  quistione  sia  del  tempo  di  Valeriano;  ma  che  proprio  sia 
così,  lo  vediamo  subito.  Come  Aureliano  si  segnalò  grandemente  bello 
Sarmatico,  similmente,  racconta  Vopisco  ',  si  segnalò   Probo,  cum  bello 

1  Prob.  e.  5, 


96  U.    GIRI.  PARTE   I. 

Sarmatico  iam  tribunus  multa  fortiter  fecisset.  Di  tutte  le  Vite,  sola- 
mente in  questi  due  luoghi  accenna  Yopisco  ad  un  bellum  Sarmati- 
cum,  e  mi  sembra  die  tanto  nell'uno,  come  nell'altro  alluda  alla  guerra 
medesima:  appare  chiaro  ch'egli,  non  usando  nei  due  casi  determina- 
zioni speciali,  abbia  presente  alla  mente  un  unico  bellum. 

Or  dunque  se  Probo  era  già  tribuno  al  tempo  della  guerra  sarma- 
tica,  poiché  tribuno  fu  fatto  da  Valeriano  l,  la  detta  guerra  non  è 
antecedente  al  regno  di  questo  principe  o,  almeno,  continua  sotto  di 
lui.  E  poiché  il  bellum  Sarmaticum  è  antecedente  alla  vittoria  d'Au- 
reliano presso  Magonza,  questa  non  può  essere  anteriore  al  regno  di 
Valeriano.  Altre  considerazioni  non  saranno  inutili:  Vopisco  dice  2, 
parlando  dei  multa  omina  sul  regno  di  Aureliano  :  nani  ingrediente 
eo  Anthiochia  in  vehiculo,  quod  prae  vulnero  tunc  sedere  non  posset,  ita 

pallium  purpureum,  quod  in  lionore  eius  pansum  fuerat  decidit  ut 

Data  est  ei  praeterea  cum  legatus  ad  Persas  isset ,  patera  qualis  solet 
imperatoribus  dari  a  rege  Persarum.  Pare  a  me  che  si  possa  mettere 
in  relazione  quest'  ambasciata  di  Aureliano  ai  Persi  col  verso  della 
nota  cantilena  che  terminava  con  le  parole  :  mille  Persas  quaerimus. 
Credo  che  nel  256  la  sesta  legione  o  parte  di  essa,  abbia  seguito  la 
spedizione  di  Valeriano.  Si  sa  quali  siano  state  le  vicende  di  questa 
guerra,  e  come,  costretto  l'imperatore  dopo  aver  liberato  Antiochia 
a  tornare  indietro  per  la  comparsa  dei  Goti  nella  Bitinia,  si  sia  pro- 
tratta fino  al  260.  Penso  che  1'  ingresso  di  Aureliano,  ferito,  in  An- 
tiochia coincida  conia  liberazione  della  città  per  le  soldatesche  di  Vale- 
riano. È  noto  quale  sia  poi  stata  l'ultima  fase  di  questa  campagna: 
come  Valeriano  abbia  tentato  di  far  pace  con  Sapore  ed  abbia  spe- 
dito al  re  Persiano  ambasciatori  con  doni  ricchissimi.  Penso  che 
questa  sia  l' ambasciata  alla  quale  partecipò  Aureliano.  Sapore  è 
molto  probabile  che  abbia  ricevuto  i  legati,  e  senza  trattar  con  essi, 
per  mascherare  meglio  il  piano  di  trarre  in  agguato  lo  stesso  impe- 
ratore, li  abbia  rimandati  con  doni  ugualmente  ricchi ,  chiedendo  di 
trattare  con  Valeriano  in  persona.  (Ili  accenni  contenuti  nel  racconto 
vopischiano  appariscono  dunque  fatti  a  questa  spedizione  contro  i  Per- 
siani. In  questo  modo  non  colloca  l'Homo  gli  avvenimenti;  né  poteva 
così  collocarli  avendo  cambiato  la  cronologia  di  essi.  Egli  infatti  ri- 
tiene che  l'ambasciata  d'Aureliano  possa  essere  avvenuta  fra  il  244 
e  il  251,  probabilmente  sotto  Decio.  Ma  di  essa  dubita  assai;  e  come 


1  Prob.  3,  5.  Adulescens  Probus  corporis  riribus  tam  clarus  est  facttis,  ut    Vale- 
riani  iudicio  tribmiatum  prope  inberbis  acciperet.  Cfr.   anche  e.  4  e  4,  3. 

2  Aurei.  5.  3, 


PARTE    I.  DI    UNA    PRETESA    DISFATTA    DEI    FRANCHI.  97 

non  dovrebbe,  dal  momento  che,  errando  la  cronologia  dei  fatti,  tale 
notizia  apparisce  ben  poco  sostenibile  ì  E  per  vero  ,  se  si  vuole  che 
Aureliano  non  possa  nel  256  aver  vinto  come  tribuno  i  Franchi  a  Ma- 
gonza,  poiché  il  titolo  di  restitutor  Galliarum  apparisce  troppo  grande 
per  un  semplice  tribuno,  come  si  può  ritenere  di  poi,  che  con  questo 
grado  sia  andato  ambasciatore  ai  Persiani  e  abbia  ricevuto  doni  che 
sogliono  essere  fatti  agl'imperatori  ?  Non  è  questa  una  contradizione  ? 

Altre  considerazioni  di  minore  importanza  potrebbero  ancora  es- 
ser fatte.  Per  esempio  ,  ponendo  la  vittoria  d'Aureliano  sui  Franchi 
nel  256,  si  viene  a  stabilire  ch'egli,  nato  nel  214,  raggiunse  il  grado 
di  tribuno  verso  il  quarantesimo  anno.  Ciò  che  è  molto  naturale,  se 
si  considera  l'origine  oscurissima  del  futuro  imperatore,  la  quale  non 
potè  permettergli  di  entrare  nell'esercito,  verso  il  234,  che  nella  qua- 
lità di  semplice  soldato.  Ammettendo  la  vittoria  sui  Franchi  fra  il 
242-44,  egli,  che  in  tale  occasione  era  tribuno  ,  avrebbe  fatto,  come 
si  dice,  carriera  così  eccezionalmente  rapida  da  sorprenderci  e  mera- 
vigliarci. L'Homo  il  quale  nota  da  un  lato  clic  «  Page  legai  pour  l'ob- 
tention  du  tribunat  légiannaire  était  trente  ans,  e  riconosce  dall'altro 
che  Aureliano  nacque  il  9  settembre  del  214  ,  afferma  che  «  il  n'  a 
pu  Otre  nomine  tribun  de  legion  avant  les  dernières  anneés  de  Gor- 
dien  III  (vers  242-244),  au  plustot  ».  Ma  dunque  nel  242  egli  non  aveva 
compiuti  i  trent'anni  ,  e  quando  li  compiva  (il  !►  settembre  del  244) 
Gordiano  Terzo  era  già  l  morto  da  parecchi  mesi.  Ed  allora,  mi  servo 
delle  parole  del  Becker  in  opposizione  al  Wietersheim  Philippus  Arabs 
ineunte  imperio  pacem  fecerat  cum  Persis  ita,  ut  Francis  244-240  pro- 
stratis  milites  non  cecinisset:  mille  Persa*  quaerimus. 

Termino  dunque  riassumendo  cosi  :  la  prima  vittoria  di  Roma  sui 
Franchi,  di  cui  si  abbia  vera  e  propria  notizia  non  può  essere  acca- 
duta che  durante  il  regno  di  Valeriano  e  Gallieno,  e  probabilissima- 
mente nel  256  :  contro  tale  data  non  esiste  alcun  vero  argomento  clic 
possa  farci  pensare  per  questo  fatto  al  regno  di  Gordiano,  durante  il 
(piale,  però,  non  si  nega  che  i  Franchi  possano  avere  scorazzato  la  Gallia  2. 


1  Ciò  osservo  all'Homo  che.   per  la  sua  tesi,  si  serve  di   questo  argomento. 

2  Le  monete  descritte  dal  Blauchet  (on.  cit.  rinvenute  nei  territori  che  fu- 
rono teatro  delle  invasioni  de'  Franchi,  non  hanno  importanza  per  la  quistione, 
ne  si  comprende  quale  sia  il  valore  che  ad  esse  attribuisce  1'  Homo  che  le  cita. 
Del  resto  è  bene  avvertire  che  lo  stesso  Blanchot  ,  nella  parte  cronologica  della 
sua  opera,  a  p.  9  ,  si  limita  a  dire  che  -  e' est  probablement  en  241  ,  qu'  Aure- 
licn défit  les  Francs,  prcs  do  Mayence.  » 

Soma. 

Ugo  Giri. 


TRAIANI  DUO 

in  numis  a  Treboniano  restitutis. 


Nella  Sezione  di  Numismatica  del  Congresso  internazionale  di 
Scienze  storiche  adunato  in  Roma  nell'  aprile  del  1005  ,  e  alla  pre- 
senza appunto  dell'  illustre  scienziato  cui  si  dedica  questo  volume, 
chi  scrive  aveva  P  onore  di  svolgere  una  comunicazione  che  qui  per 
sommi  capi   si  riassume  : 

La  notissima  serie  di  denarii  del  III  secolo,  cosidetti  antoniniani,  colla 
effigie  e  il  nome  di  un  imperatore  divinizzato  nel  dritto  (DIVO  AVGVSTO , 
DIVO  VESPASIANO,  DIVO  TITO,  ecc.),  e  col  rovescio  della  CONSECRATIO 
(un'  aquila  od  un'  ara),  dopo  lunghe  discussioni  non  ha  potuto  ancora  ada- 
giarsi in  una  sede  soddisfacente  e  definitiva. 

Gli  scrittori  dei  secoli  XVII  e  XVIII  propendevano  ad  attribuirli  al  re- 
gno di  Gallieno,  e  quest'opinione  fu  seguita  generalmente  anche  dai  tratta- 
tisti e  dai  raccoglitori  del  secolo  XIX  ,  sullo  scorcio  del  quale  tuttavia  co- 
minciò a  prevalere  l'opinione  che  vadano  piuttosto  assegnati  a  Filippo. 

Lo  scopo  di  questa  mia  breve  comunicazione  uon  è  di  esporre  o  va- 
gliare gli  argomenti  che  militano  per  l' una  o  per  l'altra  di  queste  attribu- 
zioni. Ciò  equivarrebbe  al  ripetere  cose  risapute,  e  all'arrogarmi  un'autorità 
cui  non  posso  menomamente  pretendere.  Mio  scopo  è  di  apportare  invece 
una  modesta  pietruzza  all'edificio,  senza  illudermi  di  poterne  coronare  il  fa- 
stigio. 

Gli  antoniuiani  di  cui  parliamo  sono  dedicati  ad  undici  imperatori  : 
Augusto,  Vespasiano,  Tito,  Nerva,  Traiano,  Adriano,  Antonino  Pio,  Marco 
Aurelio,  Commodo,  Settimio  Severo  e  Sev.  Alessandro.  È  soltanto  di  quelli 
di  Traiano  che  intendo  occuparmi. 

Essi  presentano  la  singolarità  che  l'effigie  dell'ini  iteratole  offre  due  tipi 
diversi. 

Il  primo  ha  il  tradizionale  ritratto  di  Traiano  ,  quale  siamo  avvezzi  a 
vederlo  sulle  monete  contemporanee  di  quell'imperatore,  coi  capelli  disposti 
a  larghe  ciocche  arrotondate. 

Nel  secondo  ,  il  busto  di  Traiano  ha  i  capelli  non  disposti  a  ciocche 
ma  uniformemente  tratteggiati,  come  p.  es.  sulle  monete  di  Treboniano  Gallo; 
e  ,  particolare  curioso,  il  ritratto  dell'  imperatore  è  assai  differente,   presen- 


TRAI  ANI   DUO.  99 


tando  un'  altra  fisonomia  caratterizzata  soprattutto  dal  naso  spiccatamente 
aquilino. 

Ebbene,  s'io  non  m'inganno,  qui  ci  troviamo  di  fronte,  non  a  due  tipi 
della  stessa  moneta  ,  ma  a  due  imperatori  diversi  :  —  il  primo  è  veramente 
Traiano;  il  secondo  è  Traiano  Decio. 

In  tal  caso  ,  siccome  Traiauo  Decio  è  il  successore  di  Filippo  ,  queste 
cosidette  «  restituzioni  »  o  «  consecrazioni  »  non  si  possono  evidentemente 
più  attribuire  a  Filippo  ,  ma  si  devono  attribuire  invece  a  qualcuno  dei 
successori  di  Traiano  Decio  ;  senz'  essere  necessario  per  questo  di  scendere 
sino  a  Gallieno. 

Si  ritornerebbe  insomma  ,  per  altra  via  ,  alla  conclusione  formulata  da 
Eckhel,  che  cioè  quella  serie  deva  essere  stata  approssimativamente  emessa 
nel  periodo  tra  Filippo  e  Gallieno. 

E,  se  mi  è  lecito  esprimere  il  mio  avviso  persouale,  pure  per  altra  via 
risalirei  all'ipotesi  del  Pellerin,  che  cioè  appartenga  al  regno  di  Treboniano 
Gallo,  ipotesi  che  quell'autore  sostiene  con  plausibili  ragioni. 

Veramente,  chi  scrive  s'immaginava  allora  che  non  occorressero 
ulteriori  dimostrazioni  per  appoggiar  la  sua  tesi,  fuorché  l'esibizione 
dei  calchi  delle  due  monete;  esibizione  ch'egli  si  affrettò  a  fare,  ot- 
tenendo dagl'  intervenuti  queir  immediato  consenso  che  risulta  da' 
verbali  del  Congresso. 

La  comunicazione  fu  poi  inserita  nella  Rivista  Italiana  di  Nu- 
mismatica i  e  ristampata  negli  Atti  del  Congresso  2  ;  e  se  passò  ge- 
neralmente inosservata,  o  trovò  fors'anche  più  d'un  incredulo  (perchè 
le  riproduzioni  dai  gessi  riuscirono,  a  dir  vero,  assai  confuse),  ebbe 
tuttavia  una  recensione  che  qui  ci  permettiamo  di  riportare,  quantun- 
que troppo  benevola.  La  riportiamo  per  due  motivi  :  anzitutto  per 
che  rinforza  con  un  altro  argomento  quelli  clic  avevamo  addotti  a 
sostegno  della  nostra  tesi,  poi  perchè  accentua  il  modo  più  che  guar- 
dingo in  cui  l'avevamo  enunciata,  com'era  ben  doveroso  in  chi  (pur 
essendo  intimamente  convinto  di  non  aver  torto)  sapeva  di  porre  il 
piede  su  terreno  malfido  e  in  cui  poteva  passare  per  un  intruso.  In- 
fatti, i  precedenti  scientifici  qualsiansi  dello  scrivente  non  compren- 
devano nessuna  indagine  particolare  intorno  alla  monetazione  roma- 
na ;  ed  egli  aveva  poi  il  peccato  originale  di  non  essere  nò  un  ar- 
cheologo uè  uno  storico  ma  un  semplice  numismatico,  e  (quel  eh' è 
peggio)  con  predilezioni   medievalistiche. 


1  Ami»  XVI  (1903),   fase.  II  pag.   193-200,  con  2  fotoincis.  nel  testo. 

2  Voi.    VI,  Atti  della  Sez.  IV:  Xumismatica,  Roma,   1901  pag.  93-99. 


100  S.    AMBROSOLI. 


La  recensione  in  parola  uscì  nel  Bollettino  di  Numismatica  l,  ed 
era  del  tenore  seguente  : 

«  L'a.  con  questo  lavoro  ha  fatto  una  scoperta  che  sarebbe  un 
«  vanto  anche  per  il  più  dotto  specialista  di  numismatica  romana  ; 
«  e  noi  siamo  più  che  convinti  delle  ragioni  che  V  a.  espone  quasi 
«  timidamente,  mentre  avrebbe  potuto  darle  come  un  fatto  assoluta- 
«  mente  certo  e  pel  quale  non  si  possono  fare  obiezioni.  Però  noi, 
«quantunque  non  ce  ne  sia  il  bisogno,  ci  arrischiamo  a  portare  un 
«  altro  argomento  a  sostegno  della  tesi  dell'a.  ;  ed  è  il  fatto  dell'  e- 
«  sistenza  di  una  moneta  di  Augusto  (Cohen  n.  579)  col  diritto  DIVO 
«  AVGVSTO  e  testa  radiata  a  d.  assolutamente  identica  al  tipo  delle 
«consacrazioni  di  cui  tratta  l'a.,  ma  il  cui  rovescio,  anziché  CON- 
«SECRATIO,  è  invece  IVNONI  MARTIALI ,  cioè  quello  comunissimo 
«  di  Treboniano  e  Volusiano.  È  evidente  quindi  che  questa  moneta  è 
«  un  prodotto  dell'ibridismo  causato  dalla  confusione  dei  coni,  il  che 
«  non  poteva  accadere  se  gli  zecchieri  non  avessero  coniato  contem- 
«  poraneamente  le  monete  di  consacrazione  e  quelle  di  Treboniano 
«  Gallo  e  di  Volusiano  2  ». 

Ciononostante,  leggevamo  più  recentemente,  in  altro  periodico  3, 
un  cenno  in  cui  parlando  della  nostra  comunicazione   inserita   negli 

Atti  del  Congresso,  si  diceva  :  « queste  affermazioni  abbisognano 

«  certamente  di  prove  maggiori  prima  d'essere  accettate  ». 

Ebbene,  siamo  lieti  che  qui  ci  si  presenti  l'occasione  di  addurre 
appunto  nuove  prove  a  sostegno ,  non  già  delle  nostre  «  affermazio- 
ni »,  ma  delle  ipotesi  che  molto  guardingamente,  molto  modestamente 
come  si  è  visto,  avevamo  creduto  di  poter  formulare. 

Queste  prove  o  questi  argomenti,  s'intende,  non  devono  tener 
conto  della  diversità  d'effigie,  devono  farne  anzi  completa  astrazione, 
ed  aver  forza  indipendentemente  da  essa. 

Anzitutto  ,  si  è  visto  che  gli  antoniniani  in  discorso  sarebbero 
coniati  in  onore  di  undici  imperatori.  Non  è  strano  questo  numero 
di  undici  ì  Non  si  presenta  spontanea  la  suggestione  che  se  ne  deva 
aggiungere  per  lo  meno  un  altro  e  formare  così  (come  dicevamo  nella 
nostra  succinta  memoria)  una  serie  di  dodici  imperatori  divinizzati4? 


1  Anno  II,  N.  2,  Milano,  febbraio  1904. 

2  Quest'acuta  osservazione,  alla  quale  gli  scrittori  del  Bollettino  sono  giunti 
per  penetrazione  propria,  si  trova  già  nel  Pellerin,  Ilecueil  des  médailles  des  Peuples 
et  des    Villes,  t.  Ili,  Paris,  1743. 

3  Bollettino  della  Società  pavese  di  Storia  patria,  fase,  del  marzo  1905. 

4  «....  una  serie  completa  di  dodici  imperatori  divinizzati,  come  vi  erano  do- 
»  dici  dii  consentes  » , 


TRAIANI   DUO.  101 


Troviamo  adombrato  implicitamente  questo  concetto  anche  in  un 
articolo  assai  importante  del  eli.  Prof.  Kubitschek  dell'Università  di 
Vienna,  intorno  ad  un  ripostiglio  scoperto  cinque  anni  fa  nella  Ser- 
bia, articolo  che  avremo  occasione  di   citare  ancora. 

«  Sembra — egli  scrive  —  che  la  lista  di  codeste  monete  di  con- 
«  sedazione  non  deva  più  accrescersi  ,  o  per  lo  meno  non  deva  ac- 
«  crescersi  notevolmente.  Dei  24  tipi  che  ci  offre  la  serie,  23  erano 
«  già  conosciuti  sin  dal  tempo  di  Eckhel,  anzi  erano  già  rappresen- 
«  tati  prima  del  1743  nella  collezione  dell'Abate  de  Rothelin.  Vi  è 
«  è  quindi  ben  poca  probabilità  di  completare  con  qualche  altro  no- 
«  me  la  lista  dei  divi ,  p.  es.  con  quello  di  Cesare  ,  Claudio  ,  Vero  , 
«  Pertinace,  Caracalla,  Gordiano  o  con  altro  qualsiasi  l  ». 

Infatti,  nella  collezione  dell' Ab.  de  Rothelin  figuravano  già  i  no- 
mi di  tutti  gli  undici  imperatori  dei  quali  si  conoscono  sino  ad  oggi 
gli  antoniniani  di  consecrazione  2.  Un  secolo  e  mezzo  di  ricerche  non 
valsero  ad  aggiungere  un  solo  nome  a  quell'elenco.  Crii  è  che  appunto 
(a  nostro  modo  di  vedere)  si  cercava  troppo  lontano;  e  il  duodecimo 
nome  mancante  era  già  incluso  nell'elenco,  era  quello  cioè  di  Decio, 
nascosto  sotto  l'ingannevole  forma  :   DIVO  TRAIANO. 

L'identità  del  nome  inducendo  in  errore — osservavamo  nella  no- 
stra comunicazione,  —  occultò  sinora  ai  numismatici  la  diversa  indi- 
vidualità dell'imperatore,  che  ai  tardi  nepoti  ha  potuto  sfuggire,  tanto 
più  trattandosi  di  monete  piuttosto  rozzamente  eseguite;  ma  nel  III 
secolo  (cioè  all'epoca  dell'emissione  di  esse)  l'identità  del  nome  non 
poteva  produrre  contusione,  essendo  allora  familiare  a  tutti  il  ritratto 
recente  di  Decio. 

Cosi,  se  oggi  ]>.  es.  un  busto  riproducesse  le  sembianze  del  no- 
stro giovane  Sovrano,  e  recasse  la  semplice  scritta:  Ke  Vittorio)  e 
un  altro,  con  la  medesima  scritta,  raffigurasse  invece  il  defunto  Pa- 
dre della  Patria,  chi  mai  li  confonderebbe  .' 

L'epigrafìa  romana,  d'altronde,  non  ha  esempì  di  nomi  identici 
ad  indicare  personaggi  diversi  .'  Basti  il  ricordare  Caracalla  ed  Elio- 
gabalo. 

Si  potrebbe  forse  obbiettare  che  Traiano  è  un  semplice  cogno- 
me di  Decio,  e  che  la  forma  regolare  della  leggenda  dovrebb'  essere 
piuttosto  :   DIVO  DECIO.  Ma   si  può    rispondere    che    precisamente    e 


1  Knbitschek    (Wilh.)  Ehi  Fund    romischer  Antomnine    au*    Serlien.    In    Numi- 
xmat.  Zeitschrift,  Vienna,   1901,   pag.   191-92. 

2  Vaillant  (Joannes),  Xumismata  Impcratorum  Ilomanorum  praestantiora.   T.  II. 
Komae,   1713  pag.   373-74. 


102  S.    AMBROSOLI. 


soltanto  in  codesti  antoniniani  di  restituzione  abbiamo  anche  un  al- 
tro esempio  di  una  forma  che  si  scosta  dall'uso  ,  cioè  DIVO  MARCO 
per  Marc' Aurelio. 

D'altra  parte,  la  forma  DIVO  TRAIANO,  usata  per  Decio,  lo  as- 
similava al  grande  Traiano  ,  ed  era  quindi  mirabilmente  adatta  per 
una  moneta  onoraria  (tanto  più  ,  diciamo  ,  se  emessa  per  ordine  di 
Treboniano  Gallo;  —  il  motivo  lo  vedremo  in  sèguito). 

Ben  più  grave  sarebbe  1'  obbiezione  che  Traiano  Decio  non  fu 
divinizzato ,  e  che  quindi  non  possa  riferirsi  a  lui  una  moneta  col 
predicato  divo. 

Avevamo  già  tentato  di  prevenire  quest'  obbiezione  col  citare 
Eutropio,  al  dire  del  quale,  Decio  dopo  la  sua  morte  fu  divinizzato, 
sia  poi  solo  od  unitamente  al  tìglio  Erennio  \  È  vero  che  Eckhel 
motteggia  Eutropio  per  la  soverchia  liberalità  nel  concedere  questo 
onore  agl'imperatori  di  cui  narra  le  vite  2;  ma,  dicevamo,  forse  1'  il- 
lustre nummografo  vi  sarà  stato  indotto  dal  non  trovarsi  monete  di 
consecrazione  di  qualche  altro  imperatore  del  quale  pure  Eutropio 
afferma  che  fu  divinizzato.  E  aggiungevamo  che  almeno  per  Decio 
l'informazione  di  Eutropio  ci  sembrava  ricevere  una  conferma  dalla 
numismatica  (ossia  dal  nostro  antoniniano). 

Ma  ora  abbiamo  la  soddisfazione  di  poter  dire  che  l'informazione 
di  Eutropio  è  suffragata  da  un'  altra  testimonianza  e  da  altre  auto- 
rità, di  ben  maggior  momento  delle  povere  nostre  parole. 

Poco  prima  cioè  del  Congresso  di  Roma ,  nel  fase.  2  dell'  anno 
190U  del  Bullettino  di  quell'  Imperiale  Istituto  Archeologico  Germa- 
nico ,  (fascicolo  che  allora  non  avevamo  avuto  occasione  di  consul- 
tare), il  eh.  Prof.  Hiilsen  pubblicava  un'Iscrizione  col  nome  del  Divo 
Decio  3.  E  nel  pubblicarla  osservava  :  «  L'epigrafe  fornisce  l'unica  te- 


1  Eutropius,  breviarium  ab  Urbe  condita  [ed.  Kuehl].  Lips.  1887,  IX,  4  :  «  Cuui 
iniperassent  biennio  ipse  [Decina]  &  nlius  ,  uterque  in  Barbarico  iuterfecti  sunt. 
senior  meruit  iuter  divos  referri». 

2  Eckhel,  Dottrina  numorum  veterum,  Voi.  Vili,  Viudobonae  ,  1798  pag.  463: 
«  Augeri  poterit  numerus  ex  testhnouiis  veterum  aliis,  ac  praecipue  Euoropii,  in 
«conferendo  consecrationis  honore  perquain  liberalis  ». 

Cfr.  anche  Stevenson ,  A  Dictionary  of  Roman  Coins  (London  ,  1889  pagi- 
na 313J  :  «Eutropius,  ever  liberal  in  awardiug  divine  houours  to  priuces,  states, 
«  that  Decius  and  his  sou  (!!?)  were  numbered  ainong  the  gods». 

3  11  Prof.  Hiilsen  aggunge  in  nota:  «  La  moneta  con  consecratio  sul  rovescio- 
«  citata  da  numismatici  antichi  è  dichiarata  falsa  dall'Eckhel,  Doctr.  num.  vet.  , 
«  voi.  VII,  p.  335».  A  questo  proposito  gioverà  notare,  in  primo  luogo  che  Eck- 
hel non  la  dichiara  propriamente  falsa,  ma  la  dice  soltanto  sospetta  («  Leciuiu 
«  fuisse  consecratum,  scripsit  Eutropius,  et  testaretur  etiam  numus  praesens,  nisi 


PARTE   t.  TRAIANI   DUO.  Ì03 

«  stimonianza  contemporanea  per  il  titolo  divus  dato  a  Decio.  Ne  in 
«  iscrizioni  né  sopra  monete  genuine  questo  titolo  è  apparso  ». 

Codesta  importantissima  epigrafe ,  già  conservata  sino  a  pochi 
anni  fa  nella  Villa  Borghese  a  Roma,  poi  acquistata  da  Emilio  Zola 
e  fatta  da  lui  trasportare  a  Parigi,  è  assai  corrosa  e  malconcia,  ma 
il  sig.  Seymour  de  Ricci  dimostro  che  è  dedicata  ai  divi  Decio  ed 
Erennio,   DIVO  DECIO  ET  DIVO  HERENNIO   l. 

Ognun  vede  di  qual  momento  sia  stata  questa  testimonianza,  che 
sfata  (se  non  c'inganniamo)  la  più  temibile  fra  le  eventuali  obiezioni. 

Un  secondo  argomento  sarebbe  fornito  dai  ripostigli  o  tesori  mo- 
netali ;  poiché  p.  es.  in  quello  descritto  dal  Prof.  Kubitschek,  com- 
prendente monete  da  Eliogabalo  ad  Emiliano  (cioè  tutte  anteriori  a 
Gallieno),  si  trovava  un  antoniniano  della  nostra  serie.  «  Basterebbe 
ciò  »  —  nota  il  valente  nummografo  —  «  per  rovesciare  1'  ipotesi  che 
«  queste  monete  di  consecrazione  siano  dei  tempi  di  Gallieno  ,  se  il 
«  loro  aspetto  medesimo  non  contraddicesse  abbastanza  chiaramente 
«  quest'opinione  2  ». 

Un  terzo  argomento  ci  sarebbe  dato  dalla  circostanza  che  gli 
antoniani  con  DIVO  TRAIANO  sono  (a  quanto  sembra)  i  più  comuni 
della  serie.  11  Prof.  Kubitschek  :i  ci  dà  uno  specchietto  degli  esem- 
plari conservati  nel  Museo  di  Vienna,  e  da  esso  risulta  che  quelli  con 
DIVO  TITO  e  quelli  con  DIVO  TRAIANO  si  equilibrano  per  numero; 
ma  avendo  noi  esteso  la  statistica  ad  altre  collezioni  (Brera,  Gnec- 
chi ,  Torino  ,  ecc.) ,  abbiamo  visto  confermarsi  che  quelli  con  DIVO 
TRAIANO  sono  i  più  numerosi  di  tutti,  come  ritenevamo,  e  come  na- 
turalmente si  spiegherebbe  benissimo  se  in  realtà  si  dovessero  sdop- 
piare e  ripartire  fra  Ulpio  Traiano  e  Traiano  Decio. 

Veniamo  ora  all'  ultimo  argomento,  che  solo  in  parte  è  nuovo, 
perchè  sostanzialmente  lo  abbiamo  già  addotto  nella  comunicazione 
al  Congresso. 


«  auspicio  esset  male  sociatae  aversae,  quia  iu  autica  Dici  mentio  abest »)  in  se- 
condo luogo,  che,  a  nostro  sommesso  giudicio,  si  tratta  non  già  di  una  moneta 
falsa  o  sospetta,  bensì  di  un  antouiuiauo  genuino  e  simile  al  nostro,  ma  soltanto 
mal  descritto  nel  catalogo  della  propria  raccolta  comunicato  dal  Conte  Verità  al 
Tanini,  che  ne  accolse  la  descrizione  nel  suo  Supplemento  alla  nota  opera  del 
Band  uri  sulle  monete  imperiali. 

1  Jahceshefle  dea  Oesterreichischen  arcMologischen  Inxtitutes,  Band  V,  Beiblatt, 
pag.  13,  Vienna,  1902.  —  V.  anche  il  Ballettino  testé  citato,  pag.  167,  e  la  Recue  ar- 
ehéologique,  1903,  t.  I,   pag.   331-32. 

2  L.  e,  pag.  191. 

3  L.  e,  pag.  191. 


104  8.  AMBROSOLI.  parte  i. 

Dicevamo  allora  che  l'ipotesi  più  verisimile  ci  sembrava  quella 
del  Pellerin ,  cioè  che  la  nostra  serie  di  antoniniani  enigmatici  ap- 
partenga al  regno  di  Treboniano  Gallo  ,  aggiungendo  che  quell'  au- 
tore la  sostiene  con  plausibili  ragioni  i;  e  che  del  resto  anche  Eck- 
hel  si  accosta  all'opinione  di  lui 2. 

Diremo  ora,  per  rincalzare  l'argomento,  che  l'attribuzione  a  Tre- 
boniano ci  sembra  tanto  più  verisimile,  in  (pianto  che  questi,  a  detta 
di  alcuni  scrittori,  trovandosi  agli  ordini  di  Decio  lo  aveva  tradito  e 
ne  aveva  perfidamente  cagionato  la  morte  3 ,  per  usurpare  1'  impero. 

Dato  questo  precedente,  e  data  l'ipocrisia  di  Treboniano,  ci  sem- 
bra tanto  più  conforme  al  suo  carattere,  che  a  lui  e  non  ad  altri  si 
debba  attribuire  la  coniazione  del  nostro  antoniniano  in  onore  di 
Decio,  il  quale  aveva  pur  dovuto  essere  stato  assunto  fra  gli  Dei  col 
consenso  di  Treboniano  *. 

La  insigne  viltà  di  costui  ci  fa  apparire  assai  probabile  eli' egli 
appunto,  stretto  dalle  supreme  angoscio  fra  le  (piali  si  dibatteva  lo 
impero,  e  oppresso  fors'anche  dai  rimorsi,  tributasse  precisamente  a 
Decio,  per  placarne  l'ombra,  il  postumo  e  sterile  onore  d'includerlo, 
assimilandolo  anzi  al  grande  Traiano  ,  in  questa  serie  monetale  di 
consecrazione,  ch'egli  faceva  emettere  nella,  credenza  superstiziosa  di 
propiziarsi  l'avverso  destino. 


1  Pellerin,  Recueil.  T.  Ili,  pag.  lj  :  «  Qnant  au  motif  qui  pent  avoir  engagé 
«  Trébonien-Galle  à  faire  fabriquer  cette  espèce  de  médailles ,  1'  Histoire  nous 
«  apprend  que  durant  tout  son  règne....  la  peste  qui  avoit  cornmencé  sous  Trajan- 
«  Dece,  ne  cessa  point  eu  Italie,  &  qu'occupé  des  nioyens  de  l'arrèter,  il  employa 
«  entre  autres  celui  des  sacrifices  qu'il  ordonna  dans  toutes  les  provinces  de  l'Em- 
«  pire.  Il  invoqua  tous  les  Dieux  génóralement  ;  de  sorte  qn'  on  peut  jnger  que 
«  régardant  cornine  tels  les  Einperenrs  ses  prédécesseurs  qui  avoient  été  deifica 
«  après  leur  mort  ,  &  voulaut  que  les  peuples  les  invoquasseut  de  meme  ,  il  fit 
«Trapper  pour  cela  ces  módailles  qui  renouvelloient  la  uiómoire  de  leur  consé- 
«  cration  » . 

2  Doctr.  num.  vet.  T.  Vili,  pag.  467  :  «  In  nnmis  iis,  in  quibus  Trebonianus 
«  aut  proximorum  alius  superiorum  principum  eousecrationem  restituit  ». 

3  Zonaras,  XIl,  20,  p.  589.— Cfr.  anche  Zosimo,  I,  23,  Jordan.  Get.  18,  Anr. 
Vict.   Caes.  29,  5. 

4  Tauinius,  Supplementum  ad  Bandurii  numismata  Imperatorum  Eomanorum.  Eo- 
mae  1791  ,  pag.  1  :  «  Decius  ad  ini  peri  uni  evectus  ,  Senatnm  ,  Populuinque  Ro- 
«  manum  in  pristina  iura  restituit  ;  ideoque  Pater  Patriae  merito  appellatus  ,  et 
«  amplissimi  Ordinis  decreto,  adsentiente  Treboniano  Gallo,  apotheosi  donatns  ». 

Milano. 

Solone  Ambrosoli 


TRINAKRIA  -  THRINAKIA. 


Die  Insci  Sizilien  ist  wegen  ihrer  dreieckigen  Gestalt  mit  Becht 
Trinakria  genannt  worden,  wird  aber  mit  Unrecht  aneli  fiir  die  ho- 
meriscbe  Insel  Thrinakia  erklart,  fiir  jenes  von  Odysseus  auf  seiner 
Irrfahrt  besuchte  Eiland ,  auf  dem  die  liinder  des  Ilelios  weideten. 
Demi  @QLvaxCi]  ist  das  Land  des  %-QÌvai, .  der  Heugabel ,  und  mnss 
dalier  eine  gabelformige  Insel  gewesen  sein.  Dass  Sizilien  dieser 
Bedingung  durcliaus  niclit  entspricbt,  liegt  auf  der  II  and.  Wo  hat 
demi  aber  die  boiiieriselie   Insel  Tbrinakia  gelegen  ! 

Wàbrend  die  alten  und  aneli  einige  neuere  Geograpben  Thri- 
nakia in  Sizilien  erkennen  (z.  B.  Strabon  VI  !»().");  V.  Bérard,  Les 
rhéniciens  et  V  Odyssée ,  365  ;  II.  Xissen  Italisclie  Landeslavnde  I,  4, 
Anni.  I)  ,  glauben  Andere  eine  gar  niclit  voiiiandene  gabelformige 
Insel  zwisehen  Italien  und  Sizilien  annehmen  zìi  diirfen  (z.  B.  Fried- 
reicli  ,  Die  Realien  in  der  Iliade  und  der  Odyssec  ,  4(>  ;  E.  Bucliliolz, 
Homerische  Geographie,  2G0).  Nodi  Andere  (so  v.  VVilamowitz,  Homer. 
Untersuchungen ,  108)  denken  an  den  Beloponnes  ,  weil  dieser  in  der 
Tat  ga  bel  torni  ig  ist  und  weil  ani  Tainaron  nach  (lem  Ilyinnus  auf 
Apollon  (v.  411)  Rinder  des  Ilelios  weiden.  Wieder  Andere  (so  v. 
Baer,  Die  homer.  Lolcalitaten,  14)  denken  sugar  an  die  weit  entfernte 
gabelformige  Insci  Imbros.  Endlicli  fehlen  aneli  solelie  Gelelirte  niclit, 
die  jeden  Gedanken  an  cine  virkliohe  Insci  verwerfen  und  Thrinakia 
lediglieli   ins   Fabelland  des   Dicliters   verweisen. 

Gegen  alle  diese  Ldsungen  der  Thrinakia-Frage  erheben  sieli 
niclit  unwesentlielie  Bedenken.  Eine  jetzt  niclit  inehr  voiiiandene 
Insci  zwisehen  Sizilien  und  Italien  anzunehinen  odev  Thrinakia  fiir 
ein  voni  Dichter  frei  erfundenes  Land  /u  erklaren  ,  ist  hoehstens 
dami  gestattet,  wenn  wirklieli  kein  Gabellami  zwisehen  der  Meerenge 
vini  Messina  (der  Skylla  und  Charybdis  Iloiners)  und  Itliaka  vorhan- 
den  wa're.  bml  den  jenseits  von  Itliaka  liegendcn  IVloponnes  odcr 
sugar  die  nodi  weber  nach  Ostcn  entfernte  Insci  Imbros  fiir  das 
gesuchte  Gabellami  zu  halten,  verbietet  die  Riicksicht  auf  den  Lauf 
der  odysseischen   Irrfahrt.  wie   Homer  i lui   schildert. 

Ioli  glaube  indessen,  dass  es  in   der  vcrlangtcn  Gegend  ein  sehr 


106  W.   DÒRPFELD.  PARTE    I. 


gut  passendes  Gabelland  giebt,  und  bitte  uni  die  Erlaubnis  ,  diesen 
neuen  Vorschlag  zur  Losung  der  Thrinakia-Frage  Ilmen ,  verehrter 
Freund,  der  Sie  Ilir  ganzes  Leben  der  Geschichte  und  Kunst  Ihrer 
Heimat  gewidmet  haben,  zur  Priifung  unterbreiten  zu  diirfen  :  Es 
scheint  ìnir ,  dass  der  siidliehe  Teil  von  Italien  init  seinen  beiden 
Halbinseln  jenes  Land  des  Thrinax  ist,  an  deni  Odysseus  auf  seiner 
Irrfahrt  landet. 

Uni  die  fui*  meinen  Vorschlag  sprechenden  Grande  besser  verstand- 
lich  machen  zu  konnen,  muss  ich  zunàchst  den  allgemeinen  Verlauf 
der  Irrfahrt  und  seine  geographisehe  Ansetzung  kurz  besprechen. 

Auf  der  Biickfahrt  von  Troja  nach  Ithaka  koinmt  Odysseus , 
nachdem  er  die  Stadt  Ismaros  in  Thrakien  eingenommen  hat ,  zuerst 
an  den  Peloponnes  ,  den  er  umfahren  muss  ,  uni  zu  seiner  Heimat- 
Insel  zu  gelangen.  Durch  einen  Nordstnrm  wird  er  jedoch  nach  Sii- 
den  verse! ila gen  und  landet  nach  einer  neuntagigeii  Fahrt  bei  den 
Lotophagen,  offenbar  Bewohnern  der  afrikanischen  Kiiste,  wo  Lotos 
noch  beute  wie  im  Altertunie  gegessen  wird.  Weiter  erreicht  er  nach 
kurzer  Fahrt  das  Land  der  Kyklopen ,  das  vvohl  ebenfalls  an  dei* 
Kiiste  Afrikas  gesucht  werden  muss  (vgl.  v.  Wilamowitz ,  Homer. 
UhterSi ,  104).  Von  dort  fahrt  er  zur  Insci  des  Aiolos  ,  deren  Lage 
unbekannt  ist.  Denken  wir  sie  uns  etwa  im  heutigen  Malta,  so  wiir- 
den  wir  verstehen,  wie  Odysseus  in  neuntagiger  Fahrt,  oline  andere 
Lànder  zu  beriihren  ,  in  die  Nane  von  Ithaka  gelangt  und  dami  in 
Folge  des  Ungehorsams  seiner  Gefahrten  von  den  entfesselten  Winden 
wieder  zur  Aiolos-Insel  zuriickgeworfen  wird.  Waren  dagegen  die  Li- 
parischen  Inselli ,  wie  Manche  meinen  ,  das  Land  des  Windgottes, 
so  batte  Odysseus  scbon  auf  diesel*  Fahrt  nach  Ithaka  zweiinal  die 
Skylla  und  Charybdis  passieren  iniissen. 

Auf  der  Weiterfahrt  koinmt  der  Ileld  nach  sechs  Tagen  zu  den 
Laistrygonen  ,  deren  Stadt  Telepylos  scbon  durch  ihren  Namen  als 
cine  sehr  terne  bezeichnet  wird.  Auch  dieses  Volk  haben  wir  in  dem 
Lande  der  Meiischeiifresser ,  in  Afrika  ,  anzunehmen.  Von  den  Lai- 
strygonen vertrieben  ,  rettet  Odysseus  sich  zu  der  nahe  liegenden 
Insel  der  Kirke ,  nach  Aiaia.  Dass  der  Dichter  sich  diese  Insci  ani 
siidlichen  Ende  des  Aithiopenlandes  dachte,  glaube  ich  aus  mehreren 
Grunden  schliessen  zu  diirfen,  die  ich  hier  nur  andeuten  kann.  Auf 
dei*  Insci  der  Kirke  oder  in  ihrer  Nahe  wohnten  auch  Eos  und  Ile- 
lios.  Aiaia  ist  nicht  zu  trennen  von  Aia,  dem  Lande  des  Aietes,  der 
Kirkes  Bruder  war.  Wie  die  Senne  an  jedem  Abend  iiber  den  Westen 
hierher  kommt,  uni  ani  nachsten  Morgen  iiber  den  Osten  wieder  zur 
griechischen  Welt  zu  gelangen,  so  kann  auch  der  Schiffer  iiber  den 


TRIXAKRIA  —  THRINAKIA.  107 


Westen  oder  iiber  den  Osten  Aiaia  erreichen.  Der  ausserste  Westen 
iind  der  ausserste  Osten  stossen  hier  zusammen.  Da  Helios  liier  niclit 
oben  ani  Himmel  erscheint,  sondern  hier  ubernachtet,  so  sagt  Odys- 
seus  mit  Recht  zu  seinen  Gefahrten,  dass  man  hier  niclit  Avisse,  wo 
Osten  und  Westen  sei  oder  avo  Helios  aufgehe  nini  untergehe.  liei 
Aiaia  befindet  sich  ferner  niclit  das  griechische  Meer,  sondern  der 
àTtslQitog  TtóvxoSj  das  endlose  Weltmeer,  der  Okeanos;  iiber  ihn  fahrt 
Odyssens  mit  Nordwind  biniiber ,  uni  zum  Eingang  des  Hades  zu 
gelangen. 

Nach  Angabe  der  Kirke  stehen  dem  Odyssens,  um  von  Aiaia 
in  seine  Ileimat  zu  fahren  ,  ebenfalls  jene  beiden  Wege  der  Sonne 
znr  Verfiigung.  Den  Weg  iiber  den  Osten,  der  durch  die  Plankten 
fiihrte  ,  batte  nur  die  Argo  gemacht  ;  den  andern  Weg ,  der  iiber 
den  Westen  zwischen  der  Skylla  und  der  Charybdis  hindnrch  fiihrte, 
sclilagt  Odyssens  eia.  Dass  unter  dem  letzteren  Weg  die  Meerenge 
von  Messina  zu  versteben  ist,  hat  man  weder  ini  Altertume  nodi 
in  der  Gegenwart  ernstlich  in  Zweifel  gezogen.  Der  ostliche  Weg 
gelit  durch  den  Hellespont,  der  schon  znni  Okeanos  gehort  und  daber 
aneli  àjtSiQcov  lieisst  (II.  I  350  und  XX LV  r>4.">).  Das  Land  der  Kirke 
und  des  Aietes  darf  aber  niclit  etwa  nach  dem  Schwarzen  Meere 
verlegt  werden,  Arie  manche  (lelelirte  nach  dem  Vorgange  der  Alten 
tun.  Honier  Aveiss  davon  nichts.  Krst  die  Jonier  der  spiiteren  Zeit 
babeli  Aia  ani  Schwarzen  Meere  in  Kolcbis  lokalisiert  ,  nicht  aber 
der  Diebter  der  Odyssee  oder  der  des  Argonauten-Liedes.  In  dersel- 
ben  jiingeren  Zeit  sind  auc'li  erst  die  Kimmerier  in  das  Epos  gekom- 
nien  und  in  die  Clegend  des  Hades-Einganges  gesetzt  worden. 

Xachdem  Odyssens  die  gelàhrliche  Durchfahrt  zwisclien  Skylla 
und  Charybdis  unter  (lem  Verluste  einiger  (ietalirten  passiert  hat  , 
koninit  er  znr  Insci  Thrinakia,  wo  die  Rinderlicrden  des  Helios  wci- 
den.  Von  dort  gelangt  er  nach  «leni  einen  Berichte  (Od.  XXIII  333) 
sofort  nach  Ogygia,  wiihrend  er  nach  der  austiihrlicheren  Erzahlung 
(Od.  XII  403)  zuerst  nochmals  zur  Skylla  und  Charybdis  und  erst 
darauf  zur  Insci  der  Kalypso  vcrschlagen  wird.  Von  Ogygia  fahrt  er 
dami  spater  auf  seineni  Flossc  nach  Selleria.  Dies  Land  der  Phaiaken 
haben  die  Alten  einstimniig  in  Kerkyra-Ivorfn  erkannt,  wiilirend  die 
Xeueren  vielfach  andercr  Ansicht  sind.  Mir  scheint  diese  (ilcich- 
setzung  vollkommen  gesichert,  wegen  der  Lago  Kerkyras  gerade  an 
der  Stelle  avo  man  volli  Westen  mieli  Cricchenhind  hiniiberfuhr , 
Avegendes  richtigen  Abstamles  Kerkyras  von  Leukas-Ithaka,  wegen  der 
Xalie  von  Dodona  und  wegen  des  durch  das  Thesprotenland  fiihrenden 
LandAveges  von  Kerkyra  nach  Leukas-Ithaka. 


108  W.    DÒRPFKLD.  PARTE      I. 

Da  ss  Odysseus  nach  der  einen  Erzahlung  nodi  ein  zweites  Mal 
zur  Skylla  und  Charybdis  getrieben  wird  ,  haben  einige  Homerfor- 
scher  aus  verschiedenen  Griinden  fur  einen  spateren  Zusatz  erklàrt 
und  deshalb  gestrichen  (vgl.  E.  Kammer  ,  Die  Einlieit  der  Odyssee , 
548).  Aneli  mir  scheint  dies  schon  deshalb  notwendig ,  weil  sonst 
Odysseus  àuf  dem  Wege  von  Ogygia  naeh  Selleria  noeli  ein  drittes 
Mal  die  Meerenge  batte  passieren  miissen.  Streichen  wir  jedocb  das 
zweite  Abentener  des  Odysseus  an  der  Charybdis,  so  haben  wir  als 
letzte  Stationen  der  ganzen  Irrfahrt  :  1.  die  Skylla  und  Charybdis  , 
2.  Thrinakia,  3.  Ogygia,  4.  Selleria  und  5.  Ithaka. 

Wer  im  Altertum  mit  dem  Segelschiff  vom  Westende  Siziliens 
nach  Griechenland  fahren  wollte,  blieb  zuerst  an  der  Xordkiiste  Si- 
ziliens ,  passierte  die  Meerenge  von  Messina  und  fuhr  dami  an  der 
K liste  des  heutigen  Kalabrien  entlang  bis  an  das  Vorgebirge  von 
Kroton.  Xachdem  er  hier  die  Kiiste  verlassen  hatte  ,  konnte  er  ent- 
weder  quer  iiber  das  Meer  direkt  nach  Kerkyra  zu  gelangen  snehen, 
oder  aber  zunàchst  iiber  den  Colf  von  Tarent  fahren,  um  die  Siid- 
spitze  des  heutigen  Apulien  ,  des  alten  Japygia,  zu  erreiclien  ,  und 
dami  noch  ein  zweites  Mal  das  bobe  Meer  durchkreuzen,  um  naeh 
Kerkyra  zu  gelangen.  Auf  der  weiteren  Fahrt  bis  Ithaka  brandite 
er  die  Kiiste  des  Festhmdes  und  der  Inselli  nicht  inehr  zn  verlassen. 
Zwischen  Sizilien  und  Griechenland  pflegte  also  der  antike  Schiffer 
mir  zwischen  Kroton  und  Kerkyra  die  Kiiste  aus  den  Angeli  zn  ver- 
lieren.  Da  das  japygische  Kap  gerade  die  Mitte  dieser  Fahrt  iiber 
das  offene  Meer  einnahni,  konnte  es  als  der  Mittelpnnkt  des  grossen 
Westmeeres,  als  sein  o^icpalog  bezeichnet  werden. 

Wenn  min  Odysseus  nach  Passiermig  der  Meerenge  von  Messina 
etwa  ani  sudwestlichen  Ende  Italiens  landete  ,  und  scine  Gefàhrten 
hier  die  Kinder  des  Helios  verzehrten  ,  so  wiirdc  cs  sehr  verstand- 
lich  sein,  wenn  er  bei  der  Weiterfahrt  vom  Sturine  iiberrascht  und 
naeh  dem  Mntergange  seines  Schiffcs  zuni  Kap  von  Japygia  ver- 
sclilagen  worden  ware;  von  dort  batte  er  dann  spater  iiber  das  adda- 
tisene Meer  nach  Kerkyra  hiniiberfahren  miissen.  Falls  bei  dem  Vor- 
gebirge von  Japygia  die  homerische  Insel  Ogygia  angesetzt  werden 
diirfte  ,  und  falls  ferner  die  siidwestliclic  Ilalbinscl  Italiens  zar  h<>- 
merischen  Insel  Trinakia  gehorcn  konnte,  wiirden  oifenbar  alle  jenc 
fiinf  letzten  Stationen  der  Irrfahrt  in  der  einfachsten  und  besten 
Weise  geographisch  untergebracht  sein. 

Sprachlich  ist  &Qivaztrj ,  wie  wir  schon  sahen ,  das  Land  des 
d-QLvaè,,  eiiier  beim  Gctreide  und  Heu  benutzten  hòlzernen  Gabcl,  die 
im  Altertum  und  beute  nur  zwei  oder  drei  Zinken  hat.  Giebt  es  nun; 


TRINAKRIA  —  THRINAKIA.  109 


so  diirfen  wir  fragen,  westlich  von  Kerkyra  ein  Land,  <las  niehr  die- 
sen  Namen  verdient ,  als  der  siidliche  Teil  von  Italien  niit  seinen 
beiden  Halbinseln?  Der  Grand,  Avarimi  die  Homerforscher  beim  Su- 
chen  nach  Thrinakia  an  dieses  ausgesprochene  Gabelland  niclit  ge- 
daclit  haben,  liegt  wohl-nicht  in  deni  Umstande ,  dass  es  nur  zwei 
vorspringende  Halbinseln  liat,  demi  man  wusste  gewiss,  dass  die  Heu- 
gabel  oft  nur  zwei  Zinken  hat.  Vielmelir  schliesst  man  wohl  haupt- 
siiehlieh  deshalb  Italien  ganz  aus,  weil  es  eine  Halbinsel  ist ,  wah- 
rend  Thrinakia  nach  Homer  eine  Insel  sein  muss.  Dazu  kommt 
vielleieht  noch  das  andere  Bedenken  ,  dass  Thrinakia  nicht  an  der 
italischen  Kiiste  liegen  diirfe,  weil  die  Insel  der  Kirke  vielfach  eben- 
falls  in  oder  bei  Italien  angesetzt  wird  (so  V.  Bérard,  Les  Phéniciens 
et  VOdyssée  II  2C7).  Da  Homer  sich  die  Insel  der  Kirke  meines  Er- 
aehtens  an  der  afrikanischen  Kiiste  denkt ,  so  musste  Odysseus  anf 
seiner  Heimfahrt  an  der  Xordkiiste  von  Sizilien  entlang  fahren,  nnd 
gelangte  erst  nach  der  Skylla  nnd  Charybdis  an  die  italische  Kiiste. 
Aber  aneli  das  erste  wichtigste  Bedenken  liisst  sieh  unschwer  wi- 
derlegen  :  Italien  war  tur  Homer  cine  Insel  ;  das  adri.atische  Meer 
war  ihm  nodi  nicht  als  geschlossen  bekannt.  Wie  sein  Weltbild  ini 
Westen  iiber  Sizilien  nicht  hinausging,  so  wusste  er  aneli  im  Xorden 
niehts  von  dein  Zusammenhange  von  Italien  nnd  Griechenland.  In 
Bezug  anf  das  Weltbild  des  Diehters  mag  hier  nur  angedeutet  wer- 
den  ,  dass  tur  Homer  nnd  seine  Zeitgenossen  die  tqoxuC  der  Sonne 
nachweisbar  hinter  Sizilien  lagen;  dort  war  die  Stelle,  wo  die  Sonne 
auf  ilirein  Tageslaufe  sieh  wendete,  uni  nach  Vollendung  ilirer  Himmels- 
bahn  an  (leni  westlichen  Aithiopenlande  entlang  nach  Aiaia  zu  ge- 
langen.  Die  entsprechende  Wendestelle  ini  Osten  lag  hinter  den 
Bergen  der  Solymer,  wo  die  Sonne  ani  Morgen,  nachdem  sic  an  den 
ostlichen  Aithiopen  vorbeigezogen  war .  cine  Wendung  niaehte  ,  uni 
ani  Hinimelsgewòlbe  hinaufzusteigen.  Wir  brauchen  also,  uni  das  siid- 
liche Italien  tur  die  Zeit  Homers  als  Insci  <les  Weltmeeres  nach- 
zuweiscn,  nicht  cinnial  zu  der  Annalinie  eincs  ungenauen  Sprachge- 
brauches  unsere  Zuflucht  zu  nehnien  nnd  daran  zu  erinnern  ,  dass 
die  Alten  zuweilcn  Halbinseln  als  Inselli  bezeichnet  haben.  Ich  sehe 
demnach  kein  Hindernis  niehr  .  in  Sud-Italien  die  homerisehe  Insci 
Thrinakia   zu  erkenncn. 

Wo  liegt  nur  aber  Ogygia  ?  Haben  wir  irgend  ein  Recht,  diese 
Insel  der  Kalypso  als  einen  Teil  unserer  Insci  Thrinakia  anzunehmen 
und  in  ihrcni  siidòstlichen  Torgebirge  Japygia  zu  erkennen  ?  Schon 
v.  Wilamowitz  {Hom.  Untersuchungen ,  Hi)  hat  darauf  hingewiesen , 
dass  djyvytog  urspriinglich  ein  Adjectiv  ist  und  cincin  ùxsàvios  ent- 


110  W.    DÒRPFKLD. 


spricht.  Die  vrjtiog  òyvyCrj  (Od.  VI  172),  auf  der  die  vom  Dichter  er- 
fundene  Nymphe  Kalypso  den  Odysseus  zuriickhalt,  niuss  also  in  den 
Augen  des  Dichters  irgend  eine  Insel  des  grossen  Weltmeeres  ge- 
wesen  sein.  Und  eine  solche  war  anch  misere  Insci  Thrinakia  (Rom. 
Unters.  166).  Sprachlich  stelit  also  nichts  im-Wege,  wenn  wir  nns  die 
Insel  Ogygia  als  einen  Teil  von  Thrinakia  denken.  Wenn  wir  uns 
nnn  erinnern ,  dass  Japygia  gerade  in  der  Mitte  zwischen  der  siid- 
westlichen  Halbinsel  Italiens  und  der  Insel  Kerkyra  liegt  und  also 
ebenso  wie  die  Insel  der  Kalypso  den  Omphalos  des  westlichen  Meeres 
bildet ,  so  gewinnen  wir  eine  willkommene  Bestàtigung  fiir  misere 
Vermutung ,  dass  das  spatere  Japygia  und  das  homerische  Ogygia 
identiscli  sind. 

Aber  bald  steigt  ein  ernstes  Bedenken  bei  uns  auf.  Der  Dichter 
denkt  sich  Ogygia  offenbar  vici  weiter  von  Selleria  entfernt  als  der 
Abstand  Japygias  von  Kerkyra  betràgt.  Denn  Odysseus  fahrt  volle 
17  Tage  auf  seinem  Flosse,  uni  von  Ogygia  in  die  Nahe  des  Phaia- 
kenlandes  zu  gelangen  ,  wahrend  er  von  Japygia  in  einer  einzigen 
Xacht  nach  Kerkyra  batte  hiniiberfahren  konnen.  Wir  brauehen  uns 
aber  durch  die  17  Tage  ,  obwoM  sie  mehrmals  in  der  Odyssee  er- 
wabnt  werden,  niebt  irre  machen  zu  lassen.  Sobald  wir  die  ubrigen 
Angaben  des  Dichters  iiber  die  Flossfahrt  des  Odysseus  genauer 
betrachten ,  erkennen  wir  bald  ,  dass  es  sich  in  der  urspriinglichen 
Dichtung  unmoglich  uni  so  vide  Tage,  sondern  nur  um  eine  einzige 
Xachtfahrt  gehandelt  haben  kann.  Die  17  Tage  der  Flossfahrt  und 
die  3  Tage  des  Schiffbruchcs  waren  ursprunglich  nur  eine  Xacht  und 
ein  Tag. 

Erstens  ist  schon  Manchem  aufgefallen ,  dass  der  Dichter  den 
Odysseus  die  lange  Fahrt  iiber  das  grosse  Meer  auf  cincin  einfachen 
Flosse  ausfuhrcn  lasst.  Man  hat  deshalb  niehrere  Vorschlàge  ge- 
maeht,  das  Floss  trotz  der  genauen  Angaben  des  Dichters  zu  cincin 
seetuchtigen  Schiffe  unizugcstalten.  Aneli  niuss  man  sich  dariiber 
wundern,  dass  die  Nymplie  dem  Helden  fiir  die  lange  lieisc  so  wenig 
zum  Essen  und  Trinkcn  mitgiebt.  In  cincin  ganz  anderen  Lichte 
ersclicinen  beide  Tatsachen,  wenn  die  Fahrt  nur  cine  einzige  Xaclit 
dancrt  ;  sowohl  das  einfache  Floss,  als  aneli  die  geringe  Mengc  der 
Xahrung  sind  dami  vcrstandlich. 

Zweitens  batte  eine  Insel,  die  wegen  der  17tagigen  Entfernung 
von  Selleria  ani  ausssersten  Rande  der  Erde  gesucht  werden  niuss  , 
nicht  als  Omphalos  des  Meeres  bezeichnet  werden  diirfen.  Meines 
Erachtens  ist  ,  was  ich  hier  freilich  nur  behanpten  ,  nicht  aber  be- 
weisen  kann,  auf  der  honierischen  Weltkarte  fiir  eine  so  lange  Fahrt 


PARTE   I.  TRINAKRIA  —  THRINAKIA.  Ili 

von  Selleria  nacli  Westen  gar  kein  Platz.  Fiir  unser  Ogygia  passt 
dagegen  der  Xame  Omphalos  des  Meeres,  wie  wir  oben  schon  salien, 
ganz  vorziiglich.  Japygia  ist  nur  etwas  iiber  100  Kilometer  sowohl 
von  dem  Vorgebirge  bei  Kroton  ,  als  aneli  von  der  Insel  Kerkyra 
entfernt ,  nnd  jede  Fahrt  liisst  sich  daher  bei  gutem  Winde  gerade 
in  einer  Nacht  ausfuhren ,  denn  Herodot  (IV  SO)  reclmet  fiir  die 
Xachtfahrt  eines  Segelschiifes  600  Stadien  oder  rnnd  100  Kilometer. 

Drittens  wird  vom  Dicliter  ausdriicklich  geschildert,  dass  Odys- 
sens  auf  der  ganzen  Fahrt  die  Augen  niclit  schliesst ,  sondern  anf 
Geheiss  der  Kalypso  bestàndig  nacli  den  Sternen  sieht  nnd  die  Nord- 
sterne  znr  Linken  liat.  Zeigt  das  niclit  sonnenklar,  dass  der  Dichter 
unmoglich  an  eine  ITtagige  Fahrt ,  sondern  nur  an  eine  einzige 
Nachtfahrt  gedacht  hat  ?  Abends  fahrt  Odyssens  von  Ogygia  ab  nnd 
niorgens  friih  ist  er  schon  in  der  Xahe  der  Phaiaken-Insel  angekom- 
nien.  Dort  erblickt  ihn  Poseidon,  der  niclit  mehrere  Wochen,  sondern 
nnr  einige  Tage  bei  den  Aithiopen  geweilt  batte  ,  nnd  zertriinimert 
sein  Floss.  Xoch  am  Abende  desselben  Tages  landet  Odyssens  mit 
Athenas  Hiilfe  am  Strande  von  Selleria. 

Einen  vierten  Beweis  dafur,  dass  der  Dichter  sieh  Ogygia  nicht 
am  Ende  der  Welt ,  sondern  nicht  ferii  von  Ithaka  dachte  ,  liefert 
nns  ferner  die  Weissagnng  des  Halitherses  (Od.  II  165).  Xoch  voi- 
des  Telemachos  Abreise  nach  Pylos,  als  Odyssens  nodi  in  Ogygia 
weilt,  verkiindet  nns  der  Dichter  durch  den  Mund  des  Sehers,  dass 
Odyssens  schon  seiner  lleimat  nahe  ist.  Liegt  Ogygia  am  Ende  der 
Welt,  so  ist  die  Weissagnng  falsch;  liegt  die  Insel  der  Kalypso  aber, 
wie  wir  sahen,  an  der  siidostlichen  Spitze  Italiens  ,  so  ist  Odyssens 
nnr  eine  24stiindige  Fahrt  von  seiner  lleimat  entfernt  ,  nnd  die 
Weissagnng  trifft  wortlich  zìi. 

Einen  fiinften  Beweis  kann  ich  liier  nur  knrz  andeuten,  obwolil 
er  mir  eine  grosse,  ja  ansschlaggebende  Kraft  zu  haben  scheint.  Der 
jetzige  Tageplan  der  Odyssee  bietet  eine  bekannte,  aber  bisher  niclit 
geniigend  erklarte  Schwierigkeit.  Telemachos  niuss  mieli  dem  jetzigen 
Epos  30  oder  .*»L  Tage  in  Sparta  bleiben,  damit  Odyssens  unterdessen 
die  weite  Keise  von  Ogygia  nach  Selleria  nnd  Ithaka  maclien  mal 
gleichwolil  nodi  vor  der  Itiickkehr  des  Telemachos  in  seiner  lleimat 
eintrelfen  kann;  in  der  Diclitung  selbst  ist  aber  mit  keinem  Worte 
ehi  so  langer  Anfentlialt  in  Sparta  angegeben  oder  aneli  nur  ange- 
deutet  (vgl.  Hennings,  Homers  Odyssee,  141).  Ini  Gegenteil  wird  direkt 
nnd  indirekt  ansgesprochen,  <lass  Telemaehos  nur  ganz  knrz  in  Sparta 
verbleibt,  meines  Krachtens  nur  cine  Nadir.  Wenn  wir  min  aber  mieli 
den  Angaben  des  Epos  den  Tageplan  fiir  den  Telemachos  alleili  auf- 


112  W.    DÒRPFELD. 


stellon  und  ilm  dann  mit  dem  Tageplan  des  Odysseus  vergleichen, 
so  zeigt  sich  zu  unserm  Erstaunen  eine  vollkommene  TJebereinstim- 
mung  beider,  sobald  wir  erstens  die  Sendung  der  Athena  nach  Ithaka 
und  des  Hermes  nach  Ogygia  als  zwei  gleichzeitige  parallele  Hand- 
lungen  auffassen,  und  zweitens  die  Herstellung  des  Flosses  und  die 
Fahrt  nacli  Selleria  als  die  Handlungen  von  nur  zwei  Tagen  und 
einer  Xacht  erkennen.  Dass  das  Erstere  aus  melireren  Griinden  not- 
wendig  ist ,  hofte  ich  an  anderer  Stelle  zu  zeigen  ;  fiir  das  Zweite 
haben  wir  oben  selion  mehrere  Griinde  kennen  gelernt.  Es  sind  spii- 
tere  Verànderungen  des  Gedichtes ,  durch  die  sein  urspriingliclier 
Pian  gestort  worden  ist.  Wodurch  diese  Storung  veranlasst  ist,  kann 
hier  nicht  untersuelit  werden.  Streichen  wir  die  entstellenden  Zusatze, 
so  ergiebt  sich  ehi  urspriingliches  Gedieht  von  eineni  so  einheit- 
lichen  und  so  kunstvoll  ausgedachten  Piane,  dass  mir  jeder  Gedanke 
an  Zufall  vollstiindig  ausgeschlossen  zu  sein  scheint.  l>ies  alte  Ge- 
dieht umfasst  die  Telemachie  und  den  Freiermord  und  hat  einen 
genau  durchgeftihrten  und  bewundernswerten  Pian  von  nur  10  Tagen. 
Er  beginnt  mit  der  Gotterversammlung  und  endet  mit  der  Vereini- 
gung  der  so  viele  Jahre  getrennten  Ehegatten.  Die  Irrfahrten,  wel- 
che  Odysseus  am  zweiten  Abende  seines  Aufenthaltes  bei  den  Phai- 
aken  erzahlt ,  schei  den  als  besonderes  Gedieht  aus  ,  das  erst  spater 
mit  dem  Gedichte  von  der  Heimkehr  verbunden  worden  ist. 

Haben  wir  so  bewiesen,  dass  die  Fahrt  des  Odysseus  von  Ogygia 
nach  Selleria  urspriinglieli  nur  eine  einzige  Xaeht  dauert,  so  haben 
wir  darin  die  sehonste  Bestàtignng  tur  unsere  These  gewonnen,  dass 
Ogygia  an  dem  sudostlichen  Yorgebirge  Italiens  anzusetzen  ist  und 
einen  Teil  des  Gabellandes  Thrinakia  gebildet  hat. 

Wie  in  dem  Gedieht  der  Irrfahrten  die  Insel  Thrinakia  die 
letzte  Station  ist ,  die  Odysseus  bei  seiner  Fahrt  nach  dem  fernen 
Westen  beriihrt  und  mit  der  die  eigentliche  Irrfahrt  absehliesst ,  so 
ist  sie  auch  die  erste  Station  in  dem  Gedichte  der  Heimkehr ,  das 
mit  dem  Aufenthalt  des  Helden  bei  der  Kalypso,  also  nodi  jenseits 
des  grossen  Meeres  beginnt.  Mit  der  Ueberfahrt  nach  Selleria  gelangt 
Odysseus  in  die  heimischen  Gegenden  und  wird  von  dort  in  einer 
Nacht  in  sein  Vaterland  gebraeht. 

Athen. 

Wilhelm  Dorpfeld. 


UN  NUOVO  BRONZO  QUADRILATERO. 


Sono  orinai  molti  anni  die.  nessun  nuovo  bronzo  quadrilatero 
viene  in  luce.  Ai  tipi  che  erano  noti  allorché  si  facevano  le  prime 
pubblicazioni  speciali  sulle  monete  primitive  italiche,  nessuno  ne  ag- 
giunsero i  successivi  ritrovamenti  e  anche  il  ripostiglio  tanto  copioso 
della  Bruna  non  conteneva  che  tipi  già  noti. 

Eiesce  quindi  tanto  più.  interessante  il  pezzo  che  ho  l'onore  di 
comunicare,  il  quale  offre  due  tipi  affatto  nuovi.  Dell'occasione  appro- 
fitto con  piacere  per  portare  il  mio  modesto  contributo  alle  onoranze 
votate  ad  uno  dei  gloriosi  veterani  della  scienza  numismatico-archeo- 
logica in  Italia  ,  e  ne  approfitto  tanto  più  volentieri  inquantochè  il 
cimelio  tocca  tanto  il  campo  numismatico  quanto  archeologico. 

Il  bronzo  mi  provenne  da  un  ritrovamento  fatto  or  son  pochi  mesi, 
sulle  rive  del  Conca  presso  Rimini,  e  pare  che  ,  quale  aes  signatum, 
fosse  solo  o  quasi  solo  nell'  accompagnamento  di  alcuni  assi,  un  du- 
pondio  e  due  tripondii,  in  un  piccolo  ripostiglio  di  aes  rude,  che  si 
può  ritenere  fosse  una  stipe  sacra.  Porta  da  un  lato  la  prora  di  nave, 
dall'altra  un  vaso  da  sacrificio  o  prefericolo,  due  tipi  non  mai  veduti 
in  questo  genere  di  pezzi;  mentre  però  la  prima  è  la  più  comune,  al 
punto  d'essere  generale,  sulla  monetazione  lenticolare  e  anche  su  tutta 
la  successiva  monetazione  repubblicana  di  bronzo,  la  seconda  è  affatto 
nuova  nel  bronzo  italico. 

Il  peso  è  di  gr.  1810  ,  di  qualche  cosa  superiore  a  tutti  quelli 
del  ripostiglio  della  Bruna,  dei  quali  il  più  pesante  raggiungeva  solo 
gr.  1880.50.  La  modellatura  è  forte  e  sicura  ,  precisamente  come  si 
riscontra  negli  altri  pezzi  di  bronzo,  sia  quadrilateri,  sia  lenticolari; 
la  conservazione  è  eccellente  al  punto  da  far  ritenere  che  non  abbia 
mai  avuto  circolazione.  Lo  ricopre  una  bella  ossidazione  verde  chiara 
e  il  metallo  appare,  come  nei  pezzi  consimili,  di  un  bel  color  d'oro, 
come  si  può  vedere  da  Tina  leggera  scalfitimi  praticatavi  da  chi  l'ebbe 
in  mano  prima  di  me. 

Fatta  così  sommariamente  la  presentazione  del  pezzo,  completata 
dalla  unita  riproduzione  (tìgg.  10  e  20),  resterebbe  la  parte  più  importante, 
ossia  le  indagini  scientifiche,  la  determinazione  dell'epoca  dell'emissione 


Fig-  19.  —  Bronzo  quadrilatero.  _^ , 


Fig.  20.  —  Bronzo  quadrilatero. 


116  P.    GNECCHI.  PARTE   I. 

— la  quale,  stando  al  peso,  dovrebbe  assegnarsi  a  circa  la  metà  del  5° 
secolo  a.  C.  —  l'interpretazione  del  significato  dei  tipi  e  così  via.  Ma, 
lasciando  che  altri  di  me  più  erudito  in  materia  —  e  non  ne  mancano 
in  Italia  e  fuori  —  si  occupi  di  ciò  specificatamente  ,  per  parte  mia 
mi  limiterò  a  qualche  semplice  e  generica  osservazione  che  mi  viene 
suggerita  dalla  spezzatura  e  dai  tipi  rappresentati. 

Il  fatto  della  spezzatura  del  quadrilatero,  avvenuta  certamente 
in  antico,  come  lo  dimostra  1'  ossidazione  eguale  nella  rottura  come 
in  ogni  altra  parte,  mentre  certamente  è  a  deplorarsi,  ha  però  il  suo 
lato  buono,  presentandoci  il  fatto  unico  di  un  pezzo  frantumato  di 
cui  si  hanno  tutti  i  frammenti.  È  evidente  che  il  pezzo  venne  fuso 
intero  e  spezzato  poi.  E  questa  osservazione,  che  alle  prime  può  sem- 
brare ingenua,  ha  la  sua  importanza  in  questo  che  l'opinione  di  molti 
era  che  i  mezzi  quadrilateri  fossero  così  fusi  in  origine  e  non  fran- 
tumati posteriormente ,  opinione  che  espressi  io  pure  nel  mio  Ma- 
nuale (pag.  130).  Or  bene  tale  ipotesi  cade,  o  per  lo  meno  cade  in 
certi  casi.  Ammettendo  pure  che  la  fusione  dei  mezzi  quadrilateri  fosse 
realmente  avvenuta,  certo  non  lo  fu  nel  caso  presente,  ove  abbiamo 
la  sicurezza  che  il  pezzo  venne  spezzato  nella  stipe ,  sia  cadendovi, 
sia  per  un  colpo  ricevuto  da  altro  pezzo  gettatovi  posteriormente, 
come  ne  siamo  assicurati  anche  dall'ammaccatura  ancora  visibile  nel 
punto  più  rilevato  del  prefericolo  vicino  all'attacco  inferiore  dell'ansa. 

Questo  fatto  prova  che  tali  pezzi,  data  la  qualità  del  metallo  e 
l'intima  sua  costituzione  acquistata  per  la  fusione,  potevano  spezzarsi 
anche  con  un  colpo  non  molto  forte  ,  mentre  molti  ,  e  io  fra  questi, 
pensavano  il  contrario.  E  prova  quindi  che  dei  frammenti  esistenti, 
se  alcuni  si  può  ammettere  che  fossero  così  fusi  in  origine,  altri  pos- 
sono invece  essere  stati  così  ridotti  in  seguito,  senza  che  sia  rimasta 
una  traccia  troppo  visibile  del  colpo;  la  quale  traccia  può  anche  es- 
sere stata  in  seguito  mascherata  e  quasi  rimarginata  sia  dalla  circo- 
lazione, sia  dalla  ossidazione. 

Venendo  ora  ai  tipi,  quello  della  nave  così  proprio  nella  tradi- 
zione romana  mi  pare  possa  fare  attribuire  il  pezzo  a  Soma  o  per 
lo  meno  al  Lazio  ;  mentre  quello  del  vaso  da  sacrificio,  unito  alla 
forma  solita  del  ritrovamento  che  è  quella  di  stipe  sacra  ,  avvalora 
l'opinione  che  questi  pezzi  quadrilatari,  non  essendo  moneta  ufficiale, 
perchè  mancanti  dell'  impronta  della  divinità  ,  fossero  veramente  in 
origine  —  e  senza  pregiudizio  della  loro  eventuale  circolazione  come 
moneta  o  meglio  come  bronzo-valore — apprestati  quali  monete  votive. 

Una  delle  forti  opposizioni  a  ritenerli  tali  era  quella  dell'essere 
questi  pezzi  più    pesanti    della    moneta  corrente.  A   me    sembra   che 


PARTE    I.  UN   NUOVO   BRONZO    QUADRILATERO.  11Ì 

questa  potrebbe  invece  essere  una  prova.  È  destino  di  tutto  le  umane 
istituzioni  di  nascere  grandi  e  di  rimpicciolire  poco  a  poco.  E  ,  per 
non  uscire  dal  nostro  ordine  d'idee,  questo  è  un  fatto  costante  nella 
monetazione  di  tutti  i  tempi  e  di  tutti  i  paesi,  prova  ne  è  l'asse  ro- 
mano, il  denaro  medioevale,  la  lira  dei  tempi  moderni. 

Nei  tempi  remoti  quando  la  fede  nella  divinità  era  forte,  schietta 
entusiastica,  quale  si  addice  a  un  popolo  nuovo  era  troppo  naturale  che 
questa  fosse  considerata  al  di  sopra  d'ogni  cosa  terrena.  Alla  divinità 
si  sacrificavano  le  vittime  più  belle,  i  bovi  più  grossi,  le  pecore  migliori. 
Non  era  naturale  che  per  la  divinità  si  apprestassero  anche  pezzi 
in  metallo  più  pesanti  delle  monete  in  corso  'ì — A  poco  a  poco  tutto 
degenera,  tutto  traligna,  il  primitivo  entusiasmo  affievolisce ,  la  face 
della  civiltà  subentra  a  quella  della  fede  primitiva  e,  sotto  il  domi- 
nio d'una  religiosità  più  calma,  si  credono  sufficienti  anche  per  la  di- 
vinità le  monete  comuni.  Ne  questo  basta,  è  fatale  che  si  percorra 
la  scala  discendente  e  la  degradazione  arriva  fino  al  punto  di  appre- 
stare appositamonte  per  lo  scopo  ....  le  monete  di  stagno!  l. 

Il  fenomeno  non  sarebbe  stato  diverso  di  molti  altri. 


1  V.  Appunti  di  Numismatica  Romana  N.  LXVTII  in  Rivista    Italiana    di    Nu- 
mismatica, 1905. 

Milano. 

Francesco  Gnecchi. 


U ALLEGORIA  DELLA  PRI/AA  ECLOGA  DI  VERGILIO 

SECONDO  GLI  ANTICHI  COMENTATORI  l. 


Sull'origine  dei  comenti  allegorici  Yergiliani  il  Riese  nella  sua 
nota  dissertazione:  De  commentario  Vergiliano  qui  M.  Valeri  Probi 
dicltur,  Bonnae,  senza  data,  p.  15-10,  così  scrive:  «  Postea  vero  quo 
magi»  ab  illorum  aetate  recederent  et  vivida  antiquitatis  imago  extin- 
gueretur,  studiorumque  simili  et  doctrinae  fines  paullatim  coarctaren- 
tur,  satis  erat  grammaticis  ut  illuni  tamqiiam  divino  quodam  spiriti! 
praeditum  venerarentur  atque  a  libero  iudicio  prorsus  abstinerent, 
qua  de  eausa  Vergili  potissimum  inepta  quaedam  atque  etiam  allegorica 
Inter pretatio...  in  usum  venit».  Questa  osservazione,  molto  generale, 
che  può  esser  fatta  a  proposito  di  qualsiasi  altro  comento  allegorico, 
di  cui  gli  antichi  grammatici  ci  lasciarono  esempi  non  scarsi  e  molto 
curiosi,  per  i  conienti  alle  Bucoliche  certamente  non  basta,  come  quella 
che  contiene  una  sola  parte  di  vero,  che  poi  non  è  la  più  importante. 


1  II  presente  lavoro  è  una  breve  parte  di  uno  studio  sistematico  sull'antica 
critica  alle  opere  di  Vergilio.  Che  uno  studio  siffatto,  se  compiuto  e  ben  condotto, 
avrebbe  importanza,  non  solo  come  contributo  alla  determinazione  dei  canoni  del- 
l'antica critica,  ma  anche  come  valido  aiuto  all'  interpretazione  dei  carmi  vergi- 
liani  e,  in  specie,  alla  valutazione  del  loro  valore  allegorico,  è  del  tutto  evidente. 
Il  trascurare  di  risalire  ai  comentatori  antichi,  deve  inevitabilmente  condurre  a 
risultati,  che  non  potrebbero  sempre  accettarsi.  Eppure  generalmente  di  questo 
principio  metodologico  non  si   tiene  abbastanza  conto. 

Ci  sono  stati  utili  nella  nostra  ricerca:  Suringar,  Historia  critica  schol.  lai.  Lug. 
Bat.  1834-35;  O.  Ribbeck.  Prolegomena  critica  ad  V.  Mar.  opera  malora,  Lips.  1866; 
Cartault,  Étude  s.  les  Bucoliq.  de  V.,  Paris  1897;  Comparetti,  Virgilio  nel  medio  eco, 
Firenze  1896;  Nicola  Terzaghi,  Vallegoria  nelle  E  ci.  di  Vergilio,  Firenze  1902;  tutte 
le  edizioni  e  i  comenti,  ciascuno  a  suo  luogo  citati.  Poco  invece  ,  nonostante  il 
titolo  promettente,  ci  ha  soccorso  il  lavoro  del  Georgii,  Die  antike  Vergilkritik  in 
den  Buie.  u.  Georg.,  nel  Philologus,  Supplementband,  IX,  Heft  2,  Leipzig  1902, 
che  si  riannoda  all'  altro  studio  dello  stesso  A.  ,  Die  antike  Aeneiskritik  aus  den 
Scholien  u.  anderen   Quellen,  Stuttgart  1891. 


PARTE   I.  L'ALLEGORIA   DELLA    PRIMA    ECLOGA   DI   VERGILIO.  119 

Per  spiegarci  in  modo  razionale  la  causa  dell'esagerata  interpre- 
tazione allegorica,  che  riscontriamo  talvolta  anche  in  scrittori  molto 
moderati  come  in  Macrobio ,  secondo  noi ,  e  di  capitale  importanza 
fare  attenzione  alla  prima  ecloga  e  rilevare  che  vi  si  contengono  al- 
lusioni a  fatti  occorsi  al  Poeta.  In  essa  infatti  gli  accenni  alla  divi- 
sione dei  campi  sono  così  manifesti  che,  anche  senza  l'aiuto  dei  com- 
mentatori antichi ,  s' intenderebbero  da  sé ,  forse  anzi  con  maggiore 
chiarezza. 

Che  proprio  la  prima  ecloga  sia  di  natura  evidentemente  alle- 
gorica è  di  grande  importanza  per  determinare  l'origine  dell'interpre- 
tazione ugualmente  allegorica  delle  altre  ecloghe.  E  qui  è  da  rilevare 
che  una  questione  cronologica,  come  quella  che  attualmente  si  fa  in 
diverso  modo  e  con  diversi  risultati  dai  moderni  studiosi  sui  dieci 
carmi,  era  ignota  agli  antichi,  quantunque  le  ricerche  cronologiche  non 
sfuggissero  al  loro  sistema  di  critica.  Infatti,  almeno  per  Servio,  uno 
dei  canoni  fondamentali  in  exponendis  auctoribus  era  appunto  l'orafo 
librorum,  di  cui  praticamente  però  egli  non  seppe  iniziare  1'  investi- 
gazione ne  per  l'Eneide,  uè  per  le  Georgiche,  né  infine  per  le  Buco- 
liche; anzi  per  queste  scriveva  :  nec  numerus  Me  dnbius  est,  nec  orcio 
librorum  quippe  cum  unus  sit  liber  l  (p.  3).  Invece  il  Pseudo-Probo  ha 
qualche  lieve  accenno  alla  cronologia  della  I  e  della  IX  ecloga.  Sic- 
come ambedue  trattano  della  distribuzione  dell'  agro  mantovano  ai 
veterani,  e  nella  IX  più  specificatamente  Vergilio  si  lagna  del  danno 
sofferto,  mentre  nella  I  si  mostra  riconoscente  verso  i  suoi  benefat- 
tori pel  ricupero  dei  beni,  così  praeponi  Ma  ecloga  (scil.  IX)  debuerat 
et  sic  haec  (scil.  I)  substitui,  qua  gratias  agit,  imperciocché  prius  fuerit 
quaeri  damnum,  deinde  testavi  benefichivi  (p.  328).  In  Servio  siffatta 
argomentazione  cronologica  riguardante  queste  due  ecloghe  ,  non  é 
nemmeno  accennata,  solo  si  dà  come  cosa  sicura  cha  la  prima  ecloga  — 
tradizionale  —  sia  anche  la  prima  considerata  cronologicamente  ,  per 
la  citazione  che  del  primo  verso  si  fa  nelle  Georgiche  (IV,  500)  ;  e 
che  la  decima  sia  1'  ultima  per  testimonianza  dello  stesso  Vergilio 
(extremum  liunc.  X,  1);  e  si  accenna  all'opinione  di  alcuni  che  consi- 
deravano prima  la  VI  ecloga,  perché  comincia  con  le  parole  prima 
Syracosio  digitata  est  ludere  versu,  che  si  riferiscono  all'imitazione  teo- 
critea;  ciò  che  aveva  speciale  importanza  per  gli  antichi  che  consi- 
deravano siffatta  imitazione  come  Vintentio  libelli  quem  scopon  Graeci 
vocant. 


1  Sul  valore  di  questa  espressione,  che  a  prima  vista  sembra  strana,  si  veda 
quel  che  diciamo  appresso. 


120 


Adunque,  una  vera  e  propria  questione  cronologica  non  c'era, 
tranne  che  per  la  I  e  la  IX,  cioè  per  quei  due  carmi  di  natura  ma- 
nifestamente allegorici;  onde  per  noi,  che  tentiamo  di  rintracciare  la 
origine  dell'allegoria  nella  interpretazione  delle  altre  ecloghe,  essa  non 
ha  importanza  di  sorta,  giacche  prima,  in  ogni  caso  e  secondo  tutte 
le  opinioni,  sarebbe  stata  una  ecloga  il  cui  senso  allegorico  è  incon- 
troverso. Piuttosto  ha  importanza  il  fatto  che,  anche  a  causa  di  questa 
lacuna  che  presenta  l'antica  critica  su  Vergilio,  i  grammatici  hanno 
creduto  che  le  diverse  ecloghe  avessero  un  legame  più  intimo  di  quello 
puramente  formale ,  svolgessero  un  concetto  unico  ,  formassero  un'o- 
pera organica,  quantunque  divisa  in  dieci  componimenti.  Da  questo 
lato,  essi  consideravano  le  Bucoliche  alla  medesima  stregua  delle 
Georgiche  e  dell'Eneide;  come  di  queste  davano  Vargumentum  e  fa- 
cevan  sapere  singolarmente  V  intentio  libelli  quem  scopon  Graeci 
vocant  (vedi  i  Prooemia  di  Servio  all'Eneide  ed  alle  Georg.),  così  delle 
prime  il  Ps. -Probo  (per  citare  uno  dei  più  antichi  commentatori  di 
Vergilio)  i  scrive:  Yergilius  autem,  ut  Bucolica  scriberet,  causarti  eiusdem 
habuitj  e  continua  narrando  le  vicende  storiche  per  le  quali  il  Poeta 
fu  privato  del  proprio  podere  e  dell'  intercessione  di  Cornelio  Gallo 
per  riavere  i  beni  perduti  ;  e  così  conclude:  gratias  ergo  agens  Au- 
gusto, quod  receplsset  agros,  Bucolica  scripsit  (pagg.  327  e  328).  Queste 
stesse  cose  ci  vengono  ripetute  da  Servio  p.  2  e  3,  dagli  Scholia 
Beni.  p.  743,  e  da  Filargirio  p.  7.  Filargirio  anzi  è  più  breve,  ma 
più  esplicito:  «  Argumentum  Bucolico  rum:  Tiberius  Oaesar  Iulius  et 
Antonius  contra  Oassium  Brutuni  civile  bellum  et  caet.  (Expl.  I 
p.  13—  Expl.  Il  p.  7). 

Adunque  secondo  questi  comentatori  V argomento  che  informa  tutte 
le  ecloghe  è  la  divisione  dell'agro  mantovano  tra  i  veterani  dei  trium- 
viri, per  cui  Servio  ha  adoperato  ,  parlando  delle  Bucoliche  ,  quella 
espressione  già  sopra  notata:  <[uippe  cum  unus  sit  liber.  Si  capisce 
facilmente  come  quest'errore  fondamentale,  in  gran  parte  occasionato 
dall'allegoria  manifesta  contenuta  nella  prima  ecloga,  ne  abbia  pro- 
dotto altri  nell'interpretazione  dei  vari  carmi. 


1  Quantunque  noi  siamo  d'accordo  con  la  maggior  parte  dei  filologi  nel  cre- 
dere che  il  Probus  autore  del  comento  vergiliano  non  sia  lo  stesso  di  quel  Frobus 
di  cui  parla  Suetonio  C.  24  De  grammaticis  et  rhetoribus,  pur  crediamo  che  la  mas- 
sima parte  delle  notizie  in  esso  contenute  debbono  ritenersi  appartenere  a  qualche 
comento  più  antico  di  quello  di  Servio.  Cfr.  per  tutte  le  questioni  su  Probo,  su- 
scitate dal  citato  passo  di  Suetonio  e  dal  cosidetto  anecdotum  Parisinum  de  notis, 
oltre  al  lavoro  del  Riese  già  menzionato,  l'esauriente  stadio  dello  Steup,  De  Probi» 
grammatici8,  Ienae  1871,  che  ha  dato  luogo  alla  dissertazione  del  Kuebler  De  M. 
Valerii  Probi  Berytii  commentariis  vergilianis.  Berolini  1881. 


PARTE   I.  L'ALLEGORIA    DELLA   PRIMA   ECLOGA    DI    VERGILIO.  121 


II. 

Nella  prima  ecloga  Vergilio  ci  presenta  due  interlocutori  :  Moe- 
liboeus e  Tityrus.  I  comentatori  antichi  son  d'accordo  che  sotto  le 
spoglie  di  Tityrus  sia  adombrato  Vergilio  stesso;  di  Moeliboeus  in- 
vece, mentre  Servio  tace,  il  Pseudo-Probo  (p.  .'521)),  Filargirio  {Expla- 
natio  II  e  I  p.  lo),  e  gli  Seholia  Bernensia  ci  dicono  che  esso  rap- 
presenta Cornelius  Gollus  unus  de  Mantuanis  quibus  sunt  agri  adempii. 

I  comentatori  nostri,  mentre  hanno  accolta  l'interpretazione  al- 
legorica di  Tityrus,  hanno  abbandonata,  come  strana,  quella  che  ri- 
guarda il  secondo  interlocutore,  o  meglio,  hanno  giustamente  creduto 
clic  Moeliboeus  rappresenti  solo  uno  dei  tanti  sventurati  costretti  ad 
esulare  dai  propri  campi.  Quantunque  i  filologi  moderni,  solo  col  buon 
senso  ed  intuitivamente,  siano  pervenuti  a  distinguere  bene  (pici  che 
è  e  quel  che  non  è  accettabile  dell'allegoria  tramandataci  dai  gram- 
matici antichi  su  questa  ecloga  ,  è  dovere  di  una  critica  oculata  e 
circospetta  spiegare  ,  per  (pianto  è  possibile,  donde  traevano  origine 
questi  conienti  ora  ritenuti    strampalati. 

Prima  di  tutto  ,  è  facile  stabilire  che  una  dovette  essere  la  fonte 
originaria  del  Pseudo-Probo,  di  Filargirio  e  degli  Seholia  di  Berna  l 
per  quella  notizia,  se  tutti  quanti  son  d'accordo  nell'ammettere  che 
il  Moeliboeus  rappresenti  il  personaggio  storico  Cornelio  Gallo;  la 
fonte  però  doveva  essere  ben  più  chiara  e  più  estesa  sui  rapporti  che 
il  suo  autore  aveva  visto  tra  Cornelio  Grallo  ed  il  Moeliboeus  vergi- 
liano.  Siffatti  rapporti ,  certamente  strani  ,  ma  forse  non  privi  del 
tutto,  come  generalmente  si  crede,  di  logica,  dovevano  essere  il  pro- 
dotto di  un  ragionamento  che  veniva  fatto  presso  a  poco  così  :  Se 
Vergilio  ha  scritto  questa  ecloga  nell'occasione  della  restituzione  dei 
beni  a  lui  fatta,  doveva  mostrare  la  sua  gratitudine  a  quei  personaggi 
che  s'adoperarono  in  suo  favore:  Eclogam  composuit  gratiarum  actio- 


1  Tutti  questi  conienti  antichi,  compilati  in  diversi  tempi  e  da  grammatici 
di  diversa  cultura  ,  non  dovrebbero  avere  un  eguale  valore.  Non  è  raro  il  caso 
che  i  più  recenti  copiando  da  antichi  grammatici  ci  riproducano  testimonianze 
molto  apprezzabili;  ma  essi,  il  più  delle  volte,  non  sono  che  un  accozzo  di  no- 
tizie prese  da  conienti  più  antichi  senza  alcun  discernimento  e  che  lasciano  tra- 
sparire l'ignoranza  talvolta  eccessiva  dei  compilatori,  che  non  s'accorgevano  delle 
evidenti  contraddizioni  cui  andavano  incontro.  Infatti  quante  interpretazioni  alle- 
goriche non  si  contraddicono  e  si  distruggono  a  vicenda?  Lo  sceverare  in  questi 
comenti  i  diversi  strati,  per  dir  così,  allegorici,  è  impresa  alla  quale  abbiamo 
posto  mente  e  che  sarà  compiuto  in  seno  al  lavoro   accennato. 


122  A.   ROMANO.  PARTE   I. 

nem  continentem  (Filarg.  Expl.  II  p.  14).  Ora  pare  che  Cornelio  Gallo  si 
sia  più  di  tutti  adoperato  in  favore  di  Vergilio ,  almeno  sia  stato  l'in- 
termediario nelle  relazioni  d'amicizia  fra  Vergilio  e  Pollione,  come  — 
per  altra  via —  supposero  il  Sonntag  *  ed  il  Cartault  2;  adunque  per 
debito  di  gratitudine  qui  deve  anch'egli  essere  allegoricamente  rap- 
presentato. 

Un'altra  ragione  più  sottile,  ma  forse  più  evidente,  per  cui  Fi- 
largirio  ha  creduto  che  sotto  il  nome  di  Moeliboeus  sia  celato  il  nome 
di  Cornelio  Gallo,  e  non  ad  esempio  di  Pollione,  sta,  secondo  noi,  nel 
nome  stesso  di  Gallo;  egli  credeva  che  Vergilio  avesse  voluto  rappre- 
sentare la  plebs  Gallorum,  malcontenta  perchè  spodestata  dei  beni,  con 
Cornelio  Gallo  che,  avendo  comune  con  quella  il  nome,  riusciva  alle- 
goricamente chiaro.  Almeno  non  sapremmo  spiegarci  altrimenti  le  pa- 
role dell' Explan.  I  p.  15  1-5:  «  Accusans  eum  plebs  Gallorum,  quae 
Moeliboei  nomine  loquitur,  quem  Cornelium  Gallum  vocant.  Hereditas 
ei  rapta  est  et  Vergilio  data  est».  Così  anche  si  spiega  come  di  Cor- 
nelio Gallo  si  dica  essere  uno  dei  Mantovani  cui  fossero  stati  tolti  i 
beni.  La  ricerca  etimologica,  presa  per  base  dell'interpretazione  alle- 
gorica, non  è  rara  nei  cementatori  antichi  di  Vergilio ,  ed  il  caso  di 
cui  è  parola  non  è  un  caso  isolato. 

In  questa  stessa  Ecloga  per  spiegare  il  verso  5  : 

formosam  resonare  doces  Amaryllida  silvas 

i  comentatori  usavano  lo  stesso  procedimento:  Amarillyda  idest  Koma; 
silvas  idest  consules;  e  per  ben  comprendere  il  valore  allegorico  at- 
tribuito da  Filargirio  {Expl.  I  e  II)  ad  Amarillide,  bisogna  ricorrere 
al  comento  dei  versi  30-32  : 

postqnam  nos  Aniaryllis  habet,  Galatea  reliquit. 
inanique,  fatebor  enim,  dum  me  Galatea  tenebat, 
nec  spes  libertatis  erat  nec  cura  peculi. 

Vergilio  era  andato  effettivamente  a  Roma  e  quindi  aveva  lasciato 
Mantova  ovvero  la  Gallia  —  Amaryllis  idest  Roma;  Galatea  vel  Gallia 
vel  Mantua,  Fil.j  Sch.  Bern.  —  Etimologicamente  avevano  creduto  che 
la  Gallia  fosse  rappresentata  da  Galatea:  Filarg.  ci  fa  sapere  {Expl.  II 
v.  5)  che  Galli  a  candore  corporis  dicuntur  Galatae,  qui  cum  Graecis 
venientes  se  miseuerunt.  linde  primum  ea  ratione  Gallograecia  nuncu- 
pata  est,  et  postea  Galatia  nominata  est.  È  indubitabile  che,  oltre  al 


1  Vergil  als  Bukolischer  Dichter,  p.   129. 

2  fitude  8.  les  Bucol  de   V.,  p.  23. 


PARTE   I.  L'ALLEGORIA   DELLA   PRIMA   ECLOGA  DI   VERGILIO.  123 

fatto  storico  del  viaggio  di  Vergilio  a  Eoma,  la  supposta  identità  eti- 
mologica fra  Galatea  e  la  Gallia  ovvero  Mantova  ha  fatto  interpretare 
Amaryllis  per  Eoma ,  per  cui  poi  la  fantasia  dei  comentatori ,  non 
frenata  da  un  po'  di  buon  senso,  si  è  spinta  sino  ad  interpretare  il 
silvas  del  v.  5  per  consules  e  la  parola  fontes  per  senatore». 

Eitornando  ai  due  personaggi  principali  di  questa  prima  ecloga, 
se  la  nostra  spiegazione  circa  l'origine  dell'allegoria,  con  cui  i  gram- 
matici antichi  intesero  spiegare  il  Moeliboeus  vergiliano,  è  vera,  sarà 
anche  vero  che  negli  Schol.  Bernensia,  i  quali  hanno  il  pregio  di  te- 
nere sempre  ben  distinti  nel  loro  comento  i  due  significati  allegorico 
e  letterale  l,  si  trova  epitomato  quel  che  più  largamente  si  legge  in 
Filargirio  2. 

Servio ,  come  abbiamo  detto  ,  non  mostra  neppure  di  conoscere 
questa  tradizione  allegorica  ,  perchè  nel  suo  ampio  comento  non  la 
rileva;  eppure  egli  avrebbe  avuto  buon  giuoco  a  combatterla,  se  per 
l'allegoria  di  Tityrus  più  volte  ci  fa  sapere  che  non  si  trova  d'accordo 
con  gli  altri  grammatici.  Xè  è  da  credersi  che  Servio  abbia  voluto 
passare  sotto  silenzio  un'interpretazione  allegorica  così  strana,  ripu- 
gnante al  suo  buon  senso;  perchè,  se  alle  volte  egli  si  mostra  sensato 
e  pieno  di  discernimento  critico,  altre  volte  invece  non  è  da  meno 
degli  allegoristi  più  arrabbiati;  si  confr.  ad  es.  il  suo  comento  ai 
versi  38  e  39  di  questa  stessa  ecloga. 

III. 

Per  l'allegoria  che  riguarda  Tityrus  le  cose  vanno  bene  altri- 
menti. Il  concetto  comune  ai  grammatici  antichi  ed  ai  nostri  comen- 
tatori è  che  esso  rappresenti  Vergilio.  Ma  pure  anche  qui  le  questioni 
non  mancano  e  Servio,  ad  es.,  non  è  disposto  a  seguire  la  tradizione 
allegorica  che  s'è  andata  formando  su  questo  personaggio,  senza  tare 
un'avvertenza  preliminare  di  somma  importanza  (al  v.  1)  :  «  Tityri 
sub  persona  Vergilium  debemus  aceipere;  non  tamen  ubique,  sed  tan- 
tum ubi  exigit  ratio  ».  Questa  restrizione  alla  comune  interpreta- 
zione allegorica  è  nata,  per  una  parte  dalla  difficoltà  (maggiormente 


1  Questa  particolarità  importantissima  che  si  riscontra  negli  Scoli  di  Berna 
crediamo  sia  dovuta  all'epitomatore  (Adamannus  ?);  e  segna  un  notevole  progresso 
nell'antica  critica  vergiliana. 

2  Generalmente  si  crede  che  le  fonti  di  questi  Soliolia  siano  Titus  Gallus  e 
Iunius  Philargyrius  ;  ma  crediamo  che  un  esatto  confronto  fra  questi  scolii  di  Berna 
e  le  due  redazioni  (Expl.  I  e  II)  di  Filargirio,  pubblicati  dall'Hagen  neìV Ajppen- 
dix  Serviana,  Lipsiae  1902,  porti  ad  un  diverso  risultato. 


124  A.    ROMANO. 


sentita  da  Servio  che  da  altri,  come  ad  es.  Probo;  vedi  appresso)  che 
presentavano  i  versi  27  e  28  e  per  l'altra  parte  dall'esame  psicologico  — 
che  non  sfuggiva  alla  critica  antica —  del  carattere  ingenuo  e  pasto- 
rale di  Tityrus.  Ad  ogni  modo  è  stata  mal  compresa  dai  commenta- 
tori nostri,  i  quali  si  sono  meravigliati  come  mai  Servio,  che  pieno  di 
buon  senso  si  mostra  nell'  interpretazione  generale  del  carattere  dei 
due  interlocutori  di  questa  ecloga,  possa  poi  bonariamente  peccare 
assai  volte  l. 

L'esame  die  i  vari  comentatori  hanno  fatto  dei  versi  27  e  28  — 
i  quali,  secondo  noi,  hanno  portato  Servio  a  dare  a  Tityrus  un'inter- 
pretazione allegorica  più  restrittiva  di  quella  comune  agli  altri  gram- 
matici—  è  degno  di  maggiore  considerazione,  tanto  più  che  le  que- 
stioni che  vi  si  legano  sono  ancora  vive  e  non  accennano  ad  essere 
risolute  in  un  modo  soddisfacente  per  tutti  2. 

Probo  in  quella  sua  specie  d'introduzione  al  comento  delle  Bucol. 
e  Georg,  (p.  329)  così  scrive:  «  Xec  mirandum,  quod  infra  senem  se 
dicit,  cum  certuni  sit,  eum,  ut  Ascanius  Pedianus  dicit,  XXVIII  annos 
natum  Bucolica  edidisse.  Xam  eadem  licentia  [se]  senem  dixit,  cum 
sit  iuvenis,  qua  pastorem  facit,  cum  sit  urbanus,  aut  Tityrum  no- 
minat,  cum  sit  Vergilius  ».  Ci  pare  che  Probo,  quasi  senza  darsi  l'aria 
di  entrare  in  questioni  assai  difficili,  sia  convinto  che  la  cosa  vada 
in  modo  più  semplice  di  quel  che  realmente  non  sia;  e  qui  è  da  de- 
plorare la  perdita  del  comento  di  tutta  la  prima  ecloga,  che  a  noi 
riuscirebbe  molto  importante.  Filargirio,  fin  che  può,  sembra  che  eviti 
qualsiasi  interpretazione  dei  versi  citati;  ma  al  fortunate  senex  del  v.  49 
è  costretto  a  dirci:  non  ad  aetatem  refert,  sed  ad  futuram  fortunam 
praesago  usus  verbo,  dando  a  quell'espressione  un  senso  proleptico  che 
è  stato  accolto  incondizionatamente  dal  Mancini  nel  suo  comento  già 
citato.  Gli  Seh.  Bern.  e  Servio  mostrano  pel  comento  al  v.  46  la  stessa 
tradizione  riscontrata  in  Filargirio  ,  coincidendo  anche  verbalmente 
fra  loro. 

Servio  però,  che  ha  dovuto  incontrare  maggiori  difficoltà  ad  in- 
tendere i  versi  27  e  28,  dà  di  essi  due  diverse  spiegazioni,  rimanendo 
in  una  incertezza  manifesta.  Giova  distinguerle  nettamente. 

Per  l'interpretazione  allegorica  di  Tityrus  ha  fatto  sempre  diffi- 
coltà il  senso  di    quei   due  versi   (27-28)  in  cui  si  dice  che  Tityrus, 


1  Vedi  l'elegante  comento  dell'Albini,  p.  XI,  nota. 

2  Vedi  Mancini,  Comento  alle  Bucoliche,  Palermo  1903  e  del  medesimo  A.  l'ec- 
cellente studio  Osservazioni  sulle  Bue.  di  Virgilio,  nella  Rivista  di  storia  antica,  VII, 
pagg.  533-561;  681-700. 


PARTE   I.  L'ALLEGORIA   DELLA   PRIMA   ECLOGA   DI   VERGILIO.  125 

per  amore  della  libertà,  sia  andato  a  Roma,  quantunque  fosse  tardi 
ed  avesse  già  brinata  la  barba.  Come  mai  Tityrus  rappresenterebbe 
Vergilio,  se  questi,  quando  serisse  le  Bucoliche  ,  avea  28  anni  l  ed 
era  per  giunta  libero  e  non  schiavo  ?  E  Servio  così  ci  risponde:  «  et 
al  iter  dieit  servus  libertateni  cupio,  aliter  ingemma:  ille  enim  carere 
vult  servitute,  lue  habere  liberalo  vitam  prò  suo  scilicet  arbitrio  agere». 
Ma  poi  non  contento  del  primo  comento  soggiunse:  «  aut  certe  sim- 
pliciter  intellegamus  hoc  loco  Tityrum  sicut  pastorelli  lociitum  :  nani 
ubique  eum   Theocritus  mercennarium    inducit,   item  Vergili us  ». 

Quest'incertezza  nell'  intendere  il  vero  senso  del  poeta  si  mani- 
festa anche  nel  comento  all'altro  verso  (28):  «  Aut  mutatio  personae 
est,  ut  quendam  rusticum  accipiamus  loquentem  ,  non  Vergilium  per 
allegoriam;  nam  ut  discimus,  XXVIII  annoruin  scripsit  Bucolica:  aut 
certe  mutanda  est  distinctio,  ut  sit  non  barba  candidior,  sed  libertas... 
et  bene  candidior  libertas,  ut  intellegamus  etiain  ante  in  libertate  sed 
non  tali  fuisse  Vergilium».  Servio  con  quest'ultima  interpretazione 
ci  riconduce  alla  comune  tradizione  a  noi  tramandata  pure  dagli 
Schol.  Beni. 

Se  con  quello  che  fin  qui  abbiamo  detto  rimane  dimostrato  che 
solo  la  difficoltà  d'intendere  i  v.  27  28  ha  originato  in  Servio  la  re- 
strizione, sopra  notata,  del  concetto  allegorico  di  Tityrus,  è  ovvio  lo 
spiegarci  come  quelle  altre  allegorie  ben  più  strambe  che  qua  e  là  la 
tradizione  allegorica  anteriore  a  Servio  portava,  ma  che  non  riguar- 
davano Tityrus,  siano  state  accolte  tutte  quante  dallo  stesso  Servio. 

Con  ciò  cadono  le  meraviglie  che  a  questo  riguardo  i  cementa- 
tori moderni  si  son  fatte. 


1  Per  il  Mancini  la  figura  di  Tityrus  è  il  risultato  di  una  contaminazione, 
in  cui  la  parte  del  padre  del  Poeta  ha  maggior  peso  di  quella  del  figlio.  Vedi  il 
Coni.  cit.  p.  2.  È  stato  però  combattuto  dallo  Stampini,  Comento  alle  Bucol.,  To- 
rino,  1905,  3a  ed.,   pag.  93  (Appendice). 

Palermo. 

Antonino  Romano. 


PER  LA  RICERCA  DELLE  ORIGINI  ITALICHE. 

Saggio  di  tipologia  monetale  comparata. 

(Vedi  Tav.  Ili  e  IV). 


In  una  precedente  memoria  1  cercai  di  dimostrare  che  alcuni  tipi 
di  monete  della  Magna  Grecia  e  della  Sicilia,  ripetono  la  loro  origine 
da  tipi  monetali  di  città  della  costa  asiatica  e  delle  isole  dell'Egeo, 
e  non  trovano  riscontro  alcuno  in  tutta  la  monetazione  della  Grecia 
propria.  E  feci  osservare  che  questa  corrispondenza  tipologica  fra  l'I- 
talia e  l'Oriente,  data  la  natura  dei  monumenti  pei  quali  si  riscontra, 
lungi  dal  rimanere  nel  campo  dell'arte,  rivela  un  fondo  comune  di 
civiltà  e  di  religione  e  apre  addirittura  nuovi  orizzonti  alla  indagine 
storica,  etnografica  e  religiosa.  Procedendo  di  questo  passo,  mi  venne 
dato  di  cogliere  somiglianze  tipologiche  fra  alcune  monete  di  Clima 
degli  Opici  e  certe  monete  di  Cizico,  e  mi  sentii  facoltato  ad  accet- 
tare col  Sogliano  la  testimonianza  di  Eforo  circa  la  origine  eolica 
della  città  campana  2.  Così  pure  osservai,  che  un'altra  categoria  di 
tipi  monetali,  appartenenti  a  diverse  zecche  della  Magna  Grecia  e 
Sicilia  e  più  particolarmente  a  quelle  della  Lucania  e  dei  Brettii, 
mostra  caratteri  così  evidenti  di  culti  locali,  in  un  periodo  in  cui  questi 
subirono  profonde  alterazioni  a  contatto  della  religione  ellenica  ,  da 
fornirci  elementi  preziosi  per  lo  studio  dei  concetti  religiosi  delle 
popolazioni  italiche  antichissime  3. 

Ma  le  monete  greche  dell'Italia  antica,  esaminate  con  rigore  di 
critica  obbiettiva  e  coi  criteri  da  me  espressi,  ci  mostrano  tracce  di 
immigrazioni  di  popoli  orientali,  penetrati  per  via  di  mare  fin  nell'in- 
terno della  penisola  in  epoca  remotissima,  i  quali  si  mescolarono  alle 
popolazioni  autoctone.  Io  ritengo  che  le  somiglianze,  di  cui  sono  per 


1  Sul  valore  dei  tipi  monetali  nei  problemi  storici,  etnografici  e  religiosi  (Atti  del 
Congresso  internazionale  di  Roma,  1903). 

2  Accenno  a  una  mia  nota,  inviata  al  Congresso  internazionale  di  Archeologia 
ad  Atene,  nel  1905,  dal  titolo  Belazioni  artistiche  e  religiose  fra  Cuma  degli  Opici 
e  l'oriente  greco- asiatico,  rivelate  dalle  monete,  e  ancora  inedita. 

3  Sili  valore  $ei  tipi  monetali  ecc.  pag.  22  dell'estratto, 


PARTE   I.  PER   LA   RICERCA   DELLE   ORIGINI   ITALICHE.  127 

parlare,  non  possono  essere  casuali  e  bisogna  ammettere  necessaria- 
mente una  continuità  e  una  dipendenza  dei  tipi  monetali  dell'Italia  da 
quelli  dell'Oriente,  anche  quando  ci  manchi  il  sussidio  della  tradizione. 
E  ritengo  altresì  essere  così  grande  l'efficacia  dello  studio  comparativo 
dei  monumenti  numismatici,  che  in  molti  casi  siamo  facoltati  a  cor- 
reggere la  tradizione  stessa,  non  sempre  sincera.  Gioverà  intanto  fare 
una  minuta  esposizione  dei  tipi  monetali  su  cui  si  fonda  la  mia  di- 
mostrazione. 

Triskeles.  Ricorre  sopra  un  quadrante  della  serie  dell'aes  grave 
attribuita  al  Lazio  (Garrucci  XLV  4)  [Tav.  Ili  n.  2]  e  sopra  un  raro 
asse  dell'Etruria  o  dell'Umbria,  appartenente  al  medagliere  fiorentino 
(Garrucci  LIV  7).  È  impressa  su  di  una  moneta  arcaica  di  Caulonia 
(Br.  Mus.  Cat.  p.  336)  [Tav.  IV  n.  o]  e  fa  la  prima  apparizione  nella 
numismatica  siciliana  sulle  monete  di  Agatocle  (Head  H.  V.  p.  158). 
Tutte  le  citate  monete,  eccezione  fatta  per  quella  di  Caulonia,  non 
risalgono  oltre  la  metà  del  secolo  IV  a.  C.  Ma  se  ci  volgiamo  all'Oriente, 
questo  tipo  è  di  data  assai  remota  :  è  caratteristico  della  più  antica 
monetazione  di  Aspendus,  che  risale  al  500  a.  C.  [Tav.  IV  n.  3],  lo 
troviamo  su  rari  tetradrammi  macedonici  attribuibili  a  Derronicus , 
del  480  a.  C.  (Imhoof-Blumer  Monn.  gr.  p.  90  PI.  1)  n.  1)  [Tav.  IV  n.  7], 
nonché  sopra  monete  incerte  tracio-macedoniche  le  quali  si  possono 
assegnare  al  secolo  Va.  0.  (Imhoof-Blumer.  O.  e.  p.  100.  Macdonald 
Cat.  Hunter  I  p.  448  PI.  XXX  4).  Una  moneta  arcaica  di  Egina  ha  la 
triskeles  contrapposta  alla  testuggine  marina  (Br.  Mus.  Cat.  XXIV  8). 

Lottatori.  È  tipo  rarissimo,  che  vediamo  sul  diritto  di  una  in- 
tera serie  di  frazioni  di  aes  grave,  costituita  dal  semis,  dal  triens, 
dall'uncia  e  dalla  senumcia,  attribuita  finora  alla  Campania  [Tav.  Ili 
n.  4].  L'unico  riscontro,  segnalato  per  altro  nel  catalogo  di  Berlino 
(Beschreibung  III  p.  33),  si  può  fare  con  le  monete  di  Aspendus,  che 
offrono  numerose  varietà  e  che  hanno  una  grande  precedenza  rispetto 
ai  corrispondenti  pezzi  di  aes  grave  campani,  risalendo  esse  al  400  a.  C. 
[Tav.  IV  n.  2].  Nella  ceramica  del  periodo  arcaico  il  motivo  dei  lot- 
tatori ricorre  su  di  un  vaso  creduto  proto-attico,  con  elementi  decora- 
tivi di  arte  orientale  4. 

Leone  o  protome  di  leone  con  gladio  od  asta  fra  le  zanne.  E  fre- 
quente su  monete  dell'Italia  ,  manca  affatto  nella  monetazione  della 
Grecia  propria  ed  è  invece  ripetuto  più  volte  su  monete  dell'Oriente 
e  dei  re  di  Macedonia.  Di  singolare  pregio  artistico  è  1'  asse  della 
serie  latina  con  la  testa  leonina  di  fronte,   che  stringe  fra'  denti  un 


*  C,  Smith  A  proto-attic  rase  (Journal  of  Jiell.  studiea  1902,  p.  28,  PI,  II-IVj, 


128  E.    GABRICI. 


gladio  (Garrucci  XLI  1  ;  XLII  1  ;  LXIX  1)  [Tav.  3  n.  1].  Lo  stesso 
motivo  ,  ma  col  leone  rappresentato  per  intero  e  con  asta  o  gavel- 
lotto  fra'  denti  o  sulla  spalla  è  fornito  da  monete  di  Gapua  (Garrucci 
LXXXVII  11)  [Tav.  IV  n.  10],  di  Venusia  (Garrucci  XC1V  17,  18) 
[Tav.  IV  n.  16],  di  Matiolum  (?)  (Garrucci  XCV  43,  dove  è  errato  il 
disegno,  ma  esatta  la  descrizione  alla  pag.  Ili)  )  [Tav.  IV  n.  15],  da 
monete  romano-campane  (Garrucci  LXXVII  8,  23-26)  [Tav.  IV  n.  9]. 
I  tipi  monetali  dell'Oriente  e  della  Macedonia,  che  si  possono  contrap- 
porre a  questi,  cominciano  tutti  in  epoca  più  remota.  Per  non  citare 
il  grifo  a  testa  di  leone  cornuto  sulle  monete  di  Panticapeo  [Tav.  IV 
n.  17],  ricorderò  il  leone  con  asta  fra'  denti ,  della  medesima  città 
(Br.  Mus.  Cat.  p.  5  n.  7.  400-300  a.  C.)  [Tav.  IV  n.  6],  quello  di  Cardia 
del  Chersoneso  tracio  su  monete  die  cominciano  verso  il  400  a.  0. 
(Dressel  Breschreibung  I  Taf.  VI  n.  59;  Macdonald  Cat.  Hunter  p.  287) 
[Tav.  IV  n.  8],  quello  delle  monete  di  Aminta  III  l  (381-309  a.  C), 
di  Perdicca  111(365-359  a.  C.  i  [Tav.  IV  n.  11],  di  Macedonia  e  quello 
degli  Oetaei  di  Tessaglia  (400-344  a,  C.  Br.  Mus.  Cat.  VII  9-11).  Ri- 
corderò inoltre  il  leone  cornuto  con  asta  fra'  denti,  delle  monete  di 
Sardes  e  quello  con  la  spada  in  bocca  sopra  un  doppio  statere  at- 
tribuito a  Cizico  ,  della  collezione  Dupré  (Ann.  Instit.  1841  p.  144 
nota  7).  Assai  di  rado  il  leone  è  rappresentato  sulle  pietre  incise  in 
questa  foggia  araldica,  e  per  dippiù  quelle  poche  da  citare  non  possono 
apportar  luce  alla  mia  dimostrazione,  poiché  se  ne  ignora  il  luogo  di 
fabbrica  (Turtwàngler  Die  antiken  Gemmen  XIII  44,  45  della  seconda 
metà  del  sec.  V  e  prima  metà  del  IV;  XLV  27  greco-romana;. 

Toro  androcefalo  e  testa  di  Sileno.  La  misteriosa  città  di  Malies, 
che  il  Millingen  e  l'Avellino  credettero  doversi  ricercare  nell'odierno 
Molise  e  sulla  cui  assegnazione  geografica  fecero  le  loro  riserve  il 
Friedlànder,  il  Minervini,  il  Mommsen,  ha  un  tipo  singolare  sul  ro- 
vescio di  una  delle  sue  monete,  il  toro  a  volto  umano  con  sopra  una 
testa  di  Sileno  (Garrucci  XC  14,  15)  [Tav.  IV  n.  4].  Nulla  di  tipolo- 
gicamente simile  in  tutta  la  monetazione  greca;  se  non  che  sopra  una 
bellissima  moneta  arcaica  di  Catana  abbiamo  il  Sileno  corrente  al  di 
sopra  del  toro  a  volto  umano,  che  ci  richiama  un  monumento  di  arte 
preellenica  2.  Ma  un  riscontro  perfetto  ce  lo  porge  una  rara  moneta 
arcaica  di  Phaselis,  anteriore  al  400  a.  C.  [Tav.  IV  n.  Ij.  Il  tipo  di 
questa  fu  finora  interpretato,  ed  a  torto,  come  la  più   antica  rappre- 


1  II  Mionnet  (Snppl.  Ili  181)  descrive  monete  di  Aniinta  li  con  questo  tipo. 

2  Rev.  Nutnisni.  N.  S.  IX  (1864)  153.   Br.  Mus.  Cat.  Lycia  PI.  XVI  5.  O.  Jalin, 
Arch.   Ztng.   1862  p.   113  sgg.  M.  Lehnerdt  Arch.  Ztng.   1885  p.  106  s^g. 


PARTE   I.  PER   LA    RICERCA   DELLE   ORIGINI   ITALICHE.  129 

sentazione  di  Ercole  ed  Acheloo  lj  ma  io  non  esito  a  ravvicinarla  al 
bronzetti»  di  Malies  e  riferirla  al  culto  dionisiaco,  come  alcune  rap- 
presentazioni di  gemme  italiche,  le  quali  esibiscono  il  Sileno  in  atto  di 
abbracciare  uno  stambecco  (Furtwangler  Antiken  Gemmen  Taf.  XXIV, 
n.  29,  30). 

Aquila  piscaria  che  ghermisce  un  pesce.  Il  motivo  dell'aquila  che 
tiene  stretta  fra  gli  artigli  la  lepre  o  il  serpe  o  il  fulmine  ,  è  troppo 
frequente  nella  monetazione  antica;  non  così  quello  dell'aquila  che  tiene 
fra  gli  artigli  un  pesce,  quasi  sempre  delfino.  Lo  troviamo  sopra  un 
raro  asse  di  discussa  attribuzione ,  ma  sicuramente  della  seria  la- 
tina (Garriteci  XXXIII  1)  [Tav.  Ili  n.  3],  ed  anche  sulle  monete  di 
Akragas,  specialmente  su  quelle  di  bronzo,  la  cui  serie  comincia  prima 
del  40C  a,  C.  [Tav.  IV  n.  10,  14].  Ma  la  patria  di  questi»  tipo  è  da 
ricercare  anch'essa  nell'Oriente  ellenico,  sulle  rive  dell'Eussino,  dove 
Sinope  [Tav.  IV  n.  13],  Olbia  [Tav.  IV  n.  18]  ed  Istrus  [Tav.  IV  n.  12] 
adottano  nella  loro  monetazione  questo  tipo  fin  dalla  seconda  metà 
del  secolo  V. 

Trattandosi  di  un  semplice  saggio,  ho  limitato  la  scelta  a  quelle 
monete,  le  cui  somiglianze  sono  molto  appariscenti.  Esse  intanto  si 
prestano  a  considerazioni  di  altissimo  valore  storico  ,  etnografico  e 
religioso.  Anzitutto  dirò,  che  le  popolazioni  a  cui  vengono  attribuite 
e  presso  cui  vennero  coniate,  non  sono  popolazioni  della  costa  d'Ita- 
lia ,  come  quelle  in  mezzo  a  cui  si  stabilirono  coloni  ellenici  ;  esse 
sono  invece  tutte  dello  interno  della  penisola  ,  anzi  alcune  proprio  di 
paesi  montanari  situati  presso  la  catena  degli  Appennini,  come  Ve- 
nusia  ,  come  Malies,  dato  che  sia  Maluentum  ,  come  Mateola  (?).  Le 
altre  vengono  attribuite  al  Latium  e  alla  Campania,  ma  non  hanno 
nulla  da  vedere  con  monete  delle  città  elleniche  prossime  al  mare, 
a  meno  che  non  si  voglia  ammettere  una  importazione  di  alcuni  di 
questi  tipi  dalla  Sicilia  ,  che  io  escludo  recisamente.  Questa  comu- 
nanza tipologica  fra  1'  Italia  e  la  Sicilia  è  segno  invece  di  una  co- 
mune dipendenza  dall'Oriente.  Sorge  quindi  naturale  una  prima  do- 
manda: come  mai  questi  abitatori  di  paesi  interni  dell'Italia  adottano 
tipi  monetali  che  non  trovano  quasi  mai  riscontro  nelle  monetazioni 
di  città  greche  della  costa  e  neanche  della  Grecia  propria  ,   ma    che 


i  Jahrbuch  1889  p.  119.  Milani  Studi  e  materiali  II,  p.  107, 


130  E.    GABRICI.  PARTE   I. 

trovano  i  loro  precedenti  in  monete  dell'Oriente  ?  È  da  escludere  che 
siamo  di  fronte  ad  una  corrispondenza  casuale;  in  fatto  di  arte  e  di 
religione  bisogna  ammettere  le  ragioni  di  dipendenza  e  di  continuità. 
Anche  a  voler  invocare  il  caso,  questo  potrebbesi  ammettere  per  un 
numero  limitato  di  tipi,  non  mai  per  un  gruppo  così  numeroso. 

E  se  così  è  da  pensare,  come  mai  e  quando  i  concetti  religiosi 
racchiusi  nei  tipi  del  leone  col  gladio  o  con  l'asta,  dei  lottatori,  della 
triskeles,  del  toro  androcefalo  associato  al  Sileno,  dell'aquila  piscaria 
e  le  relative  loro  espressioni  artistiche  d'importazione  orientale  arri- 
varono a  farsi  strada  nello  interno  della  penisola,  senza  che  di  loro 
restasse  traccia  di  sorta  fra  le  popolazioni  della  costa?  Essendo  che 
il  tipo  monetale  ha  valore  altamente  religioso  ed  è  l'espressione  dei 
più  remoti  culti  dei  popoli,  dobbiamo  convenire,  che  insieme  coi  tipi 
religiosi  penetrarono  nell'interno  della  penisola  e  particolarmente  nel 
Lazio,  nella  Campania,  nel  Sannio,  nell'Apulia  anche  le  stirpi  presso 
cui  tali  tipi  e  tali  culti  erano  in  voga. 

Ma  una  seconda  domanda,  ancor  più  imbarazzante  della  prima, 
ricorre  spontanea  dopo  l'esame  delle  proposte  monete. 

La  triskeles,  i  lottatori,  il  leone  coll'asta  o  gladio,  il  toro  asso- 
ciato al  Sileno,  l'aquila  piscaria  sono  tipi  che,  l'uno  jier  l'altro,  fanno 
la  loro  apparizione  sulle  monete  dell'  Italia  non  prima  della  metà 
del  secolo  IV  a.  C,  quando  invece  come  tipi  monetali  sono  adottati 
sulle  monete  dell'Oriente  e  della  Macedonia  per  tutto  il  corso  del  se- 
colo Y  e  scompaiono  su  per  giù  verso  la  metà  del  secolo  IV  ,  pro- 
traendosi  qualcuno  fino  al  termine  di  questo  secolo.  Verso  questo 
tempo  in  tutta  la  monetazione  del  mondo  greco  prevalgono  i  tipi 
delle  divinità  del  pantheon  ellenico,  essendo  già  fissati  e  diffusi  i  tipi 
antropomorfi  di  ciascuna  di  esse.  Nel  caso  delle  monete  da  me  prese- 
in  esame,  si  osserva  che  le  popolazioni  italiche,  le  quali  verso  la  se- 
conda metà  del  secolo  IV  fanno  la  loro  prima  apparizione  nel  mondo 
monetale,  adottano  tipi  religiosi  che  stavano  per  cadere  in  desuetudine 
nell'Oriente  e  nella  Macedonia.  In  tesi  generale  poi  va  notato,  essere 
questa  una  caratteristica  comune  a  tutta  la  monetazione  dell'Italia  an- 
tica, escluse  le  città  greche  della  costa.  I  popoli  italici  che  cominciano  a 
monetare  aes  grave  dopo  l'esempio  di  Roma,  verso  la  seconda  metà 
del  secolo  IV,  adottano  tipi  antropomorfi,  fitomorfi  o  di  simbolica  reli- 
giosa ed  è  poco  frequente  la  figura  umana  quale  espressione  della  divi- 
nità. In  conclusione,  i  popoli  interni  dell'Italia  antica  quando  vengono 
a  contatto  della  civiltà  più  avanzata,  per  mezzo  di  Roma,  ci  appaiono 
di  essere  in  uno  stadio  di  evoluzione  artistico-religiosa,  al  quale  tro- 
vavasi  il  mondo  greco  qualche  secolo  avanti.  E  si  può  anche  avere 


PARTE   I.  PER   LA   RICERCA  DELLE   ORIGINI   ITALICHE.  131 

per  indubitato,  perchè  traspare  da  un  numero  grande  di  esempi,  che 
questo  stadio  di  sviluppo  artistico-religioso  dell'  Italia  interna  è  me- 
ravigliosamente affine  a  quello  dell'Oriente.  Il  cinghiale  di  Arpi,  Lu- 
cerà ed  altri  paesi,  la  protome  e  la  figura  intera  del  cavallo,  carat- 
teristica della  monetazione  campana,  la  ruota,  la  rana,  il  delfino,  l'an- 
cora, la  prora  di  nave  di  Roma  ecc.  hanno  i  loro  precedenti  nelle 
serie  monetali  dell'Oriente,  in  ispecial  modo  di  città  della  costa,  de- 
dite ai  commerci  marittimi.  Di  fronte  a  tanta  affinità  eloquente  non 
si  può  di  certo  invocare  il  caso,  e  d'altronde  non  si  può  ammettere 
che  tali  tipi  siano  stati  adottati  nel  secolo  IV  dalle  popolazioni  del- 
l' Italia  in  seguito  a  semplici  scambi  commerciali.  Tale  ipotesi  urte- 
rebbe contro  la  quasi  assoluta  mancanza  di  questi  tipi  nelle  serie  mo- 
netali delle  colonie  greche  della  costa  ,  le  quali  dovrebbero  serbare 
numerose  tracce  di  essi,  nonché  contro  tutte  le  ragioni  dianzi  esposte. 
Merita  inoltre  considerazione  speciale  il  fatto,  che  parecchi  di  questi 
tipi  dell'Italia  sono  propri  di  popolazioni  marittime,  come  il  delfino, 
l'aquila  piscaria,  la  conchiglia,  l'ancora.  In  questa  categoria  annovero 
il  rostro  e  la  prora  di  nave,  arma  parlante  di  Roma.  Giova  osservare 
ancora,  che  per  la  interpretazione  di  tipi  così  persistenti,  come  quello 
della  prora  di  nave  sulle  monete  di  Roma,  non  vale  il  ricorrere  ad 
avvenimenti  storici  troppo  speciali  e  privi  di  carattere  religioso.  È 
sulla  via  della  verità  chi  pensa,  che  questo  tipo  della  prora  è  in  rap- 
porto col  culto  dei  Dioscuri. 

Ammessa  dunque  una  relazione  tipologica  fra  l'Italia  e  l'Oriente 
per  le  monete  che  stiamo  studiando,  ammesso  che  tale  relazione  non 
può  scendere  al  tempo  in  cui  le  monete  dell'Italia  fanno  la  loro  appari- 
zione, ma  dev'essere  di  gran  lunga  anteriore  per  la  completa  assenza 
di  questi  tipi  su  monete  di  colonie  greche  della  Magna  Grecia,  am- 
messo pure  che  questi  tipi  ci  rivelano  uno  stadio  di  evoluzione  ar- 
tistico-religiosa  anteriore  a  quella  del  mondo  greco  contemporaneo, 
non  si  può  non  concludere,  che  i  tipi  monetali  esaminati  rivelano  so- 
pravvivenze di  concezioni  artistiche  e  religiose  di  popolazioni  pene- 
trate nell'interno  della  nostra  penisola,  prima  ancora  che  le  coste  fos- 
sero occupate  da  coloni  ellenici:  e  queste  popolazioni  devono  esser 
venute  dall'  Asia  occidentale  per  via  di  mare.  Saranno  state  piccoli 
nuclei  di  arditi  navigatori  che,  dopo  di  aver  approdato  alle  coste 
dell'Adriatico  e  del  Tirreno  ,  specialmente  del  Lazio,  si  saranno  in- 
ternati nelle  pianure  apule  e  latine,  a  scopo  di  commercio  od  incal- 
zati dagl'indigeni  che  vi  abitavano.  Quando  tali  immigrazioni  siano 
avvenute,  non  è  facile  determinare;  il  certo  è  che  le  tradizioni  del- 
l' approdo  di  coloni  orientali  sui  due   versanti    della    nostra    penisola 


132  E.    GABRICI.  PARTE   I. 

in  età  remotissima,  spianano  la  indagine.  Le  ragioni  numismatiche 
non  devono  essere  trascurate  dallo  storico  dell'Italia  antica,  essendo 
le  monete  i  soli  monumenti,  ai  quali  possiamo  chiedere  fiduciosi  il 
responso  in  fatto  di  etnografia  e  di  religione.  Non  respingo  la  leg- 
genda di  Enea,  che  approda  alle  coste  del  Lazio  e  che  trova  resi- 
stenza da  parte  dell'elemento  indigeno,  ma  che  finisce  per  rimanervi 
e  dominare.  Sfrondata  di  tutte  le  aggiunte  posteriori,  essa  nella  sua 
forma  schematica  regge  benissimo.  E  Koma,  che  ha  origine  come  ogni 
altra  città  interna  del  Lazio,  non  poteva  adottare  ,  senza  buone  ra- 
gioni, come  tipo  solenne  della  sua  monetazione  la  prora  di  nave,  un 
emblema  marinaresco  per  eccellenza,  quale  era  stato  per  certi  popoli 
navigatori  dell'  Oriente,  della  cui  arte  e  religione  troviamo  tracce 
troppo  frequenti  e  palesi  sulle  monete  dell'  Italia.  Il  problema  delle 
origini  italiche,  e  particolarmente  di  Roma,  dev'  essere  ripreso  in  e- 
same  senza  preconcetti  né  fantasticherie  di  critici  ortodossi  ;  in  tal 
modo  si  potranno  sceverare  nella  leggenda  di  Roma  gli  elementi  ita- 
lici da  quelli  orientali  ed  etruschi  contemperati  e  fusi  insieme. 

Un  fatto  notevolissimo  emerge  dallo  studio  di  tipologia  monetale 
comparata,  ed  è  che  fra'  popoli  dell'Oriente,  che  importarono  la  loro 
civiltà  nelle  regioni  interne  della  nostra  penisola,  hanno  una  parte 
prevalente  quelli  della  costa  sud  dell'Asia  Minore  e  quelli  della  Pro- 
pontide  e  del  Ponto  Eussino.  Alla  Licia,  alla  Panfilia  e  alla  Pisidia 
ci  richiamano  in  ispecial  modo  la  triskeles,  i  lottatori,  il  toro  andro- 
cefalo  accoppiato  alla  testa  di  Sileno,  la  prora  di  nave;  alle  sponde 
dell'Eussino  ci  richiamano  l'aquila  piscaria  e  il  leone  coll'asta  fra  le 
zanne.  A  questa  corrispondenza  tipologica  fra  l'Italia  e  l'Oriente  par- 
tecipano i  paesi  situati  sulle  coste  della  Tracia  e  della  Macedonia  : 
la  Grecia  propria  riman  quasi  sempre  fuori.  Analogamente  ebbi  a  con- 
cludere altrove,  studiando  certi  tipi  monetali  di  città  greche  della  costa 
dell'Ionio  e  della  Campania  l.  Non  occorre  neanche  ricordare,  che  a 
cotesta  corrispondenza  tipologica  partecipa  quasi  sempre  l'arte  etni- 
sca, e  talvolta  al  difetto  delle  monete  supplisce  la  corrispondenza  di 
monumenti  etruschi  d'altro  genere.  La  figura  del  leone,  ad  esempio, 
con  la  punta  di  un'asta  fra'  denti,  si  osserva  sopra  un'  urna  sepol- 
crale di  Perugia,  sulla  quale  richiamò  1'  attenzione  il  Brunii  2  e  le  fi- 
gure dei  lottatori,  come  quelle  dell'  aes  grave  italico  e  delle  monete 


1  V.  le  due  memorie  citate  alle  note  1  e  2. 

2  Bullett.  d.    Instituto    1859    p.    184  sg.    Conestabile ,    Monumenti  di  Perugia 
tav.  LXXX  4. 


PARTE   I.  PER   LA    RICERCA   DELLE    ORIGINI   ITALICHE.  133 

di  Aspendus  ,  sono  dipinte  sopra  una  parete  della  tomba  cornetana 
degli  Auguri  o  della  caccia  l.  La  rappresentazione  del  gabbiano,  che 
tiene  stretto  fra  gli  artigli  un  pesce,  trova  riscontro  addirittura  nella 
ceramica  preellenica  2. 

Se  il  vero  significato  religioso  di  tutti  questi  tipi,  da  me  esami- 
nati, ci  sfugge  o  almeno  non  e  interamente  chiaro,  è  almeno  abbastanza 
evidente  quello  del  leone  con  Fasta  o  giavellotto  o  gladio.  Il  suo  si- 
gnificato solare  è  addimostrato  dalla  sua  frequente  associazione  con 
Ercole,  nonché  dall'essere,  sulle  monete  di  Panticapeo  ,  la  testa  di 
leone  coll'asta  adattata  al  corpo  di  un  grifo,  simbolo  solare.  Tale  si- 
gnificato risulta  poi  evidente  dalle  monete  imperiali  di  un  periodo,  in 
cui  si  ebbe  una  reviviscenza  di  culti  orientali.  Infatti  alcune  monete 
di  Domiziano,  Antonino  Pio,  Caracalla,  Aureliano,  Probo,  Postumo, 
Diocleziano  ,  Valerio  Massimiano  hanno  il  leone  or  con  la  lancia  or 
col  giavellotto,  or  con  lo  scettro,  or  col  fulmine  in  bocca.  La  lancia, 
il  giavellotto,  lo  scettro  sono  quindi  equivalenti  del  fulmine  ed  accen- 
nano al  dardeggiare  dei  raggi  solari.  Così  che  questo  tipo,  come  quello 
della  triskeles,  e  come  tanti  altri  di  monete  dell'Italia  antica,  entra  in 
quella  categoria  di  rappresentazioni  monetali,  che  muovono  dal  con- 
cetto della  divinità  maschile  di  carattere  celeste  e  solare. 


1  Ann.  d.  Iustit.  di  corrisp.  arch.   a.   1881  p.  5.  Monumenti  voi  XI  tav.  XXV. 

2  Monumenti  dei  Lincei  1905  voi.  XIV  punt.  II  tav.  XXXVII  e  XXXVIII. 

Napoli. 

Ettore  Gabrio. 


INDICE  DELLE  TAVOLE. 


Tavola  III  n.     1  Br.  Asse  con  la  protome  di  leone.  Museo  di  Napoli,  Fiorelli  Cat.  u.  483. 

>  n.     2  Br.  Quadraus  con  la  triskeles.   Londra,  Br.  Mus.  Cat.  Ilaly  p.  57  n.  17. 
i»  n.     3  Br.  Asse  di  Reate.  Museo  Kircheriano,  Garrucci  XXXIII  1. 

>  n.     4  Br.  Seniis  della  Campania  (?).   Museo  Kircheriano;   gr.  42,  90.   (Il  calco 

mi  fu  gentilmente  inviato  dall'Haeberlin). 


Tavola  IV  n.     1  Arg.  Statere  di  Phaselis.  Londra,  Br.  Mus.  Cat.  pi.  XVI  n.  5. 
»  n.     2  Arg.  Statere  di  Aspendus.  Londra,  Br.  Mus.   Cat.  pi.  XXI  7. 

»  n.     3  Arg.  Statere  di  Aspendus.   Londra,  Br.  Mus.   Cat.  pi.  XIX  2. 

ì>  n.     4  Br.  Moneta  di  Malies.  Napoli    Collez.  Santangelo,   Fiorelli  Cat.   n    417. 

2>  n.     5  Arg.  Frazione  di  dramma  di  Caulouia.  Londra,  Br.  Mus.  Cat.  pag.336  n.  16. 

»  n.     6  Arg.  Moneta  di  Panticapeo.  Londra  Br.  Mus.  Cai.  pag.  5  n.  7 

»  n.     7  Arg.  Decadramma  di  Derronicus.   Londra,   Br.  Mus.  pag.  150  n.  1. 

»  n.     8  Br.  Moneta  di  Cardia.  Berlino,  Beschreibung  I  Taf.    VI  59. 

»  n.     9  Br.  Litra    romano-campana.    Napoli,    Collez.    Santangelo;    Fiorelli    Cat. 

n.  1591. 
s>  n.  10  Br.  Moneta  di  Agrigento.    Glasgow,    Collez.  Hunter,    Cai.  (Macdouald) 

voi.  I  PI.  XI  n.   16. 
»  n.  11  Br.  Moneta    di    Perdicca    III.    Glasgow,    Collez.    Hunter,    Cat.    voi    I 

p.  287  n.   1. 
»  n.  12  Statere   di    Istrus.    Glasgow,    Collez.    Hunter,    Cat.    voi.  I    p.    410    Pi. 

XXVII  12. 
»  n.  13  Arg.  Moneta  di  Sinope.  Londra  Br.  Mus.   Cat.  XXII  7. 

»  n.   14  Oro.  Moneta  di  Agrigento.  Napoli.  Museo  Nazionale;   Fiorelli  Cai.  3908. 

»  n.  15  Br,  Moneta  di  Matiolum.   Berlino,  Beschreibung  III  pag.  195  n.  1. 

»  n.  16  Br.    Moneta    di    Veuusia.    Napoli  ,    Collez.    Santangelo  ,    Fiorelli     Cat. 

n.  2148. 
»  n.  17  Oro.  Statere  di  Panticapeo.  Londra,  Br.   Mus.   Cat.  pag.  4  n.  1. 

»  n.  18  Arg.  Moneta  di  Olbia  (Sarmatiae).  Londra,  Br.  Mus.   Cat.  n.  1. 

»  n.  19  Br.  Moneta  di  Capua.  Berlino,  Beschreibung  III  PI.  Ili  n.  34. 


UN  GIUDIZIO  DI  CICERONE 

INTORNO  A  LUCREZIO  ». 


Cicerone  dovè  ricordare  certamente  la  parte  da  lui  avuta ,  in 
gioventù  ,  nella  divulgazione  del  poema  di  Lucrezio ,  quando  si  ac- 
cinse più  tardi  a  dettare  una  delle  sue  più  cospicue  opere  di  filoso- 
fia intorno  alla  natura  degli  dei.  È  così  evidente  il  contrasto  tra 
i  due  obiettivi  diversi,  a  cui  mirano,  da  una  parte,  il  poema  de  re- 
rum natura,  e  dell'altra  il  trattato  de  natura  deorum,  che  non  si  può 
dubitare  del  proposito  dell' Arpinate,  di  contrapporre  il  suo  libro,  de- 
stinato a  ristorare  il  culto  degli  dèi ,  al  meraviglioso  poema ,  che 
aveva  avuto  per  scopo  ed  effetto  di  detronizzarli. 

Era  forse  un  pentimento  tardivo,  sopraggiunto  nell'animo  del  fi- 
losofo  e  dell'uomo  politico  ! 

Gli  antichi  eran  soliti  di  compiere  con  amorosa  cura  questo  de- 
licato ufficio,  di  tener  cioè  desta  la  memoria  degli  amici,  col  pubbli- 
carne le  opere,  che  essi  avessero  lasciate  per  caso  interrotte  o  pure 
inedite.  Sappiamo  da  Probo,  che  1'  edizione  delle  satire  di  Persio 
fu  compiata,  dopo  la  morte  immatura  del  poeta,  dall'amico  di  lui, 
Anneo  Cornuto,  il  quale  leviter  eas  retractavit. 

Tale  revisione,  come  risulta  degli  scoliasti,  dovè  avere  per  com- 
pito di  smussare  e  velare  o,  anche,  di  eliminare  del  tutto  dal  tessuto 
di  esse,  alcune  allusioni,  troppo  violente  o  troppo  aperte,  a  Nerone, 
perchè  il  liber  satirarum  potesse  più  liberamente  circolare  nel  pub- 
blico. La  cura  dell'edizione  fu  poi  da  Cornuto  affidata  a  mi  altro  a- 
mico  di  Persio,  a  Cesio  Basso. 

Un  ufficio  consimile  dovè  compiere  anche  Cicerone  verso  l'opera 
di  Lucrezio,  riordinandone  forse  gli  scomposti  frammenti  e  lasciando 
al  fratello  o  ai  copisti  le  cure  più  modeste  della  pubblicazione. 

La  testimonianza  esplicita,  che  ce  ne  ha  tramandata  Geronimo, 
trova  conferma  in  quel  luogo  delle  Epistole  di  Plinio  3,  15,  dove,  par- 
landosi appunto  di  questa  consuetudine  degli  antichi,  di  farsi  editori 
delle  opere  poetiche  dei  contemporanei,  si  attesta  di  Cicerone,  che 
mira  benignitate  poetar uni  ingenia  fovit. 


1  Sopra  la  traccia  degli  appunti  ,  raccolti  da  un  corso  di  lezioni,  che    circo- 
stanze diverse  hanno  finora  vietato  di  pubblicare, 


136  E.    COCCHIA. 


Qualcuno  potrebbe  dubitare  della  coperta  allusione,  intraveduta 
in  queste  parole  al  poema  di  Lucrezio  ,  per  il  fatto  che  il  nome  di 
lui  non  apparisce  mai  nelle  opere  dell' Arpinate.  Ma  non  conviene  di- 
menticare che  Cicerone,  sebbene  intrecciasse,  con  sì  spiccato  compia- 
cimento, alla  sua  prosa  fiorita,  citazioni  frequenti  ed  olezzanti  di  poeti 
antichi,  ha  lasciato  sempre  da  parte  i  contemporanei,  e  non  ha  con- 
cesso quest'  attestato  d'  onore  nemmeno  a  Catullo  ,  al  quale  pure  fu 
avvinto  dai  vincoli  più  intimi  dell'  amicizia,  e  dal  quale  derivò  non 
pochi  influssi  nel  magistero  sovrano  dello  stile,  che  gli  ha  fatto  onore. 

Oltre  a  questo  raffronto  indiretto  e  persuasivo  ,  soccorre  ovvia 
la  considerazione,  che  Cicerone  evitò  tòrse  in  sèguito  di  fare  pur  cenno 
del  poema  di  Lucrezio  ,  per  non  dar  corso  e  maggiore  diffusione  a 
dottrine  ,  ravvivate  dal  calore  dell'  arte  ,  ma  affatto  repugnanti  alle 
proprie.  La  sua  coscienza  filosofica  e  politica  l'aveva  portato  ad  as- 
sumere uua  posizione  risoluta  e  decisa  contro  l'Epicureismo,  e  l'aveva 
costretto  quasi  a  dimenticare  la  parte,  che  quale  erudito  egli  aveva 
preso,  parecchi  anni  innanzi,  alla  pubblicazione  di  un  poema  splen- 
didissimo, destinato  a  illustrare  quella  dottrina.  Ma  neppure  più  tardi 
egli  potè  spogliarsi  interamente  del  fascino  esercitato  sul  suo  spirito 
da'  luminosi  bagliori  del  genio  luereziano,  con  cui  ebbe  e  mantenne 
comuni  gli  ideali  della  vita  politica.  E  forse  derivò  da  queste  memorie, 
non  mai  obliate,  della  giovinezza  gli  splndidi  colori,  di  cui,  tra  tutte 
le  dottrine  contradette  ,  ha  circonfusa  con  special  cura,  in  ogni  circo- 
stanza, la  lucida  e  vigorosa  esposizione  delle  teorie  d'Epicuro. 

Conviene  anche  aggiungere,  che  Cicerone  non  si  mostrò  mai  uno 
Stoico  astioso  ed  arcigno,  rìgidamente  e  teologicamente  chiuso  nella 
cerchia  angusta  di  una  dottrina  esclusiva.  Egli  appartenne  all'Acca- 
demia, e  questa,  com'  è  noto,  professava  la  dottrina  del  dubbio. 

Si  badi  inoltre  che  Cicerone  ,  per  la  sua  professione  oratoria  , 
dovè  conservare  grande  libertà  di  pensiero,  congiunta  a  piena  indi- 
pendenza di  giudizio. 

Senza  di  questa  considerazione,  non  si  spiega  come  egli  ci  si  mo- 
stri ,  nelle  sue  feroci  invettive  contro  Pisone  ,  quasi  come  un  difen- 
sore dell'Epicureismo,  e  come,  per  difendere  Murena,  non  esiti  a  com- 
battere le  intemperanze  metodiche  e  dottrinarie  dello  Stoicismo,  lo 
non  nego  che  a  questa  apparente  mutabilità  o  contraddizione  dei  suoi 
criterii  filosofici  abbiano  contribuito,  volta  per  volta,  le  necessità  e  le 
preoccupazioni  delle  opposte  tesi,  che  aveva  preso  impegno  di  far  trion- 
fare. Ma  si  fermerebbe  all'  apparenza  chiunque  chiudesse  gli  occhi 
alla  luce  ideale,  con  cui  l'autore  trasfigura  nobilmente  queste  evolu- 
zioni progressive  del  suo  pensiero. 


PARTEÌ   I.  UX   GIUDIZIO   DI   CICERONE.  137 

Il  temperamento  di  Cicerone  èra  improntato  da  un  grande  equi- 
librio mentale  ;  e  questo  si  rispecchia  anche  nella  temperanza  della 
sua  condotta  politica  e  nella  deferenza  costante  alle  opinioni  degli 
amici  ,  tra  i  quali  il  più  intimo  fu  sempre  per  lui  Tito  Pomponio 
Attico,  cioè  un  lido  ed  autorevole  seguace  della  dottrina  epicurea. 


Di  questi  contatti  di  Cicerone  con  Lucrezio  e  con  la  filosofia  e- 
picurea  troviamo  due  tracce  assai  cospicue  nelle  sue  epistole. 

La  prima,  di  cui  esclusivamente  ci  occuperemo  in  questo  saggio, 
risulta  da  una  lettera  al  fratello  Quinto,  2,  9,  .'> ,  scritta  nel  feb- 
braio del  700  ,  nella  (piale  ci  è  dato  forse  di  sorprendere  un  giudi- 
zio assai  acuto  del  sommo  oratore  sui  meriti  singolari  del  più  grande 
poeta-filosofo,  che  vanti  l'umanità.  Egli  scrive:  «  Lucretii  poémata 
«  ut  scribis  ita  sunt  multis  luminibus  iugenii  multae  tanien  artis  sed 
«  cuiii  veneris  virum  te  putabo  si  Sallustii  Empedoclea  logeris  lio- 
«  minem  non  putabo  ». 

Gli  editori  giudicano,  per  solito,  queste  parole  come  di  colore  o- 
scuro;  e  si  provano  ad  emendare  variamente  la  lezione  dei  mscr.,  per 
quella  fallace  tendenza  che  ci  porta  talora  a  voler  trovare  riflessi 
negli  scrittori  antichi  i  sentimenti  nostri  e  le  opinioni,  che  per  av- 
ventura ci  siamo  formati  intorno  al  concetto  che  essi  ebbero  della 
vita  e  dell'arte. 

Xel  caso  in  esame  ,  gli  errori  di  ermeneutica  ci  sembrano  deri- 
vati direttamente  dal  fatto,  che  i  critici  considerano  la  testimonianza 
di  Cicerone  come  posteriore  alla  morte  di  Lucrezio.  E  con  tale  pre- 
concetto immaginano  di  trovarvi  un  accenno  all'emendazione  e  pub- 
blicazione del  poema,  a  cui  l'Aspinate  si   era   già   accinto. 

Vedremo  che  nemmeno  questo  punto  di  vista  giustifica  le  emen- 
dazioni congetturali,  con  cui  essi  si  sono  studiati  di  adattare  il  pen- 
siero di  Cicerone  alle  loro  teorie.  Ma,  intanto,  vogliamo  preliminar- 
mente osservare,  clic  dalla  tradiziono  di' Donato,  il  (piale  fa  coinci- 
dere la  morte  di  Lucrezio  coli' anno  in  cui  Virgilio  assunse  la  toga 
virile  ,  non  deriva  irrefutabilmente  che  Lucrezio  sia  morto  nel  001) 
di  IL,  cioè  nel  55  av.  Cr.  In  quell'epoca  Virgilio  contava  appena  15 
anni,  cioè  due  di  meno  dell'età  legale  richiesta  per  l'assunzione  tra 
gli  efebi.  L  ci  è  da  ritenere,  che  la  combinazione  cronologica  di  Do- 
nato sia  meno  attendibile  della  notizia  conservata  in  un  codice  mo- 
nacense del  EX  secolo,  dove  quella  coincidenza  è  riportata  al  XXVII 
anno  della   vita  di    Virgilio.   Se  si  combinano   insieme  i   due  dati  ,  si 


138  fc.    COCCHIA.  PARTE   I. 

trova  assai  più  plausibile  l'ipotesi,  che  corregge  la  facile  duplicazione 
iniziale  di  questa  nota,  col  riferire  la  morte  di  Lucrezio  e  la  virilità 
di  Virgilio  all'anno  53  av.  Cr.,  cioè  701  di  Eoma. 

Questo  spostamento  risulta  giustificato  anche  da  qualche  indizio, 
che  ci  par  di  scorgere  nelle  oscure  parole  di  Cicerone,  riferite  dianzi. 
La  forma  del  plurale  poèmata,  con  cui  questi  si  riferisce  all'opera  di 
Lucrezio,  non  può  accennare  al  contenuto  organico  del  de  rerum  na- 
tura, quale  noi  lo  possediamo,  ma  soltanto  a  brani  o  estratti  del  poe- 
ma, quali  forse  già  correvano  per  le  mani  degli  studiosi.  Certo  quella 
forma  esclude  che  1'  edizione  complessiva  del  poema  fosse  un  fatto 
già  compiuto,  nell'anno  700,  a  cui  il  cenno  di  Cicerone  ci  riporta. 

Le  prime  note  di  quelle  parole  ci  lasciano  infatti  intendere,  che 
Quinto  aveva  preso  l'iniziativa  o  accettato  l'invito  di  discorrere  dei 
meriti  dell'opera  lucreziana.  Ma  non  appare  chiaramente  quale  fosse 
stato  il  pensiero  di  lui,  perchè  il  consentimento  del  fratello  è  espresso 
in  una  forma  affatto  generica  :  «  Lucretii  poemata  ut  scribis  ita  sunt, 
cioè  «  l'opera  di  Lucrezio  ha  proprio  il  valore  che  tu  le  attribuisci  ». 

Sulla  natura  di  questo  giudizio  vengono  a  gettar  luce  gli  ele- 
menti successivi ,  espressi  nella  forma  antitetica  :  multis  luminibus 
ingenti  multae  tamen  artis.  Ma  non  tutti  ne  intendono  la  correlazione 
esatta,  in  cui  son  posti  col  pensiero  dell'autore. 

Si  nota  anzitutto  il  contrasto  tra  la  forma  diversa  in  cui  sono  e- 
spressi  i  due  membri  di  questo  inciso,  risultante  da  un  ablativo  (mul- 
tis luminibus)  e  da  un  genitivo  di  qualità  (multae  artis).  Ma  non  si 
avverte,  che  ciò  è  perfettamente  conforme  all'uso  costante  degli  scrit- 
tori classici,  di  costruire,  al  plurale,  in  caso  ablativo  il  complemento 
di  qualità. 

In  secondo  luogo,  la  presenza  del  tamen  nel  secondo  termine  ha 
fatto  credere  a  parecchi  interpreti  ,  che  qui  si  tratti  di  un  contrap- 
posto tra  luminibus  ed  artis,  e  che,  mentre  l'un  termine  accenna  ad 
una  lode,  l'altro  contenga  un  biasimo. 

Si  badi,  però,  che  il  multae  artis  non  si  presta  per  se  stesso  a 
siffatta  interpretazione.  E,  per  ridurlo  ad  essa,  si  sono  escogitati  due 
diversi  mezzi. 

Alcuni,  come  il  Beit zen  Stein,  han  creduto  che  ars  valesse  in 
questo  luogo  a  un  dipresso  come  tè%vri ,  cioè  «  disciplina  » ,  e  signi- 
ficasse l'organismo  dottrinale,  l'aridità  del  tecnicismo  filosofico.  Altri 
invece,  come  il  Bergk,  mantengono  ad  ars  il  suo  significato  normale, 
ma  suppongono,  per  mantenere  l'antitesi  che  hanno  immaginata,  che 
innanzi  a  multae  artis  sia  caduta  la  negativa  non.  Giusta  questa  loro 
opinione  ,  Cicerone  avrebbe   riconosciuta  in  Lucrezia   molta   potenza 


UN   GIUDIZIO   DI   CICERONE.  139 


inventiva  e  fantastica,  ma  non  già  lo  splendore  della  forma  artistica. 
Altri,  come  il  Lachmann  e  l'Ermesti,  han  creduto  invece  che  la 
negazione  sia  rimasta  soppressa  innanzi  a  multis  luminibus  ingenu,  e 
che  Cicerone  abbia  riconosciuta  a  Lucrezio  l'arte  della  parola,  ma  non 
la  potenza  creatrice  della  fantasia. 

Tutte  queste  ipotesi  sembrano  a  me  inattendibili  e  contradittorie. 

Quanto  alla  prima  io  noto,  che  il  parallelismo  formale  è  rinfor- 
zato dalla  presenza  del  multae ,  e  che  quest'  aggettivo  applicato  ad 
artis  implica  uno  lode  ,  non  altrimenti  che  i  multis  riferito  a  lumi- 
nibus ingenti.  I  Latini  infatti  distinguevano  tra  loro  nettamente  la 
facoltà  dell'  ingenium ,  cioè  della  potenza  creatrice  e  fantastica,  e 
Vars,  che  è  l'attitudine  a  rappresentare  in  forma  perfetta  e  sensibile 
le  creazioni  dell'ingegno.  In  tal  senso  Ovidio  poteva  esaltare  in  En- 
nio la  robustezza  della  fantasia,  a  scapito  delle  attitudini  artistiche: 
Ennius  ingenio  maximus  ,  arte  rudis.  Ma  tale  antitesi  non  si  giusti- 
fica in  persona  di  Lucrezio  ,  i  cui  carmi  parvero  a  buon  diritto  a 
Fervorino,  presso  Gellio,  come  ingenio  et  facundia  praecellentia.  Or  non 
vi  ha  dubbio,  che  in  questo  giudizio  faoundia  è  l'equivalente  di  ars; 
né  può  esser  diverso  il  giudizio  di  Cicerone. 

Quanto  alle  altre  ipotesi,  basta  l'audacia  contradittoria  delle  e- 
mendazioni  proposte  ad  escludere  la  verosimiglianza  intrinseca  di  esse. 

Il  nostro  parere  è  questo,  che  di  emendazioni  congetturali  non 
vi  sia  punto  bisogno  ,  per  intendere  il  pensiero  di  Cicerone.  E  son 
portati  a  fargli  violenza  soltanto  quelli  i  (piali  immaginano,  clic  sia 
contradittorio  in  bocca  di  Cicerone  un  giudizio  favorovole  intorno  a 
un  rappresentante,  anche  insigne,  della  filosofia  epicurea. 

Io  non  dimentico  che  Cicerone  ,  nelle  Tusculane,  contraddice  a 
Lucrezio  soprattutto  nell'esaltazione  entusiastica,  che  lo  aveva  indotto 
a  paragonare  a  un  dio  il  sue  maestro,  lògli  scrive  in  1,  l'I  :  «  solco 
«  saepe  mirali  nonnullorum  insolentiam  philosophorum  ,  qui  naturae 
«  cognitionem  admirantur  eiusque  inventori  et  principi  gratias  agunt 
«  eumque  venerantur  ut  deum  ».  Ma  il  dissenso  nella  dottrina  non 
poteva  impedire  a  Cicerone  un  giudizio  equanime  ed  imparziale,  che 
riconoscesse  almeno  le  attitudini  poetiche  di   Lucrezio. 

Grande  anche  a  lui  doveva  parere  la  differenza  tra  l'arte  ancora 
rude  di  Ennio  ,  1'  introduttore  dell"  esametro  nella  poesia  romana  ,  e 
quella  di  Lucrezio,  che  preludeva  così  splendidamente  ai  fulgori  del- 
l'età augustea.  In  particolar  modo,  poi.  Cicerone  non  poteva  dimen- 
ticare di  essere  stato  precorso  da  Lucrezio  nel  felice  ardimento  di 
adattare  la  lingua  latina  all'espressione  più  varia  dei  concetti  filoso- 
fici ine  ci. 


140  È.    COCCHIA. 


Se  queste  nostre  presunzioni  colgono  nel  giusto  segno,  ne  deriva 
di  conseguenza ,  che  le  parole  di  Cicerone  intorno  all'  ingegno  e  al- 
l' arte  di  Lucrezio  non   possono   contenere  alcuna  ombra  di  biasimo. 

10  non  so  se  un  concetto  simile  errasse  vagamente  anche  innanzi 
al  pensiero  del  Wesenberg,  quando  propose  di  mutare  multae  ta- 
men artis  in  multae  etiam  artis.  Ma  1'  emendazione,  a  cui  trascorse, 
contribuì  ad  annebbiare  1'  intuizione  ,  che  forse  gli  era  brillato  alla 
mente,  e  disperse  o  lasciò  senza  presa  le  felici  suggestioni,  alle  quali 
poteva  dar  luogo.  Egli  conce])!  quell'inciso  (multis  luminibus  ingenti, 
multae  etiam  artis)  come  una  continuazione  del  pensiero  di  Quinto, 
e  lasciò  sparire  l'antitesi,  che  Marco  Tullio  aveva  opposto  al  consen- 
timento generico  nel  parere  di  lui. 

Noi  non  sappiamo  precisamente  quale  questo  parere  fosse  stato. 
Ma,  se  1'  opposizione  implica  una  lode,  conviene  ritenere  che  il  giu- 
dizio di  Quinto  fosse  stato  poco  favorevole  atl'opera  di  Lucrezio,  alla 
quale  forse  rimproverava  di  essere  niente  altro  che  «  un'esposizione 
in  versi  di  Tina  dottrina  filosofica  »,  alla  maniera  dell' Empedoclea  sal- 
lustiana.  11  fratello  Marco,  pur  convenendo  nel  fatto,  ribatteva  però, 
che  il  poema  lucreziano  rifulgeva  per  una  grande  potenza  inventiva 
e  per  abbondanti  tesori  d'  arte. 

Qualcuno,  però,  potrebbe  obiettare  a  questo  nuovo  tentativo  er- 
meneutico ,  che  il  pensiero  di  Cicerone,  per  riuscir  chiaro,  dovrebbe 
esser  preceduto,  anche  nel  primo  termine,  dalla  particella  avversativa 
tamen.  Ma,  a  prescindere  dalla  durezza  che  avrebbe  presentato  il  giro 
della  frase  :  multis  tamen  luminibus  ingenii  multae  artis,  e  dalla  man- 
cata cadenza  ritmica  del  secondo  membro  dell'inciso,  ove  ne  fosse  spa- 
rito il  tamen;  è  pure  a  notare,  che  lo  spostamento  di  questa  particella 
nel  secondo  termine  unifica  sotto  un  sol  punto  di  vista  l'antitesi,  alla 
quale  Marco  Tullio  aveva  intenzione  di  dar  rilievo  :  antitesi  che  non 
poteva  risultare  incerta,  in  alcun  modo,  al  lettore  della  lettera,  come 
è  riuscita  dura  ai  suoi  interpreti. 

Fermato  questo  criterio,  risulta  facile  e  chiaro  anche  il  concetto 
espresso  nel  novello  inciso  ,  che  tanto  ha  affaticato  sinora,  e  inutil- 
mente, l'intelligenza  di  critici  illustri:  sed  cum  veneris 'virum  te  pu- 
tabo  si  Sallustii  Empedoclea  legeris  hominem  non  putabo. 

11  Marx  propone  di  interpungere  questo  brano  con  un  punto 
fermo  dopo  veneris ,  come  se  l'autore  volesse  intendere  :  sed  cum  ve- 
neris (pi lira  dicani).  Ma,  a  prescindere  che  il  cum  veneris  è  troppo 
evidentemente  legato  colla  frase  successiva  (putabo),  è  anche  a  notare 
che  1'  ellissi,  proposta  dal  Marx,  riesce  troppo  dura,  e  che,  per  risul- 
tare evidente,  essa  dovrebbe  essere  almeno  integrata  in  questa  forma: 
sed  [plura]  cum  veneris. 


UN   GIUDIZIO   DI   CICERONE.  141 


Il  Bergk ,  invece,  che  aveva  proposto  di  dirimer  l'antitesi,  at- 
tribuendo il  primo  termine  al  giudizio  di  Quinto  ,  e  contrapponendo 
a  questo,  con  un  tentativo  d'integrazione  non  necessaria,  il  pensiero 
di  Marco  Tullio  :  Lucretii  poemata,  ut  scribis,  ita  sunt ,  multis  lumi- 
nibus  ingenii,  ]non]  multae  tamen  artis,  si  trova  costretto  a  integrare 
anche  lui,  nella  seconda  parte,  il  pensiero  dell'autore,  che  gli  riesce 
zoppicante.  E  propone  di  aggiungere,  dopo  cum  veneris,  la  frase  ad 
umbilicum  ,  nel  senso  di  «  ad  flnem  ,  ad  extreunuu  ».  Ma  ,  a  tacere 
della  grave  e  inesplicabile  omissione,  non  s'  intende  neppure  il  pen- 
siero o  il  ghiribizzo  che  risulterebbe  da  questo  gioco  di  parole  :  sed 
cum  veneris  ad  umbilicum,  rirum  te  putabo. 

11  fatto  è  questo,  che  le  parole  di  Cicerone  non  hanno  bisogno, 
per  essere  ben  intese  ,  di  nessuno  dei  complementi  immaginati  dai 
critici.  Anzitutto  bisogna  cogliere  nettamente  l'antitesi  del  pensiero, 
a  cui  Cicerone  ha  dato  rilievo,  col  contrapporre  virum  a  hominem,  cioè 
«  l'uomo  forte  e  di  lena  »   all'  «  uomo  intelligente  ». 

Quanto  poi  al  Sallustio,  l'autore  dvWEmjiedoclea,  conviene  —  in 
mancanza  di  fonti — rassegnarsi  a  supplire  coll'iinmaginazione  quello 
che  esse  ci  hanno  involato.  Da  Cicerone  abbiamo  notizia  di  un  Gneo 
Sallustio  ,  che  gli  avrebbe  consigliato  di  rimutare  il  piano  dei  suoi 
libri  intorno  alla  Repubblica.  E  può  ritenersi,  che  questo  stesso  sia 
stato  anche  autore  di  una  traduzione  in  latino  dell'opera  poetica  di 
Empedocle,  intitolata  7Csqì  (pv6EGìg. 

Quest'  opera  ispirò  anche  il  titolo  ed  alcuni  concetti  del  poema 
di  Lucrezio  de  rerum  natura  ;  ma  dovè  essere  travestita  in  latino 
dal  suo  traduttore  col  titolo  Empedoclea,  estratto  dal  nome  del  poeta 
agrigentino  che  l'aveva  composta. 

La  contrapposizione  giustifica  questa  ipotesi  e  ci  lascia  supporre 
che  Quinto  ,  per  attenuare  il  valore  del  poema  di  Lucrezio  ,  abbia 
paragonato  senz'altro  ad  esso  un  altro  poema  filosofico,  cioè  VEmpe- 
doclea  tradotta  da  Sallustio.  E  Marco  Tullio,  clic  eia  forse  abituato 
a  prendere  in  gioco  non  meno  la  bassa  statura  clic  la  corta  intelli- 
genza di  Quinto,  avrà  ribattuta  con  arguzia  bonaria  l'infelice  compa- 
razione, coli' aggiungere  alle  lodi  già  fatte  di  Lucrezio  questo  motto 
di  spirito  :  sed  cum  veneris,  virum  te  putabo,  si  Sallustii  Empedoclea 
legeris,  hominem  non  putabo,  clic  vogliono  significare  in  lingua  umile 
e  povera:  «se  alla  tua  venuta  avrai  forza  di  leggere  il  poema  di 
Sallustio  intitolato  da  Empedocle,  io  ti  giudicherò  un  uomo  di  lena, 
ma  non  un  uomo  d'  ingegno  ». 

Napoli. 

Enrico  Cocchia, 


UN  FRA/AMENTO  DI  CODICE 

delle  «  Institutiones  grammaticae  »  di  Prisciano. 


iiar  t^  miurrtiilctClan  t-  ti  uteri  it-u  u  (uncini  pslOi. 

TtUL/»fa.ìt'i-;/M'l":  '  ,  \.:t.i,.,^j.; 

ne?CAi^nua*uuih<iba\-nipi>11~Vr.,.>ii><.'  tra  .ilr'  ut '  \ 
r^/iuHuTcufejctLujn^.uJunc-f oriti  aCncMo  f.irrnf  uot.it  < 
1  IN  U01R  lAlSCUH:  (^RiM.*.  ì  /  Ct'lWfOHQto- 

xm  kc  1  Pti  Lt&f  a I  iwstrifA  §xtttj  vi  par  r  <.± 

0  Hh    l  l  l  1  C  l  I   i  R ■  ' 


t^ttfru%l<f ex~ti:i  ponurtr  -tu 


^pallfmiiicuPùncrafn.tUrtnvmi <:fcqut>nààtHituui  mt 


Fig  81. 

È  nell'  Archivio  distrettuale  di  Schicca,  e  mi  fu  mostrato  come 
una  curiosità  archivistica  i  mentre  cercavo  tra  le  carte  più  antiche 
qualche  documento  che  avesse  importanza  storica. 

Nicolò  Giannina,  notaro  di  Sciacca  dal  E516  al  L567,  soleva 
scrivere  l'indice  dei  suoi  atti  in  fascicoletti  di  carta  di  forma  rettan- 
golare. Uno  di  essi  (e.  31  >  11  )?  e  precisamente  quello  dell'anno  della 
prima  indizione  1527  ,  ha  per  copertina  una  pergamena  ,  che  è  un 
frammento  di  un  codice  molto  antico.  Leggendo  mi  accorsi  che  conte- 
neva una  parte  delle  «  Institutiones  grammaticae  »  di  Prisciano  ,  il 
grammatico  del  V  secolo  ,  che  nacque  a  Cesarea  ed  insegnò  a  Co- 
stantinopoli quei  precetti  i  quali  poi,  scritti  da  lui  stesso,  servirono 
di  base  all'insegnamento  del  latino  fino  al  secolo  XV. 

11  frammento,  di  cui  do  notizia,  risulta  di  un  foglio  intero  e  di  un 
altro  in  parte  tagliato.  Dal  foglio  intero  ricaviamo  le  dimensioni  del 


1  Ne  farà    menzione  il  conservatore  G.  Epifanio  in   un  suo  lavoro  siili'  ordi- 
namento di  quell'Archivio. 


UN   FRAMMENTO   DI    CODICE.  143 


codice ,  mm.  23  >  X  177  ,  di  cui  inni,  200  X  108  occupati  dalla  scrit- 
tura. Esso  ha  nella  parte  laterale,  che  corrisponde  a  quella  superiore 
della  copertina  dell'  indice  «  Alfabetici,  anni,  prime,  indicionis. 
1527.  »  Il  secondo  foglio  manca  a  destra  di  una  striscia,  che  certa- 
mente fu  tolta  per  pareggiare  la  copertina  dell'indice  colle  pagine 
dello  stesso.  È  largo  mm.  138,  senza  la  striscia  che  comprendeva  an- 
che una  piccola  parte  dello  scritto  ;  sicché  le  parole  lunghe  sono  in 
fin  di  riga  dimezzate,  le  brevi  mancano  del  tutto.  I  fogli  sono  scritti 
da  tutte  e  due  le  pagine  e  ciascuna  contiene  invariabilmente  33  righe. 

11  codice  ,  al  quale  apparteneva  il  frammento  ,  non  pare  poste- 
riore al  sec.  X.  La  scrittura,  che  è  la  carolina  perfezionata,  trovasi  in 
generale  in  buono  stato  di  conservazione,  più  nelle  due  pagine  corri- 
spondenti alla  parte  interna  della  copertina  che  nelle  altre.  Il  punto 
sta  in  luogo  di  qualunque  segno  ortografico  e ,  quando  equivale  al 
nostro  ,  è  seguito  da  lettera  maiuscola.  Se  questa  cade  in  principio 
di  rigo  è  scritta  nel  margine. 

Il  testo  è  in  generale  molto  corretto  e,  se  si  toglie  qualche  va- 
riante, per  altro  assai  rara,  e  il  ci  che  sostituisce  costantemente  il  ti, 
quando  è  seguito  da  altra  vocale  ,  risponde  a  quello  pubblicato  da 
Martino» Hertz  nell'edizione  critica.  (Prisciani  Grammatici  Caesariensis 
Institutionum  Grammaticarum  libri  XVIII.  Lipsiae,  MDCCCLXVTIII). 

S'incontra  talvolta  qualche  correzione  che  pare  fatta  dalla  mano 
stessa  che  scrisse  il  codice. 

In  tutta  la  prima  pagina  del  primo  foglio  e  nelle  prime  cinque  ri- 
ghe della  seconda  si  discorre  del  pronome.  Segue:  «  Finit  Liber  Pri- 
sciani Grammatici  ])e  Pronomine  (XIIJ.  Incipit  Liber  Eiusdem  Q  (?) 
XIIIJ  De  Preposicione  Feliciter  ».  Questa  indicazione  con  varianti 
più  o  meno  notevoli  si  trova  in  parecchi  dei  codici  consultati  dall'e- 
ditore, dei  quali  un  solo,  il  Carlsruhense  223  l,  ha  il  «  finit  »,  gli  al- 
tri hanno  «explicit».  Il  «  Feliciter»  prima  o  dopo  il  titolo  delle  va- 
rie parti  della  Grammatica  di  Prisciano  si  trova  nei  codici  sin  dal 
secolo  IX.  L'abbiamo  nell'Ambrosiano  B.  71,  che  è  appunto  di  quel 
secolo,  al  f.  09  2. 

Xel  resto  di  quella  seconda  pagina  e  nelle  due  del  foglio  rita- 
gliato si  tratta  della   preposizione. 

Il  secondo  foglio  iterò  non  è  la   continuazione  del   primo. 

La  la  riga  del  foglio   1°  A  è:  «  k  «pud  est  talis  vel  tantus  ?  '  dici- 


1  È  del  sec.  IX.  Hertz,  op.  cit.   voi  I,   1865,   p.   XIIII. 

2  Cfr.  Spogli  ambrosiani  latini  del  Sabb;ulini   iu   Studi  ititi,  di  filol.  class,   voi. 
XI,  p.  241. 


144  V.    EPIFANIO. 


mus  '  similis  huic,  de  quo  loquimur  '  ergo  cum  ad».  Nell'ed.  Hertz 
corrisponde  al  r.  30  della  p.  20  del  II  voi.  —  Il  foglio  1°  B  finisce 
colla  riga  «...eia,  ut  '  scribit  et  legit  homo  '  vel  '  hiatus  et  fortis  homo', 
ut  et  hoc  ipsum  planius».  Hertz,  p.  25,  r.  5:  «et  ut  hoc  ipsum  ple- 
nius  ».  La  maggior  parte  dei  codd.  ha  però  la  lezione  del  nostro.  — 
11  1°  r.  del  foglio  2°  A  è  :  «  in  I  historiarum  '  ad  bellum  persi  ma- 
cedonicum  '  numero  ad...».  Hertz,  p.  30,  r.  20. —  Ultima  riga  del  fo- 
glio 2°  B:  «...  puyr{  evi  xatavevQr]  co  etci  %oXXa  spo  ».  Hertz,  p.  33, 
r.  17:  «  ...  yid'm  evi  "avòiccveCqti, — 'Sii  sui  TtoXXà  èvó[t]6cc...» 

Confrontando  il  testo  del  frainm.  colla  stampa  dell'ed.  Hertz,  si 
vede  che  tra  i  due  fogli  del  cod.  mancano  quattro  pagine  di  scrit- 
tura. Infatti  il  1°  f.  equivale  a  70  r.  di  stampa  (da  p.  22  a  p.  25) ,  il 
2°  f.,  che  contiene  molte  citazioni  di  versi,  a  93  r.  (da  p.  30  a  p.  33). 
In  media  abbiamo  circa  80  r.  di  stampa  per  ogni  foglio  del  codice. 
La  lacuna  che  è  tra  i  due  fogli  corrisponde  102  r.  di  stampa  (da  p.  25 
a  p.  30);  mancano  quindi  precisamente  due  fogli  del  cod.,  cioè  i  due 
fogli  di  mezzo  di  un  fascicolo  di  pergamene  piegate  ,  delle  quali  la 
nostra  era  la  penultima. 

Noi  non  sappiamo  in  qual  modo  quel  framm.  venisse  nelle  mani 
del  notaro  di  Sciacca.  Ma  1'  esistenza  di  un  codice  molto  antico  in 
quella  parte  della  Sicilia  ci  fa  credere  che  anche  ivi  nel  Medio  Evo 
il  testo  di  Prisciano  si  adoperasse  per  l'insegnamento  del  latino. 

Palermo, 

Vincenzo  Epifanio. 


N0MI2MATA  EBETON 
E0NOTS  ArNaSTOr  0ES2AAIAS  KAI  HTIEIPOr. 

(ZvyifioXri  sii;  trjv  vofiL6[icctix^v  rrjg  xvgCag 
xaì  titq  MsydXrjg  'EIXddog). 


Ehàv  22. 


Ra{>'  ov  ypóvov  ".t^iòv  tt(v  Xiav  Tifxwaàv  as  7cpó<7x>.i]<Tiv  to5  *và  gumust 
xa.ay(ù  sì;  ttjv  (juYypixtpyjv  -k ou  TÓp.ou  —pò;  ti|7//jv  tou  ffocpoù  cruvao£X<po'j  u.ou  K..°u 
'Avtwvivou  £a>iva  SGJCSTrrójx'/jV  —  olov  ì)à  tjto  tc.  [aòcXXov  àpj/.ó£ov  Oiy.a "EàV/jvi 
vo[x'.T[/,aTi/tt5 ,  ypà'povTi  —pò;  tijjl^v  '  IraAo^  G'jvaòsXfpo'j ,  aT/o^'/jOivro;  ìouo; 
£>,;  TVjv  [j-ùl-rr^  Ttov  vo|JU<j»/.àTtdv  tv;;  IVLsyà>.7j;  'EW.aSo;,  àyaOv-  ti;  Tuyyj 
sùyjpsffTTJtì-7]  va  »/.oi  — xpo,j'7'.à'77j  <xvsx,&otov  vó[/.u;|/.a,  <jy*Ti£ójjt.svov  à»/.£«7Ci>;  »xsv 
—pò;  T/jv  vo«i.t<7|/,aTt/C^v  tyj;  sopito;  '  E}JXxr)o; ,  é|X|JLS<70);  òè  —pò;  éz.£Ìv/jv  c/j; 
év  'IcaXìz   MevocX'/j;  '  EXXàòor. 

Tò  vóu.iG'/.a  tovjto  (Etxtòv  U2)  àvsjeaXuo&'/j  £<7yàro>;  — apà  t/jv  XaX/Cioa 
xr,;  Eùpoia?,  avutasi  ùi  v\iv  tco  /..  I\  \.  XaT^vjVtx.oX'ìj ,  Sixvjyópw  sv'Atb]- 
vat,; ,  x.aì  syst.  to  scr,;- 

Xocl.  30  /;.)..  —  ZEYS  —  EOETON  ~spt£  xapattjc  Aio;  8a?vo*TS?ou; 
STTpaaviv/];  —pò;  àp.   Tò   òXov  sv  >cu;cXto   ff'paipiouov. 

"Ott.  Tx\)po;  /.-jpiGTcov  -pò;  $s;.  £-1  ypxy.jr?,;  n/ìf);j!.aTt^O'j<r/j;  s^spyov, 
sv  to   ...   EIQN. 

Io  Tra/'jTaTOv  (6  yi^iocTtòv)  ttstxXov  y.xl  •/;  oXto;  à<7'jvr(ab);  oià  cà  vo- 
r/,i<TaaT<x  T7J?  xjjpito;  'EXXaSi?   òX/.v;    ocuto'j    {Voxy.y..   31,92) }     x/jpìio;   hz  co 

10 


146  L  N.  ZfioQ&vog.  parte  i. 

ysyovò;  oti  tj  xscpotAY)  tou  Aio?  sìvat,  àvtiysyQcc^iiBvrj  àxò  twv  voy.tcrjAaTfov 

TCÒV    2upaX.0U(7WV  ,    TtoV    (pSpOVTCOV    7T£pl    T0CUT7JV    TYjV     X.S'paATjV     TTjV    £77 lypacpvjv 

ZEYS  EAEYOEPIOS  l,  cóv  aocAiara  rà  /aA*à(Eìx(òv  23) 

sivai.  tou  ocÙtoù  s£aipsTix.(3;  —ayso;  ttstocaou,  scTps^av 
rà  (ÌAs;A[AaTa  [/.ou,  (//jtouvto;  t'^v  Trarpi^a  ror  vo;AÌ<7[Aa- 
to;  toutou,  —pò;  T/]v  MsyaATjv  'EAAa^a,  ói  /.al  oùSs- 
7:ot£  àvaxaAu— tovtxi  sv  t9j  Eùpoia  yaA/à  voaÌGjAaTa 
T7jc  MsyaÀT];  'EaaocSo;. 

Tt]?  fV  s~iypa<p7j;  AIO*  EOETQN  àvv)x,ou<n);  xpo- 
cpavco;  sì?  t^v  votu<7[/.aTt>a]v  ssipàv  t<3v  tÒ  sttiOstov  tou 
Elxàv  23.  a7rs»c.ovt£o[jtsvou  ftsou  si;  sO-vo;  ti  v]  ttoaiv  àva<pspou<7(òv 

STcìypacpuv,  -  oiai  7r.  /.  ai  s-typa'-paì  AIO£  TAP2EQ1X, 
AIOE  SOATMEnN,  0EOY  MEFA/VOr  OAU2ITaN,0EaN  KABEIP12N 
2rPION,0HBH  AAPAMrTHNON,TrXH  AAPAHNON,AHMOr  ArKIT- 
PANON,  ^  PAZAION,  NrZAEQN,  PÉMAION,  <MAAAEA<t>EON  *ta.  2-, 
é^TTjcra,  aAAa  [v.ottjv,  év  t?j  MsyaAY]  'EaXocSi   Aaòv  <pspovTa  rò  ovo;/.a  tcòv 

'E&STtOV. 

Tots  S'  ojaw;  àvsjAvr^xbjv  oti  tÒ  'E&vi/.òv  !No|Atc>[7.aT^òv  Mouasiov 
T(3v  'Atbjvwv  x.£XTV]Tixt  SsuTSpov  svtsaw;  o[/.oiov  ,  av  fcaì  )aav  s<pS-ap[Asvov, 
vo[/.wi[/.a  t<3v  'Et>£T(3v,  svqs&sv  èv  'HjtelQG) ,  7rspl  ou  6  àoiotf/.o;  7:po;caToyó; 
[/.ou  'A^iaasÙ;  rio<7TOAax.a;  sStjjaocÌsucsv  év  -r/j  rTpuTavr/.v]  toù  'E&vix.ou  yj;a(ov 
ITav£7rtGT7][xìou  AoyoSocia  tou  'Ax.a&yj[A.   stou;  1882  —  1883  (ctsa.  190)  rqv 

SqTJ;  7T0Al'Tip,0V    C>Y)[/.SÌ(i)C>tV  : 

«  Nótii6[ia  'HtcsCqov,  cog  (paCvsteci 
«  KecpaTj)  Atò;)  (Bou;  /.upiTTtov.  —  Nóf/.wjjux   suts/vou  puOjAOu  àXXà  x.ax.c5; 

«  SiaTST7]p7][/.SVOV  ,    TTSpiEpyOV    &S    X.0CÌ    àElOTa|AtSUTOV     £V£X.3C    TOU    Tùa/SO;    a'JTOU 

«  tcstocaou  (6  /laio(7T(3v  tou  PaAAi.tto~  [/.srpou)  xai  tou  <TTa$-[/.ou  (ypa[/.[/..  28,42), 
«  àriva  7ìptOTO<pav^  Si'  éf/i  sv  Tòte  yjxaxòi;  V0f/i<7[/.afft  tvj;  xupito;  'Eaaocòoc. 
«  EvQS&r}  dh  rò  èv  lóyca  vófiiòiia  èv  'HxsCqgì  %axà  trjv  diufisfiuCcìGiv 
«  tov  cpiloiiovGov  dcoQrjtov  n.  navccyiórov  Kccvdtfl?]  xov  ex  tov  %coqlov 
«  NÙGxoqu  tìjg  'HxsCqov  ». 

Tè  ysyovòi;  Sé  oti  rà  xpòg  xà  sx  t^;  /tuptw;  'EaXocoo;  ouo  voaiaiAaTa 
o[j.ota  tou;  tuttou?  jcocì  TTjV  TS/voTpo7Tiav  vo[/.«7|J!.aTa  t^?  Msyal'/j;  'EaXocSo; 

àv/j/CQuaiv    si;    tou;    ^pcvou;    tou;    Trspl    tv;v    sì;    T7(v  MTaAÌav  s>C7Tpa.TSÌav 


1  Imhoof-Blumer.  Mounaies  Grecques  p.  30,  no  60—65. — BMC.  Sicily  p.  184 
no  265;  p.  188  no  311  fig.  (=  Elxwv  23)  —  320.  Ufi%.  ucci  rà  o^oia  vo[iÌG[icctu  r&v 
Aoxgmv  xt\s  BQBttiag. 

2  JI/3X.  xai  rag  vo^iOfiatizàg  èmyQatpdg ,  Zsvg  EvQafisvg,  EXXdviog ,  KsXsvsvg, 
Aaodixiog,  Avéiog,  Tgóaiog,  Zolv[iEvg,  xrX.  7}  Aihg  rovaiov,  AccqccgLov,  xtX. 


Nofile^iaTa  '  E&etcóv. 


147 


(334 — 330  7C.  X.)  toù  (taffiXéw;  t<ùv  MoXo<i<t<3v  tvj;  'Hrcstpou  '  AXò^av^poo 
A.'  toù  Nòot:to>Ì;ao'j  (342—330  -.  X.)  *,  otti;,  <•>;  /tal  ó  ;z£t  o>'  ttoXÙ  pa- 
GiXs-j;  tv;;  aÒT/j;  'Hraipou  rióppo;  ,  s>co^av  év  ttj  Msyàta]  'EXXatòt  /.ai  év 
aoTVJ  T7J  '  I  I-£ip(.)  vov.i^xaTa  Òy,oia  ,  ttjv  t£  T£/voTpo~iav  /.al  toò$  tùtcoo;, 
-pò:  rà  vo;xicr[AaTa  t-?(;  Rarto  'Ixalia;  /.al  tv;;  ZwcsXia;*  rpò;  $è  tÒ  yeyovò? 
Óti  oi  tutto  i  toù  voyicry.aTo;  tojv  'E&st<3v,  ^toi  r,  5ce<paX^  toù  Alò;  /.al  ó  /.u- 


Eìkòv  24. 


-'  •■  rei  ^-f 


Etxwv  25. 


pi<7<J<ov  Taùpo;,  à— avrcomv  è—'  àXXtov  voy.iTy.aTMv  év  'I  [7rsipw(Etxoìv  24  /.al  25) 2, 
£vì)a  /.al  alla  voo.io-y.aTa  l~ .  y.  Ta  rtov  MoXottoW  /.al  T?j;  '  A.TroX'Xtovia;)  3, 
sivai  éxiavi;  ~ a/io;  TreràXou  ,  ÉTTps^av  toc;  ttsoI  toù  7.aoù  t<ov  'ES-stójv 
spsuva;  u.ou  —pò;  t^v  "I  I"ipov. 

'E— sir^vj  o'  oy.co;  oùV  év  tJ]  'II— ìipco,  out  év  0'jSs|i.ia  àXXv]  /cóoa  toù 
àpyaiou  /.óoy.ou  ^ouvTjibjv  va  supco  Xaòv  «pépovTa  to  ovoaa  tojv  'EO-etóW, 
lìpsuvvjffa  àvayxaito;  jjltqtoi  to  ovojxa  touto  éoxóih]  77aps(p8-apjxsvov  £v  tivi 
tcov  ào/ai(ov  /c,si|xsvcov,  <ó;  —  o),)i/.i;  (T'jvs^t]  Trpox£i|/ivou  —spi  òvoj/.àr(Ov  — óXetov 
òXiyov  yvtocrrtòv.  Eupov  o     aX-/}i)<ù;  toioùtov    ti    ovoy.a    év  toj    écvj;  /(opico 

STÉcpavo;  Bu^àvTto;  év  >..  «'E&vé 6x  ai,  é&vog  &s6óaUag,  aitò  'Eftv  é- 
drou  Tàv  NsoitroXéiiov  itaCòcov  ivóg,  àg  Piavbg  ò'  xaì  s'  ». 

Tà  /.al  -/Xwoo"i/.(o;  'j~o~ot  'E&vétitUL  /.al  ,Ed,vsóTrjg,  yvioffrà  é/.  aóvou 
toù  yiopiou  toutou,  òovaTÒv  va  — po£p/(ovTai  éc  eÙvotjtou  àvTtypaoi/.où  o-oaX- 
v.aTo;,  ysvvyjDivTo;  é/.  tv;;  év  tco  aÓTto  ytopuo  à[/i<7w;  étt o;xév/j;  t<ù  'E&véótccL 
A£l£<o;  s&vog  w;  /.al  é/.  ttj;  £Ì;  to  -vzZ'j.x  rravrò;  Xoyio'j  àvTiypaoéto;  /.(o- 
Sixtov,  ypaoovTO;  ~£pi  (-)£T'7aXia;,  ép/0{/.évyj;  -aoiyvtÓTTO'j  (-)£Taa>.i/.r(;  /i^£(o; 
itsvéótai. 

'Ettei^y]  Xi  to  soyov  toù  Ptavoù ,  é<;  oó  -y.zi'Ky.'jZ  tÒ  Òvoy.a  toù  (-)£t- 
craXi/.où  £()voo;  tcov  'Efrv£<TTtov  ^Téoavo;  ó  Bo^àvTio;,  £Ìvai  ttòcvtw;  r«  (9f<?- 


1  Pauly-Wissowa,   Real-Encyclop.   si1  i.  Alexandros  ceX.  140  x.  t. 

2  BMC.  Thessaly  to  Aetolia  pi.  XVII,  1  xai  .")  (=  E/xcor  25)  xcà  pi.  XX,  1,  3,  4. 
(=£/xcbv  24). 

3  BMC.  è',  d.  pi,  XII,   10  xai  pi.  XVIII,  9. 


148  I.    N.    Z$OQ&VO$.  PARTE   I. 

(Saltila  ou  to~  l,  àrtva  TTspts^ayjiavov  16  toùaÓ)W7tov  [itp'Xìa  2,  ó  Ss  Piavo; 
s^tjcts  xspt  tÒ  tsao;  toù  T'  aìcovo;  7t.  X.,  ó  TOXT/jp  toù  'EtWsgtou  yj  'EOstou 
Nso— tÓ}.su.o;  SovaTov  va  sìvat  ó  7ca<TiyvciMTTO$  év  ttj  i/.'j&oXoyta  uio?  toù 
'  A^tX'Xsco;  /al  tv;;  AyjtSa;./..sia;  IIuppo;  ,  6  /otvco;  NsoTtróls^iog  x.aXouj/.svo;, 
y]  sxstSy)  oùSsl;  tcov  uicov  toi'tou  cpspst  tÒ  ovop.a  toù  '  E&vsctto'j  ,  SuvaTÒv 
oùto;  va  stvat  ó  [xsypt  toùSs  àvcóvu;/.o;  /al  s/  |aovo'j  toù  FlXouTap^o'j  (lTupp.  2) 
vvoffrè?  STspo;  tcov  uìcov  toù  (3acrtASco;  T"/j;  'Htì sìpou  Nso~toas[aou  ,  TjTOt  ó 
tASTa  to~  àSsXpoù  aÙTOÙ  '  A'XsEàvSpo'j  (342 — 330  %.  X.)  £— avsvsy&sl;  sì;  tvjv 
fanùxxrp  àpyyjv  Orco  twv  MoT.ottcov,  twv  /yjpu^àvTcov  £/t;tcotov  toù  Opóvo'j 
tov  Aìa/tSvjv,  ^toi  tov  7raT£pa  toù  tots  [AOAt;  St£Toù;  IIuppou,  ov  cptAot  Ttvè? 
Sta  ttoa'Xcov  /tvSuvcov  icp'jyàSsucrav  si;  tyjv  ycópav  toù  [iiaGiASto;  twv  TauXav- 
ticov  FAau/tou  3. 

'Ev    7j    XSpt7rTtó(7£t    7]    TaUTttft;    TCOV    'Efrv£<7TCÒV     XpÒ;    TOÙ;    'E0"£Ta;    £tvat 

òp&7j,  xà  votticTTaxa  tjjacov  à7ùopatvoo<7tv  sùvóvjTa  /al  Sy^  co;  éEvj;  : 

Tà  xpò;  ttjv  0£<7<7aAtav  opta  T7J;  'HxeCpou,  to/vtots  [.lèv  ìSioì;  Se  /aTa 
tou;  ypóvou;  toù  ^affiXéw;  '  A>.s£avSpotj  toù  Nsotcto^ìjaou  (342 — 330  ~.  X.) 
/al  nóppou  (295 — 272  n.  X.),  —  ypóvou;  sì;  ov;  /.aia  TS/voTpoTTtav  ©aivovTat 
àvyj/ovTa  tx  voy.tc^aTa  tcov  'EO-stcov, —  yJTav  oaco;  «óptffTa,  Sto  stai  rroAAal 
ttÓasi;  tcov  cuvóptov  IXoyi^ovTO    òcaaots    ;asv  w;  (*)s<7GaAi/at  ,  oXXots  Ss  co; 

'HTTSlpCOTt/aì,    SÌ;    TpOTTOV    CO<7TS    Ó    PtavÒ;    y^S'JVaTO    X.0CAAt(7Ta  —£pl  T«  TSA7]  TOÙ 

r  '  aìcovo;  x.  X.  va  x,aAS<ry]  s#vo;  ©smalta;  laòv  cpspovTa  to  ovoy.a  aÙTOÙ 

aTtÒ    UlOÙ    TOÙ    'H7TStpOJTO'J    NsOTTTOAS'AO'J.   'AÀy]#TO;  Ss  /al  /aTa  TOV  ZTpà(3tOVa 

(©',  434)  «  Sta  yàp  ttjv  STrtcpàvstav  ts  /al  ttjv  S7it/paTStav  tcov  0STTaAwv 
xat  Ttov  MaxsSóvwv  o't  — Ar.rrta^ovTs;  aÙTOt;  .aaAtTTa  twv  '  HxetpwTwv,  oi  v.sv 
É/cÓvts;  oi  S'  axovTS;  ,  [Aspyj  fca&tcrravro  y]  ©STTaAwv  v]  Maxsoóvcdv,  /.a^iXTTSp 
'A^ajAàvs;  >cat  Atì>ix.s;  xat  TaAaps;  0STTaAcov,  'OpscrTat  Ss  /.al  Ils'Xayóvs; 
/al  'E^tp.ttoTat  Ma/sSóvo>v  »  4. 

Tyjv  S'  uxó^-scrtv  OTt  oi  'EftsTat  /aTSt/ov  x^Pav  [-'-sxacò  'Hxstpou  /al 
©STTa'Xia;  /atì-tcrTa  xt-0-av/jV  /al  tÒ  ysyovò;  oti  to  ytoptov  NtTTopa  (ypa'pó- 
[asvov  rov  NéótOQcc  'j~6  Ttvwv  tcov  vùv  Aoytcov)  ,  s^  où  7ÌAi>sv  sì;  'Ai>?jva; 
ó  Scopvjaafxsvo;  to  srspov  tcov  vo|7.f7;7-aT(Ov  tcov  'Ei>stcov?  zstTat  sv  rr\  voTtava- 
toai/co;  tcov  'Icoavvìvcov  xsptoy^  toù  IMaAa/aatO'j  /al  S'/j  ày.S'rco;  xpò;  S'jTjAà; 
tcùv  Ilpa|j-avTo)v  /al  'AyvavTWV  5,  svfra  tk  vùv  /aXoù^sva   TcouiAsp/a  oprj, 


1  Poetae  minores  Graeci  (end.  Gaisford)  voi.  Ili  p.  475.  —  Siebelis,  De  Rhiano 
ehi8que  carni,  fragni.  1829.  — N.  Saal,  lihiani  quae  supersunt.  Bonn  1831.  — A.  Mei- 
neke,  Analect.  Alexandrina  p.  169.  — Pauly,  Real-Encyclop.  a.  v.  Ehianus  S.  469 — 
Mayhotf,  De  Rhianì  Cretemis  studiis  Homericis,  Dresden  1870  xrX. 

2  Steph.  Byzant.  s.  v.  AlywvEicc. 

3  Jioòwqov  10',  13. 

4  ' ISh  %a\  Bursian,   Geographie  von  Griechenland,  Tójt.  I  6eX.  48. 

5  ' ISè  Oester.  Generalkarte  von  Grieclienland  $>v%.  III.  —  JT.  '  Agaficcvrivov, 
XqovoyQayitt  tfg  'HtcsIqov  Top  B' ,  ceX.  385. 


PARTE    I.  N0(lÌ<SlLCCTCC  'E&SX&V.  149 

rà  tÒ  T:aik<x.i  à— OTsXoùvTa  to  ij.STag  'H— sipou  xaì  Szaaxklxc,  t|X7J(jux  ttj? 
'A&aaavia;  ,  oirsp  ,  àv  xal  ^uaixw?  àvnjcst  tvj  'HTrsipw  ,  sXoyi^STO  S'  oiaw; 
fj'jvv^tho;  tó;   0£T<7a>ax.óv  1. 

IIà>;  o'  éxa'XsiTO  •/)  ::ó)u;  toù  'A&av.avt,-/.où  efrvou;  twv  'E^stcov  ,  ^ 
xóòa<7a  ià  sv  aoyw  vof/.t<T[/.aT<x,  àYVOOU'xsv,  Sioti  Sugtu/o);  YJ  s— lypacpT)  t?j; 
ò~ iTtKa;  o'^sio;  toù  /.xXkiov  SiaT/jpouy.évou  xoav.aTiou  £ìvat  y.aT£TTpa;msv7] 
£v  j/ipst.  Kar  àpyà;  àvsyvwv  . . .  EIQN,  z.aTO— iv  Ss  g/sSov  asfaltò;  . .  TEIQN. 
npò  Sé  Toù  T  u— àp/ói.  /capo?  Sia  Suo  èri  ypà;./.;./.aTa,  tóv  to  SsuTspov  (paivexai 
cv   P,   outco;  (ocfTS  sìvat  )iav  — t,ftav/j  yj   àvayvtoTi;  [AP]r  E|QN  2. 

*Av  rt  àvayvto<ji;  auTin  toù  òvójxaTo;  xf.?  7ró"X£oì<;  sìva», ,  <ó;  ttkjTEuci), 
òp9-/,  tots  to  sfrvixòv  t<3v  E0ET12N  tv;  xupia;  o<j/£eo;  toù  vop-iTaaTo; 
jcmXusi  r;xac  toù  va  à~ oScÓgcoi/.ev  Ta  sv  Xóyco  vov.iTjv.aTa  £i;  to  ,A\i<fi\oyi'/Sòv 
"Apyo;,  "/j'toi  ttjv  sv  'Axapvavia  -óXiv  toù  '  M— stptoTi/COÙ  s&vou;  twv  AM^I- 
A.OX12N  3  scoti  oùyl  E0ET12N,  <ó;  x.toXuouTiv  Tjy.à;  s— t<r/];  xotì  toìjv  yvwcrTwv 
vo[xiTjxaT(ov  toù  'Ay/pi^o/wtoù  "Apyou;  7j  T£/VOTpO— la  /.al  ol  tu— 01  ,  OtTLV£; 
oùS£aiav  cy.otÓT/jTOC  -q   àvaloyiav    Trapoucrta^oust.    xpò;   ià    voaiTj/.aTa  tocùtoc 

T(ì>V  'Etì-£T(OV.  'E£  àXAOU  Sé  yV01pÌ^O[7.£V  — ptÒTOV  [JLSV  OTt.  £1?  TOJV  £/.  Xtf, 
As(i)Va<7G7];  ultòv  TOÙ  UÌ.OÙ  TO'J  '  X'/ÙCkloiC  Ns0~T0>Ì|.;.0U  ,  OV  SlSo|7.SV  <7T£V<ù; 
GUvS£Oa£VOV    7T pò;    TO    £&V0;    T(ÙV    'Et}£TÒ)V    Sia    TOÙ    UÌ.OÙ    (XUTOÙ    'E&ST0U,  S/.a- 

Isìto  "AQyog  4  *  Ssurspov  Sé  yvtopt^o|/.sv  ort,  ty;v  /oupav  twv  'Atìm/.avwv, 
sv&a  sOicra^sv  toÙ;  'Ei>£Tac,  wpt£s  -pò;  ty;v  0£tfcra}.iav  ó  TTOTa^ò?  "Iva/oc, 
ó  77por;ayop£u&£l;  outio;  à— ò  to~  óatovuaou  7TOTaao~  toù  I  \zko~ ovYriaicc/.o~ 
v  Apyou;  D'  TpiTOv  Sé  to  ovoaa  Tr(c  —  p<<)T£uou<r/];  — óX£w;  twv 'AO-aaavtov  t^to 
'AQys&la  s  v]  Argithea  7.  'Etig'/j;  et?  tov  Trp/yovov  t<ov  ^acriXitov  tt;c  'H-£ipou 
/.al  warspa  toù  N£o-to>ì;7.ou  'A/iA>ia  àvvjxs  to  A£yói/.£vov  IlsXaóyiìcòv 
"AQyos  (OjA.  'Ia.  B.  681),  o-£p  xaTa  Ttva;  [xèv  tcov  àp^auov  7(to  QóxJ.Tjpo; 
yj  0£CGa>,ia,  xaT  aX>.ou;  Sé  77£St.a:  ti;  aóvov  aÙTVJ;  ^  Tró'Xt,;  ti;  0£GGa>a/.r, 
s^a^avwO'Et'ja  x.aTa  tou;   iTTopi/.O'' ;  ypóvou;  8.    Z'/jaS'.WTéov  Trpò;  toi  toi;  cti 


1  Bursian  ?.  à.  I.  teA.  39  xé. 

2  T7JS  avvfjs  yvmprjg  stvoci  v.cà  ò  vvv  TtaQSTtiSrjuàv  èv  ' A&rjvaig  xal  fiat  ^ftov 
èì-srd6ag  xb  7tQcorÓTvnov  6vvàòsl<fog  x.  W.  Knbitschek,  zliÈvftvvzì]S  tov  No[i,i6u. 
Movasiov  T7j?  Biévvris.  Iloòg  xr\v  èniyoacpìjv  EGETSlN—APrEIilN  nagd^uXs  rag 
votiiaiiatixàg  èitiyouyàg  MOAOZZSIN-KAZZSUIAISIN,  AM^IAOXSlN-APrEISlIS 
r)  AMBPAKISITSÌN.  AK[APNANSlN]-OINIAJSlN,  AXAISÌN-APrEISlN  xzX.  xzX. 

3  EtQafìavog  Z',  321.  —  Ovta  xaì  ini  x&v  vofiKJ^arov  tov  "Agyovg  Hai  tfjg 
' An§Qav.iag  svQi6y.0(isv ,  %aou  xb  bvoua  rfjg  iróXecog ,  rb  i&vixbv  AM&IAOXSIN. 
Imkoof-Blumer  ,  Numisin.   Zeitschr.   Tóft.  X.   (187£)  aeX.  83-91. 

4  £%òXiu  Evqiti.  ' ' Av8qo\l.   24. 

5  Utgd^avog  Ti ,  326. 

0  BCH.  VII,  191,  6x1%.  35. 

7  Tit.  Liv.  38,  1  xé£. 

8  Pauly-Wisaowa  s.  v.  Argoa  JlaAaeytxó'»',  s.  789. 


150  I.    N.    SPQQ&VOS.  PARTE    I. 

x.où  tÒ  'JfwsiptóTijcòv  yévo;  twv  T:apà  T^v  ywpav  twv  '  AiS-aj/.avMv  o'wtoóvTtov 
'Op£<TTÓiv  £iy£  t:oaiv  /.a^ouu-ivrjv  "Agyos  '  Oqsótlxóv,  <k~i  toù  '  Apyetou  '  OpE- 
GTOu,  i<m?  «psuywv  tov  tyc  (xvjTpc?  cpc'vov  /.aT£Aa[Ì£  T/jv  à-'  aÙTOÙ  K.'XrjOeiaav 
'OpECTiaSa  yo!pav  ty;  'II-Eipou  l.  TlXo;  /.al  év  TV]  à(/i<7(j><;  xpò;  (ioppàv  ty; 
'IIxEipou  'iXXuptcjc,  év  ttj  y<t-'pa  toù  Auppayiou    u-apyEi  cppoupiov,    Apyo;  /.a- 

X0UJJ.EVOV   2. 

Kaxà  TaÙTa  SovaTÒv  to  vó;zi<7[j.a  f^wv  va  s/.i'tt/]  év  àyvtoGTw  yj[/.Ìv 
t:Óaei  twv  'E&etwv  ty(;  'H—sipou,  "Apyo;  /.aA0u;/iv7],  oùyl  S'  év  t£  'Aujpi- 
Aoyi/.w  "Apysi  ty(;  'Axapvavia;.  *Av  [7,àAi<7Ta  Xàc(3tój/.sv  ut: '  o^iv  oti  oi  Oe<7- 
aaAol  Sia  TYj$  )ìceco;  àpyo;  é/.aXouv  T:àv  tteSiov  3,  ouvafAsfra  va  ù—0Aa[iwa£v 
cti  ol  'EflsTai,  /taT£Ai)'óvT£;  to~v  òo£(ov  ty;  'II—sipou,  è/.Tioav  ttoXiv  £—1  TOU 
ut:  aÙTwv  /.upiEutìévTo;  [xspou^  toù  ì)'£0"oa}.ix,où  tcsoiou  (apyou;),  r]v  òi£/.pivov 
àxò  twv  òp£ivwv  auTwv  oìjcygsmv  Sia  toù  ovcjxaTo;  "AQyog  (=~£Sia;,  àypó;). 
Opò;  toùto  ~apa[iaX£  /.al  to  ywpiov  toù  Srpàfìtòvo?  (E',  221):  «/.al  tÒ 
IlE^ao-yi/.òv  "Apyo;  7)  ©s-rraAia  Xsysxai,  tÒ  u.STa£ù  T(7v  é/.(3o'Xwv  toù  IIyjvsioù 
/.al  Ttlv  ©Epy.oTwÙAóùv  £G>s  T^g  òo^iv^g  T^g  nata  nivòov  ,  Sia  to  é—ap£ai 
twv  TO—tov  toutcov  tou;  lIsAacyou;.  Tóv  t£  Aia  tov  AwSwvaiov  aÙTO?  ó  isoirprrfc 
òvoy.à^£i  n£Aacyi/.óv  ,  «  Z.eù  ava  ,  AwSwvaÌE,  risXacyiJcs  ».  J7oa^oI  <Jè  xal 
t«  ,H%siQcotv%à  e&vrj  HsXa6yi%à  slQrjxaóLV,  w;  /.al  [jiypi  S£Ùpo  éxap^av- 
twv  » .  AuvaTÒv  apa  Y)  nsXuGyixbv  "AQyog  aaXouf/ivrj  ttÓXi;  tì ;  ("^Ecca^ia;, 
rapì  tì]?  iIÉoew;  yj;  [iSj^pi  toù  vùv  ipi^ouffiv  oi  50901,  va  TauTi'^'/jTai  xpò;  to 
"Apyo;  twv  'Etì-£TÒ)v. 

'Oaov  o  àcpopa  eì;  ty^v  ÌTaXiwTi/.Y)v  cpaivoyivrjv  T£yvoTpo~iav  t£v  év 
AÓyto  vo[7.io"fj-aTtóv  tojv  'Ei>£T(òv  ,  auTTj  éc/jy£ÌTai  é/.  toù  y£yovoTo;  oti  oi. 
'  H^EiptÒTai  fi«,GÌkzX$  'AXécavSpo;  6  Nso7rroAS»/.ou  /.al  ó  llùppo;  £/.o^av  év  t£ 
Tr;  \l£yaly]  'EaXcJSi  /.al  év  aÙT/j  tvj  'Jf—Eipco  TOiauT/jc  T£yvoTpo~ia;  voyi- 
«raaTa  (ios  àvtoTÉpco).  Twv  Sé  tu-wv  y  fj.èv  >cs<paX.7j  toù  AIO^  EOETQN, 
£Ìvai,  oj;  £i'So;x£v  àvtóTSpw  ,  /.aTa  to  [j.àl'Xov  y]  y^ttov  —igtÒv  àvTiypa<pov 
5C£(paAT(;  toù  tcocvto);  /.al  Òtto  t(ov  'EJ>£T(ov  [7-£yàlcoc  XaTpsuofxsvou  AwSto- 
vaiou  Aio;  t*^;  'Hrcsipou,  r(v  eCpi<7X.ot/.£v  é~l  twv  voy.ia|j.aTcov  t<ov  Suo  toutiov 
$ocGÙs<dy  4  /jxpayO-E'ì'cav  éviOT£  xxt  «7C0[/,iu.yj<xiv  tcittyjv  tyjs  /.£oaAT|;  toù 
AIO^  EAEYOEPIOY  twv  é/.  twv  /póvcov  'AA£^avSpou  toù  NsotctoXs[/.ou 
vo»Jiwi{/.aT<j>v  tóùv  Supa/.ouc7(ov  5,  ó  Sé  tu~o;  toù  /.upujGovTo;  Taupou  to~  vo- 
|j.i(7;AaTo;  twv  'Ei>£tcov    oùyl    ;j.óvov    à-avT/.  é~l  iojv  é/.  tv;;  aÙT'7;  iizoylc, 


i   Htqcc^(ov,  Z',  326.  —  Bursjan  è',  à.  I.   esl.  10  Crjft.  xai  CfL  27. 

2  IIqoxotcÌov  7Csqì  xticiicctcov  p.  277,23.    Oéaig  'Aqy 6(5 oc  xcdov{iévri  nettai  vvv 
iv  zi)  Ttegioxìi  IJqe^etÌov  :  ' AgccfìavTivov  'HnBigatiy.ee  370. 

Etoàfi.  H' ,  372  :  «  apyog  de  xai  rò    7Csdiov    Xéyszai    tcccqu    tolg    vsatégois 

lidXiaza  d     oi'ovzai  May.BSoviy.bv  yal   &szzaXiyòv  slvui  » . 

4  BMC.  Thessaly  to  Aetolia  pi.  XX,   1-4  yal  10. 

5  BMC.  Sicily  p.  189,  uo  311  fig. 


No(ii6ticcTa  'E&ev&v. 


151 


vottMTjwcTcov  tojv  X'jpa/CO'jGtòv  4,  à».à  xal  àvTiypàcpSTai  •/.xró— iv  t:wtw;  £—1 
T(5v  tópaiojv  àpyupwv  vo|xi(7[xaT(ov  tou  xotvoù  t<3v  'IlTtSiporroiv  2. 

TsXo;  sytov  Ctc  ovj/st  to  ysyovò$  ^Tt  ot  'Efrsrai  oùo*sv  ò&Xo  (av/j^sìov 
T7J;  UTTotp^òo);  a'jTtov  àor(x.av  7]  xà  voai^a-a  mcov,  u77oXau(iiavo)  oti  ,  few? 
y.ólt;  jcaxà  toÙ;  ypóvou;  'rVXsEavSpou  to'j  Nso— to>Ì[/.ou,  outo;  •q  ó  ào*s>.©ò; 
aÙTOÙ  (' Etì-STYj?  ; )  /CotTaXa|Ìojv  [;.spo;  tvj;  ^pò;  tvjv  "II— stpov  ©scsa^t/àj;  Xoyi- 
^0{/iv>]?  yf,?  cjvwxwsv  s/.st  si?  -óliv   to  '  I 1-sipt.mx.òv   s&vos  tcov  'EO-stwv, 

OÌTIVS?  TOTS  fra  SXO'i/XV  Ta  SV  XÓy<0  VOU.M7,aaTa  yapàEaVTS?  sV  a'JTCOV  TTV 
/.SCpal'/jV    TOÒ     'IttÒ    77aVT(-)V    T(UV    '  Il77£tpO)Tt.y.(OV     StWtóV     fj.£ya>.0)?    XXTpSUO[/.SVO'J 

AoiSwvato'j  Aio;,  otti;  —ocvtco;  yto  ó  aòrò;  —pò;  tcv  Aia  twv  sx.  tvj;  'Hirstpou 
sì?  ttjv  0£C7ia7aav  y.aTsXftóvTtov  'ES-stcòv.  'EttI  Ss  Piavo~,  ytòi  —  spi  Ta  tsXtj 
toì)  r'  aitòvoc  — .  X.,  r(  ytópa  tojv  '  EftsTwv,  à— oXstocvtoìv  ttjv  aÙTOVo;.uav 
/.al  star  àxoXou&tav  to  mxaiot>f/.a  toò  x.g— tsiv  vó[/.w{/.a  ,  fra  TCspwjX&s  /.al 
— à>av  sì;  tyv  scouciav  twv  0s<jaaAwv,  Siò  outo;  sV.aXs<7sv  auToù;  sfrvo;  @s<x- 
caXiac,  [xvvju.ovs'jTa;  cjyypovo);  tv;;  à— ò  toù  '  H-sipoixou  Nso7rroXs[/.oti  xaT- 
aywyyjc  a'iTtov. 

'Ev  k&rjvcas- 

I.  N.  HpoQàvog. 


IIPOZ0HKH. 


Eìyov  7]Svj  ypa<p^  x.al  Tuxtofrr    tocvcotsoo)  ,  ots  ó  jc.  W.  Kubitscliek, 

asASTÒlv  t<x;  év    'AfrYjvat;    oia<pópou;    lo\o)Tt,/.à;    c'AAoyà;,    Trsp'.yjxpy';    àvr'(y- 

vsiXs  w.01  tÀ.v  ótt    aùxo~   àvaxaXuòtv  vsou  voaicxaToc  t<3v  'EDstóSv  x.al  or.  év 

iti  ,ii  * 

T7j  GuXXoyT)  tou  apri  à-oOxvóvTo;  x..  Troyansky,  irpwvjv  7rpo£svou  tv;;  Po)Gta<; 
év  'Icùavvivoi;  ttj;  'H— sioo'j ,  svi>a  fi£^aico;  oóto;  O^à  TjyópaTS  to  sv  Xoyw 
vóaiatj.a  (Etx.còv  23). 


E'ixàv  26. 


1  BMC.  I.  a.  p.   193  no  355—376. 

2  BMC.  Thessaly  to  Aetoliu  p.  80  no  8—13  pi.  XVII,   1  xaì  5. 


152  I.  N.  ZfioQ&vog.  parte  i. 

EtV3U    &£    TOUTO,    co?    (3a£TCI    TI?,    COZOH^tXKOì'/.'ZOV    TZ^OC,    TX    SuO    TTpcOTOC,    (XV 

y.aì  xaTa  ti  [ux.poT£pou  ttstocaou.  Kal  7]  »xèv  xupia  oojtou  0^15  eìvai  {ju/toicù- 
TaTTj;  SiaTTjpr^sw;,  s^it/jaov  lyoxiax  ttjv  STriypacp^v,  tj  drcialKa  X'  0[j.co;  fW- 
TTjpsiTai  xaAAtGra,  «pépoucra  sv  tcT  é^spyto  gx^ìgtxtx  ty)v  émvpa^TjV  APrElQN. 
Outo);  o/t  [aovov  7)  àvtoTspco  TrpoTa^sTrra  àvayvtoGt;  éwutupouTOU,  àXkà. 
/.al  7)  é£  'H:reipou   7rpo£>.£u<7t;    twv    vo|/.u7[/.àT(j)v    touto>v    £7uf}£(3aiourat.  Sia 

V£OU    X,Op.lAaTlOU. 

'Ev   'Arrivali  \t,r\vì  4sxs[i(}qÌg>  1905. 

J.  JV.  2. 


TRACCE  DI  DIRITTO  ROAANO  CLASSICO 

NELLE  COLLEZIONI  GIURIDICHE   BIZANTINE. 


Il  valore  delle  fonti  giuridiche  bizantine  per  la  critica  dei  testi 
latini  giustinianei  fu  riconosciuto  nel  secolo  XVI  dal  Cuiacio  ed  ai 
giorni  nostri  convenientemente  apprezzato  dal  Mommsen  e  dal  Kriiger. 

Ma  su  di  un  altro  problema,  non  meno  di  quello  importante,  regna 
ancora  nella  nostra  scienza  romanistica  grande  confusione;  non  si  sa 
cioè  se  quelle  stesse  fonti  possano  in  questo  o  quel  punto  prestare 
efficace  sussidio  per  la  cognizione  del  diritto  classico. 

I  giudizii  espressi  in  proposito,  sia  in  generale  sia  in  particolare 
per  singoli  argomenti  ,  dagli  autori  ricordati  di  sopra  ,  non  che  dal 
Heimbach,  dallo  Zacharia  e  dal  Ferrini  ,  per  citare  soltanto  i  più  auto- 
revoli, non  sono  scevri  di  titubanze  e  di  contraddizioni  insieme. 

Certo  quei  maestri  della  critica,  conoscitori  profondi  di  tutte  le 
raccolte  di  diritto  ,  non  possono  negare  il  fatto  che  i  greci  contem- 
poranei di  Giustiniano  danno  notizie  ,  se  non  copiose  abbastanza  fre- 
quenti ,  sullo  stato  del  diritto  preesistente  alla  compilazione  ,  e  che 
nelle  collezioni  bizantine  si  rinvengono  elementi  classici  che  non  si 
leggono  nei  libri  di  Giustiniano.  Ma  d'altra  parte  essi  negano  in  modo 
assoluto  che  gl'interpreti  bizantini  avessero  potuto  fare  uso  degli  scritti 
giuridici  più  antichi;  perchè  ,  dicono,  i  divieti  di  Giustiniano  furono 
sul  riguardo  espliciti  e  non  si  può  supporre  che  gli  stessi  contempo- 
ranei li  avessero  violati  l. 

Ecco  dunque  le  colonne  d'Ercole  che  non  si  son  potute  superare. 

Or  siffatta  credenza  non  solo  annebbia  tutte  le  cognizioni  che 
noi  ricaviamo  dai  greci,  ma  svalora  addirittura  l'importanza,  dal  punto 
di  vista  storico-critico,  di  tutta  la  letteratura  giuridica  del  secolo  VI. 
Infatti  a  me  pare  evidente  clic  ove  non  si  ammetta  1'  uso  da  parte 
dei  coevi  di  Giustiniano  dei  lavori  più  antichi  ,    tutte  le  notizie  che 


1  Su  questo  puuto  non  occorrono  speciali  richiami  perchè  io  altra  volta  ebbi 
occasione  di  segnare  le  più  importanti  citazioni;  vedi  Bullettino  I.  D.  E.  voi.  IX 
p.  272  e  seg. 


154  s.  RicconoNO. 


si  rinvengono  nei  loro  scritti  restano  malsicure,  inattendibili  perchè 
infedeli.  E  quale  altro  valore  potrebbero  mai  esse  avere  se  non  quello 
di  reminiscenze,  per  (pianto  fresche  sempre  discutibili,  delle  opere  dei 
giureconsulti  classici  e  dello  stato  del  diritto  anteriore1? 

Questa  spiegazione,  per  quanto  possa  sembrare  assurda,  fu  data 
in  verità  da  due  insigni  scrittori,  quali  lo  Zacharia  e  il  Ferrini  1.  Ma 
essi  non  poterono  addurre  poi  alcuna  frase  dalle  fonti  greche  che  ren- 
desse verosimile  il  loro  supposto;  nessuna  espressione  che  rispondesse 
per  esempio  al  modo  di  scrivere  Gelliano  «  nisi  memoria  me  fallit  » 
col  (piale  artifizio  l'erudito  scrittore  latino,  che  pur  copiava  con  scru- 
polo l'esemplare  che  aveva  sottocchio,  intendeva  ritrarre  vive  e  fresche 
le  discussioni  e  conversazioni  su  vari  argomenti.  Al  contrario  gl'in- 
terpreti greci  attestano  espressamente  in  vari  punti  che  usufruiscono 
dei  lavori  degli  antichi  maestri,  così  Taleleo  2,  così  Stefano  3. 

Io  altra  volta  credetti  poter  smontare  una  tradizione  tanto  ina- 
deguata con  1'  esame  degli  scolii  Sinaitici ,  il  documento  sotto  certi 
aspetti  più  importante  delle  scuole  orientali  a  noi  pervenuto.  Ed  af- 
fermai allora  che  le  traduzioni ,  i  sunti  e  le  paragrafe  delle  scuole 
d'Oriente  dovettero  prestare  un  valido  sussidio  agli  interpreti  della 
compilazione  di  Giustiniano  ;  i  quali  nel  formare  i  loro  commenti  uti- 
lizzarono, in  varie  maniere,  i  lavori  dei  maestri  greci,  sia  mettendoli 
in  armonia  coi  libri  di  Giustiniano  sia  trasportandoli  nei  luoghi  op- 
portuni delle  loro  raccolte  4. 

Questa  conclusione  potè  sembrare  e  sembrò  in  fatto  ad  alcuno 
esagerata. 

A  chiarire  meglio  intanto  questo  problema  di  critica  raccolgo  qui 
alcuni  altri  passi  estratti  dallo  cE^djii^Xog  di  Armenopulo,  riferenti  si 
iu  complesso  alla  materia  delle  impensae.  Se  questo  contributo  riuscirà 
a  diradare  le  incertezze  su  questo  punto,  spero  potere  coordinare  in 
un  lavoro  organico  il  materiale  raccolto  da  altre  fonti. 

E  vengo  all'esame  propostomi,  senza  preconcetti  ma  anche  senza 
pregiudizi.    Ma  anche  il  lettore   da  parte    sua    dovrebbe  per  un  mo- 


1  Zachariii,  ZSS.  voi.  X  p.  285;  Ferrini  in  B.I  D.R.  voi.  Ili  p.  63;  voi.  IV 
p.  9  ii.  1;  il  quale  del  resto  aveva  con  acutezza  e  discernimento  scritto  ripetuta- 
mente che  i  bizantini  traevano  quelle  notizie  non  direttamente  dalle  opere  dei 
giureconsulti  romani,  bensì  dalle  elaborazioni  greche  fatte  su  quelle  nel  periodo 
pregiuntinianeo;  cfr.  Per  V  Vili  Centenario  della  Università  di  Bologna  p.  85;  il  Di- 
gesto p.  81,  130  e  così  in  altri  scritti. 

2  Basii.  21,  3  cap.  4;  Heimbaoh  II  p.   454. 

3  Vari  esempi  riporta  il  Ferrini,  Per  V  Vili  Centenario  cit.  p.  85  e  seg. 

4  Cf.  Ballettino  I.  D.  B.  voi.  IX  p.  285. 


PARTB   I.  TRACCE   DI   DIRITTO    ROMANO    CLASSICO.  155 

mento  metter  di  lato  il  pregiudizio  dei  divieti  di  Giustiniano;  il  let- 
tore conosce  infatti  che  il  più  grande  legislatore  della  terra  fece  le 
leggi,  riserbò  a  se  il  compito  di  interpretarle  ,  impose  ai  giuristi  le 
forme  e  gli  scliemi  dei  loro  lavori  ,  prescrisse  i  libri  che  dovevano 
adoperare,  ma  infine,  dopo  tutti  questi  precetti  che  aveva  diritto  di 
mettere  alla  luce,  non  stabilì  alcuna  speciale  polizia  per  i  gabinetti 
di  studio  degli  antecessori;  e  fu,  per  lo  meno  in  questo  ,  savio  davvero. 

I. 

SPECIFICATIO. 

I.  Le  norme  sulla  specificano,  quali  furono  stabilite  da  Giusti- 
niano, si  leggono  in  Arm.  IT,  1  §§  22,  23.  L'esemplare  da  cui  il  nostri» 
compilatore  trasse  quei  §§  non  si  può  indicare  con  precisione.  Devesi 
però  ritenere  inesatta  la  fonte  notata  da  Heiinbach  in  questo  punto, 
con  le  parole  sumpta  sunt  lutee  ex  Theoph.  Il,  1  ,  25  (40-44)  ;  poiché 
non  solo  il  §  22  non  coincide  perfettamente  col  testo  di  Teotìlo,  ma 
il  §  23  inoltre  ,  redatto  in  forma  più  concisa  ,  contiene  nella  chiusa 
un  periodo  notevole  che  non  leggesi ,  in  questo  proposito  ,  nei  libri 
di  Giustiniano.  Salmasio  e  Reitz  ,  forse  anche  per  questa  singolarità, 
considerarono  il  tratto  come  uno  scolio;  ma  Heiinbach  li  ha  contra- 
detti ,  avvertendo  che  esso  trovasi  nel  contesto  dell'  orazione  e  che 
quindi  deriva  da  Armenopulo.    Il  passo  contiene  quanto  segue  : 

li,  1,  23  :  «  'Idtéov  òé  otl  B7CÌ  x&v  xoiovtcov  si  [ihv  xccXf]  tciótsv  eì'g 
n  ddog  vliq  [isreóxEvccó&r] ,  dvvarai  ^tjthv  ó  v>uTa<3x£vu6ag  rag  òaxdvag' 
si  de  xaxfj  TtCórst,  £i]thv  xavtag  ov  dvvatav  ». 

Il  contenuto  del  passo  chiaro  in  ogni  parte  prende  poi  maggior 
luce  dal  confronto  di  altri  testi  pregiustinianei,  ne'  quali  troveremo 
forse  sufficienti   indizii  per  scovrirne  l'origine. 

E  prima  di  tutto  un  periodo  nella  sostanza  identico  leggesi  in 
Gaio,  il  quale,  esaminati   varii   casi  di  accessione,  così  continua  : 

li,  76  :  «  Sed  si  ab  co  petamus  fundum  vel  aedificium  et  impensas 
in  aedificium  vel  in  seminaria  vel  in  sementem  factas  ci  solvere  no- 
limus,  poterit  nos  per  exceptionem  doli  mali  repellere,  utique  si  bonae 

fldei  possessor  fuerit  ». 

Di  maggior  rilievo  è  poi  il  confronto  del  nostro  testo  con  l'  epi- 
tome gaiana,  ove  la  norma  generale  del  compenso  dovuto,  in  tutti  i 
casi  di  accessione,  al  possessore  si  riscontra  ,  come  in  Armenopulo,  in 
appendice  alla  teoria  della  specificazione. 

Il  passo  11,   1,  0  così  suona  :  «  Sed  in  bis  omnibus  superbis  coni- 


156  8.    RICCOBONO.  PARTE   I. 


prekensis  quicumque  in  terra  aliena  aliquid  posuerit  aut  aedificaverit 
aut  horum  quae  dieta  sunt  aliquid  fecerit,  illis,  qni  aliena  praesum- 
pserunt,  hoe  eompetit  ut  expensas  vel  impendia  quae  in  Iris  fecerint 
a  dominis  qui  rem  factam  vindicant  recipere  possint  ». 

Intanto  per  ora  osservo  elie  gli  elementi  nuovi,  rispetto  al  testo 
di  Teofilo ,  che  si  riscontrano  nella  chiusa  del  §  23  di  Armenopulo, 
se  trovano  parziale  riscontro,  vuoi  per  il  contenuto  vuoi  per  il  collo- 
camento ,  con  le  fonti  pregiustinianee,  debbono  essere  stati  ricavati 
probabilmente  da  altro  manuale  d'istituzioni  parallelo  alla  parafrasi 
teofilina. 

Infatti  Armenopulo,  per  quanto  possiamo  vedere,  mai  si  allon- 
tana dall'esemplare  che  ha  sotto  mano;  egli  si  limita  a  riprodurre  fe- 
delmente i  brani  e  a  coordinarli  fra  loro.  Se  ,  come  avvertii  or  ora, 
i  §§  22  e  23  del  nostro  testo  non  combaciano  esattamente  con  la  pa- 
rafrasi di  Teoftlo,  e  se,  per  giunta,  il  §  23  contiene  qualcosa  di  più,  è 
forza  riconoscere  che  il  compilatore  trasse  quei  brani  da  altro  manuale 
a  noi  ignoto.  La  esistenza  poi  di  altri  testi  greci,  corrispondenti  al 
libro  di  scuola  ordinato  da  Giustiniano,  è  non  solo  probabile  ma  di- 
rettamente attestata  ';  e  nella  compilazione  del  Prochiro,  accanto  al 
testo  di  Teofilo ,  furono  adoperati  altri  comentarì  delle  Istituzioni  \ 

Inoltre  è  significativa  la  coincidenza  del  nostro  testo  con  l'epi- 
tome gaiana,  per  quanto  essa  sia  soltanto  esteriore  e  limitata  al  col- 
locamento delle  norme  per  il  compenso.  Il  testo  genuino  di  Gaio,  in- 
fatti ,  tratta  del  compenso  a  proposito  dei  singoli  casi  di  accessione 
e  cioè  nei  §§  70,  77,  7<S;  ma  nulla  dice  su  questo  riguardo  nel  §  79 
che  tratta  della  specificatìo  3.   La  stessa  osservazione  facciamo  consul- 


1  Cfr.  1'  iscrizione  alla  raccolta  delle  leggi  rustiche  contenuta  nel  ms.  graec. 
di  Parigi  1367  fui.  97,  la  quale  sembra  accennare  ad  una  versione  di  Doroteo  e 
di  Stefano  (Zachariii,  Prochir.  p.  XII  n.  3).  Altra  quistione  è  poi  se  veramente 
Stefano  abbia  tradotto  il  testo  delle  Istituzioni,  o  adoperato  un  comento  più  breve 
di  quello  di  Teotìlo;  per  l'affermativa  sta  Zachariii  [Delineatio  p.  26;  ZSS.  voi.  X 
p.  271  e  seg.];  contro  s'è  pronunziato  il  Ferrini  [Memorie  R.  Istituto  Lombardo 
voi.  18  p.  17  an.  1891]  il  quale  tentò  dimostrare  che  Stefano  avesse  adoperato 
la  parafrasi  di  Teotìlo  [Archir.   Giur.  voi.  37  p.  360  e  seg.]. 

2  Cfr.  Zachariii,  Proch.  p.  LXII  n.  29  ed  i  passi  del  Prodi.  XII,  1  de  donai. 
=  Harm.  III,  1,  2;  Proch.  XXV,  1  de  infirmatione  testamenti  =  Harm.  5,  5  in  cui 
il  testo  non  coincide  con  Theoph.  II  ,  17.  Per  altre  traccio  di  manuali  greci  di 
Istituzioni  vedi  Zachariii,  Anekd.  p.  184;  Ferrini  1.  e.  nella  nota  precedente; 
Heimbach,   Proleg.  p.  32;  Mortreuil,   Histoire  voi.  1  p.  127. 

3  Identico  è  il  rapporto  fra  i  vari  paragrafi  nelle  res  cott.  di  Gaio:  confr.  per 
la  specificatìo  D.  41,  1,  7,  7;  per  le  accessioni  D.  41,  1,  7,  12;  e  9  pr.  —  3. 


PARTE  I.  TRACCE   DI   DIRITTO   ROMANO   CLASSICO.  157 

tando  i  punti  corrispondenti  della  parafrasi  greca  e  del  testo  latino 
di  Giustiniano  ;  cioè,  vi  si  accenna  al  compenso  nei  §§  30-34  che  si 
riferiscono  alle  accessioni ,  ma  se  ne  tace  del  tutto  nei  §§  25  ,  2G  a 
proposito  della  specificano.  Invece  1'  epitome  gaiana  riassume  in  due 
brevi  paragrafi  i  casi  di  accessioni  (4  e  5)  e  nel  §  (5  tratta  ingene- 
rale del  compenso;  così  il  §  23  di  Armenopulo,  sopra  riferito,  dà  pure  le 
norme  per  il  compenso  nella  chiusa  della  dottrina  della  specificazione. 

Ciò  prova  ancora  una  volta  che  quei  manuali  d' istituzioni,  dei 
quali  rimangono  sparute  traccie,  dovettero  avere  parentela  con  le  ana- 
loghe elaborazioni  dell'Occidente.  E  tale  rapporto,  che  a  volte  si  li- 
mita all'ordine  della  trattazione  ed  a  volte  si  estende  a  coincidenze 
di  forma  e  contenuto  ,  è  tuttavia  visibile  in  tutte  le  elaborazioni  di 
diritto  dell'Oriente  e  dell'Occidente  in  questo  periodo. 

Le  ricerche  degli  studiosi  hanno  dato  in  questo  punto  risultati 
concordi  ;  si  son  potuti  constatare  molti  contatti  fra  l'epitome  gaiana  l 
e  la  Glossa  Torinese  delle  Istituzioni,  la  (piale  non  solo  è  assai  vicina 
a  Teofilo  per  l'epoca  della  redazione  2  ,  ma  deriva  essa  pure  da  un  esem- 
plare greco  3  e  presenta  affluita  con  il  testo  teotìlino  ';  così  il  comen- 
tario  gaiano  di  Autun,  venuto  alla  luce  di  recente,  ha  corrispondenza 
perfetta  ,    per  il  metodo  dell'  esposizione,  con  1'  opera  di  Teofilo  5. 

E  tutto  questo  appare  ben  naturale  ,  sol  che  si  ponga  mente  al 
fatto  che  nel  periodo  avanti  Giustiniano  tra  Roma  e  Berito  esistevano 
frequenti  relazioni  e  stretti  legami  ;  la  tradizione  giuridica  inoltre  at- 
tingendo alle  stesse  fonti  classiche  correva  nell'una  e  nell'altra  parte 
dell'Impero  parallela   6. 

II.  L'esame  del  contenuto  del  passo  di  Armenopulo  ci  guida  allo 
stesso  risultato.  La  menzione  esplicita  del  possessore  di  mala  tede,  al 
(piale  è  negato  qualsiasi  rifacimento  di  spese  con  le  parole  :  si  Òs 
zaTifj  tcCótsì,  £ijT£lv  Tccvtccg  ov  dvvatea  ,  ci  rivela  che  quello  squarcio 
riproduce  un  testo  antico.  Invero  ,  nella  compilazione  di  Giustiniano 
l'importanza  della   bona  Jìdex,  in  questi  casi,  rimase  non  solo  affievolita 


1  Cfr.   Fitting,    Zdtschrift  f.   li.  G.   XI   p.  338  e  seg.;    Hitzig  ,  ZSS.   voi.   14 
p.   187  e  seg. 

2  Cfr.   Kriiger,  Zeitschrift  f.   li.  G.   voi.   7  p.   41  e  seg.;   Fitting,  Uebcr  die  so;/. 
Just,  gloss.   und  den  sog.  Brach.  p.  13;  Kipp,  Gesohichte  dcr  Qitellen  p.  140  e  ivi  citati. 

»  Cfr.   Colui,  ZSS.  voi.  X  p.   141. 

4  Ferrini,  Archivio    Giur.   voi.   37   p.  2!*2  e  seg.    p.    101:   Memorie  del  li.  Istituto 
Lomb.   voi.   18  p.  21   ;m.   1891. 

5  Cfr.   Ferrini  ,   Atti  della  li.   Accad.   di    Torino    voi.   35    an.    1900    p.   4  e  seg. 
dell'estr. 

0  Brehmer,   Rechisschnlcn   uit.   p.  88  e  seg.;  Ferrini    1.  e. 


158 


S.    RICCOBONO. 


ma  fortemente  depressa.  Ormai,  nel  nuovo  diritto  l,  il  posto  d'onore 
che  la  Jìdes  aveva  mantenuto  senza  contrasto  nel  diritto  classico,  fu 
concesso  ad  altro  principio  puramente  materialistico  che  troviamo  già 
formulato  nel  1.  V.  dei  Digesti  nei  seguenti  termini  :  non  débefpetitor 
ex  al  iena  iaetura  lucrum  facere  2. 

Questa  massima  ebbe  nella  legislazione  giustinianea  una  funzione 
direttiva  3  ,  e  quindi  le  norme  del  diritto  antico  in  materia  di  com- 
penso di  spese  rimasero  profondamente  sconvolte  in  tutti  i  iudicia  4, 
e  di  conseguenza  in  tutti  gl'istituti  giuridici. 


1  fc  tuttavia  degno  di  nota  che  anche  1'  epitome  gaiana  ,  nel  passo  di  sopra 
riportato  ed  altrove,  non  distingue  più  possessori  di   bona  e  mala  fede. 

2  D.  5.  3,  38.  La  correzione  fatta  da  Triboniauo  alla  decisione  di  Paolo  è 
stata  da  me  più.  volte  avvertita;  cfr.  anche  Fabro,  Raiional.  voi.  2  p.  293;  il  Per- 
nice (Labeo  II  ,  1  p.  389  e  seg.)  tuttavia  ritenne  il  passo  genuino  ma  non  potè 
superarne  le  difficoltà. 

3  Con  la  stessa  formulazione  si  legge  in  D.  20-5,  12,  1  in  un  lungo  periodo 
interpolato;  cfr.  Riccobouo,  Bullettino  I.  I).  B.  voi.  Vili  p.  188  n.  5,  ed  ora  il  Segré 
negli  Studi  di  diritto  offerti  a   V.  Scialoja  voi.  I  p.  279  n.   1. 

4  Non  è  questo  il  luogo  di  richiami  prolissi  ,  tuttavia  mi  sia  permessa  una 
breve  digressione  con  1'  esame  di  uu  punto  di  diritto  molto  discusso  e  ripetuta- 
mente frainteso,  relativo  all'accio  negot.  gest.  contraria.  Si  chiede  se  colui  che  ge- 
risce affari  altrui  depraedandi  causa  possa  ottenere  compenso  per  le  spese  fatte. 
Giuliano  rispondeva  nel  fr.  5  §  5  D.  5-3  sicuramente  che  no,  in  base  ai  principii 
più  fermi  del  d.  elassico  ,  ed  in  particolare  poi  per  la  natura  del  iudicium  bonae 
fidei.  La  motivazione  giulianea  fu  conservata  nel  testo  con  tutta  la  sua  forza  esclu- 
siva :  quia  improbe  ad  negotia  mea  accessit;  essa  ha  nel  testo  l'efficacia  d'un  domina, 
formulato,  in  altra  occasione,  da  Ulpiano  (D.  47,  2,  12,  1)  con  le  note  parole: 
memo  de  improbitate  sua  consequitur  actionem.  Ma  i  compilatori  moderarono  quella 
decisione  inserendo  nel  passo  una  proposizione  notevole.  Riporto  per  maggior 
chiarezza  il  testo  dai  Digesti  ed  accanto  la  facile  ricostruzione  del  testo  genuino, 
perchè  il  lettore  giudichi  a  vista. 

Dig.  5,  3,  5,  5.  Jnlianus. 

Sed  et  si  quis  negotia  mea  gessit  non 
mei  conteniplatione  sed  sui  lucri  causa 
Labeo  scripsit  suum  eum  potius  quam 
menili  negotium  gessisse  qui  enim  de- 
praedandi causa  accedit  suo  lucro  non 
meo  commodo  studet.  Sed  nihilominus 
immo  magis  et  is  tenebitur  negotio- 
rum  gestorum  actione.  Ipse  tamen  si 
circa  ics  meas  aliquid  impenderit  non 
in  id  qnod  ei  abest,  quia  improbe  ad 
negotia  mea  accessit  sed  in  quod  ego 
locupleiior  factus  sum  habet  contra  me 
actionem. 

Come  si  vede  la  restituzione  del  testo  giulianeo  riesce  a  meraviglia;  e  la  strut 


Ipse  tamen  si  circa  res  meas  aliquid 
impenderit,  in  id  quod  ei  abest.  quia 
improbe  ad  negotia  mea  accessit  non 
habet  contra  me  actionem. 


PARTE   I.  TRACCE    DI    DIRITTO    ROMANO    CLASSICO.  159 

I  testi  classici  furono  per  questo  rispetto  modificati  con  sufficiente 
coerenza;  il  rilievo  che  era  fatto  dai  giuristi,  costantemente,  riguardo 
alla  condizione  particolare  del  possessore  di  mala  fede  fu  soppresso 
o  con  aggiunte  modificato.  Pertanto  nella  compilazione  e  nelle  opere 
dalla  stessa  derivate  non  restano  che  sporadiche  tracce  di  (pici  con- 
trapposto, e  queste  poi  si  rinvengono  più  facilmente  nei  libri  che  per 
il  sistema  seguito  nella  loro  formazione  meglio  aderiscono  agli  esem- 
plari antichi  *  ,  ovvero  in  brani  qua  e  là  sfuggiti  alla  avvedutezza  dei 
commissari  2. 

Per  contrario  ,  le  applicazioni  del  nuovo  principio  formano  nei 
libri  giustinianei  un  materiale  soverchiaste  che  non  può  essere  co- 
stretto nelle  angustie  di  una  nota.  Ma  nemmeno  occorre  in  proposito 
documentazione  alcuna,  dacché  il  più  grande  esegeta  delle  nostre  fonti 
potè  affermare  senza  titubanza  e  vittoriosamente  che  riguardo  al  com- 
penso delle  spese  utili  e  necessarie  il  diritto  romano  (intendi  giusti- 
nianeo) stabilì  una  perfetta  eguaglianza  tra  il  possessore  di  buona  fede 
e  di  mala  fede  3  ;  ed  il  Pernice  4  nella  sua  più  recente  trattazione 
dell'argomento,  nella  quale  mirava  principalmente  a  mettere  in  luce 
le  dottrine  dei  giureconsulti,  non  ottenne  risultati  sicuri  uè  soddisfa- 
centi; difatti,  le  sovrapposizioni  giustinianee  ,  sfuggite  al  suo  occhio 
vigile  ed  acuto,  gli  velarono  la   visione  intera  e  precisa  delle  norme 


tura  stessa  del  passo  ne  offre  il  miglior  argomento  .   dacché  il  tamen  riacquistò  la 
forza  avversativa  che  aveva  e  che  rimase  sminuita  nel   periodo  giustinianeo. 

]>opo  tutto  possiamo  constatare  che  il  principio  giustinianeo,  di  cui  s'è  di- 
scorso, trovò  anche  qui  una  applicazione  cospicua.  I  dubbi,  le  discussioni  e  pro- 
poste di  Cuiacio  (Opera  voi.  4  p.  273)  Noodt  (Probab.  3,  9)  Pacchioni  (Gestione 
p.  439  e  seg.)  ed  altri  su  quel  passo  sono  pregevoli  soltanto  per  questo,  che  met- 
tono in  chiaro  le  insormontabili  difficoltà  di  quella  decisione  nell'  ordine  degli 
insegnamenti  classici.  Infatti  s'è  voluto  superare  l'ostacolo  dicendo  che  Giuliano 
limitava  l'azione  all'arricchimento,  per  via  di  exceptio,  retentio,  pensai  o,  condictio 
ed  escludeva  quindi  1'  actio  neg.  geni,  contraria.  Ma  tutto  ciò  che  importa  ?  Qual- 
siasi compenso  dato  al  gestore  di  mala  fede  urta  lo  spirito  dei  diritto  classico;  e 
per  il  d.  giustinianeo  è  ozioso  discutere  di  formule  come  Giustiniano  stesso  si 
esprime  nella  L.  47  $  1  D.  h.  t  ;  haee  suptilitas  superracua  est;  è  reale,  invece,  e 
notevole  che  a  simile  gestore  è  dato  un  compenso   per  via  di   azione. 

1  Cioè  nelle  Inst.  II,  1,  30-34. 

2  D.  41,  1,  7,  12;  eod.  9  pr.  §  1  ^Gai  rea  cott.  cioè  nel  contesto  di  lunghi 
frammenti;  indirettamente  poi  in  I).  9.  2.  27,  5  (Ulp.  ad  ed.)  I).  44.  4,  14  (Paul. 
resp.)  ed  infine  in  due  Const.   di  Dioclez.   e   Mass.   C.   3.  32,    16;  8.   10.   5. 

3  Cuiacio,  Ob8erv.  X  cap.  I  e  passim;  cfr.  anche  il  recente  scritto  dello  Schey, 
Festsehrift  fiir  Dr.  I.    Unger  1898  p.   415  e  seg. 

4  Labeo  II,   l2  p.   380,  390. 


160  S.    RICCOBONO. 


classiche;  egli  pertanto  finì  col  dire  che  le  fonti  offrono  in  proposito 
insegnamenti  vacillanti  e  manchevoli  l, 

È  invece  intuitivo  che  a  raggiungere  onorevolmente  la  méta  bi- 
sognava prender  le  mosse  dalle  testimonianze  contenute  nelle  opere 
di  diritto  pregiustinianee  ,  le  quali  se  offrono  a  questo  riguardo  xiochi 
accenni  questi  sono  in  compenso  concordanti  e  incontrastati  2. 

Ma  ai  fini  del  presente  lavoro  gioverà  meglio  V  esame  di  altro 
testo  riportato  da  Armenopulo,  dal  quale  potremo  trarre  nuovi  argo- 
menti a  conferma  delle  idee  svolte  e  delle  asserzioni  finora  fatte. 

II. 

SUMPTUS  IN  REM  ALIEN AM  EROGATI. 

I.  Harm.  II,  1,  35  :  «  fO  xccxfj  -ìgxu  %ivov  olxov  XQatcov  xai  ve- 
[irj&eìg  ànodCàioói  xà  hvqCo  tovrov  avxóv  iitrà  Tcdvtav,  rag  elg  ^sIxìgjólv 
tov  olxov  ttoirjórj,  rag  dh  hit''  avrà  è£,ódovg  ov  lct[i(5avei  ». 

La  fonte  da  cui  Armenopulo  trasse  questo  squarcio  è  ignota  anche 
qui  3.  Esso  contiene  intanto  l'indice  di  una  costituzione  di  Gordiano 
(a.  239)  che  nel  Cod.  è  così  riportata  : 

e.  5  [III.  32.]  :  «  Domum,  quam  ex  matris  successione  ad  te  per- 
tinere  et  ab  adversa  parte  iniuria  occupatam,  esse  ostenderis,  praeses 
provinciae  cum  pensionibus  quas  percepit  aut  percfpere  poterat  et 
orimi  causa  damili  dati  restituì  iubebit.  1.  Eius  autem  quod  impendit 
rationem  haberi  non  posse  merito  rescriptum  est ,  cum  malae  fìdei 
liossessores  eius  quod  in  rem  alienam  impendunt ,  non  eorum  nego- 
tium  gerentes  quorum  res  est,  nullam  habeant  repetitionem,  [nisi  ne- 
cessarios  sumptus  fecerint  :  sin  autem  utiles,  licentia  eis  permittitur  sine 
laesione  prioris  status  rei  eos  auferre]  ». 

L'  ultimo  periodo  che  si  legge  ora  nella  costituzione  del  Codice 
non  faceva  parte  del  rescritto ,  ma  fu  aggiunto  dai  compilatori.  Il  ri- 
scontro preciso  con  altre  interpolazioni  osservate  nei  Digesti  e  nel 
Codice  mette  la  cosa  fuori  dubbio  4;  quindi  il  sunto  riferito  da  Arme- 
nopulo fu  tratto  dal  rescritto  genuino  di  Gordiano.  Altre  spiegazioni 


1  Pernice,  1.  e.   p.  389  e  380. 

2  Gai  II,  77,  78  (e  le  fonti  che    fan  capo  a  Gaio  citate  a  p.   156  n.   3)   Cod. 
Greg.  e.  1,  2  de  rei  viud.  3,  6  e  Vinterpetr.,  Edictnm  Theod.  §  137. 

s  Heimbach  rivendica  anche  questo  testo  alla  Synopsis  :   15  ,  1 ,  61;  erronea- 
mente come  si  vedrà  più  oltre. 

4  Cfr.  Riccobono,  Bull.  I.  I).  E.  voi.  IX  p.  244  e  seg. 


TRACCE   DI   DIRITTO    ROMANO    CLASSICO.  161 


non  sono  possibili,  per  quanto  ad  esse  si  faccia  volentieri  ricorso  pur 
dai  migliori  critici  delle  fonti,  Ma  come  non  si  può,  in  questo  caso, 
sospettare  che  Armenopulo  avesse  arbitrariamente  soppresso  la  chiusa 
del  testo  ,  così  nemmeno  si  può  dire  che  nella  pratica  posteriore  a 
Giustiniano  siano  avvenute  modificazioni  in  questo  punto  di  diritto; 
infatti  in  tutte  le  fonti  bizantine  il  compenso  è  accordato  pur  al  pos- 
sessore di  mala  fede  e  lo  iu8  tollendi    vi    è    largamente  riconosciuto. 

Ma  per  questo  riguardo  abbiamo  un  argomento  diretto  che  ci  è 
fornito  dallo  stesso  Armenopulo,  il  quale  nel  titolo  medesimo  riporta, 
questa   volta  dalla  Synopsis  l,  il  testo  interpolato. 

II.  1,  6.  «  'O  xbv  àlkóxQiov  olxov  "/.axfj  (xulfi  Ilaria.)  -xtóxu  vs- 
{irfòùg  ànoSldcofìi  fihv  avxbv  i.iexà  x&v  6xfyovo^Uav  "/.al  xavxòg  ÌtÌqoV  tà 
ds  òccTtavrjticcxcc  ov  Xunfldvsi,  [el  /ìj)  uqu  àvccyxald  slói'  xà  de  ènacpeXri 
dvvaxai  fiij  fiXàttxcov  xr\v  ÙQ^aCav  otyiv  ucpeXéG&cci]. 

I  due  sunti  greci  della  costituzione  di  Gordiano  differiscono  fra 
loro  per  la  forma  ed  alcune  varianti  di  rilievo.  Soltanto  il  §  0  ,  che 
riproduce  l' interpolazione  ,  coincide  col  testo  dei  Basilici  2  e  quindi 
della  Sinopsi;  il  §  36  invece  viene  da  altra  corrente  e  la  sua  origine 
è  sicuramente  pregiustinianea.  Che  quest'ultima  epitome  sia  stata  fatta 
sulla  prima  edizione  del  Codice  di  Giustiniano  non  si  può  provare,  si 
hanno  invece  buoni  argomenti  per  escluderlo. 

Come  è  noto  lo  Zacharià  mise  in  campo  quella  congettura  per 
spiegare,  ove  occorrono,  le  discordanze  tra  il  testo  del  Codice  a  noi 
pervenuto  e  le  traduzioni  greche  ;  egli  cioè  affermò,  ripetutamente  3, 
che  in  simili  casi  la  versione  di  Taleleo  ed  il  comentario  alle  costitu- 
zioni dello  stesso  portassero  vestigia  della  prima  codificazione  del  ÓLMI. 
È  facile  osservare  in  contrario  che  se  lo  stesso  fenomeno  si  ripete  in 
altri  comentari  greci,  in  brani  rispondenti  ai  vari  libri  di  Giustiniano, 
quella  ipotesi  riesce  insufficiente,  ed  anche  per  questo  verso  deffiniti- 
vamente  condannata  4. 

La  spiegazione  più  naturale,  che  è  anche  coinè  di  solito  la  più 
semplice,  emerge  dall'  insieme  delle  prove  raccolte  in  queste  pagine; 
nel  manuale  di  Armenopulo  cioè  fu  accolto  il  sunto  del  testo  giusti- 


1  Cfr.  eài/..  dello  Zacharià  :  J  5  p.   16*. 

2  Zacharià,   Suppl.  p.   36:  B.   15,   1,  85. 

3  Zacharià,  Kritische  Viertelyahreschrift  voi.  16  p.  221  e  seg.;  Zeitschrift /.  E.  G. 
voi.   X  p.  62;  Zeitschrift  SS.   voi.   Vili   p.   10.   36.   39,  41,  46.  55.  61. 

4  Vedi  contro  già  P.  Kriiger,  prae/at.   p.   XIV-XVIII  .  e  nella  sostanza  anche 
in   Geschichte  der  Quellen  p.  364  n.  32. 

11 


162  S.    RICCOBONO.  PARTE   I. 

nianeo  *,  ma  insieme  vi  passò  l'epitome  pregiustinianea  ricavata  dalla 
costituzione  genuina.  Di  passi  riportati  in  varie  redazioni  si  hanno 
vari  esempì  nel  manuale  di  Armenopulo,  come  in  tutte  le  opere  com- 
pilatone dell'antichità. 

Il  nostro  §  36  pertanto  fornisce  ancora  un  elemento  autorevole 
per  la  dottrina  del  diritto  classico  in  materia  di  compenso  di  spese 
e  miglioramenti.  Il  contrasto  con  il  diritto  giustinianeo  ,  secondo  le 
idee  svolte  nell'  articolo  precedente ,  non  potrebbe  essere  meglio  do- 
cumentato. 

III. 

INAEDIFICATIO,  PLAFTATIO,  8ATI0. 

I.  Anche  in  altre  collezioni  greche  rimasero  traccie  dei  nuovi  or- 
dinamenti che  ho  messi  in  rilievo. 

Nel  vó[iog  yecoQyiìtóg  e  precisamente  nei  paragrafi  aggiunti  al 
nucleo  primitivo  che  appaiono  nelle  redazioni  più  recenti  si  legge  il 
brano  che  segue  :  2 

'O  Iv  àXXotQÌ(ù  èddcpsi  ntC^av  t)  GtisIqgìv  r)  (pvtEvcov  7}  ocXXo  ti 
è^ya^ó^svog  èKitiKtéta  t7\g  SsónotsCag  iirjdh  tà  decitavi! [iuta  Xa\t^àvav. 

Il  Ferrini  ritenne  che  tutti  i  paragrafi  di  più  recente  formazione, 
che  sono  riportati  dal  ms.  ambrosiano  Q  50  ,  fossero  ricavati  dalla 
compilazione  giustinianea,  e  nota  come  fonte  del  brano  sopra  trascritto 
la  e.  11  Cod.  3,32  di  Diocleziano  e  Massimiano  3.  Ma  i  punti  di  con- 
tatto tra  quel  preteso  esemplare  ed  il  sunto  greco  sono  molto  scarsi. 
La  costituzione  si  riferisce  solo  alle  seminagioni  e  piantagioni  ;  lad- 
dove il  nostro  §  ha  tutto  il  contenuto  preciso  di  Gaio  II.  73-75,  re- 
datto in  forma  più  stringata  della  stessa  epitome  latina  (II.  4).  Anche 
questo  sunto  greco  ha  quindi  origine  pregiustinianea  e  fu  probabil- 
mente ricavato  da  Gaio.  Certamente  esso  non  è  scevro  di  inesattezze  ; 
infatti  non  vi  si  fa  cenno  della  mala  fede  di  colui  che  opera  sul  ter- 
reno d'altri,  ed  io  ho  già  notata  4  l' identica  lacuna  nell'epitome  la- 


1  Ma  a  chi  bene  osservi  anche  nel  %  6  sopratrascritto  ,  conforme  in  tutto  al 
testo  dei  Basilici,  le  parole  si  ftìj  uqoc....  àcpsXéG&cci  hanno  l'impronta  d'una  in- 
terpolazione inserita  nel  sunto  greco  più  antico. 

2  Cod.  Ambrosiano  Q.  50  §  87.  Ferrini  ,  Byzantinische  Zeitschrift  voi.  VII 
p.  559  e  seg.  Heimbach  X,  2. 

3  Ferrini  1.  e. 

*  Cfr.  p.  158  n.  1. 


PARTE   I.  TRACCE   DI   DIRITTO    ROMANO   CLASSICO.  163 

tina  (IT.  Ci).  Tuttavia  gli  elementi  classici  sono  in  quello  squarcio 
preponderanti ,  e  noi  possiamo  prenderle»  in  esame  con  qualche  pro- 
fitto. 

II.  Per  il  diritto  classico  è  eosa  certa  che  il  proprietario  del  fondo 
su  cui  il  terzo  ha  edificato  ,  seminato  o  eseguite  piantagioni  non  è 
tenuto,  solo  per  questo,  a  rifare  a  chicchessia  il  valore  dei  migliora- 
menti. Come  dimostrai  altra  volta  l  un  compenso  è  dovuto,  per  via 
d'azione,  qualora  fra  le  parti  —  cioè  ,  il  proprietario  del  fondo  ed  il 
terzo  che  ha  fatte  le  opere  —  esista  un  rapporto  obbligatorio  che  può 
aver  fondamento  in  un  contratto  o  delitto. 

Ma  inoltre  il  compenso  può  aver  luogo,  per  via  di  ritenzione,  in 
virtù  della  exceptio  (ioli  nei  iudicia  stricti  iuris,  o  per  Vofficium  indici* 
in  quelli  bonae  fidei  ;  in  tutti  questi  casi  però  si  richiedono  speciali 
condizioni,  rilevante  fra  tutte  la  bona  fides  dell'agente  2. 

Il  compenso  adunque  ha  in  ogni  evenienza  fondamento  in  un 
presupposto  giuridico  :  1'  obbligazione  o  la  bona  fides  ;  esso  non  può 
aver  luogo  se  manca  l'ima  o  l'altra  di  quelle  condizioni.  A  quale  altro 
principio  si  dovrebbe  riportare  1'  obbligo  del  proprietario  a  rifare  le 
spese  al  terzo?  L'edificio  costruito,  la  pianta  trasportata  sul  fondo 
altrui ,  appartengono  al  proprietario  del  fondo  per  accessione  ;  sono 
pars  fundi.  Formalmente  il  proprietario  ha  quel  che  è  suo  e  nulla  più  3. 
Il  fondo  ha  avuto  bensì  un  incremento ,  ma  questo  è  perfettamente 
analogo  ai  casi  di  alluvione.  Anche  nélVavulsio  c'è  un  danno  visibile 
da  una  parte  un  aumento  dall'  altra,  e  tuttavia  V  acquisto  e  la  per- 
dita avvengono  per  norme  di  diritto  e  sono  irrimediabili,  fatali,  come 
li  descrive  uno  scrittore  latino  della  più  tarda  età  nella  sua  forma 
imaginosa  e  gonfia  :  et  flexuose  serpens  fluvius  largitili'  in  conpendio 
alterius  quod  furatur  ab  altero  siimilque  tìt  lucrimi  unitimi  aliena, 
calamitas    '. 

Di  regola  avviene  lo  stesso  negli  altri  casi  di  accessione.  Chi  ha 
operato  sul  suolo  altrui  non  può  rovinare  l'edificio  che  vi  avesse  edi- 
ficato, non  può  svellere  le  piante  uè  falciare  o  distruggere  i  germogli 
delle  sementi  che  vi  avesse  sparse.  Per  le  piante  e  le  sementi  il  prin- 


1  Distinzione  delle  impensae,   in  Archino   Giuridico  voi.  58  p.  30   deilYstr. 

2  Gai  II.   76. 

:5  In  quest'ordine  di  idee  è  anche  il  Sokolowski.  Die  Pliilosophic  im  Friratrecht 
p.  145  e  seg.;  ma  egli  smarrisce  la  diritta  via  ben  tosto  rivolgendo  l'attenzione 
a  testi  giustinianei. 

4  Ennodio,  Vita  Epiphani  p.  336  ediz.  Hart.  Lo  stesso  concetto  esprime  Pom- 
ponio (D.  41,   1,  30,  3)  nella  frase  :  Rumina  euim  censitoruin  vice  i'nnguntur. 


164  8.    RICCOBONO.  PARXE   1. 

cipio  ò  ancora  attestato  nel  diritto  giustinianeo  '  per  l'edificio  fu  sol- 
tanto Giustiniano  che  introdusse  lo  kis  tollendi  \ 

Così  si  arriva  pianamente  alla  conclusione  che  per  il  diritto  clas- 
sico colui  che  investe  sul  suolo  altrui  un  capitale  per  via  di  costru- 
zioni piantagioni  o  seminagioni  non  ha  perciò  stesso  diritto  ad  un 
compenso  ;  egli  perde  il  dominio  dei  materiali  impiegati  :  lxzi7tttzi>) 
tr\g  deóTtoTsCcv;  (ii]dh  rà  Sanavi] fiata  Xa[i(ìàviov  ;  e  questa  affermazione 
è  vera  ;  infatti  il  diritto  al  compenso  è  eventuale  ,  presuppone  altri 
elementi  giuridici. 

III.  La  cosa  muta  aspetto  se  guardiamo  il  nuovo  diritto  codifi- 
cato da  Giustiniano.  A  proposito  di  accessioni  a  cose  mobili  i  Digesti 
contengono  una  testimonianza  esplicita  : 

fr.  23  §  5  (VI-I)  :  ideoque  in  omnibus  his  casibus,  in  quibus  neque 
ad  exhibendum  neque  in  rem  locum  ìiabet,  in  factum  actio  necessaria  est. 

Il  testo  ha  una  portata  generale;  il  proprietario  che  ha  sofferto 
la  perdita  della  cosa  deve  poter  ricuperare,  nei  casi  più  sfavorevoli, 
il  prezzo  della  stessa  con  un'  actio  in  factum.  Questa  perciò  ha  una 
funzione  equivalente  all'acro  in  rem;  si  esperisce  contro  qualsiasi  pos- 
sessore della  cosa  che  ha  tratto  vantaggio  della  proprietà  estinta. 

In  questo  senso  però  il  rimedio  è  nuovo,  ed  esorbita,  come  ap- 
pare a  prima  vista,  i  limiti  del  compenso  tenuti  fermi  dal  diritto  clas- 
sico. Ohe  la  innovazione  sia  stata  introdotta  da  Giustiniano  è  pure 
fuori  dubbio  3.  Importa  piuttosto  notare  che  anche  qui  troviamo  l'ap- 
plicazione del  noto  principio,  messo  abbastanza  in  rilievo  in  queste 
pagine  ,  che  ovunque  si  riscontri  un  lucro  con  danno  d'  altri  il  per- 
dente ha  diritto  ad  un  indennizzo  mediante  azione  4. 


1  Fr.  53  (VI-I)  Pomponio;  25  §  1  (XXII-I)  Giuliano;  9  §  2  (XXXIX-II)  Alfeno- 
Ulpiano;  9  §2  (41-1)  Paolo;  e.  11  C.  3,  32;  notevolissimo  fra  tutti  poi  per  quanto 
attiene  al  compenso  il  fr.  16  §  1  D.  XIX-V  di  Pomponio  :  «  Permisisti  mini  ut 
serereru  in  fundo  tuo  et  fructus  tollerem  ;  sevi  nec  pateris  me  fruetns  tollere, 
nullam  iuris  civilis  actionem  esse  Aristo  ait  :  an  in  factum  dari  debeat  deliberali 
posse;  sed  erit  de  dolo».  Aristone  non  vede  alcuna  azione  civile  possibile  per  il 
caso  esposto.  Si  ricorre  appunto  all'  actio  doli  che  è  eminentemente  sussidiaria; 
così  Ulpiano  in  D.  IV,  3,  34  :  «  nulla  alia  quam  de  dolo  malo  actio  locum  habebit  ». 

2  Cfr.  Riccobono,  in  Bullettino  I.  D.  B.  voi.  8  p.  243,  voi.   9  p.  242  e  seg. 

3  Cfr.  Lenel,  Pai.  1  p.  1005;  Gradcnwitz,  Interpol,  p.  64  n.  1,  p.  94,  che  ha 
messo  in  chiaro  la  interpolazione  formale  ,  ma  inclina  a  ritenere  classico  il  con- 
tenuto; per  Erman,  poi,  (ZSS  ,  voi.  13  p.  212  e  217)  la  sostanza  è  certamente  (!) 
del  giureconsulto  Paolo,  confr.  pure  voi.  19  p.  306  della  stessa  Rivista  ;  e  Man- 
caleoni,  Beivindic.  p.  43. 

4  Anche  il  fr.  9  §  2  D.  41-1  di  Gaio  subì  dei  rimaneggiamenti  notevoli  che  si 
spiegano  agevolmente  con  le  idee  espresse  nel  testo;  cfr.  per  la  critica  di  questo 
passo,  Perozzi,  in  Bendiconti  dell'  Istituto  Lombardo,  23  p.  501  e  seg.  ;  Mancaleoni, 
o.  o.  p.  44  e  seg.;  Mayr,  ZSS.  26,  p.  100  e  seg. 


Parte  i. 


TRACCE   DI   DIRITTO   ROMANO   CLASSICO. 


165 


Lo  stesso  ideale  di  giustizia  si  volle  pur  raggiungere  nei  casi  di 
accessioni  ad  immobili.  Le  applicazioni  sono  qui  particolari,  ma  nello 
stesso  tempo  così  gravi  che  devono  a  buon  diritto  riguardarsi  come 
espressione  di  tutto  un  nuovo  ordinamento  della  materia. 

Chi  avesse  perduto  la  proprietà  del  fondo  per  l'occupazione  per- 
manente delle  acque  del  fiume  ha  diritto  a  ricuperarla  nel  caso  che 
il  fiume  posteriormente  riprenda  altro  corso  l.  Questa  regola  fu  posta 
da  Giustiniano,  che  escluse  quindi,  nel  caso  speciale,  1'  accrescimento 
dell'alveo  derelitto  al  proprietari  rivieraschi,  garentito  da  una  costante 
e  antica  dottrina  2. 

Per  le  costruzioni  imposte  sul  suolo  altrui  si  arrivò  nei  casi 
estremi  fino  a  permetterne  all'  edificatore  la  demolizione  per  ripren- 
dere i  materiali  (ius  tollendi). 

Per  le  piante  il  nuovo  principio  fu  inserito  in  un  testo  di  Ul- 
piano  molto  discusso  sin  dalla  Glossa  (ad.  h.  1.)  e  riuscito  pur  sempre 
incoercibile  3. 

Ulpiano  attinse  la  decisione  all'opera  dig.  di  Alfeno  e  la  riferisce 
in  due  redazioni  affini,  nel  1.  16  ad  edictum  e  nel  1.  53.  Giova  per- 
tanto riportarle  entrambe,  paro  a  paro,  e  nella  terza  colonna  tentare 
la  restituzione  nella  sua  probabile  forma  genuina  del  testo  interpolato. 


D.  39,  2,  9,  2. 
ita  demnm  autem  crustam 
vindicari  posse  idem  Al- 
fenus  ait,  si  non  coalnerit 
nec  unitateni  cum  terra 
mea  fecerit.  nee  arbor  po- 
test  vindicari  a  te,  quae 
translata  iu  agnini  menni 
cum   terra  mea  coaluit. 


D.  6,  1,  5,  3. 


De  arbore,  quae  in  alie- 
nimi agnini  translata  coa- 
luit et  radicea  inimisit, 
Varus  et  Nerva  utilem  in 
rem  actionem  dabant:  nani 
si  nouduni  coaluit  ,  mea 
esse  non  desiuet. 


Ulpian. 


De  arbore,  quae  in  alie- 
nimi agnini  translata  coa- 
luit et  ratlices  immisit, 
Varus  et  Nerva  in  rem 
agi  non  posse  aiunt  :  nani 
si  nominili  coaluit  ,  mea 
esse  non  desiuet. 


1  Cfr.  D.  41,  1  ,  7  ,  5  e  30  $  3  (Riccobono  ,  negli  Studi  offerii  a  F.  Schupfer 
voi.  I  p.  224  e  seg.). 

2  Nel  Codice  Napoleonico,  all'art.  563.  la  decisione  particolare  posta  da  Giu- 
stiniano ebbe  una  formulazione  generale;  si  concesse  l'alveo  relitto  ai  proprietarii 
del  suolo  di  nuovo  occupato  dal  fiume  a  titolo  di  indennità,  in  proporzione  quindi 
del  danno  sofferto. 

3  Cfr.  Jhering,  nei  Jahrbiicher  f.  Dogm.  1  p.  141  ;  Brezzo,  Beiv.  utilis  p.  168; 
H.  Kriiger,  ZSS.  voi.  Xll  p.  165;  Ch.  Appleton.  Proprie'té  prel .  p.  73  e  seg.;  Man- 
caleoni,  Reiv.  utilis  p.  46;  Buonamioi  ,  Arch.  Giur.  voi.  13  p.  2]  9;  Erman ,  ZSS. 
voi.  XI1I  p.  202,  u.  2;  Czyhlarz ,  Festschrift  f.  Dr.  Unger  p.  12,  26;  Bierniann, 
Krit.  Vierteljahr.  3  Folge,  voi.  7,  p.  18;  Kob.  v.  Mayr,  vindioatio  utilis,  ZSS.  voi.  26 
p.  83  e  seg.;  p.  116  e  seg. 


166  S.    RICCOBONO. 


I  due  riferimenti  di  Ulpiano  erano  nella  sostanza  coincidenti. 
Nell'uno  e  nell'altro  si  indagava  soltanto  l'ammissibilità  o  meno  della 
vindicatio  della  pianta  trasportata  nell'altrui  fondo.  Anche  nel  fr.  5 
si  dice,  come  già  nell'  introduzione  del  fr.  9  §  2,  per  la  crusta  ,  che 
se  l'albero  non  coaluit,  mea  esse  non  desi  net;  or  nel  periodo  che  pre- 
cede si  doveva  necessariamente  negare  la  vindicatio  perchè  vi  si  fa 
l'ipotesi  che  l'albero  coaluit  et  radice*  immisit;  la  stessa  ipotesi  con- 
templata nella  chiusa  del  fr.  9  §  2.  Il  nani  aveva  dunque  nel  fr.  5  §  3 
forza  avversativa;  stabiliva  un'antitesi  in  base  ai  diversi  presupposti 
di  fatto  ,  e  1'  antitesi  ,  per  effetto  della  mortificazione  introdotta  dai 
compilatori  rimase,  nell'odierna  struttura  del  passo,  rovinata  \ 

Ad  accertare  poi  l'interpolazione  delle  parole  che  ho  escluse  nella 
restituzione  del  testo  giova  notare  la  frase  Yanis  et  Nerva  actionem 
dabant,  attorno  alla  quale  lo  Czyhlarz  2  ed  altri  scrittori  si  affatica- 
rono davvero  inutilmente.  È  evidente  però  che  quella  espressione  si 
addice  all'editto,  cioè  all'attività  del  pretore  che  può  dare  o  denegare 
actionem  3,  mai  ai  giuristi,  i  quali,  se  esercitavano  con  i  loro  responsi 
notevole  influenza  sullo  sviluppo  del  diritto  ,  non  ebbero  potere  di 
creare  o  dare  nuove  azioni  4.  I  compilatori  del  resto  si  manifestano 
altre  volte  per  questo  segno;  così  in  D.  4,  6,  18  :  Sciendum  est,  quod 
in  his  casibns  restitutionis  auxilium  maioribus  damus  cet  5;  in  1).  1(>,  1, 
8,  2  :  exceptionem  ci  Senatm  consulti  Marcellus  non  daret  cet  6;  in  D.  39, 
C,  29  :  adirne  quis  dabit  in  rem  donatori  7  ;   in  D.  23  ,  3  ,  33  :   Recte 


1  Anche  il  Mancaleoni  ha  ben  rilevato  questo  vizio  nel  testo  giustinianeo,  ma 
egli  riduce  poi  la  sua  critica  in  termini  angusti  supponendo  aggiunte  soltanto  le 
parole  in  rem  :  (Reivindicatio  utilis  p.  49)  che  nella  ricostruzione  del  testo  io  ho 
mantenute.  Mayr,  1.  e.  p.  89  n.  11  sospetta  soltanto  un'alterazione  del  testo  senza 
precisarla. 

2  L.   e.  p.  25. 

3  V.  F.  83  praetor 'actionem  dabit.   Cfr.  Kriiger,  ZSS.  voi.  XVI  p.  2  e  seg. 

4  Cfr.  Lenel,  Die  except.  p.  62;  Bekker,  Aktionen  II  p.  148;  Erinan,  ZSS.  13 
p.  203;  Pernice,  ZSS.  voi.  XX  p.  146.  In  molti  casi  la  opinione  del  giurista  ha 
il  valore  d'un  suggerimento  al  magistrato;  cfr.  Collatio  12  ,  7,  7  :  et  hic  puto  .. 
dandam  actionem;  eod  8:  et  ideo  aequius  putat  iu  factum  actionem  dandam. 

5  Cfr.  Lenel  Pai.  I  p.  987  u.   1. 

6  Cfr.  Mitteis,   Griinhut'a  Zeitschrift  voi.  XVII  p.  25,  36. 

7  La  sola  introduzione  sembra  nel  testo  genuina;  il  resto  ,  dalle  parole  et  si 
quidem  in  poi,  è  fattura  di  Triboniano;  ed  il  fr.  fu  messo  iu  rilievo  per  il  conte- 
nuto dal  Mancaleoni,  o.  e.  p.  22  e  seg.  e  dal  Ferrini  ,  Pand.  p.  853  ,  n.  2  ;  per 
altre  indicazioni  cfr.  Mayr,  1.  e.  p.  94  e  seg. 


parte  l.  Tracce  di  diritto  romano  classico.  16? 

itaque  Sabinus  dispostiti  ut  diceret  l;  in  D.  4,  2,  14,  10  :  sic  hoc  dispo- 
nendum  est...  poenae  autem  usqne  ad  duplum  stetur  2. 

IV.  Tornando  ora  alla  sostanza  delle  cose  possiamo  affermare  che 
nei  diritto  giustinianeo  è  palese  la  tendenza  a  dare  in  tutti  i  casi  di 
perdita  della  proprietà  per  accessione  un  compenso  per  via  di  actio. 
Che  la  utili8  in  rem  actio  del  fr.  5  §  3  abbia  questa  finizione  non  si 
può  mettere  in  dubbio  3  ;  ed  è  vana  poi  qualsiasi  discussione  sulla 
natura  della  formula  in  proposito  ,  perchè  il  rimedio  era  ignoto  nel 
periodo  classico  4. 

Ma  perciò  stesso,  di  fronte  alla  tendenza  generale  del  diritto  giu- 
stinianeo ,  la  formulazione  che  si  legge  nel  vófios  yscoQymóg ,  da  cui 
prendemmo  le  mosse,  acquista  un  valore  spiccato.  Essa  non  poteva 
germogliare  dai  libri  di  Giustiniano ,  perchè  riproduce  nei  suoi  ele- 
menti più  salienti  la  dottrina  classica.  Il  nostro  §  deve  nella  sua  prima 
origine  riportarsi  ad  una  epitome  greca  forse  delle  Istituzioni  gaiane; 
e  già  il  Ferrini  aveva  osservato,  che  i  passi  aggiunti  alla  collezione 
di  leggi  rustiche  non  furono  presi  dai  Basilici  5  ma  da  comentarì 
antichi  e  varii,  in  prevalenza  del  tempo  di  Giustiniano. 

IV. 

IMPEKSAE  IN  BES  DOTALE 8  EACTAE. 

Son  note  le  prescrizioni  emanate  da  Giustiniano  sulla  dote  con 
la  e.  unica  de  rei  uxoriae  actione  cet  Y.  13.  In  virtù  di  questa  legge 
dell'  anno  530  1'  actio  rei  uxoriae  subì  una  trasformazione  completa. 
Per  il  compenso  delle  spese  fatte  dal  marito  sulla  dote  la  costituzione 
contiene  in  massima  nuovi  precetti.  Infatti,  solo  per  le  spese  neces- 
sarie fu  confermato  il  diritto  antico  :  dotem  mininoti;  del  resto  si  volle 
radicalmente  abolito  tutto  il  sistema  delle  retentiones  anche  a  proposito 


1  Cfr.  Riccobono,  Bull.  I.  D.  R.  voi.  VII.  e  Panipaloni,  Archiv-  Giuria,  voi.  56 
p.  12.  —  In  questa  categoria  vanno  pure  annoverati  i  seguenti  testi:  D.  6,  1,  38  — 
D.  39,  3,  2  —  D.  49,  1,   15  —  D.  3,  3,   33  pr.  actionem  autem  intendere  vetamus. 

2  Cfr.  Eisele  in  ZSS.  voi.   13,  p.  135. 

3  Cfr.  Jhering,  1.  e.  p.  141;  Sokolowski,  o.  e.  p.  160;  Windscheid,  Pand.  $  174 
n.  9.  Ma  è  giusto  del  resto  notare  che  la  satura  dell'  azione  ,  qui  come  in  altri 
casi,  non  è  ben  determinata;  cfr.  Mayr,  1.  e.  p.  123  e  seg. 

4  Cfr.  ora  Lenel ,  L'  e'dit.  perp.  voi.  I  p.  211  ,  in  contrapposto  alla  opinione 
espressa  nell'edizione  tedesca  p.  146  ,  dove  riferiva  anche  il  nostro  testo  ad  una 
formula  jicticia. 

5  Ferrini,  1.  e.  p.   559. 


108  S.   RICCOBONO.  PARTK   I. 


delle  impensae.  L' imperatore  mostra  per  quel  blando  rimedio  un'  av- 
versione acre  e  lo  proscrive  con  frasi  robuste,  alla  maniera  bizantina; 
taceat  in  ea  retentionum  verbosità*. 

L'ideale  di  Giustiniano  era  ben  diverso;  egli  fermò  il  principio 
che  sciolto  il  matrimonio  ognuna  delle  parti  dovesse  avere  il  suo;  ren- 
dendo così  omaggio,  in  un  tempo  ben  lontano  ,  alla  massima  :  les  af- 
faires  sont  les  affaires. 

Di  conseguenza  per  le  spese  utili ,  fatte  sulla  dote ,  garentì  al 
marito  un'azione,  senza  alcun  riguardo,  per  la  sostanza,  al  consenti- 
mento della  donna.  Il  marito  ha  ora,  in  ogni  caso,  o  Vaetio  mandati 
o  Vaetio  negot.  gest.  Quest'ultima  azione  riceveva  così  un'applicazione 
smodata,  ma  consentanea  al  tipo  raffazzonato  da  Giustiniano. 

Per  le  spese  voluttuarie  fu  accordato  per  la  prima  volta  un  nuovo 
rimedio,  lo  ins  tollendi. 

Tutte  queste  riforme,  coni'  era  naturale,  furono  tradotte  nei  Di- 
gesti *;  e  cioè  per  le  spese  utili  nei  fr.  7  (25-1)  e  7  §  16  (24-3),  nei 
quali  fu  sostituita  la  parola  actionem  al  posto  di  retentionem;  per  le 
voluttuarie  nel  fr.  9  h.  t.  che  è  nella  sua  interezza  fattura  dei  com- 
pilatori. 

In  contrapposto ,  i  principii  applicati  dai  giureconsulti  romani, 
nella  trattazione  di  questo  soggetto  ,  sono  ancora  visibili.  La  donna 
è  obbligata  a  rifare  al  marito  le  spese  utili  se  fatte  col  suo  consen- 
timento 2  ;  non  aveva  mai  obbligo  a  compensare  le  spese  voluttuarie, 
anche  se  fatte  col  suo  consenso  3.  I  giuristi  nelle  loro  trattazioni  ri- 
levavano appunto  1'  antitesi  fra  le  due  categorie  di  spese  sulla  base 
della  voluntas  mulieris.  E  1'  antitesi  si  coglie  ancora  ravvicinando  i 
fr.  7,  8,  11  D.  h.  t.  4;  ma  noi  la  ritroviamo  poi  viva  ed  in  tutta  la 
sua  purezza  nel  1.  IV  t.  X  di  Armenopulo. 

Questo  compilatore  ci  rappresenta  in  due  §§  consecutivi  tutta  la 

dottrina  classica ,  col  contrapposto  dell'  elemento  della  volontà  nelle 

due  specie  diverse;  efficace  per  le  utili  e  non  per  le  voluttuarie;  per 

queste  quindi  vi  si  esclude  ogni  compenso  e  vi  si  ignora  lo  ius  tollendi. 

Harm.  IV,  X  : 

§  55.  Kuv  yvé^iri  tf\s  yvvcaxòg  ysyóvaói  tà  Ttoòg  tsotyiv  dccitavi]- 
liutcc,  ovx  àttaixovvxui  5. 


1  La  dimostrazione  di  quanto  segue  nel  testo  fu   da  me  data  nello  studio  sui 
Schol.  Sin.  in  Bull.  I.D.R.  voi.  IX  p.  238  e  seg. 

2  D.  25,  1,  8;  50,  10,  79,  1. 

3  D.  11  h.  t. 

*  La  ricostruzione  di  questi  passi  fu  da  me  fatta  nel  lavoro  disopra  citato  p   240. 
5  Coincide  col  testo  dei  B.  28,   10,  11  e  Sinopsis  n,  39,  00. 


PARTE   I.  TRACCE   DI   DIRITTO    ROMANO    CLASSICO.  169 

§  5G.  Tóxs  vjie£,caQOVVTca  tà  ènaHpsXfi,  ore  xatà  yvcó^v  yévavtca 
tr\g  yvvawós.  adwov  ydo  èótv  jti»)  é%ov6uv  ètéoco&ev  dovrai  xatavay- 
xaó&rjvcu  Ttalìióta  tò  7toày[icc,  itsoi  o  yéyovsv  i}  du7tdvr]  l. 

Certamente,  questi  paragrafi  corrispondono  a  due  fr.1  del  titolo 
deimpensis  cet  XXVI  dei  Digesti;  il  primo  al  fr.  11  di  Uìpiano,  al 
fr.  8  di  Paolo  il  secondo  ;  combaciano  inoltre  ,  coinè  ho  rilevato  in 
nota,  con  il  testo  riportato  dai  Basilici  e  dalla  Sinopsi.  Ma  ciò  die 
può  significare  ?  Semplicemente  questo  :  che  l'ordinamento  dei  sunti 
greci  nel  secolo  VI  era  fatto  secondo  l'ordine  dei  Digesti  e  che  dalle 
raccolte  pregiustinianee  si  ricavavano  i  passi  che  dopo  la  compila- 
zione di  Giustiniano  potevano  ancora  interessare  2. 

Armenopulo  dovette  adoperare  in  quel  punto  una  collezione  del 
secolo  sesto  da  cui  trassero  pure  i  compilatori  dei    Basilici  3. 

Vero  è  che  il  fr.  9  (25-1),  che  riguarda  lo  ius  tollendi,  fu  aggiunto 
posteriormente  in  margine  al  §  55  del  manuale  4,  e  che,  secondo  nota 
Heimbach  5,  tali  integrazioni  furono  per  lo  più  eseguite  dallo  stesso 
Armenopulo;  ma  appunto  in  ciò,  se  non  erro,  si  ha  la  prova  più  evi- 
dente che  il  nostro  compilatore  nella  prima  formazione  dell'opera  ebbe 
fra  le  mani  un  comentario  che  [n'esentava  in  quel  punto  l'indice  dei 
soli  frammenti  genuini  di  Paolo  e  Ulpiano. 

Altre  spiegazioni  non  sarebbero  attendibili;  avrebbero  piuttosto 
il  valore  di  ripieghi  vani,  (piando  noi  sappiamo  che  non  si  tratta  qui 
di  un  caso  singolare  ,  ma  di  un  fenomeno  che  si  ripete  le  tante  volte 
ed  in  tutte  le  fonti  greche. 

Infatti  si  può  dimostrare  che  molte  interpolazioni  giustinianee 
furono  trasportate  sui  santi  greci  preesistenti.  Questa  indagine  non 
è  certo  agevole,  ma  l'occhio  esercitato  può  ancora  scovrire,  in  alcuni 
casi,  che  l'aggiunta  ha  tutti  i  caratteri  di  una  nota  marginale,  perchè 
si  attacca  male  al  periodo  che  precede  o  addirittura  vi  si  pone  dura- 
mente in  contrasto;  in  altri  casi  il  passo  greco  presenta  sproporzioni 
ingiustificate,  una  parte  rende  l'epitome,  l'altra  una  versione  letterale 
del  passo  latino;  se  noi  sappiamo,  per  altro  ordine  di  conoscenze,  che 
il  sunto  è  tratto  dal  testo  genuino  e  la  versione  letterale  invece  si 
riporta  alla  interpolazione,  <>  al  contrario,  la  spiegazione  che  il  testo 


1  =  B  28,  10,  8;  Siuopsis  »,  39,  64. 

2  Così  anche  Ali  brandi,   Opere  p.  f>L'.  ^ 

3  Si  sa  che  Armenopulo  tendeva  a  rendere  quanto  più  copioso  il  suo  manuale 
compulsando  una  grande  varietà  di  fonti  tìcc)  rù>v  tiqoxsiqcov  tee  xàX).i6ra  ,  come 
egli   stesso  c'informa  nella  7tQ0&E(OQia. 

4  Heimbach  p.  558  nota  ee. 

5  Praefatio  p.  XVII. 


170  S.    RICCOBONO.  PARTE    1. 

risulta  di  due  strati  t'orinati  in  tempi  diversi  è  la  più  semplice  e  le- 
gittima  l. 

Viceversa  ,  altre  volte  si  constata  clic  la  traduzione  o  il  sunto 
che  danno  i  Basilici  ,  nel  testo  ufficiale  o  nell'  apparato  degli  scolii, 
non  portano  le  interpolazioni  inserite  da  Triboniano  ;  in  questi  casi 
abbiamo  la  prova  diretta  che  l'esemplare  da  cui  la  versione  o  il  sunto 
del  testo  fu  ricavato  era  l'originale  non  quello  giustinianeo  ~. 

Nella  stessa  maniera  i  paragrafi  55  e  56,  sopra  riportati,  di  Ar- 
menopulo  ci  conservano  una  testimonianza  preziosa  della  dottrina  clas- 
sica in  materia  di  spese  dotali.  Ma  quei  paragrafi  inoltre  danno  una 
bella  conferma  dei  risultati  cui  pervenni  altra  volta,  con  l'esame  di 
tutte  le  fonti  relative  a  (pici  punto  di  diritto,  gli  scolii  Sinaitici 
compresi. 


Ma  qui  giova  riassumere  il  risultato  di  queste  brevi  note  e  con- 
statare ancora  una  volta  che  i  fatti  hanno  per  la  storia  più  forza  che 
la  volontà  degli  uomini;  si  tratti  pure  di  volontà  imperiale  tradotta 
in  legge  e  con  severe  sanzioni. 

La  memoria  di  norme  del  diritto  classico  è  conservata  qua  e  là 
in  vari  punti  nei  libri  greca,  accanto  alle  forme  novelle  degli  istituti; 


1  Alcuni  esempi  tipici  furono  da  me  posti  in  rilievo  e  dimostrati  :  B.  28,  10 
cap.  11.  Sch.  dello  Anonimo  (Heimbach  III  p.  298)  corrispondente  ai  fr.  9,  11  pr. 
D.  25,  1;  —  cfr.  Riccobono,  Bullettino  I.  D.  B.  IX  p.  257  e  seg.  p.  282  e  seg.  — 
B.  16,  8,  12,  52  =  D.  7,  8,  12,  2  (Riccobono,  sull'  usus;  negli  scritti  offerti  a 
V.  Scialoja,  estr.  p.  19  e  seg.).  —  B.  28,  1  cap.  13  =  D.  23  ,  1 ,  15  (Riccobono, 
Prospeclus  montium  ,  negli  scritti  offerti  a  C.  Fadda  p.  18  u.  1  dell'estr.)  —  Sch. 
Sinait.  20,  ove  la  nota  marginale,  corrispondente  al  fr.  9  D.  25,  1  fu  incorporata 
alla  versione  greca  dal  fr.  11  pr.  eod  (cfr.  Riccobono,  Bullettino  cit.  voi.  IX)  lad- 
dove in  tutte  le  altre  fonti  greche  il  sunto  greco  del  fr.  9  è  riprodotto  in  capi 
separati  o  nelle  paragrafo. 

2  Gli  esempi  per  quanto  riguarda  il  Codice  sono  copiosi  e  riportati  dallo 
Zachariii  in  varii  luoghi  (cfr.  gli  scritti  citati  a  p.  161  n.  3)  ;  per  i  sunti  corri- 
spondenti ai  passi  dei  Digesti  si  ha  minor  numero  di  esperienze  ,  ma  ciò  solo  per 
il  fatto  che  finora  si  è  rivolta  nessuna  attenzione  a  questo  ordine  di  confronti. 
Posso  qui  notare:  B.  12,  1,  50  corrispondente  a  D.  17,  2,  52  §2;  l'interpolazione 
è  invece  nota  agli  scolii;  v.  Heimbach  voi.  I  p.  751,  e  la  giusta  spiegazione  data 
dal  Brasslorf  in  Wiener  Studien  voi.  24  p.  567.  —  B.  25  ,  2  ,  16  corrispondente  a 
D.  20,  1,  16  §  4;  cfr.  Lenel  P.  1  p.  649  n.  1;  Eisele,  ZSS.  voi.  18  p.  4;  Goppert, 
Organ.  Erzeugn.  p.  395. — ■  B.  16,  8,  2,  sch.  1  corrispondente  a  D.  7,  8,  12,  1  od 
altro  testo  classico  a  noi  non  pervenuto  (cfr.  Riccobono,  sull'  usus  1.  e.  p.  13  e  seg.), 
infatti  lo  sch.  non  coincide  nemmeno  col  testo  di  Theoph.  II,  5,  1  =  1.  eod  tratti 
eridentemente  da  Gaio  r.  cott.;  cfr.  D.  7,  8,  11. 


PARTE    I.  TRACCE    DI   DIRITTO   ROMANO    CLASSICO.  171 

e  ciò  perchè  la  tradizione  scientifica  non  fu,  come  si  crede,  spezzata 
d'un  colpo  dall'opera  legislativa  di  Giustiniano. 

Nel  momento  storico  che  qui  osserviamo,  come  in  tutti  i  tempi, 
nell'Oriente  come  in  Occidente,  l'opera  degli  interpreti  procede  lenta 
e  faticosa  sulla  base  larga  degli  elementi  preesistenti  ;  i  manuali  di 
scuola  hanno  carattere  essenzialmente  tralaticio  ,  e  corretti  e  ammo- 
dernati passano,  sempre  giovani,  di  generazione  in  generazione. 

Le  paragrafa,  le  versioni  e  gl'indici  ordinati  dai  coevi  di  Giusti- 
niano riproducono  in  buona  copia  il  lavoro  compiutosi  in  Oriente  sui 
libri  dei  giuristi  romani ,  nel  periodo  aureo  della  scuola  di  diritto. 
Era  poi  naturale  che  attraverso  quelle  prime  elaborazioni  del  sesto 
secolo  molti  vestigi  dell'  antica  letteratura  passassero  nelle  raccolte 
posteriori,  private  e  ufficiali;  poiché,  perdutasi,  come  è  noto  ,  già  al 
tempo  di  Giustiniano  la  conoscenza  della  lingua  latina,  i  lavori  giu- 
ridici fatti  sulla  codificazione  giustinianea  nel  VI  secolo  rimasero  l'u- 
nica sorgente  cui  attinsero  i  compilatori  bizantini. 

Accertato  questo  processo  storico,  l'affermazione  altra  volta  fatta 
mi  sembra  anche  ora  legittima;  e  quindi  noi  possiamo  con  buon  fon- 
damento trarre  vantaggio,  in  singoii  punti,  da  tutte  le  fonti  greche 
sia  per  le  dottrine  del  diritto  classico  *  sia  per  la  struttura  e  la  forma 
dei  passi  negli  scritti  dei   romani  giureconsulti. 


1  II  nostro  Ali  brandi,  nello  scritto  «  Dell'utilità  che  recano  alla  storia  ed  alle 
antichità  del  d.  r.  gli  scritti  dei  greci  interpreti  »  ristampato  nelle  Opere  p.  49 
e  seg.  mette  in  rilievo  appunto  sotto  questo  aspetto  il  materiale  noto  dai  Basilici. 

Palermo. 

Salvatore  Riccobono. 


LA  SCOPERTA  DELL'    AES  SIGNATUA  „ 

NELLE  TERRE  ADIACENTI  AL  LAGO   FUCINO. 


L'incertezza  delle  testimonianze  antiche  fondate  sulla  tradizione 
popolare,  ha  indotto  sino  ad  òggi  gli  erudi'J  ad  attribuire  a  Roma  l'i- 
stituzione della  moneta  ';  ed  in  effetto  le  prime  traeeie  della  valuta- 
zione e  del  peso  derivanti  dall'US,  contrazione  deìVAes,  traggono  mo- 
tivo dal  sistema  librale  romano. 

Ma  è  difficile,  se  non  impossibile ,  trovare  elementi  sicuri  di  at- 
tribuzione a  (pici  tanti  pezzi  di  metallo  che  recano  impronte  e  con- 
tromarche e  che  comunemente  si  chiamano  Aes  xignatum,  poiché  pro- 
vengono da  luoghi  diversi,  specialmente  dell'Italia  centrale,  e  fanno 
sempre  più  dubitare  se  essi  ripetano  l'origine  da  Roma  o  dal  Lazio, 
ovvero  ebbero  altri  centri  di  fabbricazione  presso  i  popoli  soggetti 
alla  conquista  dei  romani  2.  Ora  è  il  caso  d'  una  provenienza  tutta 
nuova  dell'^s  signatum;  e  ce  l'offre  la  Marsica,  regione  antichissima 
situata  nella  parte  più  elevata  e  montuosa  degli  Abruzzi  e  più  vi- 
cina a  Roma.  L'anno  scorso  a  S.  Benedetto  dei  Marsi ,  sulla  sponda 
del  lago  Fucino,  in  un  terreno  di  proprietà  degli  eredi  di  certo  Luigi 
Sabatini,  venne  a  luce  il  frammento  di  cui  si  riproduce  la  figura  al 
nini).  1  della  tavola  annessa.  È  una  grossa  frazione  di  Aes  signa- 
tum,  che  per  la  sua  fattura  rozza  e  grossolana  deve  ascriversi  alla 
serie  più  arcaica  di  simili  pezzi.  11  suo  peso  è  di  grammi  1170  (cor- 
rispondente esattamente  al  frammento  n.  9    del  ripostiglio  di  Oastel- 


1  Coni'  è  noto,  secondo  Plinio  (Hist.  Nat.  XXXIII,  3,  17) ,  Servio  Tullio  se- 
gnò per  primo  con  un'impronta  VAes  rude,  onde  gli  fu  dato  il  nome  di  signatum: 
«  Servius  rex  primus  signavit  Aes  rudi  ante  usos  romanos  Timaens  tradii  » .  Egli  non  do- 
vette porre  codesto  seguo  su  d'  altra  forma  che  la  quadrilatera.  (Garrucci  R.  Le 
monete  dell'Italia  antica.  Parte  I.  Roma,  Salviucci,   1885,   p.  1). 

2  Secondo  qualche  scrittore,  i  Romani  seguendo  l'esempio  dei  Cartaginesi,  sta- 
bilirono le  loro  prime  officine  monetarie  nei  diversi  paesi  delle  provincie  conqui- 
state (Milli ngen  J.  Considérations  sur  la  Numismat.  de  l'  ancienne  Italie.  Florence, 
1841,  p.  211).  Però  quest'  opinione  è  coatradetta  dal  fatto  che  Papirio  Cursore 
dopo  le  guerre  della  Campania  e  del  Sannio  (A.  U.  C.  461)  fece  portare  a  Roma 
più  di  due  milioni  dell'  Aes  grave  tolto  ai  nemici  e  probabilmente  fabbricato  nelle 
officine  monetarie  sorte  nei  paesi  conquistati  (Liv.  IX,  40). 


PARTK    I.  I,'   «  AE8    SIGNATUM  »    DEL   LAGO   FUCINO.  173 

franco  d'  Emilia)  ,  ma  calcolando  sulla  forma  e  misura  ordinaria  di 
bronzi  analoghi,  può  ritenersi  che  l'intero  quadrilatero  pesasse  almeno 
il  doppio  i.  Una  delle  faccie  in  superficie  piana  reca  la  figura  del  ramo 
secco  e  bracciate,  composto  del  tronco  e  di  due  soli  bracci  che  con- 
vergono nell'estremità  a  modo  di  un'ancora.  L' altra  faccia  non  pre- 
senta segni  di  sorta  ed  ha  la  superficie  leggermente  convessa,  in  modo 
che  la  forma  dei  due  lati  superiori  alla  rottura  ,  più  che  alla  ellittica, 
tende  a  quella  d'un  semicerchio.  Xei  lati  di  fianco  si  nota  la  sporgenza 
della  bava,  ovvero  del  metallo  trascorso  fra  i  labbri  delle  staffe,  le  cui 
tracce  sono  rappresentate  da  due  profondi  solchi.  La  fusione  è  al- 
quanto difettosa  per  i  buchi  e  le  protuberanze  provenienti  dalla  na- 
tura scoriacea  del  pezzo  e  rivela  un'arte  molto  primitiva.  La  patina 
è  di  colore  scuro-nerastro  tendente  al  rossiccio  2. 

Questa  frazione  di  quadrilatero  a  primo  aspetto  non  presenta  ca- 
rattere di  novità,  potendo  rientrare  nella  serie  dei  pezzi  provenienti 
dal  di  là  dell'Appennino,  ossia  dalle  terremare  dell'  Emilia  ,  del  Reg- 
giano e  del  Parmigiano ,  aventi  il  ramo  secco  o  sfrondato  a  due  o  più 
braccia  3-  Ma  quello  che  ha  di  notevole  è  che  una  seda  delle  faccie  è 
contrasegnata  dal  ramo,  mentre  l'altra  è  senz'  impronta,  circostanza 
finora  segnalata  assai  vagamente  negli  altri  esemplari  delle  specie, 
come  quelli  del  ripostiglio  di  Castelfranco.  Non  è  il  caso  di  far  con- 
getture o  ipotesi  sopra  questa  che  a  ine  sembra  una  singolarità, 
potendosi  tuttavia  ammettere  l'esistenza  di  una  forma  primitiva  e 
più  arcaica  dell'Efes  signatum ,  perchè  unilaterale,  per  analogia  a 
(pianto  si  osserva  nelle  più  antiche  monete  di  conio  in  argento  a 
rovescio  inciiso  o  liscio  che  precedono  quelle  battute  bilateralmente. 
Ed  un  indizio  certo  di  arcaicità  si  ha  dalle  protuberanze  scoriacee 
delle  due  facce  ,  mentre  gli  altri  pezzi  della  serie  sopra  accennata 
rivelano  maggiore  accuratezza  e  preparazione  nello  stampo.  Laonde, 
a  mio  criterio,  si  potrebbe  sospettare  che  questa  nuova  categoria  del- 
VAes  .signatum  unilaterale  spetti    ad  un   periodo   di    transizione    dalla 


1  Calcolando  sulla  presenza  dei  due  bracci  del  ramo,  ohe  in  origine  dovevano 
essere  non  meno  di  quattro,  come  nel  bronzo  di  Fiesole  (Garriteci,  op.  cit.  Ti.v. 
X-3],  si  deduce  che  anche  il  peso  doveva  essere  doppio. 

2  Questo  frammeuto  (VAes  signatum  si  trova  attualmente  in  possesso  del  si- 
gnor Angelo  Del  Proposto  residente  a  Castellammare  Adriatico. 

3  Pigorini  G.  V  Aes  signatum  scoperto  nella  provincia  di  Parma.  Ivi,  1874. — 
Chierici  G.  L'Jes  signatum  dei  due  versanti  dell'Appennino.  Reggio  Emilia,  1879.— 
Id.  Antichità  preromane  nella  provincia  di  Reggio  nell'Emilia,  pag.  17.  -Garriteci  op. 
cit.  Tav.  VII-I,  2;  IX-1,  2,  3;  X-3;  LXVII-2.  —  l'.ri/.io  K.  //  ripostiglio  di  Castel- 
franco d'Emilia  (in  Notiz.  degli  Scavi,   1898,   p.  22(5  e  seg.). 


174  G.    PANSA.  PARTE   I. 

forma  irregolare  dellM.es  rude  a  quella  meglio  determinata  daWAes 
{tignatimi.  E  da  questa  differenza  o  singolarità  dell'  impronta  posta 
in  una  sola  tàccia  si  verrebbe  forse  a  confermare  la  natura  di  mo- 
nete ovvero  masse  di  valore  destinate  ad  uso  di  moneta  clie  alcuni 
negano  a  simili  frammenti  col  ramo  sfrondato  '.  Ma  su  queste  conget- 
ture, d'  altronde  probabili ,  io  non  intendo  indugiare  ,  rimettendo  il 
giudizio  a  più   maturo  esame. 

Concludendo  ,  mi  preme  solo  di  osservare  che  la  presenza  del 
bronzo  in  parola  per  la  sua  tecnica  di  stile  antichissimo,  prevalente 
come  tale  a  tutti  gli  altri  della  specie  ,  indica  1'  esistenza  presso  i 
Marsi  primitivi  di  miniere  ed  officine  dove  lavoratasi  il  rame  grezzo 
per  metterlo  in  commercio. 

E  rivela  altresì  una  civiltà  commista  in  quei  popoli ,  i  cui  vil- 
laggi lacustri  situati  sulle  sponde  del  Fucino  presentano  insieme  a 
tracce  dell'industria  primitiva  o  neolitica,  indizi  non  meno  sicuri  di 
preparazione  all'arte  metallurgica  2. 


1  II  Chierici  (L'Aes  signatum  dei  due  versanti  dell'Appennino,  ecc.)  sospetta 
che  i  primi  frammenti  coll'impronta  del  ramoscello,  più  rozzi  di  forma  e  più  va- 
ganti di  peso  (a  differenza  degli  altri  quadrilateri  trovati  al  di  qua  dell'  Appen- 
nino ,  più  gentili  di  forma  ,  più  regolari  nel  peso  e  con  tracce  di  frattura)  non 
sieno  mai  stati  moneta  o  equivalente  di  moneta,  ma  semplici  pani  metallici,  pri- 
mi getti  di  miniera  per  mettere  il  metallo  in  commercio.  Parecchi  lo  seguirono 
in  questa  congettura  e  fra  essi,  per  citare  i  più  autorevoli  e  receuti,  il  Bahrfeldt 
e  l'Haeberlin  a  proposito  del  ripostiglio  di  Mazin  (Bahrfeldt  M.  Der  Miinzfund 
voti  Mazin  (Croatien),  etc.  Berlin,  1901,  pag.  29. —  Haeberliu.  Zum  Corpus  Numor. 
aeris  gravis,  in  Berlin.  Miinzblatter,  1906,  fase.  49  e  sgg.).  Non  voglio  per  ora  en- 
trare anch'io  nell'ardua  discussione,  mancandomene  1'  autorità  ;  ma  spero  di  farlo 
appresso.  Affermo  solo,  riguardo  al  peso  ,  che  non  è  sempre  vero  che  questo  sia 
del  tutto  incerto  e  vagante,  come  si  sostiene,  avendo  già  il  De  Eossi  dimostrato 
che  in  alcuni  ripostigli  si  nota,  per  i  frammenti  di  Aes  rude  e  signatum,  la  rego- 
larità degli  spezzamenti  prestabilita  secondo  il  sistema  librale.  Siffatta  regolarità 
incontrasi  pure  nelle  frazioni  di  armi  spezzate,  come  nei  paalstab  ,  nelle  lancie  e 
falci  del  ripostiglio  di  Terni,  le  quali  venivano  ridotte  ad  massam  rudem,  appunto 
per  ridurle  a  merce  monetale,  fondendole  in  pani.  Riguardo  poi  al  ramo  secco  come 
segno  del  peso,  a  me  pare  che  indubitatamente  esso  lo  sia.  Infatti  apparisce  come 
tale  negli  antichissimi  quadrantali  romani  già  illustrati  dal  Boni  (Quadrantal,  in 
«  Nuova  Antologia  »,  16  agosto  1902)  e  recentemente  dal  Gatti  (Capselle  reliq.  crist. 
e  misure  romane  di  capacità,  in  Bollett.  della  Comm.  Archeol.  Cornuti.  ,  Roma  1905, 
fasi-.  4)  e  in  altri  monumenti  specialmente  dell'  Etruria  (Gozzadini.  Necropoli  di 
Marzabotto,  p.  29  e  seg.  —  Fabretti  A.  Primo  Suppl.  alla  raccolta  delle  antich.  iscriz. 
Italie.  Tav.  Ili,  n.  42).  D'altronde  il  ramo  secco  indicava  il  numero  10,000  presso 
i  latini  (Ritschl,  tab.  Lille,   LXXXIXb,  XCIVa). 

2  Ved.  Nicolucci  G.  V  age  de  la  pierre  dans  le  Provinces  Napolit.  (in  Compt. 
rend,  du  Congr,  Inter,  d'Anthrop.  et  d' Archeol.  prehist,  5e  sess,  Bologne,  1871, 


17f> 


G.    PAXSA. 


Fi-.  28. 


I  molti  esemplari  dell'ics  grave  trovati  nelle  escavazioni  del  laj>o 
Fucino,  prima  e  dopo  il  suo  prosciugamento,  tanno  palese  l'esistenza 
d'un  largo  commercio  esercitato  da  quelle  popolazioni  circumlacuali 
con  la  vicina  Roma.  I  Romani  nei  primordi  del  loro  dominio  ebbero 
a  lottare  coi  Marsi ,  ma  ben  presto  si  accorsero  che  sino  Marsis  nec 
de  Marsh  triumphatum  fuit,  giusta  (pianto  afferma  Appiano  Alessan- 
drino (De  beli.  civ.  lib.  I).  L'alleanza  dei  Romani  coi  Marsi  risale  ad  e- 
poche  remote  che  gì'  istorici    non    hanno    precisato.  Condizioni   della 


ved.  §  2  A  «  Provinoes  des  Abruzzes  »). — Id.  Nuove  scoperte  pi  eist.  nelle  Prov.  Napolit. 
(in  Rendic.  d.  R.  Accad.  d.  Scienze  tìs.  e  ìuat.  di  Napoli,  Fase.  8,  agosto  1876). — 
Id.  La  grotta  Cola  presso  Petrella  di  Cappadocia  veli'  Abruzzo  Ult.  II  (Ivi  ,  1877, 
fase.  10  fobr.). —  Id.  I  cranii  dei  Marsi  (Ivi,  1882,  fase.  2  die).  Non  lievi  cumuli 
d'indizi  ci  additano  intorno  alle  sponde  del  Fucino  antichissimi  centri  abitati,  sta- 
zioni neolitiche  i  cui  avanzi  hanno  un'assai  evidente  legame  coi  reciuti  di  mura  a 
massi  poligonali  che  s'incontrano  specialmente  nel  territorio  di  Alba  Fucense  e  di 
Roccavecchia  (Arx)  ,  e  al  tempo  stesso  formano  un'indicazione  sicura  per  ricono- 
scere in  quelle  località  il  punto  donde  proviene  la  fabbricazione  dellMes  signatum. 
Che  l'uso  della  pietra  ivi  durasse  dentro  il  periodo  del  bronzo,  non  può  mettersi 
in  dubbio;  ed  è  questa  una  nuova  prova  della  contemporaneità  dei  due  usi  dopo 
quelle  che  si  sono  avute  dalla  scoverta  delle  necropoli  etnische  di  Marzabotto, 
della  Certosa  di  Bologna,  della  stipe  delle  acque  di  Vicarello ,  di  S.  Martinella 
presso  S.  Gennaro  ,  nel  territorio  di  Genzano  e  di  altre  località  (Vedi  Gozzadini  G. 
Di  un'antica  necropoli  a  Marzabotto.  —  Id.  Ulteriori  scoperte  nelV  antica  necropoli  di 
Marzab.,  p.  42.  —  Zaunoni,  Relaz.  sugli  scavi  della  Certosa  di  Bologna.  —  De  Rossi 
M.  S.,  Sugli  studi  e  scoperte  paletnolog.  di  Roma.  II.  Rapp.  in  Giorn.  Arcad.  Nuova 
Ser.  T.  LVIII,  p.  20.  —  Id.  Nuove  scop.  nella  necrop.  arcaica  albana  e  V  Aes  grave 
fra  le  rocce  vulcaniche  laziali.  IV.  Rapp.  (Ann.  dell'  Instit.  d.  Corrisp.  Archeol., 
1871,  p.  275-77). 


PARTE   I.  L'  «  AES   SIGNATUM  »    DEI,   LAGO   FUCINO.  177 

lega  erano  che  i  Marsi  fornissero  soldati  a  Roma  in  tempo  di  guerra 
e  soni  mi  lustrassero  ,  dietro  pagamento  e  a  giusto  prezzo ,  cereali  e 
vino.  Si  trattò  di  un  vero  e  proprio  trattato  di  commercio.  Era  al- 
lora 1'  epoca  in  cui  Roma  estendeva  le  sue  conquiste  e  si  allargava 
nell  'Italia  centrale.  I  Marsi  erano  quasi  a  confine  coi  Latini,  tra  il 
Lazio  ed  i  Sabelli.  Xon  ostante  clic  gli  Equi,  i  Sabini,  i  Volsei  op- 
ponessero resistenza  ,  pure  furono  presto  ridotti  alla  dipendenza  di 
Roma;  e  per  questo  i  Romani  vennero  a  confinare  coi  Marsi  e  strin- 
sero con  essi  legame  ,  avvalendosi  della  loro  qualità  di  latrones,  ov- 
vero soldati  di  ventura,  come  s'intitolavano  i  Marsi  secondo  l' iscri- 
zione di  Caso  Cantuvio  rinvenuta  nel  Fucino  \  Alba  Fucense  ,  Ar- 
chi] »pe,  Marruvio,  Cerfennia,  Milonia,  Plestinia,  Opi,  Fresilia,  Alitino 
ed  Angizia  furono  le  città  più  cospicue  che  ebbero  istituzioni  ,  vita 
e  commercio  modellati  su  quelli  di  Roma  ,  come  lasciano  trasparire 
i  loro  avanzi  monumentali  2.  Perciò  si  spiega  come  anche  lo  scambio 
delle  monete  avesse  avuto  largo  sviluppo  e  base  nei  rapporti  con  Roma. 

Alba  Fucense,  già  sede  degli  Equi,  fu  uno  dei  centri  principali 
di  vita  nella  storia  di  quei  popoli;  e  la  serie  deìVAes  grave  che  ebbe 
corso  in  quella  città  e  nelle  terre  adiacenti  al  lago,  fu  a  preferenza 
denominata  dalla  testa  d'Apollo  3.  Il  Mommsen  inclina  anche  ad  at- 
tribuire ad  Alba  Fucense  la  serie  librale  con  la  testa  di  Venere  Fri- 
gia e  la  ruota,  innanzi  che  detta  città  fabbricasse  moneta  d'argento; 
e  registrò  Alba  fra  le  colonie  latine  che  avevano  emessa  moneta  li- 
brale \  Nella  quale  opinione  fu  contradetto  dal  Garrucci ,  il  (piale 
obiettò  che  se  questo  fosse  vero,  le  terre  albensi  ed  il  Fucino,  pri- 
ma e  dopo  il  disseccamento,  avrebbero  dovuto  a  quest'ora  mandar- 
cene almeno  un  saggio  5.  Ma  se  ad  Alba  Fucense  non  si  può  con 
sicurezza  attribuire  moneta  binale  vera  e  propria,  mentre  ebbe  quella 
in  argento,  non  è  detto  che  ad  essa  manchino  altri  elementi  da  poter 
riconoscere  il  largo  traffico  che  esercitò  e  lo  sviluppo  commerciale  ed 
economico  che  ne  derivò  per  i  suoi  rapporti  con  Roma. 

E  questo  oggi  importa  far  notare,  come  alla  serie  dell' Aes  (/rare 
di  cui  si  conservano  molti  esemplari  nel  Museo  Torlonia  e  nella  rac- 


1  Ved.  Notiz.  degli  scavi.  Die.   1877,   pag.   328  et  tav.   XIII. 

2  Gcfì'roy.   L'Archeologie  da  lac  Fxciu  (Extr.  d.  la  Rev.  Archeolo^;.    .Filili.   1878^ 

3  Visconti  C.  L.  Il   Quinipondio  e  il  Tressc  del  Medagliere    Faticano  ,   iin   Stud. 
e  docum.  d.  Stor.  e  Diritto.  An.  I,   1880,   pag.  76"). 

4  Momniseu.   Histoire  de  la  monuaie  romaine.    Edit.  frane,   par  le  Due  de  I51a- 
cas,  I,  p.   187. 

5  Garrucci.  Op.  cit.,  pag.  21. 

12 


178  G.   PANSA.  PARTE   I. 

colta  degli  eredi  del  Conte  Pace  di  Massa  d'Albe  i,  va  congiunta 
quella  deìVAes  signatura  che  oggi  appare  per  la  prima  volta  nelle 
tene  albensi  e  ch'è  rappresentato  dall'  unico  frammento  superstite 
del  quinipondio  o  quincusse  che  si  vede  riprodotto  al  unni.  2  della 
tavola  annessa.  È  questa  una  lieve  frazione  del  famoso  quadrilatero 
già  illustrato  dal  Visconti ,  oggi  posseduta  da  me  2.  Fu  rinvenuta 
nelle  adiacenze  di  Albe ,  in  alcuni  lavori  di  sterro  fatti  ad  un  chi- 
lometro e  mezzo  dall'abitato,  com'ebbe  a  dichiararmi  il  manovale  Pietro 
Coppola  presso  il  quale  l'acquistai  pochi  mesi  or  sono.  Il  suo  peso  è  di 
grammi  105,  corrispondente  a  circa  la  terza  parte  d'una  libbra,  ossia 
alla  quindicesima  parte  del  quinipondio  kircheriano,  che  pesa  pressoché 
cinque  libbre  esattamente.  Da  un  lato  vi  si  vede  una  punta  laterale 
del  tridente;  dall'altro,  un  pezzo  della  tenia  o  lemnisco  da  cui  è  avvolto 
il  caduceo.  La  patina  del  bronzo  è  di  colore  verde  quasi  uniforme. 
La  presenza  di  questa  frazione  di  Aes  signatum  nelle  terre  del 
Fucino  non  ha ,  è  vero  ,  grande  importanza  negli  scopi  d'  appurare 
la  sede  primitiva  del  famoso  quadrilatero  che  si  vuole  proveniente 
da  Bomarzo ,  ed  a  cui  si  annettono  origini  e  signiticanze  diverse. 
Essa  però  conferma  ancora  dippiù  l'incertezza  che  regna  a  tale  pro- 
posito ,  rivelando  un'  altra  provenienza  tutta  nuova.  Senza  riandare 
ora ,  con  questo  nuovo  elemento  ,  alla  quistione  se  il  celebre  quini- 
pondio sia  di  manifattura  etnisca  o  debbasi  collocare  fra  i  quadrila- 
teri della  famiglia  laziale  3  ,  è  fuori  di  dubbio  che  esso  ebbe  corso 
e  diffusione  tra  i  popoli  dell'  Italia  centrale  compresi  fra  1'  Etruria 
(com'è  noto  pel  tesoro  di  Vulci,  in  cui  si  trovarono  frammenti  simi- 
glianti  col  tridente  e  caduceo)  e  la  regione  marsica,  il  cui  sviluppo 
commerciale  nell'antichità  acquista,  con  la  scoperta  di  questo  esem- 
plare nelle  terre  albensi,  maggiore  incremento  e  conferma. 


1  Visconti.  Op.  cit.  pag.  76,  nota. 

2  Visconti.  Op.  cit.  —  Garrucci,  Le  moti.  dell'Hai,  antica,  tav.  XVI  e  pag.  9. 

3  Visconti.  Op.  cit.  pag.  70.  —  Garrucci.  Op.  e  loc.  cit. 


Sulmona. 


Giovanni  Pansa. 


LE  /AURA  ROAANE 

D'ALBA    FOAPEIA. 


i. 

Nel  declivio  settentrionale  dell' Appennino  la  regione  ch'ebbe  nome 
speciale  di  Langhe  va  digradando  di  monte  in  monte,  di  colle  in  colle 
fino  al  margine  del  Tanaro,  fiume  che  conserva  nome  indigeno  d'anti- 
chità indefinita.  Lo  menziona  Plinio  Hist.  nat.  Ili,  xx  [xvi],  4). 

Sovra  un  ultimo  lembo  di  questo  declivio,  in  punto  dov'esso  fiume 
corre  quasi  esattamente  da  ponente  a  levante  e  riceve  il  piccolo  tri- 
buto del  torrente  Cherasca  l  giace  Alba  detta  ora  di  Piemonte,  qualche 
secolo  addietro  di  Monferrato,  2  nell'alto  medio  evo  di  Lombardia,  nei 
tempi  romani  Pompeia  :  annoverata  da  Plinio  (H.  X.  Ili,  vii,  2)  fra  i 
nobilia  oppida,  quibas  nitebat  al  suo  tempo  quella  regione  tra  l'Appen- 
nino e  il  Po,  che  contava  per  IX  nella  divisione  di  Augusto. 

Anche  il  nome  della  città  deve  rappresentare  l'antichissimo  pre- 
romano ,  3  e  le  origini  di  essa  restan  nascoste  nella  solita  notte  dei 
tempi.  Il  Mommsen,  parlando  della  via  condotta  da  M.  Emilio  Scauro 
nel  615  di  Roma  (109  av.  Cr.)  da  Vada  Sabatia  per  Aquae  Statiellae  a 
Dertona,  nota  come  a  questa  via  nei  pressi  d' Aquae  Statiellae  dovette 
allacciarsene  un'altra  (non  si  sa  quando  effettuata,  ma  attestata  dalla 
Tavola  Peutingeriana)  ,  proveniente  dalla  città  dei  Taurini  e  desti- 
nata a  congiungere  col  mare  essa  città  e  tutta  la  regione  transpadana. 
Questo  tratto  di  via  doveva  per  natura  passare  (e  la  Tavola  segna  il 
nome)  pel  luogo  ove  sorge  Alba.  Ora  al  Mommsen  pare  che  non  si 


1  Nei  vernacoli  Chirasca,  Queirasca;  nei  più  vecchi  documenti  medievali  Cura' 
sca:  reliquia  certamente  a  sua  volta  dell'antica  onomastica  ligure. 

2  Si  sa  che,  cadute  le  libertà  comunali,  fra  le  varie  ambizioni  che  si  contesero 
Alba  dal  sec.  XIV  al  XVII,  vi  prevalse  quasi  costantemente  la  signoria  dei  Mar- 
chesi di  Monferrato,  finche  nel  1631  col  trattato  di  Cherasco  fu  annessa  agli  Stati 
di  Casa  Savoia. 

3  Cfr.  sulla  riviera  Album  Ingannimi,  Album  Intimilium,  Alba  Docilia',  nella  Gal- 
lia  Narbonese  Alba  Helvorum.., 


180  F.    EUSEBIO.  TAUTE   I. 

andrebbe  errati  connettendo  la  nascita  délVoppidum  coi  lavori  di  que- 
sta costruzione  stradale  *. 

Ciò  può  pensarsi  ove  si  parli  dell'assetto  alla  romana;  ma  quanto 
a  nucleo  «l'abitazione  indigena,  come  già  per  se  ce  lo  farebbe  supporre 
d'assai  più  antico  1'  opportunità  stessa  del  luogo  ,  così  ce  lo  attesta 
antichissimo  una  stazione  neolitica  esistente  alle  porte  della  città  dal 
lato  di  mezzogiorno  \ 

Se  non  che  anche  come  sede  romana,  mentre  l'ipotesi  del  Mommsen 
ne  farebbe  certamente  discendere  gli  inizi  più  giù  del  050  di  Roma, 
parecchie  considerazioni,  su  cui  non  è  qui  luogo  di  diffonderci, ;i  consi- 
gliano di  crederla  principiata  un  tratto  imi  avanti.  Qualunque  fosse 
il  grado  di  civiltà,  in  cui  i  Romani  trovarono  ai  primi  contatti  queste 
popolazioni  liguri,  la  preesistenza  d'un  nucleo  d'abitatori  in  luogo  posto 
in  piano  sulla  sponda  del  fiume  più  importante  della  regione,  allo  sbocco 
di  parecchie  valli  risalenti  a  serie  infinita  d'  alture  propizie  alla  spic- 
ciolata guerra  di  resistenza  ,  in  flagrante  vicinanza  del  punto  ,  ove 
prima  o  poi  sorse  Pollentia  a  guardia  d'un  passaggio  alla  pianura  Pa- 
dana, infine  su  linea  designata  da  natura  per  comunicazione  con  altri 
centri  dominatori  del  paese  ,  induce  facilmente  a  credere  che  anche 
prima  d'intraprendere  la  loro  classica  rete  stradale  i  Romani  dovessero 
d'urgenza  coi  mezzi  più  pronti  a  popolo  maestro  di  conquista  affermarvi 
praticamente  e  stabilmente  la  loro  presa  di  possesso,  proclamata  fin 
dal  532;  4  il  che  importava  introduzione  delle  prime  e  più  opportune 
delle  loro  arti  ed  industrie,  qualche  primo  lavoro  d'utilità  militare  e 
civile ,  ecc.  Valgano  ad  esempio  Plaeentia  e  Cremona  colonizzate  di 
Latini  fin  dal  530  ,  cioè  settant'  anni  prima  della  costruzione  della 
via  Postumia. 

Fatto  è  ch'io  trovo  nel  sottosuolo  albense,  tanto  in  città  quanto  in 
campagna,  frammenti  di  tegole  romane  di  perfetta  fabbricazione  con 
bollo  di  questa  forma:  «  P.  Q.  ^AjERIEIS  ». — Ora  si  sa  che  la  finale 


1  C.  I.  L.,  voi.  V  ,  proemi  ai  capi  d'Aquae  Statiellae  e  d'Alba  Pompeia  ,  pa- 
gine 850  e  863. 

2  Essa  ha  insigne  rappresentanza  nel  Museo  Kircheriano  di  Roma,  donata  dal 
benemerito  raccoglitore  Ing.  G.   B.  Traverso. 

3  Dovrò  parlarne  di  proposito  in  un  libro  di  prossima  pubblicazione  sulle  Epi- 
grafi romane  inedite  d' Alba  Pompeia  raccolte  nel  Museo  archeologico,  che  da  alcuni 
anni  mi  riuscì  d'iniziare  nella  mia  città. 

4  Quando  per  effetto  delle  vittorie  di  Telamone  e  di  Clastidium  tutto  il  paese 
degli  Insubri  e  dei  Liguri  era  dichiarato  provincia  romana.   Cfr.   per  1'  anno  557: 

« et  jam  omnia  cis  Padum,  praeter  Gallorum  Boios,  Ilvates  Ligurum,  sub  di- 

cione  erant  »   (Liv.  XXXII,  29). 


I>ARTK    t.  LE    MURA    ROMANE    d'aLBA    POMPEI  A.  181 

in  eie  pel  nominativo  plurale  dei  temi  in  o  cessa  già  verso  la  metà 
del  secolo  VII  l. 

Se  non  si  vuol  credere  che  quelle  siano  proprio  le  prime  tegole 
che  inaugurarono  sul  luogo  l'edilizia  romana,  nello  stesso  tempo  che 
dovrebbero  porgere  gli  ultimi  tardivi  campioni  di  quella  forma  di  fles- 
sione arcaica,  bisogna  pensare  in  genere  che  durante  la  prima  metà 
di  quel  secolo  già  venisse  compiendosi  del  ricus  Albensis  quella  suf- 
ficiente assimilazione,  quella  specie  di  romanizzazione  di  fatto,  che  a 
tutte  le  città  «Iella  Cispadana,  dotate  già  del  jus  Latinum,  faceva  ornai 
invocare  la  piena  cittadinanza  ,  e  a  Roma  permetteva  di  concederla 
nel  665  come  ad  alleati  rimasti  fedeli  anche  nei  frangenti  della  guerra 
sociale. 

Credesi  generalmente  che  appunto  in  quell'occasione  Alba  dei 
Liguri  prendesse  da  Pompeo  Strabone,  autore  della  legge  di  cittadinanza, 
il  soprannome  di  Pompeia.  Resta  però  a  domandare  perchè  fra  le  tante 
città  che  di  quella  legge  fruirono  la  sola  Alba  assumesse  quel  distin- 
tivo, come  Laus  sola  lo  assunse  fra  le  transpadane,  che  per  la  stessa 
legge  acquistarono  il  jus  Latii...., 

Nella  nuova  condizione  Alba  Pompeia  con  la  vicina  città  dei 
Bagienni  fu  censita  nella  tribù  Camilla. 

Undici  anni  dopo  quell'avvenimento  (676  di  IL,  78  av.  Cr.),  morto 
Siila,  il  console  M.  Emilio  Lepido  con  proposito  d'abbattere  la  costi- 
tuzione del  terribile  dittatore  e  ristorare  la  parte  Mariana  si  presenta 
con  suo  esercito  davanti  a  Roma,  mentre  con  altre  forze  nella  Gallia 
cisalpina  appoggia  il  moto  Giunio  Unito,  padre  di  quello  che  ucciderà 
Giulio  Cesare.  Ma  Lepido  è  disfatto  da  Lutazio  Catulo  in  Camp*»  Mar- 
zio e  il  giovine  Pompeo  mandato  contro  Liuto  nell'  Italia  superiore 
finisce  la  guerra  quasi  senza  combattere,  ma  non  senza  parecchie  su- 
perflue atrocità,  di  cui  pare  toccasse  ad  Alba  Pompeia  di  vedere  una 
delle  più  penose.  Arreso  già  Bruto  ,  e  tuttavia  trucidato  a  Reggio, 
«  Albanorum  civitas,  obsidione  oppugnata  atipie  excruciata  fame  ulti- 
ma, miserabili  uni  reliquiaruni  deditione  servata  est;  ubi  tunc   Scipio, 


1  L'esempio  geograficamente  più  vicino  ,  cioè  la  Tavola  di  Poleevera  ,  dove 
leggiamo:  «  Q.  M.  Minucieu  Q.  f.  Iìufeix»,  porta  espressa  la  data  del  637  di  Ro- 
ma (117  av.  Cr.)— Vedasi  C.  I.  L.  voi.  I.  199;  V,  7749.  —  Ritsehl  ,  l'riscae  lati- 
nitali8  monumenta  ep'ujraphica  ,  tav.  XX.  E  per  la  (questione  dell'  età  in  cui  vige 
quella  forma  arcaica  di  flessione  :   Ritschl,  op.  cit.   pagg.   123-21. 

Rileva  già  queste  cose  una  mia  breve  comunicazione  intitolata  «  Nulicine  di 
grammatica  storica  »  negli  Atti  del  Congresso  storico  internazionale  di  Roma,  voi.  II, 
pagg.  211-12;  alla  quale  avrò  qualcosa  da  aggiungere  Dell'annunciato  studio  illu- 
strativo dell'Epigrafia  romana  inedita  d'Alba   Pompeia, 


Ì82  V.    EUSEBIO.  fARtfi    I. 

Lepidi  filius,  captus  atque  oecisus  est  ».  Tanto  questo  passo  d'Orosio 
(V.  22,  17)  quanto  uno  di  Plutarco  (Pompeius,  XVI)  ed  altri  d'altri 
scrittori,  che  accennano  al  fatto,  presentano  punti  oscuri  e  disputa- 
bili, forse  guasti;  ma,  comparati  fra  loro  in  rispetto  alle  varie  situa- 
zioni dell'  effimera  guerra  ,  cospirano  a  fare  intendere  che  V Albani 
d'Orosio,  scrittore  di  latinità  tutt' altro  che  impeccabile,  designi  vera- 
mente quelli  che  normalmente  nei  buoni  tempi  si  chiamarono  Alben- 
ses  Pompeiani  l. 

Un  trentacinque  anni  di  poi  Alba  Pompeia  dovette  dare  stazione 
all'  esercito  di  Decimo  Bruto  avviato  a  Pollentia.  Infatti  nel  711  di  R. 
(43  av.  Cr.)  M.  Antonio,  fuggito  dopo  la  rotta  di  Modena  fino  a  Vada 
Sabatia,  ma  afforzato  colà  di  nuovo  esercito  condottogli  da  Ventidio 
Basso ,  tenta  (se  non  è  pura  tìnta)  di  riportar  la  guerra  nella  valle 
Padana  rivalicando  l'Appennino  e  lanciando  anzitutto  Trebellio  con 
la  cavalleria  ad  impadronirsi  di  Pollentia.  Ciò  avveniva  naturai  niente 
per  vai  di  Tanaro.  Decimo  Bruto  dall'alta  valle  della  Bormida  orien- 
tale ,  ov'  era  giunto  nell'  inseguire  il  fuggitivo,  si  propone  di  preve- 
nirlo nell'occupazione  della  forte  città,  e  vi  riesce  con  cinque  celeri 
coorti,  che  toccano  la  meta  un'ora  prima  che  vi  compaia  in  vista  la 
avanguardia  del  nemico.  2  Questa  contromarcia,  notava  già  il  Mommsen 
(loc.  cit.  pag.  850),  non  potè  effettuarsi  che  per  l'accennata  via  «  Aquis 
StatielUs-Pollentiam  »,  la  quale  passava,  come  già  indicammo,  per  Alba 
Pompeia. 


Non  procedo  oltre  con  quest'abbozzo  di  cronistoria  preliminare, 
perchè  lo  speciale  argomento,  a  cui  ho  destinato  il  mio  scritterello, 
spetta  certo  ai  primi  tempi  in  cui  la  Repubblica  stese  su  Alba  il  suo 
dominio. 


ner 


1  Anche  lo  Zangerneister  nell'indice  della  sua  edizione  d'Orosio  (Lipsia,  Teub- 
1889)  interpreta  quell' Alban  ornm  civitas  per  Alba  Pompeia,  pur  distinguendo 

con  carattere  corsivo  VAlbanorum  da  altri  Albani  d'altro  significato.  Discuterò  al- 
trove con  più  agio  la  questione.  Per  gli  Albenses  Pompeiani  v.  Plinio,  H.  N.  XVII, 
in,   1." 

2  V.  la  corrispondenza  di  Bruto  con  Cicerone  nel  lib.  XI  delle  Epist.  ad  fami' 
liares,  e  specialmente  la  lettera  tredicesima. 


PARIE    I.  LE    MURA   ROMANE   D'ALBA    POMPEIA.  185 


IL 

Fra  coloro  che  già  parlarono  delle  antichità  d'Alba  Pompeia,  ed 
accennarono,  oltreché  alle  lapidi,  ai  pavimenti  a  musaico,  ai  condotti, 
ai  frammenti  marmorei  di  vario  genere,  alle  monete,  che  si  trovano 
nel  sottosuolo  l,  nessuno  (per  quanto  potei  verificare)  come  testimo- 
nianze superstiti  annoverò  vestigia  delle  mura  romane  della  citta. 
Teoricamente  le  supposero  bensì,  e  si  comprende;  taluno  anzi  diede 
loro  un'antichità  chimerica;  qualcuno  ne  fece  vere  ipotiposi  come  se 
proprio  vedesse  Pompeo  Magno  a  fabbricarle  2  ;  nessuno  mostrò  di 
conoscere  in  qualche  avanzo  reale  una  rispondenza  concreta  alla  sua 
visione  :  generalmente  v'è  a  sospettare  che  alla  buona  attribuissero  a 
Pompeo  i  resti  delle  mura  medievali  o  fors'  anco  le  povere  ricostru- 
zioni degli  ultimi  secoli. 


1  Per  citare  uno  dei  primi  in  ordine  cronologico,  noterò  che  il  vescovo  Paolo 
Brizio  ,  buon  dicitore  di  cose  vedute  quanto  entusiastico  accoglitore  delle  più 
spropositate  fandonie  ,  nel  suo  abborracciato  opuscolo  <t  Albae  Pompeiae  succincta 
descriptio  »  (Aug.  Taur.  MDCLXI),  pag.  7,  ha  già  questa  notizia  :  «  Considerabilis 
est  etiam  triplicata  paviinentorum  ordinatio  Albae  subterraneae,  quae  frequenter 
invenitur  a  civibus  in  fuudamentis  Ecclesiarnin  et  doinorum,  tam  lapiduru  et  ruar- 
inoruin  quam  bituniinum  diversorum  colorimi». 

Questo  accade  veramente  tuttodì. 

2  Comunemente  la  fondazione  o  una  restaurazione  della  città  s'attribuisce  al 
Magno  senza  forse  saperne  una  ragione:  probabilmente  per  la  maggior  magnitudine 
del  personaggio.  Xon  mancò  chi  risalisse  a  Scipione  Africano,  associandolo  però 
con  lo  stesso  Pompeo  Magno  in  un'iscrizione,  che  fu  già  rigettata  da  parecchi  dei 
nostri  antenati. 

Come  saggio,  dirò  così,  della  mitologia  del  soggetto  non  mi  pare  inopportuno 
riferir  qui  testualmente  anche  nella  sua  grafia  non  sempre  ortodossa  quest'  altro 
passo  della  ricordata  operetta  del  Brizio  ,  più  citata  forse  che  conosciuta  ,  come 
accade  di  questi  vecchi  libri  dove  ha  larga  parte  la  borra  delle  favole  senza  cri- 
tica; oltreché  pel  caso  nostro  può  talvolta  aver  pure  il  suo  utile  reale  il  risalire 
a  questi  antichi,  che  poterono  veder  la  città  immune  ancora  dalle  vicende  sempre 
più  distruggitrici  degli  ultimi  secoli  : 

«  Alba  ergo  a  Iani genia  ,  primis  Italiae  habitatoribus,  condita  ,  a  Liguribus 
Phaetuntis  iìliis  alimentis,  custodibus  et  populis  aucta,  ab  Aegiptiis  temporibus 
Abrahae  et  Saulis  ac  Davidis  cultoribus.  sacrificiis  et  idolis  munita,  a  Senonibus 
sub  Brenno  duce  Gallorum  insiguibus  ornata  ,  a  Troianis  et  Latinorum  Kegihus 
munitionibus,  armis  et  praesidiis  provisa,  a  Carthaginensibus  amicis  sub  Annibale, 
ruartis  furore  et  Taurinorum  destructore,  commendata,  a  Roman is  tandem  Consu- 
libus  expuguata  et  a  Pompeo  Magno,  Strabonis  filio,  mitris  et  propugnaculis  fortiter 
cincta  ,  in  tantam  potentiam  et  existirnationem  Keipublicae  extitit  contra  omnes 
Aquilouarium  nationum  ictus  ,  ut  Pompeius  Magnus  Albani  Pompeiani  a  suo  nomiue 


184  V.    EUSEBIO.  t»ARTE   t. 


Un  solo  quasi  ignoto  e  più  che  modesto  scrittore  mostra  d'aver 
osservato  in  qualche  pezzo  delle  mura  certe  caratteristiche  di  costru- 
zione, che  rispondono  ad  alcune  di  quelle  che  fra  poco  descriveremo. 
Fra  i  manoscritti  raccolti  nella  Biblioteca  civica  d'Alba  uno  ne  osservai, 
se  originale  o  copia  non  potrei  dire  (segnatura  II,  V,  7),  intitolato  : 
«  Notizie  della  Città  d'Alba  ricavate  dal  signor  Nodaro  Domenico  San- 
soldo  di  Levaldigi,  Segretaro  dell'Intendenza  nell'anno  1760  ».  Le  no- 
tizie sono  d'indole  statistica,  demografica,  economica,  ecc.,  ma  le  pre- 
cede un  po'  di  preambolo  storico,  dal  quale  riproduco  nella  sua  forma 
un  tantino  sgrammaticata  questo  passo  : 

«  Li  monumenti  da  quali  si  desume  la  sua  antichità  sono  :  1.°  Le 
antichissime  mura  da  cui  trovasi  circondata,  quali  in  parte  sono  state  ro- 
vinate dal  detto  fiume  Tanaro,  e  dal  vedersi  (sic)  molte  d'esse  costrutte 
di  solo  bittume  composto  di  picciolissime  pietre  impastate  con  calce 
ed  altri  ingredienti  d'una  sodezza  tale  che  arte  non  può  distruggerle 
salvo  col  ridurle  in  ben  minuti  frantumi  o  con  mine  rovesciarle  così 
intere  sul  suolo.  2.°  Da  dodeci  torri  di  considerabile  altezza,  ecc.  ». 

Fatta  riserva  per  ora  sull'estrema  piccolezza  delle  pietre  dell'im- 
pasto, la  descrizione  presenta  particolari  che,  come  dissi,  dovremo  noi 


denoruinaverit  et  coloniam  Romauornm  sub  rege  Cottio,  Alpium  et  Italorum  Mar- 
cinone ac  Tatirinorum  domino,  coinmeudaverit,  et  Iulius  Caesar  Augustns  au.  ante 
Cristum  natimi  34  privilegiis  et  civitate  Romana  cum  proprio  Magistrata  perpetuo 
decoraverit»    (pag.  3). 

A  pag.  11  viene  una  larga  ripresa  del  discorso  ,  da  cui  pel  soggetto  nostro 
estraggo  queste  linee: 

«  Confluentibus  igitur  inquiliuis  mixtisqne  cum  Liguribus  Dardaniae  populis, 
in  elegantiorem  formam  Alba  excrevit,  iamque  non  exulum  niapalia,  uon  profugo- 
rum  domicilia,  sed  perfectae  Urbis  species  referebatur,  quae  vallo  primum  et  aggere 
ex  terra  congesto  munita,  mox  digna  visa  est  quam  Pompeius  compescendis  Barba- 
rorum  incursibus  accommodatam  iudicaret  ,  validissimorumque  moenium  ambitu,  cir- 
cumvallaret,  unde  et  Albae  Pompeiae  cognomen  accepit  ». 

Che  questa  sì  chiara  veduta  di  magnifica  cinta  urbana  non  fosse  allo  scrit- 
tore suggerita  od  appoggiata  da  alcun  materiale  avanzo  ch'egli  avesse  riconosciuto 
nella  città  del  suo  tempo  s'argomenta  dali'affermare  eh'  egli  fa  altrove  [SerapMca 
8ubalpinae  D.  Thomae  provinciae  monumenta.  — Taurini,  MDCXXXXVII,  pag.  182): 
«  Afurorum  ambitus  ,  olim  longe  amplior  quam  nunc  cernitur  ,  proximos  etiam  colles 
occupabat  »  ;  donde  appare  eh'  egli  errava  lontano  dietro  fantasie  iperboleggiatiti 
senza  nulla  sospettare  nelle  vere  mura  che  aveva  sott'ocebi 

Non  è  alieno  dal  luogo  l'accennare  come  nella  grande  aula  consigliare  del  Pa- 
lazzo municipale  un  quadro  di  non  cattiva  mano,  che  fa  da  sovrapporta  all'ingresso 
dell'  Archivio  ,  rappresenti  Pompeo  che  sta  dirigendo  l'edificazione  della  città  e 
specialmente  la  costruzione  delle  mura  ,  dietro  le  quali  già  spiccano  giganteschi 
torrioni,  palazzi,  ecc. 


parte  i.  Le  mura  rodane  d'alba  pompeia.  185 

stessi  ripetere,  e  la  frase  «molte  d'esse»,  benché  non  troppo  feliee, 
sembra  faccia  intendere  che  l'osservatore  scorgeva  diversità  fra  tratti 
più  antichi  e  ricostruzioni  posteriori.  Ad  ogni  modo  l'associar  tosto, 
com'egli  fa,  nella  stessa  dimostrazione  le  dodici  torri  medievali  lascia 
facilmente  credere  ch'egli  non  vedesse  in  quei  resti  di  mura  la  spe- 
ciale pertinenza  alla  romanità,  ma  tutto  confondesse  in  una  sola  vaga 
antichità,  la  (piale  contenesse  le  origini  tanto  di  quelle  mura  quanto  di 
quelle  torri  l. 

III. 

Comunque  sia  del  passato  ,  fatto  é  che  al  tempo  nostro  parlare 
delle  mura  romane  di  questa  città  non  era  che  proporre  una  ragio- 
nevole ipotesi.  Dovevano  esserci  state,  ma  la  città  traverso  invasioni 
Langobardiche  e  Saraceniche,  lotte  comunali,  guerre  di  signorie  indi- 
gene e  straniere  aveva  subito  tante,  spesso  sistematiche,  distruzioni, 
da  non  esser  meraviglia  se  nessuna  traccia  più  sorvivesse  di  quanto 
aveva  formato  l'Alba  romana  \ 

Qualche  anno  fa,  quando  mi  accinsi  a  preparare,  se  non  un  Mu- 
seo ,  un  ricettacolo  di  salvamento  per  le  reliquie  storiche  del  mio 
paese,  e  perciò  ad  esplorare  in  generale  quanto  ancor  rimanesse  nella 
città  che  potesse  ricordare  i  suoi  secoli  più  antichi,  mi  diede  all'oc- 
chio un  rudere  sporgente  irregolarmente  dal  muro  esterno  delle   vec- 


1  Non  si  fa  torto  al  buou  notaio  pensando  che  quel  elisegli  aveva  osservato 
fosse  pure  al  suo  tempo  osservato  da  altri  anche  forse  più  intendenti  di  lui:  dalla 
forma  del  suo  discorso  pare  anzi  ch'egli  alleghi  cosa  notoria.  Ora  egli  era  a  un 
dipresso  contemporaneo  del  Vernazza,  che  ,  nato  nei  17-15,  nel  1760  con  precoce 
intelligenza  ed  applicazione  già  s'occupava  dell'antica  storia  della  sua  città.  Sa- 
rebbe più  che  naturale  che  in  qualche  punto  a  me  sfuggito  delle  sue  opere  (ri- 
maste in  gran  parte  manoscritte  e  sparse  in  biblioteche  diverse)  vi  fosse  accenno, 
sia  pur  fuggitivo,  ad  avanzi  da  lui  riconosciuti  delle  mura  d'Alba  Pompeia. 

2  Poiché  ci  è  occorso  di  citare  il  Brizio  nella  facondia  de'  suoi  sogni,  lasciamolo 
ancora  parlare  quando  efficacemente  riassume  fatti  veri  :  «  Unns  tot  decora  abo- 
lere  potuit  Martis  furor,  quem  adeo  saevuni  experta  est.  ut  liane  crebrius  quaru 
ceteras  Italiae  urbes  obsideri,  oppugnali,  capi,  diripi.  dirai,  instaurari  contigerit: 
et,  ne  excidiis,  quae  sub  barbaris  olim  nationibus  passa  est,  recensendis  iminore- 
mur  ,  tertiam  eius  expugnationem  oppugnante  Sabaudo  vix  tria  uostrae  aetatis 
lustra  conspexerunt  ».  — L'ultima  ardita  allusione  spetta  ai  tre  assalti  dati  da  Carlo 
Emanuele  I  negli  anni  1613,  1617,  1628. 

Ma  anche  nei  secoli  seguenti  si  sa  che  non  cessarono  le  cagioni  di  rovine  vio- 
lente o  meditate.  E  dalle  stesse  parole  del  Sausoldo,  che  scriveva  130  anni  dopo 
l'annessione  a  Casa  Savoia,  s'argomenta  lavoro  di  mine  e  di  pazienti  demolizioni 
avvenute,  pare,  sotto  i  suoi  occhi. 


186 


F.    EUSEBIO. 


PARTE   I. 


chic  scuderie  del  Palazzo  episcopale,  rudere  di  costruzione  affatto  di- 
versa da  quella  del  muro,  il  quale  era  stato  impiantato  trasversalmente 
sopr'esso  ,  rispettando  e  prendendo  anzi  negli  utili  quel  che  troppo 
avrebbe  costato  radere  al  suolo. 


iC 


Presento  nella  figura  29  una  pianta  topografica  dell*odierna  città, 
dove  all'estremità  nord  del  Palazzo  vescovile  (verso  piazza  CherascaJ 


Parte  t. 


LE    MURA    ROMANE    IV ALBA   POMPEIA. 


18? 


il  lettore  ravviserà  alla  meglio  la  posizione  del  rudere  suddetto.  La 
fig.  30  rappresenta  fotograficamente  il  rudere  medesimo  '. 


Fig.  30. 

In  quel  rudere  io  riconobbi  da'  due  lati  i  grossi  mattoni  del  ge- 
nere elie  Plinio  chiama  lydion  (cm.  45x30,  cioè  sesquipedali  in  lun- 
ghezza, pedali  in  larghezza),  i  quali  formavano  rivestimento  a  un  ri- 
pieno fortissimo  di  ciottoli  e  ealee  attraversato  ad  intervalli  di  circa 
cm.  00  (due  piedi  romani)  da  doppio  strato  di  simili  mattoni  ,  che 
legavano  l'insieme  in  ufficio  di  diatoni.  Era  V  emplecton  greco-romano. 
Di  sotto  appariva,  messo  allo  scoperto  da  vecchi  sterri,  buon  tratto 
del  fondamento  in  puro  calcestruzzo  simile  a  quello  della  fartura.  Lo 
spessore  al  livello  immediatamente  superiore  al  fondamento  era  di 
in.  2,40,  pari  ad  otto  piedi  romani.  Di  lì  in  su,  alle  distanze  sud- 
dette di  circa  sessanta  centimetri  notavausi  lievi  riseghe,  che  da  sette 
diminuivano  lino  a  due  centimetri  di  larghezza. 


1  Questa  fotografia  e  quelle  dei  miai.  32  ,  33  e  38  soli  dovute  alla  genti- 
lezza del  Conte  Raffaele  Seruagiotto,  Prof,  nella  R.  Scuola  enotecnica  alhese  ,  il 
quale  pazieutemcnte  coadiuva  questi  miei  lavori  coi  migliori  mezzi  di  quell'arte, 
oramai  sì   utile  agli  scienziati,  nella  quale  è  maestro. 


Ig8  fc.    EUSEBIO.  fcARTE   1. 


Osservata,  oltre  la  posizione  in  vero  punto  periferico  della  città, 
anche  la  direzione  ben  rispondente  a  quella  d'un  tratto  ancora  super- 
stite ,  a  breve  distanza  verso  mezzanotte  ,  della  cinta  creduta  pura- 
mente medievale  o  posteriore  ,  considerai  quel  rudere  come  reliquia 
indubitabile  delle  mura  romane  della  città. — Siccome  avremo  occasione 
di  rimenzionarlo  spesso,  per  brevità  di  discorso  lo  designeremo  con  E. 
Così  lo  trova  il  lettore  indicato  nella  citata  pianta  della  città. 

Dopo  la  scoperta,  dirò  così,  di  quel  bandolo,  fatte  le  opportune 
indagini,  venni  a  sapere  che  tutto  un  viale  percorrente  in  lunghezza 
il  giardino  vescovile  in  direzione  analoga  a  quella  di  E  verso  mezzodì 
(piegando  alquanto  verso  ovest)  ha  per  sustrato  un  grossissimo  muro 
di  struttura  simigliante  alla  suddetta.  Esso  continua  poi  sotto  il  suolo 
dell'attiguo  giardino  del  Seminario,  dove  per  abbassarlo  quando  ancora 
emergeva  si  dovette  ricorrere  alle  mine.  Indi  percorre  visibile  sotto 
forma  d' aggere  o  rialto  allungato  il  successivo  giardino  del  Eitiro 
della  Provvidenza. 

Non  sarebbe  neppur  d'uopo  di  verificazioni  a  mezzo  di  scavi  per 
concludere  che  s'abbia  lì  coperto  un  altro  lungo  tratto,  rappresentato 
almeno  dalle  fondamenta  ,  delle  mura  romane.  Posso  aggiungere  a 
buon  conto  che  1'  intero  atrio  del  Palazzo  episcopale  è  pavimentato 
di  mattoni  romani  del  genere  sopraccennato,  frutto  certamente  della 
demolizione  dell'antica  cinta  urbana,  sulla  quale  e  traverso  la  quale 
il  Palazzo  fu  edificato.  Nel  tratto  che  dissi  spianato  nel  giardino  del  Se- 
minario si  trovarono  i  mattoni  romani  di  legamento.  Uguali  mattoni  ri- 
conobbi in  una  scaletta  del  giardino  del  Ritiro,  vicina  n\Y  aggere  sud- 
detto: e  uguali  del  resto  in  iscale  d'altre  case  che  continuano  l'abitato 
periferico  in  direzione  di  sud-ovest  e  ponente.  Nei  cortili  e  giardini  di 
queste  si  possono  seguitare,  ancora  più  o  meno  elevati  sopra  il  suolo, 
i  resti  delle  mura  d'età  relativamente  vicine,  le  quali  dovettero  rico- 
struirsi sulle  radici  della  cinta  romana,  di  cui  quei  mattoni  sono,  per 
così  dire,  mantissa. 

La  lunghezza  complessiva  di  tutti  questi  tratti  si  può  calcolare 
a  circa  mezzo  chilometro.  Nella  pianta  topografica  (figura  29)  la  do 
punteggiata  minutamente  in  nero  più  carico. 

Se  pei  lati  a  sud  e  sud-ovest  del  rudere  E  la  certezza  è  data  da 
sicure  informazioni  già  afforzate  in  ogni  punto  da  materiali  riscontri, 
liei  lati  che  vanno  nel  verso  opposto  se  n'  acquista  con  1'  occhio  la 
veduta  diretta  e  patente. 

Al  nord  della  città  campeggia  ancora  nel  cielo  un  pezzo  di  quella 
cinta,  che  soffrì  gli  assalti  di  Carlo  Emanuele.  Dal  basso  della  ripida 
scarpa    1'  occhio  non  prevenuto    nulla  sospetta  di  varia    costruzione, 


PARTE    I.  LE    MURA   ROMANE   INALBA    POMPEIA.  189 

tanto  più  che  fino  a  certa  altezza  il  muro  è  per  lo  più  rivestito  di 
rigogliosa  vegetazione  parassita.  Dopoché  lo  scampolo  1!  mi  pose  sul- 
l'avviso, m'arrampicai  un  giorno  sino  al  piede  di  quel  muro,  e  fra  i 
rovi  e  le  ortiche  trovai  che  fino  a  un  livello  medio  d'  un  metro  e 
mezzo  dal  suolo  era  tutto  ancora  costruzione  romana.  Nella  pianta 
topografica  lo  si  vede  tratteggiato  in  nero  carico  sotto  la  lettera  P. 
Esso  misura  in  lunghezza  pressapoco  00  metri.  Per  ragione  speciale,  di 
cui  si  dirà  fra  poco,  unisco  pure  di  questa  parte  perimetrale  della  città 
un  quadro  planimetrico  (fig.  31),  nel  quale  una  porzione  di  quel  tratto 
di  mura  riappare  sotto  la  stessa  designazione. 

La  fig.  32  ne  rappresenta  la  testa  verso  ponente,  dov'è  facilmente 
visibile  il  divario  tra  la  zona  inferiore  coi  caratteri  dell'  emplecton 
(spoglio  quasi  in  tutto  del  rivestimento  laterizio)  e  la  sopracostru- 
zione posteriore. 

Dopo  un'interruzione  di  circa  m.  33,  dove  il  muro  dovette,  non 
sappiam  quando  nò  perchè,  esser  demolito  più  radicalmente  (cfr.  ad 
es.  più  sopra  nella  memoria  del  Sansoldo  :  «  quali  in  parte  sono  state 
rovinate  dal  detto  filone  Tanaro  »),  torna  ad  emergerne,  sempre  sulla 
stessa  direzione  e  con  gli  stessi  caratteri  ,  un  tratto  di  circa  m.  20;  ai 
quali  se  ne  possono  aggiungere  altri  40  mascherati  ora  dalla  nuova 
fabbrica  dell'Ospedale  Cottolengo.  Li  tutto  si  può  considerare  sotto  F 
una  linea  d'un  160  metri. 

Dalla  parte  di  levante  queste»  medesimo  tratte»  s'incontra  ad  an- 
golo ottuso  con  un  altro  volgente  a  sud-est  (segnato  E  nella  nostra 
planimetria),  al  quale  era  finora,  ed  è  ancora  in  parte,  addossata  allo 
esterno  una  mezzaluna  famosa,  che  nel  1(517  Monferrini  e  Spaglinoli 
eressero  a  difesa  contro  forze  riunite  del  Duca  di  Savoia  e  della  Fran- 
cia i.  Della  pianta  di  questa  mezzaluna  è  conservata  una  parte  nel 
rilievo  planimetrico.   Il  tratto  misura  pressapoco  2<S  metri. 

Diretta  continuazione  di  E  ,  astrazion  fatta  «la  un  breve  taglio 
recentissimo  ,  che  pur  si  vede  nel  quadro  ,  e  «li  cui  parleremo  ,  è  il 
tratto  C,  il  quale  prosegue  sulla  stessa  linea  per  circa  m.  1  '.H>.  diven- 
tando a  un  certo  punto  sostegno  d'un  muro  «li  casa  particolare,  e  ter- 
minando poi  (per  mozzatura  di  tempi  vicini)  a  distanza  d'  una  sessan- 
tina di  metri   dal  rudere  E,  nostro   punt«>  di   partenza. 

Per  tutta  quest'altra  lunghezza  «li  218  metri  resta  inteso  che  si 
verifica,  or  più  in  alto  or  più  in  basso,  il  già  notato  passaggio  dalla 


1  V.  Relatione  dell'impresa  della  città  d'Alba  Pompea  ,  fatta  dal  serenissimo  Si- 
gnor Duca  di  Savoia  dalli  vinti  due  di  febraro  sino  alli  sei  di  marzo  1617. — Torino, 
appresso  Luigi   Pizzaniiglio  stampatore  ducale,  MDCXVII. 


190 


V.  EUSEBIO. 


PARTE   I. 


costruzione  romana  alla  moderna.  Anche  la  linea  K-f-0  è  tratteggiata 
in  nero  denso  nella  pianta  topografica* 


PARTE   I. 


LE    MURA.    ROMANE    D'ALBA   ROMPEIA. 


191 


Fis.  32. 


IV. 


Fino  a  questi  ultimi  tempi  il  tratto  E  aveva  esso  pure  servito 
d'appoggio  a  un  muro  di  vecchia  casa,  clic,  dalla  famiglia  dei  Conti 
Doglio  passata  via  via  ad  altri  proprietari,  fu  tre  anni  fa  acquistata 
con  gli  ampi  terreni  annessi  dal  Capitolo  della  Cattedrale,  che  vi  so- 
stituì un  vasto  fabbricato  ad  uso  di  ricreatorio  per  la  gioventù  sotto 
titolo  (V Oratorio  di  8.  Secondo. 

Prima  che  la  vecchia  casa  fosse  abbattuta  io  avevo  osservato  che 
le  sue  scale  ed  alcuni  pavimenti  erano  in  tutto  formati  di  mattoni 
romani  del  genere  più  volte  menzionato:  ed  avevo  facilmente  suppo- 
sto ch'essi  rappresentassero  una  sottrazione  fatta  per  una  o  per  altra 


192  F.    EUSEBIO.  PAltTE   I. 

causa  al  tempo  della  fabbrica  dal  pezzo  di  unno  romano  ,  sii  eui  la 
casa  veniva  eretta.  Smozzicamenti  del  resto  seguirono  a  spilluzzico  firn» 
agli  ultimi  tempi  (come  avvenne  in  tanti  altri  luoghi  per  monumenti  di 
primaria  importanza  storica  ed  artistica).  Persona  che  abitò  a  lungo 
in  quella  casa  mi  raccontava  che  ogni  qual  volta  nella  scala  o  in  al- 
tre parti  dell'edifìcio  occorresse  materiale  per  riparazioni,  il  proprie- 
tario vi  provvedeva  con  un  nuovo  sgretolamento  del  bastione ,  che 
chiudeva  da  un  lato  il  cortile. 

Il  simile  va  inteso  una  volta  tanto  per  quasi  tutti  gli  avanzi  murarii 
dove  l'occhio  un  po'  pratico  riconosca  i  caratteri  della  fartura  romana 
senza  il  rivestimento  in  laterizio;  e  segnatamente  nel  caso  nostro  per 
tutti  quelli  che  si  trovano  (per  lo  più  sotterra,  in  cantine)  sulla  linea 
periferica  della  città,  i  quali  rappresentano  altrettanti  tratti  delle  an- 
tiche mura  spogliate  dei  grandi  e  bei  mattoni  che  ne  formavano  le 
orthostatae,  e  che  in  parte  sparirono  in  fondamenta  delle  nuove  case, 
in  parte  si  vedono  tuttora  qua  e  là  in  pavimenti,  soglie  d'usci,  scale, 
coperture  di  davanzali,  cornicioni,   ecc.. 

Altra  materia  d'osservazione  m'aveva  data  la  parte  inferiore  di 
quella  casa,  la  qual  parte,  restando  sotterranea  da  tre  lati,  dal  quarto 
(verso  mezzodì)  faceva  fronte  sopra  una  strada  incavata  nel  terreno  e 
discendente  verso  una  porta  aperta  nel  muro  di  cinta,  la  quale  dava 
adito  al  prato  esteriore  e  al  corso  di  circonvallazione. 

Si  componeva  essa  parte  di  due  lunghi  androni  o  gallerie ,  che 
all'interno  si  rivelavano  fabbricate  in  tutto  di  pietre  piatte  alternate 
uniformemente  di  00  in  00  centimetri,  anche  nella  volta,  con  duplici 
strati  dei  soliti  mattoni  romani  ad  uso  di  legamento.  Si  noti  nella 
misura  delle  suddette  equidistanze  la  rispondenza,  già  osservata  per 
le  mura,  alla  dimensione  di  due  piedi  romani. 

Si  trattava  dunque  d'un  edilìzio  coetaneo  del  muro  E  ,  il  quale 
anzi  ne  faceva  parte  integrante.  Lo  si  vede  rappresentato  nel  dise- 
gno planimetrico  sotto  le  lettere  A  e  E,  dov'  è  fatta  assoluta  astra- 
zione dal  nuovo  fabbricato  dell'Oratorio,  nel  quale  l'antico  resta  ora 
incorporato  e  nascosto  l. 

L'intercapedine,  o  meglio  intaccatura  interna,  che  si  vede  segnata 
nel  muro  E,  dev'essere  opera  di  tempi  posteriori,  in  cui  probabilmente 
si  trovò  utile    aprirvi  un  passaggio    abbreviativo  e  forse    segreto  in 


1  II  rilievo  planimetrico  è  dovuto  alla  squisita  cortesia  dell'  impresario  co- 
struttore, Sig.  Luigi  Gandolla,  il  quale  in  tutto  ciò  ch'era  a  lui  possibile  agevolò 
questo  punto  del  mio  studio.  Il  rilievo  fu  poi  fotografato  dal  cortese  amico  Can.c0 
Ferruccio   Boella  ,  a  cui   debbo  pure  le  fotografìe  dei   nuui.1  34,   35,  36,  37. 


parte  i. 


LE   MURA   ROMANE   p'AUU   POMREIA. 


193 


servizio  della  difesa  della  porta  e  della  mezzaluna.  L'  angusto  vano 
era  infatti  occupato  da  una  scaletta,  che  metteva  al  piano  superiore. 

Se  per  un  rispetto  è  da  dolere  che  l'impianto  del  nuovo  fabbri- 
cato abbia  dovuto  cagionare  l'estirpamento  d'una  porzione  del  tratto  C 
delle  mura  e  uno  stronco  frontale  ad  una  delle  gallerie  (A),  se  ne  ebbe 
d'altro  lato  il  compenso  di  poter  più  particolareggiatamente  studiare 
la  composizione  tanto  d'esse  mura  quanto  dell'annesso  ediflzio. 

Nella  lunghezza  compresa  sotto  C  la  lettera  D  distingue  un  tratto 
del  muro,  a  cui  prima  dei  nuovi  lavori  era  appoggiato  all'interno  un 
fabbricato  secondario  in  servizio  della  vecchia  casa:  D  e  l)1  insieme  se- 
gnano la  porzione  finora  soppressa  per  fare  spazio  attorno  al  nuovo 
edilìzio  ,  la  quale  risponde  pressapoco  a  una  lunghezza  di  m.  2G,30: 
Du  altra  porzione  di  m.  9,70  destinata  alla  stessa  sorte  e  già  sgom- 
brata anch'essa  dalla  scarpa  in  modo  che  mostra  scoperto  dall'imo  il 
fondamento.  È  quella  che  giunsi  in  tempo  a  far  fotografare  ,  e  eh'  è 
rappresentata  dalla  figura  33.  In  tutto  circa  in.  3G. 


Fig.  33. 


11  fondamento  è  composto  di  ciottoloni   del  Tanaro  e  di   tal   tem- 
pra di  calce  che  spesso  la   mina   spacca  la  pietra,   non   la    parte  colle- 

13 


194 


F.    EUSEBIO, 


PAUTE    I. 


gante.  —  Dalla  massa  gettata  alla  rinfusa  si  distingue  in  fondo  uno 
strato  sistematico  di  ciottoloni  maggiori,  di  grandezza  uniforme. 

Sopra  tale  calcestruzzo,  che  misura  in  altezza  circa  m.  1,20,  po- 
sano a  legamento  due  strati  dei  già  descritti  mattoni,  formanti  uno 
spessore  di  cm.  17  a  un  dipresso.  Ne  risulta  per  la  base  destinata  a 
restare  entro  terra  una  profondità  alPincirea  di  m.  1,37.  La  larghezza 
di  questa  base  al  punto  del  suddetto  legamento,  cioè  lo  spessore  ini- 
ziale del  muro ,  è  ,  come  in  E,  di  m.  2,40,  rispondenti  ad  otto  jnedi 
romani. 

La  composizione  del  muro  nella  parte  destinata  ad  emergere  ri- 
sponde parimenti  a  quella  che  già  occorse  descrivere  pel  rudere  E. 
Il  suo  tipo  può  ricostruirsi  nel  seguente  abbozzo  di  sezione  trasver- 
sale (%.  34), 


-^p^^^^r^S^-' 


Fig.  84. 


PARTE   I. 


LE   MURA   ROMANE   d'aLBA   POMPEIA. 


19t 


Generalmente  vi  predomina  il  ciottolo  piuttosto  grosso,  ma  non 
vi  mancano  conglomerati  «li  ghiaia  più  minuta  ;  e  si  comprende  che 
per  sì  vasta  opera  non  si  potesse  fare  nel  vicino  greto  una  scelta 
troppo  rigorosa  né  costantemente  ugnale.  Ciò  può  spiegare  la  piccio- 
lezza  attribuita  ,  come  vedemmo ,  alle  pietre  dell'  impasto  dal  notaio 
Sansoldo,  il  (piale  potè  imbattersi  a  veder  la  demolizione  di  qualche 
tratto,  in  cui  gli  antichi  costruttori,  sfiorato  ormai  il  greto  dei  sassi 
di  media  grossezza,  si  fossero  contentati   della  ghiaia  minore. 

Nel  rudere  11,  alto  in  tutto  circa  4  metri,  il  rivestimento  in  mat- 
toni giunge  ancora  dal  lato  interno  (a  destra  dello  spettatore  nella 
figura)  alquanto  di  sopra  della  terza  risega.  Non  si  può  sapere  se  di 
lì  in  su  le  riseghe  uniformemente  continuassero  (benché  paia  proba- 
bile), né  a  quale  altezza  il  muro  completo  giungesse;  poiché  in  nessun 
punto  esso  conserva  la  sua  integrità. 

Lungo  il  tratto  C  (e  analogamente  lungo  E,  F,  ecc.)  di  sopra  alla 
linea,  da  cui  il  muro  doveva  a  suo  tempo  sorgere  in  aperto,  il  suolo 
interno  è  ora  elevato  in  modo  da  nascondere  esso  muro  fino  a  un'al- 
tezza di  m,  2?04  \ 


Fu 


:  In  generale  il  piano  della  città  romana  si  trova  ora  secondo  diversi  punti 
a  profondità  da  ni.  2,30  a  m.  3  e  oltre. 


196  F.   EUSEBIO.  PARTE   I. 

Presento  nella  figura  35  due  esemplari  dei  mattoni  ricavati  dal 
tratto  D-f-D1,  i  quali  (come  parecchi  compagni)  portano  impressi  a  punta 
di  dito  prima  della  cottura,  oltre  un  solito  segno  convenzionale  presso 
Torlo  d'un  dei  capi,  due  numeri  (CLXX  e  CCXXVII)  indicanti  certa- 
mente quanti  di  simili  mattoni  avesse  fatto  o  dovesse  fare  il  servus 
figulus.  Nessuno  finora  ne  trovai  con  sigillo  di  fabbrica:  posso  però  dire 
che  un  frammento  di  tegola  proveniente  dall'edilizio  A-B  reca  bollo  con 

questa  dicitura  «  P.Q.\2L( )  »,  la  quale ,  benché  monca  in  fine ,  si 

vede  rispondere  a  quella  che  già  menzionammo  come  trovata  in  altri 
punti  del  sottosuolo:  «  P.Q.  \iLERIEIS  ».  In  altro  frammento,  andato 

smarrito  prima  ch'io  potessi  vederlo,  s'era  letto  « ETIVS»  »;  ora 

in  parecchi  esemplari  raccolti  da  più  punti  de'  dintorni  compare  asso- 
ciato al  nome  dei  Valerieis  quello  d'  un  MOGETIVS  ,  probabilmente 
officinator  o  conduetor  delle  figMnae.  Se  ne  può  argomentare  quasi  con 
sicurezza  che  la  costruzione  dell'edilìzio  e  delle  mura,  a  cui  era  connesso, 
risalga  all'età  arcaica,  rappresentata  dalla  finale  in  eìs  del  nominativo 
plurale  della  seconda  (V.  sopra,  pag.  180-81). 

Y. 

Sarà  bene  ora  dir  qualcosa  in  particolare  dell'  edilìzio  A-B ,  di 
cui  do  la  sezione  trasversale  nell'angolo  sinistro  del  quadro  planime- 
trico (tìg.  3  bis). 

I  vani  interni  delle  due  gallerie  hanno  una  lunghezza  di  m.  25,20. 
I  loro  ingressi  son  fiancheggiati  da  stipiti  dello  spessore  di  m.  1,20. 
In  larghezza  non  sono  tra  loro  perfettamente  uguali,  misurando  Vil- 
na (A)  m.  3,60,  1'  altra  (B)  m.  3,70.  Delle  due  linee  orizzontali,  che 
nel  disegno  le  attraversano,  la  superiore  rappresenta  l'antico  suolo,  dal 
quale  sino  al  colmo  dell'  arco  l'altezza  era  di  circa  m.  3,30.  Si  noti 
come  queste  cifre  rappresentino  sempre  a  un  dipresso  multipli  del  piede 
romano. 

II  terreno  ora  asportato  sino  alla  profondità  segnata  dalla  oriz- 
zontale inferiore,  cioè  fin  quasi  all'ima  radice  dei  muri  (altezza  in.  1,40) 
diede  una  quantità  infinita  di  cocci  d'anfore,  cadi,  olle,  ecc.;  cosa  del 
resto  eh' è  da  ripetere  pel  terreno  circostante,  da  cui  vennero  pure  sei 
frammentini  di  lapidi  romane  fra  loro  diverse  i. 

Del  modo  con  cui  sono  costrutti  i  muri  di  queste  gallerie  già  toc- 


1  Di  questi,  come  di  parecchi  sigilli  e  grafiti  dei  vasi,  dirò  di  proposito  nel- 
l'annunciato  mio  studio  sulla  Epigrafia  romana  inedita  d'Alba  Pompeia, 


PARTE   I. 


LE    MURA   ROMANE   D'ALBA   POMPEIA. 


197 


camino  di  sopra.  Nessun  rivestimento  in  laterizio;  perciò  non  massa 
di  ciottoli  a  rinfusa  con  calce  ,  ma   pietre  piatte  scelte  e  -con  cura  di- 


Fig.  3(5. 


sposte.  Analoga  tuttavia  sempre    la    composizione  e  la  distribuzione 
dei  legamenti. 

Nell'interno  delle  volte  ap- 
parvero pure  adoperati  non 
pochi  pezzi  d'un  conglome- 
rato calcare  spugnoso  di  ge- 
nere stalattitico ,  dei  quali 
presento  due  esemplari  nella 
flg.  36. 

11  ripieno  di  rinftanco  e  «li 
spianamento  d'  esse  volte  , 
(altezza  m.  0,60)  era  di  grosso 
e  tortissimo  calcestruzzo. 

Questo  piano  era  poi  inte- 
ramente coperto  anzitutto  <l;i 
uno  strato  di  tegoloni  fra 
loro  ben  riuniti  e  cementati, 
di  cui  quasi  nessuno  potè 
levarsi  intero.  Ad  uno  dei 
loro  frammenti  spetta  il  bollo 
teste  accennato. 

A  questa  copertura  ne  suc- 
cedeva un'  altra  di  mirabili 
quadroni  hipedali  (cui.  (io  per 
lato)  ,  di  cui  offre  un  esem- 
pio la  flg.  37.  Son  le  bipedae 
di  Palladio,  che  citeremo  qui 
sotto. 


198 


E.    EUSEBIO. 


PARTE   I. 


Su  tale  strato  era  ancora  disteso  un  battuto  ben  compatto  di  late- 
rizio pesto  "e  di  calce,  dello  spessore  di  cni.  15.  l. 

Tutta  questa  serie  di  sovrapposizioni  formava  complessivamente 
sulla  volta  uno  spessore  di  (piasi  un  metro. 

Finalmente  sopra  il  pavimentum  testaceum  gravavano  ancora,  non 
può  dirsi  se  <(b  antico  o  da  tempo  più  vicino,  m.  1,10  di  terra,  che 
nel  disegno  non  sono  più  rappresentati. 


Fig,  38. 


La  fig.  38  coglie  l' edilizio  in  un  momento  in  cui  la  parte  ante- 
riore della  galleria  A  era  già  abbattuta  per  far  luogo  ad  una  scala, 
e  lasciava  perciò  in  vista  la  sezione  della  volta;  mentre  la  galleria  B 
mostrava  ancora  nella  fronte  gli  avanzi  dell'intonaco,  che  l'aveva  ma- 
scherata nell'età  recente.  Il  monticello  che  le  si  scorge  aderente  a  de- 
stra rappresenta  il  terrapieno  della  menzionata  mezzaluna. 


1  Cfr.  Pallad.,  De  re  rustica  I.  19,1  (ove  parla  della  costruzione  dell' horreum): 

«  providenduni   strueturae   diligentia  ne  rimis  possit  abrumpi.  Soluin   igitur 

omne  bipedis  sternatur  vel  miuoribus  laterculis,  quos  suffuso  testaceo  pavimento  debe- 
mus  imprimere ». 

E    più    avanti    (ivi  ,  40  ,    2)  ,    parlando    della    costruzione    delle    suspensurae: 

« Super  has  pilas  bipedae  constituautur  biuae  in  aitimi  atque  Jds  superfundantur 

testacea  pavimenta;  et  tunc,  si  copia  est,  marinora  collocentur  », 


PARTE    I.  LE    MURA   ROMANE   D'ALBA   POMPEIA.  199 

A  che  aveva  servito  quest'edilìzio  ì 

Per  rispondere  a  tale  quesito  almeno  con  un'  ipotesi  credo  con- 
venga tener  conto  della  porta,  che  nel  disegno  planimetrico  si  vede 
segnata  nell'intervallo  fra  E  e  1).  Questa  porta,  ora  scomparsa  per 
le  ultime  demolizioni,  appariva  aperta  in  breccia  nella  cinta  urbana, 
e,  originale  o  alterata  nella  forma,  rappresentava  forse  quella  per  cui 
nel  10 17  fu  fatta  una  felice  sortita  contro  le  milizie  di  Savoia  e  di 
Francia.  La  necessità  di  difendere  questa  porta  e  di  proteggere  ap- 
punto le  sortite  entra  forse  in  gran  parte  a  spiegare  l'erezione  della 
attigua  mezzaluna  ,  mentre  le  gallerie  Ali  col  fabbricato  allora  so- 
prastante servivano,  come  si  sa  per  certo,  di  deposito  per  munizioni 
e  di  sede  per  una  parte  della  guarnigione  preposta  alla  custodia  del 
punto  importante.  Infatti  l'insiem^dell'editizio  si  chiamò  finora  tradi- 
zionalmente Quartiere  vecchio  nel  senso  di  caserma. 

Mi  sembra  ovvio  supporre  che  1'  edilìzio  romano  fosse  destinato 
ad  analogo  ufficio;  e  se  l'ampia  porta  del  tempo  odierno  si  mostrava, 
come  dissi ,  tagliata  in  breccia  nel  muro  antico  in  modo  da  potersi 
credere  aperta  in  tempi  posteriori,  nulla  toglie  di  pensare  che  al  tempo 
della  costruzione  romana  si  lasciasse  ivi  benissimo  una  porta,  ma  di 
minori  dimensioni  (anche  più  congrue  con  lo  scopo  e  con  l'antica  con- 
suetudine) -,  dove  opportunità  posteriori,  fors'anche  già  dei  tempi  in 
cui  il  tutto  era  diventato  proprietà  privata,  avrebbero  cagionato  il  gros- 
solano ampliamento  per  via  di  smozzicature  laterali  e  superiori,  nel 
quale  naturalmente  sarebbero  scomparsi  i  profili  della  porticciuola 
primitiva.  Nulla  del  resto  di  più  consentaneo  con  la  natura  del  sito 
che  il  credere  qui  eretto  fin  dall'inizio  un  posto  di  guardia  per  le  mura 
ad  un  tempo  di  levante  e  di  mezzanotte. 

VI. 

Chiuderò  con  dire  che  anche  delle  mura  di  nord-ovest  e  di  po- 
nente ho  già  riconosciuti  avanzi  sotterranei,  e  clic  dal  tutt'  insieme, 
come  del  resto  basterebbero  a  dimostrare  i  tratti  fin  qui  descritti,  s'ar- 
guisce che  il  perimetro  della  città  romana  era  già  poligonale  e  con- 
forme a  un  dipresso  a  (niello  «Iella  città  odierna.  Non  mi  trattengo 
per  ora  su  induzioni  che  si  potrebbero  fare  da  questa  configurazione 
riguardo  alla  preesistenza  dell'abitato  indigeno  (cfr.  pag.   ISO). 

Di  questo  perimetro  la  parte  da  noi  sbozzata  alla  meglio  è  la 
metà  (piuttosto  più.  che  meno),  che  si  svolge  a  levante  dell'asse  me- 
diano «Iella  città,  rappresentato  dalle  vie  Vittorio  Emanuele  II  e  Ver- 
nazza.  La  prima  si  chiamò  lino  agli  ultimi  tempi  e  continua  a   chia- 


àOÓ  E.    EUSEBIO.  tARfE   t. 

marsi  popolarmente  via  principale  o  maestra  ;  1'  altra,  prima  di  certi 
spostamenti  nelle  linee  della  fabbricazione  avvenuti  in  età  varie  rela- 
tivamente vicine,  appariva  meglio  die  al  presente  mera  continuazione 
di  essa  principale  così  da  potersi  entrambe  considerare  come  un'unica 
via  orientata  da  mezzogiorno  a  mezzanotte  e  terminante  alle  due  porte, 
ora  scomparse,  ma  delle  quali  rimangono  ancora  in  uso  i  nomi  tradi- 
zionali di  Porta  8.  Martino  rispettivamente  e  Porta  Tanaro,  con  la  sola 
differenza  che  la  seconda  denominazione  per  un  traslocamene  del  pas- 
saggio sul  fiume  s'è  trasferita  da  meno  forse  d'un  secolo  verso  nord- 
ovest, essendo  ivi  stato  aperto  nelle  mura  un  nuovo  sbocco  rispon- 
dente al  nuovo  passaggio  ,  agevolato  dal  1847  in  poi  da  magnifico 
ponte  x.  Nella  pianta  odierna  risponde  al  nuovo  sbocco  Piazza  Gari- 
haliti;  ma  nelle  piante  della  città  del  seicento  e  del  settecento,  e  an- 
cora in  una  d'  alquanto  posteriore  all'  età  napoleonica  ,  che  pur  già 
presenta  il  nuovo  taglio  nelle  mura,  le  due  porte  sono  regolarmente 
segnate  alle  due  estremità  di  quell'  unica  via  mediana ,  la  quale  in 
antico  dovett'essere  appunto  la  via  principale  AélYoppidum.  L'odierna 
Porta  2  Cheranca  (nei  secoli  passati  Porta  del  Soccorso)  deve  rappresen- 
tarne ancora  la  porta  orientale,  destinata  alle  comunicazioni  con  l'agro 
Statiellate.  Sulla  porta  occidentale,  di  cui  ho  cenni  per  ora  dubbi,  e 
che  del  resto  poteva  esser  resa  inutile  dall'impetuoso  fiume  radente 
spesso  le  mura  3  ,  non  oso  nulla  pronunziare  senza  maggiori  frutti 
d'esplorazioni  sotterranee. 


i  Alla  stessa,  porta  del  Taiiaro  deve  riferirsi  il  nome  di  Porta  Mediolanensis , 
che  trovo  sopra  una  lapide  del  1294  destinata  indubbiamente  a  figurare  sul  suo 
frontone.  La  cosa  si  spiega  benissimo  con  le  molte  relazioni  che  Alba  medievale 
ebbe  con  Milano,  da  cui  prese  pai  ecchi  Podestà  e  Capitani,  e  alla  cui  Archidio- 
cesi  apparteneva  il  suo  Vescovato. 

2  Qui  pure  il  nome  di  Porta  torna  usualmente  nella  comune  parlata,  benché 
da  tempo,  tagliate  anche  qui  le  mura,  vi  sia  sostituita  una  piazza  aperta,  sul  cui 
lato  meridionale  sporge  il  rudere  R. 

3  Tale  esso  appar  sempre  nelle  suddette  piante  topografiche,  e  tale  si  mante- 
neva ancora  nella  prima  parte  del  secolo  decimonono. 

Genova  e  Alba, 

Federico  Eusebio. 


URSEIUS    FEROX. 


Le  notizie  che  le  fonti  ci  porgono  su  questo  giurista  sono  scar- 
sissime e  tali  che  non  permettono  di  stabilire  con  molta  precisione 
ne  l'età  in  cui  visse,  ne  molto  meno  le  vicende  della  sua  vita. 

Egli  è  conosciuto  come  autore  di  un'opera  che  costituì  l'oggetto 
di  un'altra  opera  giulianea,  a  cui  V  index  Florentinm  dà  per  titolo: 
«  (ìiflMu  ts66aQa  Julianm  ad   JJrseium  Feroeem  ». 

Quale  sia  stata  l'indole  di  quest'ultima,  la  sola  che  i  compilatori 
ebbero  sott'occhio,  dalla  quale  furono  estratti  i  frammenti  che  si  tro- 
vano nel  Digesto,  si  può  —  anche  a  prescindere  dall'esame  diretto  di 
essi  —  determinare  dai  risultati  netti  e  precisi  pòrti  dal  Kieeobono, 
che  sottopose  a  profonda  e  acuta  analisi  l'altra  opera  analoga  di  Giu- 
liano dal  titolo  ftiftlia  £|  ad  Minici  uni  l  :  si  tratta  di  una  rielabora- 
zione dell'opera  di  Urseio  Feroce  —  la  quale,  come  si  vedrà,  costituiva 
una  collezione  di  responsa  di  Sabino  ,  Cassio  e  Proculo  —  arricchita 
di  notac ,  e  di  nuovi  responsi  appartenenti  al  fortunato  autore  del- 
Yordinatio  cdicti. 

Per  determinare  con  sufficiente  approssimazione  l'età  in  cui  Urseio 
visse,  costituiscono  un  prezioso  materiale  le  citazioni  dei  giureconsulti, 
che  si  trovano  nei  frammenti  pervenutici  dei  filftlia  xéóóaQa,  e  che 
senza  dubbio,  concordemente,  sono  attribuite  al  testo  originale  di  Urseio: 
«  libro  X  Urseius  refert  Sabinum  respondisse  »  [Collatio  11',  7,  0] 
«  Sabinus  dicebat  utile  mini...  »  [fr.  .">*.>  I).  XXIV,  3  Jul.  lib.  II  ad  Urs.] 
«  negat  furi  deberi  Sabinus  »  [fr.  14  I).  XLV,  .'>  .Jul.  lib.  Ili  ad  Urs.] 
«  et  ita  Proculum  existimasse  Urseius  refert  »  [fr.  27  §  1  D.  II ,  2  ri- 
piano lib.  XVIII  ad  Ed.] 
«  Proculus  respondit  »  [fr.  48  §  1,  1).  XXIII,  :\  .lui.  lib.  II  ad  Urs.] 
«  Apud    Feroeem    Proculus  ait  »    [fr.  11   §  2    I).   XXXIX.    :>   Paul. 

lib.  XLII  ad  Ed.] 
«  Caius  Cassius  respondit  »  [fr.  10  §  1  1).  XVI,  1  Jul.  lib.  IV  ad  Urs.] 
«  Cassius  respondit  »  [fr.  104  §  1    I>.  XXX,  Jul.  lib.  I  ad  Urs.]. 


1  Nel  BuUettino  dell'istituto  di  diritto  romano,  voi.  Vili  p.  225-278  e  voi.  VIIJ 
j>.  169-296. 


202  <*•    BAVIERA.  PARTE   I. 

Le  forme  di  citazioni  riferite  lasciano  assai  verosimilmente  cre- 
dere che  Urseio  sia  stato  contemporaneo  di  Sabino  e  che  gli  sia  so- 
pravvisnto  :  così  pure  di  Procnlo  e  di  Cassio.  Di  modo  che  si  possono 
fissare  come  termini  estremi  per  la  vita  di  Urseio  il  principato  di 
Angusto  fino  all'incirca  a  Vespasiano  (79  d.  Cr.). 

Qualcuno,  ad  es.  il  Ferrini  [recensione  al  libro  «  Salvili»  Julianus  » 
(voi.  1,1886)  di  Buhl  in  Archivio  Giuridico  voi.  37  p.  331]  e  — dubi- 
tativamente però—  Krueger  [Geschichte  der  Quellen  ecc.  p.  100],  dalla 
citazione  di  Priscus  nel  fr.  21  I).  XXXIX,  6  Jul.  1.  2  ad  Urs.  vor- 
rebbe desumere  che  1'  opera  di  Urseio  sia  stata  scritta  sotto  Trajano, 
sia  Nerazio  o  Giavoleno  il  giureconsulto  cui  il  «  Priscus  »  si  riferi- 
rebbe. Però  io  credo  che  la  congettura  del  Krueger,  il  quale  attri- 
buirebbe la  menzione  di  Prisco  a  Giuliano ,  sia  da  ammettere  come 
più  probabile,  siccome  panni  possa  ben  rilevarsi  dall'esame  formale 
del  frammento  '. 

Di  quanti  libri  si  componesse  P  opera  di  Urseio  non  è  sicuro. 
Ulpiano  nel  libro  XVII  ad  Edict.  [Oollatio  12,  7,  9]  dice  che  «  libro  X 
Urseius  refert  Sabinum  respondisse  ».  Gli  scrittori  hanno  emesso  varie 
ipotesi  per  conciliare  l'indicazione  dell'Indice  fiorentino,  che  parla  di 
4  libri  di  Giuliano  ad  Urseium,  con  la  notizia  dataci  da  Ulpiano.  Si 
verifica  per  quest'opera  qualche  cosa  di  simile  che  per  l'altra  analoga 
di  Giuliano  ad  Minicium  ,  alla  quale  V  Indice  attribuisce  (ìCfiXia  $;, 
mentre  lo  stesso  Ulpiano  nel  lib.  XXXII  ad  Edictum  [fr.  11  §  15 
D.  XIX,  1]  riporta  un'opinione  giulianea  inserita  «  libro  decimo  apud 
Minicium  ».  La  maniera  più  semplice  di  risolvere  la  divergenza  fu 
addebitare  al  copista  un  errore  materiale  :  egli  avrebbe  scritto  X  per  V. 
Così  D.  Gotofredo  ,  Aloandro  ,  Mommsen  e  Krueger,  op.  cit.  p.  161 
n.  120  :  e  tale  correzione  fu  applicata  senz'  altro  alle  due  citazioni 
ulpianee  riferentesi  alle  due  opere,  senza  però  fermarsi  a  rilevare  che, 


1  II  fr.  dice  :  «  Eum,  qui,  ut  adiret  hereditatem,  pecuniali!  accepisset,  plerique, 
in  quibus  Priscus  quoque,  responderunt ,  mortis  causa  eum  capere».  Ora  che  il 
fr.  stesse  così  nell'opera  originale  di  Urseio  non  è  ammissibile  per  chi  ha  sott'oc- 
chio  la  forma  solitamente  adoperata  da  Urseio  nel  riferire  i  «  responsa  »  dei  «  iuris 
auctores  ».  Egli  doveva  enumerare  per  nome  i  varii  giureconsulti  rispondenti,  dato 
il  carattere  suo  di  riferente  e  dell'opera  di  collezione  «  scolastica  e  quasi  autentica  », 
come  dice  il  Ferrini  (Storia  delle  Fonti,  p.  68),  dei  responsi  della  scuola  sabiniana. 
La  forma  collettiva  «  plerique  responderunt  »  è  piuttosto  di  Giuliano  che  ,  epito- 
mando il  testo  ,  agg-iivnse  la  citazione  di  «  Priscus  quoque  »  ,  per  corroborare  la 
decisione.  Si  tenga  presente  infatti  che  Giavoleno  era  il  maestro  di  Giuliano,  sic- 
come egli  stesso  dice  (Dig.  XL,  2,  5). 


TJRSEItTS   FEROX.  203 


se  per  i  libri  £|  ad  Minicium  si  presentava  logicamente  probabile,  per 
i  ftifihu  TB66UQU  non  lo  era  nella  stessa  misura.  Infatti  là  un  quinto 
libro  era  possibile,  e  d'altra  parte  la  citazione  ulpianea  si  riferisce  a 
un'opinione  di  Giuliano  e  quindi  assai  verisiniilmente  alla  sua  elabo- 
razione e  non  all'opera  originale  di  Minicio  :  nei  libri  a  Urseio  queste 
due  circostanze,  favorevoli  alla  correzione,  mancano  del  tutto. 

Altre  ipotesi  di  soluzione  della  divergenza  sono  state  proposte. 
Per  ciò  che  si  riferisce  all'  opera  di  Urseio  è  da  rilevare  quella  del 
Buhl  (op.  cit.  p.  CI)  e  del  Karlowa  (Boem.  Rechtsgeschichte  I  p.  693). 
Il  Buhl,  se  si  ammette  la  esattezza  della  lezione,  da  cui  egli  parte, 
crederebbe  possibile  il  riferimento  a  un'opera  di  Urseio  diversa  da 
quella  elaborata  da  Giuliano;  ovvero  che  questi  abbia  epitomato  un'o- 
pera più  grande  ricavandone  un  estratto  in  4  libri,  o  che  abbia  in- 
terrotto il  suo  lavoro  dopo  avere  annotato  4  libri.  Quest'ultima  ipo- 
tesi gli  sembra  più  verosimile  non  ben  convenendo  a  un  vero  estratto 
Yinscriptio  «  Julianus...  ad  Urseium  »  ,  che  senza  eccezione  si  ha  in 
tutti  i  42  frammenti  dell'opera  pervenutici. 

Karlowa,  scartando  la  possibilità  che  la  citazione  di  Ulpiano  si 
riferisse  a  una  rielaborazione  giulianea  di  un1  altra  opera  di  Urseio, 
avanza  l' ipotesi  che  Ulpiano,  se  pure  non  poteva  più  avere  l'opera 
originale  di  Urseio,  era  però  in  grado  di  possedere  altri  antichi  libri 
in  cui  se  ne  trovassero  esatte  citazioni.  Tale  congettura  del  Karlowa 
credo  sia  da  accogliersi  sopra  tutte  le  altre,  piuttosto  che  esercitare 
anche  qui,  come  per  l'opera  di  .Minicio,  la  comoda  e  tranquilla  ars  cre- 
sciendi  preferita  dal  Riccobono,  1.  e.  p.  227.  Non  mi  par»'  poi  proba- 
bile l'ipotesi  del  Premer  (Jurisprud.  antihadriana,  li,  1901,  p.  172)  che 
dell'opera  di  Giuliano  in  più  libri  se  ne  sia  fatta  un'epitome  in  4  libri, 
e  precisamente  quest'  ultima  sia  pervenuta  ai  compilatori. 

L'  epoca  in  cui  visse  Urseio  coincide  con  quella  in  cui  sorsero  e 
si  svilupparono  le  due  famosissime  scuole  dei  Proculiani  e  dei  Sabi- 
niani  i.  Hi  olire  quindi  spontanea  la  questione  di  determinare  a 
quale  delle  scuole  assegnarlo.  Cujacio  2,  II.  Pernice  3,  Voigt  4,  Kar- 


1  Siili'  ortografia  della  parola  Proculiani  e  sai  nome  collettivo  «lato  alle  due 
scuole  ,  si  cfr.  il  mio  scritto  negli  «  Studi  di  diritto  ecc.  pubblicati  in  onore  di 
V.  Scialoja»,  1905,  voi.   II  p.  709  e  sgg. 

2  Ad  lib.  Juliani  ad  Urs.  praef.  Opera  omnia,  voi.  VI  p.   473. 

3  Miscellanea,  p.  56. 

4  Aelius  n.  Sabinussysteni,  nelle  Abhandlungen  d.  phil.  hist.  Class,  der  A.  Stick. 
Geselhchaft  d.    Wissenschaften ,  voi.   VII,  1*75  p.  352  (34  dell'estratto). 


204  G,    BAVIERA.  PARTE   I. 

lowa  '  ad  es.  lo  dicono  sabiniano  ,  mentre  lo  credono  proculiano  Bulli  2 
e  Bremer  3.  Certo  non  si  possono  negare  a  Urseio  relazioni  di  appar- 
tenenza a  una  scuola.  Io  stesso,  appena  di  volo,  lo  dissi  sabiniano  4. 
Però  tale  affermazione  va  qui  corretta  determinando  il  contenuto  della 
sua  sàbinianità. 

Gli  argomenti  che  a  prò  dell'una  o  dell'altra  soluzione  si  pongono 
avanti  hanno  un  carattere  estrinseco  ,  che  da  solo  non  basta  a  ren- 
derli decisivi.  Buhl  ad  es.  (op.  cit.  p.  59)  dal  «  Sabinus  dicebat  »  del  fi*.  59 
XXIV,  3  lib.  2  ad  Urs.  desume  uri  rapporto  personale  tra  Sabino  e 
Urseio,  e  così  con  Proculo  dal  fr.  27  §  1  IX,  2  TJlp.  lib.  18  ad  Edict.r, 
ma  più  intimo  col  primo,  di  cui  lo  afferma  scolaro.  Karlowa  (op.  e. 
p.  695)  e  gli  altri  adducono  il  fatto  che  Urseio  cita  maggiormente 
Sabino  e  poi  Cassio,  più  che  Proculo  ,  e  che  i  Sabiniani  Cassio  5  e 
Giuliano  rivolsero  la  loro  attenzione  alla  sua  opera. 

La  vera  soluzione  su  questo  punto  può  solo  esser  data  dopo  l'in- 
tero esame  dell'opera  giulianea  :  esame  che  sarà  minutamente  esposto 
altrove,  contentandomi  qui  di  riferirne  i  soli  risultati.  I  libri  di  Urseio 
contenevano  una  raccolta  di  responso,.  Che  cosa  sia,  tecnicamente  par- 
lando, il  responsum,  dopo  la  concessione  del  ius  respondendi  introdotta 
da  Augusto,  è  qui ,  credo  ,  superfluo  spiegare,  dovendo  presupporsi 
noto  G.  E  parimenti  è  qui  da  sorvolare  sullo  stato  della  letteratura 
giuridica  nell'  epoca  in  cui  Urseio  scriveva.  Basta  rilevare  come  le 
raccolte  dei  responso,  si  facevano  da-  parte  degli  auditores  dei  singoli 
giureconsulti  sin  dall'epoca  repubblicana  e  come  tali  collezioni  —  data 
la  natura  giuridica  assunta  dal  responsum  con  la  concessione  augustea — 
divennero  più  utili  e  necessarie,  e  anche,  nel  medesimo  tempo  ,  più 
facili  a  farsi  con  il  sorgere  delle  due  scuole  :  anzi  nelle  scuole  pre- 
sero una  forma,  direi,  più  sistematica.  La  scuola  sabiniana  ne  ebbe 
due  di  grande  importanza  :  quella  di  Minicio  e  questa  di  Urseio  che 
il  Ferrini  (Storia  delle  fonti,  cap.  68)  giunge  perfino  a  chiamare  col 
Voigt  la  collezione  scolastica  e  quasi  autentica  della  statio  di  Sabino. 
Tale  carattere  della  raccolta  miniciana  fu  stupendamente  rilevato  e 
assodato  dalle  acute  ricerche  del  Eiccobono  nel  suo  scritto  più  volte 


1  Itomische  lìcchtigeschichle,  I,  p.  695. 

2  Buhl,  op.   cit.,  p.  59. 

3  Eechtalehrer  u.  Bvchtsschulen,  p.  71. 

4  Le  due  scuole  dei  giureconsulti  romani,  1898,   p.  31. 

5  Se  Cassio  abbia  fatto  oggetto  speciale  dui  suoi    scritti  1'  opera  di  Urseio  è 
un  punto  che  sarà  trattato  avanti. 

6  Cfr,  Krueger,   Gcschichte  dtr  Quelkn  ecc.,  p.  107  e  sgg.  e  132  sgg. 


PARTE  I.  TJRSEIUS   FEROX.  205 

citato.  La  collezione  di  Urseio  è  del  tutto  identica  nel  contenuto. 
Vanno  quindi  .scartate  le  opinioni  del  Karlowa  ,  che  chiama  il  libro 
di  Urseio  «  ein  kasuistisches  Werk,  cine  Responsen-oder  Quastionen- 
sammlung  »  (op.  cit.  I,  694)  e  del  Buhl,  il  quale  afferma  abbia  una 
«  deutliche  Verwandtschaft  mit  der  Quastionenlitteratur  »(op.  cit.  p.  04) 
e  del  Krueger  che  distingue  i  responsi  dalla  trattazione  di  altri  casi 
pratici  (op.  cit.  p.  161). 

Giammai  Urseio  figura  come  giureconsulto  rispondente  :  a  simi- 
glianza  di  Minicio  egli  è  un  semplice  riferente.  E  se  frammenti  vi  sono 
dove  ciò  prima  facìe  sembra  smentito,  1'  esame  critico  del  contenuto 
di  essi  lo  riafferma,  dimostrandosi  che  ciò  qualche  volta  è  dovuto  alla 
mano  alteratrice  del  testo  dei  compilatori  giustinianei  *,  che  seguirono 
lo  stesso  sistema  anche  nell'opera  giulianea  ad  Minicium.  Cfr.  Eicco- 
bono  e  gli  esempi  esaurienti  da  lui  riportati. 

Cosicché,  premesso  tutto  ciò,  è  legittimo  concludere  che  Feroce 
fu  sabiniano  ,  nel  senso  però  che  frequentò  la  statio  di  Sabino  come 
auditor  e  fece  da  riferente  dei  responso,  dei  giureconsulti  di  questa 
scuola  Sabino  e  Cassio.  È  da  escludere  quindi  l'affermazione  del  Fer- 
rini, anche  in  via  congetturale  (recensione  cit.  p.  331),  che  «  il  giovane 
Urseio  »  avesse  potuto  dar  responso  e  1'  altra  del  Krueger  (op.  cit. 
p.  1G0)  che  li  avesse  inclusi  egli  medesimo  nella  propria  raccolta. 

Il  numero  proporzionalmente  notevole  di  responsi  di  Proculo  nei 
libri  di  Giuliano  ad  Urseium  ha  fatto  affermare  senz'altro  che  Urseio 


I  Tale  mia  affermazione  ha  di  bisogno  del  sussidio  della  prova.  I  fr.  dove  i 
verbi  respondi  e  respondit,  pnto,  existimo  sembra  si  riferiscano  a  Urseio  ,  in  realtà 
hanno  per  soggetto  Giuliano: 

fr.   32  XXVIII.  6  lib.  I  ad  Urs.    «  quaesitnm  est...  respondi  » 

fr.  41  pr.  XVIII,  1  lib.  Ili  ad  Ùrs.  «  quaesitnm  est...  respondi t  » 

fr.   28  XIX,   1,   lib.   Ili  ad  Urs.    «  respondi  » 

fr.  48  XXIII,  3,  lib.  II  ad  Urs.  «  Quaesitnm  est  et  responsum  est  » 

fr.  37  XII,  6,  lib.  Ili  ad  Urs.    «  puto  > 

fr.  32  XVII,   1,  lib.  Ili  ad  Urs.    «  existimo  » 

fr.   104  pr.  XXX  «  respondit  ». 
Tali  testi,  ad  es.   il  Krueger,   op.   cit.  p.   lt>0  n.   Ilo",  attribuirebbe,  sebbene 
dubitativamente,  a  Urseio  :  e  il  respondit  secondo  lui  sarebbe  una  sostituzione  di 
respondi,  dovuta  a  una  falsa  interpretazione  di   una  abbreviazione. 

II  fr.  6  $  12  X,  3  Ulp.  lib.  19  ad  Edict.  dove  si  dice  :  «  Urseius  ait.  cum  in 
communi  aediiìcio  vicinus  nuntiavit  ne  quid  operis  fierit  ,  si  unus  ex  sociis  ex  hac 
causa  damnatus  fuisset  ,  posse  eam  poenam  a  socio  prò  parte  servare.  Julianus 
autem  recte  notat  ecc.  » .  Al  posto  di  Urseio  doveva  esservi  il  nome  di  un  altro 
giureconsulto  :  e  io  credo  che  questo  sia  Cassio  per  ragioni  che  altrove  ampia- 
mente esporrò. 


206  G.    BAVIERA.  PARTE   I. 

abbia  avuto  lo  scopo  di  raccogliere  oltre  a  quelli  di  Sabino  e  Cassio 
anche  gli  altri  responsi  di  Proculo,  e  che  la  sua  opera  originale  sia 
una  collezione  dei  responsi  dei  tre  nominati  iurte  auctores. 

Il  concetto  di  appartenenza  alla  scuola  sabiniana  e  il  fatto  di 
essere  stato  auditor  in  questa  statio  avrebbe  dovuto  render  cauti 
nel  venire  a  tale  conclusione.  Gli  auditores  di  una  scuola  raccoglie- 
vano i  responso,  dei  praeceptores  della  statio  cui  appartenevano  e  non 
potevano  prefiggersi  delle  collezioni,  dirò  ,  miste.  Quindi  son  di  av- 
viso che  un  altro  concetto  bisogna  portare  sul  fatto  che  molti  re- 
sponsi di  Proculo  si  trovano  nei  libri  di  Giuliano  —  si  noti  bene  — 
ad  Urseium. 

Io  non  affermerò  senz'altro  che  la  spiegazione  più  naturale  e  logica 
sia  di  attribuirli  a  Giuliano  che,  rielaborando  e  annotando  l'opera  di 
Feroce,  ve  li  incluse  insieme  coi  suoi.  Se  ciò  è  possibile  credere  e  dimo- 
strare per  una  serie  di  responsi  di  Proculo,  non  lo  è  per  tutte  le  cita- 
zioni di  questo  giureconsulto  che  possono  attribuirsi  a  Urseio.  Ciò  non 
toglie  però  valore  alla  probabilità  della  mia  affermazione.  Urseio  aveva 
maniera  di  citare  e  riferire  responsi  di  Proculo  a  proposito  di  altri 
di  Sabino  e  Cassio,  che  sostenevano  soluzioni  diverse  in  altri  responsi, 
e  occasionalmente  a  questi.  Xella  statio  sabiniana  si  discutevano  le 
dottrine  della  «  diversa  scuola  »  e  le  decisioni ,  a  volta  differenti  a 
quelle  date  dai  «  praeceptores  »  sabiniani.  Urseio  nel  riferire  i  responsa 
di  Sabino  e  Cassio  citava,  attraverso  a  essi  e  per  occasione  di  essi, 
gli  altri  di  Proculo  :  e  così  si  trovavano  nella  sua  opera.  Giuliano  li 
accrebbe  di  numero  ,  dato  lo  scopo  pratico  che  si  prefiggeva  con  la 
sua  rielaborazione.  1  compilatori  poi,  il  pili  delle  volte  epitomando, 
trasformando  e  modificando  il  testo  originale,  sia  di  Urseio  clic  di  Giu- 
liano, fecero  scomparire  l'opera  propria  di  ciascun  giureconsulto,  ren- 
dendo così  difficile  e  impossibile  a  noi  il  smim  cuique  tribuere. 

Da  alcuni  scrittori  H.  Pernice  i  ,  Karlowa  2,  Pulii  :5  e  Landucci  4, 
l'opera  di  Urseio  vien  fatta  commentare  da  Cassio  argomentando  dal 
fr.  1  §  10  XLIV,  5,  Ulp.  h.  76  ad  Edict.,  dove  si  dice  che  «  Cassius 
existimasse  Urseium  refert  ».  E  riferiscono  in  appoggio  altri  esempi 


1  Miscellanea,  p.  57  sg. 

8  Rom.  Recht8ge8chichte,  I,  p.  694  e  695. 

3  Salvius  Julianus,  p.  59  sg. 

4  Storia  del  dir.  romano,  I,  p.  198  e  200  ri.  4. 


PARTE  I.  URSEIUS  FEROX.  207 

di  citazioni  simili  l.  Ma  tale  affermazione  non  può  reggersi  per  di- 
versi gravi  motivi.  Cassio  nel  36  d.  C.  era  già  console  e  sopravvisse 
di  poco  al  suo  maestro  essendo  morto  sotto  Vespasiano.  Il  «  Gaius 
idem  »  del  fr.  59  XXIV  Jul.  lib.  2  ad  Urs.  anzi  potrebbe  far  cre- 
dere che  Cassio  fosse  morto  quando  Urseio  scriveva.  E  poi  mal  si  sa- 
prebbe spiegare  come  Feroce  abbia  potuto  includere  nella  sua  raccolta 
responsi  Cassiani,  e  come  quelli  di  Cassio  siano  così  scarsi. 

La  correzione  del  testo  in  «  Cassius  existimasse  Urseium  refert  »  è 
accolta  dalla  quasi  unanimità  degli  scrittori  :  e  cito  per  tutti  Mommsen, 
Krueger  e  Lenel  2.  E  credo  sia  la  migliore  soluzione  del  dubbio.  Però 
a  patto  che  si  attribuisca  la  corruzione  del  testo  non  a  un  errore  del- 
l'emanuense,  ma  ai  compilatori.  Basta  del  resto  esser  pratici  del  me- 
todo spicciativo  da  essi  seguito  nell'attribuire  le  opinioni  e  nel  rifare 
le  citazioni  per  convincersene,  quando  non  voglia  tenersi  presente  nel 
caso  nostro  il  testo  del  frammento,  dove  si  riscontrano  elementi  formali 
della  loro  mano: 

«Quodsi  patronus  libertino  simili  delega verit  creditori,  an  adversus 
«  creditorem,  cui  delegatus  promisit  libertatis  causa  onerandae,  excep- 
«  tione  ista  uti  possit,  videamus.  Et  Cassius  existimasse  Urseium  refert, 
«  creditorem  quidem  minime  esse  summovendum  exceptione,  quia  suuiu 
recepit  cet  ». 

L'ordine  originari*»  della  materia  nei  libri  di  Urseio  non  poteva 
essere  trasformato  dalla  rielaborazione  giulianea.  Escludo  ,  seguendo 
in  ciò  il  Riccobono  che,  come  pei  libri  a  Minicio,  per  questi  a  Urseio, 
Giuliano  abbia  rifuso  il  materiale  che  presentava  il  suo  esemplare  : 
egli  avrà  intercalato  nei  luoghi  opportuni,  senza  che  fosse  variato  il 
sistema  originario,  la  trattazione  dei  punti  di  diritto  aggiunti  all'o- 
pera di  Urseio. 

Si  è  ritenuto  che  il  sistema  di  Urseio  fosse  quello  ilei  libri  iuris 
civilis  di  Sabino  o  di  Cassio.  Ma  va  escluso,  dato  il  carattere  di  col- 
lezione di  responsa,  dove  il  sistema  è  dato  dal  materiale  raccolto  e 
raggruppato  per  materia. 

Seguendo  le  ricostruzioni  dei  Lenel  è  probabile  che  l'ordine  ori- 
ginario sia  stato    il  seguente  :  Testamenti  —  legati  —  dote  —  azioni 


1  «  Cassius  apud  Urseiaua  scribit  »  fr.  10  $  5  VII,  4  Ulp.  lib.  17  ad  Sab.: 
«  Servius  apud  Melam  scribit  >  fr.  3  $  10  XXXIII  ,  9  Ulp.  lib.  22  ad  Sab.  Ma 
l'uso  dell'  apud  nel  senso  di  in,  specie  nelle  citazioni  dei  giureconsulti  romani,  è 
sicuro,  e,   può  dirsi,  ha  prevalentemente  tale  significato  tecnico. 

2  Pandette  —  Geschichte  cit.  p.  160  n.  119  —  Palingenesia,  II,  e.  1202. 


208  G.    BAVIERA.  PARTE  I. 

familiae  erciscundae  e  communi  dividendo  —  manomissioni  —  de  emp- 
tione  et  venditione  —  de  adquirendo  rerum  dominio  —  de  locatione  et 
conduetione  et  bonae  Mei  contraetibus ,  de  procuratoribus  et  defen- 
soribus  et  intercessoribus.  Cfr.  pure  Krueger,  op.  cit.  p.  100  e  Bre- 
mer,  op.  cit.  p.  174. 

Palermo. 

Giovanni  Baviera. 


ALEXANDRINI5CHE   KLAGEFRAUEN. 


Unter  den  aus  Aegypten  staninienden,  hauptsachlich  in  Grabern 
des  Fayùin  und  dcs  Delta  gefundenen  griechisch-romischen  Terrakot- 
ten —  diesen  interessanten  Produkten  alexandrinischer  Kleinkunst,  die 
so  ungemein  lehrreich  sind  und  dodi  nodi  so  wenig  Beachtung  tìn- 
den  —  kehrt  haufig  der  Typus  einer  auf  dem  Boden  hockenden  Frau 
wieder,  der  bei  alien  Aendernngen  in  der  Ausstattung  mit  (levateli, 
in  Traelit  und  Schniuck  immer  dieselbe  Haltung  gegeben  wird  :  das 
aufrechte  Sitzen  mit  eingeschlagenen  Beinen,  und  aneinander  gesetz- 
ten  oder  gegen  einander  gekehrten  Fuszsohlen  und  eine  sehr  eigen- 
tiimliche  Bewegung  mit  den   seitlieli  emj>orgestreckten  Vorderarmen. 

Die  gewolmlichste  Auffassung  ist  naeli  einein  Exemplar  der 
Samnilung  des  Malers  Prof,  von  Lofftz  in  Miinchen  in  Abbildung 
I)  wiedergegeben.  1  Ein  ungegiirteter  Rock  bedeckt  den  Korper  bis 
zu  den  Knieen  ,  ein  schleierartiges  Gewandstiiek  verliiillt  Hals  und 
Schultern.  Dariiber  wird  ein  dicker  rundlicher  Bliitenkranz  siclitbar, 
der  aneli  ein  Collier  sein  konnte,  aber  in  anderen  Terrakotten  deutli- 
cher  als  Blumengewinde  charakterisiert  wird.  Der  Kopf  zeigt  volle, 
sinnliclie  Gesichtsformen  ,  das  Haar  ist  sorgfaltig  gewellt  und  ani 
Stirnrand  in  kleinen,  gekrauselten  Lòckchen  gcordnet.  Den  Hinterkopf 
unigibt  ein  breiter  Franz,  jener  Frauenselnnuck,  der  in  alien  niògli- 
chcn  Spielformen  bei  den  bekannten  .  «  Aphroditefiguren  »  auftritt. 
Hande  und   Fiisze  sind  mit  Spangen  geschniiickt. 

Vici  reicher  sind  die  naclisten  Exemplare  B  und  C  ausgestattet: 
B  ein  Exemplar  der  Sammhmg  Pelizaus  in  Cairo,  C  cine  Tonfigur 
des  alexandriniselien  Museums.  Beide  zeigen  cine  starke  Entbloszung 
des  Korpers,  das  Gewand  (liei  B  mit  Franzcn  ani  unteren  Band  ver- 
selien)  deckt  Schosz  und  Oberselienkel,  sodasz  die  l'nterbeine  wieder 
siclttbar  bleiben.  Die  letztere  Figur  sitzt  auf  cincin  niedrigen  Polster 
mit  gemustertem   LTeberzug.   Ann-und  Bcinspangen  sind    beibehalten. 


1  Zwei  iibnliche  Figuren.  iu  welcheu  nnr  die  Haartour  veriindert  und  zwar 
vereinfacht  ist,  betìuden  si  eh  in  der  aegyptischen  Abtheilung  des  berli  ner  Mu- 
senms. 

14 


210  T.    SCIIREIBER.  PARTE   I. 

Der  Halsschmuck  besteht  in  B  aus  einer  einfachen  Perlenkette,  wah- 
rend  er  in  C  aus  einem  Collier  von  runden  und  rechteckigen  Agraffen 
gebildet  wird.  Ohrringe  scheinen  bei  beiden  Figuren  augedeutet  zu 
sein,  ebenso  liaben  beide  Exemplare  einen  sehr  komplizierten  Haar- 
putz,  der  die  verkiinstelten  Frisuren  gefallsitchtiger  Alexandrinerinnen 
naclizualimen  scheint.  Bei  C  wird  unterwarts  neben  den  Ohren  und 
iiber  dem  Nacken  der  Best  eines  dicken  Kranzes  der  eben  besclirie- 
benen  Art  sichtbar.  Was  an  Stelle  dieses  Kranzes  bei  B  und  bei 
der  noch  zu  erwahnenden  Figur  A  erscheint,  ist  aber  kein  Kranz, 
sondern  eine  Brweiterung  der  Frisur  dnreli  einen  groszen  den  Hin- 
terkopf  umgebenden  Chignon.  Andere  Terrakotten  init  weiblichen 
(leu  re  figuren,  deren  es  in  dieser  Denkmalergruppe  grosze  Massen 
gibt,  lassen  daruber  keinen  Zweifel. 

Das  vi  erte  Beispiel  A  befindet  sich  im  aegyptisclien  Museum 
zu  Berlin,  es  ist  das  vollstandigste  der  ganzen  Beihe.  Hier  sitzt  die 
Frau  auf  einem  Sofà  der  gewohnlichen  alexandrinischen  Forni  {  und 
hat  vor  sich  ehi  auf  der  Erde  stehend  gedachtes  Beeken  ,  welches 
auf  einem  tischartigen  Untersatz  aufliegt.  Die  Figur  ist  unterwarts 
wie  C  bekleidet,  iiber  den  ganzen  Leib,  Brust  und  Schultern  sind 
breite  (luirlanden  gezogen,  sodasz  vom  Korper  nichts  sichtbar  wird. 
Von  dem  ublichen  Schmuck  sind  nur  Hand-und  Fuszringe,  vielleicht 
noch  ein  einfaches  Halsband,  aber  keine  Ohrringe  augedeutet,  aneli 
ist  das  Haar  hier  schlichter  behandelt. 

Eine  merkwiirdige  Variante  des  Tyjnis,  Figur  F,  fand  ich  vor 
Kurzem  in  der  von  Valdemar  Schmidt  zusammengebrachten,  hoelist 
reichhaltigen  Kollektion  solcher  griechiseh  àgyptischer  Terrakotten, 
die  eine  besondere  Zierde  der  Jacobsen'schen  Grlyptothek  in  Kopen- 
hagen  bildet.  Hier  ist  zu  den  schon  angefiihrten  Ziigen  ein  neues 
Attribut  gekommen.  Die  ausgestreckten  Bande  halten  kurze  Stiibehen, 
an  deren  Ende  sich  Ideine  runde  Schallbleche  betinden.  Wenn  wir 
annehmen,  dasz  je  zwei  solcher  Metallscheiben  in  der  Mitte  durch- 
bolnt  und  in  dieser  Oeffnung  mit  einem,  von  dem  gespaltenen  Stabchen 
gehaltenen  Stift  aufgereiht  waren,  so  bildete  das  Ganze  ein  Klapper- 
instrunient,  welclies  ein,  dem  Klirren  des  Sistruins  ahnliches  Geràuscb 
erzeugen  muszte. 

Endlich  moge  noch    eine  sechste  Darstellung  (G)  aus    der  Uhi- 


1  Hermann  Thiersch,  Zivei  antike  Grabanlagen  bei  Alexandria  ,  p.  10  ,  irrt  sich, 
wenn  er  annimmt,  dasz  das  Sopha  nur  eine  knrze  Zeit  Mode  gewesen  sei  und 
nie  weitere  Verbreitung  gewonuen  habe.  In  Alexandrien  ist  es  durch  das  ganze 
Altertum  nie  ausser  Gebrauch  gekommen,  wie  die  Denkmiiler  beweisen. 


PARTE   I.  ALEXANDMN'ISCHE    KLAGEFRATEX.  211 

versitatssammlung  in  Leyden  angefiihrt  werden,  welehe  mit  dei-  vorher 
erwiilmten  dniin  iibereinstimnit,  dass  die  Guirlande,  welche  bei  A 
reilienweise  uni  den  Leib  gelegt  ist ,  hier  krenzweise  Brust  und 
Schultern  umwindet.  Wiederuin  triti  das  Bestreben  liervorjeder  Figur 
in  Schmuck  und  Gewandung,  vor  alleni  in  der  Haartraclit  moglickst 
individucllc  Ziige  zu  geben. 

Diesen  Exemplaren  reiht  siili  ein  einzelnes  Beispiel  einer  inann- 
liehen,  in  derselben  Haltnng  hockenden  Figur  in  Sammlung  Sckulz 
in  Leipzig  '  an,  in  welcher  nainentlieb  der  Portratcbarakter  des  durch 
den  starken  Hals  und  die  vollen  (lesiclitsforinen  auffallenden  jugend- 
lielien  Kopfes,  die  Kapuze  und  das  eigentiimlieb  auf der  Brust  geknotete 
kurze  Hemd  zu  beacbten  sind.  Beide  LTiiterarme  nini  Hande  sind 
abgestoszen. 

Was  stellen  diese  Figuren  vor  ?  Sind  es  Gotterbilder  oder  Gen- 
reflguren  aus  (leni  Alltagsleben  ?  Und  wenn  das  Letztere  wahrscliein- 
lielier  oder  alleili  moglieli  ist,  welclies  ist  der  Vbrgang,  der  hier  in 
so  mannigfaltigen  Fonnen  geschildert  wird  und  der  bei  der  (Jebereins- 
tinimung  der  eigenartigen  (leste  und  des  Sitzmotives  docb  nur  ein 
und  dieselbe,  von  verschiedenen  Personen  vorgenommene  Handlung 
sein  kann  ? 

Teli  Ande  keinen  Anhalt  die  Figuren  ini  Kreis  des  alexandri- 
niselien  Pantlieons  unterzubringen.  Weder  das  Sofà,  noeb  der  Portrat- 
eliarakter  der  Kiipfe  wollen  dazu  passen.  Das  Emporhalten  der  ge- 
offneten  Hande  ist  vieldeutig;  es  kann  als  Ausdruek  der  Adoration, 
a  ber  aneli  als  Aeuszerung  der  Trailer,  als  (leste  des  Selmierzes  auf- 
gefaszt  werden.  Dasz  die  Arnie  nielli  lioeh  erlioben  und  vorgestreokt 
sind.  wie  es  beide  Handlungen  eigentlieb  erforden  wiirden,  erklart 
sieb  leielit  und  ungezwungen  aus  Griinden  der  Teebnik,  da  man  bei 
alien  diesen  aus  der  Forni  gedriiekten  Figuren  das  Freistehen  der 
(lliedniaszen  mogliehst  einsebrankt  und  Fliiebenbafligkeit  der  Bil- 
dung  bevorzugt,  uni  die  Flerstellung  nieht  zu  erschweren  und  das 
Anstiieken   von   einzeln   gefonnten   Teilen   zu   venneiden. 

Die  riehtige  Erklarung  ergibt  sieb  aus  zwei  Merknialen,  aus  dein 
Raueherbeoken  der  Berliner  Terra kotte  A  uwd  aus  der  Entblóssung 
in  den    Figuren   15   und   C. 

Das  grosze,  vor  dein  Sofà  in  A  sttBlcudc.  auf  cincin  sieli  verjiin- 
genden  Tnlersatz  rubende  Beeken  gleicnt  in  seiner  destali  ani  meisten 
den  aus  romiseher    Zeil    staiiinienden   Raueberaltiireben,    die    sieb   in 


1  YAn  Tbeil  der  Sammluug  Schultz   ist   als   Gesehenk  dem    Knnstgewerbemu- 
seum  zu  Leipzig   iiberwiesen   worden,  ein  auderei-  naeh  Berlin  gekommeu. 


212  T.    SCnRKIBKl?. 


der  groszen  Katakombe  von  Kóm-esch-Schukàfa i  und  in  anderen 
Grabern  Alexandriens  sehr  hauti  g  innerhalb  der  loculi  oder  vor 
denselben  gefunden  haben.  Zwei  Beispiele  sind  in  Figur  II  und  I 
wiedergegeben.  In  dieselbe  Epoche  gehoren  nacli  Stil  und  Ausstattung 
die  uns  beschàffcigenden  Terrakotten.  Die  Entblòssung  der  Ernst  kann 
in  Verbindung  mit  dem  Jlocken  anf  dei*  Erde  und  mit  dem  Ausstrecken 
der  Hande  nur  als  Zeichen  der  Trauer  aufgefaszt  werden.  Es  ist  die 
altagyptische,  in  hellenistisch-romischer  Zeit  unverandert  fortdauernde 
Totenklage,  welclie  in  diesen  Figuren  versinnlicht  wird.  Wir  finden 
sie  ganz  ahnlich  in  den  Bildern  des  Totenbucb.es  und  an  den  Wànden 
von  Grabern  aus  alien  Epochen  des  alten  und  neuen  Reichs  so  oft 
beweglich  gesebildert.  Dort  selien  wir  die  Frau  des  Toten  zu  Fiiszen 
seiner  Mumie  kauernd  am  Boden,  mit  nackter  Brust,  ini  Ausbruch 
bittersten  Schmerzes  mit  der  ITand  das  Haupt  schlagend  2.  Wir  selien 
die  Klageweiber  bei  der  Fahrt  der  Lei  che  iiber  den  Xil  in  ihrer  Barke, 
stehend  oder  hockend  mit  nacktem  Oberkorper,  die  Hande  jammernd 
erheben  und  vorstreeken,  die  Stira  schlagen  und  den  Scheitel  mit 
Staub  bestreuen 3.  Wie  sich  der  Totenknlt  in  hellenistischer  Zeit 
regelte,  ist  aus  zahlreichen  Papyri  bekannt,  die  neuerdings  Walter 
Otto  4  verarbeitet  hat.  Die  Olioacliyten  verselien  als  Totenpriester  die 
Bewachung  und  Pflege  der  Graber,  sic  ubernehmen  gegen  Bezahlung 
die  regelmaszige  Darbringung  der  vorgeschriebenen  Opfer  und  viel- 
leicht  auch  der  Totenklage.  Aber  beide  Pflichten  rulien  aneli  anf  den 
Angehorigen  des  Toten,  und  so  erklaren  sich  die  Unterschiede  in 
der  àuszeren  Erscheinnng  der  dargestellten  Individuen,  der  Wechsel 
der  zum  Teil  auffallig  reichen  Frisuren  ,  iiberliaupt  der  Portratcha- 
rakter  der  Kiipfe,  der  Wechsel  in  der  Bekleidung,  der  die  einfache 
Frau  aus  dem  Volke  (1))  von  der  mit  Geschmeide  iiberladenen  Frau 
des  lieichen  (B,  G)  treniit,  endlich  ^ueh  der  Wechsel  ini  Geschlecht. 
Mann  und  Wcib,  alt  und  Jung,  arni  und  reich  verrichten  die  rituelle 


i  Vergi,  dariiber  das  demniichst  erscheinende  Werk:  Die  Nvkropole  von  Róm- 
esch-Schukufa  untersucht  von  Theodor  Schreiber  ,  heraitsgegeben  von  Ernst  Siegliu, 
Theil  V,  Kap.  17. 

2  Vergleicbe  z.  15.  das  Bild  des  Totenbuches  ira  Papyrus  ni*.  9901  des  britischen 
Museums  bei  Naville,  Totenbuch  I  pi.  I  und  II.  Die  Abbildung  ist  wiederbolt  in 
Proceedings  of   the  Society   of    biblical  Archaeology    XIV  1891/92,   pi.   1,   und  2. 

3  Besonders  deutlich  sind  die  Handlungen  nnd  Bewegungen  der  Klagefrauen 
anf  dem  Bilde  in  dem  Grabe  des  Neferhótp  in  Theben  aus  dem  Ende  der  18. 
Dynastie.  Nach  Wilkinson  wiederbolt  bei  Erman,  Aegypten,  Tafel  zu  S.  432. 

4  Walter  Otto,  Priester  und  Tempel  ini  hellenistischen  Aegypten.  Band  I.  Leipzig 
1895,  p.  98  $  247. 


PARTE  I.  ALEXANDIUXISCHE  KLAGEFRAUEN.  213 


Eìandlung  der  Totenklage  niit  den  gleiehen  Gesten,  aber  die  einen 
hockeii  auf  dem  bloszen  Puszboden,  die  anderen  sitzen  auf  dem  un- 
tergelegten  Teppich  oder  auf  ciucili  im  Grab  zuriickbleibenden  Sofà. 
Die  Berliner  Figur  verleiht  der  Scene  nodi  einen  neuen  Zug.  Das 
Rauchopfer  und  die  Totenklage  finden  hier,  wic  wir  sehen,  gleichzeitig 
statt,  danach  wild  nodi  cine  dritte  ETandlung  folgen:  die  Bekrànzung 
der  Grabstelle  mit  Guirlanden,  welche  die  wenklagende  Frau  mitge- 
bracht  hat  und  jetzt  nodi  auf  ilirein  Leibe  triigt.  Audi  diese  Darbrin- 
gung  von  Blumen  entsprackt  altagyptischer  und  hellenistischer  Sitte. 
Wer  vor  der  Leicbenlialle  des  arabischen  Hospitals  in  Alexan- 
drien,  einmal  Gelegenbeit  land  zìi  beobachten  mit  welcber  Leidenschaft- 
lichkeit  die  Eingeborenen  ilire  Totenklage  auszern,  naelidein  sie  eben 
nodi  bei  Geschwàtz  nini  Lacben  sicli  ausgeruht  hatten,  der  wird  aneli 
begreifen  dasz  in  der  Stàrke  des  Seliinerzensansbruelies  die  Wirk- 
sanikeit  desselben  gesuebt  wird,  und  so  war  es  sicher  sebon  ini  Al- 
tertum.  Je  lauter  die  Klage,  welche  ja  nnr  dazu  diencn  soli  fcindliche 
Geister  von  dem  Toten  abzuschrecken,  uni  so  gewisser  ist  die  Iloff- 
nuiig,  dasz  scine  Knlie  nicht  gestort  werden  wird.  In  solclicr  Emp- 
tìndun<>-  niuszte  die  Aufforderung  liegen,  den  Sellali  der  Stiiiiine  durcli 
liirinende  Instruniente  zn  verstiirken,  woran  der  Ae^yptcr  ja  sclion 
von  Isisknlt,  der  Grieche  von  den  baccliischen  Festen  ber  gewobnt 
war.  In  einer  nnserer  Figurcn  (F)  wendet  die  Frau  eines  Cboacliyten 
bei  der  berufs-maszigen  Totenklage  ein  Klappergerat  an;  es  wird  zìi 
ilirein  selirillen  (ìeselirei  eine  stiiiiiniingsvolle  Begleitung  abgeben  und 
liir  gestatten  zeitweilig  zu  auszusetzen.  Waren  dodi  dit*se  Terrakotten 
selbst  ein  llilfsinittel  fiir  die  Totenklage,  ein  Krsatz  fiir  den  Dienst 
der  Totenpriester,  gleielisain  Stelhertreter  lebender  Klagefrauen  und 
daruni  sind  sie  als  wirksaine  Scbiitzer  der  Grabesrube  den  Toten 
ibnen  so  bauflg  in  die  letzte   Wobnung  mitgegeben  worden. 

Leipzig. 

Theodor  Schreiber. 


D 

Fiff.  42. 


E 

Fi£.  43. 


F 

Pig.   U. 


FRUSTULA   TZETZIANA. 


L' 'Ambrosiano  C.  222  inf.,  V  Urbinate  141  ed  il  Parigino  gr.  suppl. 
655  differiscono  nella  redazione  degli  scolii  (Tzetziani)  al  l'iuto  di  Ari- 
stofane (cfr.  i  miei  Analecta  Aristophanea ,  Torino ,  Loescher ,  181)2, 
]>.  108  sqq.).  A  valutare  le  differenze,  che  altrove  sarà  d'uopo  met- 
tere ulteriormente  in  luce  ,  valgano  i  commenti  al  v.  404  del  Vìnto. 

Neil' 'Urbinate  al  il.  88r  si  legge:  ovx  ètóg'  rryovv  ovx  àXóycog 
t}  [iccTcdag,  ccXXà  dinaicog.  èniQQiqaatiy,ov  yao  ècnv  àvtl  tot)  èreàg  à% 
ccvtov  6vvr}Qi][i£vov.  Molto  più  esteso  e  lo  Tzetzes  nella  redazione  Am- 
ine (siano-Parisina,  dacché  nell' Ambrosiano  al  ti.  50  v.  e  nel  Parigino 
al  n.  14r  troviamo  lo  scolio  in  questa  forma:  i  ovx  èrbg  «p'  <cÒ£ 
è  fi  fjX&s^  [xal  pdfrjv]'  ovx  èròg  ècoa  <^xccì  \mxxv\v  >  òg  èpe ,  xaì 
rtoòg  èpe  àTTix&g,  ó  JlXovtog  ovx  vjX&ev,  sitai,  òg  cprjg,  tvcpXóg  èGxi  xuì 
ov  diccyiyvàóxei  tovg  àyud-ovg.  r\  'TtQÓg'  TtoófteGig  ènl  è[iìl>v%(ov  XéysTai, 
r\  de( eig'  ènl  àfv%cov .  zaì  rj  roacpr]  de  tovtcj  zuXXlóxcog  ~  iQcopévi] 
q>rj6Cv  «rjX&ev  ò  &copàg  TtQÒg  xòv  Aovxàv.»  xaì  «elg  trjv 
itòXiv  dqapov6a»  ò  2Jó(pQ(ov  eXeyev.  Artixol  de  xaì  tr^v  'elg'  xul 
STtl  èp^v%a)V  XccpfìdvovdL,  xccì  àvxV elg'  'é>g  avvr\v'  Xéyovóiv.  «  òg  Mya- 
pepvovx.  dlov  ayov  %e%ccor}ÓTcc  vCxrj.  »  3  xccì  vvv  4  «  cbg  èpe  »,  t) 
epe'  àrnx&g.  v,cà  yao  xà  ò^viova  rj  ftaovvovGLV  5  r]  %e^i6%cì<5iv  tJ 
%qo%uqo%vvov6i  ,  tò  '  <5o(póg '  f  óócpog'  Xéyovreg ,  tò  r  paoóg'  e  pc)Qog% 
tò  àXrj^^£g,  ccXrj^^eg,.  xaì  TtQOJtaQo^vtovcc  de  tà  pccxoàv  èyovxu  xr\v 
TtaaaXiryovGcLV  itQ07CeQi67tGì6iv,  ajóiteo  Xéyovói  tò  c  xq^naiov^  c  TooTtaìov' . 


1  Colloco  fra  parentesi  quadre  [  ]  le  parole  che  si  trovano  soltanto  nell'am- 
brosiano, e  fra  parentesi  ad  angolo  acuto  <  >  le  parole  che  si  trovano  soltanto 
nel  Parigino. 

2  Nell'Ambrosiano  xcdXlcra. 

3  H ,  312.  Lo  Tzetzes  segue  la  lezione  di  Q  e  di  Ys  ;  cfr.  Eomeri  Carmina  ree. 
Arth.  Ludwich,  Pars  prior,  Ilìas,  voi.  prius,  p.  300. 

4  Cioè  nel  v.  404  del  Fiuto. 
**  Awbrobiauo  ^ccQvvaaiv. 


parte  i.  ercstula  tzetziana.  217 

* 

Lasciando  per  ora  in  disparte  le  altre  cose  che  si  dovrebbero 
dire,  dallo  scolio  Tzeziano  lucreremmo  un  frammentino  di  Sofrone  —  e 
Sofrone  è  citato  più  di  una  volta  negli  scolii  Tzetziani  —  non  com- 
preso nella  raccolta  del  Kaibel,  Comicorum  graecorum  fragmenta,  I,  1, 
p.   152  sqq.,  cioè 

elg  xàv  %6Xiv  òoag.ovGa. 

La  citazione,  giunta  per  via  molto  indiretta  Ano  allo  Tzetzes,  si 
riferisce  probabilmente  ad  un  pCpog  yvvaixelog. 

IL 

La  verbosità  Tzetziana  è  palese  in  troppi  luoghi  della  redazione 
ambrosiano-parigina  ;  doveva  averne  una  qualche  coscienza  anche  l'au- 
tore se  dichiara  perfino  di  scrivere  qualche  nota  al  solo  scopo  di  non 
lasciare  spazio  in  bianco.  Infatti  nel  ms.  Parigino,  al  fi.  20r,  dopo  lo 
scolio  al  v.  833  del  Fiuto  si  legge  questa  singolare  dichiarazione  : 
ovx  lev  db  ov(òb)  xuvxa  vvv  ■KUQtvèyoanjOV  si  [ir}  ecóqcov  ayoucpov  xiv- 
dvvsvovxcc  xòv  yaqxriv  àrtoXeicp%fivca  dia  xò  grj  dsió&ca  xò  xfjde  %coqIov 
6%oXCgìv.  La  dichiarazione  fa  sorridere,  ma  al  tempo  stesso  contribuisce 
a  mettere  nella  vera  luce  i  rapporti  fra  V Ambrosiano  ed  il  Parigino 
da  una  parte  e  l' Urbinate  dall'  altra  ;  che  nella  redazione  urbinate 
degli  scolii  Tzetziani  alla  prima  sezione  del  Pluto  non  potremmo  at- 
tenderci siffatte  parole  dallo  scoliaste  ,  il  quale  a  dirittura  omette  in- 
»  tere  serie  di  scolii,  che  si  hanno  invece  néW  Ambrosiano  e  nel  Pari- 
gino, ed  altri  sistematicamente  trascrive  senza  ([nella  elaborazione, 
così  caratteristica  ,  che  è  propria  dell'Ambrosiano  appunto  e  del  Pa- 
rigino. Ne  vediamo  una  conferma  per  il  v.  SS  del  Pluto:  anche  «ini 
si  può  lucrare  qualche  cos;i. 

Ambros.  fi.  4<;i\  Paris,  fi.  .">,. 
è  y  co  yào  ò  v  g  e  i  q  a  x  i  o  v  '  tlqo<5- 
coxoiei  tòv  niovrov  Ttou^ixcog 
xccvxct  Xéyovxu ,  òcpeCXav  dxslv 
QTjxoQixcog'  «  si  i]v  (dad-ri6ig  nò 
TIXovxcp  ,    ovx  elv   xovg  iQrfixovg 

èxXlUZàvCÙV      XQ06SQQVSX0      TtOVìj- 

Qoìg  ».  Urbin.  fi.  Slv. 

7tcog    oh    xvcfXoì   xòv    IIXovxov    ò  èvxav&a    àxooiu    taxi    xùg    ovv 

Zsvg  xoìg  àyafroìg  ;  Ixì  xov  Xjjqov  voovg,Ei>og  tìg  xò  (cod.  tòv)  xqòjxov 

Jiòg  xcd  sÌQuccogévììg 6   Zsvg  aìxiov  xid  gàXXov  fiovXó- 

EÌ  ab  xìtv  0vv£xxixr(v  òvvugw  xov  gsvog  xovg  àyc&ovg  ev  XQchxeiv, 


218 


C.    O.    ZURETTI. 


èxvcpXcoós  xbv  IIXovxov.  XeyofiEv 
ovv  ori  si  ita<Si  xolg  àyad-o'ig  ita- 
Qstxeto  xb  (coti,  t&i)  nXovxùvì 
itavTsg  dv  di'  avrò  [i£xir]óav  xr\v 
àQ£xrjv'  ovxog  de  (iovló^isvog  ov 
dia  tv  XQrjóiiiov  xaì  èxmysXhg  \i£- 
x levai  xavxijv,  àXXà  di  '  avxb  xò 
xaXóv  ,  èó&  '  oxs  xaì  à?toxv%Cav 
XQrjlidxav  xà  pYo>  dCdcoóiv,  Tv'  s- 
xaóxog  I  fl.  82r  ècpisxai  xijg  dosx-fjg 
svjtÓQiqór}  %Qrm,ccxcov  (sic). 


ttccvxòg  diavotfóeig ,  xvcpXol  xòv 
IIXovxov  ov%ì  (p&ovcòv  xolg  %qtj- 
óxoìg,  iva  [ir}  xovxov  |  Paris,  ti.  6r. 
[i£xd<5yoi£v,  àXX'  àg  xotg  xaxtóxoig 
aXXrj  aXXcog  ògcjvxsg  xovxov  (isra- 
Tirjòavxa  xaì  itóóa  xà  deivà  èaya- 
£Ó{ievov  ,  iióvoi  xovxov  èxxoenoiv- 
xo,  <pQovxl£,oi£v  de  ccoexfig. 
xaì  aXXcog.  xvcpXòv   xòv  IIXovxov 

7C01H      7C£Ql(f£QÓ^£VOV      JtQOg     UVO- 

tìtovg  xs  xaì  xaxovoyovg,  x&v  de 
iqypxcov  ànoxQiyovxa,  bxi  xaxovo- 
yoi  xaì  vr}Xs£Ìg  av&ocoTtoi  ndvxa 
xqótcov  xivovóiv  ,  oxcog  tcXovxov 
[iexd<5%0Lev ,  diafldXXovxeg ,  6vxo- 
cpavxovvxeg,  óxoefìXovvxeg,  èxd^ov- 
xeg,  xaì  àjtXàg  Jiàv  eldog  do&vxeg 
xaxóxìjxog  oXoig  òcp&aX^olg  itoòg 
xbv  IIXovxov  à%o^Xiitov6i ,  xì\g 
àosxfig  òs  iisxiovói  xb  %-Eìov.xvcpXbv 
db  xbv  IIXovxov  tcoieì,  xovxéóxiv  rj 
èvdoexog  avxov  [tàXXov  ànoxvcpXol 
xaì  d'eia  cpoóvxi6ig  èvooàv  IIXovxg) 
èrtiiieXoviiévr]  (Paris.  ^isXXo^iévovg) 
dixaiov  xaì  àosxiig,  xovxov  de  xa- 
xacpoovijxàg  yivo^iévovg ,  mg  ovx 
ào£xr\g,  xaxiag  òs  Ttaoaixlov.  o&sv 
xaì  rHodxXeixog  ò  'Ecpéóiog 
ttQ(ó[ievog  '  Ecpeóloig,  ovx  h%£vy6- 
[i£vog,«  /ìt)  l'XiXi'Xoi  v[iiv  JtXov- 
xog  »,  «(jp^,  «'Ecpéóioi,  ì'v'   £%£- 

Xéy%0l6&£     7COVrjQ£vÓ^l£VOl  ». 


Mi  astengo  dal  ridurre  gli  scolii  a  forma  accettabile  ,  contentan- 
domi per  ora  di  ima  piccola  aggiunta  a  ciò  che  intorno  ad  Eraclito 
raccolse  il  Diels  ,  prima  in  HeraTcleitos  von  Ephesos  Griechiscli  und 
Deutsch,  Berlin,  1901  e  poi  in  J>ic  Fralmente  der  Vorsokratxker,  Grie- 
chiseli  und  Dcutscli  ,  Berlin  ,  1903  ,  p.  58  sqq.  ;  si  confronti  però  a 
p.  82  il  fr.   121. 


KRUSTCLA    TZETZIANA. 


219 


III, 


L'argomento  Tzetziano  sii  Cavalieri  «li  Aristofane  ,  contenuto  nel 
ti.  1  ()()i-  dell'Ambrosiano  4,  è  notevole  per  l'ardore  dello  scoliaste  bi- 
zantino nella  difesa  di  (Jleone  e  contro  Aristofane.  Lo  Tzetzes  ci  insiste 
ancora  altre  volte  ,  e  può  essere  non  inopportuno  vederne  altri  due 
saggi,   uno  dal    l'iuto,  l'altro  dalle   Nubi. 


Ambro8.  il.  49v.,  Paris.  12r. 
Pluf.  v.  '.V22.  %alaeiv  \jlbv  v\iàg 
e 6 xiv  KXécov  éXcov  KoQvcpdóiov, 
ITvXov  xaì  2Jq>axTrjQLav ,  nncoxog 
aTtavxcov  éyQaipe  xolg  Hftrpaioig  ' 
«  KXécov  tfj  fiovXf]  xaì  xco  dtfucp 
%aioeiv  ».  xàx  xovxov  é&og  èxod- 
xr]6e  tcilg  e%i6xoXcdg  yoàcpeiv  ' 
«  ó  Selva  xco  Selva  (Paris,  delvo) 
%aiQuv.  »  ó  yovv  àXixr\oiog  ovxog 
j4Qi0TO(pavi]g  xaì  xovxo  eig  xa[ico- 
dtW  xov  KXécovog  òuccjvqcov,  xaì 
xov  XoefivXov  vvv  ex  xaXantcboov 


Urbin.  i\.  <S(5V 
%aio  e  tv  ii  év  ó  Xoe^ivXog  cbg  %e- 
viód-elg  ti]  xv%ì]  xaivoxéoav  tcqo- 
GqyoQCav  èxivoel'  rò  yào  %aioeiv 
TtaXaióv  èóxiv.  xovxo  de  ò  Jlio- 
vvóiog  2  vjiò  KXécovog  \iev  tiqcó- 
xov  Xéyei  xexayfiai,  yo.àcf  ovxog  òe 
avxov  TiQÒg  M&rjvaCovg ,  éXóvxog 
xovg  èv  ^(pa(xxrjQia)  '  «  ó  KXécov 
14&rjvaCotg  xy  (iovXfj  xaì  xco  ò^uco 
%aioeiv.  »  avxò  de  cpr}6iv  xelód-at 
Tieoixxóv ,  xaì  neoi  xì)v  6vvxaè,iv 
àóv6xaxov.  xx e. 


1  Vedi  Anahcta  Aristophanea  ,  p.  112;  in  nota  è  riferita  parte  dello  scolio 
Tzetziano  alle  IXubi,  v.  549  (ti.  68r  dell'Ambrosiano),  che  ripete  le  medesime  cose 
con  parole  molto  simili. 

2  La  notizia  non  si  trova  rjeyli  scolii  di  R,  ma  negli  scolii  di  V  :  ytyQaazai 
zliovvauo  iiovófiifi/.oi'  itsqÌ  ccvtov  (se.  zov  %aiQtiv).  Lo  Tzetzes,  nella  redazione  Ambro- 
siano-Parigina, fa  sua  la  notizia  tacendo  il  nome  di  Dionisio,  che  altre  volte  era 
stato  per  lui  occasione  a  confusioni.  È  noto  infatti  che  egli  spesso  cita  la  triade 
Dionisio  ,  Cratete  ed  Euclide  ,  ed  uno  scolio  ai  giambi  dello  Tzetzes  in  Cramer, 
Anecd.  Oxon.  Ili,  347,  23  fa  chiaramente  comprendere  che  il  Bizantino  pensava 
si  trattasse  di  Dionisio  di  Alicarnasso.  Ma  oltre  al  JiovvGiog  ò  ' Akixaovaooevg  di 
questo  scolio,  citato  dal  Consbruck,  ;u  den  Tractaten  -xbqÌ  xaucoSiag  ,  in  Conimeli' 
tationes  in  honorem  (J.  Stndeiuundi,  Arger.torati  MDCCCXCIX,  p.  225,  e  dal  Kaibel, 
die  Prolegomena  xeqÌ  xaucoòiag,  Berlin  1898  (Abhandlnngen  d.  K.  Gesellschafc  d. 
Wissenschaften  zu  Gottiugen,  phil-histor.  Klnsse,  NF,  B«ì .  2,  Nro.  4),  p.  5  esiste 
un'altra  esplicita  dichiarazioue  dello  stesso  Tzetzes  ,  precisamente  nello  scolio  al 
v.  253  del  Pluto ,  che  nell'Ambrosiano  (fi.  48v.)  e  nel  Parigino  (ti.  10')  suona: 
%oqov  [ibQog'  ì)  ò  Kuquov  d'BQaTCìov  ■  ov  [léxQi  %oqiqv  ì,Gav  ìaufiixoì  Gziyjti  tqÌiistqoi. 
èvrevdsv  (Paris.  ivravra^  Si  tstquustqoi  ,  ovg  ol  SiSa^avreg  ttsqi  xco  ti  (odiai  ò  éj- 
'  A\l  ix<xqvu66o  v  re  JiovvGiog  EvxXs  tS  i]g  te  xaì  ò  K(>c'cT)ts  àraxuiorixovg 
cpaatv,  tyòy  Si  àvTi6-xa6xixov$  te  xaì  xaiavtxovg.  La  triade  su  rammentata  compare 
anche  in  altri  luoghi  degli  scolii  Tzetziani. 


220 


C.   O.    ZCRETTI. 


xcd  oi^vQàg  xvxVS  £k  Bvxvifi  $tov 
li£xcat£60vxcc,  Ttoiel  xcd  xò  Xéyuv 

*  %CcCq£Iv'     \L£XCiXQ£%OVXCt     XCCL     Xé- 

yovxcc  àvxì  xov  c  xcìCqeiv'  àóTtà- 
tl£6^^al, .  (prjól  yàg  itQÒg  xovg  6vv- 
dr]póxag  xcd  yEcooyovg  noòg  ccvxòv 
H£TCCX£llrtTOVg  àcpLxopévovg  •  «  ò 
ccvÓQ£g  drjpóxca,  xb  pbv  rtooóccyo- 
Q£V£iv*  %aÌQ£iv  v^àg'  tfdij  naXaibv 
xcd  6ccttoóv .  xcavoxopcò  oh  xàyco 
ti  tolg  QìjiiaOi  vvv  £Ìg  £vxvyx\  (ilov 

[l£XCC7t£6cóv.  Xcd  C06Jl£Q  7tOX£  KXé(X)V 

TtoXinc)  £vxv%rjxcog  £yQcctl>£ f  %ccC- 
Q£iv  ' ,  ovxc3  xàyco  xo  '  %aiQ£iv  ' 
jtccQ£lg,  cog  ijdrj  TtccXcucofrév ,  àvxì 
xov  f  %aÌQ£iv  '  r  aó7tcc^o^iai  '  Xéyco, 
oxc  jtQO&v{icog  •jtciQay£yóvux£  poi 
xcd  6vvx£xaypévcog  xcd  6vyx£xqo- 
xqpévcog,  cbó7t£Q£Ì  xoòg  Ttaouxa^iv, 
7jV7tQ£7tl0p£VOl  TtoXépov ,  àX%  ov 
xuxufofiXaxmpévcog  xcd  xovcp£Qcog, 
6%oXccCco  fjcaqovvxag  xcd  (5oadvxccx<p 
(iaòCópciXi.  ov  yuo  ftXàx£g  xcd  vtc£q- 
ótcxcu  xcd  XQVcpr]Xoì  xàx  xov  6yo- 
Xalcp  fìuivuv  ftaò Uó pax i  6)]pvóxr]xec 
xcd  oyxov  xcd  xvcpov  èavxolg  xa- 

pi£V0V6lV. 


6vvx  £X  ccy  péveog  '  óJtovdaCcog 
ned  yooy&g  \  ti.  <S7r  p£xà  6vyxooxr[- 
paxóg  xivog  xcd  xà%£cùg.  xo  oh  ov 
xux£fiXux£vp£vcog  àvxì  xov  ov  (ìqcc- 
décog  xcd  XQvcp£Qcog .  '  /32à|  '  yàq 
èóxiv  ò  paX&ccx£vóp£vog  xcd  xqv- 
cpqXòg  èv  vxoxqÌ6£i  xo  ócopcc,  xcd 
c  paX&ccxla  '  ij  /*£#'  vfàooiplag 
bpiXla. 


Per  le  Nubi,  v.  581  e  v.  589  mi  limito  al  solo  Ambrosiano. 

Hfub.  v.  581.  Ambros.  ti.  68v.  è%&QG)g  diax£ipsvcov  àXXrjXoig  A%r\- 
vaicov  xcd  Aaxcovcov ,  ó  AXxió&évovg  vìbg  Arjpoód-évrjg  xcd  Nixlag  ol 
6xqaxrryoì  Aax£8aipovicov  %coQÌa  itoXioQXOvvx£g  IJvXov,  Koovcpaóiov  xcd 
Xcfiuxxr\qiav ',  ovòhv  ijvvxxov.  KXéav  ò'  V7t£6%rj&r]  MfrrjvaCoig,  d  cdo£&i] 
óvoccxrjyóg,  dg  xovxov  xov  it6X£pov  £Ì6co  xoiàxovxa  i)p£Qcòv  òovXaycoyrióca 
xf}  Axxixfj  Aàxcovug  -roùg  èv  olg  ìcfY\v  yjaqioig  olxovvxag ,  xcd  tcòXiv 
èx£LVìjV  7i£7toQ&ì{X£vuL'  o  xcd  7i£7ioir}X£v  ó  yevvuióxuxog  óxoarriyóg.  ovxog 
dì  (Aristofane)  dvó[i£vcdvav  xoiovxcp  àvòqì  Gy^òià'QH  figovxàg  y£yovévai 
xcd  àóxQcaiàg  xcd  ósXtfvìjg  àjioóxCaóiv  (xccxà)  xìjg  CxQaxriyCag  xov  KXéavog, 
olovù  òfj&£v  xcd  xm>  6xoi%£icov  àyccvaxxovvtcov  ènì  xf]  xovxov  rig  Gxou- 
xr\ylav  7tQÓxXr]6iv. 

Xub.  v.  589  7  Ambros.  fi.  C9r.   'Aoi6xog    (jrjxcoo    ùv    ò  iiiaqòxaxog 


PARTE    I.  FRUSTULA    TZETZIANA.  221 

ovxog  (Aristofane)  xal  nooxEivag  on  xóxt  itoXXà  6r\\i£Ìa  ysyove  xal 
aitatola  xal  coótisq  óxvd-Qcoitd^ovxa  eXsyev  xàyXeo6<5eo  xeo  Xóyep  '  «  ov  %qy\ 
KXéeovcc  (5xQaxi]ybv  ysyovsvai  »,  h'dsi  oh  x\\  ftooxdóei  xal  xi)v  ànóòoOtv 
XQocìcpvà  yeyovévea.  xal  xb  rjxxrj&ftvai  KXécova  xal  xaìg  llftr\vcag  al6yvvr\v 
■XEQifìaXùv,  yéyovE  de  %àv  xovvavxiov  '  dtdiòyg  nrj  TCcog  avxeo  àjtavxrjóoi 
véog  ri  TcaXaiòg  àvì]Q  Xéyeov  «  co  cÌXixì'jqis  (Aristofane),  si  ór^iela  xavxa 
f]v  xov  xaxeog  (iovXtvóaó^ca  '  A\trtvaiovg  xal  eXéótrai  6xoaxr\ybv  KXécova, 
cocptiXs  KXéeov  [lèv  ijxxrjiTìtvai  xaxeog  6xoaxr\yr\6ag,  àxieila  oh  xal  al<5yyvr\ 
yevéó&ai  xfj  ■zóXei,  xf]  xovxov  GxQaxìjybv  éXoLisvr}'  »  xovxo  yovv  xb  àvxi- 
jthttov  ó  àXixrJQiog  Xvsi  àcp'    laxoQiag  xoidódf.  xxL 

Questi  scolii  spiegano  il  tono  dell'argomento  Tzetziano  ai  ('((ca- 
lieri e  spiegano  la  presenza  de'  Cavalieri  con  scolii  nell'  Urbinate.  Cer- 
tamente molto  si  dovrebbe  dire  su  quanto  precede;  ma,  rimandando 
ad  altro  luogo  parecchi  argomenti,  richiamo  alla  mente  le  parole  dello 
Tzetzes  nelle  epistole  e  nelle  chiliadi,  che   ognuno  può  riscontrare. 


IV 


Xon  voglio  per  ora  ritornare  sulla  questione  dell'Aldina  e  dei 
mss.  aristofanei  onde  si  valse  il  Musurus  per  la  sua  edizione,  e  noto 
qui  una  coincidenza  dell'Aldina  con  uno  scolio  Tzetziano.  (ìli  scolii 
alle  Xitbi,  a  proposito  della  parabasi,  parlano  di  una  legge,  della  cui 
esistenza  si  dubita,  che  avrebbe  prescritta  l'età  di  trenta  anni  per  il 
poeta  comico  ;  l'Aldina  dice  invece  «  trenta  o  quaranti  anni  »,  il  quale 
ultimo  numero  si  trova  nello  Tzetzes,  il  quale  così  si  esprime  {Ambros. 
ti.  (>7v.)  :  vópog  ftv  Ad~ì]vaioig  «»)  x eóejccoaxovxasx  fj  xiva  yeyovóxa 
Lirjxe  dixrjyoosìv  iirjxs  di]iiriyoosìv  ,  àXXà  ciijóh  dgduaxa  vTcavayiveocìxsiv 
èg  ftéaxoov .  xovxeo  reo  vòmico  xal  ó  xco^iixbg  ovxog  sioyÓLiEvog  tcqóxsqov 
dia  xb  lu)  x  £6  6  aoaxovx  ovxijg  èxi  v7t<xQ%£iv  ,  xà  iccvxov  xeov  xcocico- 
dieov  òodiiaxa  dice  <PiXcovidov  xal  KaXXióXQccxov  ,  xeov  vGxsqov  olxeieov 
v7Coxqixcov  ,  àvsyivcoóxsv  elg  xb  ftéaxQOv .  xal  òfj  6vv  òodciacìiv  ixe'ocov 
xcoucodicov  xal  xovg  zJaixaXsìg  doàua  èdiócc^s  di'  ccvxcov.  èv  co  òoduaxi 
dvo  elórjyccys  iiEiodxia,  6eoefoov  xal  alóxQÓv,  Xéyovxd  riva'  xcd  xoXXotg 
xeov  d-saxeov  xovxo  xb  docqia  èxr]véd-yj  ,  l'vexa  xov  vorjuaxog  xeov  dvo 
xovxcov  iiEiQaxlcov .  ov  lisvxoi  èvi'xìjósv  èv  xovxeo  ò  xoi)txìjg,  «XX'  fjXXìfòr]. 
èmfiàg  ah  xov  x so óuoaxovxasxovg  sxovg,  xal  xovxo  xb  doc'aia  xeov 
NecpeXcov  di'  iavxov  diòdóxeov  èv  xeo  d-sdxQcp,  ce  itaoà  xeov  xthìxcov  ccìxh 
ccvxcp  y£yovévai ,  ì\yovv  xb  vivifica  ,  (f-rfil  xobg  avxovg,  dice  xov  %ogov 
dìid'rjv  xeov  v£(f£Xcov  ,  tcvxaìg  cog  oixdep  ygéu£vog  óxóuaxi ,  xal  Xéyeov' 
co  &  e  arai  xxé. 


222  C.    O.    ZURETTI.  PARTE   I. 

Diceva  lo  Studemund  1,  e  son  parecchi  anni,  che  gli  scolii  Tzetziani 
aspettano  tuttora  il  loro  editore  ;  se  sia  il  caso  di  pensare  ad  una  loro 
edizione  discuterò  prossimamente  in  uno  studio  sulle  relazioni  degli 
scolii  Tzetziani  cogli  altri  scolii  Aristofane}.  Questi  saggi  intanto  pos- 
sono destare  più  di  una  curiosità. 


1  Anecdot.    Far.,  I,  p.  250. 
Palermo. 


C.  O.  Zuretti. 


HERBITA 


Erbita  è  fra  le  tante  città  antiche  della  Sicilia,  che  non  hanno 
trovato,  finora,  una  identificazione  sicura.  Generalmente  vien  posta 
a  Mcosia,  oppure  alla  vicina  Sperlinga;  ina  quest'opinione  manca  di 
qualsiasi  fondamento  ,  ove  non  si  voglia  considerare  come  tale  una 
iscrizione  greca  non  genuina  ,  ivi  esistente  (Cavallari,  Arch.  Stor.  >S7c, 
n.  s,  I,  1870  ,  ]).  307)  ,  e  falsata  evidentemente  allo  scopo  di  dimo- 
strare l'esistenza  di  Erbita  in  quel  posto  (Kaibel  faUae  4).  Ad  ogni 
modo  è  certo  che  la  città  non  si  trovava  sul  mare;  ciò  risulta  tanto 
dal  noto  passo  di  Plinio  ,  che  la  enumera  fra  le  città  dell'  interno 
(XII.  Ili  1)1),  quanto  dal  silenzio  di  tutte  le  descrizioni  abbastanza 
particolareggiate,  che  abbiamo  delle  coste  dell'antica  Sicilia.  Pur  non 
di  meno  il  territorio  della  città  doveva  toccare  il  mare  ,  perchè  una 
nave  di  Erbita  faceva  parte  della  flotta  allestita  da  Vene  contro  i 
pirati  (Cic.  Yerr.  V  33,  86;  40,  11':');  51,  133).  Delle  altre  città  che 
avevano  dato  navi  per  questa  flotta  (Cic.  Yerr.  V  33,  86)  Tindari  ed 
Eraclea  si  trovavano  sul  mare,  Segesta,  Apollonia  (sia  che  si  voglia 
situarla  a  Pollina  o  a  S.  Fratello) ,  Alunzio  a  poca  distanza  da  esso; 
e  se  vi  figura  anche  una  quadrireme  di  Centuripa,  dobbiamo  infierire 
da  ciò  stesso,  che  il  territorio  di  questa  città,  totiu.s  HiciUue  multo 
maxima  et  lociqrfetissima  (Cic.  Yerr.  IV  'S.).  50),  in  quel  tempo  si  esten- 
desse fino  alla  foce  del  fiume  Simeto.  Inoltre,  da  due  fatti  notissimi 
di  Diodoro  (XII  8,  2,  XIV  16)  risulta  clic  Erbita  si  trovasse  a  non 
molta  distanza  da  Alesa  e  da  Calacte.  È  chiaro  da  tutto  ciò  clic  Er- 
bita va  cercata  nelle  vicinanze  dell'odierna   distretta. 

A  questi  indizi  si  aggiunge  la  testimonianza  di  un'  altra  fonte, 
della  finale  finora  forse  non  si  è  tratto  tutto  quel  profitto  clic  se  ne 
potrebbe  ricavare,  dico  la  Cosmografia  dell'Anonimo  Ravennate ,  e  la 
Geografia  di  Guidone,  che  ne  dipende.  Vi  si  legge,  riguardo  alla  nostra 
città  (Anon.  p.  104,  Guid.  p.  4!>s   Pinder  et   Parthey)  : 

Iterum   (Guidone:  porro)  ex  aliti  parte  iurta   suj>ra  scriptum  etri- 
tatem   Panurmon  (Guid.  Panormum)  est  cicitas  quae  (licitar 
Erbita  (Guid.  Herbita) 
Jlalistrata 


224  G.    BEI.OCH.  PARTE   I. 

Prachara 

Agurion  (Guid.  Augurion) 

McHtratón 

Enna. 
Tutti  sanno  che  fonte  del  Ravennate  fu  un  itinerario,  dal  quale 
egli  trascrisse  i  nomi  della  città  nel  medesimo  ordine  in  cui  vi  erano 
segnate.  La  serie  di  nomi  ,  quindi  ,  che  abbiamo  riportato  ,  segna  il 
corso  di  una  strada  romana.  Ed  è  chiaro  che  questa  strada  doveva 
avere  principio  dalla  costa;  ma  avendo  l'autore  già  descritta  la  strada 
dal  littorale,  ha  soppresso  in  questo  punto  il  nome  della  città  presso 
la  quale  la  nostra  strada  si  biforcava  da  quella.  Ma  questa  città  non 
può  essere  stata  altra  che  Alesa,  o,  se  si  vuole,  Calacte.  Nel  nome 
di  Mali. sfrata,  infatti,  si  nasconde,  senza  alcun  dubbio,  il  nome  antico 
di  Mistretta,  cioè  Amestratos,  oppure  Mytistraton.  Che  Prachara  non 
sia  che  una  corruzione  di  Imachara,  è  stato  riconosciuto  già  da  tempo. 
Questa  città  ,  infatti ,  come  è  dimostrato  dal  ritrovamento  del  noto 
caduceo  coli'  iscrizione  ' Ijia^agaCcov  dccpóóiov  a  Rocca  di  Serlone  alla 
confluenza  del  Fiume  Salso  e  del  Fiume  di  Cerami  (Salinas ,  Ardi. 
Stor.  Sic.  n.  s.  Ili,  1878,  p.  444),  doveva  trovarsi  precisamente  in 
queste  parti,  a  nord  di  Agira  in  direzione  verso  Mistretta,  e  potrebbe 
identificarsi  con  Nicosia.  In  Mestraton  poi  sarebbe  da  ravvisarsi  Myti- 
straton ,  oppure ,  se  questa  città  si  volesse  collocare  a  Mistretta, 
Amestratos. 

La  strada  che  abbiamo  rintracciata  in  questo  modo  colla  scorta 
del  Ravennate,  corrisponde,  come  si  vede,  nel  suo  primo  tratto  esat- 
tamente a  quella  che  congiunge  ,  presentemente  ,  Nicosia  alla  costa 
tirrena.  Da  Mcosia  (Imacara)  poi  essa  seguiva  la  valle  del  Fiume  Salso 
fino  ad  Agyrion.  Di  là,  volgendo  verso  occidente,  proseguiva  ad  Enna, 
passando  per  Mytistraton  (o  Amestratos),  che  si  dovrebbe  cercare,  per 
conseguenza,  nelle  vicinanze  di  Leonforte. 

Erbita ,  adunque  ,  era  posta  fra  Mistretta  ed  il  mare ,  cioè,  ap- 
punto là  dove  doveva  essere  collocata  in  base  alle  indicazioni  di  Ci- 
cerone e  Diodoro.  Il  suo  porto  si  trovava  a  S.  Stefano  di  Camastra 
o  lì  vicino;  il  sito  preciso  della  città  poi  non  potrebbe  essere  stabi- 
lito che  per  mezzo  di  ricerche  da  farsi  in  quei  luoghi. 

Giulio  Beloch. 


"CASTRIS» 

COME   DESIGNAZIONE  DEL  LUOGO  D'ORIGINE. 


È  opinione  generale  che  sotto  la  parola  castri.? ,  come  designa- 
zione del  luogo  <li  origine  di  certi  soldati  ,  si  debbano  intendere  le 
canabac  nel  significato  di  stabilimenti  romani  non  formanti  città  presso 
i  campi  stativi,  ove  città  non  esistevano  l.  Così,  ad  esempio,  nelle  Com- 
mentationes  philol.  in  honorem  Th.  Mommseni  il  Wilmanns:  «  Es  miissen 
diese  Lagerkinder  vielmelir  Soline  der  Soldaten  selbst  sein,  oline  Zweifel 
gezeugt  mit  den  M&dchen  des  ani  Lager  liegenden  Dorfes,  in  welchen...» 
Parimenti  A.  Scluilten  ,  Pauly-Wissowa  Real-Encyclopadie  (canabae) 
si  esprime  nella  maniera  seguente  :  «  Besonders  interessant  sind  die 
C.  als  origo  der  Lagerkinder,  d.  li.  der  aus  der  illegitimen  Elie  eines 
Soldaten  mit  einer  Peregrinen  entsprossenen  Kinder.  Demi  wenn  die 
Soldatenkinder...  ihre  origo  mit  castris  bezeiclinen,  so  geschieht  das, 


1  Solo  da  poco  tempo  sappiamo  che  esistevano  delle  canabae  anche  presso  gli 
accampamenti  stabili,  ove  esisteva  lina  città.  Nel  luogo  ove  esisteva  la  città  ro- 
mana Viminacium  (Kostolac  nell'  attuale  Serbia)  è  stata  rinvenuta  l'iscrizione  se- 
jruente,  pubblicata  la  prima  volta  negli  Jahreshefte  des  Ocsterr.  archaol.  Institutes, 
Bd.   Ili  Beiblatt,   117  u.  8. 

[?  Divus]  Scpt(imius)  Severm  Pert(ivax) 
[Pius  F]elix  ArabQcus)  Adiab[enicu8) 
[l'arth(icu8)]  maximus  et 

[imp(eralor)  Caes(ar)  il.]  Aur(elius)  Antonimia  Pius 
5  [Felix  Aii^gustns  cana- 

[bas?  refee]erunt  legioni)    VII 
[Cl(audiae)  A]ut(oninianae)  p(iae)  f(ideli. 

Questo  monumento  ,  come  si  può  rilevare  dal  soprannome  Antoniniana  della 
VII  legione  ,  dev'  essere  stato  collocato  intorno  al  21o.  Le  canabae  di  cui  qui  è 
parola  esistevano  dunque  a  quest'epoca.  Ma  a  qnel  tempo  Viminacium  era  già  da 
lunga  pezza  una  città,  poiché  essa  divenne  munì  ci  pi  uni  già  sotto  Adriano.  In  tal 
guisa  noi  abbiamo  qui  delle  canabae  presso  l'accampamento  di  una  legione,  ove 
esiste  una  città  (cfr.  JahreshcJ'Le,  1.  e). 

1.1 


226  N.    VULIC.  PARTE   I. 

vreil  ihr  faktischer  Geburtsort,  die  C,  weil  nichtstadtisch ,  als  Origo 
niclit  verwendbar  sind  ». 

Ma  siffatta  opinione  non  è  sostenibile.  Noi  abbiamo  un'  iscrizione, 
proveniente  da  Viminacium,  la  quale  depone  contro  di  essa.  Questa 
iscrizione  è  stata  pubblicata  negli  Jahreshefte  des  Oesterr.  archaol. 
Institiites,  Ed.  IV  Beiblatt,  81  sgg.,  e  comincia  con  le  parole  seguenti  : 

\pro  salute  imp(eratoris)  Caes(aris)} 
L.  Septimi  Severi  Pertin]a[ci8 
Anglisti)  Aràb(ici)  Adiab(cnici)  et  M.]  Aurel\i 
Antonini  Caes(aris)  veterani  l]eg{ionis)   VII  Cl(audiae) 
5  p(iaé) /{idelis)  probati  Prisco  et  Ap]olUnar(e)  eo{n)s(ulibus)  anno  169 

missi  Inonesta)  missione)  per J  n{um)  Pompeianum 

leg(atum)  Augusti)  pr(ó)pr(aetore)]  et  [L\ael(ium)  Maximum 
lcg(atum)  leg(ionis)   VII  Cl(audiae)  p(iae)  /(idelis)  Cle]ment(e) 

et  Prisco  co(n)s(u1ibi(s)  anno  195 

Segue  poi  una  lunga  lista  dei  soldati  congedati  la  quale  in  origine  con- 
teneva circa  240  nomi. 

Questi  soldati,  come  si  scorge,  furono  levati  nell'anno  1<>(.>.  Essi, 
cioè,  nacquero  e  furono  levati  dopo  che  Viminacium  aveva  ricevuto 
il  diritto  di  cittadinanza.  Ma  noi  troviamo  nella  nostra  lista  un  nu- 
mero di  essi  (sei),  i  quali  designano  il  loro  luogo  d'origine  colla  pa- 
rola cast(ris).  È  evidente  che  qui  i  castra  non  possono  esser  le  canabac 
nel  senso  di  abitazioni  presso  accampamenti  stabili  ove  mancano  città, 
poiché  Viminacium  in  quel  tempo  era  appunto   una  di  queste. 

Su  quel  che  riguarda  P  esatto  significato  di  una  tale  indicazione 
del  luogo  d'origine,  adesso  non  può  più  esister  dubbio.  Castri»  significa 
soltanto  che  la  persona  ,  di  cui  è  parola,  è  nata  durante  il  servizio 
militare  del  padre;  ma  non  è  indicato  con  cib  il  luogo  dove  egli 
sia  nato. 

Belgrado. 

Nicola  Vulic. 


SIKELIKA. 


LA    SICILIA    E    L'ODISSEA. 

Xella  seconda  meta  del  V  secolo  avanti  Cristo  una  larga  parte 
«Ielle  avventure  di  Ulisse,  quali  ci  sono  narrate  nell'Odissea,  si  trova 
già  localizzata  sulle  coste  dell'angolo  peloritano  della  Sicilia,  e  nei 
mari  ad  esso  adiacenti.  La  Cariddi  era  posta  nello  Stretto  di  Mes- 
sina, le  isole  del  gruppo  di  Lipari  ricevevano  anche  il  nome  di  Isole 
di  Eolo  ,  la  regione  dell'  Etna  era  riguardata  come  la  terra  dei  Ci- 
clopi, e  non  lontano,  forse,  era  cercata  la  eosta  dei  Lestrigoni.  La  Thri- 
nakia,  l'isola  in  cui  pascevano  gli  armenti  di  Helios,  era  identificata 
colla  Sicilia  ,  la  (piale  sarebbe  stata  in  origine  chiamata  Trinakria; 
onde  si  deve  ammettere  che  già  nel  V  secolo  la  voce  omerica  veniva 
interpretata  come  una  modificazione  poetica  di  quest'  ultima.  Tali 
identificazioni  erano  comuni  ai  greci  della  madre  patria,  e  a  quelli  di 
Sicilia  :  e  Tucidide  ,  che  ci  dà  di  esse  un  quadro  completo  (VI  2,  1-2; 
III  88;  IV  24,  5),  non  avrebbe  avuto  bisogno  di  toglierle  da  Antioco, 
di  cui  probabilmente  si  è  servito  di  fonte. 

Sventuratamente,  quel  che  ci  rimane  della  letteratura  greca  più 
antica  non  ci  permette  di  proseguire  le  tracce  di  queste  localizzazioni 
più  là  del  V  secolo.  Non  sappiamo  su  quali  basi  Eratostene  abbia 
fondata  1'  affermazione  che  Esiodo  sia  stato  per  il  primo  a  raccogliere 
l'opinione  volgare,  la  quale  localizzava  i  viaggi  di  ITisse  sulle  coste 
d'Italia  ed  in  Sicilia.  1  versi  della  Teogonia  i  «piali  pongono  l'isola  di 
Circe  nel  mar  Tirreno,  derivano,  come  ora  generalmente  si  ammette,  da 
un'  interpolatore  ,  ma  è  difficile  provare  che  gli  altri  versi  che  il  po- 
ligrafo alessandrino  aveva  in  mente  nel  formulare  il  suo  giudizio,  fos- 
sero dovuti  anch'essi  ad  una  manipolazione  posteriore  dei  componi- 
menti esiodei.  La  circostanza  più  notevole  da  rilevare  è.  in  ogni  caso, 
che  Eratostene  ammetteva  resistenza  di  una  colgaris  opini»  anteriore 
ad  Esiodo. 

Per  quanto  riguarda  la  geografia  dell'Odissea,  gli  antichi  erano 
divisi  in  due  scuole,  che  a  noi  son  rappresentate  principalmente  da 
Polibio  e  da  Eratostene.  La  prima,  quella  degli  stoici,  professava  il 
principio  che  Omero  avesse  descritto  i  viaggi  di  Clisse  con  cognizione 
dei  paesi  di  occidente,  salvo  a  fare  una  parte  più  o  meno  grande  alla 
allegoria,  ed  una  più  o  meno  piccola  alla   possibilità  dell'errore  od 


228  M.    COLUMBA.  PARTE   I. 

alle  esigenze  dell'ispirazione  poetica.  A  capo  della  scuola  opposta  fu 
Eratostene,  che  negò  alla  poesia  omerica  ogni  valore  geografico,  fuori 
della  parte  che  si  riferiva  alla  Grecia,  e  non  vide  in  tutto  il  paesaggio 
dell'Odissea  che  una  creazione  della  fantasia  del  poeta,  giudicando  inu- 
tile e  vano  ogni  tentativo  di  trovar  ad  esso  un  corrispondente  nel  campo 
della  realtà.  Solo  egli  ammetteva  che  si  potesse  pensare  che  Omero 
immaginava  i  viaggi  di  Ulisse  come  avvenuti  nei  mari  di  occidente  \ 

I  termini  della  questione  non  si  sono  considerevolmente  mutati 
dall'antichità  ai  nostri  giorni.  Prescindendo  dal  fatto  che  vi  ha  tuttavia 
chi  cerca  l'origine  di  certi  miti  omerici  in  fenomeni  dello  Stretto,  (piale, 
ad  esempio  ,  la  fata  morgana  che  avrebbe  data  origine  al  concetto 
dell'  isola  natante  di  Eolo,  una  parte  dei  filologi  trova  che  alcuni, 
almeno  ,  dei  paesi  toccati  da  Ulisse  appartengono  alla  realtà  ,  salvo 
ad  allontanarsi  più.  o  meno  dalle  antiche  identificazioni.  Così,  per  il 
Wilamowitz-Mollendorff  la  Thrinakia  omerica  sarebbe  il  Peloponneso: 
ivi  la  parte  delfica  dell'  inno  omerico  ad  Apollo  ricorda  gli  armenti  di 
Helios,  pascolanti  presso  il  Tenaro,  e  nessun'  altra  isola  avrebbe  po- 
tuto aver  dritto  ad  esser  qualificata  come  tridentiforme  più  che  l' i- 
sola  di  Pelope  2.  Altri  però  relega  i  viaggi  di  Ulisse,  oltre  il  Tenaro, 
nel  regno  della  fantasia  «  dove  governano  leggi  diverse  da  quelle  della 
realtà  quotidiana  »,  consentendo  al  più  con  Eratostene  che  il  poeta 
possa  averli  concepiti  come  avvenuti  nei  mari  di  occidente. 

Io  non  vedo,  in  effetto,  «piale  distinzione  si  possa  fare  ragione- 
volmente tra  i  vari  paesi  toccati  da  Ulisse  di  là  dal  Tanaro  ,  e  per- 
chè si  debba  credere  che  siano  immaginarie  Aiaie  e  Ogygia,  e  non 
lo  siano  la  terra  dei  Ciclopi,  quella  dei  Lestrigoni,  Thrinakia  e  Cariddi. 
Si  può  ammettere,  se  si  vuole,  che  nelle  descrizioni  del  poeta  ab- 
biano parte  anche  elementi  reali ,  derivati  da  notizie  portate  da  navi- 
gatori e  da  commercianti;  ma  questi  elementi  non  sono  facilmente  ri- 
conoscibili ,  dopo  1'  elaborazione  che  ne  ha  fatta  il  poeta.  Chi  può 
affermare  che  il  concetto  della  Thrinakia  o  «Iella  Cariddi  sia  venuto 
da  notizie  relative  all'esistenza  di  un'  isola  a  tre  punte  o  di  un  vortice 
marino  sia  del  Bosforo,  sia  dell'Euripo  ì  II  nome  Thrinakia  è  in  realtà 
un  qualificativo,  come  Ogygia  e  come  Aiaie;  nulla  ci  fa  credere  che 
esso  sia  stato  una  volta  effettivamente  in  uso,  «piale  nome  proprio  di 


1  Vedi  Strab.  I,  2,  20';  23<-;  24c;  26e  etc.  Cfr.  in  generale  su  questo  riguardo 
K.  J.  Neumann,  Sirabos    Urtheil  iib.   Uovi,  in  Hermes  1886,  p.   134  sgg. 

2  Hom.  Vnterss.  p.  168.  Il  Wilamowitz  pone  i  Lotofagi  in  Africa,  ed  ivi  pure 
i  Ciclopi  ;  ibd.  p.  164.  [Cfr.  pure  la  identificazione  fatta  dal  prof.  Dorpfeld  uel 
suo  articolo  Thriuakia-Trinakria  p.   105  sgg.]. 


229 


una  terra  qualsiasi;  sarebbe,  si;  mai,  il  nome  con  cui  il  poeta  ha  voluto 
indicare  un'isola,  designandola  dalla  sua  forma,  anziché  dal  vero  nome. 
Noi  dunque  ci  troviamo  innanzi  alla  sola  concezione  poetica,  e  non 
possiamo  scorgere  se  dietro  ad  essa  ci  sia  o  no  una  realtà.  Altronde 
poi,  il  poeta  medesimo  non  ha  coscienza  di  questa  realtà,  più  che  non  ne 
abbia  dell'origine  dei  miti  ch'egli  tratta.  Supponiamo  che  Thrinakia  sia 
stata  in  effetto  il  Peloponneso:  ebbene,  noi  dobbiamo  credere  che  il 
poeta  medesimo  non  lo  sapesse,  tanto  più  se  si  ammette  che  la  vì]6og 
òyvyCij  di  g  ITU  era  in  origine  la  Thrinakia,  prima  di  divenire  F  isola 
di  Calipso.  Lo  stesso  può  dirsi  di  (  'ariddi  ;  anzi ,  se  il  poeta  sapeva 
almeno  ciò  che  significava  la  parola  Thrinakia,  può  dubitarsi  che  abbia 
avuto  una  visione  altrettanto  chiara  della  voce  Charybdis.  Giacché 
parrebbe  clic  colle  parole  a  .'>04  XdQv^dig  àvtcQQOifiÓEi  il  poeta  abbia 
voluto  spiegare  a  sé  ed  agli  uditori  l'etimologia  della  parola,  da  cui 
sorge  la  ragione  del  mito.  (ìli  elementi  reali  perciò,  se  in  questa  parte 
esistono,  si  sono  staccati  dal  loro  luogo  di  origine,  e  sono  passati  nel 
regno  della  fantasia,  confondendosi  con  gli  altri  elementi  immaginari, 
coi  quali  il  popolo  ed  il  poeta  costruivano  pezzo  a  pezzo  il  mondo 
ignoto  visitato  da  Ulisse,  senza  sentire  il  bisogno  di  stabilire  in  quale 
dei  quattro  punti   cardinali  questo  mondo  dovesse  esser  collocato. 

D'altra  parte,  la  negazione  di  ogni  realtà  del  paesaggio  omerico 
è  stata  portata  sino  a  supporre  che  anche  i  Hikeloi  menzionati  in 
v  383,  ove  uno  dei  proci  dà  a  Telemaco  il  consiglio  di  buttar  Ulisse 
e  Teoclimeno  in  una  nave  e  mandarli  a  vendere  presso  quel  popolo, 
siano  anch'essi  una  creazione  della  fantasia  del  poeta,  e  non  abbiano 
alcun  rapporto  con  i  Siculi  e  la  Sicilia  della  realtà.  La  ragione  di 
tale  affermazione  sta  in  ciò.  clic  quest'  isola  sarebbe  troppo  lontana 
perchè  si  possa  credere  ammissibile  il  consiglio  di  andarvi  a  vendere 
un  paio  di  schiavi.  I  Sikeloi  sarebbero  perciò  un  popolo  che  il  poeta 
immaginava  come  esistente  non  lontano  da  Itaca,  e  poiché  ivi  nulla 
esiste  da  poter  tentare  un'  identificazione  ,  bisogna  supporre  che  il 
poeta  abbia  giocato  di  fantasia  '.  Con  ciò  si  viene  ad  escludere  che 
un  poeta  possa,  da  poeta,  aver  immaginato  un  fatto  o  messo  in  bocca 
ai  suoi  personaggi  un  consiglio,  senza  avere  innanzi  valutata  rigorosa- 
mente la  probabilità  dell'uno  e  dell'altro;  e  pur  constatando  le  inesat- 
tezze che  esistono  nell'Odissea  in  riguardo  alla  situazione  del  gruppo 
insulare  medesimo  che  torma  il  legno  di  Ulisse  2,  si  nega  la  possibilità 


1  V.,  ad  es.,  llahn,  d.  geogr.  Kenntn.  dir  alt.  griech.  Epiìcer,  Th.  Ili  (1885)  p.  3. 

2  In   <p  345  sgg.  esse  suno  manifestamente  indicate  come  adiacenti  alla  costa 
dell'Elide.  Cfr.  Hahn  o.  e.  2  Th.   (ISSI)  p.   13, 


230  M.    COLUMBA.  PARTE   I. 

che  il  cantore  omerico  abbia  avuto  notizia  dei  Siculi,  senza  sapere 
con  precisione  a  che  distanza  si  trovino  da  Itaca.  È  la  stessa  critica 
per  cui  altri  sosteneva  che  tutto  quanto  è  detto  nei  poemi  omerici 
.  corrispondeva  alla  realtà.  Se  anche  le  ragioni  di  cotale  affermazione 
fossero  più  solide,  resterebbe  contro  di  essa  il  fatte»  strano  ed  inve- 
rosimile che  il  poeta  abbia  inventato  di  suo  capo  il  nome  di  un  po- 
polo, che  non  è  spiegabile  con  nessuna  ragione  etimologica,  e  viceversa, 
pei*  un  caso  meraviglioso,  coincide  con  il  nome  di  un  popolo  in  realtà 
esistente,  sia  pure  a  qualche  distanza  da  quello  da  lui  immaginato. 
Così  è  che  la  negazione  di  cui  ci  occupiamo,  ha  trovati  scarsi  ade- 
renti, anche  tra  coloro  che  dalla  parte  di  occidente  limitano  alle  isole 
ioniche  l'orizzonte  geografico  dell'Odissea  \ 

Se  non  si  può  dubitare,  perciò  ,  che  questo  luogo  dell'Odissea 
accenna  ai  Siculi  ,  rimane  a  cercare  come  e  quando  siano  sorte  le 
altre  identificazioni  che  troviamo  già  stabilite  nel  V  secolo  tra  le  varie 
località  omeriche  e  questa  isola. 

Il  greco  che  sentiva  l'antica  narrazione  del  ritorno  d'Ulisse,  po- 
teva seguire  la  nave  dell'eroe  sino  al  Maléa  ed  a  Citerà  ,  ma  da  quel 
punto  egli  era  trasportato  in  paesi  sconosciuti.  Da  quest'isola,  o,  se 
si  vuole,  dal  paese  dei  Lotofagi,  si  perde  ogni  traccia  della  direzione 
seguita  dalla  nave  di  Ulisse;  è  impossibile  determinare  ove  fossero  il 
paese  dei  Ciclopi,  dei  Lestrigoni,  l'isola  di  Circe  2.  Il  complesso  della 
narrazione  mostrava  soltanto  che  l'eroe  si  era  perduto  di  là  dal  Malea, 
in  un  mare  ignoto,  sebbene  altronde  qualche  accenno  richiamasse  al- 
l'oriente (/i  3-4),  alla  Propontide  {%  108  etc.)  ed  all'Egeo  (cfr.  p.  438  sg.). 
Quando  la  Telemachia  fu  posta  accanto  ai  viaggi  di  Ulisse,  questi  ri- 
masero di  necessità  limitati  verso  l'occidente,  giacile  i  viaggi  di  Me- 
nelao, nel  bacino  orientale  del  Mediterraneo,  si  svolgevano  su  di  un 
teatro  lontano  e  diverso  da  quello  dell'Itacense. 

È  superfluo,  del  resto,  osservare  che  le  identificazioni  che  troviamo 
già  stabilite  al  V  secolo  non  sono  adattabili  alla  narrazione  omerica. 


1  Così,  ad  es.  il  Seeck,  die  Quellen  der  Odyssce  p.  299;  320;   330. 

2  Ulisse  tenta  di  girare  il  Malea,  ma  è  sviato  all'altezza  di  Citerà  dai  venti 
di  tramontana  (t  80  sg.)  ;  indi  è  trasportato  per  nove  giorni  òloolg  àvs^toi6iv  (t  83); 
gli  antichi,  e  cosi  in  buona  parte  i  moderni  ,  hanno  inteso  queste  due  ultime  parole 
nel  senso  ch'esse  designino  sempre  lo  stesso  vento  di  tramontana  che  ha  impedito 
ad  Ulisse  di  girare  il  Malea  ;  onde  il  paese  dei  Lotofagi  è  stato  posto  a  sud  (o  a 
sud-ovest)  sulle  coste  d'Africa.  Le  avventure  di  Ulisse  presso  i  Lotofagi,  i  Ciclopi, 
nell'isola  di  Eolo  e  presso  i  Lestrigoni  sou  cucite  fra  di  loro  da  uno  stesso  verso 
(t  105;  565;  x  77  [cfr.  i  62]),  che  nell'ultimo  luogo  è  ampliato  con  un'indicazione 


PARTE    I.  SIKELIKA.  231 

Una  volta  identificata  V  isola  di  Eolo  con  una  del  gruppo  di  Lipari, 
Ulisse  dovrebbe  passare  tra  Scilla  e  Cariddi  al  momento  in  cui, 
scortato  da  Zefiro,  muove  alla  volta  di  Itaca,  o  quando  dal  paese  dei 
Ciclopi  va  all'  isola  Eolia  ,  e  da  questa  al  paese  dei  Lestrigoni  ;  in- 
vece, egli  passa  per  lo  stretto  pericoloso,  quando  dall'  isola  di  Circe 
muove  alla  volta  della  Thrinakia,  cioè  quando  nessuna  ragione  poteva 
obbligarlo,  da  qualunque  parte  egli  venisse,  a  traversare  lo  Stretto  di 
Messina  per  toccare  la  costa  di  Sicilia.  La  tradizione  che  poneva  gli 
armenti  di  lielios  presso  Mylai  sarebbe  per  tal  rispetto  assurda.  Pari- 
menti, è  inammissibile  cbe  Ulisse  abbia  dovuto  navigare  sei  giorni  e  sei 
notti  per  giungere  dalle  Liparee  alla  costa  orientale  della  Sicilia,  tra 
l'Etna  e  Siracusa,  ov'erano  i  Lestrigoni  :  giacché  certo  nessuno  pensava 
che  l'eroe  vi  fosse  venuto  da  ponente,  facendo  il  giro  dell'isola.  Ciò  prova, 
io  credo,  che  nella  identificazione  delle  località  omeriche  non  si  teneva 
conto  della  direzione  generale  dei  viaggi,  o  dall'itinerario  dell'eroe, 
ma  solo  di  elementi  speciali ,  considerati  nel  loro  più  stretto  nesso  to- 
pografico. E  uno  di  questi  elementi,  quello  che  forma,  a  mio  parere, 
il  punto  di  partenza  delle  altre  identificazioni,  è  la  Cariddi.  Ne  nel- 
l'Euripo  Euboico,  uè  nel  Bosforo,  uè  in  altro  punto  dei  mari  noti  ai 
greci,  questi  potevano  trovare  in  natura  un  fenomeno  più  costante  e 
più  vicino  alla  grandiosità  di  quello  descrittoci  da  Omero,  che  nello 
Stretto  di  Messina.  Lo  scoglio  di  Scilla  non  aveva  nessuna  caratteri- 
stica che  lo  rendesse  altrettanto  notevole  :  Scilla  fu  posta  lì  come 
conseguenza  della  localizzazione  di  Cariddi  al  punto  più  angusto  dello 
Stretto  di  Messina  i.  Rimanevano  a  cercare  le  Planktai,  che  stanno 
immediatamente   innanzi  a  Scilla  e  ('ariddi. 

I  pericoli  per  cui  dovrà  passare  Ulisse  ,  da  Aiaie  alla  Thrinakia, 
son  descritti  nell'Odissea  due  volte  :  la  prima  nelle  istruzioni  che  al- 
l'' eroe  dà  Circe  (fi  36-141),  la  seconda  nella  narrazione  medesima  del 
viaggio  (vv.  1GG-259).  Ma  il  poeta  non  si  ripete:  nella  prima  parte  Ulisse 
apprende  ciò  che  non  gli  sarebbe  stato  possibile  di  percepire  coi  sensi: 
quel  che  può  vedere  o  udire,  vien  riserbato  alla  seconda.  Ulisse  non 
riuscì  a  scorgere  Scilla  (u  292),  uè  avrebbe  saputo  com'era  fatta,  se  non 
glielo  avesse  detto  innanzi  la  dea.  Le  Planktai  son  nominate  e  descritte 
da  quest'ultima  (/a  59-72);  ma  nella  narrazione  del  viaggio,  viceversa, 
si  vedono  tanto  meno,  quanto  più  si  guarda  con  attenzione  il  testo 
del  poeta.  Appena  perduta  di  vista  1'  isola  delle  Sirene  .  y.uxvóv  xccl 
[léya  xv[icc  ìdov  —  dice    Ulisse  —  y.aì    Sovxov    ccAOvda    (202).    Ecco  le 


1  Giustamente  osserva  Seneca,  ep.  79,  1:   Scyllam  saxum  esse  et  quidam  non  ter- 
ribile navigantibus  ottime  scio. 


232  M.    COLUMBA. 


Planktai  !  —  osservano  i  commentatori  antichi  al  pari  dei  moderni  l. 
E  in  effetto  ,  o  esse  sono  accennate  qui  ,  in  questo  solo  verso  ,  <>  il 
poeta  le  ha  dimenticate,  nonostante  che  Circe  le  abbia  descritte  così  a 
lungo.  E  si  può  con  ragione  dubitare  che  il  poeta  accenni  alle  Planktai. 
Ulisse  incoraggia  i  suoi,  e  fa  due  raccomandazioni  al  timoniere  :  di 
dirigersi  al  largo  dal  xtaivóg  e  dal  nv^ia,  e  di  tener  (rocchio  lo  scoglio 
per  non  investirlo  (211)  sgg.).  Il  y.a%vóg  ed  il  v.v\ia  sono  perciò  da  una 
parte,  lo  scoglio  dall'  altra.  Qual  è  questo  scoglio  "ì  Quello  di  Scilla,  a 
quanto  sembra;  ed  in  vero ,  Ulisse  dice  immediatamente  dopo  (223) 
che  egli  tacque  il  nome  di  Scilla  per  non  sgomentare  la  sua  ciurma. 
Il  xccjivóg,  il  %v{ia,  il  Òovxog  son  dunque  dalla  parte  di  Cariddi  :  infatti, 
quando  questa  vomitava,  l'acqua  ribolliva  tutta  (il  xv(iu),  e  gii  spruzzi 
giungevano  alla  sommità  degli  scogli  (il  xaTtvóg);  quando  poi  riassorbiva, 
la  rupe  rimbombava  spaventosamente  tutt'intorno  (il  óovTtog);  vv.  237 
sgg.  Le  Planktai  così  svaniscono  :  la  lezione  óxojtélcov  invece  di  6xo- 
Tcélov  che  dopo  il  Wolf  alcuni  hanno  adottata,  non  riuscirebbe  neppur 
essa  a  farle  trovare,  e  non  è  strano  che  ci  sia  chi  interpreti  questo 
luogo  nel  senso  che  Ulisse  non  sia  passato  dalle  Planktai. 

Tale  interpretazione  è  altronde  legata  al  valore  che  bisogna  dare 
alle  «  due  vie  »  di  cui  Circe  fa  menzione  ad  Ulisse.  Dopo  aver  parlato 
delle  Sirene,  essa  dichiara  che  non  dirà  stzsltcc  duivszécog  quale  delle 
due  vie  (òjt7tot£Qì]...  òòóg)  questi  dovrà  percorrere  :  lo  esorta  a  pensarci 
su;  essa  parlerà  à^cpotsQadsv  (57-58).  Quindi  descrive  le  Planktai,  Scilla 
e  Cariddi.  Le  due  vie  son  quella  delle  Planktai  da  una  parte,  e  quella 
di  Seilla-Cariddi  dall'altra  '!  così  si  potrebbe  credere  dall'  tvftev  [iév 
con  cui  comincia  la  descrizione  delle  Planktai;  ma  chi  interpreta  così,  è 
altronde  obbligato  ad  ammettere  che  il  contrapposto  è  poco  evidente  al 
principio  della  descrizione  di  Scilla  e  Cariddi,  v.  73.  È  coi  versi  108-110 
che  Circe  dà  il  consiglio  che  al  primo  momento  aveva  differito  \  Ulisse 
passerà  tra  Scilla  e  Cariddi,  ittter  geminae  confinici  mortis  :  s'egli  ap- 
pressa a  Scilla,  va  incontro  alla  perdita  di  sei  compagni;  se  piega  dal 
lato  di  Cariddi  ,  il  disastro  è  inevitabile;  neppur  il  dio  del  mare  lo 


1  Cfr.  Schol.  BQ.  ix  rfjg  6vyKQ0v6sag  ned  itccQccTQiipsag   x&v   TJX  ce  yv.r  wv. 

2  La  dichiarazione  di  Circe,  (i  56  h'frcc  roi  ovnér'  iciteixa  dirjvsxécog  àyogevoa 
e  sgg.  è  necessaria,  servendo  a  spiegare  perchè  la  dea  si  fermi  a  dare  ad  Ulisse 
un'ampia  descrizione  dei  vari  pericoli ,  anziché  limitarsi  ad  indicare  la  via  da  se- 
guire. Tale  dichiarazione  sarehbe  immediatamente  violata,  se  ella  dicesse  ad  Ulisse 
quel  che  le  fanno  dire  i  versi  brutti  e  in  parte  oscuri  81-84,  i  quali  si  accordano 
male  coi  vv.  108-110.  Sembra  che  essi  siano  il  prodotto  di  due  interpolazioni  suc- 
cessive, le  quali  sono  denunziate  dal  vr\a  %aqà  ylacpVQjjv  del  v.  82  e  dall'ex  viqòg 
yloxpvQfìs  del  verso  seguente.  Ili  origine  al  v.  80  seguiva,  come  io  giudico,  F85, 


SIKELIKA.  233 


può  salvare.  Circe  consiglia  perciò  ad  Ulisse  di  seguir  la  prima  via,  ra- 
sentare, cioè,  Scilla  (atCQS&léav  108)  :«  meglio  perder  sei  compagni  che 
perderli  tutti  !  ».  È  quello  che  Ulisse,  come  abbiamo  veduto,  ordina 
al  timoniere,  ed  il  timoniere  eseguisce  :  egli  perde  sei  compagni,  ma 
si  salva  col  resto  dell'equipaggio. 

Le  Planktai  dunque  rimangono  estranee  alle  due  vie  annunziate 
da  Circe.  Essa  ha  detto  che  nessuna  nave  è  uscita  salva  da  quelle, 
eccettuata  la  Argo,  che  godeva  della  protezione  speciale  di  Ilera  :  ep- 
pure, non  ha  indicato  il  modo  di  evitarle  o  di  superarle  ,  uè  Ulisse 
ha  pensato  a  domandarlo.  Tutto  ciò  dimostra,  se  io  inni  erro,  che  la 
descrizione  delle  Planktai  non  appartiene  al  discorso  originario  di 
Circe,  ma  vi  è  stata  inserita  dopo;  ne  è  necessario  supporre  che  il 
principio  del  verso  73  sia  stato  ritoccato  in  seguito  a  tale  inserzione  '. 

Queste  Planktai  ,  a  fianco  delle  (piali  sarebbe  passata  Argo  re- 
duce da  Aietes,  sono  identiche  alle  Kyaneai  che  troviamo  poi  localiz- 
zate nel  Bosforo.  Ogni  dubbio  su  questo  riguardo  è  escluso.  Le  Kyaneai 
venivano  genericamente  designate  come  «  scogli  erranti  (planktai)  »  ~; 
esse  ricevono  nella  letteratura  le  designazioni  specifiche  di  tft'j'ó^ouor 
o  óvvoQ^idÒag,  più  tardi,  sembra,  quella  di  óviixirjyddes  !.  Ma  l'unità 
di  origine  delle  Kyaneai  e  delle   Planktai  non  sfuggiva  tra  gli  antichi 


1  In  questa  descrizione  vi  hanno  frasi  e  versi  presi  a  prestito  in  maniera  poco 
abile.  Il  v.  59  7tétQui  tnt^ecpteg  è  tolto  da  v.  131  èytrìQscféug...  ntrgug.  Ma  in  questo 
luogo  1' t7tì]Q£(fì}g  si  comprende  perfettamente  :  Ulisse,  in  fatti,  si  è  allontanato  da 
un  porto  profondo,  a  bocca  angusta,  chiuso  da  alte  rupi  (x  87-90),  in  modo  da  poter 
essere  paragonato  ad  una  spelonca.  Ma  un  tale  epiteto  è  fuor  di  proposito  nella  de- 
scrizione che  Cuce  fa  delle  Plauktai.  Anche  il  v.  til  sembra  un'  imitazione  poco  op 
portuna  di  x  305  :  qui  si  tratta  di  un'  erba  che  Ulisse  non  conosceva  ,  e  quindi 
non  poteva  chiamarla  se  nou  col  nome  che  aveva  sentito  pronunziare  al  dio.  Kel- 
1*11.  A  103  la  doppia  nomenclatura  è  giustificata  dal  fatto  che  un  mortale  parla 
ad  una  dea;  ed  anche  negli  altri  casi,  il  poeta  vuole  spiegare  certe  diploniinie  at- 
tribuendo ad  uno  dei  due  vocaboli  un'origine  divina.  Il  Xlg  TtttQi]  del  v.  (54  è  forse 
nato  sotto  1'  intlueuza  del  v.  79  ,  luogo  in  cui  tale  espressione  è  opportuna  più 
che  altrove,  poiché  spiega  come  la  Scilla  Tcergah]  sia  al  sicuro  da  ogni  offesa  da 
parte  di  chi  volesse  assalirla  dallo  scoglio  sotto  cui  essa  vive.  I  versi  445-G  erano 
già,  e  con  piena  ragione,  segnati  di  atetesi  dagli  antichi.  Il  poeta  accompagnava, 
o  meglio  ,  riconduceva  Ulisse  di  nuovo  alla  Cariddi  :  non  era  necessario  di  farlo 
trovare  di  nuovo  anche  innanzi  alle  Planktai,  se  non  era  stata  tirata  in  scena  nep- 
pure Scilla. 

2  Erodoto  IV  84  ini  tug  Kvuvéccg  xcdsvuèvccg,  rag  ■zqÓteqov  TcXayxràg  ~'EXXt]vég 
(fuOi  {irai.  Cfr.  ancora  Arriano  ]'er.  Poni,  h'u.r.  37  livrea  ed  Kvàvsui  eloiv  ug  Xtyovciv 
oi  Ttoir^al  TcXccyxràg  nàXcci  sivcci.  Cfr.  Plinio  n.  h.   XI   13,  32. 

3  V.  Pind.  Pyth,  W  210  sg.  (370  sg.)  ;  Simon,  fr.  22  (Scbul.  Eur.  lied.  2): 
Symplegades  appare,  se  non  erro,  la  prima  volta  in   Euripide,   Mal.  2,   1203. 


234  M.    COLUMBA.  PARTE   I. 


neppure  ai  critici  meno  perspicaci  l.  L'isola  Aiaie,  dove  abitava  Circe, 
è  l'Aia,  abitata  dal  fratello  di  lei,  Aietes.  Se  Argo  %uq'  Ah'\xao  Jtléovóa 
era  passata  presso  alle  petrai  Kyaneai-planktai,  doveva  passar  presso  a 
quelle  anche  la  nave  di  Ulisse,  che  tornava  dalla  stessa  terra.  L'interpo- 
lazione delle  Planktai  nel  testo  omerico  si  spiega  quindi  facilmente,  tanto 
più  che  l'enumerazione  che  Ulisse  fa  dei  pericoli  superati,  v.  200  sg. 
S7id  Ttéryctg  (pvyo^isv  deivYjv  te,  XccQvfidiv  |  2Jxvllijv  te,  dava  adito  a 
pensare  che  le  petrai ,  anziché  essere  gli  scogli  medesimi  di  Scilla  e 
Cariddi  (cfr.  79;  231;  233;  241;  255),  dovessero  essere  qualche  cosa 
di  diverso  da  queste  due:  e  altronde  il  testo  omerico  lasciava  credere, 
come  s'è  veduto,  che  Ulisse,  prima  di  Scilla  e  Cariddi,  si  fosse  trovato 
innanzi  ad  un  altro  pericolo,  il  quale  doveva  essere  appunto  quello  co- 
stituito dalle  petrai.  E  si  noti  che  la  descrizione  delle  Planktai  è  stata 
collocata  per  intero  nel  discorso  di  Circe  :  ciò  prova  che  1'  esistenza 
di  questi  scogli  si  riguardava  come  sufficientemente  documentata  dal 
verso  202  nella  narrazione  del  viaggio  di  Ulisse,  e  solo  faceva  specie 
di  non  trovarne  alcun  cenno  tra  gli  ammonimenti  dati  in  precedenza 
dalla  dea.  C  era  lì  dunque  una  lacinia  che  il   poeta  volle  colmare. 

Fin  (pii  si  può  pensare  che  questa  interpolazione  abbia  tratta  la 
sua  ragione  di  essere  dal  solo  testo  omerico.  Ma  nella,  descrizione  delle 
Planktai  vi  ha,  coni'  è  noto,  un  tocco  estraneo  del  tutto  alla  tradizione 
relativa  alle  Kyaneai  :  esso  sta  nella  frase  v.  08  jivgòg  %  òloio  fì-vèllai, 
colla  «piale  i  commentatori  hanno  messo  a  confronto  il  xaxvóg  di  v.  202 
e  219.  Tra  gli  scoliasti  alcuni  intendono  questo"  xaitvóg  nel  senso  di 
nuvola  di  spruzzi  ,  altri  invece  interpretano  in  senso  proprio  ,  come 
fumo,  osservando  che  Omero  parla  sixÓTcog  di  questo,  perchè  di  giorno 
il  fuoco  non  era  visibile  2.  Quest'ultima  interpretazione  è  la  più.  antica 
che  noi  conosciamo  :  è  quella  data  da  Timeo  e  da  Apollonio  Rodio,  IV 
922-27  il  quale  ha  ampliato  il  motivo  omerico  colla  descrizione  di  fe- 
nomeni vulcanici.  Ora,  nulla  di  simile  è  a  noi  noto  delle  Kyaneai;  e 
se  non  abbiamo  tutto  il  materiale  desiderabile  per  tale  verifica,  pos- 
siamo mettercene  il  cuore  in  pace,  poiché  neppure  Timeo  aveva  no- 
tizia di  un  tal  fatto,  e  ciò  lo  convinceva  che  le  Planktai  non  erano 
le  Kyaneai  del  Bosforo,  e  quindi  gli  Argonauti  non  erano  andati  e 
tornati  per  la  stessa  via  3. 


1  Strab.  Ili  2  ,  149'  :  rat?  Sh  Kvccvéoug  ènolr]6£  (Omero)  itaqaTtlì]6Ì(as  vecg 
niayKtdg,  xrè.  Cfr.  I  2,  21<\ 

2  Schol.  BQ.  ad  v.  —  Scliol.  V  ibd. 

3  Thanm.  ak.  105.  Questa  narrazione  è  stata  rivendicata  a  Timeo  dal  Geffcken, 
Timaios'  Gcogr.  des  Western  1892,  p.  131.  Cfr.  Schol.  Apoll.  IV  786.  La  localizza- 
zione è  data  dai  due  escerptori  con  poca  precisione.    Pisistrato    Lipareo  secondo 


PARTE   I.  SIKELIKA.  235 

Questo  accenno  a  fenomeni  vulcanici  che  1'  interpolatore  ha  messo 
nella  sua  descrizione  delle  Planktai  v.  68  ,  presuppone  1'  interpre- 
tazione del  y.uTtvóg  di  202  nel  senso  proprio  di  fumo,  e  non  si  spiega 
se  non  si  ammette  che  la  Cariddi  t'osse  già  localizzata  nello  Stretto 
di  Messina.  Qui  la  natura  dei  luoghi  completava  la  suggestione  del 
testo  omerico  ,  rievocando  le  planktai  ,  le  quali  riflettono  l' illusione 
ottica  di  chi  navighi  per  le  acque  di  uno  stretto  di  qualche  estensione. 
La  descrizione  che  Giustino  fa  di  questa  illusione  sullo  Stretto  di  Mes- 
sina è  un  po'  intenzionalmente  adattata  alla  tradizione  delle  Symple- 
gades,  ma  ha  molto  di  vero  l.  Nessun  lettore  spregiudicato,  poteva 
vedere  nel  xanvóg  e  nel  dovTCog  del  verso  202  altro  che  l'effetto  del 
battere  dell'onda  sugli  scogli  :  ma  sullo  Stretto  di  Messina,  al  cospetto 
dell'attività  vulcanica  «Ielle  isole  di  Lipari,  la  quale  sino  al  I  sec.  a.  Cr. 
fu  ben  altrimenti  poderosa  che  non  adesso  z,  queste  parole  assumevano 
un  significato  diverso;  esse  passavano  dalla  figura  retorica  alla  realtà. 
I  due  fenomeni  si  univano  a  formare  un  fantasma  unico  :  le  planlctai 
fumanti.  Queste  interpretazioni  dovute  a  ragioni  locali  son  necessarie 
a  presupporre,  perchè  sia  possibile  <li  spiegare  come  e  perchè  nell'in- 
serire  la  descrizione  delle  Planktai  di  Argo  il  poeta  omerico  abbia 
aggiunte»  a  queste  il  tocco  delle  «  procelle  di  fuoco  »,  ampliando  il  mo- 
tivo del  xuxvóg  del  v.  202,  interpretato  così,  come  solo  sullo  Stretto 
di  Messina  era  possibile  interpretarlo.  Si  comprende  che,  una  volta 
passata  nel  testo  omerico  questa  interpolazione,  l'interpretazione  alle- 
gorica del  xcatvóg  abbia  perduto  terreno.  Tuttavia  essa  è  così  natu- 
rale, che  non   fu  mai  abbandonata   del  tutto. 

Le  Planktai  si  confusero  perciò  con  le  isole  di  Lipari:  questa  iden- 
tificazione e  ben  nota  ad  Apollonio  che  fa  manifesta  allusione  a  f/f^« 
'HcpccCtirov  o  (-)éoub()6a  (v.  027  'HcpaCótov  d'SQuìjv...  àvt^v;  cfr.  II  42 
in'tóoio  TtXccyxtfig).  Senonchè,  in  grazia  all'autorità  di  Omero,  il  nome 
Planktai  rimase  come  proprio  delle  Kyaneai  presso  Scilla  e  Cariddi,  e 
non  venne  adoperato  nella  letteratura  come  designazione  speciale  delle 
Kyaneai  del  Bosforo;  in  pari  modo,  poiché  Omero  faceva  passare  Argo 
per  le   Planktai.  diversificate  già  dalle  Kyaneai,  la  leggenda  di  Argo  si 


ogni  probabilità  era  citato  da  Timeo  —  difficile  supporre  il  contrario  —  ed  appar- 
tiene perciò  al  IV  sec.  a.  Cr.  —  La  fiamma  di  cui  Val.  Fiacco,  Arg.  IV  6f>0  non 
ha  che   fare  con   fenomeni   vulcanici;  essa  è  soltanto  un   effetto  della  collisione. 

1  Cfr.  Giust.  IV  1,  18  (dello  Stretto  di  Messina)  :  coeuntibus  in  se  promitntnriis 
ac  rarsas  dincedentibus  solida  intercidi  abnumiqne  narigia...  discederc  ac  seiungi  pro- 
munturia  quae  ante  i  un  età  fuerint  arbitrere.  Cfr.  GenVken,  o.  e.  p.  122.  Del  resto,  fra 
i   poeti   romani   le  Planktai  son  descritte  coi   caratteri  della  Symplegades. 

2  Oros.  IV  20,  Liv.  XXI    ti);  51;   Strab.  VI  2,  27»;'   (Polib.)  277''  (l'osi, 1.). 


236  M.    COLUMBA.  PARTE  al. 

amplificò,  e  Giasone  passò  egualmente  per  le  Kyaneai  del  Bosforo  e  le 
Planktai  dello  Stretto  l. 

La  descrizione  «Ielle  Planktai  è  naturalmente  anteriore  al  verso 
i\)  ;^1Ì7-_Ì<S  in  parte  calcati  sul  verso  fi  2(50  sg.  Noi  dobbiamo  tornare 
un  momento  ai  versi  v  383  sg.  dei  (piali  abbiamo  parlato  (cfr.  p.  230sg.). 
11  consiglio  che  uno  dei  proci  dà  a  Telemaco  di  andare  a  vendere  i 
due  ospiti  molesti  presso  i  Siculi,  è  modellato  sulla  minaccia  di  Antinoo 
ad  Iros  6  84  sg.  da  confrontare  con  quella  fatta  dallo  stesso  ad  Ulisse 
qp  307  sgg.  Nell'uno  e  nell'altro  caso  Antinoo  dichiara  di  voler  but- 
tare l'importuno  in  una  nave,  e  mandarlo  ùg"Ex£tov  fia(5iXì]u.  11  poeta 
di  v  383  sg.  che  aveva  in  mente  la  formula  di  questa  minaccia,  e  la 
copiava,  ha  fatto  però  una  modificazione:  alle  parole  sig  'E%etov  Tié^a- 
li8v  che  dovevano  naturalmente  venirgli  in  bocca,  egli  ha  voluto  sosti- 
tuire èg  ZJixelovg  Tté^co^isv.  Abbiamo  qui  la  prova  che  il  poeta  aveva 
il  proposito  cosciente  di  tirare  i  Siculi  entro  il  campo  d'  azione  del- 
l'Odissea. Lo  stesso  va  detto  della  2Jucelri  che  troviamo  menzionata  ai 
servizi  di  Laerte  (co  211,  3(><>,  389)  e  che  in  a  191  è  soltanto  mia  vec- 
chia serva. 

Ma  col  sostituire  i  Sikeloi  ad  Echetos,  il  poeta  omerico  ha  osser- 
vato in  pari  tempo  come  sia  poco  plausibile  il  consiglio  di  intraprendere 
un  viaggio  per  castigare  un  importuno,  che  pur  si  aveva  fra  le  mani, 
o  per  offrire  ad  un  barbablen  il  gusto  di  eseguire  una  mutilazione.  Un 
viaggio,  e  un  viaggio  per  mare  in  ispecie,  non  s' intraprendeva  per 
un  capriccio  siffatto  :  onde  il  nuovo  poeta  ha  cercato  1'  adattamento 
più  verosimile  dell'antica  minaccia,  ed  ha  sostituito  alle  improficue 
sevizie  il  concetto  più  pratico  di  una  operazione  commerciale:  odsv  %é 
tot,  a\,iov  aXcpoiv.  La  sede  più  opportuna-  per  tale  mercato  è  stata  da 
lui  cercata  fra  i  Siculi  anziché,  com'era  da  attendersi,  in  altra  piazza 
della  Grecia,  dove  i  prezzi  degli  schiavi  non  dovevano  essere  meno  alti. 
Egli  pensava  senza  dubbio  ai  Sikeliotai  ,  ma  non  poteva  ammettere 
che  i  Greci  fossero  allora  passati  nell'isola;  e  altronde  questa  era  per 
lui  il  campo  di   azione  dell'Odissea,  verso  l'occidente  \ 


1  L'aiuto  di  ITera  ,  il  particolare  delie  colombe  accennato  in  Omero,  si  tro- 
vano ancora  ,  in  forma  più  o  meno  diversificata  ,  nella  tradizione  posteriore  del 
passaggio  di  Argo  per  le  Kyaneai  del  Bosforo. 

2  La  leggenda,  di  cui  ci  dan  testimonianza  tardivi  eruditi,  che  Echetos  sia 
stato  un  re  dei  Siculi,  è  sorta  da  una  combinazione  dei  luoghi  omerici  qui  esa- 
minati, giacché  la  maniera  analoga  in  cui  son  formulate  le  due  minacce  di  Antinoo 
e  il  consiglio  dato  a  Telemaco  iuduceva  a  credere  che  si  trattasse  sempre  dello 
stesso  luogo.  Ma  il  nomo  Bnchetos  che  sarebbe  stato  il  padre  di  Echetos,  prova, 
come  è  stato  già  veduto,  che  quest'ultimo  in  origine  era  localizzato  in  Tesprozia, 
e  solo  in  seguito  se  ne  fece  un  re  dei  Siculi. 


PARTE    I. 


8IKKLIKA.  23? 


Quanto  alla  parola  Sikanie  co  M)l  essa  esige  una  discussione  più 
lunga  di  quel  che  io  possa  consentirmi  in  questo  articolo.  Quel  che  sin 
qui  si  è  detto,  è  sufficiente  a  dimostrare,  io  credo,  che  l'Odissea,  come 
adesso  l'abbiamo,  porta  le  tracce  della  mano  di  un  poeta  il  quale  ha 
tenuto  a  mettere  la  Sicilia  in  rapporto  coi  viaggi  di  Ulisse  ,  ed  ha 
introdotto  nel  u  la  descrizione  del  Planktai  seguendo  interpretazioni 
e  localizzazioni  dell'antica  Odissea  che  dovevano  esser  proprie  dei 
Greci  di  Sicilia,  e  specialmente  delle  colonie  calcidiche  dello  Stretto. 
Esso  è  uno  degli  ultimi  poeti  della  Odissea,  perocché  alcuni  di  questi 
accenni  mostrano  una  fase  tardiva  del  mito;  la  menzione  dei  Siculi  fa 
parte  dell'episodio  di  Teoclimeno,  ne  si  può  escludere  che  la  descri- 
zione delle  Planktai  in  fi  sia  della  stessa  mano  a  cui  appartiene  il 
cenno  f  327,  il  quale  si  lega  a  (incile  ultime  parti  dell'Odissea,  che  già 
gli  antichi  escludevano  dal  poema,  ed  al  più  può  esser  nato  insieme 
con  esse.  Ammettere  l'esistenza  di  un  tale  omeride  nel  VI  sec.  a.  Or. 
non  dovrebbe  parere  strano,  anche  se  noi  non  avessimo  altronde  notizia 
di  omeridi  venuti  in  quel  secolo  a  «  rapsodia-re  »  i  poemi  omerici  in 
Sicilia  l. 

L'identificazione  delle  Planktai  con  le  isole  di  Lipari  doveva  tra- 
scinarne con  se  un'altra  :  quella  di  una  delle  Liparee  con  l'Eolia,  Pisola 
TcXconj  del  tesoriere  dei  venti.  Le  due  identificazioni  erano  tanto  più 
facili,  in  quanto  le  Planktai  dovevano  essere  considerate  come  isole 
non  meno  che  come  scogli,  al  pari  delle  Kyaneai,  le  quali  oltre  che 
TtétQai  sono  anche  viféoncfr.  Erodoto  IV  85.  Ora,  un'isola  Ttlar^j  do- 
veva essere  naturalmente  anche  un'isola  TÙayy.tì}.  Una  traccia,  breve 
ina  eloquente,  di  questo  processo,  rimane  nel  mito  (die  dà  alla  moglie  di 
Eolo  il  nome  di  Kyane.  Questo  nome  resta  esotico,  in  mezzo  all'amplifi- 
cazione del  unto  suddetto,  la  quale  toglie  i  suoi  elementi  da  nomi  lo- 
cali, come  Tirreno,  Liparo,  Ausono  ';  esso  non  è  spiegabile  se  non  si 
ammette  la  piena  coscienza  dell'identità  delle  Kyaneai  colle  Planktai,  se 


1  Ippostrato  in  Schol.  Pinci.  Xeni.  II  1  (ofr.  Miiller  F.h.G.  Ili  133  .  K  inve- 
rosimile elio  Kynaithos  sia  sta  tu  «  il  primo  (!)»  a  rapsodiare  i  poemi  omerici  a  Si- 
racusa nella  69a  olimpiade  ,  e  die  egli  era  stato  a  capo  di  una  fiorente  scuola  di 
omeridi,  i  quali  avrebbero  portato  un  largo  contributo  alla  formazione  dei  due  poemi. 
Lo  homeriJiOtato*  Stesicoro  basterebbe  a  metter  fuori  di  questione  la  conoscenza  dei 
poemi  omerici  in  Sicilia  al  principio  del  VI  sec.  a.  C.  Il  Welcker  ha  corretto  il 
G9a  in  19a  e  il  Diintzer  in  29a.  Tuttavia,  escluso  l'errore  del  «  primo  »,  non  avrebbe 
per  me  nulla  d'inverosimile,  che  la  recitazione  di  Kynaithos  in  Sicilia  e  il  fiorire 
della  sua  scuola  possano  riportarsi  al  mezzo  del  VI  secolo.  K  probabile  che  si  tratti 
di  un  vero  errore  della  fonte  dello  scoliaste,  anziché  di  un  errore  meccanico  di  lettura. 

2  Cfr.  Diod.  V.   7;  Schol.  Aen.  I  52. 


238  M.   COLUMBA.  PARTE  I. 

non  ci  riportiamo,  cioè,  ad  una  forma  della  tradizione  che  non  conciliava 
ancora  le  due  versioni  della  leggenda  degli  Argonauti  lasciando  le 
Kyaneai  al  Bosforo  e  le  Planktai  allo  stretto  di  Messina.  La  identi- 
ficazione di  una  delle  isole  di  Lipari  con  F  isola  di  Eolo  prevalse,  e 
finì  man  mano  con  occupare  tutte  le  planktai,  che  divennero  «  isole  di 
Eolo  ».  Senonchè  il  fumo,  costante  testimone  dell'  attività  vulcanica, 
portò  a  fianco  di  Eolo  un  rivale,  liephaistos,  che  s'impadronì  di  una 
di  esse  e  le  diede  il  suo  nome. 

Ma  l'opera  dell'omeride  inteso  a  localizzare  il  paesaggio  dell'O- 
dissea in  Sicilia,  non  si  è,  come  io  credo,  arrestata  ai  luoghi  sopra 
esaminati.  Due  sono  le  terre  che  nei  viaggi  di  Ulisse  risultano  come 
situate  in  maniera  determinata  in  occidente  :  l'isola  di  Eolo  e  l'isola 
di  Calipso.  Eolo  chiude  nell'  otre  il  corso  dei  venti  «  mugghianti  », 
fivutaav  àvé[i(ov  {%  20)  :  dovremmo  aspettarci  quindi  che  siano  lasciati 
fuori,  genericamente,  i  venti  buoni  a  navigare  ,  quegli  ovqol  che  scor- 
tano le  navi  pel  vasto  dorso  del  mare  ,  noti  anche  alla  Telemachia 
(d  360  sg.).  invece,  i  versi  25-26  ci  dicono  clic  il  vento  lasciato  libero 
è  un  solo1,  e  questo  il  Zefiro,  che  nel  concetto  dell'antico  poeta  ap- 
partiene appunto  alla  categoria  dei  venti  «  mugghianti  »,  ed  è  rap- 
presentato come  un  vento  pericoloso,  temuto  dai  navigatori,  indocile 
persino  alla  volontà  degli  dei  2.  Solo  una  forte  preoccupazione  di  sta- 
bilire la  posizione  di  Eolo  in  occidente  ,  preoccupazione  estranea  al- 
l'antico poeta,  può  aver  dettato  quei  due  versi,  che  sono  in  conflitto 
colla  maniera  in  cui  egli  concepiva  il  carattere  e  la  funzione  dei 
venti.  —  L'  antico  mito  conosce  altre  isole  natanti  oltre  a  quella  di 
Eolo  :  sono  le  piotai ,  abitate  dalle  Arpie  ,  la  cui  natura  di  demoni 
dei  venti  non  ha  bisogno  di  esser  dimostrata.  Forse  anzi  ,  coni'  io 
credo  ,  la  vijóog  uìoUij  esisteva  già  prima  che  sorgesse  un  Aiolos  a 
spiegarne  il  nome.  Ora  così  le  Arpie,  che  infliggono  il  supplizio  della 
fame  all'indovino  trace  Fineo,  e  sono  perseguitate  dai  figli  di  Borea, 
il  vento  di  Tracia,  come  i  nomi  affini  ad  Aiolos  (Aiolion  etc.)  ci  ri- 
conducono all'  Egeo  settentrionale  ed  alle  coste  della  Tracia.  Le  piotai 
delle  Arpie  si  trovavano  in  fatti  nell'Egeo  prima  ch'esse,  identificate 
<-on  le  Strofadi,  passassero  nel  Mar  Siculo;  e  colle  altre  Piotai  doveva 
trovarsi  originariamente  nell'Egeo  anche  la  Piote  aiolie  sede  di  Eolo.  Si 


1  Ben  diversamente  s  383  (Athenaie)  t&v   aXXcav  àvé^iav  y,axk8r\6£  xslsv&ovg 
(cfr.  x  20)  385  oìqGs  ò'ènì  xgantvòv  Boqst}v.  —  Il   verso  x  25  assuona  a  y  133. 

2  Cfr.  Bnchbolz  ,  hom.  lieal.  II  1  p.  24.   —  Basterà  considerare  come  questo 
vento  è  raffigurato  in  /x  408;  426;  e  286-90. 


PARTE   I.  SIKKI.IKA.  239 

comprende  perciò  quale  ragione  abbia  potuto  ispirare  quei  «lue  fersi 
intesi  ad  assicurar  bene  il  posto  dell'isola  di  Bolo  in  occidente  l. 


1  Secondo  s  271  sgg.,  Ulisse,  partito  dall'isola  di  Calipso,  non  chiude  più  gli 
occhi  al  sonno,  intento  a  fissar  le  Pleiadi  e  Boote,  e,  se  si  vuole,  il  carro  e  Orione 
(i  vv.  273-75  sono  derivati  da  E  478-489);  e  un  viaggio  così  fatto  sarebbe  durato  17 
giorni  ed  altrettante  notti,  poiché  al  diciottesimo  giorno  l'eroe  si  trova  a  vista 
della  terra  dei  Feaci  (vv.  278-80).  È  evidente,  ed  è  stato  da  lunga  pezza  notato, 
che  questi  due  particolari  non  possono  stare  insieme,  non  possono  derivare,  cioè, 
dallo  stesso  poeta  :  chi  narrava  che  Ulisse  non  aveva  preso  sonno  nella  notte,  non 
poteva  altresì  supporre  un  viaggio  così  lungo  (Seeck,  o.  e.  p.  184  [cfr.  anche 
Doerpfeld,  1.  e.  p.  110]).  Quali  ragioni  potevano  indurre  un  omeride  a  rissar,  senza 
necessità  alcuna,  una  tale  durata  al  viaggio  di  Ulisse?  La  ragione,  anzi  la  ne- 
cessità, che  non  si  trova  nel  testo  medesimo  del  poema  ,  potrà  trovarsi,  io  credo, 
fuori  di  esso,  se  si  ammette  che  per  questo  poeta  la  Cariddi  era  localizzata  nello 
Stretto  di  Messina  e  l'isola  di  Eolo  era  una  delle  Liparee.  Una  navigazione  fatta 
senza  chiuder  occhio  la  notte,  doveva  esser  pensata  come  relativamente  breve,  e 
questo  appunto  consigliava  il  poeta  ad  intervenire,  per  coordinare  la  narrazione  alle 
sue  vedute  geografiche.  Ulisse  naviga  èvvfjtiaQ  per  raggiungere  da  Cariddi  l'isola 
di  Calipso  (ft  447),  ed  èvrijuaQ  aveva  navigato  dall'isola  di  Eolo,  quando  si  trovò, 
al  decimo  giorno  ,  a  vista  di  Itaca  (jc  28-29)  ;  la  distanza  dal  paese  dei  Feaci  a 
quest'isola  è  breve,  egli  la  percorse  in  una  notte,  in  una  sola  tirata  di  sonno 
(v  35;  94-95).  La  distanza  da  Ogygia  ad  Itaca  importava  adunque  18  giorni  e  al- 
trettante notti  di  navigazione  ,  onde  Ulisse  non  poteva  trovarsi  in  prossimità  della 
terra  dei  Feaci  se  non  al  diciottesimo  giorno;  senza  la  tempesta,  al  mattino  del  giorno 
seguente  si  sarebbe  trovato  sulla  costa  di  Itaca.  Tale  ipotesi  ,  è  ,  a  parer  mio, 
avvalorata  dai  vv.  s  276-77  che  tengon  dietro  all'enumerazione  delle  stelle  tenute 
d'occhio  da  Ulisse,  per  aggiungere  che  Calipso  aveva  raccomandato  all'eroe  di 
navigare  sempre  in  modo  da  averle  alla  sinistra,  e  manifestano  anch'  essi  la  preoc- 
cupazione di  stabilir  bene  il  posto  di  Ogygia  nel  lontano  occidente.  Questi  versi 
erano  già  al  loro  posto,  quando  venne  introdotta  la  narrazione  di  r\  241-297  alla 
quale,   naturalmente,  doveva  esser  coordinata  la  tino  della  narrazione  in  a  450  sgg. 

Come  si  comprende  ,  nessuno  può  affermare  che  questi  ritocchi  siano  opera  di 
uno  anziché  di  più  poeti,  fautori  della  stessa  concezione  geografica  dei  viaggi  di 
Ulisse.  Si  può  certo  osservare  che  questo  poeta  o  questi  poeti  han  lasciate  sussi- 
stere parecchie  altre  difficoltà  per  la  loro  tesi,  e  non  hanno  eliminata  una  di  esse 
senza  creare  un'enorme  inverosimiglianza.  Ma  la  risposta  è  ovvia,  ed  io  la  trovo 
così  ben  formulata  da  altri,  che  posso  risparmiarmi  la  fatica  di  farlo  io:  il  destino 
di  ogni  opera  siffatta  ,  messa  in  servizio  di  una  tesi  determinata,  è  stato  sempre 
questo,  di  non  rimuovere  una  dillicoltà  senza  lasciarne  inavvertite  altre  più  grandi, 
e  senza  crearne  qualche  volta  ancora  di  nuove. 

Palermo. 

Gaetano  Mario  Columba. 


ISCRIZIONE  CRISTIANA  DI  CO/AISO. 


In  quella  parte  dell'  ex  feudo  Boscorotondo  che  vien  chiamata 
Serracarcara,  si  è  accertata  per  casuali  scoperte,  l'esistenza  di  una 
necropoli  greca ,  alcune  tombe  della  quale  ,  come  da  varii  indizii  si 
rileva,  vuotate  posteriormente,  furono  usate  dai  primi  cristiani. 

Da  una  di  queste  tombe  fu  tratto  verso  il  1837  un  lastrone  di 
pietra  arenaria,  misurante  m.  1,12  X  0,35  con  uno  spessore  di  cm.  18, 
portante  incisa  un' iscrizione  che  venne  pubblicata  dal  DeSpucches1 
il  (piale  vi  lesse  :  Tuvyùitii  iqijóxì]  e{ìUo(3ev  èri]  li].  Così  fu  riprodotta 
dal  Kaibel  IGS.  n.  255.  Lo  Schubring  2  lesse  invece  Evqóxi]  iQiptà 
èpicoóev  èxr\  u.  Ma  in  effetto  la  lapide  dice  : 


TAYPGOTTH 
XPHCTH 

ezHceeTH 

16 


XQrióxi] 
eyrjóe  sti] 


Questa  iscrizione  sembra  ,  ad  un  dipresso  ,  del  III  secolo  dopo 
Cristo  e  presenta  di  notevole  il  nome  della  defunta  ,  TavQÙTti]  che,  a 
quel  che  io  so,  non  ricorre  altrove. 


1  Bollettino  della  commissione  d'antichità,   I  (1864)  p.   13. 

2  In  Camarina  'Philolog.  XXXII)  pag.  58  della  trad.  di  A.  Salinas  (Arch.  Stor. 
Sic.,  anno  VI,  n.  3  e  4). 

3  II  resto  della  lapide  in  tempi  a  noi  vicini  fu  ricoperto  di  tentativi  di  ri- 
copiare l'iscrizione  stessa.  Essa  è  attaccata  al  muro  esterno  di  una  delle  case  rurali 
del  luogo  di  proprietà  del  Cav.  Spadaro  ,  ove  è  stata  sempre  ,  contrariamente  a 
quanto  dicono  e  il  De  Spucches  e  lo   Schubring. 

Palermo. 


Biagio  Pace. 


PARTE  SECONDA. 


16 


DI  ALCUNE  EPIGRAFI  SEPOLCRALI  ARABE 

TROVATE  NELL'  ITALIA  MERIDIONALE. 


Nell'ottobre  od  ai  primi  di  novembre  del  1008,  eseguendosi  nel 
rione  di  Chiaia  a  Napoli  alcuni  scavi  per  la  fognatura,  furono  dissot- 
terrate due  lapidi  sepolcrali  arabe  in  via  del  Vasto,  innanzi  al  giar- 
dino del  Principe  del  Vasto.   11  prof.  Michele  Scherillo  ebbe  la  cortesia 


Fi*.  17. 


d'inviarmi  la  piccola  fotografia  delle  lapidi  qui  riprodotta,  mediante 
la  quale  potei  decifrare  gl'alidissima  parte  «Ielle  iscrizioni.  Poco  dopo, 
un  eccellente  calco  eseguito  dal  dr.  (laido  della  Valle  mi  permise  di 
compiere  il  deciframento  '.  Ai  due  gentilissimi  informatori  porgo  qui 
vive  grazie. 


1  La  traduzione  <ìi  quanto  avevo  letto  in  «ine  riprese  e  comunicato  volta 
per  volta  al  prof.  Scherillo,  venne  da  lui  stampata  nel  suo  articolo:  Un'iscrizione 
araba  scavata  in  Xapoli  (Napoli  Nobilissima,  voi.  XIII.  fase.  IX,  settembre  190-1, 
p.  130-131). 


244  C.    A.    NALLINO.  PAKTE   II. 


La  lapido  che  nella  fotografia  appare  collocata  in  piedi  misura 
metri  1,02  per  0,30;  è  spezzata  in  due,  ma  i  due  pezzi  combaciano 
perfettamente.  Lo  scritto  è  sormontato  da  una  modanatura  ad  arco 
di  t'erro  di  cavallo  ,  simile  a  quelle  che  ricorrono  in  due  lapidi  sepol- 
crali del  474  dell'egira  (11  giugno  1081-31  maggio  1082)  riprodotte 
in  fototipia  dall'Amari  l.  È  la  foggia,  d'arco  che,  piuttosto  rara  presso 
gli  Arabi  d'Oriente  ,  ha  una  parte  importantissima  noli'  architettura 
arabica  dell'Africa  di  Nord-Ovest  e  della  Spagna  '.  —  La  scrittura, 
scolpita  in  rilievo  ,  conservata  ottimamente  ,  è  di  un  bel  cufico  non 
raro  nell'epigrafia  arabo-sicula  del  V  e  VI  secolo  dell'  egira.  Eccone 
la  trascrizione  in  caratteri  nashì  ,  aggiunti  i  punti  diacritici  che  man- 
cano tutti  nell'originale  : 

M  J.^  p-tó^Jf  (2)  ^jiì  M  ^.wo  (i) 

$     jJU^    *!Ì    J*£    (4)  3     0^:5?    ^jyJl    Jx    (3) 

^♦i'jjA.I    (M>5j.j*    l+jf^     (6)  O^lf    X&jfi    ^N^fti     (5) 

\x4-  k^*>   «L*Jf  i*j£  (<s)  -^j  rji  juLaJf   *jj  (7) 

L\£  j}jàl\    cU/0    yi  Li  (10)  ixJl    sLJi    L»3    j'is    jJii    (9) 

3  (j^A^àS.   j»jj  J.3.J'  (12)    xsuU*  ^(j/3^  OsjlaJf  -x5  (li) 

(j**à*.    JULw    j    r^'    ^5    (14)  iL^a.    ^      6^ì]    _&*Jf   (13) 

3  AÀlf  >)[  *!f  ^     J  i\^Aj  (16)  ji^   Xjl^^f^   cX^^3  (15) 

^j.*».}    sJ^aC    <A*2>?   (18)         „.fj    al    (iSo-Ài    ^    3l\:^  (17) 
„\\Jf   Là  ^f   iLftàifj  &5^JIj   (20)       *!  Lò^    ,5  LvaC  M  **.jS  (19) 

1.  In  nome  di  Allah  il  clemente, 

2.  il  misericordioso.  E  sia  propizio  Allah 

3.  al  profeta  Maometto  e 


1  M.  Amari,  Le  epigrafi  arabiche  di  Sicilia  trascritte,  tradotte  e  illustrate:  Parte 
seconda  ,  Iscrizioni  sepolcrali  ,  Palermo  1879-81  ,  tavola  I ,  ur.  4  ,  e  tav.  II  tir.  2 
(=  Documenti  per  servire  alla  storia  di  Sicilia  pubblicati  a  cura  delhi  Società 
Siciliana  per  la  storia  patria:  Terza  serie  (epigrafìa)  voi.  I,  fase.  1-2).  —  La  stessa 
forma  d'arco,  ma  costituita  da  una  leggenda  chiusa  fra  due  modanature,  ricorre 
in  una  lapide  del  5  gumàdà  II  524  (16  maggio  1130)  ;  ibid.  tav.  VI  ,  nr.  4.  — 
Limito  i  raffronti  alla  colle/ione  epigrafica  dell'Amari,  di  cui  questo  mio  scritte- 
rello  può  considerarsi  una  piccola  appendice. 

2  Cfr.   W.  et  G.  Marcais,  Les  monumenta  arales  de  Tlemcen,  Paris  1903,  p.  61-65. 


PAIttE   tt.  1>I   ALCCXE   EPIGRAFI   SEPOLCttAlt   AKAP.E.  245 

4.  alla  famiglia  sua  e  fioro]  accordi  la  saluto  [eterna]  l.   Ogni 
r>.  persona  assaggerà  la  morte. 

6.  Avrete  esattamente  i  guiderdoni  rostri  soltanto 

7.  il  giorno  della  risurrezione;  allora  ehi  verrà  scostato 

8.  dal  fuoco  [eterno]  e  introdotto  nel  paradiso 

9.  avrà  conseguito  la  felicità.  Xon  è  la  vita  ter- 

10.  rena  se  non  godimento  d'inganno  \   Questa  è 

11.  la  tomba  del  qà'id   Muiiriz  ibn  Halìfah. 

12.  Morì  il  giorno  di   giovedì,  nella 

13.  ultima  decade  di  gumàd  — 

14.  a  secondo,  nell'anno  cinque 

15.  e  sessanta  e  quattrocento.    Ed  egli 

L6.  attestava  che  non  v'è  altro  Dio  che  Allah  u- 

17.  nico,  il  quale  non  ha  soci,  e  che 

1<S.   Maometto  è  il  suo  servo  e  il   suo  inviato. 

li).  Abbia  quindi   Allah  misericordia    d'  [ogni    suo]    fedele  che 

legga  [quesf  epitafio]  ed  auguri  a  lui  ;{ 
20.  misericordia  e  perdono,  se  Allah   vuole. 

Xel  testo  arabo  ricorrono  tre  errori  da  porsi  a  carico  del  lapi- 
cida: il  i^.:  della  7a  linea,  in  luogo  di  _  i^.;  ;  il  nominativo  lN.,*^ 
invece  dell'accusativo   |l\+2>^  nella   linea    I8a  ;   inline  il    -J    in   luogo 

di   Ljj  nella    L9a. 

Del  personaggio  qui  nominato  non  trovo  menzione  altrove  ;  pure 
e  la  bellezza  della  lapide  e  il  titolo  di  qà'id  sembrano  attcstarci  ch'egli 
dovette  essere  persona  di  qualche  conto.  Etimologicamente  qà'id  si- 
gnifica «  colai  che  conduce,  condottiero  »  :  e  nell'ordinamento  militare 
dei  califfi  'abbàsidi  designava   il  comandante  di  cento  uomini  '  .  ossia 


1  Traduco  questa  frase  augurale,  la  piti  frequente  di  tutte  presso  i  Musul- 
mani, ed  al  Tempo  stesso  la  piti  discussa  dai  teologi  per  quel  che  riguarda  il  vero 
suo  significato,  attenendomi  all'interpretazione  più  diffusa.  Veggasi  in  proposito 
I.  Goldziher.  Ueber  die  Eulogien  der  Muhammedaner  (Zeitsch.  d.  deutsch.  morgen- 
liind.  Ges.,  L.   1896.  p.  97-128). 

2  II  corsivo  è  tutto  una  citazione  coranica  (Cor.  III.  182'  frequente  in  iscri- 
zioni  sepolcrali. 

3  Cioè  al  defunto.  Formula  non  rara;  altri  esempi  in  Amari  p.  57.  69  (senza  JjsJ, 
77,  88  e  91. 

4  Cfr.  von  Kremer,  Cidturgeschichte  da  Orienta,  voi.  1.  p.  237,  ed  il  glossario 
del  de  Goeje  agli  Annali  d'at-Tabarì,  p.  CDXXXV.  —  Quale  comandante  di  1000 
uomini  appare  nell'esercito  improvvisato  dei  «Nudi»,  accozzaglia  di  vagabondi 
e  di  carcerati  evasi  che,  nel  196  dell'egira  (coni.  23  £ctr.  811  ,  tentarono  ia  di- 
fesa di  Bagdad  contro  l'assedio  di  Tallir  ibn  al -Uusavn  (v.  ai-Mas' Cidi  ,  Frairics, 
YI,  452-453). 


246  C.    A.    NALLINO.  PARTE    II. 

il  centurione  della  milizia  romana,  1'  txatovtaQXìjg  della  bizantina.  Ma 
presso  gli  Arabi  d'Occidente  la  parola  ebbe  un  significato  assai  più 
vago;  indicò  tanto  il  comandante  di  pochi  uomini  (pianto  il  generale 
d'un  esercito,  il  governatore  civile  e  militare  d'una  intera  provincia 
come  d'un  piccolo  villaggio  o  d'una  tribù  ,  sino  ad  applicarsi  sempli- 
cemente ai  funzionari  civili  del  re  \  Così  in  Sicilia  ,  durante  la  si- 
gnoria normanna,  il  titolo  di  qà'id  (xait,  xà'Crog,  xuirccg,  xuir^g,  xétìjg, 
gaytus,  gaitus,  caitus  dei  diplomi  greci  e  latini),  pur  designando  talora 
un  capitano  di  milizie  ,  appare  spesso  come  mero  titolo  onorifico  e 
fors'  anche  come  titolo  di  nobiltà  2. 

Sulla  data  non  può  cader  dubbio;  nell'ultima  decade  di  guinàdà  II 
del  405  non  abbiamo  altro  giovedì  che  quello  cadente  il  24  del  mese, 
cioè  il  7  Marzo  1073  d.  Or.  Sulle  ragioni  per  cui  talora  vediamo  no 
tati  nelle  epigrafi  il  giorno  della  settimana  e  la  decade  del  mese,  ra- 
gioni provenienti  dall'incertezza  nel  contare  il  primo  giorno  del  mese 
binare,  già  s'intrattenne  l'Amari,  Iscrizioni  sepolcrali  p.  68;  aggiungo 
qui  elie  tale  indicazione  di  decade  ,  ma  onimesso  il  giorno  della  setti- 
mana, si  ha  in  diplomi  arabi  presso  Cusa,  I  diplomi  greci  ed  arabi  di 
Sicilia,  p.  42,  408,  501.  Ben  più  strane  sono  le  date  che  appaiono 
in  due  atti  notarili  per  costituzione  di  doni  nuziali,  rogati  a  Calatayud 
in  Ispagna  e  casualmente  citati  dal  Sanvaire  3  :  uno  è  della  «  donie- 
«  nica  27  luglio  corrispondente  alla  prima  decade  della  lima  di  ra- 
«  madàn  dell'anno  028  »  (cioè  27  luglio  1522  =  .'5  ramadàn  028),  l'altro 
del  «  venerdì  1 1  novembre  corrispondente  alla  decade  media  della 
«luna  di  muliarram  dell'anno  931  »  (cioè  11  nov.  1524=  14  muhar- 
ram  031).  Questa  divisione  del  mese  in  tre  decadi  appare  non  solo 
in  sottoscrizioni  di  manoscritti,  ma  anche  là  dove  meno  ce  l'attende- 
remmo. Nei  suoi  Fh.su.s  al-MJcam  il  famoso  mistico  [bn  'Arabi  ci  dice 
d'aver  avuto  «  nell'ultima  decade  d'  al-muharram  dell'anno  027  eg.  » 
la  visione  che  lo  spinse  a  comporre  il  libro   ';  e  il  geografo  al-Edrìsi 


1  Alcuni  utili  acceuni  in  proposito  veggansi  presso  Dozy,  Supplémenl  aux  dict. 
arabes  II,  417,  e  J.  Ri  ber  a,  Origene-?  del  justicia  de  Aragón,  Zaragoza  1897,  p.  47-49. — 
Sull'uso  attuale  del  vocabolo  al  Marocco  ,  in  Algeria  ed  in  Tunisia  non  e'  è  che 
da  sfogliare  la  copiosa  letteratura  geografica  su   quelle  regioni. 

2  La  storia  delle  vicende  subite  dalla  voce  qà'id  in  Sicilia  è  ancora  da  scri- 
versi; un  pregevolissimo  abbozzo  ne  diede  tuttavia  l'Amari,  Storia  dei  Musulmani, 
III,  260-266. 

3  Matériaux  pour  servir  à  V  hisi.  de  la  numismatique  et  de  la  metrologie  musiil- 
mancs  (in  Journal  Jsiatiquc,  VII  sèrie,  t.   19,  1882,  p.  323-324). 

4  Fusùs  (col  commento  d'al-Qàsàul  ed  estratti  da  quello  di  Bàli  Kfeudì), 
Cairo  1321  eg.,  p.  6. 


PARTE   II.  DI   ALCUNE   EPIGRAFI   SEPOLCRALI   ARABE.  24? 

(ed.  Amari  e  Schiaparelli ,  p.  G  del  testo  ,  8  vers.)  e'  informa  che  il 
titolo  dell'  opera  sua  venne  stabilito  dal  re  Ruggero  «  nella  prima 
decade  di  gennaio  ».  —  Notisi  1'  uso  di  gumàdà  al  maschile.  In  iscri- 
zioni del  440  e  404  eg.  (Amari  p.  22  e  27)  lo  troviamo  ancora 
trattato  regolarmente  al  femminile  ;   invece  nelle    iscrizioni   del  524 

e  531  (Amari  p.  74  e  77)  si  ha  -à^f  ^jr^U.^. ,  e  nel  030  (Amari 
p.  133)  addirittura  J»^!    òl+.s».  ,  come  negli  odierni  dialetti  d'Egitto 

e  di  Siria  l.  Del  resto  il  Corpus  del  Van  Berchem  prova  come  l'uso 
di  gumàdà  al  maschile  sia  un  fatto  quasi  costante  nell'  epigrafia  arabo- 
egiziana. 

L'altra  iscrizione,  pure  in  rilievo,  trovasi  sopra  una  stela  simile 
a  cornice,  del  tipo  di  quelle  descritte  dall'Amari  p.  0,  che  cioè  for- 
mavano una  specie  d'  architrave  situata  orizzontalmente  al  di  sopra 
della  tomba  nel  senso  della  lunghezza,  e  sostenuta  dalle  due  pietre 
verticali  che  segnano  le  due  estremità  del  sepolcro.  I  due  pezzi  rin- 
venuti, e  che  nell'  incisione  figurano  accanto  alla  lapide  or  ora  illu- 
strata, combinano  fra  loro  esattamente  ;  manca  tuttavia  un  terzo  pezzo 
che  completerebbe  l'iscrizione.  Questa,  in  caratteri  cufici  alquanto  sot- 
tili ed  allungati,  corre  su  due  linee  comincianti  in  una  delle  due  facce 
laterali  della  stela  e  continuanti  in  senso  contrario  sull'altra  faccia. 
Risultano  quindi  incompleti  il  principio  delle  due  righe  nel  recto  e 
la  fine  delle  medesime  nel  verso.  Ecco  quanto  rimane  dell'iscrizione, 
che  trascrivo  aggiungendo  i  punti  diacritici  : 

Recto  :  -^     U^.    dSofi    q+     .^ (1) 

LioJf    slo^f    1*3     ; (2) 

2    [*aJLk]   J^3    Ifcjfj    »>*Jf    *M  jtjàll   £Ux>   ^f 

Verso  :  ^  s^f  M  b*»j  &  (*^[$  LSwàJf  ^-Xk6  (3) 
J|     AjyC     pii     |vX$     f 

j£>    JsS    *lJf    òy 


1  La  stessa  cosa  nel  'Oman  e  Zanzibar  (Reinhardt,  Ein  arabiacher  Diaìekt  ecc., 
p.  86)  ed  al  Marocco  (Donibay  p.   75:  Lerchundi,    Voeabulario,  p.  253). 

2  Illeggibile  nell'iscrizione,  essendo  logori   i  segni. 


248  e.  a.  kallino.  partk  ii. 

Traduco  ponendo  fra  i  segni   <  >  le  restituzioni  sicure  : 

1.  —  <  In  nome  di  Allah  il  clemente,  il  misericordioso.   E  sia  propizio 

Allah  al  profeta  Maometto  e  alla  famiglia  sua  e  [loro]  accordi 
la  salute  [eterna].  Benedetto  Colui  che,  se  vuole,  t'accorderà  >  cose 
migliori  di  ciò:  giardini  sotto  i  quali  scorrono  fi  toni ,  e  V  accor- 
derà palagi  i.  —  Ogni  persona 

2.  —  <  assaggerà  ìa   morte.    Avrete  esattamente  i  guiderdoni  vostri  sol- 

tanto il  giorno  della   risurrezione  ;    allora    chi    verrà   scostato  dal 

fuoco  [eterno]  e  introdotto  nel  paradiso  avrà  conseguito  la  f eli  >  cita. 

Xon  è  la  vita  terrena  se  non   un  godimento  d'inganno  2.  Ad  Allah 

la  gloria  e  la  durata  in  eterno;  sulle  sue  creature 
'A.  —  tu  scritta3  la  caducità.  E  per  voi  nell'inviato  d'Allah  è  esempio 

e  conforto  4.   Questa  è  la  tomba  di  cAbd  al  —  ' 

<  Morì   il dell'anno cen  > 

4.  —  to.  Ed  egli  attestava  che  non    v' è    altro  Dio  che  Allah,  e  che 

Maometto  è  l'inviato  d'Allah.  Dì:  essale  un  annunzio  grave,  dal 

quale  rifuggite  ° > 

Come  nella  iscrizione  precedente,  così  anche  in  questa  il  lapicida 
si  lasciò  sfuggire  due   errori   grammaticali ,   cioè  il     _aÌ.  della  prima 

linea  ed  il     uN.^5^/0    della  quarta,  in  luogo  di  fr>ò>»    e   di     IcX^^^. 

La  stessa  prima  riga,  col  suo  (S*-^*    Li.  in  luogo  di     e;  -^  ùLi,  , 

ci  offre  un  bell'esempio  di  quella  che  i  paleografi  chiamano  involutio  7, 
e  che  è  ben  rappresentata  nell'epigrafe  araba  di  Salaparuta  ,  ove  il 
Lagumina,  col  suo  abituale  acume  paleografico,  ben  riconobbe  che  il 

gruppo  tX+^V/O    ^ ^xi.    andava  letto  lX.*:A/0    vì>Jj    ^^àj;  8. 


1  Corano  XXV  ,  11  ;  altri  esempi  dell'  uso    di    questo   versetto   presso  Amari 
p.  59  e  74. 

2  Corano  III,   182;  cfr.  l'altra  epigrafe. 

3  Cioè  decretata  da  Dio;  siili'  origine  di  questa  espressione  vedasi  Goklziher 
nella  ZDMG.,  LVII,  1903,  396-397. 

4  Su  questa  frase  e  sulla  precedente  cfr.  Amari  p.  10. 

5  Dal  calco  si  rileva  soltanto  che  la  consonante    seguente    non  può  essere  la 
seconda  l  di  Allah. 

6  Corano  XXXVIII,  67-GS;  frase  comunissima  negli  epitafì  (Amari  p.  9). 

7  J.  Karabacek,  Die  Involutio  ini  arabischen  Schriftwesen  (Si'tzungsber.  d.  k.  Ak. 
der  Wissenschaften  zn  Wien,   philos.-bistor.  Classe,  13d.   CXXXV,  nr.  V,  1896). 

8  B.  Lagumina,  Iscrizione  araba  di  Salaparuta  (Archivio  storico  Siciliano,  Nuova 
Serie,  voi.   XI,  1886,  p.   116-147). 


PARTE   II.  DI   AtCt'N'R   EPIGRAFI    SEPOLCRALI   ARABE.  249 

Come  trovavansì  quelle  due  lapidi  nel  sottosuolo  di  Napoli  ?  Le 
ossa  umane  che  gli  operai  addetti  allo  scavo  trovarono  accanto  a  quei 
pezzi  di  marmo  ,  sembrano  escludere  il  dubbio  che  quelle  pietre  se- 
polcrali fossero  arrivate  colà  per  mero  caso.  La  presenza  di  sepolture 
musulmane  del  XI  secolo  a  Napoli  è  assai  meno  strana  di  quanto 
possa  sembrare  a  prima  giunta  ;  basti  a  convincersene  quel  che  scrisse 
l'Amari,  Iscriz.  sepolcrali,  p.  15-17,  intorno  ai  rapporti  della  repub- 
blica di  Napoli,  di  Amalfi  e  di  Salerno  coi  Musulmani  d'Africa  e  di 
Sicilia.  Senza  contare  tre  epigrafi  degli  anni  440,  407,  .">24  eg.  che  si 
trovano  nel  Museo  Nazionale  di  Napoli,  ma  di  cui  è  incerta  la  pro- 
venienza, noi  abbiamo  già  l'esempio  d'una  lapide  sepolcrale  del  417  eg. 
(coni.  22  febbr.  1026)  rinvenuta  a  Napoli,  e  di  due  del  411  (1021)  e 
47.J  (1081)  che  uscirono  alla  luce  in  Pozzuoli  l.  Notevole  poi  è  la  data 
della  morte  di  quel  qà'id  Muhriz  ibn  Halìfah  ,  7  marzo  107.*$.  Nel 
gennaio  1072,  dopo  cinque  mesi  d'assedio,  il  eonte  Ruggero  aveva 
espugnata  Palermo  2,  e  sostituitavi  la  signoria  normanna  alla  domi- 
nazione araba;  vien  quindi  naturale  di  chiedersi  se  nell'estinto  di  Na- 
poli non  dobbiamo  vedere  un  profugo  siciliano. 


Mi  si  consenta  di  proporre  qui  alcune  modificazioni  alla  versione 
che  di  due  graziosi  epitafi  ebbe  a  dare  l'insigne  illustratore  delle  epi- 
grafi arabe  di  Sicilia. 

La  prima  iscrizione  è  quella  clic  porta  il  nr.  13  presso  l'Amari 
(]>.  45-51)  e  che  trovasi  al  Musco  Nazionale  di  X<q)oli.  Le  ultime  tre 
righe  formarono  una  vera  erux  interpretimi  pei  miei  predecessori,  nes- 
suno dei  (piali  sembra  essersi  accorto  che  si  trattava  d'uno  squarcio 
poetico  ,  e  che  quindi  la  scansione  metrica  sarebbe  stata  un  valido 
sussidio  per  la  retta  lettura  ed  intelligenza  del  testo.  Premetto  clic 
l'iscrizione,  come  notò  l'Amari,  presenta  qualche  scorrettezza  .  come 

il  mostruoso  34.a5i   della    17a  riga   in  luogo  di    a».<vJ    che  fa  parte  di 

una  formula  pia  comunissima;  ed  osservo  pure  clic  in  generale  i  versi 
scolpiti  su  lapidi  sepolcrali  non  mancano  di  licenze  metriche  disap- 
provate dai  trattatisti  severi.  —  L'Amari  ,  di  cui  sono  le  vocali  e  i 
punti  diacritici,  lesse  : 


1  Amari,  nr.   3.  2.   13   (pag.   17,   13,  45). 

2  Per  hi  tinta  si  veda  anche  I> .  Lagninola,   Catalogo  delle  monete  arabe  existenti 
velia  Biblioteca   Comunale  di   Palermo,  Palermo  1892,  n.  230. 


250  C.    A.    NAIXINO.  PARTE   II. 


L^A*Jf  ÌL  (?  ^/^)  Ò/l (18) 

Ly^Jf  ^Lu  (?  iJ^^Jl  ovvero  sys^Jf)  OcX-^Jf  ^jLo  j.£  o*  (19) 


*W  i^  x^w,^.  iJU*}  **£/"  *&y*°  ^*}  cr*  *^t*"  p*"j    (20) 

e  tradusse  (cfr.  la  sua  correzione  a  p.  1G7)  : 

18 (Passa)  come  un  baleno  tra  le  dolcezze   della  vita  chi 

li),    serbasi  alle  mollezze.  L'obblio  cancellerà  le  dignità  ch'ei  [tenne]; 

sparirà 
20.    [ogni]  vestigio  della  sua  onoranza,    dopo  breve  splendore;  e  [in- 
sieme] col  suo  corpo  si  consumerà  la  riputazione  della  sua  stirpe. 

Nella  riga  19a  faccio  subito  notare  che  in  luogo  di  (.jLfl  è  al- 
trettanto legittima  la  lettura  .jUa  ,  poiché,  come  appare  dalla  foto- 
tipia,  nell'iscrizione  .  e  .  finali  hanno  la  stessa  forma.  Inoltre  il 
gruppo  seguente  J)  si  può  leggere  con  non  minore  diritto  JJ  ;  cfr. 
nella  9a  riga  jf  =  ^j|  (cioè  ^>f) ,  che  l'Amari  giudicò  a  torto  essere 
la  parola  ..of  e  che  quindi  ritenne  un  errore  del  lapicida.  Infine, 
nella  20a  riga,  il  gruppo  letto  ia  (o  >o  )  dal  Lanci  e  dall'Amari,  ha 
nell'  iscrizione  una  forma  alquanto  strana  che  permette  pure  la  let- 
tura ±a  .  —  Premesse  queste  osservazioni  paleografiche  ,  applico  al 
nostro  testo  le  regole  della  metrica  e  vedo  subito  che  si  tratta  di  versi 
tawil  del  tipo  : 


dal  che  risulta  che  la  parola  da  tutti  riconosciuta  come  errata  nella 
19a  riga  deve  leggersi  v^sj^k.  =  C>x^  (  l'iscrizione  ha  L-OoJ  .  La 
metrica  esige  la  vocalizzazione  poco  corretta  nasayànu,  per  nisyànu, 
nella  medesima  riga  19a,  la  cui  rima  è  poi  fatta  all'uso  volgare.  — 
Leggo  pertanto  ,  separando  i  versi  indipendentemente  dalle  righe  del- 
l'iscrizione : 


DI    ALCUNE    EPIGRAFI    SEPOLCRALI    ARABE.  251 


,.  >         ) 


1.  —  Qual  baleno  nelle  delizie  della   vita  [passa]  colui  ch'è  avviato  a 

sorte  tale  che  l'oblio  cancellerà  le  sue  dimore, 

2.  —  e  sparirà  ogni  vestigio  del  suo  volto  rapidamente  dopo  aver  bril- 

lato, e  si  consumeranno  il  corpo  suo  e  le  sue  giunture. 

La  frase  J.)     àìào    «  eh'  è  avviato  a  »  ricorre  in  altra  epigrafe 
J 
sepolcrale  presso  l'Amari,  p.   119,  ed  ha   rispondenza   nell'uso  della 

voce  ,aao^  nel  Corano,  nonché  nel  verso  anonimo  citato  dai  tratta- 
tisti  1  come  esempio  del   metro  madìd  mahdiìf: 

JUJJ     „jIao    i  Cl^xC-      b  Xw.^     )-y0)     ,.,-«j     y 

■>J         J  U      ••         v-T  ••         /         CIP 

L'intera  espressione  poi  ^.^a-o*.  ^U  jIao  trova  esatto  riscontro  in  un 
verso  della  Hamùsah  di  Abù  Tammàm  (ed.  Freytag  ]>.  32tì ,  ed. 
Bùìàq   li,    1<><»)  : 

«  se  ti  temiamo,  ben  abbiamo  uno  scampo  là  dove ».  —  lutine 

il  zi/ci  ±A  «  le  sue  giunture  »  è  un  parallelo  al  sinonimo  «>dlAclft/0 
tanto  frequente  nella  poesia  araba. 

Passo  ora  ad  un'altra  iscrizione  ,  appartenente  al  Musco  Nazio- 
nale di  Palermo,  e  commemorante  l'estinto  Yasin  ibn  fAli  ibn  Va  ìs. 
Porta  il  nr.  43  presso  l'Amari,  p.  134:138.  Nelle  righe  5-10  dell'iscri- 
zione l'illustre  arabista  riconobbe  dei  versi;  ma  sbagliò  il  metro,  giu- 
dicandolo un  ìcàjir,  e  non  si  curò  di  scandere  tutto,  mentre  la  scan- 
sione gli  avrebbe  additato  tre  errori  di  lettura  che  alterano  il  senso. 
11  metro  è  il   pi/cìl  del  tipo  : 


1  As-Sakkiikt,  Miftdh  al-' illuni,  Cairo  1.-U7  ,  p.  281;  Freytag,  Darstellung  der 
arabischen  Verskunst,  p.  180:  Gaicin  de  Tassy  .  Ehétorìque  et  prosodie  dea  langues  de 
VOrient  musulman,  2"  ed.  (Paris  1873),  p.  264. 


£52  C.    A.    KALtltfO.  fAHTE   II. 

.Metro  ed  iscrizione  (come  ognuno  può  vedere  dalla  fototipia)  esigono 
nel  primo  verso  1+5  e   ^5l>v*j    in  luogo  dei    L*  e  »jXÀa*j    letti  dal- 

l'Amari,  e  nel  3°  verso    ,-*v.àj    in  luogo  di    ,.%aaj  .   11    ^^a£    del 
1°  verso  è  un  semplice  errore  di  stampa  per    <l>jS-  . 
La  traduzione  suona  quindi  così  : 

1.  Ti  sei  dipartito,  e  dopo  di  te  non  [v'ha  più]  bene  nella  vita.  Sei 

scomparso  dal  mondo,  ne  farai  ritorno. 

2.  Dimorerai  [nell'avello]  sino  a  che  Allah  risusciti  le  creature  sue; 
d'incontrarti  non  si  può  sperare,  eppur  tu  sei  vicino. 

3.  Il  volto  tuo  si  consumerà  ogni  dì  e  ogni  notte;  ma  l'amor  tuo  non 
verrà  obliato  e  tu  [sarai  sempre]  amato. 

4.  Su  te  la  salute  eterna  [che  vien]  da  Allah,  fin  che  spuntino  astri 

[in  cielo],  e  fin  che  sulle  piante  di  aràk  tremoli  un  ramoscello. 

Termino  questi  appunti  con  una  piccola  osservazione  circa  l'epi- 
grafe nr.  42  dell'Amari  (p.  131-134)  ,  esistente  nel  Museo  Nazionale 
di  Palermo  e  datata  dal  636  eg.  (1238  d.  Cr.) ,  nella  quale  ricorre  il 
nome  di  donna  as-Sitt  bint  Abì  '1-Qàsim  ibn  Husayn.  Xota  l'Amari: 
«  Il  vocabolo  Sitt,  Signora  ,  sembra  qui  usato  come  nome  proprio  ». 
La  cosa  diviene  sicura  (piando  si  pensi  che  una  as-Sitt ,  parente 
(hatanah)  d'un  'Abd  al-Kàfì  ,  si  trova  appunto  in  un  diploma  arabo 
di  Sicilia  presso  il  Cusa  p.  ~>$1-,  e  che  il  sinonimo  Sayyidah  ricorre 
più  volte  come  nome  di  donna  in  altro  diploma  della  fine  di  da  '1-qa'dah 
531  (19  agosto  1137)  stampato  dal  Cusa,  pag.  61-67:  la  venditrice 
è  Sayyidah  bint  Yùsuf  al  Qaysì,  chiamata  brevemente  Sayyidah  nel 
corso  del  documento.  Di  più  un  Ibràhìm  ibn  Sayyidah,  colla  trascri- 
zione greca  ^4^QK%i^og  btclv  óéids ,  compare  in  Cusa  p.  138.  Abbiamo 
in  questi  casi  1  un'abbreviatura  del  nome  Sayyidat  al-aìil  «  la  signora 
della  famiglia  »,  ricorrente  appunto  in  altra  epigrafe  siciliana  del  474 
(1081)  presso  Amari  p.  42-4.'>  ;  nome  a  cui  fa  esatto  riscontro  il  Sit- 
tuhum  «  la  loro  signora  »,  che  una  glossa  dell'editore  del  Tàg  al- arus 


1  Non  mancano  gli  esempi  fuori  di  Sicilia:  Sayyidah  bint'Abd  al-gant  al-'Abda- 
riyyah,  donna  erudita  morta  a  Tunisi  nel  647  eg.  (Ibn  nl-Abbàr,  Takmilah  ed.  Co- 
derà ,  nr.  2129);  e  le  due  as  Sayyidah  figlie  del  califfo  onimiade  di  Spagna  'Abd 
Allah,  una  delle  quali  morì  alla  line  del  319  eg.  (àl-lìayàn  ed.  D'»zy  11,15(3  e  221, 
vers.  Fagnan  II,  251  e  341).  Inoltre  SUlah,  onde  prese  il  nome  il  notissimo  lessi- 
cografo Ibn  Sldab.  — Occorre  appena  ricordare  il  sinonimo  aramaico  Martha,  Muq&u, 


PARTE   II.  DI   ALCl'NE    EPIGRAFI    SEPOLCRALI    ARABE.  253 

afferma  d'uso  frequente  in  Egitto  *,  e  che  Muhammad  c Utmàn  'Galàl 
ci  <là  come  personaggio  femminile  nella  commedia  <m-Xim'  al-àlimàt, 
noto  rifacimento  delle  Feimiies  savantes  di  Molière  in  dialetto  cairino. 
—  11  corrispondente  maschile  Sayyid  (ovvero  Siri)  ahi  uh  «  il  signore 
della  sua  famiglia  »  non  è  raro  in  diplomi  arabi  dell'epoca  normanna, 
e  viene  reso  nelle  trascrizioni  greche  con  óttéxsXov ,  6itxé%eXov  ,  <5i- 
ré%t Xig  ,  Oiòé%Xov  ,  <5iòé%£ Xov  '  ;  come  non  mancano  esempi  siciliani 
del  semplice  as-Sìd  in  un  Abù  Bekr  ibn  as-Sìd3  e  nel  frequente 
Bù  's-Sid,  trascritto  dai  Greci  con  (ìovógit,  (ìovGrJT.  è(ìov  ijXóyjt,  (iovóix  4. 


1  Tdg  al-'aru8,  2a  ed.  (Cairo  1307),  I  ,  328  in  marg.  (a  proposito  del  nome 
proprio  femminile  sahrbdnu  d'origine  persiana):  sAP»  jJL_>-J!  S.X>.,w  «  <l«  g-- 
*-i>^»  i-XixJ)  ^<~w»  ,'vA-i  o^*  i-.-w.Aji  ..  ».^wJ  cj-va>-  /^i<*  J^'  s^'-*-i  iu^fwJu). 
In  Algeria  si  adopera  il  sinonimo  Lallàhum  ,  registrato  nel  Vocabulaire  destine  à 
fixer  la  transcription  en  francais  des  noms  dea  indigène»,  Alger  1891,  p.   243. 

2  Cusa  p.  136,  144.  165,  167  (bis).  177,  248.  251,  267,  280.  —  L'onomastica 
algerina  moderna  ci  offre  Sid  en  nàs  [Vocabulaire  p.  350),  Sidbum  (ibid.  350),  Mu- 
làhum  (ibid.  294);  cfr.  il  nome  del  noto  tradizionista  lbn  Sayyid  an-nàs  morto  al 
Cairo  nel  734  eg. 

3  Cusa  p.  171.  —  La  trascrizione  greca  (pW'/Jxgp  i-xiv  i).6r\x  è  interessante,  poi- 
ché ci  mostra  la  stessa  pronunzia  Bubker  ogui  comuiiissima  in  tutta  la  Barberia, 
sì  da  apparire  talora  scritta  sotto  la  forma  jCo  in  atti  ufficiali  (p.  es.  A.  Mou- 
lióras,  Manuel  algérien,  Paris  1888,   p.  246). 

1  Cusa  p.  145,  157,  167,  177,  250,  253.  258,  274.  —  Presso  uli  Arabi  di  Spagna 
era  frequente  questo  Sid,  as-Sìd,  Sayyid  ,  come  è  facile  dedurre  dagli  indici  della 
Bibliotheca  Arabico-Hispana  del  Coderà. 

Carlo  Alfonso  Nallino. 


SU  UNA  /AONETA  5VEVA  RINVENUTA  A  RAFFADALI. 


Fig.  48. 

Il  prof.  Antonino  Salina»  nelle  sue  lezioni  di  archeologia  nel 
Museo  Nazionale  di  Palermo  e'  insegnava  che  i  negozianti  ambi  più 
che  al  conto  tenevano  al  peso  delle  monete  ,  e  praticamente  ci  mo- 
strava una  moneta  araba  di  epoea  normanna  mancante  di  un  pezzet- 
tino, il  quale  era  servito  per  ottenere  qualche  giusto  peso.  Ora  a  me 
pochi  anni  addietro  venne  fatto  di  acquistare  tre  monete  con  iscri- 
zioni arabe  ,  una  di  Guglielmo  II  normanno  e  due  di  Enrico  VI  svevo, 
mancanti  ognuna  di  un  pezzetto  appositamente  strappato.  Quelle  mo- 
nete fan  parte  di  un  pregevole  ripostiglio  rinvenuto  a  Raftadali  in 
provincia  di  (Urgenti.  Una  di  quelle  monete,  clic  è  di  Enrico  VI, 
mostra  evidentemente  la  tecnica  che  all'occorrenza  si  adoperava.  Se 
il  pezzo  era  di  lamina  sottile  ,  le  forbici  bastavano  all'  uopo;  ma  se 
quello  era  molto  spesso  ,  come  il  più  delle  volte  accade  nella  mone- 
tazione normanna  e  sveva,  come  si  faceva  ?  La  detta  moneta  di  En- 
rico YI  da  un  lato  ha  un  solco  assai  largo  e  profondo  e  dall'  altro 
due  altri  solchi  leggieri,  quasi  pentimento  che  qualcuno  abbia  avuto 
di  strappare  di  più  di  quanto  occorreva.  Ciò  non  poteva  ottenersi  che 
per  mezzo  di  scalpello  molto  affilato;  una  tanaglimi  o  anche  il  mar- 
tello, faceva  il  resto.  I  mercadanti  quindi  per  i  loro  negozi,  oltre  della 
indispensabile  bilancia  coi  rispettivi  pesi  delle  monete  ,  dovean  essere 
forniti  di  forbici,  di  scalpello  e  non  so  se  di  altro  ! 

A  me  non  è  occorso  di  avere  a  mano  monete  di  epoca  musul- 
mana appositamente  tagliate  o  rotte,  come  quelle  di  epoca  normanna 
o  sveva.  Agli  Arabi  la  cosa  non  dovea  essere  assai  comune,  perche 
essi  tenevano  molto  al  peso  uniforme  dei  loro  dinar  e  dirhem  ;  non 
così  ai  Normanni,  dei  quali  è  raro  trovare  delle  monete,  anche  dello 
stesso  anno,  che  si  eguaglino  nel  peso.  Le  loro  monete  di  oro  variano 


PARTE   II.*         SU   UNA   MONETA   SVEVA   RINVENUTA   A    RAFFADALI.  255 

di  modulo  e  di  peso  fin  dal  1072  (Egira  4(14)  che  fu  il  primo  anno 
quando  essi  le  coniarono  in  Sicilia,  come  ho  dimostrato  colle  monete 
del  Duca  Roberto  col  titolo  di  Re  di  Sicilia ,  clic  si  legano  immedia- 
tamente ai  quartigli  di  Al  Mustansir  fatimita  ,  ultimo  covrano  mu- 
sulmano nell'isola.  Ma  i  Normanni  dovettero  seguire  l'uso  degli  Arabi, 
i  cui  negozianti  per  ottenere  il  giusto  peso,  oltre  dei  dinar  e  dei  dirliem, 
si  avvalevano  di  monete  rotte  o  tagliate  che  chiamavano  muqatta'ah 
e  maksurah  o  mukassarah  ,  e  di  particelle  monetarie  alle  quali  davano 
il  nome  di  qita'h  e  di  kussiìr.  Questo  poteva  t'arsi  nel  commercio  co- 
mune, perchè  ufficialmente  il  Tesoro  dello  Stato  ricusava  quei  fram- 
menti insieme  alle  monete  rotte  o  tagliate.  I  giureconsulti  musulmani 
alla  loro  volta  dichiaravano  biasimevole  ,  illecito  l'uso  di  comprare  e 
di  vendere  con  quei  pezzi,  e  allegavano  in  appoggio  una  tradizione  che 
facevano  risalire  sino  a  Maometto.  I  Normanni  e  gii  Svevi,  ben  s'  in- 
tende, non  si   credevano  obbligati   a  stare  alle  proibizioni  del  Profeta. 

Aggiungo  qualche  parola  sul  nome  di  Raffadali,  che  è,  come  ho 
detto,  il  posto  dove  furono  trovate  le  monete. 

Raffadali  evidentemente  è  di  origine  araba  ;  il  paese  però  potè 
esser  fondato  su  o  presso  qualche  stazione  di  epoca  classica  :  così  fa 
supporre  il  sarcofago  di  marmo  con  figure,  di  epoca  romana  ,  ivi  rin- 
venute» che  ora  si  conserva  in  quella  Chiesa  Madre.  Vito  Amico  (Diz. 
top.  della  Sic.  Voi.  II  pag.  398),  che  di  arabo  non  s'intendeva,  fa 
derivare  il  nome  di  Raffadali  da  Uafi'a  d'Ali  :  Rafia  sarebbe  il  nome 
del  terreno,  Ali  quello  del  proprietario;  ma  un  pochino  più  sotto  ben 
ravvisa  nel  principio  della  parola  Raffa  il  vocabolo  rahal  ,  villaggio, 
come  in  altri  paesi  di  Sicilia.  L'avv.  Giuseppe  Picone  (Memorie  .sto- 
riche agrigentine,  pag.  413)  fa  derivare  Raffadali  da  l'aliai  -  afdal,  vil- 
laggio, dice  lui,  eccellenti. ss  imo.  A  me  pare  più  naturale  pensare  a 
Rahal  al  fadl  ,  villaggio  dell'  abbondanza,  o  della  grazia,  meglio  però 
a  Rahal  Fadl,  villaggio  di  Fadl.  I  documenti  latini  citati  da  Amico 
hanno  Rahal fadalis. 

Girgenti. 

Mons.  Bartolomeo  M.  Lagumina. 


IL  «GUILLAU/AE  DE  PALERNE » 

e  i  suoi  dati  di  luogo  e  di  tempo. 


Nel  francese  antico,  ed  anche  nel  medio  alto  tedesco,  dicevasi, 
com'è  noto,  Paterne  per  Palermo  :  ve  n'è  un  esempio  già  nella  Chan- 
son  de  Roland,  v.  -J923  del  testo  di  Oxford;  altri  ne  raccolse  G.  Paris 
per  ima  breve  comunicazione  orale  alla  Società  di  Storia  Patria  di 
Palermo  nel  1875,  e  l'anno  dopo  in  un  succoso  articoletto,  La  Sitile 
et  la  Uttérature  frangaise  au  Moyen  Age  i  ;  e  sin  da  allora  spiegò 
l'origine  di  questa  forma  da  una  specie  di  assimilazione  con  Solerne. 
Ora  parrà  strano  che  il  nome  di  tale  città  avesse  attratto  quello  di 
una  ben  più  considerevole;  ma  Salerno  ebbe  nel  Medio  Evo  una  ce- 
lebrità maggiore  per  causa  degli  studi  di  grammatica  e  di  medicina, 
sin  dal  secolo  Vili,  e  ne  fanno  fede  carmi  germanici  e  francogal- 
lici 2,  mentre  Palermo  era  come  tagliata  fuori  dalle  nazioni  occidentali 
latine,  per  esser  divenuta  una  città  araba.  Il  Cloetta  ha  recato  esempi 
anche  di  Palemum,  dalla  Historia  Ecclesiastica  di  Orderico  Vitale, 
della  prima  metà  del  sec.  XII;  ma  pare  che  egli  attribuisca  la  con- 
fusione con  Salerno  ad  un'antica,  ipotetica,  epopea  delle  geste  nor- 
manne in  Italia,  nella  quale  si  confondessero  insieme  avvenimenti 
delle  due  città  3. 

Quanto  al  provenzale,  per  rimanere  ancora  un  poco  su  questo 
nome,  vi  sono  le  forme  Palema  e  Palernia  :  Bertran  de  Born  in  un 
serventese  politico,  Greu  m'es,  dà  la  prima  in  rima  : 

E  ara  dat  mais  de  ricor 
Que  s'era  reis  de  Palema  4  ; 


1  Romania,  V  (1876),  p.  108. 

2  Giesebrecht  ,  Dell'  istruzione  in  Italia  nei  primi  secoli  del  Medio  Evo  ,  trad 
ital.,  Firenze,  Sansoni,  1895,  p.  38;  e  Rashdall  ,  Unirersities  in  the  Middle  Ages 
Oxford,  1895,  voi.  I,  p.   75. 

3  W.  Cloetta,  Die  der  Synagon-Episode  des  Moniage  Guillaume  II  zu  Grunde  liegen 
den  historischen  Ereignisse,  in  Abhandlungen  H.  Prof.  A.   Tobler,  Halle,  1895,  p.  253 

4  Poésies  complètes  de  B.  d.  Born,  p.  Antoine  Thomas,  Toulonse,  Privat,  1888 
p.  64.  A.  Stiinming  nella  la  ed.  del  suo  Bertran  de  Born  ,  Halle  1879,  disse,  p.  279 
che  Paterna  era  in  grazia  della  rima;  non  l'ha  ripetuto  nella  2a  del  1892,  p.  169 


PARTE   II.  IL   GUILLAUME   DE   PALEKNE.  257 

Palerma  invece  è  dato  da  due  manoscritti  della  lettera  epica  di  lìaini- 
baut  de  Vaqneiras,  e  da  parecchi  di  un  serventese  di  Peire  Vida], 
dentro  il  verso  l.  Orbene,  se  nel  nome  italiano  di  Palermo  si  riflette, 
per  causa  di  -le-  di  contro  a  IIuvoQiiog,  la  forma  araba  Bulimìa  % 
bisogna  riconoscere  che  di  questa  si  conservò  anche  la  finale  nel  nome 
provenzale  e  nel  francese  ,  dove  -me  risale  ad  -ma  di  contro  ad  ->•//,->• 
che  è  l'esito  normale  di  -rno.  Solo  è  da  osservare  che  l'arabo  Bulimia 
è  trascrizione  letteraria,  non  rispondente  alla  pronunzia  effettiva,  come 
mi  accerta  il  collega  C.  ballino;  e  che  anche  di  Salerno  esiste  in  Orde- 
rico  l'itale  la  forma  Psalernia,  quale  che  ne  sia  l'origine. 

Il  Guillaume  de  Paterne  è  un  romanzo  di  avventure,  in  un  poema 
di  9663  ottonarli  accoppiati  (uno  è  perduto),  la  cui  azione  si  svolge 
tutta  in  Italia,  e  per  la  maggior  parte  in  Palermo.  Fu  pubblicato  la 
prima  volta  nel  1877  di  su  l'unico  manoscritto  esistente,  del  secolo  XIII, 
per  la  Societé  des  Anciens  Textes  dal  signor  II.  Michelant:  vi  sono  tracce 
di  altri  manoscritti  smarriti,  ma  l'opera  non  ebbe  vera  diffusione  nel 
Medio  Evo.  Xe  fu  fatta  una  traduzione  poetica  in  inglese  nel  1350 
da  un  certo  William  per  Sir  Humfrey  VI  conte  di  Bolinn,  cugino  di 
Eduardo  III  3,  e  meglio  che  per  suo  uso,  a  suo  consiglio,  perchè 
il  conte  conosceva  benissimo  il  francese.  Assai  più  tardi,  circa  latine 
del  sec.  XVI,  fu  ridotto  in  prosa  francese,  quando  molte  chamons  ri- 
tornavano alla  luce  in  lingua  moderna.  Ma  in  Italia  nessun  accenno 
se  ne  conosce,  neppure  nel  tempo  che  il  Boccaccio  poneva  le  mani 
nell'immensa  letteratura  narrativa  della  Francia,  ne  prima  ne  dopo: 
probabilmente  il  nostro  grande  romanziere,  ci  sia  lecito  di  chiamarlo 
così,  non  lo  conobbe,  perchè,  se  non  1'  azione  principale  ,  certo  ne 
avrebbe  cavato  qualche  motivo.  Interessante  riesce  invece  ai  filologi 


1  O.  Scbultz  -  Gora  ,  Le  epistole  del  trovatore  li.  de  Vaqueiras  ,  trad.  it.  ,  Fi- 
renze, Sansoni,  1898,  p.  62  e  107  sg.;  veramente  egli  spiegava  la  trasformazione 
di  Palerma  in  Palerna  come  una  facilitazione  di  pronunzia,  cfr.  l'edizione  tedesca 
della  stessa  opera,  Halle,  Nienieyer,  1893,  p.  83.  ma  il  traduttore  italiano  parla 
di  l'addolcimento  !  Dà  palerai  il  ms.  catanese  della  Ventimiliana,  cfr.  P.  Sayj-Lopez, 
La  lettera  epica  di  li.  d.  V.  Halle,  1905,  p.  7  estr.  da  lìausteine  zar  roma»,  l'ìd- 
lologie  per  Adolfo  Mussajia). 

-  Cfr.  Seybold,  Die  aralische  Sprache  in  den  rovianischen  Liindern,  nel  Grundriss 
der  roma».  Pliil.  del  Groeber,  I  (1888),  p.  405  (non  dispongo  della  seconda  edizione  . 

3  Ve  ne  sono  due  edizioni,  da  un  sol  manoscritto  ,  una  del  Madden  ,  pel 
Koxburghe  Club,  Londra,  1832,  1'  altra  dello  Skeat  .  per  la  Early  Englisb  Text 
Society,  Londra,  1867.  Si  veda  su  di  esso  un  diligente  studio  di  M.  Kaluza, 
Das  mittelenglische  Gcdieltt  William  of  Valerne  und  scine  framòsische  Quelle,  in 
Englische  Studien,  IV  (1881),  p.  198  sgg.;  egli  corregge,  p.  272  sgg..  alcune  delle 
conclusioni  cui  era  pervenuto,  nel  ralfronto  dei  testi  francese  e  inglese,  il  tei» 
Drink,   Geschichte  der  englischen  Litcratur,  I,   Berlin   1877,  p.  116  sgg. 

17 


258  N.   ZINGARKLLI.  BARTK   II. 

dell'età  nostra,  anzitutto  per  la  sua  antichità,  rispettabile  in  un  ro- 
manzo di  avventure;  poi  per  la  lingua,  elie  è  di  bel  conio  letterario, 
potrei  dire  cortigiano,  e  proviene  da  una  regione  nordica  orien- 
tale, come  l'Artois  e  l' Hainaut;  e  infine  per  le  fonti  alle  quali 
possibil mente  rimonta.  Il  compianto  G.  Paris  lo  mentovò  tra  le  opere 
che  dimostrano  quale  idea  si  avesse  di  Palermo  e  della  Sicilia  tra  i 
suoi  connazionali  nell'  evo  medio.  Non  sarebbe  utile  ormai  studiare 
più  esattamente  le  circostanze  di  luogo  e  di  tempo  che  vi  sono  pre- 
sentate, e  la  cultura  che  vi  si  rinette  ì  I  dispareri  non  mancano  ,  e 
durerebbero  a  lungo  perchè  difficilmente  si  torna  a  studiar  di  propo- 
sito un'  opera  di  limitata  importanza  :  dall'  altro  lato  è  una  legittima 
curiosità  in  Palermo  conoscere  che  cosa  si  pensasse  di  questa  città 
fuori  di  qui. 

Veramente  l'esser  ridotti  ad  un  sol  manoscritto  è  uno  svantag- 
gio, perchè  i  nomi  di  luoghi  sogliono  essere  i  più  alterati;  ne  molto  ci 
affida  l'edizione  del  Michelant,  alla  quale  venne  in  soccorso  la  sapienza 
di  un  altro  grande  romanista,  mancato  teste  all'ammirazione  di  tutti,  e 
all'affetto  di  quanti  ebbero  la  fortuna  di  conoscerlo,  Adolfo  Mussatìa, 
che  propose  un  numero  grandissimo  di  correzioni  l.  Poco  ci  serve 
d'altronde  la  traduzione  inglese,  la  quale  è  piuttosto  un  rifacimento, 
e  procede  alle  volte  con  molta  libertà,  sia  per  la  diversità  del  metro, 
il  verso  lungo  con  allitterazione  di  fronte  al  breve  ottonario  francese, 
sia  per  il  pubblico  tutto  diverso  al  quale  s'indirizzava,  e  finalmente 
pei  gusti  speciali  del  rifacitore,  che,  come  bene  ha  arguito  il  Kaluza, 
fu  un  menestrello,  e  non  un  fino  poeta  di  corte.  Ma  tutto  sommato, 
le  condizioni  del  testo  non  sono  tali  da  impensierirci,  perchè  il  ma- 
noscritto fu  eseguito  con  diligenza,  per  lettori  di  alta  condizione, 
ed  è  generalmente  buono. 

L'azione  del  poema  è  costituita  dall'  amore  avventuroso  di  due 
giovani,  Guglielmo,  figlio  del  re  di  Puglia  e  Sicilia,  e  Melior,  figlia 
dell'  imperatore  di  Poma.  Conosciutisi  nella  corte  di  Roma  da  fan- 
ciulli, si  amano,  ma  non  possono  rivelare  la  loro  passione  perchè 
Guglielmo  è  un  trovatello,  preso  nella  casa  di  un  vaccaio  nei  din- 
torni di  Poma.  Quando  Melior  richiesta  dal  figlio  dell'imperatore  greco 
sta  per  esser  condotta  all'altare,  gli  amanti  fuggono,  e  dopo  un  lungo 
e  pericoloso  cammino  si  ricoverano  nella  reggia  di  Palermo  :  quivi 
avviene  il  riconoscimento  e  si  adempie  la  loro  felicità.  Ma  accanto 
al  giovine  protagonista  vi  è  un  altro  personaggio  assai  importante, 
dal  quale  proviene  il  meraviglioso  e  lo  straordinario  di  questa  storia. 


1  Zeitschrift   fiir  romanische  Philoloyie,    III,    244    (su  cui  v.  G.  Paris  ,  in  Ro- 
mania, Vili,  627). 


PARTE   li.  IL    GUILLAUME   DE   PALERXE.  2o9' 

Esso  è  un  giovine  principe  spaglinolo  in  figura  di  lupo,  così  trasfor- 
mato dalla  matrigna  per  assicurare  il  trono  al  figliuolo  suo  proprio. 
Il  lupomannaro  rapisce  da  Palermo  il  fanciullo  Guglielmo,  il  quale 
sta  per  perire  vittima  di  un  pretendente;  il  lupomannaro  lo  trasporta 
nelle  vicinanze  di  Roma,  e  dopo  alcuni  anni  guida  l'Imperatore  presso 
la  casa  del  vaccaio  che  lo  aveva  ricolto  e  lo  allevava  affettuosamente; 
il  lupomannaro  scorge  e  soccorre  gli  amanti  quando  coperti  di  pelli 
d'orso  son  fuggiti  da  Roma,  e  li  conduce  a  salvamento  in  Palermo, 
dopo  molti  rischi.  La  soluzione  avviene  così,  che  essendo  allora  Pa- 
lermo assediata  dal  re  di  Spagna  per  ira  contro  la  vedova  regina 
di  Sicilia  che  non  aveva  voluto  dare  la  figliuola  in  isposa  a  suo  figlio 
(appunto  il  fratello  del  lupomannaro),  Guglielmo  col  suo  valore  straor- 
dinario riesce  a  sconfiggere  il  grande  esercito  assediante  e  far  pri- 
gioniero il  re  e  il  tìglio;  e  quando  il  lupo,  venuto  innanzi  alla  corte 
tutta  radunata ,  tra  lo  stupore  degli  astanti  inchina  umanamente  il 
proprio  padre,  questi  si  ricorda  delle  voci  sentite,  che  accusavano  la 
sua  seconda  moglie  di  aver  trasformato  in  lupo  il  figliastro,  e  manda 
messaggi  in  lspagna  a  chiamarla  ;  onde  la  regina  fattucchiera  viene  in 
Palermo  a  restituire  la  fiera  nelle  sue  forme  umane.  Allora  avvengono, 
con  grandi  feste,  tre  matrimoni  in  Palermo,  alla  presenza  dell'impe- 
ratore di  Roma  e  dello  stesso  principe  di  Costantinopoli,  cioè  quello 
di  Guglielmo  con  Melior,  della  principessa  siciliana  col  principe  Al- 
fonso, già  lupomannaro,  e  finalmente  di  Alessandrina,  cugina  e  confi- 
dente di  Melior,  con  1'  altro  principe  spaglinolo.  Alla  morte  dell'Im- 
peratore di  Roma,  Guglielmo  diventa  imperatore  in  suo  luogo,  e  riu- 
nisce così  all'Impero  il  regno  di  Puglia  e  di  Sicilia. 

Il  tessuto  principale  del  racconto  evidentemente  è  di  modello  bi- 
zantino, che  una  serie  di  romanzi  sul  tipo  di  Floire  et  Blanchefleur, 
ed  anche  episodii  di  poemi,  come  nel  Duurel  et  Beton  ,  si  aggirano 
intorno  alle  avventure  di  amanti  cresciuti  insieme  dalla  tenera 
età,  tutt'e  due  di  origine  regale,  o  quasi,  ben  nota  in  uno,  ignota 
nell'altro,  sì  che  l'uno  o  l'altro  tenesse  ufficio  di  valletto  o  di  an- 
cella. Dicevasi  che  il  lupomannaro,  o  loup  garou,  fosse  di  origine  cel- 
tica 4;  secondo  il  Littré  e  il  Paris  la  nostra  storia  sembra  anzi  aver 
fondamento  sopra  due  lais,  il  Bisclavaret  di  Marie  de  France,  e  il 
Melion  di  ignoto  autore,  tutt'e  due  di  fondo  celtico,  nei  (piali  il  ga- 
rou ha  parte    principale  2.   Sennonché    questa  è  molto    diversa  dalla 


1  Non  di  questa  origine,  noti  ammessa  ormai  dai  più,  ma  dei  rapporti  del  lupo- 
mannaro  con  la  demonologia  tocca  Alfred  Maury,  Croyances  et  Legende*  du  Moyin  Age, 
iiouv.  ed.  Paris,  1896,  p.  249.  Non  mi  è  riuscito  di  vedere  W.  Hertz,  Der  Werwolf,  1862. 

2  É.  Littré  in  Histoire  littéraire  de  la  France,  XXII,  829  sgg.  ;  G.  Paris,  La 
littérature  francaise  au  Moyen  Age,  2e  ed.,  Paris,  Hachette,  1890,  p.  107  (§  67). 


260  N.    ZINGARKI.1,1.  PAHTK    II. 

parte  elio  fa  nel  nostro  poema,  dove  eompie  l'ufficio  dei  pirati  nelle 
favole  bizantine;  epperò  dobbiamo  confessare  che  il  nucleo  originario 
della  invenzione  del  Guillaume  per  ciò  che  spetta  al  lupomannaro  ci 
è  ignoto.  Quanto  alla  trasformazione  di  un  essere  umano  in  fiera,  per 
forza  demoniaca,  è  troppo  ovvia  nelle  antiche  e  nelle  moderne  leg- 
gende, rimontando  ai  poemi  indiani  assai  prima  che  n\Y  Asino  d'Oro 
di  Apuleio,  ed  essendone  pieni  i  romanzi  francesi,  sino  al  Jaufre 
provenzale.  Non  sarà  sfuggito  a  nessuno  che  l'invenzione  del  fanciullo 
salvato  per  le  cure  di  un  lupo  e  accolto  in  casa  di  un  vaccaio  è  molto 
somigliante  alla  leggenda  dei  fondatori  di  Koma  salvati  da  una  lupa  e 
accolti  dal  pastore  Faustolo.  Resta  il  travestimento  degli  amanti  prima 
in  orsi,  poi  in  cervi,  ma  credo  che  non  sieno  diffìcili  i  raffronti,  sebbene 
io  non  sappia  ora  ricordarmene.  A  questi  elementi  che  formano  l'ossa- 
tura del  racconto  vanno  aggiunti  quelli  che  ne  costituiscono  lo  spirito, 
e  derivano  dalla  letteratura  stessa  in  cui  è  sorto  il  poema.  L'amore  dei 
due  giovani  principi  si  esprime  perfettamente  nelle  forme  che  usa- 
vano i  poeti  lirici  del  tempo,  trobadors  e  trouvères,  starei  per  dire 
Folchetto  di  Marsiglia  e  Amerigo  di  Pegugliano  da  una  parte,  Gautier 
d'Espinaua  e  Tebaldo  di  Navarra  dall'altra  :  i  soliloquii  degl'innamo- 
rati, che  accusano  il  cuore  e  gli  occhi,  la  descrizione  dei  contrarli 
affetti  che  provano,  le  immagini  usate  a  rappresentarne  lo  stato  (più 
frequente  quella  della  nave  tra  i  flutti  *),  e  finalmente  la  purità  della 
relazione  tra  Guglielmo  e  Melior  si  collegano  immediatamente  con  la 
poesia  dell'  amore  cortigiano,  e,  in  ispecie,  dell'  amore  fino.  E  questo 
poema  è  veramente  sorto  in  una  corte  molto  vicina,  per  luogo  e  per 
persone,  a  quella  di  Maria  di  Champagne,  dove  furono  prima  accolti 
i  poeti  dell'amore  cortigiano  nella  Francia  settentrionale,  e  quel  Chre- 
stien  de  Troyes,  con  i  cui  romanzi  cavallereschi  ha  molte  relazioni 
il  nostro  poema  in  questo  rispetto  2.  Oltre  all'amore  vi  sono  le  anni: 
e  la  descrizione  delle  imprese  guerresche,  una  dell'Imperatore  di  Roma 
contro  il  ribelle  duca  di  Sassonia,  l'altra  sotto  le  mura  di  Palermo, 
è  fatta  nel  modo  e  nelle  forme  delle  chansons  de  geste,  persino  nelle 
parole  e  nelle  immagini.  Per  darne  un  saggio,  rarissime  e  brevi  sono 
queste,  proprio  come  nel  Roland-,  così  a  v.  2088  sg.  : 

Aussi  le  vont  Saisne  fuiant 
Com  l'aloe  fait  l'esprevier; 

e  a  v.  6497  sg.  (cfr.  Ch.  d.  Boi,  v.  1874  sg.)  : 

Et  aqueudre  ses  anemia 
Coinme  li  faus  fait  les  pertris. 

1  Cfr.  il  mio  opuscolo  Lanate  del  Petrarca  per  nozze  D'Alìa-Pitrè,  Palermo,  1904. 

2  Cfr.  H.  Suchier  u.  A.  Birch  Hirschfeld,  Geschichte  der  franziisischen  Litteratur, 
Leipzig  u.  Wien,  1900,  p.  155. 


Parte  il.  il  Guillaume  nti  palkrxe.  261 

Una    mossa    epica  è  nella  descrizione    dei    suoni    delle    trombe, 
v.  0407  sgg.  : 

Souent  cil  cors  et  ces  araines; 
anatre  grans  lieues  tot  plaines 
En  puet  ou  bien  la  noise  oir; 

che  rammentano,  p.  es.,  Chamon  de  Roland  v.  1004  sg.,  e  1454  sg.  E 
ritroviamo  le  descrizioni  di  battaglie,  i  sogni  profetici,  di  combattimenti 
di  animali,  perfettamente  come  nelle  chansons.  L'Imperatore  di  Roma 
vecchio,  savio,  con  barba  fiorita  (v.  3477  sgg.)  è  immagine  di  Carlo 
Magno;  Guglielmo  che  col  suo  valore  fa  cambiare  inaspettatamente  la 
sorte  delle  armi  ricorda  un  motivo  costante  dell'epica,  da  Tristano  a 
Ogieri  sino  al  tardo  Huon  Chapet.  Un  nome  tolto  ai  romanzi  cavalle- 
reschi è  quello  di  Meliadus,  guerriero  spaglinolo  in  cui  l'invasore  Al- 
fonso aveva  riposto  le  ultime  speranze.  Il  destriero  di  Guglielmo,  Brun- 
saudebruel,  ha  intelligenza  umana  non  altrimenti  degli  epici  Veil- 
lantif  e  Baiart  e  Marchegai.  E  superfluo  mi  pare  ormai  addurre  altre 
prove.  Ma  questi  elementi  dell'epopea  eroica  esistono  pur  essi  in  an- 
teriori romanzi  di  avventure  amorose,  sicché  il  nostro  poeta  non  è 
l'inventore  del  genere;  e  persino  il  nome  di  Melior  deriva  dalla  fata 
del  Partenopeus;  per  la  qua!  cosa  il  tipo  prevalente  del  poema  è  del 
romanzo  amoroso.  Ma  di  queste  relazioni  io  qui  non  mi  occupo,  e  mi 
è  parso  di  doverle  solo  accennare  in  grazia  del  mio  assunto  principale. 
Il  carattere  favoloso  di  questo  racconto  ci  deve  predisporre 
a  non  dar  nessuna  importanza  agli  accenni  di  luoghi  e  di  persone, 
che  servono  soltanto  a  porgere  un'apparenza  di  verità  ,  ma  dalla 
verità  sono  ben  distanti.  Un  imperatore  di  Roma  col  nome  di 
Xatanel  '  non  è  esistito  nei  tempi  moderni  ne  negli  antichi;  ne  altri, 
di  altro  nome,  ha  dato  la  figliuola  in  moglie  al  re  di  Puglia  e 
Sicilia.  L'imperatore  greco  è  chiamato  Patrichidon,  suo  figlio,  il  prin- 
cipe ereditario,  Laertenidon,  e  sono    due  nomi    perfettamente   ignoti 


1  II  Michelant,  p.  VII,  dice,  per  distrazione,  l'imperatore  greco,  e  Io  chia- 
ma Nataniax;  ma  questa  forma,  che  si  trova  al  v.  :!478  e  qualche  altra  volta,  e 
puramente  grafica  per  Natlianiaus,  v.  8847:  e  poiché  le  sta  accanto  Xafhaniel,  v. 
3512,  Xatlianael,  v.  1191,  siamo  nel  caso  di  dnmosiax,  biax,  ostiax,  jorrueiax,  mor- 
niax,  piax,  tonniax,  mangonniax,  boiax  per  damoheln,  beh,  fresteh  ,  osteU  .  jovenceU, 
morsel*,  peU,  tonnels,  mangannelx,  boicls,  quasi  tutte  coesistenti  nel  poema,  e  risa- 
lenti ad  -elio.  Manca  nella  traduzione  inglese:  il  Kaluza.  1.  e.  p.  247,  dice  Natha- 
niel,  dopo  aver  trascritto  Xathaniaus.  —  Pare  che  il  poeta  l'abbia  pescato  nei  libri 
sacri  ,  Nathanael  dei  Sumeri  e  dell'  Evangelo  di  Giovanni  ;  e  vi  avranno  contri- 
buito i  Manuel  greci. 


262  N.    /INGABELLI.  PARTE    II. 

alla  storia  *.  Un  re  di  Puglia  e  Sicilia  chiamato  Embron,  la  moglie 
Felice,  figliuola  dell'  imperatore  di  Costantinopoli,  non  appartengono 
meglio  alla  realtà  ;  e  così  la  loro  figliuola  Fiorenza  (Florence,  e  al- 
trove Florete  che  potrebb'  essere  un  errore  di  lettura)  2.  Anche  la 
geografìa  è  oltraggiata;  e  vediamo  la  foresta  delle  Ardenne,  Ardaine, 
ad  una  lega  da  Eoma  ;  in  Ispagna  una  immaginaria  città  Carmans 
capitale  del  regno  di  Castiglia.  Ma  considerando  altri  fatti,  s'intende 
che  il  poeta  non  se  ne  dava  il  minimo  pensiero;  e  dove  avrebbe  po- 
tuto con  lievissima  fatica  riuscir  preciso  e  schivar  la  taccia  d' igno- 
rante, egli  si  è  creduto  molto  superiore  a  queste  miserie,  contento 
del  suo  racconto  e  dell'interesse  che  avrebbe  suscitato  nel  pubblico, 
ben  noto  a  lui.  Pubblico  di  dame  e  donzelle,  avido  del  nuovo  e  dello 
straordinario,  ma  specialmente  proclive  alle  scene  sentimentali.  Fa 
meraviglia,  per  esempio,  che  da  Roma  a  Costantinopoli,  e  da  Palermo 
alla  Spagna  si  vada  a  cavallo;  e  se  il  chcvaucher  dovesse  lasciarci  in 
dubbio,  ecco  lì  i  palafreni,  v.  2913,  i  bei  muls  ambimi 8,  y.  7427,  che 
ne  manifestano  l' ignoranza  del  gran  mare  che  separa  questi  paesi. 
Eppure  una  bella  volta  si  parla  di  navi  con  le  quali  l'esercito  greco 
viene  in  Sicilia  e  lo  spagnuolo  ritorna  in  patria!  Il  poeta  sapeva 
adunque  come  stesse  la  cosa,  ina  non  se  ne  dava  nessun  pensiero, 
e  si  regolava  secondo  la  situazione  e  gli  effetti  poetici.  Così  dove  si 
tratta  di  poche  persone  da  mettere  in  viaggio,  parla  di  palafreni  e 
muli,  senza  perdersi  a  dire  fin  dove  fosse  loro  concesso  di  usarne; 
dove  invece  di  eserciti,  si  ricorda  del  mare  e  fa  sfilare  il  naviglio. 
E  anche  in  una  delle  redazioni  del  Moniage  Guillaume  che  si  nomina 
seconda,  e  dove  il  Cloetta  in  un  episodio  ha  veduto  i  ruderi  di  un  poe- 
ma della  conquista  normanna  in  Sicilia  (specialmente  per  la  somiglianza 
dell'appellativo  di  Fierebrace  dato  a  Guglielmo  d'Orange  con  quello 
di  Ferreabrachia  del  Guglielmo  Bracciodiferro),  si  parla  di  Palermo, 
di  un  assedio  della  città,  di  gente  che  va  e  viene  a  cavallo,  passando 
montagne  e  paesi,  da  e  verso  la  Francia,  mentre  da  parecchi  luoghi 
risulta  ben  nota  la  posizione   marittima  della  città,  e  l' isola  stessa. 


i  Veramente  il  principe  è  Liheutenidus  al  v.  3362;  ma  aveudosi  Larienidus, 
8947,  in  funzione  di  soggetto,  e  due  altre  volte  Lacrtenidon,  8600  e  8710,  di  obli- 
quo, e  da  ritenere  che  la  prima  forma  derivi  da  una  g-atia  Laherteiiidus  non  bene 
interpretata.  Il  Mussarla,  1.  e.,  lo  chiama  sempre  Partenidou;  ma  questo  è  il  no- 
me datogli  dal  rifacitore  inglese. 

2  Per  verità,  uua  volta  la  figliuola  di  Michele  Comneno  fu  fidanzata  al  re 
Guglielmo  II,  ma  non  se  ne  fece  nulla,  perchè  fu  poi  perfidamente  negata.  An- 
che Embron  sente  di  biblico;  e  nel  poema  inglese  è  Ebrouns ,  la  figliuola  Flo- 
rence. 


PARTE   II.  ir.   GUILLAUME    DE    PALERNE.  263 

In  generale,  tutte  queste  opere  romanzesche,  comprese  le  chansons 
de  geste,  si  segnalano  per  l'arruffio  geografico,  che  non  può  meravi- 
gliare anche  in  quelle  scritte  per  un  pubblico  più  colto.  Qui,  nel  no- 
stro romanzo,  è  possibile  vivere  in  una  pelle  di  orso  per  tanto  tem- 
po, e  a  due  cervi  e  a  un  lupo  rimanere  inosservati  in  una  barca  na- 
scosti nelle  botti;  un  esercito  di  ventimila  uomini  forma  dieci  schiere 
di  duemila  più  una  di  tremila,  v.  6050;  una  volta  son  sette  anni  e 
[>iù  che  Guglielmo  passa  nella  casa  del  vaccaio,  v.  407(5,  9398;  un'altra 
invece  sessanta  mesi,  v.  5913  ;  e  si  può  creare  anche  un  regno  di 
Guascogna,  v.  7268,  che  per  un  Francese  non  è  poi  un  paese  del- 
l'Estremo  Oriente!  Queste  inconseguenze,  inverosimiglianze  e  simili 
servono  pure  a  qualche  cosa,  ad  avvolgere  cioè  il  racconto  di  pru- 
denti nebbie,  e  qui  veramente  vi  è  l'ingenuità  della  novellina  popolare, 
dove  non  resta  allo  spirito  altro  moto  che  di  seguire  storie  d'affetti 
innocenti  o  d'imprese  valorose,  e  assorbirsi  in  esse. 

Eppure  in  questo  poema  non  è  tutto  un  pasticcio  di  topografia 
e  di  storia;  vi  è  del  vero  e  del  reale,  di  un  doppio  ordine,  uno,  per 
dir  cosi,  attuale,  1'  altro  ideale,  che  rispecchia  le  credenze  e  le  idee 
del  poeta  e  dei  contemporanei.  Queste  bricciche  di  verità  noi  verremo 
sceverando  tra  il  molto  vago  e  fantastico. 

Non  è  da  mettere  in  conto  Roma,  perchè  il  solo  accenno  deter- 
minato, parlandosi  di  questa  città,  è,  nientemeno,  la  chiesa  di  S.  Pietro. 
La  regione  italiana  non  è  mai  designata  con  un  nome  solo;  ma  in  modo 
tutto  congruo  all'uso  volgare  del  tempo,  essa  è  formata  di  due  parti, 
Lombardia  e  Puglia;  la  Lombardia  arriva  sino  a  Benevento,  e  comprende 
perciò  la  Toscana  e  Poma;  la  Puglia  comincia  subito  dopo  e  comprende 
l'Italia  Meridionale  e.  nel  suo  ampio  significato  politico,  anche  la  Si- 
cilia (cfr.  insieme  i  vv.  L'Ili,  3SS0,  4855  sgg.,  8800;  Lombardie  contrap- 
posta ad  Alemaigne  v.  1935);  ma  il  re  si  chiama  di  Puglia  e  di  Sicilia, 
come  fu  dal  1130  con  Ruggiero  II.  L'impero  di  Roma  è  detto  anche 
d'Alemagna,  e  comprende  non  più  che  Alemanni  e  Lombardi,  ha  so- 
vranità sid  ducato  o  regno  di  Sassonia,  senza  che  si  sappia  in  (piali 
rapporti  stia  con  la  Francia,  non  mai  nominata.  F  noto  al  poeta 
che  Benevento  apparteneva  alla  Chiesa  ,  ma  vuole  che  la  giurisdi- 
zione suprema,  la  souveraine  justiee  ,  fosse  dell'  Imperatore.  Questi  e 
il  Pontefice  vivono  insieme  in  Poma  in  buonissimo  accordo,  e  l' Im- 
peratore Xatanel  è  addirittura  nativo  di  Poma,  v.  0013.  1/  impera- 
tore greco  è  considerato  pari  in  potenza  e  ricchezza  :  anzi  egli  so- 
spettando che  Melior  sin  l'uggita  con  l'assenso  del  padre,  tà  sentire 
una  fiera  minaccia  al  collega  di  Poma  .  il  (piale  non  protesta  .  v, 
3710  sgg.  : 


264  *f.    ZIXGARELLI. 


Mais  por  celai  qui  me  tist  uestre, 

Si  il  estoit  chose  senre 

Con  m'enst  fiiit  par  aventure 

Ceste  chose  par  malvillanee, 

Mar  ariés  en  ìuoi  fianco, 

Que  taut  coni  vos  vivrés  mais 

Ne  vos  cbarroit  del  col  cil  fais. 


L'impero  greco  è  chiamato  anche  Roumenie,  v.  8037  ecc.,  e  così 
Roumains  i  Greci  al  pari  degli  abitanti  di  Roma,  vv.  774,  0345;  ma 
di  solito  i  Greci  sono  Grijois  e  Griffon.  Benevento  ha  1'  aspetto  di 
una  grande  città,  veduta  da  lontano,  vv.  3882  sgg.,  con  torri,  mura, 
e  porte;  ma  nessuna  menzione  dei  fiumi  che  la  bagnano,  perchè  les 
eres  et  leu  pescheries  del  v.  3885  alludono  a  fontane  e  laghetti  arti- 
ficiali. All'intorno  ha  colline  e  cave  di  pietre,  e  a  destra,  a  due  leghe 
e  mezza,  una  foresta.  Ma  tutto  ciò  non  sorpassa  la  semplice  imma- 
ginazione :  la  città,  già  sede  di  un  potente  ducato  longobardo,  era 
celebre,  oltre  che  per  i  suoi  studi,  specialmente  perchè  dominio  della 
Chiesa;  incuneata  quasi  al  confine  della  Puglia,  pareva  un  continuo 
monito  ai  re  che  volessero  affrancarsi  dalla  signoria  dei  Pontefici;  qual- 
che volta  questi  vi  si  erano  rifugiati,  come  Alessandro  III  nelle  osti- 
lità col  Barbarossa;  era  una  tappa  necessaria  ai  grandi  personaggi  che 
si  recavano  dal  Reame  verso  il  Nord  e  viceversa.  Anche  nel  Girart 
de  Roussillon  Benevento  è  il  luogo  dove  re  Carlo  Martello  coi  cava- 
lieri attende  ,  quasi  a  mezza  strada  tra  la  Francia  e  la  Grecia  ,  la 
sposa  che  viene  dalla  paterna  Bizanzio.  Il  nostro  poeta  conosce  sol- 
tanto che  tra  la  Puglia  e  la  Lombardia  vi  è  questa  città;  e  nessun'altra 
egli  nomina  narrando  il  viaggio  degli  amanti  da  Roma  sino  alla  punta 
estrema  della  penisola.  Conosce  bensì  Reggio  ,  e  di  qui  è  più  abbon- 
dante di  notizie;  v.  4502  sgg.  : 

Et  voient  la  cité  de  Rise 
Qui  sor  le  Far  estoit  assise, 
Le  port  de  mer  et  le  navile 
Qui  arrivo  desous  la  vile. 

La  traversata  del  Faro  in  barca  si  compie  tra  il  sorger  della 
una  e  i  primi  bagliori  dell'  alba ,  termini  piuttosto  elastici.  E  qui  bi- 
sogna riflettere  che  Rise  e  il  Far  erano  notissimi  così  nella  poesia 
epica,  p.  es.  nel  Loquifer,  come  anche  nella  lirica;  e  questi  versi  anzi 
mi  richiamano  facilmente  un  luogo  della  cronica  poetica  in  cui  Ani- 
broise    descrisse  il    viaggio    di  Riccardo    Cuordileone    e    di    Filippo 


PARTE    II. 


IL   GUILLAUME    DE    PALERNE.  265 


Augusto  in  Palestina,  la  sosta  a  Reggio,  il  passaggio  del  Faro  e  il 
lungo  e  fortunoso  soggiorno  in  Messina  : 

Meschiues  est  une  citò 

Dont  li  autor  out  molt  contò, 

Et  bien  et  bele  assise  vile, 

Car  eie  siet  el  chief  de  Sezille, 

Desus  le  Far,  eucoste  Rise, 

Que  Agolant  prist  per  s'eniprise.   l 

Le  vicende  politiche  della  Puglia  e  della  Sicilia  e  le  Crociate 
avevan  dato  celebrità  al  Faro  e  alle  due  città  che  dagli  opposti  lidi 
si  guardano. 

Tra  Messina  e  Palermo  sono  mentovati  due  luoghi,  Sainte  Marie 
de  la  Saie  e  Chefalus  une  ette"2.  Della  prima  non  ho  trovato  notizia; 
perchè  una  Santa  Maria  la  Sala  esiste  solo  nella  provincia  di  Ve- 
nezia. ()  dunque  il  poeta  se  l'è  inventata,  ovvero  egli  conosceva  in- 
vece e  intendeva  (se  pure  non  V  ha  scritto  davvero),  Santa  Maria 
della  Scala,  sobborgo  a  tre  miglia  da  Messina,  sede  di  un  celebre 
ed  antico  monastero  di  regia  fondazione  alle  radici  del  colle  di  San 
Piceio,  che  fu  abbandonato  dalle  monache  per  la  città  nel  1347  3. 
Che  sia  così,  pare  avvalorato  dal  fatto  che  essendo  provvista  dell'ap- 
pellativo di  cité  la  sola  Cefalù,  quel  luogo  debba  essere  considerato 
come  un  borgo;  e  la  vicinanza  a  Messina  è  forse  accennata  nel  j>o<, 
poco,  di  v.  403(5  sgg.  : 

Sainte  Marie  de  la  Sale 

Eru  poi  de  tans  ont  trespassc, 

Et  Chefalus,  une  cito. 

Questi  non  erano  luoghi  famosi;  sicché  il  poeta,  senza  esservi 
stato,  ne  ebbe  conoscenza,  forse  da  racconti  di  crociati  o  di  pelle- 
grini o  di  mercanti,  forse  da  relazioni  scritte  (ed  egli  frequentava  una 
corte  fiamminga  cui  non  era  ignota  la  Sicilia),  assai  diversa  da  quella 
che  ha  dimostrata  per  Poma  e  la  Spagna.  Se  vi  fosse  stato  realmente, 
non  si  sarebbe  limitato  a  così  poco,  e  avrebbe  fatto  più  sfoggio. 

Palermo  è  assediata  :  quando  gli  amanti  vi  arrivano,  vedono  perciò 


1  Pertz,     Mon.     Gemi.  Hist.  XXVII  ,  5o5.    Neil'  ultimo    verso    si  allude    alla 
Chanson  d'Axprimont. 

2  I  nomi  di  questi   luoghi  mancano  nel  poema  inglese,    cfr.  Kai.uza,  1.  e.  pa- 
gina 24l>. 

3  Vito  Amico  ,   Dizionario     topografico  della   Sicilia  .   ediz.    di   Gioac.  Di   Marzo, 
Palermo,   1856,   voi.   II,   p.  44. 


266  N.    ZINOAREUJ.  PARTE   II. 

qualche  cosa  d' insolito  ,  le  opere  di  difesa  sulle  mura,  batti  fredi  e 
bertesche,  oltre  ai  grandi  campanili,  alle  torri  grandi  e  piccole,  alle 
splendide  case  private,  sulle  quali  giganteggia  il  palazzo  reale  con 
l'alta  torre,  e  l'aquila  d'oro  rilucente,  sicché  si  prova  la  doppia  im- 
pressione di  una  città  forte  e  magnifica;  vv.  4(>41  sgg.  : 

Taut  ont  erre  les  mnrs  en  "voient 
Et  les  bretescbes  qui  verdoient, 
Les  baus  clochiers  et  les  berfrois, 
Les  riches  sales  as  borgois, 
Les  bretescbes  et  les  donjons, 
Les  enseignes  et  les  penons 
Dont  li  mur  sont  envirouné 
Tot  environ  a  la  cité. 
Bien  samble  vile  deffensable 
Et  por  veoir  miilt  delitable. 
Le  palais  voient  priucipal 
Et  sor  le  maistre  tor  roial, 
Ou  li  riches  tresors  estoit, 
L'aigle  d'or  fin  qui  relnsoit. 

L'  aquila  d'oro  sarebbe  un  indizio  quasi  decisivo,  perchè  un  vi- 
sitatore, meglio  che  altri,  avrebbe  saputo  che  l'arine  della  città  e  dei 
suoi  Re  fosse  appunto  un'aquila.  Sennonché,  ecco,  poco  dopo,  la  tenda 
reale  nell'accampamento  spaglinolo  con  l'aquila  d'oro  sulla  cima;  e 
già  sulle  mura  di  Benevento  si  vedeva  la  stessa  insegna.  Per  il  poeta 
era  adunque  generalmente  1'  emblema  della  regalità  ;  e  quell'  indizio 
non  ha  importanza.  I  nemici  tengono  assediata  la  città  solo  dalla 
parte  di  terra;  il  loro  campo  si  stende  nella  campagna,  e  il  padiglione 
reale  sta  su  di  una  collina  lungo  un  querceto  ;  il  mare  è  perfetta- 
mente libero,  popolato  di  navi  : 

Voient  la  mer  desos  la  vile, 
Le  riche  port  et  la  navile. 

Quando  1'  esercito  nemico  sarà  ridotto  a  mal  partito,  dispererà 
dello  scampo  essendo  chiuso  dal  mare,  v.  0938.  E  questa  è  un'altra 
ingenuità  del  nostro  poeta,  il  quale  non  pensò  sicuramente  che  l'as- 
sedio di  una  città  marittima  è  perfettamente  inutile  quando  le  si 
lascia  libero  il  mare.  È  vero  che  come  tutte  le  città  marittime  del 
Medio  Evo,  anche  Palermo  assicurava  il  suo  porto  con  lo  stendere 
una  catena  tra  due  punte  di  terra;  ma  questo  non  avrebbe  impedito 
a  lungo  i  tentativi  delle  navi  nemiche.  Pare  che  il  poeta  non  sappia 


PARTE    II.  IX    GUII.I.ACME    DE    CALERNE.  267 

mai  nulla  di  mare;  e  per  verità  le  sue  chansons  de  geste  gli  davano 
i  modelli  di  bei  combattimenti  di  cavalieri  vestiti  di  ferro;  lo  stesso 
Moniage  Guillaume  descrive  soltanto  combattimenti  campali  fuori  le 
porte  di  Palermo,  e  non  si  cura  del  mare  :  sicché  non  vi  è  luogo  in 
questi  poemi  se  non  per  gli  elementi  della  tradizione  poetica,  senza 
rispetto  della  realtà.  E  così  nel  poema  del  Già  ,  il  re  del  Marocco 
arrivato  con  le  sue  navi  nel  porto  di  Valencia  ,  ne  sbarca,  e  fa  la 
guerra  in  terraferma,  senza  che  il  mare  entri  più  per  nulla. 

La  reggia  di  Palermo  sorge  ad  un  capo  della  città,  e  accanto 
sta  il  suo  grande  parco  popolato  di  molte  fiere,  come  cervi  e  caprii 
e  leopardi,  che  gli  assedianti  avevano  intanto  diradati.  Questa  indi 
cazione  topografica  corrisponde  mirabilmente  alla  realtà  :  il  palagio 
era  infatti  presso  la  cinta  delle  mura;  e  i  re  Normanni  oltre  ad  un 
gran  parco,  con  cinghiali  e  cervi  e  altre  fiere,  a  Monreale,  ne  ave- 
vano uno  più  vicino,  alla  Cuba,  costruito  da  Gugliemo  II.  Nondi- 
meno bisogna  notare  che  anche  in  altre  città  la  reggia  stava  presso 
alle  mura,  come  in  Napoli  Castel  Capuano;  e  di  parchi  con  fiere  si 
dilettavano  tutti  i  sovrani,  grandi  e  piccoli  :  tntt'  al  più,  di  queste 
magnificenze  palermitane  era  corsa  la  fama  molto  lontano. 

Come  in  tutte  le  descrizioni  di  battaglie,  dall'  Iliade  alle  chan- 
sons de  gente,  prima  che  l'eroe  venga  ad  abbattere  un  pericoloso  av- 
versario, questi  uccide  due  o  tre  guerrieri  insigni  affinchè  poi  la  sua 
morte  apparisca  una  bella  vendetta  ed  una  grande  prodezza,  esal- 
tando e  rinfrancando  il  lettore.  Così  avviene  nel  nostro  poema,  e 
così  troviamo  nominati  alcuni  cavalieri  dell'esercito  siculo  -pugliese  l. 
Uno  è  di  Reggio,  Marc  de  Rise,  v.  5753,  un  altro  è  Casn  de  Cephalu, 
v.  r>7.">7,  poi  un  palermitano  Jasan,  v.  57C5;  due  fratelli  di  Brindisi, 
Tardans  e  Dolans,  nomi  accoppiati  e  omofonici  come  nelle  chansons 
epiche,  hanno  il  privilegio  della  gabella  del  porto;  seguono  tre  per- 
sonaggi la  cui  patria  mi  riesce  impossibile  trovare,  Poonciax,  cioè 
Pavoncello,  di  Bisterne,  v.  6593,  Geraumes  de  Melans,  v.  0590,  Aqui- 
lani de  Candis,  v.  6613.  Melans  sarà  mai  una  storpiatura  di  Milazzo  f 
Bisterne  è  detta  altrove  fabbricatrice  di  drappi,  perchè  due  volte  la 
Regina  siede  sor  un  paile  de  Bisterne,  vv.  7591,  7975,  sopra  un  [tallio 
di  Bisterna  \  Non  vi  è  altro  di  approssimativo  che  un'antica  rocca 
di  là  da  Siculiana,  Bissenza,  dove  i  compilatori  del  Dizionario  Topo- 
grafico Siciliano  trovano  vestige  di  antico  edilizio  e  di  città  distrutta, 


1  Nessuno  di  questi  nomi  sta    nel  poema  inglese;   cfr.   Kalnza  ,  1.   e.   p.     244. 

2  Veramente  bei  tessuti  di  lana  e  di  seta  a  colori  e  con  ricami  si  facevano 
in  Palermo  stesso,  anzi  nelle  stanze  basse  della  reggia,  come  sappiamo  da  l'go 
Falcando;   cfr.  la  nota  più  oltre. 


268  K.    ZINGAUKI/Lt.  PAKTE   II. 

il  cui  nome  è  incerto.  C  è  poco  da  concludere,  e  forse  è  un  nome 
inventato,  o  sono  tutt'e  tre  inventati. 

Della  reggia  di  Palermo  si  celebra  spesso  una  grande  sala  di 
marmo,  dove  si  aduna  un  vero  popolo  di  cavalieri  e  dame,  sale 
marberine,  v.  5553,  sale  perrine,  v.  7067;  e  così  un  torrione  del  pa- 
lazzo, la  maistre  tor,  v.  7152;  inoltre  lo  scalone  è  ad  archi  con  volte, 
les  degrés  des  ars  rolus,  v.  5380.  Si  corre  subito  col  pensiero  a  quella 
gran  sala  circondata  da  logge  descritta  dal  cronista  Ugo  Falcando  l. 
Ma  la  maistre  tor  è  anche  in  Roma;  la  scala  con  i  degrés  de  V  are 
volu  sta  pure  nella  immaginaria  Carmans  di  Spagna  :  questi  sono 
caratteri  generali  dell'  architettura  contemporanea,  come  era  nota  al 
poeta,  e  non  hanno  nulla  di  locale. 

Così  pure  sarà  immaginata  la  descrizione  di  una  causerà  da  letto 
della  reggia,  dipinta  e  smaltata  e  incastrata  di  gemme,  v.  7843  sgg.  : 

Atant  son  verni  en  la  chambre, 
Qui  painte  fu  et  faite  a  lambre 
A  ricb.es  pieres,  a  esmaus. 

Nella  descrizione  degli  addobbi  per  le  grandi  nozze,  brilla  un'i- 
dea del  lusso  e  dello  sfarzo  orientale,  per  l'oro  incastrato  nelle  pietre 
degli  edilizi,  per  le  camere  dipinte,  che  fanno  pensare  alla  Zisa  e  alla 
camera  ancora  esistente  di  Ruggiero  II;  e  così  pei  drappi  serici  rica- 
mati con  ligure  di  uccelli,  di  fiere  e  di  personaggi,  vv.  8G30  sgg.  : 

Atorné  furent  li  palais 
Qui   mult  erent  et  bel  et  gent, 
Car  tot  furent  li  pavement 
De  blanc  liois,  de  marbré  bis, 
Trestot  a  or  ensi  assis. 
Tot  entor  fu  encortinés 
De  dras  de  soie  a  or  ouvrós, 
A  oeuvres  d'or  et  a  paiutures, 
A  maintes  diverses  figures 
D'oisiax,  de  bestes  et  de  gens. 
Les  chambres  furent  par  dedens 
Paintes  et  bien  illuminées. 

E  contuttociò  non  usciamo  dalla  semplice  immaginazione  ,  soc- 
corsa probabilmente  da  tradizioni  orali;  perchè  un  francese  che  avesse 


1  Epistola  ad  Petrum  panormitane  ecclesie  thesanrarium  de  calamitate  Sicilie,  in 
La  historia  o  Liber  de  regno  Sicilie,  ed.  d.  G.  13.  Siragusa  ,  Roma,  Istituto  Storico 
Italiano,  1897,  p.  177  sgg. 


TARTE   II. 


IL   GUILLAUME    DE    VALERNE.  269 


visitata  Palermo  non  avrebbe  passato  sotto  silenzio  tutto  quello  che 
la  città  aveva  allora  di  veramente  singolare  e  strano  per  lui  :  la 
speciale  condizione  della  convivenza  di  musulmani,  francesi  e  italiani, 
i  nomi  di  alcuni  celebrati  edifizii,  come  lo  stesso  Cassaro,  e  che  so 
altro.  Quanto  al  Mane  liois,  di  cui  son  fatti  alcuni  edilizi  ed  anche 
le  scale  della  reggia,  non  è  altro  che  una  pietra  dei  dintorni  di  Pa- 
rigi, un  calcare  compatto  e  liscio,  menzionato  bene  spesso  in  altri 
poemi,  come  il  Partcnopem  e  il  Perceforest,  e  di  cui  non  esiste  in 
italiano  il  nome  equivalente.  Le  finestre  di  marmo  del  v.  (>294  sono 
un  particolare  insignificante.  Facile  era  pure  immaginare  che  tutti  i 
vescovi  della  Sicilia  venissero  ad  assistere  alle  grandi  nozze;  il  pa- 
triarca Alexis,  e  il  cappellano  regio  Moisan  sono  egualmente  fittizi, 
che  anzi  l' arcivescovo  di  Palermo  non  avea  il  titolo  di  patriarca; 
Moisan  astrologo  e  interprete  di  sogni  fa  ricordare  tuttavia  quei  savii 
arabi  onorati  nella  corte  dei  Guglielmi,  I  e  II,  o  accolti  dal  munifico 
e  dotto  Abul  -  Kasin.  Due  volte  è  detto  che  a  Palermo  faceva  gran 
caldo,  vv.  5836,  <>2!)5;  ma  bisogna  riflettere  che  occorreva  al  poeta 
di  portare  i  suoi  personaggi  alla  loggia  a  prendere  il  fresco  perchè 
essi  potessero  guardare  fuori  nel  parco,  e  vedere  il  lupo  garou  che 
veniva  a  far  la  riverenza. 

A  questo  si  riduce  la  conoscenza  che  della  Sicilia  e  della  sua 
capitale  aveva  il  poeta  di  (ini  Ila  urne  de  Paterne,  onde  non  è  esatto 
ciò  che  si  è  asserito  in  proposito  da  più  d'uno.  Guardando  invece 
le  tracce  lasciate  nel  poema  dalle  condizioni  storiche,  arriveremo  a 
risultati  più  soddisfacenti.  Anche  qui  non  mancano,  naturalmente,  le 
fantasticherie  :  così  l'elezione  dell'Imperatore  di  Poma  pare  fatta  col 
concorso  di  tutti  i  Grandi  ,  li  baron  et  li  riche  houme  et  les  persones 
de  Vonor  (v.  1)252),  invece  che  coi  pochi  Elettori.  Ma  ben  troviamo 
clic  i  Peali  di  Puglia  e  Sicilia  [tossono  indifferentemente  chiamarsi 
con  l'uno  e  1'  altro  titolo;  essi  non  dimorano  stabilmente  a  Palermo, 
ma  <[iii  si  riducono  di  solito.  11  Reame  non  era  soggetto  ali1  Impe- 
ratore romano  o  d'Alegnama  ,  e  nessun  accenno  si  fa  ai  suoi  rap- 
porti con  la  Chiesa  ,  sebbene  il  poeta  sia  religiosissimo.  Il  nome  di 
Guglielmo  ad  un  re  di  Sicilia  rammenta  evidentemente  i  due  re  clic 
lo  portarono;  e  quello  di  Embron  suo  padre  è  inventato  appunto  per- 
chè nessuno  dei  due  Guglielmi  storici  ha  compiute  le  gesta  attri- 
buite all'eroe.  Il  quale  in  battaglia,  allorché  invoca  lo  sforzo  dei  suoi, 
alza  il  grido  di  guerra  Palerne  ;  e  non  so  se  questo  corrisponda  alla 
realtà  ,  e  sonasse  nei  fatti  d'  arme  compiuti  dai  Siciliani,  salpati  da 
Palermo,  sotto  i  re  Normanni  in  Africa  e  in  Grecia.  Quando  il  re 
di  Castiglia    prende    commiato  dall'  Imperatore  di     Poma,  questi  gli 


270  Hf.   ZIXGAUEI.LI.  PARTE   II. 

rammenta  di  esser  sempre  pronto  a  soccorrerlo  contro  i  Pagani,  cioè 
i  Saraceni  suoi  vicini. 

In  qual  tempo  è  dunque  scritto  il  poema  ?  L'autore  ci  ha  fatto 
grazia  di  svelarci  l'epoca  dell'azione  da  lui  narrata  dicendo  che  il  suo 
Guglielmo  fu  consacrato  imperatore  di  Roma  da  papa  Clemente,  il 
quale  pontificò  tra  un  Gregorio  ed  un  altro,  v.  9354  sgg.  : 

Sacrés  les  a  et  beneis 

Pape  Clemens,  nns  apostoiles 

Qui  fu  entre  les  deus  Grigoires. 

Abbiamo  la  scelta  tra  Clemente  II,  1046-1048,  che  succedette 
a  Gregorio  VI,  e  precedette  di  25  anni  Gregorio  VII;  e  Clemente  III, 
1187-1101,  tra  Gregorio  Vili,  1187,  e  il  IX,  eletto  nel  1227.  Così 
la  data  fittizia  dell'azione  si  complica  con  quella  in  cui  fu  scritto  il 
poema.  Dice  il  Bòhmer  che  1'  autore  intendeva  di  Clemente  li,  e 
che  egli  scriveva  quando  non  era  venuto  ancora  Gregorio  IX,  e  dopo 
il  1187;  perchè  essendosi  con  questo  papa  rinnovato  il  caso  di  un 
Clemente  tra  due  Gregorii,  egli  non  sarebbe  riuscito  a  determinar 
nulla;  distinse  adunque  il  Clemente,  III,  dei  suoi  tempi  dall'altro  sotto 
il  quale  avvenne  la  sua  storia,  e  non  si  preoccupò  d'altro  l.  Il  Paris 
oppose  che  1'  autore  non  volle  determinare  proprio  nulla,  e  che  mise  i 
due  Gregori  a  caso  2;  il  poema  sarebbe  anteriore  tuttavia  al  1227.  Certo 
è  infatti  che  negli  anni  di  Clemente  II  nessun  re  Guglielmo  aveva 
ancora  la  Sicilia  ;  e  in  quelli  del  III  non  fu  consacrato  nessun  im- 
peratore. Un  altro  dato  di  tempo  troviamo  nella  dichiarazione  finale 
in  cui  il  poeta  benedice  la  contessa  Jolanda  la  quale  lo  esortò  a 
scrivere  la  sua  opera  : 

Cil  qui  tos  jors  fu  et  sans  li 
Sera  et  pardoune  briement, 
11  gart  la  contesse  Yoleut 
La  boine  dame,   la  loial, 
Et  il  destort  son  cors  de  mal. 
C'est  livre  list  diter  et  faire 
Et  de  latin  eu  roumans  traile. 
Proions  Dieu  por  la  boine  dame 
Qu*eu  bon  repos  en   mete  Panie. 

Anche  qui  i  dispareri,  ma  ben  presto  eliminati,  perchè  contra- 
riamente all'opinione  del  Littré,  per  il  quale  la  contessa  sarebbe  Jo- 


1  E.  Boebmer,  Abfassungxzeit    des  G.  d.  I\,  in  liomaninche  Studien  III,   131. 

2  liomania,   VII  (1878),  p.  470. 


PARTE   II.  IL   GUILLAUME   DE    PALERNE.  271 

landa  di  Xevers,  che  sposò  nel  1205  Giovanni  tiglio  di  Luigi  IX, 
tutti  accettano  quella  del  Madden,  editore  del  William  and  the  Wer- 
wolf,  trattarsi  di  -Iolanda  figlia  di  Baldovino  IV  di  Hainaut,  la 
quale  rimasta  vedova  di  Yves  conte  di  Soissons  nel  1177  andò  in 
seconde  nozze  con  Ugo  conte  di  Saint-Poi  :  costei  era  zia  di  Baldo- 
vino VI  eletto  nel  1204  imperatore  di  Costantinopoli'.  Sappiamo 
che  ella  avendo  ereditato  da  suo  fratello  Baldovino  V  nel  1198  un 
manoscritto  della  Vita  Caroli  Magni  dello  Pseudoturpino,  incaricò 
Nicolas  de  Senlis  di  tradurlo  in  volgare  2  ;  e  ad  un  Baldovino,  pro- 
babilmente il  medesimo,  è  dedicato  VExcoufie,  o  romanzo  dello  spar- 
viero, che  nel  codice  precede  il  nostro  Guillaume  de  Paterne,  ed  era 
anche  in  altri  codici  perduti.  Non  isfugga  che  il  poeta  parla  della 
contessa  Jolanda  come  già  morta,  e  questa  data  è  ignota  3. 

11  termine  estremo,  ad.  quem,  posto  dal  Paris,  del  1227  è  giu- 
stissimo; ma  possiamo  spingerci  oltre  la  fine  del  secolo  precedente, 
oltre  cioè  il  1188,  al  quale  si  tien  vicino  il  Suchier  col  Bòlmier  e  con 
loro  il  Cloetta.  Io  credo  che  il  poema  appartenga  ai  primi  anni  del  regno 
di  Federico  II  ,  quando  il  monarca  e  il  papa,  Innocenzo  III  e  Ono- 
rio III,  vivevano  in  perfetto  accordo.  Imperatore  nato  in  Italia,  quasi 
in  Poma,  fu  egli  solo;  egli  era  nato  appunto  da  una  regina  di  Si- 
cilia, (piale  il  Guillaume  della  nostra  favola.  Parlare  di  imperatori 
romani  nati  in  Italia  quando  oramai  se  n'era  perduta  la  memoria,  al 
tempo  del  Barbarossa  o  di  Enrico  VI,  non  sarebbe  venuto  in  mente 
a  nessuno.  Dipiù  .  la  ribellione  del  duca  di  Sassonia  ,  che  il  poeta 
chiama  ora  duca  ed  ora  re,  ha  il  suo  sostrato  storico  nella  lotta  di 
Ottone  IV,  considerato  qui  come  un  ribelle,  e  nella  sua  invasione  in 
Italia,  che  le  scorrerie  del  feudatario  ribelle  in  Lombardia  sono  un 
episodio  importante  del  nostro  poema.  Bisogna  pur  considerare  che 
soltanto  in  quel  tempo  un  francese  avrebbe  parlato  dell'  Impero  con 
tanta  simpatia,  avendo  lo  stesso  re  di  Francia  soccorso  potentemente 
il  giovine  Monarca  a  trionfare  del  suo  avversario.  La  morte  del  duca 
di  Sassonia,  in  prigione,  dopo  una  grande  battaglia,  rammenta  ciucila 
di  Ottone,  seguita  quattro  anni  appena  dopo  la  battaglia    di   Bouvi- 


1  Cfr.  Michelant,  cit.  préface,  X  sg. 

2  G.  Paris,  La  lUtérat.  frati?,  au  M.  A.  cit.,  ^  94. 

3  Deriva  veramente  il  poema  da  un  testo  latino,  come  dice  l'autore  ?  Il  Mi- 
chelant, p.  Ili,  crede  si  tratti  di  un  frammento  di  cronica  italiana,  opinione 
impossibile,  sia  per  l'ignoranza  dei  luoghi,  sia  per  la  natura  dell'opera  :  piuttosto 
era,  se  mai,  un  racconto  latino,  cui  il  poeta  avrebbe  aggiunte  illusorie  determi- 
nazioni di  tempi  e  di  luoghi.  Del  resto  sappiamo  che  cosa  valgano  tali  dichia- 
razioni. 


272  N.    ZINOARET/LI.  TARTE   II. 

nes  del  1214  ;  e  ci  distoglie  dal  pensare  al  dissidio  tra  Federico  Bar- 
barossa  ed  Enrico  il  Leone. 

Dice  l'ignoto  poeta  clic  Felice,  la  regina  di  Sicilia  madre  di  Guil- 
laume, sognò  ima  figura  umana  sulla  torre  di  Palermo,  rivolta  il  viso 
verso  il  mare,  e  che  a  quella  tanto  si  allungassero  le  braccia  da 
toccare  con  la  destra  le  mura  di  Roma  ,  con  la  sinistra  la  Spagna  : 
il  savio  Moisan  spiegò  clic  la  buona  e  infelice  regina  avrebbe  un 
giorno  tenuto  autorità  in  Roma,  perchè  suo  figlio  ne  sarebbe  stato 
il  Sovrano.  L'immagine  mi  pare  di  quelle  con  le  quali  riesce  a  fer- 
marsi un  grande  avvenimento  nella  mente  popolare  :  forse  questa  fi- 
gura vide  anche  Costanza  normanna  quando  era  chiesta  in  isposa  per 
Enrico  VI;  e  forse  ella  vagheggiava  appunto  un  governo  di  pace  e 
giustizia  nell'  Impero  ,  dopo  tante  guerre  ,  come  quello  che  il  poeta 
attribuisce  appunto  a  Guillaume  divenuto  Emperatore  (v.  95(50  sgg.), 
ed  era  celebrato  per  il  nipote  suo  ,  che  la  storia  chiama  meritamente 
il  Buono  :  «  Poi  mette  tale  pace  nel  regno  che  nessuno  è  così  forte 
ed  ardito  da  recar  torto  ad  alcuno  ;  i  mercatanti,  i  forestieri  e  la 
gente  del  paese  vanno  sicuramente,  non  hanno  timore  che  si  tolga 
loro  nulla;  e  chi  assalisse  il  paese,  non  vi  metterebbe  altro  pegno 
che  il  proprio  corpo  da  essere  appeso,  e  nessuno  potrebbe  impedirlo. 
Ciascuno  viene  sicuramente  :  benedetto  chi  tiene  tale  potestà.  Molto 
fu  valente  imperatore  e  forte  e  possente  nell'amniinistrar  la  giusti- 
zia :  esalta  con  ogni  suo  potere  il  bene,  abbassa  e  fa  cadere  il  male; 
piega  e  tiene  giù  gli  orgogliosi,  allontana  da  se  gli  adulatori  e  i 
menzogneri,  giustamente;  onora  ed  innalza  i  valentuomini;  ama  Ilio  e 
serve  la  santa  Chiesa  ».  Lodi  eguali  fece  di  Guglielmo  II  Riccardo 
da  san  Germano,  e  sono  un'eco  chiarissima  della  fama  lasciata  in  Eu- 
ropa dal  buon  monarca  1  ;  ma  tuttavia  è  avvenuta  come  una  crasi  col 
personaggio  di  Federico  II  che  suscitò  più  che  speranze  di  un  governo 
di  giustizia  e  di  pace.  Tale  era  il  concetto  popolare  dell'Impero;  e  non 
è  meraviglia  se  per  molto  tempo  gli  fossero  affezionati  tanti  alti  spiriti 
del  Medio  Evo,  specialmente  coloro  che,  come  Dante,  ebbero  bramosia 
di  pace  e  provarono  il  disgusto  degl'intrighi  e  delle  violenze. 

Sicché  nel  poema  di  amori  e  di  avventure,  con  tutte  le  bizzarrie 
di  geografia  e  di  storia,  e  le  fandonie  ,  vediamo  esaltate  pure  le  idee 
più  nobili  di  ({nel  tempo,  l'amore,  il  valore,  la  religione  e  la  giustizia, 
concretata  nell'impero  di  Roma;  non  di  proposito,  ma  perchè  così  le 
sentiva  l'autore,  e  così  la  società  per  la  quale  egli  cantava. 


1  Cfr.   Fr.  Torraca,  II  regno  di  Sicilia  nelle  opere  di  Dante.  Palermo,  1900. 

Nicola  Zingarelli. 


AARGARITO  DI  BRINDISI  CONTE  DI  WALTA 

E  AMMIRAGLIO  DEL  RE  DI   SICILIA. 


Xella  storia  degli  ultimi  re  Normanni  di  Sicilia  Margarite),  o  Mar- 
garitone,  di  Brindisi  occupa  un  posto  importante  :  quasi  tutti  gli  scrit- 
tori e  i  cronisti  del  tempo ,  bizantini ,  italiani ,  tedeschi  e  francesi, 
riferiscono  le  imprese  ond'  egli  salì  ben  presto  in  fama  e  potenza  l. 

L'origine  di  questo  «  re  del  mare  »,  o  «  Xettuno  »,  come  fu  detto 
dal  continuatore  francese  di  William  de  Tyr  2,  è  un  po'  controversa; 
la  questione  è  stata  più  volte  messa  innanzi  e  risoluta  in  due  modi 
diversi  :  vi  lia  chi  lo  crede  «  de  genere  regio  Siculorum  »  ,  e  chi  lo 
ritiene  invece  un  pirata. 

Quasi  tutti  gli  scrittori  di  Brindisi  3,  e'  hanno  impreso  con  più 
amore  che  critica  a  narrarne  le  imprese,  hanno  accolto  la  prima  so- 
luzione sulla  fede  del  solo  Tolomeo  da  Lucca  4 ,  vissuto  in  tempi  e 
luoghi  molto  lontani  dagli  avvenimenti ,  onde  sembra  eh'  egli  abbia 
piuttosto  raccolta  e  riferita  la  tradizione  leggendaria  che  forse  lungo 
il  sec.  XIII  s'  era  venuta  formando  nelle  Puglie.  L'  altra  opinione, 
messa  fuori  dal  La  Lumia  e  dall'Amari,  ha  il  inerito  d'esser  fondata 
sulla  testimonianza  di  quasi  tutti  gli  scrittori  contemporanei,  bizan- 
tini, italiani  e  tedeschi  5,  che  l'Amari  ha  esaminato  in  gran  parte  con 
vero  acume  critico. 


1  Per  tutte  le  testimonianze.  Cfr.  Amari,  St.  dei  Mus.  in  Sicilia,  III,  pp.  523  a 
529,  568,  607  e  note.  —  L'Amari  e  il  La  Lumia,  Studi  di  Storia  Siciliana,  3a  ed. 
voi.  I,  p.  531  e  seg.  ,  hanno  scritto  su  Margarito  i  migliori  cenni  biografici  che 
tuttavia  si  conoscano. 

2  Recueil  des  Historiens  des  Croisades  (Bongars"»  ,  Historiens  Occidentaux  ,  t.  II, 
lib.  XXIV,  cap.   7. 

3  Cfr.  per  tutti  Ferrando  Ascoli  ,  La  storia  di  Brindisi  scritta  da  un  marino, 
Rimiui,  1886,  p.  79  e  seg.;  Rassegna  Pugliese,  Trani-Bari  1902,  voi.  XIX,  nr.  11-12 
pp.  343-348  («  Margaritus  de  Brundnsio  »  1130  (?)-1196).  Anche  il  napoletano  Gian- 
none  (Ist.  civ.  del  regno  di  Napoli  ,  1865,  III,  p.  301,  dice  Marg.  duca  di  Du- 
razzo  e  principe  di  Taranto. 

4  Muratori  ,  E.  I.  S.  XI  ,  col.  1275  all'  anno  1193.  A  questo  annalista  dob- 
biamo pure  la  notizia  del  «  rex  Margaritus  Epirotarum  »,  del  tutto  falsa. 

5  Amari,  op.  cit.,  Ili,  525  n.  3. 

18 


274  C.    A.    GARTJFI.  PARTE   II. 

Un  solo  punto,  a  dir  dello  Spata  l,  rimarrebbe  però  dubbio  nelle 
pagine  forbite  ed  eleganti  del  La  Luana  e  nelle  profonde  ed  acute 
dell'Amari;  e  questo  punto  dubbio  si  riferirebbe  ai  §§  85  e  91  della 
&B66aXoviv.r\g  óvyyQcccp))  t^g  eifre  vótSQtcg  za^avrijv  àlùósag'  ecc.  di 
Eustazio. 

Secondo  l'Amari  e  il  La  Lumia  non  sarebbe  inverosimile  che  Mar- 
garito  «  abbia  lasciato  coll'antico  mestiere  un  soprannome  datogli  dap- 
prima ,  e  che  egli  ammiraglio  ,  e  poi  conte  di  Malta  ,  sia  lo  stesso 
Sifanto,  il  corsaro  ausiliario  del  re  di  Sicilia,  ricordato  dall'arcive- 
scovo Eustazio  nella  presa  di  Tessalonica  ». 

Per  lo  Spata  siffatta  congettura  non  ha  alcun  fondamento,  perchè 
«Eustazio  poteva  sapere  se.  Sifanto  da  Brindisi  fosse  un  suddito  del 
re  ed  invece  affermò  che  era  corsaro  volontariamente  offertosi  ai  Si- 
ciliani, previo  ingaggio  convenuto;  il  che  importa  ch'era  straniero  ». 
Che  Sifanto  fosse  di  Brindisi ,  Eustazio  poteva  saperlo  ,  ma  non  lo 
disse;  che  Margarite  fosse  d'origine  pirata,  1'  affermano  tutti  gli  scrit- 
tori e  i  cronisti  contemporanei;  che  per  esser  corsaro  e  offrire  i  propri 
servigi  si  dovesse  necessariamente  essere  straniero  è  una  mera  affer- 
mazione dello  Spata. 

La  questione,  a  mio  avviso,  dev'esser  posta  invece  nei  seguenti 
termini  : 

1.  Eustazio  nei  §§  85  e  91  col  nome  Sifanto,  o  Sifonto  (come 
ritengo  sia  giusto),  allude  a  Margarite  % 

2.  E  se  allude  a  Margarite,  si  ha  a  credere  eh'  egli  abbia  rife- 
rito il  soprannome  col  quale  era  comunemente  inteso,  o  deve  piuttosto 
ritenersi  che  il  nomignolo  siagli  stato  appiccicato  dall'  autore  come 
fioritura  rettorica  ? 

Mceta  Choniate  2  dice  che  nell'espugnazione  di  Tessalonica  per 
mare  vi  presero  parte  Tancredi  conte  di  Lecce  ,  ammiraglio  del  re, 
e. .  .  .  Katà  d-alartav  7teiQcctì)g  ò  KQcctiórog,  ó  MsyaQsCrr]g. 

William  de  Tyr ,  Sicardo  vescovo  di  Cremona  e  Kodolfo  de  Diceto 
affermano  pure  che  l'impresa  fu  condotta  da  Tancredi  e  che  in  Tessa- 
lonica Margarito  si  coprì  di  gloria.  Non  v'ha  dubbio  quindi  che  Tan- 
credi e  Margarito  siano  stati  i  principali  personaggi  in  quelle  giornate 
memorande,  e  che  il  «  potentissimo  pirata  »  abbia  dato  prove  di  alto 
valore. 


1  Giuseppe  Spata,  /  siciliani  in  Salonicco  nell'anno  1185 ,  ovvero  La  espugna- 
zione di  Tessalonica,  narrata  dall'arcivescovo  Eustazio  (tradotta  da),  Palermo,  1892, 
pp.  XXVIII  e  XXIX. 

2  Niceta  Choniate,  Isaacius  Angelus,  ed.  Venezia,  1729,  t.  XXI,  lib.  I,  p.  194. 


PARTE   It.  MARGARITO   DI   BRINDISI   CONTE   DI   MALTA.  275 

Tale  constatazione  di  fatto  era  necessaria  per  interpretare  giu- 
stamente i  passi  Eustaziani.  Questo  dotto  commentator  d'Omero,  ormai 
lo  ritengono  tutti ,  si  compiace  della  troppo  rettorica  :  nel  suo  larghis- 
simo discorso  non  nomina  mai  Tancredi  e  Margarito,  in  parecchi  luoghi 
però  si  vede  che  parla  di  loro,  e  non  può  essere  altrimenti. 

Lo  Spata,  e  credo  bene,  ha  ravvisato  Tancredi  nel  brano  Evvov%og 
yÙQ  rov  Qrtyóg,  à^iiQàg  %r\v  ò&jiav  del  §  103  l,  e  lo  ha  pure  identificato 
con  «  Maurozoma  »  nell'  indice  dei  nomi  propri  e  delle  cose  notevoli  2, 
punto  giovandosene  nella  prefazione.  Egli  s'  è  però  dimenticato  che 
il  Maurozoma  di  cui  si  parla  nel  §  91  è  pure  ricordato  nel  §  10.  Quivi, 
Eustazio,  parlando  di  Davide  lo  stratego ,  IlQatóXsiov  xcd  rf[g  ^ùv 
àiKoXdag  àxQo&Cviov,  afferma  ch'era  stato  mandato  tà  UixsXà  6vv  ys 
tà  MuvQolomr]  3.  Dal  contesto  di  tutto  il  paragrafo  si  desume  che 
colle  parole  «  Siciliano  »  e  «  Maurozoma  »  s'  allude  a  Guglielmo  II  e 
a  colui  cui  fu  affidata  l'impresa  di  Grecia  ,  cioè  a  Tancredi  II.  «  Mau- 
rozoma »  poi  (§  91),  si  noti  bene,  si  trovava  nell'ippodromo  insieme 
con  «  Sifanto  »,  il  quale  prese  con  sé  l'arcivescovo,  onde  non  soppor- 
tasse, come  gli  si  diceva,  altri  affanni ,  mentre  di  fatto  lo  si  voleva 
costringere  a  mali  peggiori  ;  perchè  (§  85)  Sifanto  era  «  pirata  ».  E, 
seguendo  il  racconto  di  ciò  che  gli  occorse,  così  continua  :  . .  .  .  uree 
(lo  Spata  scrive  :  sita)  y.axà  ri^ijv    iivcìqiov  xEXsv&évtsg  hxi$f[vai  (^ 

yÙQ    OV    XOiOVXOV    SXSÌVO    TO    lX7tCC()CdLOV') 

Da  tutti  i  brani  riferiti  a  Maurozoma  e  a  Sifanto  si  vede  bene 
che  Eustazio  aveva  un'alta  idea  del  valore  guerresco  di  quest'  ultimo, 
come  Xiceta  Clamiate  l'aveva  del  nsigatìig,  6  K^axiótog  Margarito,  e 
che  stimava  «  Maurozoma  »  inferiore  al  suo  alto  grado  nell'  esercito, 
sebbene  ne  lodi  la'  pietà  religiosa.  Entrambi  nel  racconto  Eustaziano 
appariscono  come  le  persone  più  cospicue  nell'armata  di  Guglielmo  li. 
Se  dunque  lo  Spata  non  ha  esitato  nell'identificare  il  Maurozoma  con 
Tancredi,  o  perchè  mai  in  Sifanto  non  ha  voluto  rinvenire  Margarito  ? 

Xiceta  Choniate,  non  è  inutile  ripetermi,  dice  Tancredi  «  ammi- 
raglio »  e  Margarito  «  pirata  »  ;  Eustazio  parla  di  Maurozoma  ammi- 
raglio e  di  Sifanto  pirata  ,  non  è  evidente  che  con  tali  nomignoli  ac- 
cenni a  Tancredi  e  a  Margarito  ? 

Pietro  da  Eboli ,  che  non  ha  punto  risparmiato  Tancredi  di  bassi 
epiteti,  come  ad  es.  il  confronto  con  Andronico  ,  il  «  turpis  sinica  », 
il  «  facie  senes,  statura  puellus  »  ecc.  che  illustra  la  miniatura  ,  dove 


1  Eustazio,  op.  cit.  nell'ed.   Spata  eit.,  p.  170. 

2  Idem,  p.   252. 

s  Id.  pp.   18,  148,  156. 


276  C.    A.    GARUFI.  PARTE   II. 

lo  ha  raffigurato  come  un  nano  dalla  faccia  impiastricciata ,  non  rife- 
risce punto  il  nomignolo  di  Maurozoma  appiccicatogli  da  Eustazio,  e 
certamente  non  ne  avrebbe  perduto  l'occasione  se  l'avesse  conosciuto  \ 
Chi  studia  il  discorso  dell'  arcivescovo  di  Tessalonica  e  non  ignora 
com'egli  sia  stato  reputato  il  più  dotto  fra  gli  Scoliasti  d'Omero,  si 
persuade  di  leggieri  che  il  buon  prelato  si  compiaceva  dei  suoi  riboboli 
e  non  tralasciava  occasione  per  foggiare  vocaboli. 

Il  nomignolo  di  Tancredi,  a  mio  avviso,  fu  coniato  da  Eustazio 
sulla  base  di  Mccvgog,  o  [lavQÓg,  Z&fia,  o  Zà[irj  2,  che  varrebbe  quasi 
1'  uomo  dalla  debole  corazza  ,  o  dalla  debole  armatura.  L'  altro  su 
Margarite,  a  giudicare  dal  vocabolo  Uupévtog  come  è  stato  trascritto 
dal  ms.  di  Basilea  (f.  242  «  e  243  & ,  e  come  è  stato  riprodotto  dal 
Brockhoff  e  dallo  Spata,  non  avrebbe  alcun  significato  3.  A  mio  pa- 
rere la  lezione  dovrebbe  correggersi  in  Hupóvrog  ,  da  un  originario 
Ulcpcov  4 ,  che  nel  linguaggio  marinaresco  del  tempo  vorrebbe  signi- 
ficare «  il  turbine,  la  tempesta  »,  onde  Margarite  sarebbe  per  Eustazio 
«  il  pirata  turbine  ,  o  tempesta  ».  In  questa  guisa  interpretando ,  a- 
vremmo  qualcosa  che  s'accorda  col  TteiQUTrjg  ó  xQoctKStog ,  e  ,  si  noti 
bene,  Eustazio  ne  parla  la  prima  volta  (§  85),  a  proposito  della  ban- 
diera nemica  eh'  era  stata  fissata  sul  muro  rotto  di  Tessalonica  ,  da 
uno  dei  marinai  valorosi  e  destri  che  navigavano  nella  nave  di  Si- 
fanto,  mettendo  d'  altra  parte  a  riscontro  la  valentia  di  quei  marinari 
colla  codardia  dei  soldati  che  dovevan  custodire  la  città,  il  vigoroso 
e  subitaneo  attacco  di  Sifanto  colla  celere  fuga  di  Davide. 


È  probabile  che  Margarite  sia  stato  nominato  ammiraglio  da  Gu- 
glielmo II,  poco  prima  o  poco  dopo  la  vittoria  navale  ch'egli  riportò 


1  G.  B.  Siragusa  ,  Le  miniature  che  illustrauo  il  Carme  di  Pietro  da  Eboli  nel 
Cod.  120  della  Bib.  di  Berna,  Roma,  1904,  estr.  dal  «Bull.  dell'Ist.  St.  It.  »  tir.  25, 
p.  12  ecc.;  Id.,  Liber  ad  honorem  Augusti  di  Pietro  da  Eboli,  ecc.  tavole  ,  Ist.  St. 
Ital.,  tav.  V  (carta  6  99)  etc.  Cf.  pure,  Guido  Bigoui,  Una  fonte  per  la  St.  del  reg. 
di  Sic.,  il  Carmen  di  Pietro  da  Eboli,  Genova,   1901,  p.   34  e  seg. 

2  La  parola  Zw^icc,  nel  senso  di  cinto  dei  lottatori  è  usata  anche  da  Omero, 
11.  XXIII,  683.  Il  Maurozoma  potrebbe  anche  intendersi  come  l'uomo  «  dalla  nera 
corazza  »,  ma  tutti  i  brani  Eustaziani  pare  autorizzino  l'interpretazione  adottata 
nel  testo. 

3  II  cod.  orig.  pare  si  sia  perduto.  Cfr.  Spata,  op.  cit.  Prefaz.  p.  XI  e  seg. 
Nella  coli,  degli  Scrittori  bizantini  non  trovo  usato  da  altri  Cronisti  o  Storici  né 
Maur.  né  Sif. 

4  Du  Cange,   Glossarium  media  et  inf.  Graecit.  alle  voci  ZJtcpcov  e  UicpavàtcoQ. 


PARTE   II.  MARGARITO    DI   BRINDISI    CONTE   DI   MALTA.  277 

in  Cipro,  dove  catturò  70  galee  bizantine  l  ;  ma  nessun  dato  abbiamo 
che  ce  lo  faccia  decidere  con  esattezza.  11  titolo  di  Conte  di  Malta, 
che  spunta  nelle  carte  di  lui ,  pare  gli  sia  stato  conceduto  da  Tan- 
credi tosto  che  fu  re:  la  congettura  sarebbe  fondata  sull'amicizia  e 
l'attaccamento  ch'egli  ebbe  per  Tancredi ,  pel  quale  col  Presule  di  Sa- 
lerno ,  al  dir  di  Pietro  da  Eboli  2  ,  Matteo  d'Aicllo  ed  altri  baroni 
congiurò  contro  Enrico  VI.  Altro  punto  oscuro  è  la  condizione  della 
moglie  di  cui  conosciamo  soltanto  il  nome,  Marina  ,  per  via  della  do- 
nazione ch'egli  fece  all'Archimandritato  del  S.  Salvatore  di  Messina  3, 
ch'è  la  sola  carta  che  di  lui  fin' oggi  si  sia  conosciuta. 

Nell'Italia  Meridionale  ho  rinvenuto  altri  tre  documenti  originali 
di  Margarite,  sicché  il  materiale  diplomatico  che  di  lui  si  conserva  è 
costituito  da  1  documenti  che  vanno  dal  1 192  al   1194  4. 

1°.  1192,  luglio  ind.  X,  donazione  alla  chiesa  di  S.  Nicola  di  Pe- 
ratico.  —  Arch.  di  Badia  di  Cava  dei  Tirreni,  Arni.  L.  35,  perg.  orig. 
con  suggello  pendente  di  cera;  ined.  (App.  1). 

2°.  1193,  seti.  ind.  XII,  donazione  (col  consenso  della  moglie 
Marina)  del  casale  di  Cremaste  «  in  contrata  que  dicitur  de  Mascalo 
apud  Siciliani  iuxta  tenimentum  Casatabiani  »  al  monastero  di  S.  Sal- 
vatore, «  quod  Mandra  Messane  dicitur  ».  Pirri,  Sic.  Sac.  II,  980  — 
Ms.  greco-lat.  Bibl.  Vatic.  .S201  f.  10a. 

3°.  1194,  luglio  ind.  XII,  donazione  alla  chiesa  matrice  di  Brin- 
disi. Arch.  Capit.  di  Brindisi,  fase.  Ili,  nr.  15,  perg.  orig.  ined.  (App.  II). 

1°.  1194,  ind.  XII,  per  mandato  del  conte  Margarite  «  Johannes 
de  Brundusio  Camerarius  Policarii  »  dona  alla  chiesa  di  S.  Nicola  di 
Peratico  una  terra  in  Colubrario  ».  Arch.  di  Badia  di  Cava,  perg. 
greche  n.  80  ,  perg.  orig.  edita  dal  Trincherà  ,  Syllabus  etc.  n.  237. 
Cf.  Paul  Marc,  Begister  des  Byzant.   und  neugriech.    Urie unden material 


1  Amari,  op.  cit.,  p.  52o  e  n.   4. 

2  Siragusa  ,  Le  miniature  ecc.  cit.  p.  40;  Id.  tav.  42  carta  43-136  del  Cod  ) 
e  43  (carta  44-134). 

3  Pirri,  Sic.  Sua:  II.  980;  Bibl.  Vat.  Cod.  Gr.  8201,  e  10a  e  lOb  ;  cit.  pure 
in  Eassegna  Pugliese  cit.,  XIX   ur.   11-12   p     346. 

4  Rodolfo  Francioso  ,  in  Rassegna  Pugliese  cit.  a  p.  346  ,  cita  un  breve  di 
Celestino  III  del  4  febbr.  1195,  diretto  al  «  nobili  viro  Margarita  coiuite  Malte», 
ebe  si  troverebbe  in  De  Leo,  Cod.  dipi,  Prundusinus,  voi.  I  all'alino  1193.  Secondo 
questo  doc.  Margarite  avrebbe  fatto  edificare  in  Brindisi  una  chiesa  al  titolo  di 
S.  Maria  del  Ponte.  P.  Kebr,  Papsturkunden  in  Apulien,  <ius  den  Nadir,  d.  K.  Gesells. 
d.  Wiss.  zu  Gòttingen,  Philologisch-histor.  Kl.,  1898,  Heft.  3,  pp.  252-257,  non  lo 
ricorda  affatto,  e  a  me  non  è  stato  possibile  di  rinvenirlo  in  Briudui.  M'  auguro 
che  altra  volta  sii  più  fortunato. 


278  6-    A.    (ÌARtTFI.  PARTE   11. 

etc,  in  Pian  eines  Corpus  der  Griech.  UrTcunden  etc.  Miinchen,  1903, 
p.   79  nr.  7. 

Un  solo  doc,  il  4°,  è  redatto  in  greco,  gli  altri  sono  in  latino, 
eccetto  la  firma,  o  signaculum  di  Margarito  (come  è  detto  in  App.  I) 
eli 'è  in  greco  e  con  nessi  un  po'  intricati  : 


MccQyccQtftog  Kófiqg  MsXtxalog.  Nel  testo  egli  è  detto  sempre  «  Mar- 
garita» de  Brundusio  »  ,  sicché  è  presumibile  sia  nato  in  Brindisi  da 
genitori  d'  origine  bizantina.  Avvalorano  la  congettura  il  fatto  che 
anche  il  nome,  secondo  il  Du  Cange ,  sarebbe  d'origine  bizantina  e  le 
donazioni,  di  cui  tre  in  favore  di  monasteri  di  rito  greco  (S.  Salva- 
tore di  Messina  e  S.  Nicola  di  Peratico)  ed  una  per  la  chiesa  «  ma- 
trice »  della  patria  sua. 

Nelle  tre  donazioni  (1,  2,  3),  in  cui  egli  è  autore,  la  «  superscriptio  » 
è  «  Margaritus  de  Brundusio  dei  et  regia  gratia  Comes  Malte  et  victo- 
riosus  Begij  stolij  amiratus  »;  il  formulario  del  testo  è  tal  quale  quello 
usato  dai  conti  Normanni  delle  Puglie  \ 

Nella  pergamena  di  Badia  di  Cava  si  trova  ancora  attaccato  coi 
fili  di  seta  rossa  un  frammento  del  suggello  pendente  di  cera  ;  fram- 
mento che  calcolo  circa  un  quarto  dell'intero  suggello  di  Margarito. 
L'estrema  rarità  di  suggelli  cerei  signorili  nell'  Italia  Meridionale  ac- 
cresce l'importanza  di  quest'unico  frammento ,  il  quale  è  ancora  più 
pregevole  per  le  traccie  evidenti  del  controsuggello.  Dalla  sezione  della 
figura  che  si  vede  nella  parte  del  suggello ,  è  facile  arguire  che  l'in- 
tera impronta  (che  dovea  avere  anche  la  leggenda  ,  di  cui  non  si  ha 
traccia)  avea  forma  circolare ,  con  un  diam.  di  7  o  8  cm.  circa.  Ad 
un  dipresso  il  suggello  avea  la  medesima  forma  di  quelli  cerei  del- 
l'imperatore Federico  II,  di  cui  il  Philippi  ha  riprodotto  alcuni  esempi. 


1  Mi  limito  a  citare  due  soli  lavori  recentissimi  :  Giovanni  Guerrieri  ,  I  Conti 
Normanni  di  Nardo  e  di  Brindisi  ,  estr.  Ardi.  St.  per  le  Prov.  Nap.  ,  anno  XXVI, 
fase.  II. — Documenti;  E.  Rogadeo ,  Gli  Aleramici  nell'Italia  Meridionale,  Trani, 
1904,  docc.  p.  65  e  seg. 


MARGARITO    DI    BRINDISI    CONTE    DI    MALTA. 


279 


Xel  nostro  frammento,  dalla  parte  del  suggello  ,  si  vedono  il  collo 
di  un  cavallo  bardato  e  lo  scudo  che  ha  per  insegna  un'aquila  colle 
ali  aperte.  11  suggello,  non  v'ha  dubbio  si  può  classificare  come  ap- 
partenente al  tipo  equestre  l;  e  si  può  stabilire  che  Margarite  come 
emblema  assunse  V  aquila.  Il  controsuggello  ,  che  costituisce,  ripeto, 
una  vera  rarità,  ha  per  impronta  l'aquila,  in  proporzioni  più  grandi, 


Fisi.   19. 


a  cui  mancano  però  la  testa  e  V  ala  destra.  L'  aquila  è  quasi  simile 
a  quella  che  Avignon  nei  principii  del  XIII  sec.  adottò  nei  contro- 
suggelli 2. 

Coll'aquila  assunta  come  emblema  Margarito  voleva  forse  simbo- 
leggiare la  sua  potenza;  a  noi,  alla  distanza  di  parecchi  secoli,  l'aquila 
apparisce  come  il  simbolo  della  resurrezione,  dopo  il  perdono  dei  pec- 
cati (doc.  1  e  2) ,  o  dei  delitti  (doe.  3);  perdono  al  quale  egli  ha  di- 
ritto per  l'aiuto  prestato  agli  ultimi  re  di  Sicilia  e  per  la  fine  mise- 
randa a  cui  lo  dannò  Arrigo  VI ,  facendolo  accecare  e  mandandolo 
prigione  in  Germania. 


1  Adotto  la  classificazione  del  Lecoy  de  la  Marche,  perchè  lo  stato  frammen- 
tario del  suggello  non  permette  di  assegnarlo  con  sicurezza  alla  2n  o  alla  4a  classe 
della  divisione  dello  Schlumberger,  Sigillographie  de  l'empire  bizantine,  Paris,  1884f 
pp.   11-12. 

2  Lecoy  de  la  Marche  cit.,  Lex  Sctaux,  Paris,  1889,  p.  224, 


280  C    A.    GAROTt.  PARTE    il. 


I. 

Luglio  1192  iud.  Xa  ». 

Margarito  conte  di  Malta  e  ammiraglio    di    Sicilia    fa    alcune   donazioni  alla 
chiesa  di  S.  Nicola  di  Peratico  —  Colubrario  —  in  Basilicata  2. 
Archivio  di  Badia  di  Cava  dei  Tirreni,  Arm.  L  35,  perg.  orig.  con  sug- 
gello di  cera  pendente. 
Inedita. 

MuQyuQr[tos  Kófiyjg  MsXitalog, 

«!»  In  nomine  Dei  eterni  et  Saluatoris  nostri  Jhesu  Christi  amen.  Anno 
ab  incarnatione  eiusdetn  Millesimo  Centesimo  nonagesimo  secuudo  \  mense  Julij 
decime  indictiouis  Ecclesiarum  iura  protegere  et  eis  benigniter  subuenire  equi- 
tati  conueniens  est  /  et  rationi  consonans.  Inter  cetera  quidem  beneficia  fauo- 
rabilius  est  ipsorum  beneficium  a  quibus  exordiuru  regenerationis  /  nostre  re- 
cipimus.  Ea  propter  nos  Margaritus  de  Brundusio  Dei  et  regia  gratia  comes 
Malte  et  uictoriosus  Begij  /  stolij  amiratus  -  considerautes  et  animo  nostro  iu- 
giter  reuolueutes  quantum  salubre  sit  ecclesiis  beneficium  exibere,  ex  in  •  \  nata 
nobis  benignitate  3  intuitu  etiam  pietatis  et  misericordie  et  prò  remissione 
peccatorum  meorum  et  prò  animabus  /  patris  et  matris  mee  -  damus  et  conce- 
dimus  ecclesie  beati  Nicolai  de  paradelli  quandam  peciam  terre  de  nostro 
dema  -  /  nio.  que  terra  fuit  quondam  Nicolai  Pinne  -  quatinus  terram  ipsam 
libera  et  siue  aliquo  seruicio  de  cetero  habeat  /  possideat  et  usufructum  eiusdem 
recipiat  sine  quolibet  nostri  et  successorum  nostrorum  exactione  seu  contra- 
rietate.  quam  inde  tibi  uenerabili  Nilo  4  et  successoribus  tuis  nos  et  succes- 
sores  nostri  facere  uel  inferre  possimus.  Terre  /  nero  flnes  hij  sunt.  Ab  oriente 
est  uallis  calcenari.  ab  occidente  terra  Girardi  Papisafri.  a  parte  boree  /  terra 
quam  tenebat  Ugonius  de  Naueata  a  parte  meridiei  terra  filiorum  Basilii 
Coci.  Ad  Imi iis  autem  donationem,  ac  perpetuam  concessionem  nostrum  presens 


1  Nel  Catalogo  si  trova  la  pergamena  indicata  :  giugno  1192. 

2  Secondo  il  Guillaume,  Essai  histor.  sur  l'Abbaye  de  Cava  eie,  Cava  dei  Tir- 
reni, 1877,  p.  LXXXVI,  l'abbazia  di  rito  greco  di  S.  Nicola  di  Peratico  sarebbe 
stati  fondata  nel  1117  e  sarebbe  passatu  alla  dipendenza  della  badia  di  Cava  nel 
1197  per  la  donazione  di  Alberada  castellana  di  Colubrario.  Di  questo  Monastero 
greco  si  conservano  nell'Arch.  di  Badia  di  Cava  7  docc.  (Pergamene  greche  nr.  21, 
26,  34,  83,  84,  86);  cfr.  Trincherà,  Syllab.  graee.  memb.,  docc.  ur.  81,  84,94,  110, 
228,  231,  237;  Paul  Marc,  op.  cit.,  p.  79. 

3  sic. 

4  Di  questo  abbate  Nifo  si  hanno  notizie  nelle  perg.  greche  cit.  nr.  83  84 
di  Badia  di  Cava, 


Parte  il.  maugariTo  di  brindisi  conte  di  malta.  281 

scriptum  per  manus  Iobannis  de  Policaro  notarii  nostri  scribi  et  nostro  signa- 
culo  superius  im  -  /  presso  et  bulla  nostra  fecimus  insigniri.  Anno  mense  et 
indictione  pretitulatis. 

Segue  disegnata  una  mano  con  tutto  l'avambraccio. 

Locus  *f*  sigilli  cerei. 


II. 

Luglio  1194  ind.  XIIa 

Margarito  conte  di  Malta  e  ammiraglio  di  Sicilia  dona  alla  cattedrale  di  Brin- 
disi tre  case  con  terre,  poste  verso  il  porto  di  S.   Giacomo. 
Arch.   Capitolare  di  Brindisi,  fase.  Ili,  nr.   15,  perg.  orig. 
Inedita. 

-•!♦  Anno  salutifere  incarnationis  domini  nostri  Ibesu  Cbristi.  Millesimo 
Centesimo  nonagesimo  quarto  Anno  primo  Regni  domini  nostri  Guillelmi  dei 
gratia.  precellentissimi  Regis  Sicilie.  Ducatus  Apulie  et  priucipatus  capue, 
mense  Iulij  indictione  duodecima.  Ego  Margaritus  de  Brundusio  dei  et  Regia 
gratia  Comes  Malte  et  Regij  uictoriosi  stolij  amiratus  ac  domini  Regis  fami- 
liaris.  Pro  remedio  animavum  patria  et  rnatris  mee  et  salute  mea.  atque  suoniti], 
necnon  et  meorum  delictorum  remissione,  corani  Iudicibus  Bruudusii  et  aliis 
probis  bominibus.  testibus  subnotatis  offero  et  per  fustem  ac  per  boc  presens 
scriptum  trado  Deo  et  saucte  brundusine  matrici  ecclesie  in  manibus  tuia  do- 
mine. Petre  ipsius  ecclesie  uenerabilis  Arcbie  piscope.  tres  domunculas  quas 
babeo  in  portu  sancii  Iacobi  cum  tota  terra  uacua  eis  adiacente  in  parte  orien- 
tali. Quas  quidem  domunculas  et  pie-  dictam  terram.  simul  cum  aliis  domibus 
in  eodem  loco  existentibus  quas  dedi  ipsi  brundusine  matrici  ecclesie,  emi  a 
filiis  notarii  Iobannoccari  de  Mate-/ra.  Quibus  domibus  adbetent  (sic)  ipse 
domuncule  et  predicta  terra  ex  parte  australi,  uidelicet  inter  domos  predictas 
et  menam  (sic)  aque  pluvialis.  Et  boc  quidem  modo  ut/deinceps  ipse  tres 
domuncule  cum  predicta  terra  iu  potestate  sint  et  domiuatione  ipsius  ecclesie 
ad  babendum  perpetuo  et  possidendum.  et  uelle  suum  exinde  faciendum  sine 
omnia  mea  meorumque  beredum  contradictione  et  requisitione.  Unde  uoluu- 
tariam  guadiam  dedi  tibi  predicto  domino  Arcbiepiscopo  uiee  ipsius  matrieis 
ecclesie  recipienti  et  me  ipsum  fìdeiussorem  posui.  ut  Ego  et  mei  beredes 
banc  oblatiouem  et  tradicionem.  semper  firniam  et  ratam  babeanius.  nec  allo 
adueuienti  tempore  '  eam  corrumpere  uel  euacuare  minuere.  seu  reuocare  per 
nos  aut  per  alios  a  uobis  solo  submissas.  allo  modo  teuiptemus.  Quod  uero 
contra  que  predicta  snnt  fece-  rimus.  et  per  legem  nel  cautionem  predictam 
ecclesiali]  inde  misimus.  obligo  me  et  nieos  beredes  eidem  ecclesie  aureos 
Regales  quiuquaginta  componere  /  et  Curie  totidem.    et    ad    predicta  invitos 


282  C.   A.    tìARUFI.  PARTE   It. 

manere.  Ad  posterorum  itaque  memoriam.  et  ipsius  ecclesie  ac  successorum 
eius  perpetuala  securitatem  atque  defen- /  sionem.  fecimus  inde  fieri  sibi  hoc 
scriptum.  Quod  et  scribere  iussimus  Benedictum  reginm  1  et  publicura  Brun- 
dusii  notarium.  qui  interfuit.  mense /et  indictione  pretitulatis. 

MaQyccQfjTog  Kó^iì]g  Mslvxalog. 

••£■  Regalia  Iudex  Brundusiuorum   miles  Willelmi  subscripsi. 
*£♦  Ysaac  brundusinorum  Kégalis  iudex.  : 
•»£♦•  Regius  bruudusiuorum  Saraceuus  iudex  -'.- 
•»$»   Paulus  Regulis  iudex  brundusiuorum. 

Lucii8  *|*  sigilli  cerei  (?) 


1  Per  il  periodo  di  Guglielmo  III  non  si  ha  alotiua  Cancelleria  retrnlurmente 
costituita;  come  Notti  ri  regi  si  conoscevano  Sanso  o  Sanson  e  Massiminiano  di 
Brindisi  che  furou  pure  notavi  di  Tancredi  re.  Cf.  Garufi  ,  I  (lave.  ined.  <leW  cp. 
norm.  in  Sicilia.  I,  257  e  268  ;  Kehr.  A.  K.  ,  Die  Urkanden  der  Xoriiianiiùch.-Sio. 
Kònige  eie.  Iunsbruck,  1902,  pp.  63,  64.  Possono  aggiungersi:  1°  Nicola,  Dona- 
zione dell'Ammiraglio  Eugenio  alla  Chiesa  di  Patti,  1194,  maggio  ind.  XIIa  — 
Arch.  Cap.  di  Patti,  voi.  Pretensioni  f.  69  —  ;  2°  Benedetto,  che  c'è  dato  dal  nuovo 
documento. 

Palermo. 

C.  A.  Garufi. 


IL   «LIBER   DE   REGNO   SICILIAE  » 

E   LA  STORIA  DEL  DIRITTO  SICULO. 


Le  incertezze  annebbiatiti  fin  qui  la  figura  dello  scrittore  che 
ci  lasciò  il  Liber  regni  Siciliae  '  neppur  da  me  saranno  interamente 
dissipate  e  vinte  :  mi  sembra  però  ,  dopo  nuovo  esame  di  esso,  con- 
dotto con  criterii  non  ancora  sfruttati ,  di  aver  per  le  mani  2  qual- 
che buon  elemento  fin  qui  negletto  che  potrebbe  meglio  addurre,  se 
non  ad  una  precisa  identificazione  di  lui,  ad  una  più  retta  valutazione 
della  persona  morale  e  dell'opera  sua. 

Altri  già  ne  rilevò  come  caratteristica  l'aver  cercato  di  collocare 


1  Lasciate  da  parte  le  vecchie  stampe  di  Gervais  de  Tournay,  del  Wechel, 
del  Caruso,  del  Burmann,  del  Muratori  e  del  Del  Re,  mi  servo  della  pregevolis- 
sima edizione  del  Siragusa  ,  La  historia  o  Liber  de  regno  Siciliae  e  la  Epistola  ad 
Petrum  panormitane  ecclesie  thesaararium  di  Ugo  Falcando  ,  Roma  1897  con  le  ag- 
giunte La  Historia  o  Liber  de  Regno  Sicilie  e  la  Epistola  ad  Petrum  panormitane 
ecclesie  thesaurarinm  di  Ugo  Falcando  (Lezione  del  codice  di  San  Nicolò  dell'  Arena  di 
Catania  ora  vaticano)  Roma  1904.  Agli  appunti  del  Vattasso  Del  Codice  benedettino 
di  San  Nicolò  dell'Arena  di  Catania  contenente  la  Historia  o  Liber  de  regno  Sicilie  e 
la  Epistola  ad  Petrum  panormitane  ecclesie  thesaurarinm  di  Ugo  Falcando  in  Archivio 
muratoriano  (1894)  n.  2,  ha  risposto  il  Siragusa  stesso  nella  memoria  Sul  codice  be- 
nedettino di  S.  Nicolò  dell'Arena  di  Catania  contenente  la  Historia  o  Liber  de  Regno  Si- 
cilie e  la  Epistola  ad  Petrum  panormitane  ecclesie  thesaurarinm  di  Ugo  Falcando,  Pa- 
lermo 1906  difendendo  l'edizione  sua  che  qui  sarà  per  brevità  indicata  con  le  sigle 
LRS.  Più  innanzi  risulterà  chiaro  il  perchè  io  ho  preferita  queste  ad  altre  desunte 
dal  nome  di  Falcando. 

2  Per  non  citare  degli  scritti  in  proposito  che  i  più  importanti  e  i  più  re- 
centi ricordo  il  Siragusa,  LI  governo  di  Guglielmo  I  in  Sicilia  ,  Palermo  1876  e  II 
regno  di  Guglielmo  I  in  Sicilia,  Palermo  1885-1886  I  p.  155-165  ;  lo  Hartwig  ,  Re 
Guglielmo  I  e  il  suo  grande  ammiraglio  Maione  da  Bari,  in  Arch.  stor.  nap.,  Vili, 
fase.  3  ;  lo  Hillger,  Das  Verhaltniss  des  Hugo  Falcandus  zu  Romuald  von  Salerno, 
Halle  1878;  lo  Schròter,  Ueber  die  Heimath  des  Hugo  Falcandus  ,  Gotti ngen  1880; 
il  Salinas  in  Arch.  stor.  sic.  VI  (1887^;  il  La  Lumia.  La  Sicilia  sotto  Guglielmo  il 
buono,  Palermo  1882  p.  226  e  in  Storie  siciliane,  Palermo  1884-1S85.  I;  il  Gabrieli  in 
Rassegna  pugliese,  I,  n.  4  e  nel  libro  Un  grande  statista  barese  del  secolo  FUI  vit- 
tima dell'odio  feudale,  Tram  1899;  la  Ancona,  La  patria  di  Ugo  Falcando,  Teramo  1902 
estr.  dalla  Rivista  abruzzese. 


284  È.    BE8TA.  f-AKTE   II. 

la  serie  degli  avvenimenti  politici  entro  1'  ambiente  sociale  in  cui  eb- 
bero a  svolgersi  fornendo  così  ima  messe  di  notizie  interessantissime 
intorno  alla  costituzione  del  regno  normanno  ,  alle  condizioni  dei  feu- 
datarii,  della  città,  del  popolo  !;  a  me  nelle  sue  pagine,  ove  è  il  pal- 
pito della  vita  e  il  fremito  della  passione  e,  a  traverso  lo  sforzo  della 
obbiettività,  domina  sempre  un  esuberante  soggettivismo  2,  è  parso  in 
più  di  cogliere  sotto  lo  storico  il  politico  e  il  giurista.  E  per  ciò  ap- 
punto, spingendomi  oltre  le  solite  osservazioni,  giudicai  opportuno  l'in- 
dagare se  da  quelle  speciali  cognizioni  e  da  quelle  speciali  tendenze 
non  possa  venir  la  risposta  ad  alcuna  delle  tante  questioni  che  si  agi- 
tano intorno  a  lui. 

1.  —  A  dir  schietto  mi  par  soverchiamente  immiserita  la  sua  in- 
teressante figura  da  coloro  che  in  lui,  non  certo  scevro  da  parzialità, 
ravvisano  niente  più  che  il  pedissequo  letterato,  la  penna  prezzolata 
di  alcuno  fra  i  baroni  ribelli  a  Guglielmo  I  3  :  al  contrario,  egli  non 
risparmiò  il  biasimo  a  quelli  cui  fu  più  largo  di  lodi  nò  può  dirsi 
quindi  che  fosse  aggiogato  al  carro  dell'uno  o  dell'  altro  fra  i  proeeres. 

Forse,  benché  incoscientemente  dominato  da  simpatie  ed  anti- 
patie personali  —  e  chi  d'  altronde  può  sfuggire  completamente  al 
tirannico  impero  delle  simpatie  ì  —  mosse  da  ragioni  più  alte,  da  ve- 
dute fondamentali  che  lo  ressero  nei  suoi  giudizii  :  la  sua  stessa  acre- 
dine potrebbe  così  essere  indizio  della  sincerità  con  cui,  nemico  giu- 
rato delle  inutili  ambage*  e  delle  tortuose  fallaciae  della  simulazione  4, 
perseguì  i  suoi  ideali.  Ma  quali  eran  essi  ? 

Al  Gabrieli,  che  pur  non  difettò  d'acume  nella  calorosa  apologia 
di  Maione  ,  sembrò  «  un  nemico  della  monarchia  »  5  :  ma  come  mai 
potrebbe  definirsi  antimonarchico  colui  che  con  commossa  parola  pian 
geva  la  morte    del    giovine  Ruggiero    anice  benignitatis  ae  dulcedinis 


1  Capasso  ,  Le  fonti  della  storia  delle  provincie  napolitane  dal  568  al  1500,  Na- 
poli 1902  p.  87;  Balzani,  Le  cronache  italiane,  Milano  1898  p.  212-219. 

2  Ciò  è  indubbiamente  vero  :  ma  dal  constatar  questo  al  far  di  lui  un  libel- 
lista anonimo  ci  corre  molto  ! 

3  In  questo  senso  vedi  sopratutto  il  Gabrieli  op.  cit.  p.  5.  Ne  dubitò  invece 
la  Ancona  op.  cit.  p.  42  e  gi ustamente.  Così,  p.  es.,  se  di  Roberto  di  Basseville  il 
LRS.  si  tiene  gran  conto  nelle  prime  pagine  è  significante  la  successiva  trascuranza: 
e  anche  Matteo  Bonello,  se  ebbe  lodi  ,  ebbe  pur  biasimo.  Lo  stesso  è  a  dirsi  nei 
riguardi  di  Riccardo  eletto  siracusano,  elogiato  prima  e  riprovato  poi.  Notevole 
il  biasimo  costante  rivolto  ai  vescovi  di  Girgenti  e  di  Reggio  (p.  91-92)  e  non  meno 
notevole  l'elogio  costante  a  Roberto  di  S.   Giovanni. 

4  Questi  sono  appunto  i  vizi  che  più  rimprovera  in  Maione,  in  Matteo  d'Aiello, 
nel  vescovo  di  Girgenti,  nei  siciliani  in  generale. 

5  Gabrieli,  op.  cit.  p.  5  e  170. 


PARTE   II.  IL   «  LIBER    DE    REGXO   SICILIAE  >.  285 

virum  appunto  perchè  aveva  privato  la  Sicilia  di  un  re  che  avrebbe 
certamente  .seguite  le  vestigia  del  nonno,  il  glorioso  fondatore  della 
monarchia  sicula  i  ì 

Facile  intelligas ,  scriveva  egli  ,  regnarli  ni  fortitiidinem  ac  station 
rirtiitent  parere  rei) nauti uni  tantnmque  regni  euinslibet  gloriam  ampliar i 
non  dubites  quantum  in  principe  virtutis  esse  eognoveris  2  :  riconosceva 
quindi  apertamente  i  vantaggi  che  il  regime  monarchico  può  apportare 
quando  le  redini  dello  stato  sieno  affidate  a  chi  ben  le  sappia  reg- 
gere. La  forza  e  la  saviezza  del  sovrano  sono  allora  coefficiente  po- 
deroso di  prosperità  pubblica  :  ma  ben  altrimenti  suole  avvenire  quando 
il  regno  cada  su  chi  è  inetto  e  all'inettitudine  accompagni  il  disprezzo 
d'ogni  freno  salutare  nell'uso  degli  amplissimi  poteri.  Ora  non  la  mo- 
narchia fu  bersaglio  alle  critiche  di  colui  che,  sulla  fede  di  Gervasio 
di  Tournay  ,  sogliamo  identificare  in  Ugo  Falcando  ,  ma  piuttosto  la 
persona  del  monarca. 

Il  tipo  del  re  fu  per  lui  Ruggiero,  di  cui  pinse  con  tratti  maestri 
il  più  lusinghiero  ritratto  concludendo  che,  nihil  qnod  virtntem  deceret 
omittens,  neminem  regimi  aut  principimi  temporibus  suis parem  habuerat3; 
ma  P  erede  della  paterna  podestà  non  pareva  1'  erede  della  paterna 
virtù  e  colui,  che  a  pena  il  padre  avea  creduto  degno  del  principato, 
tralignava  troppo  dal  buon  ceppo  paterno.  Non  re  era,  bensì  tiranno, 
anzi  atrocissimi^  tyramnus  ',  e  contro  la  sua  tirannide  5  lo  storico  si 
scagliò  con  singolare  veemenza  :  e  fremeva  nello  scorgere  la  supina 
quiescenza  dei  popoli  che  parevano  agire  perchè  tyramnis  quandoque 
non  carerent  ò  e  verso  chi  tentava  scuotere  il  giogo  della  tirannide 
era  indulgente  purché  dietro  il  preteso  vindice  della  libertà  comune 
non  si  agitasse  lo  spettro  di  una  tirannide  nuova  7.  Cruccioso  che  nei 


1  LES.  p.   61. 

2  LES.   p.  7,  liti.  13-16. 

3  LES.  p.  6,  lin.   10-11. 

4  LES.  p.  33. 

5  LES.  p.  5,  16,  17,  84,  86,  118.  Va  notato  che  tyramnis  è  spesso  da  lui  usato 
nel  senso  di  inhnmanitas,  di  crudelitas  cfr.  25,  SQ,  134,  137.  La  tyramnis  in  ìioHles 
exercitata  di  p.  17  corrisponde  alla  nobilium  perxecutio  di  p.  32  :  in  anilto  i  casi  ti- 
rannide eqnirale  evidentemente  a  durezza,  o  mancanza  di  riguardi. 

6  LES.  p.  58  e  61. 

7  Di  qui  l'odio  contro  Maione  ch'ei  dipinge  come  un  monstrnm  quo  nulla  pestis 
immanior  appunto  perchè  nulla  ad  regni  perniciem  ac  subrersionem  poterai  efficacior 
inveniri  (LES-  p.  8).  In  quella  sua  avversione  partigiana  senza  dubbio  esagerò; 
bisogna  però  ricordare  che  auch'egli  si  inchinava  al  suo  ingegno,  alla  sua  facondia, 
alle  sue  eccelse  doti  di  uomo  politico  ,  nò  omise  òi  mettere  in  evidenza  alcuni 
tratti  che  lo  dovevano  poi  necessariamente    sollevare    nella  opinione  dei  posteri. 


286  E.    BESTA.  PARTE   U. 

discendenti  di  Ruggiero  chiamati  all'  onore  del  trono  fosse  spenta 
la  scintilla  della  sua  grandezza,  sperava  nondimeno  che,  in  quibusdam 
sopita  et  quasi  premortila,  potesse  ridestarsi  in  altri  alla  memoria  del- 
l'avita virtù  e  con  la  sua  istoria  volle  spronarli  all'  emulazione  del 
magnanimo  predecessore  l. 

2.  —  Ma  perchè  Guglielmo  gli  appariva  tiranno  ?  E  quale  con- 
cetto ebbe  egli  della  tirannide  !  Per  lui  questa  fa  l'ibrido  frutto  d'un 
malaugurato  connubio  tra  la  prepotenza  e  l' insipienza  o,  la  crudelitas 
e  Yineptia  nella  persona  d'un  sovrano  2  che,  nel  falso  concetto  di  far 
tutto  da  se,  finiva  coli'  esser  vittima  delle  arti  di'  pochi  maneggioni 
i  quali,  avvintolo  col  dolce  veleno  delle  adulazioni,  lo  riducevano  fa- 
cilmente strumento  passivo  delle  loro  cupidigie  ,  delle  loro  passioni. 
Come  scernere  la  simulazione  dalla  verità ,  come  avere  conoscenza 
sicura  e  sincera  delle  condizioni  reali  dell'amministrazione  e  dei  sad- 
diti senza  il  consiglio  di  più  famigliari  disinteressati  e  sereni  ì  Or  Gu- 
glielmo aveva  invece  il  torto  di  affidarsi,  senza  sospettare  il  tradimento 
sotto  l'apparenza  dello  sviscerato  ossequio,  in  persone  singole  che  per 
dominare  miravano  ad  isolarlo  da  ogni  altro  consigliero  3.  Le  maionicae 
artes  4  tendevano  appunto  a  questo  :  e  quand'anche  fosse  stata  falsa 
la  voce  che  l'ammiraglio  barese  avesse  voluto  por  sul  proprio  capo 
la  corona  strappata  al  sovrano  di  cui  costituiva  il  braccio  destro  5, 
sarebbe  già  stato  un  tradimento  6  l'averlo  posto  in  condizioni  tali  ch'egli 
da  lui  e  dall'  arcivescovo  suo  complice  udisse  regni  sui  negotia  non 
qualia  erant,  sed  qualia  ìjìsì  proposito  suo  conformàbant  7.  Per  la  mo- 
narchia non  era  quella  la  via  della  rovina  8  ? 

Il  re  saggio  deve  interpellare  spesso  e  volontieri  ad  maiorum 
rerum  examinationem  le  più  cospicue  personalità  politiche  del  regno 
perchè  dal  dibattito  delle   singulorum    opinione»   risulti    quella  che  è 


1  LBS.  p.  4. 

2  LRS.  p.  61.  Cfr.  anche  p.  50  e  p.  25. 

3  LBS.  p.  8,  ceteros  omnes  excludens  cum  rege  singulis  diebus  solus  habebat  collo- 
quium, solus  regni  tractabat  negotia.  Cfr.  p.  11,  16,  24. 

4  LRS.  p.   105.  Cfr.  ritus  et  consuetudines  admiratus  a  p.  82. 

5  LBS.  p.  47. 

6  Pare  però  che  al  tradimento  di  Maione  il  nostro  storico  credesse  davvero: 
al  scelus  MaionÌ8  accenna  infatti  a  p.  9,  13,  30. 

7  LBS.  p.  11  ,  1.  4-5.  Alle  sue  falsae  suggestiones  o  persuasiones  accenna  a 
p.  11,  13,  21. 

8  Anche  a  Matteo  d'Aiello  rimproverò  il  nostro  di  voler  solus  regia  praeditus 
familiaritate  locum  admiratus  obtinere  a  p.  827  e  pur  a  Gualterio  arcivescovo  di  Pa- 
lermo rinfacciò  di  essersi  avvinto  il  re  suspetta  satis  familiaritate  ut  non  tam  curiam 
auam  regem  ipsum  regere  videretur  [p.  165]. 


PARTE   II.  IL  «  LIBER   DE   REGNO   SICILIAE  » .  287 

sostanzialmente  la  migliore  e  perchè  possa  così  ex  eis  potiorem  eligere  l: 
questo  avea  fatto  Ruggiero  che,  pur  a  testimonianza  di  Romualdo  2, 
soleva  chiamare  nel  suo  consiglio  mpientes  viro*  diversorum  ordinum 
ex  diversis  mundi  partibus  non  sdegnando  che  gli  strenui  et  praeclari 
viri,  onde  amava  circondarsi,  lo  illuminassero  con  la  propria  autore- 
vole voce;  ma  Guglielmo,  al  contrario,  benché  neppur  sotto  lui  la  Sicilia 
difettasse  di  uomini  illustri  per  senno  e  per  scienza  3,  nulla  di  loro 
si  curava  e,  dietro  le  suggestioni  di  Maione,  ceteros  omnes  excluserat 
singulis  diebus  cum  eo  solus  liabens  colloquium  4.  Ruggiero  era  stato  il 
provvido  istitutore  della  curia,  con  Guglielmo  invece  lo  status  curie  in 
melius  reformatus  pessum  ivit  5  mentre  la  integrità  e  la  dignità  di  essa  6 
avrebbe  pur  dovuto  essere    al    colmo  delle  sue  cure  ! 

Ne  è  solo  per  Guglielmo  che  dallo  stato  della  curia  il  nostro 
storico  abbia  assunto  il  criterio  del  suo  giudizio  :  morto  Guglielmo, 
sotto  il  cancellierato  di  Stefano  di  Perche,  la  reggenza  ebbe  qualche 
favore  da  lui  e  1'  ebbe  appunto  perchè  allora  parve  chetata  la  procella 
curie  "'  e  questa  fu  di  nuovo  in  melius  reformata  8. 

Mi  guarderò  però  bene  dal  presentarlo  per  ciò  come  un  illuminato 
sostenitore  di  principii  democratici  —  la  democrazia  non  era  dei  tempi 
e  difficilmente  avrebbe  avuto  presa  in  chi  apprezzava  tanto  la  no- 
biltà della  schiatta  9  —  ma  devo  pur  chiedere  se  non  sia  arbitrario  e 
assurdo  il  persistere  nel  raffigurarlo  cieco  sostenitore  della  oligarchia 
aristocratica  contro  le  pretese  tendenze  democratiche  di  Maione.  Xon 
la  baronia  per  sé  fu  oggetto  delle  sue  premure  ;  bensì  gli  increbbe 
vedere  appartata  dal  re  e  allontanata  dalla  curia  la  parte  più  eletta 
di  essa. 

E  tanto  è  vero  che  la  curia  fu  al  colmo  dei  suoi  pensieri  che 
nella  sua  storia  volle  insistere  sopratutto  in  hiis  quae  circa  curiam 
gesta   sunt  i0  e ,    in  mezzo   all'  intricata    congerie   degli    avvenimenti 


1  LES.  p.  5. 

2  MM,  GG.  HH.   Scriptores  XIX  p.  426. 

3  LBS.  p.  7. 

4  LBS.  p.  8. 

5  LBS.  p.  7  liu.   17-20. 

6  LBS.  p.   108. 

7  LBS.  p.   103  1.  18. 

8  LBS.  p.   114  1.  15. 

9  LES.  p.  7  lin.  22.  Nell'appunto  di  parvenu  che  gli  fece  per  esser  figlio  di  un 
olei  venditor  mi  pare  che  egli  non  abbia  inteso  di  ferire  tanto  Maione  in  sé  quanto 
i  pugliesi  in  generale  per  cui  ò  ben  noto  ch'ei  non  nutriva  troppa  simpatia. 

*°  LBS.  p.  4  lin.  24-25. 


288  E.   BESTA.  PARTE   II. 

narrati,  collocò  sempre  lo  status  euriae  l.  Il  suo  lavoro  potrebbe  de- 
finirsi come  una  storia  interna  di  quell'organo  importantissimo  della 
costituzione  normanna. 

3.  —  Essa  è  quindi  per  la  storia  del  diritto  pubblico  siciliano 
d'importanza  somma  e  può  parer  strano  die  finora  non  sia  stata  da 
quest'  aspetto  compulsata  a  dovere.  Sarebbe  risultata  ottimo  corret- 
tivo contro  certe  costruzioni  arbitrarie  che  ,  affacciatesi  già  nel  se- 
colo decimosettimo  2,  furono  svolte  nel  secolo  successivo  3  e  sotto  il 
potente  suggello  della  singolare  autorità  del  Gregorio  4  si  perpetua- 
rono poi  fino  a  questi  ultimi  tempi  5. 

Chi  dubitò  mai  dopo  il  Gregorio  che  nell'  amministrazione  cen- 
trale dello  stato  normanno  esistessero  ben  tre  curie  diversamente  co- 
stituite distinte  fra  loro  :  l'ima  di  carattere  feudale,  la  e.  d.  curia  dei 
pari,  composta  dal  fiore  della  baronia  del  regno  ,  l'altra  di  carattere 
giudiziario,  la  e.  d.  magna  curia  composta  di  tre  giudici  e  del  maestro 
giustiziere;  l'altra  di  carattere  politico-amministrativo,  il  e.  d.  consiglio 
di  stato  composto  dai  grandi  ufficii  del  reguo  ,  dal  gran  contestabile, 
dal  grande  ammiraglio,  dal  cancelliere,  dal  siniscalco,  dal  gran  teso- 
riere, dal  gran  giustiziere,  del  protonotario  "ì  E  quante  erudite  dispute 
non  furono  fatte  sulle  genesi  loro  °  ?  Oggi  apparirà  che,  se  anche  non 
sono  state  assolutamente  inutili  perchè  dal  dibattito  delle  opinioni  è 


1  LRS.  p.  96,  119  ecc. 

2  Tu  tini  ,  Discorsi  de'  selle  ufficii  ovvero  de'  sette  grandi  del  regno  di  Napoli, 
Roma  1666. 

3  Giannone,  Istoria  civile  del  regno  di  Napoli,  Haia  1753  1.  XI  e.  6  ;  Grimaldi, 
St.  delle  leggi  e  dei  magistrati  del  regno  di  Napoli,  Napoli  1774. 

4  Gregorio  ,  Opere  rare  edite  ed  inedite  riguardanti  la  Sicilia,  Palermo  1873, 
p.  153  sgg. 

5  Palmieri  ,  Saggio  storico  e  politico  sulla  costituzione  del  regno  di  Sicilia  ,  Lo- 
sanna 1847,  pp.  24-25  ;  Lamantia  ,  Storia  della  legislazione  civile  e  criminale  di  Si- 
cilia, Palermo  1866,  Il  p.  198  sgg.;  Minieri-Riccio,  Dei  grandi  ufficiali  del  regno  di 
Sicilia,  Napoli  1872;  Del  Vecchio,  La  legislazione  di  Federico  II  imperatore,  Torino 
1874  p.  116;  Pertile,  Storia  del  diritto  ital.,  Torino  1877,  II  v.  p.  285;  Ciotti  Grasso, 
Del  diritto  pubblico  siciliano  al  tempo  dei  normanni  ,  Palermo  1883  p.  39  sgg.;  Cadier, 
Essai  sur  V administration  du  royaume  de  Sicile  sou  Charles  I  et  Charles  II  d'Anjou, 
Paris  1891  p.  168  e  sg.  Un  po'  di  scetticismo  si  incontra  però  già  nel  Caspar, 
Roger  II,  Innsbruck  1904. 

6  II  Giannone  li  credette  derivate  da  una  imitazione  franca  ;  il  Gregorio  da 
una  imitazione  dello  scacchiere  normanno.  Una  opportuna  reazione  contro  questi 
raffronti  aprioristici  fu  promossa  dall'Amari  (Storia  dei  musulmani  in  Sicilia  ,  Fi- 
renze 1868,  III  p.  322-326),  ma  forse  accentuò  un  po'  troppo  l'inftuenza  araba; 
cfr.  ora  il  Garufi,  SulV ordinamento  amministrativo  normanno  in  Sicilia,  Firenze  1901, 
estr.  àalì'Archiv,  stor,  ital,  ser.  V  voi.  XXVII, 


PARTE   II.  IL   «  LIBER   DE    REGNO   SICILIAE  ».  289 

pur  emerso  qualche  cosa  di  buono,  sono  state  però  superflue  e  lo  son 
stato  proprio  perchè  si  è  discusso  senza  darsi  prima  la  pena  di  con- 
statare la  esistenza  concreta  di  ciò  eli'  era  fatto  oggetto  alle  discus- 
sioni :  la  H istoria  regni  Sieiliae  smentisce  con  non  dubbia  voce  le  inge- 
gnose ma  fallaci  costruzioni,  cui  solo  per  non  averla  saputa  leggere 
taluno  ha  creduto  di  poter  trovar  appoggio  nelle  sue  pagine. 

In  queste  ,  tanto  per  cominciare ,  il  protonotaro  l  non  è  punto 
messo  fra  le  massime  dignità  del  regno,  mentre  è  anzi  chiaramente 
indicata  la  sua  dipendenza  del  cancelliere  e  non  si  fa  punto  cenno  di 
un  gran  giustiziere  ministro  supremo  di  giustizia  2  bensì  di  più  magi- 
stri  institiani  collocati  sul  piede  d'una  perfetta  eguaglianza  di  funzioni 
e  di  diritti  3. 

I  sette  grandi  uffizi  si  ridurrebbero  quindi  in  ogni  caso  a  cinque, 
di  cui  quattro  ebbero  veramente  una  corrispondenza  con  gli  archimi- 
n isteria  della  corte  franca  ove  si  aveva,  come  si  sa,  un  Senesehalk, 
un  Marsehall,  un  Kàmmerer ,  un  Kanzler  4.  Ma  dobbiamo  proceder 
oltre.  Mentre  in  Francia  il  siniscalco,  come  sopraintendente  della  regia 
domus ,  ebbe  precedenza  sugli  altri  uffici,  in  Sicilia5  non  primeggiò 
fra  essi  e  rimase  nell'orbita  delle  cariche  puramente  palatine.  Se  non 
m'inganno,  egli  fu  più  riguardato  come  un  funzionario  dell'ammini- 
strazione privata  del  sovrano  che  come  un  funzionario  pubblico  6  :  con 
ciò  i  grandi  dignitarii  si  ristringerebbero  ancora  da  cinque  a  quattro. 


1  II  protonotarius  ,  che  a  torto  fu  confuso  da  taluno  col  logotheta  ,  è  egregia- 
mente illustrato  dal  Kehr,  Die  Urkunden  d.  norma nnisch-siciliscen  Kònige,  Innsbruck 
1902  p.  50  e  p.  69.  A  me  pare  che  alla  carica  di  protonotarius  sia  corrisposta  sotto 
Guglielmo  I  quella  del  magister  notarius  [ib.  p.  54-55],  il  quale  preerat  notariis  e, 
in  mancanza  del  cancelliere  ,  fungeva  da  vice  con  cella  rius  [LRS.  p.  108-109]  :  gli 
altri   notarli  figuravano  in  qualche  modo  come  suoi  serrientes. 

2  II  Gregorio  e  parecchi  altri  dopo  lui  scrissero  bensì  che  a  testimonianza  del 
Falcando  Gilberto  conte  di  Gravina  avrebbe  aspirato  alla  carica  di  gran  giustiziere 
perchè  in  quasi  tutti  gli  affari  principi*  loco  disponeret:  ma  il  LRS.  non  lo  dice  affatto. 

3  A  dimostrare  1'  esistenza  di  un  gran  giustiziere  badisi  a  non  addurre  iti 
campo  il  doc.  del  1159  (Garufi,  Dipi.  ined.  nomi,  e  svevi,  Palermo  1899  n.  34)  dove 
si  ricorda  un  Iìainaldus  de  Tusa  magmi*  iustitiarius  :  costui  ,  incaricato  d'  una  in- 
quisizione per  la  delimitazione  di  una  divisa  fu  nulla  più  che  un  giustiziere  pro- 
vinciale.  Il  magnus  iustitiarius  corrispondeva  al   ué'/ctg  xQitfjs  dei  documenti  greci. 

4  Cfr.  per  tutti  il  Meyer,  Deutsche  u.  franzosische  Verfassungsgcschichte  vom  9  bis 
zum  14  Jahrhundert,  Leipzig  1899,   II  p.  317  s<j:g. 

5  II  LRS.  p.  24,  31  ricorda  come  siniscalco  Simone  cognato  a  Maione. 

6  Accanto  al  siniscalco  troviamo  anche  in  Sicilia  il  dapifer.  Cfr.  Caspar  reg. 
29;  Garufi,  Doc.  nomi.  p.  194;  Casa,  p.  316.  Avevano  siniscalchi  auche  i  privati, 
come  il  conte  di  Gravina  [Chart.  cup.  n.  106  e  110]:  e  pur  di  qui  si  ricava  che 
il  siniscalco  era  riguardato  nulla  più.  che  come  un  maggiordomo. 

19 


290  E.   BESTA.  PAKTE   II. 

]Se  è  finita. 

Anche  l'esistenza  del  gran  contestabile ,  che  nel  gabinetto  nor- 
manno sarebbe  stato,  per  così  dire,  il  ministro  della  guerra,  è  assai 
dubbia.  Al  di  sopra  dei  comestàbuli ,  comandanti  ai  singoli  riparti1 
dell'esercito  regio  2  cui  davano  alimento  con  i  contingenti  fendali  dei 
vassalli  delle  milizie  stabili  stipendiate  3  ,  troviamo  dei  magistri  come- 
stabuli  che  erano  evidentemente  ad  essi  preordinati  4  :  ma  non  v'è  poi 
notizia  nell'epoca  nostra  di  un  magnns  comestabulus  che  unificasse  in 
se  la  direzione  di  tutte  le  forze  di  terra  5. 


1  LRS.  p.  70,  73,  93.  È  qui  opportuno  avvertire  che  accanto  alla  designa- 
zione latina  di  comestabulus  fn  usata  iti  Sicilia  anche  quella  germanica  di  mare- 
scalata.  Presso  il  Cnsa  p.  32,  303,  305,  384,  385,  414,  415,  599,600,  650  leggonsi 
i  nomi  di  Berardo  [1141]  .  di  Guglielmo  [1153]  ,  di  Goffredo  [1090]  ,  di  Rinaldo 
[1122],  di  Giovanni  [1172],  di  Nicola  [1112],  ma  poiché  anche  i  privati  avevano 
i  loro  comes tabuli  (Giovanni  Romano  fu  appunto  comestabulus  di  Roberto  conte  di 
Loritello),  è  probabile  che  molti  fra  essi  fossero  marescalchi  di  particolari.  Del 
marescalca»  il  doc.  VI  tra  quelli  pubblicati  dal  Cadier  dice  ch'egli  provvedeva  agli 
hospitiarii  ed  alla  camera  da  letto  del  re. 

2  Notevole  è  che  il  LRS.  p.  73,  76,  77  dove  usa  la  voce  exercitus,  non  parla 
che  delle  milizie  regie. 

3  LRS.  p.  7,  12,  13,  IT,  19,  20,  29,  30,  32,  49,  64  ,  65,  66,  70,  71,  73,  74, 
75,  77.  90,  91,  106,  107,  125,  144,  145  =  solidarii.  Di  stipendia  si  parla  a  p.  29 
e  71.  Qualche  volta  la  voce  miles  indicò  il  cavaliere  in  contrapposizione  al  fante 
[LRS.  p.  77  e  79].  Più  spesso  indicò  il  vassallo  [LRS.  4,  37,  50,  51.  52,  63,  177]. 
A  p.  13  si  accerma  ai  milites  che  il  vassallo  doveva  fornire  prout  feudum  suum 
exigebat  :  di  fronte  ad  essi  egli  figurava  come  un  dominus  [p.   12]. 

4  II  TjRS.  p.  69  li  dice  praefecti  militibus  e  a  p.  13  parla  di  exercitus  sibi  cre- 
ditus.  Si  suol  dire  che  Roberto  di  Loritello  fu  il  primo  gran  contestabile:  ma  si 
tratta  di  un  errore  derivante  dalla  frettolosa  lettura  del  LRS.  p.  13.  Il  comestabulus 
di  cui  quivi  si  parla  fu  invece  il  conte  Simone  di  Policasfo  ,  il  quale  coman- 
dava l'esercito  di  Puglia  :  a  lui  nel  1159  fu  sostituito  un  altro  contestabile.  Pur 
Giibertus  de  Ballano  appare  investito  di  quella  dignità  in  un  documento  del  1155 
[Cod.  dipi.  bar.  V.  112]:  e  nel  marzo  1161  fu  sollevato  ad  essa  Riccardo  de  Man- 
dra  [LRS.  p.  69],  e  proprio  contemporaneamente  a  lui  si  trova  detto  magister  co- 
mestabulus il  Berengario  cui  nel  1168  [ibid.  p.  120]  fu  surrogato  Rogerio  tironeuse 
[ibid.  p.  120].  Nel  1163  e  nel  1166  [Chart.  cnpers.  n.  106  e  n.  110  troviamo 
qual  magnns  comestabulus  totius  Apulie  et  principalus  Capite  Gilberto  conte  di  Gra- 
vina e  si  disse  pure  magister  capitaneus  Apulie  et  principatns  Capue  :  poiché  questi 
due  titoli  doveano  quindi  essere  equivalenti,  sullo  stesso  piede  convien  porre  il 
Simone,  cognato  di  Maione  e  siniscalco  che  nel  1159  fu  fatto  Apulie  ac  Terre  La- 
boris  capitaneus  [LRS.  p.  24]  e  il  Petrus  de  Castro,  che  a  lui  succedette  come  ca- 
pitaneus in  Apatia  nel  1155  [ibid.  p.  67].  Il  LRS.  p.  101  sembra  dire  che  il  coDte 
di  Gravina  fu  chiamato  a  quella  carica  nel  1166  :  ma  la  locuzione  non  è  così  ca- 
tegorica da  poterlo  accusare  d'anacronismo. 

5  II  LRS.  p.  48,  85,  157  ricorda  bensì  anche  un  magister  stabuli,  ma  parrebbe 
che  le  due  cariche  debbano  essere  distinte. 


PARTE   II.  IL   «  LIRER   DE    REGNO   SICILIAE  »  .  291 

Lo  stesso  ò  a  dirsi  nei  rapporti  del  preteso  gran  tesoriere  :  al 
disopra  dei  camerarii  provinciali  !  c'erano  dei  magistri  camerarii  2  o 
protocamerlenghi  3,  ma  la  pluralità  delle  persone  investite  contempo- 
raneamente di  quella  carica  esclude  l'esistenza  di  un  unico  dignitario 
che  dominasse  su  tutti.  Che  poi  l'ufficio  del  magister  camerarius  non 
corrispondesse  affatto  a  quello  di  un  ministro  da  cui  dipendesse  l'am- 
ministrazione finanziaria  risulta  da  ciò  che  talvolta  il  magister  came- 
rarius cumulò  col  suo  1'  ufficio  di  magister  duanae  4  dando  a  vedere 
così  la  maggior  importanza  di  questo  :  forse  il  primo  aveva  la  cura 
del  tesoro  regio  :'  e  il  secondo  quella  dei  beni  fiscali  in  contrapposto  a 
quelli  della  corona.  Che  poi  nò  l'uno,  nò  l'altro  partecipassero  di  diritto 
alla  curia  è  esplicitamente  provato  da  un  luogo  del  Liber  regni  Siciliae  6 
che  ,  col  mostrar  necessaria  a  tale  effetto  una  speciale  deliberazione 
del  sovrano,  basterebbe  da  solo  a  rovinare  la  male  imbastita  costru- 
zione che,  fin  dai  primi  tempi  normanni  ,  tendeva  a  raffigurare  il  con- 
sistorium  regis  '  come  un  consesso  dei  sette  maggiori  ministri  del  regno 
e  la  partecipazione  ad  esso  come  una  conseguenza  derivante  ipso  iure 
dalla  nomina  all'uno  o  all'altro  di  quei  ministeri. 

4.  —  Ben  altra  importanza  ebbero  il  grande  ammiraglio  e  il  can- 
celliere. 

Il  primo,  ch'era  il  presta ntissimus  ammiratorum  8,  non  fu  già,  come 
i  più  ripetono  per  distinguerlo  dal  preteso  gran  contestabile,  il  capo 


1  Ne  parlerò  più  innanzi. 

2  Cfr.  su  essi  il  Garuti   Diwan  o  Eehiquier;  loc.  cit. 

3  Presso  il  Cusa  p.  5.">5  ricordasi  come  7tQOTOxau(5QiXlyyog  un  Peno  che  al- 
trove è  detto  xaufioiliyyos- 

4  Così  Riccardo  che  nel  LRS.  p.  109  è  detto  magister  camerarius  palacii  e  come 
tale  si  trova  in  documenti  del  1166  :  nel  1169  era  già  costituito  super  omnes  secretos 
e  nell'87  ebbe  appunto  il  doppio  titolo  di  domini  regis  camerarius  e  di  magister  regie 
donane  de  seoretis  [Garutì.  Doc.  non»,  n.  90].  Anche  il  gaito  Mataracio  fu  nel  1176 
[Siracusa,   Guglielmo  I,  I  p.   193-190]  sacri  palacii  camerarius  et  magister  duanae. 

5  II  doc.  VI,  fra  quelli  editi  dal  Cadier,  attribuisce  al  camerarius  la  custodia 
dei  cubicula  del  re  e  della  famiglia,  la  cura  della  guardaroba  e  della  dispensa,  la 
riscossione  dei  proventi  spettanti  alla  camera  speciale  del  re,  la  cura  degli  hospita 
e  degli  schiavi  regi  ,  la  nomina  degli  asserii  e  dei  thesaurarii.  Notevole  è  che  il 
LRS.  a  p.  6  distingueva  i  regii  thesauri  ,  sorvegliati  da  appositi  custodes  [p.  36 
e  61],  dalla  cassa  ove  si  raccoglievano  i  redditus  totius  regni  sumptibus  faeiendis. 

6  LRS.  p.  109:  gaytns  quoque  Ricliardus  magister  camerarius  palata  et  gaytus 
Alartinus  ,  qui  duane  preerat  ,  consiliis  nihilominus  intererant  et  cum  familiaribus  ne 
gotia  tractabant.   Si   consigliavano  dunque  coi   familiares,    ma  familiares  non  erano. 

7  Senza  dubbio  si  riferiva  alla  curia  la  voce  eonsistorium  usata,  sulle  traccie 
del  C.  I.  9,  8,  5  nell'Ass.  vat.  e.  18  :  membri  della  curia  furono  i  euriales  di  cui 
esse  parlano  nel  e.  31. 

8  Cfr.   Laborantis  De  iustitia  et  iusto  (ed.  Siragusa),  Palermo  1886,  p.   3. 


292  E.    BESTA.  PARTE   II. 

della  flotta  l,  ma  fu  preposto  a  tutta  la  difesa  del  regno  2  :  e  in  tempi 
in  eui  la  difesa  dai  nemici  esterni  ed  interni  era  precipuo  interesse 
del  governo  e  dello  stato,  fu  quella  3  la  maxima  dignità*  implicante 
(piasi  tutta  la  regni  cura  et  administratio  *. 

La  dignità  del  grande  ammiraglio  decadde  dopo  1'  eccidio  di 
Maione  poiché  forse  contr'essa  si  riversò  l'odio  accumulato  contro  chi 
l'avea  ultimamente  coperta  :  e  la  maxima  dignità*  regni  5  diventò  al- 
lora quella  del  cancelliere  G,  ambita  anche  per  i  ricchi  emolumenti  ad 
essa  uniti  7.  Egli  ebbe  il  maximus  Jwnor  dopo  il  sovrano:  e  fu  quasi 
un  viceré  8. 

5.  — Ecco  ora  quale  era  invece  la  curia  regis  secondo  il  Liber  regni 
Siciliae. 

11  re  medesimo  di  suo  pieno  arbitrio  sceglieva  tra  le  persone  di 
sua  fiducia  i  membri  del  corpo  consultivo  che  lo  dovea  coadiuvare 
nel  disimpegno  dei  più  gravi  affari  pertinenti  al  reggimento  e  alla  po- 
litica dello  stato  e  per  questi  la  denominazione  di  familiare»  9 ,  pre- 
ferita dal  LBS. ,  fu  veramente  tecnica  10  come  tecnica   fu  1'  altra  di 


1  Questo  notò  già  con  molta  ragione  il  Siracusa  nel  suo  Guglielmo  I  voi.  II. 

2  Nel  1160  Maione  saraceno»  arma  sua  reddire  coegit  [LRS.  p.  57]. 

3  Alcuni  fanno  incominciar  la  serie  dei  grandi  ammiragli  dal  ben  noto  Cri- 
stodulo che  portò  il  titolo  di  ammiraglio  dal  1110  al  1131.  Cfr.  Ca«par  Reg.  13, 
22,  25,  38,  42,  46,  48,  52,  68.  Ma  Cristodulo  ,  che  solo  al  fine  della  sua  carriera 
rivestì  la  dignità  di  protonotaro  [reg.  68]  ebbe  il  semplice  titolo  di  admiratus  e, 
per  quanto  sia  stata  grande  la  sua  influenza  personale,  mi  pare  pericoloso  il  sol- 
levarlo ,  come  capo  supremo  ,  su  gli  altri  ammiragli  suoi  contemporanei  Giorgio 
d'Antiochia  [reg.  46  e  48]  ed  Eugenio  [reg.  35  e  48].  Come  ben  rileva  il  Caspar 
vi  fu  un  profondo  divario  tra  i  poteri  di  Cristodulo  e  quelli  di  Giorgio  d'Antio- 
chia nei  tempi  in  cui  questi  ebbe  il  titolo  di  àyiriQàg  x&v  &ur}Qud(av  [e.  1132  reir.  74]. 
Or  fu  questi  il  primo  grande  ammiraglio  ?  Nel  ^od.  dipi.  bar.  V.  n.  5  parrebbe  par- 
larsi di  un  Nicolaus  dux  ducorum  (sic)  e  se  invece  di  dux  ducorum  si  dovesse  leggere 
dux  ducum  potrebbe  ravvisarsi  in  lui  un  predecessore  di  Giorgio;  dubito  però  che 
una  tale  correzione  si  possa  fare  :  qnel  Nicola  pare  lo  stesso  che  nel  doc.  V.  13  si 
disse  ducalis  index  nel  contesto  e  si  firmò  ducis  ducum  index;  dux  ducum  fu  qui  chia- 
mato lo  stesso  re  Ruggiero. 

4  LES.  p.  8,  11,   19. 

5  LRS.   p.   Ili  e  p.  118.  Prima  dipendeva  anch'essa  dall'ammiraglio  [p.  111]. 

6  Cfr.  Kehr.    hrk.  d.  norm.  K'òn.   p.  94  e  sgg. 

7  Consistevano  specialmente  in  villae  e  praedia  concessi  in  beneficio  al  titolare 
dell'ufficio  [LRS.  p.  113].  Ma  poi  vi  era  una  grande  munerum  affiuentia  da  parte 
di  coloro  che  presentavano  petitiones  [LRS.  p.  118].   Cfr.  anche  p.   130  lin.  20-21. 

8  LRS.  p.  136. 

9  LRS.  p.  25,  29,  48,  70,  74,  81,  87,  88,  90,  93,  97,  117,  125,  130,  139,  142. 
Altrove  parla  di  familiaritas  curiat  [p.  102  e  105]  o  di  familiaritas  regis.  Vago  è  il 
senso  della  parola  a  p.  27,  28,  34,  37,  39,  40,  47,   128. 

10  Cfr.  Rotn.  sai.  in  M.  G.  E.  Script.  XIX  p.  436  ;  Riccardo  di  S.  Germano, 
ibid.  p.  323. 


PARTE   II.  IL   «  I.IBER    DE    REGXO   SICILIAE  »  .  293 

magnate»  curia  l  cui  corrispose  nei  documenti  greci  hi  designazione  di 
ocQ%ovTeg  xì]g  kóqtì^  '. 

I  documenti  attestano  poi  l'esistenza  di  un  XQOTorfaiLifouQiog  3  e 
le  sue  prerogative  sono  torse  chiarite  dal  Liber  regni  Siciliae  ove  si 
accenna  a  membri  che  nella  curia  erano  ceteris  familiaribus  potestatis 
eminentia  prelati  o  che  preerant  curie  o  che  negotia  curie  post  regem 
principe  loco  disponebant.  Di  qui  si  può  dedurre,  panni,  che  la  presidenza 
della  curia  non  spettava  ipso  iure  all'uno  o  all'  altro  dei  dignitarii  di 
essa  partecipi,  ina  era  attribuita  caso  per  caso  dalla  fiducia  sovrana 
a  chi  per  saggezza  e  prestigio  meritava  di  essere  veramente  ccQycov 
ràv  uoyóvTtùv  l. 

<>.  —  Non  solo  del  resto  la  composizione  della  curia  5  ,  ina  anche 


1  LRS.  p.  47,  88,  103.  114,  118,  16:2.  Codesta  designazione  torna  anche  due 
volte  presso  Riccardo  salernitano  e  fu  pure  usata  da  Pietro  De  Blois.  Quanto  ai 
documenti  efr.  Siracusa,  Guglielmo  I.  App.  p.  XXXIX  e  Garitta,  Doc.  nomi.  p.  189. 

2  Spata  p.  180,  188,  294.  440;  Cusa  p.  2(5.  30.  82.  421,  513.  Il  LRS.  p.  46 
parla  anche  di  maiores  curine.  La  durata  della  familiarità*  dipendevi!  dal  volere 
del  re  che  poteva  procedere  quandochessia  alla  remotio  a  curia  [LRS.  p.  91 ,  96, 
102,  105].  Gli  ecclesiastici  in  curia  regi*  conversante*  vi  stasano  dai  sette  ai  dieci 
anni.  Cfr.  Pirro,   Sic.  sac.  I  p.   622. 

3  Cusa  p.  80. 

4  Io  penso  infatti  che  questo  titolo  equivalga  all'  altro  di  itnotO(puuiXi,dQiog. 
La  precedenza  di  esso  sull'altro  di  ùu.rjoag  ràv  àut]Qccóav  sarebbe,  ciò  ammesso, 
una  conferma  di  quanto  il  LRS.  narra  intorno  all'alto  prestigio  della  curia  sotto 
Ruggiero  II. 

5  In  nota  mi  sembra  opportuno  avvertire  che  non  solo  ii  LRS.  conobbe  generica- 
mente la  composizione  della  curia  ,  ma  seppe  a  volta  a  volta  indicare  con  piena 
esattezza  coloro  che  vi  furono  chiamati  a  farne  parte.  L'  affermazione  che  sotto 
Maione  quelli  eh'  erano  già  stati  familiares  di  Ruggiero  furono  da  Guglielmo  con- 
dannati all'esilio  o  al  carcere  [p.  8]  va  interpretata  in  rela/.ioue  a  quanto  si  dice 
poi  a  p.  23  sulla  lotta  mossa  dall'ammiraglio  a  tutti  i  viri  forte*  sibi  ti  me  tuli;  certo 
la  curia  mutò  aspetto.  Ugo,  arcivescovo  di  Palermo  [p.  9]  e  Adenolfo  camerario 
[p.  49]  vi  entrarono  allora  per  la  loro  amicizia  con  Maione.  E  alla  morte  di  questo 
vi  ebbero  poi  adito  Enrico  Aristippo  ,  Riccardo  eletto  di  Siracusa  ,  il  conte  Sil- 
vestro di  Marsica  e  Matteo  d'Aiello,  che  in  documento  del  1160  appare  appunto 
col  titolo  di  familiari*  :  poi,  tramontato  Aristippo,  vi  penetrò  e  presto  s'  impose 
Pietro  gaito  e  poco  dopo  v'entrarono  Riccardo  conte  di  Molise  e  Riccardo  magi- 
ster  camerarius  e  il  Martino  gaito  che  familiares  son  detti  in  documenti  del  11(16, 
del  1167,  del  1169,  del  1176.  Allora  si  verificò  quello  sciama  curiae  che  il  LRS.  trat- 
teggia con  vivissimi  colori:  la  procella  parvi  però  sedarsi  col  cancelleriato  di  Ste- 
fano di  Perche  che  portò  i  curiali  a  dieci  [p.  114]  chiamando  tra  loro  Gentile 
vescovo  di  Girgenti  [p.  101]  che  da  tanto  tempo  vi  aspirava  e  accanto  a  quelli  elio 
già  conosciamo,  Jacopo  vescovo  di  Malta,  Romualdo  arcivescovo  di  Salerno,  Rug- 
gero conte  di  Gerace ,  Eurico  di  Montecaveoso  e  Gualtiero  decano  di  Mazara  : 
di  quei  dieci  ben  sei   figurano  appunto  come   familiares    del  re  in   un  documento 


294  ti.  besta.  Parte  il. 

la  sua  competenza  e  il  suo  funzionamento  trovano  nel  Zi&er  regni  Si- 
ciliae  una  esatta  descrizione. 

Dipendendo  dalla  volontà  del  sovrano  il  numero  e  l'indole  degli 
affari  ad  essa  devoluti  non  può  naturalmente  farsi  una  precisa  e  tassa- 
tiva enumerazione  delle  sue  attribuzioni  :  ma  si  può  ben  dire  generica- 
mente che  soleva  esser  sottoposto  al  suo  esame  tutto  ciò  che  si  rife- 
riva allo  status  regni.  Di  conseguenza  essa  esplicava  la  sua  azione  in 
tutti  i  rami  della  pubblica  azienda  e  tanta  era  la  mole  degli  affari  che 
quotidiana  era  la  sua  convocazione  '  .  Sede  normale  ne  fu  un  pala- 
tiolum  attiguo  al  palazzo  reale  di  Palermo  2  ,  ma,  occorrendo,  seguiva 
il  re  nelle  sue  peregrinazioni  3. 

Ad  essa  solevansi  comunicare  i  dispacci  e  le  petizioni  che  gior- 
nalmente giungevano  d'ogni  parte  del  regno  4  :  il  cancelliere  o  il  pro- 
tonotaro  ne  faceva  dar  lettura  '.  E  là  si  ricevevano  e  si  deputavano  le 
ambasciate  e  di  là  partivano  gli  ordini  ai  varii  ufflcii  provinciali  por- 
tati con  licterae  regiae  dai  cursores  6,  dagli  hostiarii  7  e  da  altri  dipen- 
denti della  curia. 

La  quale  era  anche  la  suprema  tutrice  delle  finanze  esercitando 
ampio  controllo  sugli  uftìcii  cui  spettava  il  maneggio  del  pubblico 
denaro  e  deliberando  la  misura  e  il  modo  delle  pubbliche  spese.  Le 
concessioni  feudali  e  le  consecutive  investiture  erano  là  disposte  e 
fatte  in  suo  nome  sì  che  il  Liber  regni  Sicilie  potè  presentarla  ap- 
punto come  dispensiera  di  terre  e  benefici  8.  Quindi  ,  come  con  la 
cancelleria,  così  era  in  stretto  rapporto  con  la  regia  dohana  ,  deposi- 


rìel  1169.  E  nei  documenti  si  riflette  pure  quel  mutamento  che  il  LRS.  attesta 
avvenuto  nello  status  curine  poco  tempo  appresso  essendosi  eretto  su  gli  altri  cu- 
riali Gualtiero  fatto  ornai  arcivescovo  di  Palermo,  Matteo  d'Aiello  e  Gentile  ve- 
scovo di  Girgenti.  Cfr.  Retar  p.  86.  Dopo  quello  che  il  Kehr  ebbe  a  scrivere  a 
questo  proposito  è  inutile  che  io  insista  ancora  sulla  esattezza  delle  informazioni 
date  dalla  nostra  cronaca. 

1  LRS.  p.  94. 

2  Falc,  Ep.  p.   178. 

3  Così  seguì  Guglielmo  II  in  Messina  nel  1166.  LRS.  p.  129  e  nel  1172.  Cfr. 
Gregorio,  Op.  p.  153  n.  3.  L'  illustre  storico  siciliano  si  abbandona  però  un  po' 
troppo  alla  sua  fantasia  affermando,  in  base  a  quel  solo  documento,  che  «  girando 
ancor  essa  e  visitando  il  reame  ,  le  più  alte  giurisdizioni  in  grado  eminente  da 
per  tutto  esercitava». 

*  LRS.  p.   17,  112. 

5  LES.  p.  101. 

6  LRS.  p.  120,  121,  130,   135,  1,8. 

7  LRS.  p.   62  e  153. 

8  LRS,  p.   120.  In  curia  si  creavano  i  conti  (p.   108). 


PARTE   lì.  IL   «  LIBER    DE    REGNO    SICILIAE  »  295 

taria  dei  defetarii  l  che  al  tempo  di  Guglielmo  I  e  nei  primi  anni  della 
reggenza  non  si  era  forse  ancora  sdoppiata  nella  dohana  de  secretis  o 
nella  dohana  baronum  2. 

Alle  funzioni  amministrative  aggiungeva  infine  delle  funzioni  giu- 
diziarie fungendo  da  alta  corte  di  giustizia  per  le  cause  riservate  al 
sovrano  cioè  per  le  cause  criminali  in  reati  implicanti  pena  capitale, 
tradimento,  fellonia  ,  omicidio  3  e  forse  anche  per  le  cause  in  appello. 
Appunto  perciò  ,  giungendo  ad  essa  i  reclami  di  tutti  coloro  che  cre- 
devano lesi  i  proprii  diritti,  potè  sembrare  ad  lbn-el-Athir  un  diwan 
al  maqahlin  4. 

7.  —  Convien  però  notare  che  nell'esercizio  di  codeste  funzioni 
giudiziarie  mutava  alquanto  la  sua  ordinaria  composizione,  aggiungen- 
dosi allora  ai  famiUares  dei  magistri  iustitiarii r'  che  furono  certamente 
almeno  due  6.  Ad  essi  spettava  P  illuminar  la  curia  sui  punti  di  di- 


1  I  famiUares  esaminavano  i  plebeas  et  privilegia.  Cfr.   Behring,   lleg.   192. 

2  L'amico  Garufì  nel  suo  lavoro  per  tanfi  riguardi  notevole  Sull'ordinamento 
amministrativo  normanno  in  Sicilia  in  Arch.  stor.  sic.  V  p.  225  ,  ammette  bensì  la 
posteriore  creazione  della  duana  baronum  .  ma  crede  poi  che  già  ai  tempi  di  Gu- 
glielmo I  esistessero  due  dogane  distinguendo  il  djican  al  mamwr  dal  diwan  al 
tahqiq  al  mamwr.  Ma  le  ragioni  della  distinzione  non  sembrano  a  me  troppo  so- 
lide :  1'  attributo  al  mamwr  per  sé  stesso  non  ha  contenuto  sostanziale  indicando 
solo  la  dignità  dell'ufficio  stesso  con  un  epiteto  che  potrebbe  equivalere  al  latino 
florens  e  al  greco  àv&àv  :  stento  quindi  a  credere  che  il  djwan  al  mamwr  indi- 
casse l'ufficio  del  tesoro  e  il  diican  al  tahqiq  al  mamwr  l'ufficio  del  riscontro  emi- 
nente su  quello  :  esisteva  un  solo  bureau  da  cui  dipendevano  gli  altri  uffici  mi- 
nori  per  l'esazione  dei  pubblici  redditi  affidata  spesso  a  musulmani  [LRS.  p.  57]. 

3  Cfr.  Pirro  Sic.  sac.  II  p.  1021  (marzo  1145)  :  culpa  sanguinis  et  homicidii  quod 
spectat  ad  nostrum  maiestatem;  II  p.  800  (aprile  1145)  salvis  regalibus  nostre  maie- 
8tatis  fellonia  videlicet,  traditione  et  homicidio:  II  1046  (maggio  1141)  preservare  nostra 
maiestati...  condamnationem  proditionis  et  homicidii.  Cfr.  C'aspar,  Roger  I  p.  307.  E 
opportuno  notare  che  queste  riserve  corrispondevano  ad  usi  bizantini  ;  nel  sigillo 
di  Enstazio  la  giurisdizione  è  caduta  ccvev  cpeovov  vtteqevxvusvIov]  tc5i>  fiaedhav... 
ucci  ...  SovXcùv  àvrmv  [Cod.  dipi.  bar.  IV  32].  Nel  LllS  p.  43  il  re  osserva:  etsi 
contra  regiam  maiestatem  admivatum  aliquid  machinari  consiaret  ad  se  tamen  primo 
referri  debuisse  sibique  reservari   vindici am. 

4  In  Amari  ,  Bibl.  arabo  sicula  Torino  1881  II  p.  444.  Su  questo  punto  cfr. 
anche  Genuardi,  L'ordinamento  giudiziario  in  Sicilia  sotto  la  monarchia  normanna  e 
sveva,  Palermo  1906,  estr.  dal   Circolo   Giuridico. 

5  Cfr.  LllS.  p.  124  e  139.  L'oiigine  dei  magistri  iustitiarii  è  sempre  oscura. 
A  me  parrebbe  tuttavia  possibile  di  ravvisare  i  primordii  di  qnell'  istituto  nel 
fatto  che  nel  1135  Ruggero  II,  eleggendo  a  suo  vicedominus  Gancellino ,  ut  omnibus 
in j uste  patientibus  exhiberetur  iustitia  electo  [capuano]  simul  que  magnato  cuidam  qui 
vocabatur  Haimon  de  Argencia  imposuit.  Cfr.  Aless.  Teìes.  ,  Chron.  Ili  e.  31  e  in- 
torno a  quel  ragguaglio,  con  idee  diverse  dalle  mie,  il  Caspar  op.   cit.   p.   307. 

6  LRS.  p.   140.  Egii  ne  ricorda  due  :  Abdenago  e  Tarentinus.  Ma  forse  erano 


296  È.    bESTA.  PARTE   tt. 

ritto,  ove  tutti  i  membri  della  curia  agivano  come  iudices  e  tutti  con- 
correvano a  proferire  la  iudicialis  sentendo,  l  quando,  dallo  svolgersi 
del  processo,  dalla  solempnis  accwatio  e  dalla  difesa  dell'imputato,  si 
fossero  formata  una  propria  convinzione  sulla  reità  o  sulla  innocenza 
di  esso  2  :  la  sentenza  era  pronunciata  in  nome  di  tutti  dal  presidente 
della  corte  fornito  dei  più  ampii  poteri  per  la  tutela  dell'ordine.  Contro 
le  sentenze  della  curia  non  doveva  poi  esservi  appello  :  e  il  L.B.8. 
c'insegna  appunto  che ,  quando  Biccardo  di  Molise  con  una  vera 
blasphematio  iudicii  protestò  contro  la  sentenza  che  dichiarava  illegit- 
timo il  suo  possesso  di  Mandra  e  si  disse  ingiustamente  gravato  e 
pronto  a  provare  quod  iniquam  falsamque  protulissent  sententiam  ,  il 
conte  Boemondo  di  Monopoli  che  presiedeva  la  curia,  lo  pose  in  istato 
d'accusa  come  quegli  che  non  solo  si  era  reso  colpevole  di  una  injuria 
in  eos  qui  iudicaverant ,  ma  d'una  injuria  in  caput  regium.  Allora  il- 
lieo et  immediate  s' iniziò  un  altro  processo  perchè  fosse  colpito  de 
iuris  severitate  l'autore  di  tante  contumelie  e  fu  dichiarato  infatti  pas- 
sibile di  confìsca  e  di  punizione  capitale  e  solo  per  misericordia  regis 
condannato  al  carcere  3.  Di  qui  risulta  altresì  che  alla  curia  era  pur 
deferito  1'  esercizio  del  diritto  di  grazia  già  riservato  al  re  e  che  il 
iudicium  curie  era  assimilato  in  tutto  allo  iudicium  regis  tanto  da 
applicare  a  chi  quello  inforsava  le  pene  stesse  che  erano  dalle  costi- 
tuzioni comminate  contro  chi  avesse  disputato  di  questo  :  a  lato  alla 
misericordia  regis  4  si  ebbe  la  misericordia  curiae. 

Secondo  il  Liber  regni  Sicilie  parrebbe  che  anche  le  cause  eccle- 
siastiche quelle  cioè  per  spergiuro  ,  adulterio  e  incesto  5  fossero  di- 
scusse e  giudicate  nella  curia  6  :  in  quel  caso  però  la  sentenza  era 
suggerita  dai  prelati  che  vi  erano  intervenuti  7. 


di  più.  In  un  documento  del  1137  dato  dal  Gattaia,  Jccessiones  cassinenses  I  254, 
si  ricordano  tre  regalis  curiae  iusiijicatvres  che  già  il  Ficker,  Forsch.  zur  Beichs-  u. 
Iìechtsge8chichte  Italiens  I  p.  351  pensò  potessero  essere  gli  antecessori  dei  magistri 
iu8ticiarii  di  poi. 

1  LBS.  p.  140. 

2  LBS.  p.   124. 

3  LBS.  p.  140. 

4  LRS.  p.  68  :  ob  etatis  lubricum  in  [eum]  non  reputavit  facimis  quam  in  alvi» 
crimen  atrocissimum  iudicabat. 

5  LRS.  p.  117  :  regine  pollieitus  est...  omissurum  se  questiones  ad  curiam  perti- 
nentes  que  penam  capitis  irrogabant  :  super  his  autem  que  ad  ecclesie  iura  pertinere 
constaret  exactisshne  cogniturum...,  ...  omissis  furtis,  rapinis,  iniuiiis  ,  civium  homici- 
diis  et  illata  constuprate  virgini  violentia,  pcriurii,  incestus,  adulterii  questio  ventilatili'. 
Cfr.  Siragnaa,   Guglielmo  1,  App.  XXVII  XXXI. 

LRS.   p.  117.  La  curia  è  raccolta  ut  convocatis  episcopis  aliisque  personis  eccle- 
siastici» et  auditis  utriusque  partis  allegationibus  quod  inde  dictaret  expedirent. 
7  LRS.  p.  140. 


PARTE   il.  ti  «  LIBER   DE   REGX0   SICÌLIAE  »  .  29? 

8.  —  È  d'uopo  altresì  osservare  che,  trattandosi  di  affari  i  quali 
meno  imperiosamente  chiedevano  il  segreto  o  di  affari  che  per  l'indole 
loro  richiedevano  una  più  larga  partecipazione  degli  ordini  sociali,  so- 
levano intervenire  nella  curia,  a  lato  i  familiares,  altri  procerea  l  che 
erano  degli  adhaerentes  curine  2,  ma  pur  venivano  ben  distinti  dai  veri 
magnate*  euriae  3  :  per  il  loro  intervento  era  necessaria  un'  apposita 
convocatio  4.  Venivano  tolti  sopratutto  dai  comites  o  dall'alto  clero: 
ma  non  è  escluso  che  vi  avessero  adito  dei  nobiles  viri  estranei  alla 
cerchia  feudale  5.  Nient'  altro  che  una  di  queste  assemblee  fu  1'  ac- 
colta di  nobiles  che  approvò  nel  1100  la  nomina  del  cancelliere  6  :  può 
darsi  che  in  esse  abbia  avuto  il  suo  nucleo  embrionale  il  parlamento, 
ma  quelle  a  tutto  rigore  non  erano  parlamenti.  Anche  la  più  ampia  as- 
semblea ebbe  nome  di  euria  e  di  fronte  ad  esse  la  curia  che  noi  ab- 
biamo prima  studiata  figurò  come  un  consesso  di  familiare*  regia  per 
quos  negotia  curie  disponebat  7. 

9.  —  Or  tanta  abbondanza  e  tanta  precisione  di  notizie  non  farebbe 
nascere  il  dubbio  che  appunto  presso  la  curia  l'autore  della  Historia 
regni  Sieiliae  abbia  avuto  sede  durante  la  sua  dimora  nell'  isola  8  ? 
Come  avrebbe  altrimenti  potuto  informarci  così  bene  di  ciò  che  in  essa 
era  accaduto  seguendone  a  passo  a  passo  e,  direi  quasi,  di  giorno  in 
giorno  le  mutazioni,  le  vicende  f 

Xon  però  è  a  credersi  ch'egli  stesso  sia  stato  uno  dei  /amili a res  °: 


1  LRS.  p.  126  e  134:  cfr.  Pale,   Ep.  p.   178. 

2  LRS.  p.  70. 

3  LRS.  p.  103  e  109.  Cfr.  pel  significato  della  voce  procerea  p.  74,  90,  92, 
103,  110,   123. 

4  LRS.  p.   109,   110,   134. 

5  LRS.  p.  97. 

6  LRS.  p.  IH. 

7  LRS.  p.  69.  V'erano  pur  casi  in  cui  entrava  in  giuoco  il  popnlus  intero. 
Così  per  la  coronazione  del  re  [p.  58].  Anche  Guglielmo  II,  morto  il  padre,  dopo 
un  lutto  triduale  fu  sub  ingentis  plebis  gaudio  rex  creatus  [p.  88]  :  tra  le  forme  della 
elezione  fu  la  solemnis  per  urbem  equitatio.  La  ragione  ereditaria  parrebbe  che  da 
sola  non  bastasse  a  creare  il  re:  per  assicurare  il  trono  all'erede  del  sangue  Rug- 
giero II  fece,  lui  vivente,  regni  partecipem  il  figlio  [p.  6  e  7]  :  uè  diversamente 
operò  Guglielmo  I  nei  riguardi  del  duca  Ruggiero.  Il  re  poteva  però  disporre  per 
testamento  del  balium  sui  suoi  figli  miuorenni  [p.  205]  e  vivendo  la  madre,  questa 
soleva  esserne  investita  [p.  88  e  96].  Il  balium  è  dal  LRS.  definito  come  una  regni 
administratio  et  cura. 

8  Di  ciò  mi  fa  anche  persuaso  la  maniera  particolareggiata  con  cui  dà  conto 
di  certe  sedute  burrascose  dei  familiare»  e  degli   adhaerentes  euriae. 

9  LRS.  p.  62.  Contrapponendosi  agli  alii...  qui  secreta  palatii  fatebantur  se  co- 
gnoscere  parrebbe  far  vedere  che  uon  era  di  quelli  che  frequentavano  la  reggia. 


208  E.    BÉSTA.  PARTE   il. 

quelle  notizie  avrebbe  potuto  averle  anche  uno  dei  notai  addetti  al 
servizio  della  curia  '  e  si  potrebbe  supporre  con  maggior  verosimi- 
glianza ch'egli  sia  stato  fra  questi. 

Non  di  rado  ci  imbattiamo  nel  suo  lavoro  in  frasi  che  sanno  del 
curialesco  2  e,  quel  che  più  monta,  in  altre  che  lo  dimostrano  fornito 


1  A  dubitare  che  quello  di  Ugo  Falcando  sia  il  vero  nome  dell'  autore,  lo 
Hartwig  (Ite  Guglielmo  I  e  il  suo  grande  ammiraglio  Maione  di  Bari  in  Arch.  stor. 
nap.  Vili  f.  3)  non  fu  forse  il  primo  ;  quando  il  Fazello  scriveva  intorno  alla 
metà  del  secolo  decimosesto  che  ciò  ch'ejjli  avea  trovato  nel  tua.  della  Guiscardo, 
era  stato  edito  poit  aliquot  annos  sub  nomine  Hugonis  Falconai  a  Parigi,  mostrava 
evidente  il  dubbio  che  quel  nomea  non  fosse  il  vero:  il  ms.  di  s.  Nicolò  di  Rena, 
ora  tanto  discusso  ,  non  portava  infatti  nessuna  indicazione  d'autore,  ma  solo  il 
titolo  di  Guiscardo  che  mal  potrebbe  esser  derivato  dal  nome  di  lui,  come  pensò 
il  Gentile  in  Studi  storici  VII  p.  294.  Lo  Hartwig  dubitò  soltanto  che  nell'indica- 
zione di  Gervais  de  Touruay  fosse  incorso  qualche  errore  e  ritenendo  che  per  questa 
ragione  non  si  sia  riusciti  ancora  h  trovar  nei  documenti  contemporanei  più.  ampie 
notizie  intorno  allo  storico,  senza  badar  troppo  che  in  ogni  caso  Hugo  era  il  vero 
nome  e  il  Falconai  successivo  non  designava  che  la  paternità  ,  propose  di  iden- 
tificarlo col  cappellano  Falcus  che  fu  testimonio  a  un  atto  del  1167  riferito  dal 
Garofalo  ,  Tabularium  regie  oc  imperialis  cappellai  collegiatae  divi  Petri  p.  25  :  ma 
ben  ebbe  ragione  il  Siragusa  di  non  accoglier  la  sua  congettura.  Lasciando  da 
parte  la  ipotesi  che  il  primo  editore  abbia  attribuito  all'autore  il  nome  di  uno 
dei  possessori  del  codice  ,  io  mi  domaudo  :  dacché  nel  codice  stesso  l'Epistola  al 
tesoriere  Pietro  era  preposta  alla  Historia  il  Gervais  de  Troyes  non  avrebbe  arbi- 
trariamente attribuito  a  quegli  ,  che  risultava  autore  della  prima  ,  la  paternità 
della  seconda  opera?  Io  non  so  se  la  questione  sia  stata  posta  da  altri;  sia  io  o  no 
il  primo  a  proporla,  panni  però  indiscutibile  che  meriterebbe  d'essere  dibattuta 
e  convenientemente  vagliata.  Tra  V Epistola,  su  cui  è  da  vedere  lo  scritto  del  Rossi, 
Il  carattere  dell'  epistola  di  Ugo  Falcando  a  Pietro  tesoriere  della  chiesa  palermitana 
in  Studi  storici ,  Bologna  1905  p.  247  280  e  1- Historia  vi  sono  differenze  rilevanti 
di  stile  e  di  pensiero.  Non  mi  è  possibile  qui  richiamarle  tutte  :  ma  sembrano 
impressionanti  fra  gli  altri  questi  fatti  :  che  nella  Historia  i  barbari  sono  i  saraceui 
[p.  5  e  26],  nella  epistola  i  tedeschi  ;  che  nella  epistola  alita  uno  spirito  di  sim- 
patia verso  i  musulmani  e  nella  Historia  è  ben  più  tiepido  ;  che  nella  epistola  la 
Sicilia  è  riguardata  con  un  affetto  e  un'  indulgenza  contrastanti  con  le  critiche 
severe  dello  storico. 

2  Le  parole  di  Maione  al  re  a  proposito  di  Roberto  Uà  s.  Giovanni  canonico 
di  Palermo  ,  che  il  re  avrebbe  voluto  nominar  cancelliere  :  hoc  equitati  congruere 
et  regnantis  esse  molestate  dignum  propositum  ut  qui  fideliter  ci  diuque  servierint  tandem 
regie  liberalitatis  beneficio  non  fraudentur  [p.  69]  pare  risentano  di  qualche  arenga 
come  questa  :  regie  sollecitudinis  est  fidelimn  suorum  et  de  se  benemevitorum  quieti  et 
securitati  providere  [Kehr  p.  56].  Cfr.  a  p.  131  la  concordia  posta  fra  due  baroni 
affinchè  actione  sopita  numquam  super  hoc  de  cetero  controversiam  suscitarcnt  e  a  p.  132 
l'ordine  dato  ai  giustizieri  perchè  controversia  legitimo  fine  concluderent.  Notevole 
anche,  a  p.  60,  la  minaccia  dello  sdegno  reale  con  la  formula  alioquin  posse  gvatiam 
suam...  demereri. 


Parte  ti.  Il  «  lIber  de  régno  siciliaè  » .  299 

di  non  superficiale  cultura  giuridica  e  conoscitore  delle  stesse  leggi 
romane. 

Già  nelle  prime  pagine  della  sua  storia  ,  difendendo  Ruggiero 
dall'accusa  di  soverchia  inumanità  per  aver  irrogato  a  molti  penas 
graviores  et  legibus  incognita»  l  ,  mostrava  di  prendere  a  criterio  dei 
suoi  giudizii  delle  leges  che  non  possono  essere  se  non  le  romane. 
Quella  severità,  a  suo  giudizio,  fu  necessaria  in  novitate  regni  per 
sgominare  l'audacia  dei  traditori  e  persuadere  il  popolo  della  propria 
forza  e  la  condotta  di  Ruggiero  sarebbe  stata  tale  per  conseguire  lo 
scopo  che  neque  Jiagitiosii  sibì :  possent  impuntiate  blandivi  neque  beneme- 
ritos  nimia  severità.?  absterreret;  egli  avrebbe  dunque  fatto  quello  che,  se- 
condo i  giuristi  romani  era  il  compito  del  legislatore,  render  gli  uomini 
buoni  tum  premium  pollicendo  tum  paenam  infligendo. 

Un'eco  di  studi  romanistici  si  rivela  pur  là  ove  l'autore  definì  come 
crassa  ignorantia  solus  ignorare  quod  omnes  praedicant 2  e  dove  distinse 
tra  Vinvasor  e  il  praecarius  possesso)'  3.  Ma  sopratutto  è  decisivo  per 
noi  il  luogo  in  cui,  tra  gli  argomenti  con  cui  volevasi  infirmare  la  ri- 
nuncia di  Stefano  di  Perche  al  cancellierato,  si  addueeva  che  sarebbe 
stata  fatta  non  sponte  sed  capitalibus  dnbiis  :  «  quod  autem  vi  metum 
gestum  fuerit  ratum  non  huberc pretorem  »,  aggiungeva  egli,  «  et  eiusmodi 
vero  metum  intereessisse  qui  et  in  constuntissimum  cadere posset  nullum 
dubium  erat  ».  È  evidente  che  gli  fu  sott'occhio  il  D.  4,  2,  1  e  6. 

Dalle  leggi  romane  fu  anche  direttamente  attinta  la  curiosa  argo- 
mentazione ch'ei  mise  in  bocca  all'  arcivescovo  Ugo  quando  voleva  dis- 
suader Maione  dall'assumere,  dopo  1'  eventuale  deposizione  del  re,  la 
tutela  dei  figli  :  ttinc  omnes  fare  certissimos  nihil  aliud  quam  regnimi 
appetcre  fune  adversus  eum  modis  omnibus  asperandos  :  suspectum  enim 
tutorem  pueris  davi  nec  mira  perni ictere  et  si  datus  sit  removendum 
censere  \  Pur  nelle  critiche  mosse  alla  sentenza  che  ,  pronunziando 
il  divorzio  tra  il  conte  Riccardo  de  Sagio  e  sua  moglie,  chiedeva  a 
questa  il  giuramento  de  non  coeundo  r'  o  di  serbare  una  perpetua  con- 


1  LRS.  p.  6. 

2  LRS.  p.  128.  Cfr.  la  Stimma  Codici*  edita  dal  Fitting  (Halle  1894)  I,  1(5,  fi 
che  dichiara  intolerabilis  V  ignoranza  cmim  dexidia  aut  aecitrita*  csset  tali*  ut  quod 
omnes  in   civitate  sciunt  tu  ignores. 

3  LRS.  p.  141. 

4  Cfr.  D.  26,   10. 

5  LRS.  p.  108  sgg.  La  notizia  è  interessante  per  la  storia  dell'  istiruto  del 
divorzio:  pel  decreto  di  Vermena  [Boretius  Cap.  p.  40  e.  18]  la  soluzione  avrebbe 
dovuto  essere  precisamente  in  senso  opposto.  Cfr.  Esuiein,  La  mariage  in  droit  ca- 
nonique,  Paris  1891,  li  p.  08. 


300  E.    BESTA.  PARTE   it. 

ti)i('nti<(  e  permetteva  a  quello  di  riaminogli  arsi ,  ricorreva  all'adagio 
rouianistico  :  in  cattai*  parious  idem  ius  consequenter  admitten  dum  i. 
lutine  alle  comuni  teorie  procedurali  alluse  altresì  senza  dubbio  quando 
biasimò  la  condanna  del  conte  Simone  perchè  eidem  innocenti  neque 
8uam  licuit  purgare  innocentiam ,  nec  dictis  ordine  indici  a  rio 
respondere  2  e  (piando  riprovò  la  carcerazione  e  l' accecamento  del 
conte  Eberardo  neque  con  rictus  neque  solempniter  iure  confessa*  i)rout 
o  r  do  i  u  d  ic  i  a  r  i  u  s  exposcebat  3. 

L' ipotesi  eh'  ci  fosse  notaio  della  curia  si  avvalora  anche  per 
ciò  che  nella  sua  storia  diede  speciale  importanza  a  varii  fatti  con- 
cernenti in  modo  speciale  la  cancelleria  4.  Così  pose  tra  le  beneme- 
renze del  cancelliere  Stefano  1'  aumento  del  numero  dei  notai  della 
curia  5  e  la  determinazione  di  una  tariffa  per  i  compensi  cui  pote- 
vano pretendere  :  e  ci  insegna  che  per  la  rinnovazione  dei  defetarii 
bruciati  nella  rivolta  del  marzo  1101  G  fu  necessaria  la  scarcerazione 
e  la  reintegrazione  del  notaio  Matteo  e  dà  abbastanza  precise  noti- 
zie su  la  divisione  delle  funzioni  nella  cancelleria  stessa  e  sul  modo 
con  cui  erano  redatte  e  spedite  le  lieterae  regiae  7. 


1  LRS.  p.  106.  Al  diritto  romano  è  anche  inspirata  la  critica  contro  il  gaito 
Martino  che  ammetteva  a  testare  le  donne  impudicae  e  gli  infame*  e  i  servi. 

2  LRS.  p.  43. 

3  LRS.  p.  13.  Noto  anche  per  sovrabbondanza  di  scrupolo  le  frasi  ad  d?libe- 
rationem  postulatis  induciis  [p.  54];  rem  in  transactionem  deducere  [p.  20]  ;  iusiurandi 
religione...  seti  quolibet  alio  satisdationis  genere  sibi  provideri  [p.  71  e  351]  ;  populum 
immeritum  ob  aliena  crimina  non  esse  puniendum  [p.  81];  iudiees  miserandum  nobis  ac 
triste  iustitiimi  ab  examinandarum  litium  cognitione  suspenderat  [p.  83].  Questa  col- 
tura romanistica  non  stupisce  del  resto  in  Sicilia  ,  poiché  di  essa  sono  testimo- 
nio oltre  al  De  institia  et  iure  del  cardinal  Laborante  [ed.  Siragusa  p.  IV]  e  alle 
assise  il  doc.  del  1169  edito  dal  Garriti  ,  Don.  norm.  n.  46  ,  che  non  solo  neìì'a- 
reuga  attinse  al  D.  1,  1,  1,  ma  nel  contesto  attinse  alla  e.  5  §  1  C.  1,  14  scrivendo: 
regali  eonstitutione  sancitimi  est  et  insta  legis  dejinitione  decretimi  ut  ea  que  contro,  leges 
fiunt   non  solum  inutilia  sed  etiam  prò  imperfecta  [leggi  infectis]  habeantur. 

4  Egli  sa  narrare  p.  es.  per  filo  e  per  segno  le  indelicatezze  di  Pietro  notaio 
[LRS.  p.  113]. 

5  LRS.  p.  114  1.  18. 

6  LRS.  p.  114  :  «  noturiorum  enormem  studuit  rapaci tatem  ad  mensuram  re- 
digere certumqne  niodum  quid  a  singulis  deberent  accipere  prò  negotiorum  diver- 
sitate  constituit  » .  A  questi  provvedimenti  dovettero  essere  di  spinta  le  esorbi- 
tanze del  notaio  Pietro  [ibid.   p.  113]. 

7  Non  credo  che  la  mia  impressione  possa  essere  infirmata  dalla  impreci- 
sione che  il  Kehr  credette  di  trovare  nella  descrizione  della  carriera  di  Maione 
a  confronto  della  cronaca  romoaldina.  Romoaldo  [p.  426]  dice  infatti  che  prima 
fa  8criniariu8,  deinde  nicecancellarius,  postremo  cancellarius  e  il  LRS.   invece  scrive 


PARTE   II.  IL  «  LIBEH   DE   REGXO   SICILIAE  »  .  301 

10.  Comunque  si  debba  risolvere  la  questione  eh'  io  toceai  ora,  è 
del  resto  indubitabile  ohe,  assodata  la  competenza  giuridica  dell'autore 
e  la  precisione  tecnica  del  suo  linguaggio,  acquistano  tanto  maggior 
valore  i  ragguagli  ch'egli,  con  mano  forse  troppo  avara  in  confronto  ai 
nostri  desiderii,  ci  trasmise  su  la  costituzione  e  sul  diritto  di  Sicilia. 
Si  fa  quindi  doveroso  raggiungere  qualche  altra  osservazione  intorno 
alle  materie   che   finora  non  ho   avuto   occasione  di  esaminare. 

Preoccupato  sopra  tutto  dell'amministrazione  centrale  egli  fu  assai 
più  parco  di  notizie  intorno  ai  funzionarii  provinciali  ;  e  i  pochi  ac- 
cenni agli  stratìgoti  \  che  dice  preposti  a  Provincie  e  a  città  2,  agli 
iudices  e  maiores  delle  varie  comunità  3,  ai  magistri  degli  oppida  e  ai 
castellani  dei  castra  4,  ai  catapani  5,  agli  iustitiarii  6,  ai  camerarii  7  non 
bastano  per  precisare  le  loro  speciali  competenze  e  i  rapporti  inter- 
cedenti fra  loro  e  gli  uffici  centrali. 

E  nemmeno  intorno  al  regime  tributario  ci  dà  quanto  avremmo 
desiderato  accennando  appena  di  sfuggita  al  servitium  galearum  8,  al- 


che ...  primum  in  curia  notarili*,  gradaiim  ad  cancella  ria  tu?  pervenerat  dignitatem... 
e  quindi  all'ammiragliato  [p.  8]  :  ma  è  poi  escluso  che  appunto  dai  notarli  si  vo- 
lessero togliere  gli  addetti  agli  scrinia  del  re  e  ohe  notaio  fosse  stato  Maione  prima 
che  scriniarius  t  Lo  scriniariato  e  il  vicecancellierato  sarebbero  stati  i  gradi  che 
l'autore  del  LRS.  credette  di  poter  passare  sotto  silenzio. 

1  LRS    p.  82  e  86. 

2  LRS.  p.  114. 

3  Con  intenzione  uso  di  questo  nome;  il  LRS.  parlando  di  società  contratte 
fra  ciritates  e  barone*  mette  in  chiaro  che  quelle  avevano  una  personalità  giuri- 
dica propria.  Tra  le  ciritates  noto  ch'ei  registrò  Messina  [p.  131],  Catania  [p.  121 
e  175],  Napoli  p.  29],  Salerno  [p.  29],  Amalfi  [p.  30],  Capila  [p.  11  e  12].Alife 
[p.  30],  Gallipoli  [p.  8]  e  parecchi  fra  i  centri  più  popolosi  di  Paglia  [p.  21].  Dalle 
ciritates  sono  distinti  gli  oppida  [p.  15.  30,  70-73,  131,  132]  die  probabilmente  come 
i  castra  [p.  153  e  160]  erano  in  più  stretta  dipendenza  dal  governo  centrale.  Nelle 
città  vi  erano  consigli  che  decidevano  a  maggioranza  [p.  29]  :  la  condotta  delle 
città  dipendeva  perciò  dalla   maxime  civium  partis  persuasio. 

4  LRS.  p.  153   e  154. 
3  LRS.  p.  86. 

6  LRS.   p.  146. 

7  LRS.  p.  86.  Quivi  ricorda  un  Johannes  Calomeni  camerarius  Calabrie  e  a 
pag.  140  un  Turaisius  residente  in  Troia  e  tcrrac  illius  camerarius.  Del  primo  è 
notizia  anche  nel  Garutì  ,  Doc.norm.  a  p.  184.  Di  un  camerarius  tcrrac  de  Ilari  si 
parla  anche  nel  Cod.  dipi.  bar.  V.  121.  Sopra  i  singoli  camerarii  provinciali  vi 
furono  forse  dei  camerarii  regionali  :  un  Bersano  magistcr  camerarius  Jpulic  et 
Terre  Labori»  si  trova  nel  1164. 

8  LRS.  p.  65. 


302  E.   BESTA.  PARTE    II. 

Yhospitaticum  *  ,  all'  esenzione  accordata  ad  alcune  città  di  fronte  ai 
tributi  indiretti  2,  alle  redemptio  3. 

Molto  miglior  aiuto  ci  offre  invece  per  risolvere  alcune  delle  mag- 
giori quistioni  che  si  dibattono  intorno  alla  storia  della  legislazione 
normanna  4. 

Anche  per  l'autore  della  Historia  regni  Siciliae  Ruggero  II  fu  il 
primo  legislatore  normanno.  Aliorum  regimi  et  gentili m  consuetudines 
diUgentissime  fecit  inquiri,  dice  egli,  ut  quod  in  eis  puleherrimum  aut 
utile  vidébatur  sibi  transumerei  e,  benché  la  sua  dizione  sia  alquanto 
oscura,  parrebbe  accennare  ad  una  larga  opera  legislativa  da  lui  con- 
dotta in  base  alle  migliori  legislazioni  precedenti. 

È  essa  a  noi  giunta  f 

Allorché  Eiccardo ,  conte  di  Molise  ,  blasfemò  la  sentenza  della 
curia  fu  decretato  iuxta  constitutiones  regum  Sicilie  che  egli  dovesse 
non  solum  de  terra  sua  ,  rerum  etiam  de  membris  et  corpore  regis  mi- 
sericordie siibiacere  eo  quod  iudicium  curie  falsimi  dicere  presumpsisset 
ciò  costituendo  un'ingiuria  che  non  in  eos  qui  i  n  die  aver  at, 
sed  in  caput  reginm  pr  in  cip  al  iter  r  edundab  at.  Dond'era 
attinta  quella  norma  ì  Si  pensò  già  a  confrontarla  al  §  17  dell'Ass. 
vat.  ,  e  il  raffronto  non  parve  convincente  ;  ma  si  lasciò  da  parte  il 
§  35  che  proprio  faceva  al  caso  5:  Observent  diUgentissime  iudices  ut  in 
actione  iniuriarum  curialium  dignitatem  personarum  qualitatem  senten- 


1  LRS.  p.  74.  Il  malcontento  desili  ojypidani  nacque  evidentemente  dal  fatto 
che  di  solito  i  singuli  milites  erano  ripartiti   fra  i  singoli  proprietarii. 

2  Cfr.  per  Messina  a  p  131  ,  dove  accennandosi  alle  quaedam  civitatis  immu- 
titi ate8  manifestamente  si  vuoi  alludere  al  privilegio  che  fu  concesso  nel  1160;  e 
per  Palermo  a  p.  63  lin.  17-22.  A  p.  48  si  accenna  alla  consuetudo  di  dar  la  sfrena 
per  il  gennaio. 

3  Somma  pagata  per  il  riscatto  dalla  devastatio  minacciata  alle  città  ribelli  : 
cfr.  LES.  p.  78,  87,  90.  Era  raccolta  dai  magistri  camerarii  p.  90.  Ad  essa  allude 
anche  Eiccardo  salernitano. 

4  Come  nella  decadenza  romana  consuetudo  si  disse  ogui  prestazione  al  fisco 
[cfr.  p.  63,  91  e  130]. 

5  Cfr.  Merkel  ,  Commentano  qua  iuris  siculi  site  assisarum  regni  Sicilie  frag- 
menta  ex  codicibus  tnanuscriptis  proponuntur  Halle  1856  ;  La  Lumia  ,  Storia  della 
Sicilia  sotto  Guglielmo  il  buono,  Palermo  I,  App.  p.  370  sgg.  ;  Brandileone  ,  Il  di- 
ritto romano  nelle  leggi  normanne  e  sveve  del  regno  di  Sicilia  ,  Torino  1884 ,  ove  la 
illustrazione  del  prezioso  monumento  legale  è  accompagnata  al  testo;  Perla,  Le 
assise  dei  re  normanni  ,  Caserta  1882  ;  Wilda  ,  Zur  sieilisehen  Gesetzgebung  unter  k. 
Friedrichs  II  Halle  1880;  Siragusa,  Guglielmo  I,  voi.  II  ;  Caspar  Roger  II  p.  237 
e  sgg.  È  noto  che  mentre  i  più  [Hartwig  ,  De  Blasiis,  Perla,  Brandileone,  P.  Kehr, 
Caspar]  lo  attribuiscono  a  Ruggiero;  il  Merkel,  l'Amari  ,  il  Siragusa  preferirono 
attribuirlo  a  Guglieluio  I  e  il  La  Lumia  ne  credette  autore  Guglielmo  II. 


PARTE   II.  IT,  «  LIBER   DE    REGXO   SICILIAE  ».  S03 

tiam  ferant...  ;  ipsis  autem  faeta  iniurias  non  ad  ipsos  dumtaxat ,  sed 
etiti  ni  ad  regie  dign  itati*  spectat  offensam  l. 

Qui  la  coincidenza  è  indisconoscibile  :  e  può  tagliar  corto  con 
molte  questioni.  Tanto  nell'ipotesi  cioè  che  le  comtitutiones  ,  cui  s'in- 
formò la  curia  nel  processo  del  conte  di  Molise,  fossero  precisamente 
quelle  offerte  dal  ms.  vaticano  <S7Si>,  (pianto  nell'  altra  che  siano  state 
semplicemente  la  fonte  cui  questo  attinse  ,  risulta  che  furono  opera 
di  più  re  e  la  paternità  del  loro  corpus  non  deve  quindi  attribuirsi 
a  Ruggero  II,  ma  piuttosto  a  Guglielmo  1  o  ai  primi  anni  della, reg- 
genza seguita  alla  sua  morte  2.  All'  ipotesi  del  La  Lumia  è  però  di 
gran  lunga  preferibile  quella  del  Merkel,  dell'Amari  e  del  Siragusa: 
già  nel  processo  per  avvelenamento  fatto  al  medico  Salerno  e  nella 
condanna  a  dover  soggiacere  bonis  omnibus  spoliatus  capitati  suppli- 
ciò  solimi  ci  vi  rendi  spe  in  misericordia  relieta  3  si  può  cogliere  l'ap- 
plicazione delle  norme  riferite  nelle  Ass.  vat.  XXXXI1I,  1  e  XXXVI  4. 

Ma  se  le  comtitutiones  furono  veramente  opera  di  Guglielmo  I 
conviene  ammettere  che  sieno  state  pubblicate  negli  ultimi  anni  del 
suo  regno.  Fino  al  1102  il  diritto  penale,  o  dirò  meglio,  quella  parte 
del  diritto  penale  che  si  riferisce  ai  reati  di  lesa  maestà  5  non  presenta 


1  Lamantia,  Cenni  storici  su  le  fonti  del  diritto  greco-romano  e  le  ossine  del  re  di 
Sicilia,  Napoli   1887  p.  77. 

2  La  diversità  stessa  delle  titolature  assunte  dal  re  nelle  Ass.  d.  Assise  posta 
in  rapporto  con  quella  usata  nei  documenti  usciti  dalla  regia  cancelleria  avrebbe 
dovuto  bastare  a  dissipare  le  confetture  che  si  debbano  ad  nn  solo  legislatore. 
Se  pur  Ruggiero  usò  per  sé  gli  attributi  onorifici  di  nostra  celai tudo  [Ass.  XXXI,  1; 
cfr.  Kehr  p.  117,  281,  287].  nostra  maiesUs  [Ass.  I;  Kehr  p.  287,  117]  sol.»  da  Gu- 
glielmo I  troviamo  adoperato  quello  di  clcmencia  nostra  [Ass.  X  .;  X  27;  Behring 
reg.  150  e  163]  e  di  nostra  serenitas  [Ass.   voi.   XXXV]. 

3  LRS.  p.  121-122. 

4  Nella  epistola  ai  messinesi  [LRS.  p.  149]  Guglielmo  II  e  Margherita,  scri- 
vevano :  Certuni  est  eos  maiestatis  crimen  admictere  non  solimi  si  qnos  tanta  vis  furoris 
exagitat  ut  ausu  nefario  v:te  salutique  nostri  insidiari  praesumant,  rerum  etiam  quos 
in  fumiliarium  nostrorum  necem  aliquid  ciani  palature  moliri  contigerit.  quicquid  adversus 
eos  qui  negociis  nostris  invigilant,  quorum  ope  et  Consilio  regnimi  nostrum  feliciter  gu- 
bernatur,  impietatis  sue  machinas  pniarerint  erigendas  ed  ebbero  senza  dubbio  l'occhio 
alle  norme  delle  Ass.  vat.  XVIII  ,  1.  Queste  diedero  anche  materia  al  discorso 
messo  in  bocca  al  contedi  Gravina  contro  Enrico  di  Montecaveoso  :  «...  regni  qui  de  m 
inventile  es  perturbator  et  contro  maiestatem  regioni  contnmax  et  rebellis  coque  ipso  non 
solum  terroni  que  possidebas  amictere,  sed  et  capitatati  subire  sententiam,  nisi  feniani  Ubi 
velit  regia  benignitas  indulgere  [LJRS.  p.  137]  ».  Il  Siragusa  vede  anche  un'applica- 
zione delle  Ass.  vat.  XIII  a  p.   115;   e  non   a   torto. 

5  Come  tali  il  LRS.  ricorda  la  factiones  [p.  33  cfr.  Ass.  vat.  XVIII,  2]  ;  la 
coniurationes  o  societatcs  o  conspirationes  [p.  11.  18,  33,  17,  48,  52,  53,  54,  66,  144] 
stipulate  con   solenne  giuramento  di  cui  era  quasi  sempre  elemento  essenziale  i'ob- 


304  E.    BESTA.  PARTE    II, 

troppa  corrispondenza  con  le  norme  che  sul  proposito  sono  riferite 
dalle  assise  stesse  :  nella  punizione  di  essi  v'era  una  crudeltà  ecces- 
siva i  che  parrebbe  essere  stata  eliminata  dalle  nuove  leggi  ove  la 
pena  capitale  non  è  inasprita  da  altri  tormenti  e  al  di  fuori  di  quella 
parrebbe  non  essere  stata  ammessa  che  1'  incarcerazione.  Prima  in- 
vece accanto  alla  hris  caesio  o  alla  decapitazione  e  alla  nuspemio  o 
alla  impiccagione  si  ricorreva  alla  pena  che  i  romani  stabilivano  pel 
parricida  2  e  il  carcere  3  era  inasprito  con  la  barbarie  dell'  acceca- 
mento 4  o  del  taglio  della  destra  5. 

Il  prologo  delle  assise  vaticane  diretto  ai  proceres  e  l' insistenza 
con  cui  pur  nelle  singole  disposizioni  di  esse  si  torna  sulla  soìlicitiMÌo, 
sulla  providentia,  sulla  pietas  regis  o  sull'  intenzione  sovrana  di  ricon- 
durre la  giustizia  sul  suo  sentiero  e  di  mitigare  le  asprezze  del  di- 
ritto con  la  clemenza  fa  credere  che,  pubblicate  dopo  un  periodo  vio- 
lento di  torbidi  e  di  delitti  ,  dovessero  costituire  come  un'arra  di  pace 
tra  le  varie  classi  sociali  6  :  or  nessun  tempo  più  adatto  ad  esse  potreb- 
besi  trovare  di  quel  periodo  di  quiete  che  susseguì  alla  domata  ri- 
bellione del  11C2  7. 

Il  Liber  regni  Sicilie  pone  d'altronde  fuor  di  dubbio  che  nelle  As- 
sise vaticane  non  è  compresa  tutta  l'opera  legislativa  dei  re  normanni 
e  neppur  tutta  quella  di  Guglielmo.  Tra  le  condizioni  che  nel  11G1  i 
baroni  ribelli  avrebbero  voluto  conseguir  da  Guglielmo  era  appunto  che 


bligo  del  segreto  [p.  14,  54  ,  134];  le  seditiones  [p.  12  ecc.];  la  fuga  al  nemico 
[p.  77  e  78];  la  ricettazione  dei  rei  di  lesa  maestà  e  1'  aver  celato  il  tradimento 
a  sé  noto  [p.  139],  il  raccogliere  intorno  a  sé  torme  di  soldati,  multitudo  militimi 
absque  licentia  curie  [p.  23  e  146]. 

1  La  confisca  era  sempre  conseguenza  del  tradimento  [LliS.  p.  78]  anche  in- 
dipendentemente dal  capitale  supplicium  [p.   15]. 

2  Johar,  già  magister  camerarius  palatii  fu  appunto  gettato  in  pelagus  imposito 
lintro  [LliS.  p.  77].  Quella  pena  era  già  usata  pei  traditori  prima  della  venuta 
dei  normanni  :  cfr.  Besta,  Il  diritto  consuetudinario  di  Bari  e  la  sua  genesi,  Torino 
1902,  estr.  dalla  Eiv.  ital.  p.   le  scienze  giurid.  p.  69. 

3  II  LRS.  p.  20  ,  23  ,  76  fa  nn  terribile  quadro  delle  carceri  cui  erano  con- 
dannate le  vittime  dell'odio  politico. 

4  Cfr.  LRS.  22,  23,  25,  68,  77. 

5  LRS.  p.  72.  Talvolta  la  curia  contro  i  ribelli  vietava  anche  la  sepoltura 
[p.  85].  All'in/amia  derivante  dal  tradimento  si  accenna  a  p.  15.  Oltre  l'esilio  si 
ricorda  come  pena  la  deportatio   [p.  51]. 

6  Questo  notò  già  e  molto  appropriatamente  il  Siragusa,  Guglielmo  I  p.  84-85. 
I  ragionamenti  che  il  Perla  op.  cit.  p.  19  e  sgg.  volle  fare  sull'  uso  della  parola 
princeps  non  hanno  alcun  valore  :  lo  stesso  LRS.  prova  che  vi  erano  principes 
estranei  alla  discendenza  reale  [cfr.  p.   631. 

7  LRS.  p.  87. 


Parte  ii.  il  «  liber  de  regno  siciliae  ».  505 

fosse  revocata  la  norma ,  la  quale  stabiliva  absque  permissione  curie 
filias  [baronum]  matrimonia  non  posse  contraivi  i  e  pur  nelle  Assise  va- 
ticane manca  questa  legge,  che  dovette  essere  emanata  da  Ruggiero 
poiché  altrove  2  ebbi  già  a  ricordare  un  documento  del  1154  che  ac- 
cenna a  una  traditio  uxorie  da  farsi  subordinatamente  alla  assenza  di 
una  contrarietà^  regum  3.  Anche  allora  ne  rammentai  un  altro  del  1107 
che  accenna  ad  un  preceptum  da  re  Ruggero  noviter  promulgatum  in- 
torno alle  formalità  da  seguirsi  nelle  alienazioni  delle  donne  4  e  nondi- 
meno anch'esso  non  si  legge  nelle  assise  vaticane. 

11.  —  Al  di  là  delle  leggi  avea  efficacia  la  consuetudine  e  con- 
suetudinarie erano  ,  tra  1'  altre ,  le  materie  feudali.  Il  L.B./S.  e'  in- 
segna che  era  contro,  consuetudinem  lo  spogliare  il  vassallo  d'un  feudo 
nei  casi  in  cui  ,  violando  il  sacramentum  fìdelitatis  5  ,  non  fosse  un 
proditor  o  nei  casi  in  cui  non  fosse  stato  belìo  inutilis  6  :  che  era 
consuetudo  che  i  milites,  i  quali  si  recavano  a  visitare  il  re,  avessero 
regis  videndi  copia  7.  Poi  tra  le  condizioni  che  i  feudatarii  afforzati  in 
Caccamo  nel  1161  ponevano  a  Guglielmo  I  per  la  loro  dedizione  ri- 
corda questa  ut,  pernitiosis  legibm  antiquatis  eas  restitueret  consuetu- 
dines  quas  avus  eius  Bogerius  comes  a  Roberto  Guischardo  prius  intro- 
ductas  observaverit  et  observare  fuerit.  Ma  di  queste  consuetudini  feu- 
dali eravi  una  raccolta  scritta  analoga  in  qualche  modo  ai  Libri  feu- 
dorum  che  costituirono  una  codificazione  del  diritto  feudale  lombardo  ? 
Una  risposta  affermativa  si  è  voluta  ricavare  dal  seguente  brano  della 
Historia  :  «  Cum  autem  [familiaribus  regis  per  quos  negotia  curie  di- 
sponebat]  terrarum  feudorumque  distinctiones  ususque  et  instituta 
curie  prorsus  essent  incognita  neque  libri  consuetudinum  ,  quos  defe- 
tarios  appellant,  potuissent  post  captum  palatium  inveniri  placuit  regi 
visumque  est  necessariuin  ut  Matheum  notarium  eductum  de  carcere 
in  pristinum  officium  revocaret  :  qui,  cum  in  curia  diutissime  notarius 
extitisset...,  consuetudinum  totius  regni  plenam  sibi  vindicabat  peritiam 
ut  ad  componendos  novos  defetarios,  eadem  prioribus  continentes,  pu- 
taretur  sufficere  »;  ma,  secondo  me,  a  torto.  Non  è  possibile  il  dissentir 
qui  dall'Amari  8  :  le  consuetudines,  cui  lo  storico  alludeva,  non  erano 
qui  delle  norme  obiettive  di  diritto,  ma  doveri  nella  persona  dei  feu- 
datarii e  diritti  da  parte  dello  stato.  Per  riformulare  i  principii  giuri- 


1  LRS.  p.  64.  A  p.  78  ricorda  come  colpa  del  conte  Ruggero  d'Avellino  l'aver 
sposata  la  figlia  della  contessa  di   S.   Severino  iniussu  eiiriae. 

2  Cfr.  Beata,  Dir.  cons.  bar.  p.   19. 

3  Cod.  dipi.   bar.  V  107. 

4  Cod.  dipi.   bar.  I  50.  Il  documento  non  sfuggì  neppure  al  Kehr,  p.  226  n.  2. 

5  LRS.  p.  22.         6  LRS.  p.   12.         7  LRS.  p.  U.        8  Cfr.  Kehr  p.  132. 

20 


306 


dici  ohe  regolavano  la  materia  feudale  non  sarebbe  stata  indispensabile 
la  liberazione  d'un  carcerato  :  ma  ben  si  doveva  ricorrere  a  chi  ne  era 
per  lunga  pratica  esperto  quando  si  trattò  in  base  ad  elementi  difet- 
tosi e  disordinati  di  rinnovare  i  registri  perduti  onde  risultavano  le 
ragioni  del  fìsco. 

12.  —  Un'ultima  consuetudine  mi  resta  solo  ad  esaminare  :  ed  ho 
finito.  L'autore  del  IAber  regni  Biciliae  i  narra  che  Maione  e  Ugo  ar- 
civescovo di  Palermo  iuxta  consuetudinem  siculorum  fraterne  fedus 
societatis  contraxerunt  seque  in  vicem  iureiurando  costrinxerunt  ut  alter 
alterimi  modis  omnibus  promoveret  et  tam  in prosperis  quam  in  adversis 
unius  essent  animi,  unius  voluntatis  atque  consili i  :  quisquis  alterimi 
lederet  amborum  incurreret  offensam.  Si  tratta  di  un  vero  e  proprio 
affratellamento  2  :  e  l'esempio  è  prezioso  per  lo  storico  del  diritto  che 
a  quell'uso  potrà  trovare  un  notevole  riscontro  nei  costumi  della  Sar- 
degna 3.  Ma  io  lo  sottopongo  all'  attenzione  degli  storici  anche  per 
mi  altro  motivo.  Se  l'autore  del  Liber  regni  Siciliae  fosse  stato  d'ori- 
gine francese,  come  ora  generalmente  si  crede  4 ,  avrebbe  egli  chia- 
mata consuetudo  siculorum  una  consuetudine  che  era  tanto  diffusa 
nella  sua  terra  5!  E  1'  avrebbe  così  designata  un  inglese  6  ?  Certo  il 
nostro  scrittore  non  fu  né  appulo  7,  né  siciliano  8 ,  nò  musulmano  9, 
né  greco  :  ma  quella  sua  caratteristica  espressione  rende  probabile  che 
fosse  tuttavia  un  cismontano.  Già  la  Ancona  ha  opportunamente  osser- 
vato che  un  oltramontano  non  avrebbe  così  causticamente  stigmatizzata 
la  miseria  I0,  la  superbia  li  e  la  tracotanza  i2  dei  transalpini  che  per  lui 
erano  ignari  d'ogni  libertà  13  :  ai  suoi  argomenti  qui  se  n'aggiunge  un 
altro  che  mi  pare  efficace. 


1  LRS.  P.  10. 

2  E  come  tale  lo  considerò  già  opportunamente  il  Tamassia,  L'affratellamento, 
Torino  1886,  p.  31  32. 

3  Lo  storico  del  diritto  oltre  che  ai  brani  relativi  alla  ordalia  del  duello 
[LRS.  p.  80]  dovrà  badare  all'accenno  al  diritto  dei  propinqui  di  ratum  habere  il 
matrimonio  delle  donne  [p.  35].  4  Dallo  Hillger,  dal  Salinas  etc. 

5  Cfr.  Tamassia,  op.  cit.  p.   33.  6  Cfr.  Tamassia,  op.    cit.   loc.   cit. 

7  Cfr.  le  invettive  contro  gli  appuli  a  p.    126,   117. 

8  Cfr.  le  invettive  contro  i  siculi  a  p.  30  e  a  p.  96. 

9  A  p.  25  parla  addirittura  di   un  gentile  vitium  saracenorum. 

10  LRS.  p.  110.  "  LRS.  p.  93.  12  LRS.  p.  133. 

i3  LRS.  p.  145.  Alla  Gallie  consuetudo  contrappone  la  libertas  civium  et  oppi- 
danorum  Sicilie  [p.  144].  Intorno  all'esattezza  dell'affermazione  saracenos  et  grecos 
8olum  qui  villani  dicantur  solrendis  redditibus  annuisque  pensi onibus  deputatos  [esse] 
cfr.  Amari,  Storia  dei  musulmani  in  Sicilia,  III  p.  236  e  sgg. 

Palermo, 

E.  Besta. 


DI  UN'IMPORTANTE  MINIATURA 

DEL  CODICE  120  DELLA  BIBLIOTECA  CIVICA  DI  BERNA. 


Il  codice  120  della  Biblioteca  civica  di  Berna  contiene,  fra  altre 
scritture,  l'unico  esemplare  che  si  conosca  del  carme  storico  di  Pietro 
da  Eboli,  pubblicato  per  la  prima  volta  a  Basilea  da  Samuele  Engel 
nel  1740  *  e  poi  riprodotto  nel  1770  dal  Gravier ,  2  nel  1845  dal 
Del  Re  3  e  finalmente  nel  1874  da  Eduardo  Winkelmann  *  pel  giu- 
bileo cattedratico  di  Giorgio  Waitz.  Questo  Codice,  della  fine  del  se- 
colo XII,  è  preziosissimo,  non  solo  perchè  fu  sottoposto  a  una  revi- 
sione dell'autore  e  contiene  molte  correzioni  e  aggiunte  autografe;  ma 
altresì  perchè  è  illustrato  da  cinquantatre  miniature  coeve ,  del  cui 
pregio  io  parlai  nel  mio  studio  su  Le  miniature  che  illustrano  il  Carme 
di  Pietro  da  Eboli  nel  Codice  120  della  Biblioteca  di  Berna,  5  e  che 
ora  chiunque  può  esaminare  per  la  pubblicazione  splendidamente  riu- 
scita, ad  opera  dello  stabilimento  Danesi  di  Roma,  a  mia  cura  nelle 
pubblicazioni  dell'Istituto  Storico  Italiano. 

Queste  miniature  si  trovano  sul  recto  delle  carte,  mentre  sul  verso 
si  legge  il  poema,  e  sono  disposte  in  maniera  clic  ovunque  si  apra  il 
codice,  si  trova  la  facciata  a  destra  con  una  miniatura  che  è  illustra- 
zione dei  versi  che  si  leggono  nella  facciata  a  sinistra.  Questa  corri- 
spondenza, che  in  origine  doveva  esistere  per  tutto  il  codice,  oggi  non 
si  ritrova  sempre,  perchè  vi  sono  alcune  carte  mancanti  ed  altre  spo- 
state. Di  siffatte  lacune  o  spostamenti  parlo  lungamente  nella  prefa- 
zione alla  nuova  edizione  del  poema  che  vedrà  (pianto  prima  la  luce 
e  che  fu  preceduta  dalle  tavole  predette.    11  primo  editore  riprodusse 


1  Petri  de  Ebulo  ,    Carmen  de  motibus    siculi»    etc.  Basileae  ,    typis   Emanuelis 
Tbnrnisii.  MDCCXLVI. 

2  Raccolta  di  tutti  i  più  rinomati  scrittori   delV  istoria  generale  del  Regno  di  Na- 
poli  etc.  Napoli,  MDCCLXX. 

3  Cronisti  e  scrittori  sincroni   Napoletani.  Napoli,   1845.   I,  p.   401-456. 

4  Des  Magisters    Petrus    de  Ebulo,   Liber  ad    honorem    Augusti.   Xach    der  Origi- 
nalhandschrift  etc.  Lipsia,    1874. 

5  Ballettino  dell'Istituto  storico  italiano,  N.  25,  Roma,  1904. 


308  G.    B.    SIRAGXTSA.  PARTE   II. 

otto  di  queste  miniature  nel  miglior  modo  ch'ei  potè  coi  mezzi  d'al- 
lora, e  queste  stesse  ripubblicò  il  Del  Re,  forse  valendosi  degli  stessi 
rami  o  per  lo  meno  lucidandoli,  ma  ne  alterò  alquanto  l'ordine  e  ne 
suddivise  due  in  due  tavole  ciascuna. 

Dissi  altra  volta  che  se  si  considera  il  poema  di  Pietro  come 
fonte  storica,  le 'miniature  sono  forse  più  importanti  del  testo,  perchè 
forniscono  notizie  più  precise  e  determinate;  ma  notizie  nuove,  cioè 
non  date  dalle  altre  fonti  note,  si  trovano  qua  e  là  anche  nel  poema, 
sulle  quali  occorrerebbe  uno  studio  speciale  per  vedere,  non  foss'altro, 
se  ba  ragione  qualche  critico  moderno  a  respingerne  con  troppa  sicu- 
rezza alcune.  Fra  queste  notizie  nuove  dovevano  essere  importanti 
quelle  relative  alla  congiura,  vera  o  supposta  ,  contro  l' imperatore 
Enrico  VI ,  della  quale  si  sarebbero  strette  le  fila  poco  dopo  la  morte 
di  Tancredi,  nell'interesse  e  quasi  sotto  la  direzione  della  regina  Si- 
billa di  Acerra;  ma  disgraziatamente  buona  parte  di  questo  episodio 
del  poema  manca  perchè  quella  carta  venne  lacerata ,  come  accusa 
anche  lo  strapipo  irregolare  che  si  vede  nel  codice.  Se  manca  il  brano 
del  poema,  non  manca,  però,  la  miniatura  che  la  illustrava.  Questa 
porta  il  X.  XL1T  delle  tavole  edite  dall'Istituto  Storico  (e.  ±3-136  del 
codice)  e  si  trova  anche  nelle  edizioni  Engel  e  Del  Re. 

Su  questa  congiura  molto  si  è  scritto.  La  negarono  alcuni  e  quasj 
la  credettero  una  scena  preparata  per  giustificare  i  supplizi!  o  il  car- 
cere dei  partigiani  di  Tancredi;  altri  credettero  che  fossero  confusi  i 
particolari  di  una  prima  cospirazione  che  si  sarebbe  scoverta  nel  1195 
con  un'altra  posteriore  ordita  nel  1197;  ma  qui  non  è  il  luogo  di  en- 
trare in  simili  discussioni.  Dirò  solo  che  per  Pietro  da  Eboli  la  con- 
giura fu  ordita  e  che  venne  scoverta  ad  opera  di  un  traditore  che 
nel  poema  è  un  «  quidam  »  il  quale  «  conscius  archani  secreta  revelat 
et  docet  insidias  enumeratque  viros  »,  ma  nella  miniatura  è  un  monaco 
che  si  presenta  umilmente  ad  Enrico  VI  in  veste  di  delatore,  come 
spiega  anche  la  leggenda  :  «  Monacus  iste  coniurationem  proditoruin 
detexit  ».  Se,  però,  è  possibile  di  dubitare  della  congiura,  non  è  pos- 
sibile dubitare  delle  pene  che  ai  veri  o  presunti  colpevoli  vennero 
inflitte  ,  poiché  di  queste  abbiamo  parecchie  e  non  dubbie  testimo- 
nianze. Ma  diciamo  prima  della  miniatura  del  Codice  di  Pietro  da 
Eboli. 

Questa  è  divisa  in  due  sezioni  disuguali,  separate  da  una  linea 
orizzontale.  Nella  superiore  sono  rappresentate  :  a  destra  di  chi  guarda, 
un  dignitario  ecclesiastico  vestito  di  tunica ,  manto  ,  stola  e  mitria, 
seduto  su  uno  sgabello  e  sul  quale  una  mano  posteriore  a  quella  del- 
l'autore di  quasi  tutte  le  altre  leggende,   scrisse  :  «  Presul  Salerni  »; 


PARTE   li.  DI   UN'IMPORTANTE   MINIATURA.  309 

nel  centro,  seduto  su  una  scranna,  un  fanciullo  vestito  di  tunica  e  a 
capo  scoverto,  sul  quale  la  stessa  mano  scrisse  :  «  Regulus  »;  a  si- 
nistra su  un'altra  scranna  uno  scrivano  che  verga  nel  foglio  che  tiene 
in  mano  ciò  che  gli  dettano  i  due  personaggi  predetti. 

Xella  sezione  inferiore,  che  è  poco  più  del  doppio  della  superiore, 
si  veggono  sotto  un  arco  ogivale  parecchi  personaggi  raccolti  attorno 
a  un  tavolino,  dove  pare  che  stia  un  vangelo  crocesignato,  sul  quale 
tutti  stendono  le  destre  in  atto  di  giurare.  Nel  centro,  nel  posto  più 
in  vista,  è  una  donna  in  ricco  paludamento  seduta;  a  destra  tre  fi- 
gure ,  delle  quali  una  ha  in  capo  una  mitria  e  un'altra  è  di  uomo 
barbuto;  a  sinistra  sei  altre  figure  tutte  a  capo  scoverto.  Tanto  i  tre 
personaggi  di  destra,  quanto  i  sei  di  sinistra  sono  inginocchiati. 

Questa  composizione  è  spiegata  da  una  leggenda  importantissima 
che  dà  i  nomi  dei  congiurati  e  che  è  disposta  in  due   colonne  così  : 

Doinus  in  qua  coniurant  proditores  regni 

TJxor  Tancredi  Comes  Biccardus 

Presul  Salerni  Comes  Bogerius 

Margaritus  Comes  Biccardus  de  Agellis 

Bogerius  Tharthis  Eugenius 

Comes   W.  de  Morsico 
Iohannes  frater  presulis  Salerni 
Comes  Bogerius  Avilini 
Aìexius  serrus  Tancredi 

Osservo,  anzitutto,  clic,  i  nomi  sono  dodici,  compresa  la  denomi- 
nazione perifrastica  della  regina,  che  il  poeta  non  chiama  mai  per 
nome,  ma  le  figure  sono  soltanto  dieci  ;  i  poi,  che  la  parola  ciurant 
era  stata  dal  Winkelmann  letta  iniurant,  scambiando  per  i  la  prima  e 
imperfetta,  sottoposta  al  segno  di  abbreviazione;  che  il  nome  Tharthis, 
era  stato  tetto  Tharchis,  mentre  la  forma  della  t,  nettamente  distinta 
da  quella  della  e,  anche  in  questa  stessa  leggenda,  non  lascia  luogo 
a  dubbio,  e  finalmente  che  il  nome  de  Agellis,  clic  per  la  cattiva  ri- 
produzione dell'Engel  era  stato  letto  de  Agott,  (onde  il  Del  Re  s'era 
ingegnato  d'identificare  la  famiglia  de  Agottis)  letto  correttamente  dal 


1  Gli   Aiutale*  Marbacnises,   .  Alan.    Germ    Ilixt.   XVII,    p.    166)  dicono:    «  Iiuue- 

rator capta  uxore  Tancradi  (sic)  et  episcopo  Salernitano  et  decetn  ali is  eiiwleni 

terre  couiitibus  et  maioribils,  inter  quoa  erat  quidam   pyrata  precipuus  dictus  Mar- 
garita   ».   Il   numero  corrisponde  esattamente  coi   dodici   nomi   del   Codice  di 

Berna.  Gli   Annahs  Jquenses  nei  Mon    citati.  XVI  p.  687,  danno  il  numero  di  sedici 
oltre  la  regina,   i   figliuoli   di  lei  e   Margarito,    «  priucipuui   pitatarum». 


3lO  G.    B.    SIRACUSA.  PARTE   ìt. 

Winkelmann ,  fa  crollare  lo  strano  edifìcio  della  strana  lezione  e  ci 
chiarisce  che  quel  Riccardo  di  Aiello,  che  è  nominato  nelle  cronache 
e  in  molti  documenti,  come  il  fratello  Nicolò,  arcivescovo  di  Salerno, 
era  il  noto  figlio  del  celebre  cancelliere  Matteo. 


La  identificazione  di  questi  nomi  non  è  facile;  per  alcuni  anzi  è 
impossibile ,  non  venendoci  alcuna  luce  dai  documenti  che  sinora  co- 
nosciamo. 

Cominciando  dai  quattro  personaggi  che  stanno  a  sinistra,  nes- 
suna difficoltà  presentano,  la  «  Uxor  Tancredi  »,  il  «  Presul  Salerai  », 
cioè  Nicolò  di  Aiello  già  mentovato,  e  «  Margaritus  »,  che  fu  il  ce- 
lebre ammiraglio  Margaritone  di  Brindisi  e  che  si  sa  da  molte  altre 
fonti  essere  stato  fra  i  principali  accusati  della  congiura,  catturato, 
accecato  e  j)ersino  evirato  *j  ma  non  è  ben  chiaro  chi  sia  quel  «  Ro- 
gerius  Tharthis  »  che  è  P  ultimo  dei  quattro.  Si  può  dubitare  però 
che  si  tratti  del  «  Rogerius  de  Tarsia  »  che  era  certamente  perso- 
naggio cospicuo  in  Sicilia  e  assai  probabilmente  in  rapporti  col  can- 
celliere Matteo;  infatti  apparisce  da  un  documento  2  che  egli  e  la  mo- 
glie Maria,  figlia  di  Roberto  Malconvenant,  rinunziarono  alla  terra  di 
Bisacquino  «  in  presentia  domini  Matthei  regis  vicecancellarii  et  fa- 
miliaris  »  e  con  la  testimonianza,  fra  altre,  di  Riccardo,  figlio  di  Mat- 
teo. Dall'elenco  di  Ansberto  già  citato,  si  ricava  che  un  «  de  Tarsia  » 
fu  tra  i  congiurati,  ma  ivi  è  chiamato  «  Tancredus  »  e  non  «  Roge- 
rius  »  ed  è  assai  probabile  che  lo  scrittore  sbagliasse  i  nomi  scri- 
vendo lontano  e  sulla  relazione  altrui ,  come  notai  nella  nota  pre- 
cedente. 


1  II  chierico  Ansberto  Hist.  de  expedit.  Friderici  imperatoria.  (Nelle  Fontes  Rerum 
Austriaoarum(  Scriptores,  V,  pag.  86-87)  parlando  della  congiura  contro  l'impera- 
tore Enrico  VI,  dà  una  certa  lista  di  cospiratori,  sulla  quale  sarò  costretto  a  tor- 
nare più  volte.  Questo  elenco  riesce  scorretto  per  l'interpunzione  che  la  edizione 
citata  conservò  quasi  sempre  come  era  stata  data  dalla  prima  edizione  di  Gius. 
Dobrowsky  nel  1827.  Ivi  si  legge  :  «  Willehelmus  filins  Tancredi  et  frater  eius  Mar- 
garita, comes  Avellinus  etc.  ».  Credo  si  debba  invece  interpungere:  «  Willehelmus  fi- 
iius  Tancredi  et  frater  eius  ,  Margarita,  Comes  Avellinus  etc.  ».  Comunque,  è  sempre 
erroneo  attribuire  un  fratello  a  Guglielmo  III  dopo  la  morte  del  maggiore  Rng- 
giero,  che  gli  scrittori  chiamano  talvolta  Ruggiero  III;  ma  sarebbe  doppio  errore 
attribuirglielo  e  chiamarlo  Margarita.  Non  mi  par  dubbio  che  «  Margarita»,  come 
è  anche  denominato  da  altre  fonti  che  citerò  appresso,  sia  Margaritone  di  Brin- 
disi. Gli  errori  di  nome  in  Ansberto  non  fanno  specie,  trattandosi  di  uno  straniero 
che  vivea  lungi  dall'Italia  e  a  cui  queste  notizie  giunsero  per  relazione  altrui. 

2  Docum.  del  marzo  1183  in  Garutì.  Documenti  inediti  dell'epoca  Normanna  in 
Sicilia,  pag.  191, 


PARTE    II.  DI    UN'IMPORTANTE    MINIATURA.  311 

Maggiori  difficoltà  presenta  l' identificazione  dei  nomi  della  se- 
conda colonna.  Il  primo  è  un  «  Comes  Riccardus  »  e  non  è  chi  non 
veda  come  la  semplice  indicazione  del  nome  sia  all'atto  insufficiente; 
né  ci  aiuta  Ansberto  che  non  nomina  vermi  Riccardo.  Se  non  che 
l'esser  messo  in  capolista  mi  pare  che  accenni  a  personaggio  non  solo 
cospicuo,  ma  principale;  e  intatti  due  fonti  tedesche  danno  come  ar- 
tefici principali  della  congiura  insieme  a  Margarite,  un  conte  Riccardo. 
La  prima  è  la  Continuatio  Weingartensis  della  Cronaca  di  Tigone  l  la 
quale  nomina  :  Margaritam  piratam  pessimum  »  e  un  «  Riccardum 
nobilem  comitem  »  e  dopo  di  costoro  il  figliuoletto  di  Tancredi  «  nec 
non  et  aliis  episcopis,  abbatibus  et  mulieribus  »;  la  seconda  è  la  Con- 
tinuatio  Sanblasiana  di  Ottone  di  Frisinga  2  la  quale  anch'essa  pone 
come  capi  della  cospirazione  :  «  Margaritum  archipiratam  potentissi- 
mum  illius  terre  baronem  cum  quodam  comite  Richardo  litteris  ap- 
prime  erudito  »,  e  poco  dopo  ripetendosi:  «  Margaritum  archipiratam 
et  Riehardum  comitem  imperatricis  consangui neum  »  ;!. 

Chi  sia  questo  conte  Riccardo,  letterato  e  consanguineo  dell'im- 
peratrice io  non  so,  ma  dubito  che  si  tratti  del  conte  Riccardo  d'Acerra, 
consanguineo,  e  precisamente  fratello,  non  dell'imperatrice  ma  della 
regina  Sibilla  di  Acerra,  moglie  di  Tancredi;  e  tanto  più  panni  proba- 
bile in  quanto  sulla  fede  dell'  imperatrice  Costanza  si  avevano  forti 
dubbi,  tali  che  una  cronaca  tedesca,  gli  Annali  di  &tade  4,  attribuiscono 
a  Riccardo  di  Acerra  il  proposito  di  avvelenare  Enrico  VI  per  con- 
siglio di  Costanza;  ma  la  morte  di  questo  conte  Riccardo,  che  sarebbe 
stato  uno  dei  cospiratori  catturati  per  ordine  di  Enrico  VI,  come  la 
narrano  le  due  fonti  predette,  fu  assai   diversa  da  quella    orribile  e 


1  Mon.   Gemi.  hist.  XXI,  pp.   478-79. 

2  Mon.   Gemi,  hist.  XX,  p.   325  e  326. 

3  Per  le  fonti  tedesche  Margarito  fu  1'  autore  principale  della  congiura.  Le 
Gesta  Heinrici  VI  attribuite  a  Goffredo  da  Viterbo.  Mon.  Gemi.  hist.  XXII,  p.  337, 
recano  : 

«  Palatini  comites  simul  congregati, 

«  Margaritus,   regnlus  situili  sociali 

«  Cesarem  occidere  ita  sunt   iurati  ». 


«  Hoc  postquam  Cesar  scivit,  cepit  proditores 

«  Margaritus,  regulus  et  omnes  fautores  ». 

4  Mon.  Gemi.  hist.  XVI  ,  p.  353.  «  Quondam  etiam  Ricln»rdum  per  plateas 
tractuni  suspendi  fecit  quia  eum  [iniueratorem]  Cousrantie  Consilio  inipotionare 
voluit».  Il  sospetto  che  Costanza  partecipasse  secretamente  alla  e  mgiura  è  rive- 
lato da  parecchie  cronache  tedesche  ed  inglesi  ,  passate  a  rassegna  dal  Toeche 
Kaiser  Heinrich,   pag.   582  sg. 


5lÙ  G.   B.    SIltAGUSA.  PAR/TE   lt. 

crudele  del  Conte  di  Acerra  che  ci  descrive  con  ributtanti  particolari 
Riccardo  di  S.  Germano  e  che  sarebbe  stata  inflitta  per  ordine  dell'im- 
peratore a  Capua  nel  1197  e  non  pel  fatto  della  congiura. 

Se  però  vogliamo  limitarci  al  proposito  d'identificare  questo  Ric- 
cardo, messo  in  capolista ,  dirò  che  alla  congiura,  vera  o  supposta, 
alla  quale  si  riteneva  avessero  preso  parte  la  regina  e  tutta  la  fami- 
glia degli  Aiello,  non  poteva  credersi,  specialmente  dai  Tedeschi  dei 
quali  P.  da  Eboli  era  il  portavoce,  che  potesse  essere  rimasto  estraneo 
il  fratello  della  vedova  di  Tancredi,  che  era  stato  una  delle  colonne 
più  salde  del  partito  antitedesco. 

Anche  pel  secondo  nome  «  Comes  Rogerius  »  l'indicazione  è  af- 
fatto insufficiente  ;  ma  se  si  ricorda  che  Ruggiero  conte  di  Molise, 
forse  figlio  del  noto  Riccardo  di  Mandra ,  prima  partigiano  di  En- 
rico VI,  era  divenuto  fautore  di  Tancredi,  dopo  essere  stato  vinto  e 
fatto  prigione  da  Riccardo  conte  di  Acerra  i  ,  parrà  verosimile  che 
si  accenni  a  lui  in  questo  luogo.  Ansberto  nel  suo  elenco  nomina  tre 
Ruggieri:  il  primo  sarebbe  un  fratello  di  Mcolò  arcivescovo  di  Sa- 
lerno, ovvero  un  signore  di  Trebisacce,  se  quest'ultimo  titolo  non  si 
riferisce  allo  stesso  fratello  dell'arcivescovo  salernitano  2  ;  il  secondo 
un  «  Rugerius  nobilis  »  senz'altra  indicazione  ;  il  terzo  un  «  Comes 
Avellinus  Rogerius  »  del  quale  j)arlerò  più  tardi  3  ;  ma  niuno  dei  tre 
si  può  identificare  con  questo  della  leggenda  del  Codice  di  Berna. 

Il  terzo  personaggio  notissimo  è  da  considerare  insieme  al  sesto. 
Quegli  è  Riccardo  di  Aiello  figlio  di  Matteo  cancelliere  ;  questi  sarebbe 
un  fratello  di  lui  e  dell'arcivescovo  di  Salerno  Mcolò,  che  giusta  la 
scritta  del  Codice  di  Pietro  da  Eboli  avrebbe  avuto  nome  Giovanni. 
Secondo  questa,  dunque,  i  figli  di  Matteo  d'Ai  elio  che  parteciparono 


1  Cf.  Annali  Casin.  nei  Mon.  Germ.  hist.  XIX  ,  pag.  315  e  Riccardo  da  S,  Ger- 
mano, ediz.  Gaudenzi,  pagg,  G6  e  68. 

8  L'edizione  Dobrowsky  porta  a  pag.  124:  «  Archiepiscopi  Salernitani^, 
comes  frater  suus,  Rugerius  de  tribus  Bysatiis  etc.  ».  Quella  delle  Fonte»  Berum 
Au8triacarum  png.  86:  «  Archiepiscopus  Salernitanus,  comes  frater  suus  Rogerius 
de  tribus  Bysatiis  »  ,  etc.  Come  si  vede  anche  qui  nasce  dubbio  dall'  iuterpun- 
zione,  e  non  si  sa  se  il  conte  Ruggiero  di  Trebisacce  fosse,  secondo  Ansberto,  il 
fratello  di  Nicolò  arcivescovo  o  se  questo  fratello  fosse  un  conte  innominato  e  di- 
verso da  un  Ruggiero  di  Trebisacce. 

3  Anche  qui  sorge  una  difficoltà  per  la  diversa  interpunzione  nel  testo  di 
Ansberto.  Abbiamo,  infatti,  secondo  l'ediz.  Dobrowsky:  «  Comes  Avellinus,  Ro- 
gerius, Petrus  etc  »  ;  secondo  quelle  delle  Fontes  B.  A.:  «  Comes  Avellinus  Roge- 
rius, Petrus  etc.  ». 


Parte  li.  bt  un'importante  miniatura.  313 

alla  congiura  furono  tre  :  Nicolò  arcivescovo,  Riccardo  e  Giovanni,  e 
anche  la  cronaca  tedesca  di  Burcardo  e  Corrado  di  Ursberg  conferma 
in  generale  la  notizia,  senza  dare  i  nomi.  Dice  infatti  :  «  [Imperato!-]... 
vades  accepit  quosdam  nobiles  et  potentes  terrae  inter  quos  erant 
archie])iscopus  Salernitanus  et  duo  comites  germani  fratres  eiusdem, 
et  quidam  Margaritus,  qui  potens  fuerat  in  mari  pirata  »  '. 

Di  Riccardo  si  sa  che  alla  elevazione  di  Tancredi  fu  nominato 
conte  e  che  tenne  sovente  le  veci  del  padre  nell'ufficio  di  cancelliere, 
onde  parecchie  concessioni  di  quel  re  sono  date  :  «  per  manus  Ric- 
cardi filii  Mathei  regii  cancellarli  eo  quod  ipse  cancellarius  absens 
erat  2  ».  Xon  v'è  dubbio,  dunque  su  questo  secondo  tìglio  di  Matteo  di 
Aiello.  Dubbio  vi  è  invece  sull'esistenza  e  sul  nome  del  terzo.  Rocco 
Pirro  nella  sua  Cronologia  dei  re  di  Sicilia  3  scrive  che  Enrico  VI 
imperatore  mandò  prigioni  in  Germania  :  Nicolò  arcivescovo  col  fra- 
tello Riccardo  e  con  lo  zio  Ruggiero.  Xon  discuto  i  particolari  di 
questa  notizia  che  non  so  a  quale  fonte  fosse  attinta;  ma  il  Mungi- 
tore nella  introduzione  ai  documenti  della  Magione,  citando  bene,  ma 
interpretando  male  il  Pirro  e  l'Ughelli  4 ,  dà  Ruggiero  come  tiglio 
di  Matteo,  e  perciò  come  fratello  di  Nicolò  arcivescovo:  ciò  che  hanno 
ripetuto  parecchi.  Matteo  cancelliere  ebbe  certamente  un  fratello  di 
nome  Ruggiero  che  fu  giudice  di  Sorrento,  come  è  detto  nel  diploma 
di  fondazione    del    monastero  di  8.  Maria  de  Latini* ,  inteso  poi  del 


1  Mon.   Gemi,  hist.,  XXII,  pag.  364. 

2  Cf,  concessione  di  un  privilegio  ai  cittadini  di  Gaeta  ,  data  a  Messina  nel 
luglio  1191,  (nel  Codex  Caietanus  del  Tabularium  Casinense  ,  II,  pag.  311)  e  con- 
cessione alla  Chiesa  di  S.  Nicolò  di  Bari  ,  data  a  Brindisi  nel  1192,  (nel  Codice 
diplom.  Barese  I,  pag.  121).  Nel  1206  Federico  II  concedeva  al  conte  di  Tropea 
«  domos  Riccardi  coruitis  filii  quondam  Mathei  vicecancellarii  ,  quas  in  civitate 
Panornii  paterno  iure,  vel  alio  quolibet  titillo  dignoscitur  possedisse»;  ma  nel 
1216  Costanza  col  figlio  Enrico,  già  nominato  re  di  Sicilia,  concedeva  all'arcive- 
scovo Nicolò  di  Aiello  le  decime  «  platearum  et  plancarum  terre  Ebuli  »,  e  nel 
documento  si  legge:  «  Cum  tu  Nicolae  venerabilis  Salerni  archiepiscope,  dilecte 
fidelis  noster,  per  comitem  Ricardum  de  Avello  germanum  tuum,  tìdelem  nostrum, 
preces  nostre  celsitudini  porrexisses...  ».  Cf.  Winkelmann,  Acta  imperi  inedita, 
pagg.  £2  e  376.  Vuol  dire  o  che  gli  Aiello  furono  sempre  benvisti  a  Costanza  o 
che  riacquistarono  il  favore  di  casa  Hohenstaufen  dopo  la  loro   liberazione. 

3  Sicilia  Sacra,   pag.  XXIV,  ediz.   1733. 

4  Ughelli.  Italia  Sacra,  ediz.  Coleti,  voi.  VII,  pag.  414-415.  Vi  si  trova  quasi 
testualmente  riprodotto  il  passo  del  Pirro.  Questo,  o  fu  scritto  con  estrema  tra- 
scuranza  o  fu  guasto  nella  stampa,  onde  si  spiega  la  cattiva  interpretazione  del 
Mongitore.  Così  come  è.  e  come  lo  trascrivo,  è  sommamente  oscuro  :  «  At  eos  omues 
[imperator]  cum  Nicolao  Archiepiscopo  Salernitano,  Riccardo  Avelli  cornile,  Rogerio 
fratre  Matthei  Cancellarli  iam  defuncti  fìliis in  Germaniae  solum  vertere  coegit». 


3Ì4  G.   B.    SIRAGÙSA.  fARTE   lì. 

Cancelliere  (marzo,  1171)  l;  ma  dalle  cronache  e  dai  documenti  che 
mi  fu  dato  di  percorrere  non  mi  è  riescito  di  costatare  l'esistenza  di 
questo  terzo  figliuolo  di  Matteo,  né,  come  panni,  la  potè  costatare  il 
Toeche,  il  quale,  forse  ravvicinando  il  nome  Giovanni  che  lesse  nella 
leggenda  alla  miniatura  di  Pietro  da  Eboli  (si  ricordi  che  questa  è 
una  delle  otto  tavole  pubblicate  dall'Engel  e  riprodotte  dal  Del  Ee) 
con  non  so  quale  altra  notizia,  là  dove  parla  delle  punizioni  e  delle 
ricompense  date  dall' imperatore  nel  1195,  scrive,  ma  erroneamente, 
che  al  posto  del  vescovo  di  Catania  ,  Giovanni  di  Aiello  ,  fu  nomi- 
nato un  partigiano  imperiale  a  nome  Ruggiero  2.  Ma  Giovanni  di 
Aiello  vescovo  di  Catania  era  stato  fratello  e  non  figlio  del  can- 
celliere Matteo  ,  ed  era  morto  in  Catania  nel  celebre  terremoto  del 
4  febbraio  1169  o  1170  3,  e  della  morte  di  lui  si  era  rallegrato  in  una 
lettera  a  Riccardo  eletto  di  Siracusa  il  celebre  Pietro  di  Blois  4. 
Ruggiero,  benedettino  catanese,  fu  assunto  al  vescovato  di  Catania 
nel  1195  ed  ebbe  concessioni  dall'  imperatore  Enrico  VI  che  nel  di- 
ploma «  Datimi  apud  Casalenovum  per  manus  Alberti  imperialis  aulae 
Protonotarii,  nono  Kal.  Maii,  anno  domini  1195,  ind.  XIII  »,  lo  chiama 
«  fidelis  noster  »;  ina  tra  il  1109  o  1170,  anno  della  morte  di  Giovanni 
Aiello,  al  1195  quando  fu  eletto  Ruggiero,  si  erano  succeduti  in  quel 
Adesco vato  :  Roberto  Abbate,  dal  1171  al  1184,  e  Leone  di  Ravenna, 
dal  1184  al  1195  5. 

A  conchiudere,  dunque,  nulla  si  può  dire  di  questo  terzo  figlio 
del  cancelliere  Matteo,  la  cui  esistenza  ci  viene  palesata  soltanto  dalla 
leggenda  del  Codice  Bernese.  Ciò  non  vuol  dire,  però,  che  la  notizia 
sia  da  respingere  come  certamente  falsa.  La  nostra  ignoranza,  derivata 
dal  silenzio  delle  fonti  note,  non  può  escludere  il  dubbio  che  Giovanni 
Aiello,  figlio  di  Matteo  cancelliere,  sia  esistito  e  che  sia  stato  creduto 
con  gli  altri  partecipe  alla  congiura. 


1  Cf.  il  diploma  in  Garufi;  /  documenti  inediti  dell'  epoca  Normanna  in  Sicilia, 
pag.  133. 

2  «  An  Stelle  des  gefangenen  Bisokofs  von  Catanea ,  Iohanues  von  Aiello, 
wurde  ein  kaiserlich    gesinnter,  Roger,  erwiihlt  ».  Kaiser  Heinrich    VI,  pag.   352. 

3  Cf.  Falcando,  Ediz.  dell'Istituto  Storico  Italiano,  Ristoria  pag.  164  ed  Epi- 
stola pag.  175. 

4  Petri  Blesensis.  epistola  46a  ed.  Migne,   Patrol.  lat.  CCVII. 

5  Cf.  i  documenti  e  le  notizie  in  Pirro  Sicilia  Sacra  I,  pagg.  529-532.  Il  Toeche 
occupandosi  poi  delle  fonti  per  la  storia  della  congiura  nell'appendice  nona,  a 
pag.  574,  pare  abbia  dimenticato  ciò  che  aveva  scritto:  Riportandosi  infatti  alla 

miniatura,  scrive  :    «  Der  Codex  nennt    ausserdem Iohann,  den  Bruder  des 

Erzbisebofs  von  Salerno,  (wer  das  ist,  ist  mir  uubekaunt)  », 


parte  it.  r>i  un'importante  Miniatura.  315 


Il  quarto  nome  di  questa  seconda  colonna  è  quello  di  un  «  Eu- 
genius  »  senz'altra  indicazione  di  titolo  o  di  dignità,  e  Ansberto  più 
volte  citato,  porta  anch' egli  come  ultimo  del  suo  elenco  un  «  Eugenius  » 
e  anch'egli  senz'altra  indicazione.  Ciò  dimostra  che  veramente  un  Eu- 
genio fu  nel  numero  dei  colpiti  dalla  collera  imperiale.  Ma  chi  era 
costui  ?  Né  le  cronache,  ne  i  documenti  editi  mi  aiutano  a  rispondere; 
però  un  filo  di  luce  mi  viene  da  un  documento  inedito  che  io  lessi 
nella  badia  di  Cava,  che  è  del  settembre  1174,  e  nel  quale  è  nomi- 
nato un  «  Eugenius  magister  duane  baronum  qui  a  regia  celsitudine 
[Wilielmi  II]  ad  partes  istas  [Salerni]  delegatus  est  prò  exigendis 
rationibus  a  baiulis  partis  istarum  »  l.  Il  tempo  ,  il  luogo  e  l'ufficio, 
non  che  la  certezza  che  doveva  essere  persona  ben  vista  a  Casa  Nor- 
manna, come  si  ricava  dalle  parole  riportate,  rendono  probabile  che  si 
tratti  di  lui.  Non  vi  è  dubbio  invece  sulla  identificazione  del  quinto 
nome  :  «  Come  W[illelmus]  de  Marsico  »  mentovato  in  molti  documenti 
e  che  fu  figlio  del  noto  Conte  Silvestro  morto  prima  del  117.")  2. 

Restano  il  settimo  e  l'ottavo  nome  della  seconda  colonna  dei 
quali  l'ultimo,  quello  di  «  Alexius  servus  Tancredi  »  attesta  l'esistenza 
di  questo  servo  umile,  ma  fedele  e  tuttavia  tanto  noto  da  assurgere 
all'importanza  di  cospiratore  politico  ,  ma  non  è  facile  trovare  una 
cronaca  o  un  documento  che  ne  faccia  menzione.  11  penultimo,  «  Comes 
Rogerius  Avilini  »,  è  quello  di  un  personaggio  dei  più  potenti  e  noto 
abbastanza.  Lo  nomina  anche  Ansberto,  ma  più  correttamente  della 
leggenda  del  Codice  di  Berna,  lo  chiama  «  Comes  Avellinus  ».  Non 
panni  dubbio  che  sia  quel  «  Comes  Rogerius  de  Aquila  »  nominato  nel 
Catalogus  Baronum  e  che  era  anche  Conte  di  Avellino  3. 


A  riassumere,  dunque,  la  miniatura  del  Codice  Bernese  e  la  leg- 
genda che  la  spiega,  conferma  la  partecipazione  alla  vera  o  supposta 
congiura  della  regina  Sibilla  ,  di  Margarite  da  Brindisi,  di  Nicolò  e 
di  Riccardo  di  Aiello,  di  Eugenio,  assai  probabilmente  maestro  della 
dogana  dei  baroni,  e  del  Conte  d'Avellino.  Ci  rivela  la  partecipazione 
probabile  di    Ruggiero  di  Tarsia  (se  il   nome    Tharthis  si  può    inter- 


1  Arca  87,  X.  33. 

2  Cf.  doc.   in  Garun,   Tubiti,  di  S.   Maria  la  Xuora  di   Monreale,  pag.  9. 

3  Caialogus  Baronum  etc.   in  Del  Re  I,  pag.  582. 


Si  è  G.  tì.   SlfcAGTJSA.  PARTE  It. 

pretare  Tarsia)  di  un  Ruggiero  che  non  pare  difficile  sia  Ruggiero  di 
31  oli  se,  del  Conte  Guglielmo  di  Marsico  e  finalmente  ci  rivela  il  nome 
di  un  servo  di  Tancredi  e  ci  costringe  a  ricercare  se  il  conte  Riccardo 
d'Acerra,  o  altri  dello  stesso  nome,  fu  creduto  colpevole  della  con- 
giura e  se  esistette  e  se  ebbe  nome  Giovanni  quel  terzo  tiglio  del 
cancelliere  Matteo  che  vi  troviamo  nominato. 

Comunque,  è  una  testimonianza  che,  venendoci  da  un  contempo- 
raneo partigiano  imperiale,  ha  un  grande  valore  storico,  malgrado  le 
incertezze,  e  vorrei  dire  le  perplessità  che  genera.  Se  venisse  in  mente 
a  qualche  studioso  di  fermarsi  su  questo  punto  per  ricostruire  la  storia 
della  congiura ,  come  fu  veramente  ordita  o  come  fu  inventata  per 
trovare  il  pretesto  di  sbarazzarsi  dei  fautori  del  partito  nazionale  si- 
ciliano, che  aveva  combattuto  nel  nome  di  Tancredi,  questi  non  potrà 
non  meditare  questa  miniatura  e  non  sarebbe  da  biasimare  se  ne  fa- 
cesse il  punto  di  partenza  delle  sue  indagini  l. 

E  dopo  ciò  giudichi  ognuno  se  fu  avventato  giudizio  il  mio 
allorché,  parlando  delle  miniature  del  Codice  Bernese,  dissi  che,  se  si 
considera  il  Carme  di  Pietro  da  Eboli  come  fonte  storica,  le  miniature 
sono  più  importanti  del  poema ,  poiché  danno  notizie  più  precise  e 
meglio  determinate. 


1  Se  la  congiura  fn  veni  o  inventata  non  possiamo  dire  con  assoluta  cer- 
tezza. Si  vegga  a  tal  proposito  la  digressione  di  M.  Amari  al  cap.  VI  del  libro  VI 
della  Storia  dei  Musulmani  di  Sicilia,  voi.  Ili,  pag.  555  sg. 

Palermo. 

Gian-Battista  Siragusa. 


ANNOTAZIONI  NUMISMATICHE  ITALIANE 

XII. 

Monete  battute  in  campo  dai   Fiorentini  e  dai  Pisani. 


Un  giovane  studioso  di  numismatica,  il  signor  Augusto  Franco, 
ha  esordito  in  questi  ultimi  ama  con  alcune  pubblicazioni,  che  dimo- 
strano in  lui  una  buona  attitudine  a  questi  studi  e  fanno  sperare 
molto  del  suo  avvenire.  In  una  di  queste  *,  egli  ha  riunito  tutti  quei 
brani  dei  cronisti  Fiorentini,  relativi  ad  alcune  coniazioni  eccezionali, 
lamentando  che  la  numismatica  Toscana  sia  stata  in  questi  ultimi 
tempi  molto  trasturata. 

Convengo  anch'io,  che  si  avrebbe  dovuto  tener  conto  negli  elen- 
chi delle  Zecche  Italiane  ,  dei  luoghi  dove  quelle  coniazioni  avven- 
nero; e  panni  che  la  mancanza  delle  monete  relative  nelle  collezioni, 
sia  stata  la  causa  principale  di  tale  omissione.  Infatti,  sino  ad  ora 
non  se  ne  conosceva  che  una  sola,  cioè  il  grosso  detto  della  volpe, 
battuto  dal  Capitano  Farnese  a  Giglione  e  Spedaluzzo  nel  1303  ;  e 
questa,  seguendo  l'esempio  dell'Orsini 2,  si  considerava  da  tutti  come 
spettante  alla  serie  comune  senza  tener  conto  delle  circostanze  spe- 
ciali nelle  quali  venne  coniata. 

Oggi,  le  condizioni  sono  mutate,  perchè  altre  due  di  queste  mo- 
nete d'occasione  esistono  nella  collezione  di  S.  Maestà;  le  quali  mo- 
nete mi  accingo  a  pubblicare. 

1.  S.  Jacopo  in  Val  di  Serchio. 

Giovanni  Villani ,  nelle  Croniche  Lib.  VI  ,  Cap.  04  ,  cosi  narra 
la  coniazione  ivi  avvenuta. 

«  Negli  anni  di  Cristo  1250,  essendo  ancora  di  Firenze  Podestà 


1  Appunti  di  Numi? malica  Toscana  —  Pubblicazione  per   nozze  —  Firenze  1903 
Tip.  Bonducciana. 

2  Monete  della  Repubblica  Fiorentina  —  Firenze  1740.   Cf.  al  primo  semestre 
del  1363. 


318  G.    RUGGERO.  PARTE   II. 

«  il  detto  Messer  Alamanno i  Fiorentini  vennero  ad  oste    sopra 

«  Pisa ,  insino  a  San  Jacopo  in  Val  di  Serchio  ;  e  quivi  tagliarono 
«  mio  grande  pino;  e  in  un  sul  ceppo  del  detto  pino  batterono  grande 
«  quantità  di  Fiorini.  E  per  ricordanza  quelli  clic  quivi  furono  co- 
«  niati  hebbono  per  contrassegna  tra'  piedi  del  S.  Giovanni ,  quasi 
«  com'uno  trafoglio  a  guisa  di  un  piccolo  alboro.  E  dei  nostri  dì  ve- 
«  demmo  noi  assai  di  que'  Fiorini.»  (Ediz.  del  Giunti,  Firenze  1587). 
La  stessa  notizia  è  ripetuta  dal  Malispini. 


Fig.  50. 
lì.  —  S.  IOHA  —  NNES.  B.  Santo  nimbato  con  lunga  croce  nella  sinistra;  a  destra  nel 

campo  e  vicino  al  piede  del  Santo  un  trifoglio. 
B,  —  -*■  FLOR  —  ENTIA  Giglio. 

Oro  —  Peso  gr.  3,47  —  C>ns.  buonissima. 

Questo  fiorino  entrato  da  poco  nella  Collezione  Reale,  corrisponde 
perfettamente  alla  descrizione  del  Villani  ;  ne  può  far  parte  della 
serie  comune  Fiorentina,  perchè  mancante  del  segno  dello  Zecchiere, 
che  dovrebbe  stare  in  alto  a  sinistra  tra  la  E  e  la  testa  del  Santo. 
Vi  si  trova  invece  il  trifoglio  a  guisa  di  alberetto,  distintivo  di  quei 
fiorini  battuti  sul  ceppo  del  pino  a  S.  Jacopo.  A  chi  volesse  far  que- 
stione del  trifoglio,  che  sta  a  destra  e  non  in  mezzo  a'  piedi,  sarebbe 
facile  rispondere:  quel  tra/ piedi  doversi  intendere  per  vicino  a' piedi, 
allo  stesso  modo  che  nel  parlare  comune  si  dice  ad  esempio  :  «  mi 
trovo  sempre  quest'animale  tra'  piedi  ». 

D'  altronde  ,  oltre  alla  sconvenienza  artistica,  si  avrebbe  anche 
lo  spazio  troppo  ristretto  per  un  alberetto  in  mezzo  ai  piedi  del 
Santo. 

Non  sarà  oziosa,  per  ultimo,  l'osservazione,  che  tutti  i  caratteri 
di  questa  moneta,  corrispondono  all'epoca  di  cui  si  tratta  in  confronto 
a  quelli  della  serie  dei  fiorini. 

2.  Rifredi. 

«  Nel  detto  anno  (1303)  adì  25  di  Luglio,  i  Pisani si  parti  - 

«  rono  di  Pisa,  e  andarono  a  Lucca senza  prendere  arresto  se  ne 

«  vennono   a   Campi,  e  a  Peretola,  e  quivi  fermarono  il  campo,  poi 


PARTE   II.  ANNOTAZIONI   NUMISMATICHE    ITALIANE.  319 

«  colle  schiere  ordinate  vennono  sino  al  ponte  a  Rifredi,  e  sentendo 
«  sonare  le  campane  del  comune  a  storino,  gì'  Inghilesi  che  secondo 
«  1'  uso  di  loro  paese  ,  pensarono,  che  1'  popolo  uscisse  a  battaglia, 
«  temettono  un  poco  e  rincularono.  Il  perchè  i  Pisani  feciono  correre 
«  il  palio  per  traverso  a  Rifredi  e  tra  le  schiere.  Più  feciono  batter 
«  moneta,  e  al  ponte  a  Rifredi  impiccarono  tre  asini,  e  per  derisione 
«  loro  puosono  al  colle  il  nome  di  tre  cittadini  a  ciascuno   il  suo.  » 

Così,  Filippo  Villani,  Cap.  LXIII  (Edizione  Giunti  Firenze  1581), 
il  quale  per  altro  non  dice  qual  segno  avessero  quelle  monete.  Ma 
questo  lo  troveremo  nel  Tronci,  Annali  Pisani,  ad  anno,  (Ed.  Livor- 
no 1682)  : 

«  inoltre  batterno  monete  d'oro  e  d'argento  con  l'impronta  della 
«  Vergine  col  figlio  in  braccio  da  una  parte,  e  dall'  altra  un  aquila 
«  Insegna  dell'  Imperio,  sottovi  un  leone  aggranfiato  ,  et  impiccorno 
«  per  maggior  scherno  degli  inimici  tre  asini  etc » 

Era  dunque  il  solito  tipo  della  loro  moneta  di  quel  tempo,  colla 
variante  del  leone  in  luogo  del  capitello,  sul  quale  l'aquila  stava  ap- 
poggiata. 


Fig.  51. 
D.  —  FEDERICV  —  IMPATOIt  Aquila  coronata,  ad  ali  aperte,  rivolta  a  sinistra  —  un 

animale  sotto  agli  artigli. 
B.  —  PTEGE*  — <  VIRGOPIS     La  Vergine  seduta    in    trono  col  Bambino  —  nel  campo 
a  sin.  un  pugnale. 

Oro.  Peso  gr.  3,47  —  Cons.  mediocre. 

Questo  è  F  esemplare  della  moneta  in  oro  che  corrisponde  alla 
descrizione.  11  leone  non  è  molto  chiaramente  visibile  per  la  conser- 
vazione scadente  in  quel  punto,  e  fors'anche  per  colpa  dell'intaglia- 
tore; ma  la  forma  allungata  dell'oggetto  che  l'aquila  tiene  sotto  agli 
artigli,  è  certo  di  un  animale,  e  questo  può  passare  per  un  leone. 

L' importante  si  è  ,  che  manca  il  solito  capitello  caratteristico 
delle  monete  Pisane.  E  poiché  non  si  ha  altra  memoria  dai  cronisti, 
di  coniazioni  eccezionali  all'infuori  di  quella  nel  13G3,  questa  è  Tu- 
nica moneta  che  possa  acconciarsi  alle  indicazioni  del  Tronci.  Anche 
per  questa,  l'insieme  dei  caratteri  concorda   bene  con   l'epoca. 

Ancora  un  avvertimento  è  necessario  circa  la  presente  moneta. 


320  Q.    RUGGERO.  PARTE   II, 

Un  dubbio  potrebbe  insorgere  in  qualcuno  dei  lettori,  cioè  quello  di 
un  ritocco  colla  sostituzione  dell'animale  al  capitello.  E  questo  dub- 
bio sarebbe  legittimo,  trattandosi  di  una  zecca  nella  quale,  come  dirò 
in  seguito,  tale  fatto  non  sarebbe  unico.  Ma  nel  caso  presente,  que- 
sta supposizione  è  assolutamente  da  scartarsi  per  i  motivi  seguenti: 
lo  spessore  uniforme  dell'orlo,  anche  nella  parte,  dirò  così,  incrimi- 
nata :  il  peso  non  diminuito  ,  tenuto  conto  della  conservazione  i  ma 
più  di  tutto  la  maggior  distanza  tenuta  nel  conio  tra  le  due  parti 
inferiori  della  leggenda,  quale  si  rendeva  necessaria  in  questo  caso, 
in  cui  al  solito  capitello  doveva  sostituirsi  un  oggetto  molto  più 
largo. 

Secondo  il  cronista  Pisano,  pare  die  a  Eifredi  siasi  coniato  an- 
che l' argento.  Speriamo  che  si  possa  avere  al  più  presto  notizia  di 
qualche  esemplare;  ed  a  questo  line  vorrei  che  si  osservassero  bene 
tutte  le  monete  Pisane  delle  collezioni  pubbliche  e  private,  non  es- 
sendo improbabile  che  non  siasi  finora  prestata  la  dovuta  attenzione 
all'oggetto  che  sta  sotto  all'aquila. 

Ai  nostri  tempi  ,  queste  battiture  effìmere  in  campo  senza  un 
bisogno  reale,  fanno  la  stessa  impressione  come  tanti  altri  mezzi  al- 
lora usati  per  far  onta  al  nemico;  ma  riportandoci  alle  idee  di  quei 
tempi,  si  comprende  tutta  l'importanza  dell'atto.  La  monetazione  era 
ritenuta  per  la  più  alta  prerogativa  della  sovranità,  ed  è  perciò  che 
la  battitura  di  monete  su  terra  nemica,  equivaleva  al  miglior  modo 
per  dimostrarne  la  presa  di  possesso. 

XIII. 
Quanto  vi  sia  di  vero,  nelle  monete  del  Podestà  Bonaccorso  da  Palude. 

Il  precedente  al  quale  accennai  nella  passata  Annotazione,  di 
monete  Pisane  alterate  da'  falsari,  è  quello  dei  due  grossi  autentici 
ai  quali  venne  rifatta  una  leggenda  con  parte  della  rappresentazione, 
per  mettervi  il  nome  e  1'  arme  del  Podestà  da  Palude.  Il  Viani  fu 
vittima  di  quell'  inganno  ,  e  ne  prese  1'  argomento  per  due  memorie 
ben  conosciute  dai  numismatici  2  ,  malgrado  che  egli  fosse  rimasto 
giustamente  eolpito  dal  fatto  nuovo  ed  insolito. 


1  Di  nove  esemplari  della  serie  Pisana  nella  Coli.  Beale,  7  ben  cons.  vanno 
da  3,11  a  3,50;  due  soli,   perchè  mal  cons.  pesano  soli  gr.  3.36  e  3.37. 

2  Memoria  di  una  moneta  inedita  di  Pisa.  Ivi  1809.  —  Ristampata  in  Da 
Morrona  ,  Pisa  illustrata  etc.  Livorno  1812.  —  Ristampata  in  Rivista  Italiana  di 
Numismatica  A.  V.  —  e  Memoria  di  una  seconda  moneta  Pisana  in  da  Morrona, 
Op.  cit.,  e  nella  Riv.  come  sopra. 


TAltTE   II.  ANNOTAZIONI   NUMISMATICHE    ITALIANE.  321 

Confesso  ,  elio  non  ho  mai  potuto  prestarvi  tede  ,  ina  per  altro 
non  mi  trovavo  in  cattiva  compagnia,  poiché  fin  dal  1870  il  Kunz  1, 
così  si  esprimeva  :  «  le  due  monete  col  nome  del  podestà  Bonaccorso 
«  da  Palude  ,  accolte  anche  in  due  segnalate  nuove  pubblicazioni  '', 
«  credo  doversi  escludere  dalla  serie  Pisana  ,  perchè  verosimilmente 
«  apocrife.  L'occhio  del  Viani  pare  non  sia  stato  abbastanza  efficace 
«  in  quella  circostanza  ». 

Circa  due  anni  addietro,  potei  averi;  in  mano  il  famoso  esem- 
plare illustrato  dal  Viani  nella  sua  prima  memoria,  che  si  conservava 
religiosamente  in  un  astuccio  di  ([indi'  epoca  ,  insieme  con  un  foglio 
che  era  l'edizione  originale  dello  scritto  relativo.  Appena  aperto  quel- 
l'astuccio e  presa  la  moneta,  l'opera  del  falsario  mi  apparve  in  tutta 
la  sua  evidenza. 

Era,  come  infatti  appare  dal  disegno  dell'A.  mio  di  quei  grossi 
anteriori  ad  Enrico  VII,  ma  che  tuttavia  non  possono  rimontare  fino 
all'epoca  del  da  Palude  (1242-44),  i  quali  quando  son  ben  conservati 
pesano  gr.  1,05,  cioè  grani  fiorentini  40  scarsi.  Ma  l'operazione  su- 
bita per  opera  del  falsario,  avea  tolto  al  peso  originale  gr.  0,75,  ri- 
ducendolo a  gr.  1,20,  cioè  grani  fiorentini  24  '/2;  che  è  per  l'appunto 
quello  dichiarato  dal  Viani ,  senza  che  egli  avesse  posto  mente  alla 
grave  differenza.  Né  si  avvide  dell'  assottigliamento  dell'orlo,  uè  del 
ritocco  all'aquila  per  smorzarne  l'eccessivo  rilievo  che  risultava  dal- 
l'operazione. E  neanche  potè  metterlo  sull'avviso  la  differenza  fra  le 
lettere  nuove  e  quelle  del  rovescio,  autentiche  ed  intatte,  né  quella 
visibilissima  fra  1'  aspetto  generale  del  dritto,  e  quello  del   rovescio. 

Il  secondo  di  tali  prodotti  del  falsario  di  allora,  sta  nel  Museo 
di  Pisa  ;  e  sebbene  io  non  abbia  potuto  vederlo  che  dietro  il  vetro 
(hd  mobile  ,  tuttavia  non  mi  lasciò  dubbio  alcuno  circa  al  grado  di 
parentela  che  lo  lega  al   primo. 

Per  esser  giusti  ,  dovremo  riconoscere  che  non  tutta  la  colpa 
spetti  all' A.  ma  in  gran  parte  al  vizio  dei  suoi  tempi.  Si  era  ancora 
sotto  la  tradizione  del  secolo  precedente  «piando  il  valori;  dello  scrit- 
tore doveva  dimostrarsi  in  quelle  interminabili  dissertazioni  accade- 
miche, dense  di  rettorica  ma  povere  di  vera  critica  numismatica.  Lo 
studio  analitico  ed  esatto  dei  caratteri  delle  monete,  che  è  la  guida 
più  sicura  per  la  classificazione  cronologica,  era   trascurato  affatto.  E 


1  Museo  Bottacin,   in   Periodico  delio  Strozzi,   Firenze  A.   III.   pag.   25. 

2  Ritengo  che  1'  A.  abbia  voluto    alludere  al  V.   Prorais.    Tavole    sinottiche  , 
Torino   1860  —  ed  al  Tonini,  Topografia  generala  delle  Zecclie  It.  Firenze  1869. 

21 


322  G.    RUGGERO.  PARTK    II. 

per  questo ,  il  nostro  A.  che  pure  era  già  passato  innanzi  di  molto 
ai  suoi  predecessori ,  non  ha  potuto  avvertire  come  a'  tempi  del  da 
Palude  non  potessero  ancora  esser  coniati  i  nuovi  grossi  con  i  sim- 
boli monetari.  In  quell'epoca,  anche  ammettendo  che  i  grossi  primi- 
tivi colla  F  da  un  un  lato  ed  il  nome  della  città  nel  centro  dell'al- 
tro avessero  cessato,  ciò  che  non  è  ben  certo,  al  più  dovevano  aver 
corso  i  grossi  di  secondo  tipo,  cioè  quelli  colla  F  e  la  Madonna. 

Intanto,  come  si  è  veduto,  la  favola  delle  monete  di  Bonaccorso 
da  Palude  ha  potuto  in  grazia  dell'autorità  del  Viani,  durare  per  96 
anni ,  non  solo  tra  il  volgo ,  ma  tra  i  numismatici  grandi  e  piccini. 
È  tempo  oramai  che  venga  fatta  giustizia  nel  nome  più  autorevole, 
quello  della  scienza. 

XIV. 
Della  Zecca  Aretina  sotto  il  reggimento  dei   Fiorentini. 

La  città  d'Arezzo  era  in  mano  de'  Vescovi;  e  fu  ad  uno  di  questi, 
che  Enrico  III  avrebbe  concesso  fin  dal  1052  il  privilegio  ,  cudendi 
moneta»  in  ipsa  Aretina  civitate  \  E  fu  un  Vescovo,  Guglielmo  liber- 
tini, quegli  che  nel  1289  guidò  gli  Aretini  a  Campaldino,  lasciandovi 
la  vita  con  quasi  tutti  i  suoi.  E  finalmente,  al  governo  di  un  Vesco- 
vo, Guido  Tarlato  di  Pietramala  ,  la  città  dovette  il  periodo  di  sua 
maggior  grandezza  e  prosperità  nel  primo  quarto  del  XIV  secolo.  Ma 
il  fratello  di  lui,  Pietro  detto  Saccone,  vendette  la  città  ai  Fioren- 
tini nel  1337.  Riacquistata  la  libertà  dopo  0  anni,  gli  Aretini  poco 
ne  poterono  godere  per  le  civili  discordie,  fino  a  che  nel  1385  le  mi- 
lizie di  Ludovico  d'Angiò  presa  la  città,  la  vendettero  a  Firenze  per 
42000  ducati. 

Nel  1502  Arezzo  si  ribellò  ai  nuovi  padroni  ;  ma  quel  barlume 
di  libertà  non  durò  che  pochi  mesi ,  durante  i  quali  sarebbe  stata 
riaperta  la  zecca  2  coniandovi  moneta  al  tipo  tradizionale. 

Nel  1530,  nuova  e  breve  autonomia  durante  l'assedio  di  Firenze  ; 
ed  il  Fabroni  (op.  cit.)  ci  dà  notizia  di  un  ordine  per  battere  mo- 
neta col  busto  di  S.  Donato  da  una  parte  e  1'  aquila  imperiale  dal- 
l'altra. 

Stando  a  questo  A.  esisterebbe   un   documento   che   proverebbe 


1  Fabroni  —  Delle  monete  di  Arezzo,  in  Atti  (iella  I,   R.   Accademia  Aretina, 
1843,  p.  62. 

2  Fabroni  —  op.   cit. 


TARTE   II.  ANNOTAZIONI   NUMISMATICHE   ITALIANE.  323 

l'esistenza  di  una  zecca  in  Arezzo  fino  dal  1158.  Ma  le  monete  che 
si  conoscono  non  risalgono  tanto  addietro.  I  grossi,  specie  quelli  senza 
il  nimbo  attorno  alla  testa  del  Santo  die  sembrano  i  più  antichi,  sono 
certamente  della  seconda  metà  del  XIII  sec.  i.  E  di  anteriori  a  que- 
sti non  si  conoscono  che  i  danari  di  Ugo  I  Marchese  di  Toscana  del 
«MÌO  circa  2. 

È  straìio  che  mentre  le  monete  aretine  dovrebbero  essere  vesco- 
vili ,  siano  invece  comunali.  Alcune  di  esse  sono  bensì  segnate  da 
alcune  piccole  nutrie  nelle  leggende,  ragione  per  cui  il  Bellini,  il 
Promis  e  (piasi  tutti  i  numismatici  credettero  di  assegnarle  alla  Si- 
gnoria di  Guido  Tarlato;  ma  non  posso  dirmi  assolutamente  convinto 
di  questa  attribuzione.  Ed  invero,  il  posto  che  quelle  mitrie  occupano 
nelle  leggende  ,  mi  induce  a  crederle  piuttosto  contrasegni  dei  zec- 
chieri come  le  mezzedime,  le  rosette,  i  gigli  ed  altri  segni  usati  per 
interpunzione  nelle  monete  Aretine.  Se  avessero  dovuto  rappresen- 
tare la  Signoria  di  un  Vescovo,  certo  non  avrebbero  mancato  di  te- 
nere il  posto  più  nobile,  che  secondo  le  consuetudini  è  sempre  stato 
il  centro  ,  o  quanto  meno  1'  orlo  in  alto  in  principio  di  leggenda.  E 
perchè  non  avrebbe  quel  Vescovo  improntato  il  nome  come  fecero 
quei  di  Volterra  ?  Pur  tuttavia  non  intendo  d'insistere  affermandomi 
contrario  alla  opinione  generale  ,  se  tale  veramente  sarà  ;  tanto  più 
che  questi  grossi  inaugurano  in  questa  zecca  due  tipi  diversi  dal  pri- 
mitivo, cioè  il  grosso  Agontano  col  Santo  in  piedi,  ed  un  altro  gras- 
setto col   Santo  seduto. 

Delle  coniazioni  autonome  del  1502  e  del  15:50,  se  veramente 
effettuate,  non  abbiamo  traccia  nei  medaglieri;  così  clic  lino  ad  oggi 
prevaleva  l'opinione,  che  la  zecca  si  chiudesse  definitivamente  nel  L385. 

Ma  la  monetazione  Aretina  non  fu  sempre  autonoma  ,  avendosi 
monete  coniate  dai  Fiorentini;  cioè  un  grosso  del  XIV  S.  inedito,  ed 
un  quattrino  della  fine  del   XV  o  principio  del   XVI.  Quest'ultimo  è 


1  Non  credo  inutile  segnare  i  pesi  che  si  Inumo  negli  esemplari  ben  conser- 
vati. Su  circa  20  es.  ho  trovato  un  maximum  di  g.  1.85  in  quelli  a  f.  di  conio; 
gli   altri  non  scendono  mai   sotto  a   1.73. 

Quelli   col   nimbo  al   Santo,   danno   pesi  di   poco  interiori. 

Vengono  in  seguito  i  grossi  olla  croce  di  1  asce  tra  5  globetti  ,  nei  quali 
trovai  il  maximum  di  1.35.  l'Itimi  i  bolognini  coll'A  grande  nel  centro  da  1.04 
ad  1.07. 

Abbiamo  poi  le  moneto  colie  mitrie,  cioè  grossi  Agontani  di  circa  2.30  con  un 
maximum  di  2.13;  ed  i  grossi  col  Sauto  seduto,  di  1.65  a  1.67  quaudo  sou  di  per- 
fetta  conservazione. 

2  Promis,   in   Riv.  di  Asti   1861,  pag.   30. 


324  G.    RUGGERO. 


conosciuto,  e  lo  si  trova  nelle  collezioni,  ma  andò  sempre  confuso  da 
tutti  tra  le  autonome  anteriori  al  1385. 


Fig.  52. 
D.     4»  :  S.  DONATUS  :  Busto  mitrato  e  nimbato  di  fronte,  tenente  il  pastorale  nella  s. 

e  benedicante  colla  d.  —   cerchio  rigato. 
R,     ♦$*  :  DEARITIO  :  Giglio  Fiorentino  in  un  cerchio  rigato. 
Arg.  Peso  g.  1.28  cons.  buona. 
Collezione  di  S.  Maestà. 

Non  è  il  caso  di  spendere  molte  parole  per  dimostrare,  che  questo 
grosso  coi  suoi  caratteri  paleografici  ed  artistici  accusi  evidentemente 
F  epoca  di  origine  cioè  la  prima  metà  del  XIV  8.  ;  appartiene  dun- 
que al  periodo  della  Signoria  Fiorentina  in  Arezzo  dal  1337  al  1342. 

Un  secondo  periodo  di  monetazione  Fiorentina  ,  l'abbiamo  verso 
la  fine  del  XV  e  principio  del  XVI.  Probabilmente  l'Orsini  intende 
di  riferirsi  a  questa,  quando  riporta  l'ordine  del  1472... «  che  passato 
«  il  mese  di  dicembre  prossimo  avvenire  1472  non  si  possa  nella  citta, 
«  contado  e  distretto  di  Firenze  o  suo  Imperio  spendere,  ne  ricevere 
«  in  alcuno  pagaineuto  alcuno  quattrino  se  non  del  segno  ,  et  conio 
«  del  Comune  di  Firenze  ,  Pisane  et  Aretine  ,  et  battuto  nelle  dette 
«  zecche  di  Firenze,  Pisa  et  Arezzo,  sotto  pena  etc...» 

L'unico  che  ha  rilevato  questo  passo  ,  è  il  Gamurrini  *.  Si  po- 
trebbe osservare  bensì ,  che  allo  stesso  modo  che  qui  si  tratta  di 
quattrini  Pisani  che  non  potevano  esser  battuti  dai  Fiorentini,  così 
per  quei  di  Arezzo  si  trattasse  degli  antichi  che  avessero  ancora 
corso.  Ma,  come  già  dissi,  esiste  un  quattrino  moderno  che  va  con- 
fuso cogli  antichi  nelle  collezioni,  ed  è  quello  riportato  dal  Bellini  2 
sebbene  non  fedelmente  ,  e  riprodotto  dal  Kunz  ;!  allo  scopo  di  cor- 
reggere quel  primo  ,  senza  riuscirvi  totalmente.  Infatti,  il  primo  ha 
messo  una  chiave  in  luogo  del  pastorale  in  mano  al  Santo  ,  ma  ha 
veduto  bene  lo  scudo  della    croce  ,    pure   rifacendolo    più    grande  e 


1  In  Periodico  dello  Strozzi,  An.   I,  pag.  124 

2  De  monetis  Italùe  etc.  Voi.   I,  pag.   10  e  Tav.   II,  n.   6. 

3  In  Periodico  Strozzi,  A.   Ili,  pag.   32  e  Tav.   I[,   n.   8, 


PARTE   II.  ANNOTAZIONI   NUMISMATICHE   ITALIANE.  325 

tondo;  il  secondo  ha  messo  il  pastorale,  malia  cambiato  lo  scudo  in 
giglio. 

Tutti  e  due  lo  ritennero  come  appartenente  alla  serie  autonoma, 
cioè  anteriore  al  1385  ,  e  non  so  spiegarmi  questo  errore ,  special- 
mente per  quel  diligente  ed  acuto  osservatore  che  era  il  Kunz.  Egli 
avverte  bensì  la  novità  del  nome  scritto  alla  moderna,  ARRETIVM 
in  vece  di  ARITIVM  :  ma  non  considera  che  le  lettere  sono  moder- 
ne, quali  mai  si  usarono  prima  dell'ultimo  quarto  del  XV  sec,  cioè 
un  secolo  dopo  la  fine  della  monetazione  autonoma  Aretina.  E  questa 
prova  avrebbe  dovuto  bastargli,  anche  non  avendo  ravvisato  lo  scu- 
detto della  croce  che  scambiò  per  un  giglietto.  E  di  ciò  egli  non  ebbe 
colpa,  perchè  sull'esemplare  del  Museo  Bottacin,  come  seppi  da  quel 
dotto  Conservatore  al  quale  mi  ero  rivolto  per  ragguagli  in  propo- 
sito, quel  particolare  non  è  molto  chiaro  e  distinto. 

Ad  ogni  modo,  avendo  constatato  in  tutti  gli  esemplari  che  ho 
potuto  vedere,  come  in  quelli  numerosi  della  Reale  raccolta  ,  la  pre- 
senza della  crocetta  nello  scudo  che  è  l'arnia  del  popolo  Fiorentino, 
credo  utile  di  dare  il  disegno  della  moneta.  Questo  servirà  a  retti- 
ficare le  precedenti  pubblicazioni. 


Fig.  53. 
D.     S    DONATVS  Busto  del  Santo   mitrato  e  nimbato    di    fronte   con    pastorale   —  cei\ 

lineare. 
11.     Scudetto  colla  croce  ARKETIVM.  Croce  in  cer.  lin. 

Mistura  —  P.  g.  0,84  —  Cons.  buona  —  Coli,  di  S.   M. 

J)i  detto  quattrino  esistono  alcune  varianti  di  punti  e  di  parti- 
colari di  conio,  indizio  di  coniazioni  numerose  e  ripetute.  E  tutti  gli 
esemplari  presentano  sempre  quei  caratteri  costanti ,  dell'  epoca  po- 
steriore all'ultimo  quarto  del  XV  sec.  Tuttavia  non  panni  che  possa 
rimontare  all'anno  citato  dell'  Orsini  per  i  quattrini  Aretini  da  rite- 
nersi in  corso;  anzi,  se  dovessi  esprimere  un  parere  in  proposito,  lo 
riterrei  addirittura  del  principio  del  XVI.  E  se  con  ciò  la  prova  si 
restringe  al  XVI,  non  rimane  escluso,  anzi  è  probabilissimo  che  Fi- 
renze ne  abbia  coniati  in  Arezzo  fin  dalla  seconda  metà  del  XV.  Ed 
io  credo  ,  che  potendo  vedere  altri  esemplari  della  moneta  che  deb- 
bono abbondare  nelle  collezioni  ,  non  si  tarderebbe  a  trovarne  con 
caratteri  di  poco  differenti  e  più  antichi. 


326  G.    RUGGERO. 


Poiché  l'esperienza  insegna,  che  non  è  lecito  apporre  ad  alcuna 
serie  l'indicazione,  completa,  così  è  da  sperarsi  che  possano  venir  fuori 
altri  prodotti  di  questa  zecca,  durante  il  governo  dei  Fiorentini. 

XV. 
Di  un  denaro  Lucchese  dell'lmp.  Lotario,  col  noma  di  un  nuovo  Duca. 

Le  ricerche  intorno  alla  serie  di  questi  Duchi  e  Marchesi  furono 
sempre  irte  di  spine.  Basti  ricordare  l'incertezza  degli  storici  sul  nu- 
mero degli  IT  goni  :  chi  ne  voleva  uno  solo,  chi  ne  accettava  due.  Co- 
simo della  Rena  era  fra  questi  ultimi  l,  mentre  più.  tardi  il  Muratori 
non  ammetteva  che  il  solo  Ugo  il  grande,  (v.  Diss.  65).  General- 
mente gli  storici  dopo  di  lui  seguirono  la  sua  opinione;  ma  vennero 
le  monete  a  troncare  ogni  incertezza. 

Non  è  questo  un  fatto  insolito  ;  che  anzi  molti  se  ne  hanno  a 
dimostrare  la  grande  importanza  di  questi  documenti  parlanti ,  che 
portano  finalmente  quella  luce  attesa  invano  dai  documenti  d'  archi- 
vio. Eppure,  sono  molti  ancora  in  oggi,  e  non  vi  mancano  letterati, 
quelli  che  trattano  le  monete  alla  stessa  stregua  di  quei  tanti  altri 
oggetti  buoni  soltanto  a  soddisfare  le  brame  dei  raccoglitori.  Nò  si 
avvedono  del  torto  che  fanno  a  se  stessi. 

Il  San  Quintino,  colle  monete  alla  mano,  ha  dunque  potuto  de- 
cidere la  questione  in  modo  contrario  al  parere  Giuratori  a  no  \  Egli, 
potè  provare  che  i  danari  che  hanno  al  />.  il  monogramma  di  Ugo, 
con  +  MARCHIO  niella  legg.  ed  al  E.  +  C I VITATE  —  LUCA,  ap- 
partengono ad  Ugo  I ,  vassallo  prediletto  di  Berengario  II ,  e  Mar- 
chese di  Toscana,  nominato  in  un  documento  del  901. 

Mentre,  quei  denari  col  monog.  di  Ugo  ma  diversamente  foggiato, 
e  +  DVXTVSC1E  al  J).  e  +  DVX  IVDITA  —  LUCA  al  R.  ,  sono 
di  Ugo  II  il  Grande  tìglio  di  Uberto  il  salico,  e  della  moglie  Giuditta; 
ed  a  questo  Ugo  il  Grande  Duca  di  Toscana  e  Marchese  di  Lucca, 
si  riferiscono  documenti  del  970  e  del  1002  3. 


1  Della  serie  degli   antichi   Ducili  e  Marchesi   di  Toscana.  Firenze  1690. 

2  Memorie  e  documenti  per  servire  alla  storia  di  Lucca,  Tomo  XI,  Lucca  1860. 

3  Non  voglio  tacere  ,  che  non  mancarono  in  seguito  gli  oppositori  al  San 
Quintino,  i  quali  ritengono  i  due  tipi  diversi  di  moneta  appartenenti  al  secondo 
Ugo.  Tra  i  Numismatici,  et'  il  Tonini,  Topografìa  delle  Zecche  It.  Firenze  1869, 
a  pag.  7  ,  nota  in  margine.  Ma  la  differenza  nei  due  monogrammi  ,  quella  delle 
dignità  ed  il  nome  della  Duchessa  iu  uno  solo  dei  due  tipi  ,  mi  sembrano  prove 
più  che  sufficienti  per  la  differente  loro  attribuzione. 


Ì>AUTE   II.  ANNOTAZIONI   NUMISMATICHE   ITALIANE.  327 

Questi  (lanari  ,  rappresentati  da  buon  numero  di  esemplari  e 
varianti  di  conio,  non  mancano  oramai  in  alcuna  collezione. 

Nella  Raccolta  di  S.  Maestà  esiste  un  denaro  Lucchese  dell'Imp. 
Lotario,  col  nome  di  un  Duca  Manfredi  tino  ad  ora  sconosciuto. 


Fiji,  54. 
]>.     «J»  IMPEUATOR     Monogramma  di  Lotario  in  un  cerchio  di  perline. 
R.     -•}♦  MAINFRIDUX     Noi  campo  lo  1  lettore  LUCA  su  2  righe  tra  5    «lobetti  ,    senza 
cerchio. 

Arg.  Denaro  —   P.  g.  1.15  =  Cons.  buona. 

Nei  documenti  scritti  non  abbiamo  tino  ad  ora  alcuna  notizia 
relativa  a  questo  Duca.  Dirò  di  più  :  nella  serie  dei  Duchi  di  To- 
scana come  si  trova  ora  formata  ,  non  sembrerebbe  che  a'  tempi  di 
Lotario,  cioè  dall' 840  all' 855,  potesse  trovar  posto  un  nuovo  nome. 
Invero,  abbiamo  notizia  da  una  carta  dell'823  e  da  un'altra  dell'828, 
di  un  Bonifacio  II  Duca  di  Toscana  e  Conte  in  Lucca  ;  nell'  817  e 
nell'872  abbiamo  altri  documenti  clic  si  riferiscono  ad  un  Adalberto  I 
che  è  detto  tìglio  del  precedente  ,  Conte  e  poi  Marchese  in  Lucca. 
Ma  in  queste  condizioni,  in  cui  la  serie  Ducale  riposa  su  pochi  punti 
fissati  da  documenti  a  gran  distanza  l'uno  dall'altro,  non  si  può  as- 
serire che  essa  presenti  un  insieme  ben  chiaro  ,  sicuro  e  sopratutto 
che  non  possa  dar  luogo  a  possibili  lacune  e  varianti. 

Ad  ogni  modo,  abbiamo  la  moneta,  unica  bensì  fino  ad  ora,  ma 
genuina  in  tutti  i  suoi  caratteri  ,  e  perciò  da  non  potersi  rifiutare. 
Constatiamo  il  fatto,  ed  aspettiamo. 

Non  è  strano,  che  in  una  serie  in  cui  le  monete  servirono  già 
a  decidere  definitivamente  una  questione  importante,  un'altra  moneta 
venga   a  farci  conoscere  un  nuovo  nome. 

Ma  da  questa  ,  abbiamo  ancora  da  rilevare  un  altro  fatto  non 
privo  di  interesse;  quello  cioè  ,  che  quei  Duchi  del  IX  secolo  non  e 
rano  ancora  giunti  a  quel  punto  a  cui  pervennero  i  loro  successori 
del  X,  i  quali  usurparono  i  diritti  regali,  sopprimendo  qualunque  se- 
gno della  dipendenza  Imperiale  sulle  monete. 

lì  orna. 

Giuseppe  Ruggero. 


IL  TESTAMENTO  DI  MANFREDI  CHIARAMONTE. 


Fin  dal  1892,  proseguendo  nell'Archivio  di  Stato  di  Palermo  e 
nell'Archivio  generale  del  Comune  i  miei  studj  su'  Chiaramonte  di 
Sicilia,  di  cui  avevo  già  dato  un  saggio  per  le  stampe  l'anno  innanzi  *, 
ebbi  la  fortuna  di  trovare  in  un  fascicolo  di  Miscellanee  dei  Xotai 
defunti,  che  si  conserva  nell'Archivio  di  Stato,  un  formulario  di  atti 
con  taluni  contratti  trascritti  in  caratteri  del  sec.  XVI.  In  questo 
fascicolo,  segnato  col  mini.  243  e  compreso  nel  voi.  XIX  delle  sud- 
dette Miscellanee,  c'è  il  transunto  del  testamento  nuncupativo  dettato 
il  dì  8  settembre  dell'anno  XIV  Indiz.  1890  da  Manfredi  Chiaramonte, 
Conte  di  Modica,  Vicario  del  Regno  di  Sicilia  ,  a  notar  Faustino  di 
Saliceto,  da  Palermo,  dinanzi  a'  testimonj  dalla  legge  prescritti. 

Or,  volendo  anch'io  prendere  parte  alle  onoranze  che  i  professori 
della  Facoltà  di  Lettere  e  Filosofia  dell'Università  di  Palermo  e  i  dotti 
d'Italia  e  di  Europa  tributeranno  nel  prossimo  giugno  a  epici  geniale 
uomo  che  è  Antonino  Salinas,  pel  quarantesimo  anniversario  del  suo 
insegnamento  universitario,  mi  son  deciso  a  pubblicare  nel  volume  com- 
memorativo il  testamento  inedito  di  colui  che  fu  —  nel  turbinoso  pe- 
riodo che,  iniziatosi  con  la  lotta  fra  le  parti  latina  e  catalana,  si  chiuse 
con  la  venuta  de'  Martini  dal  regno  di  Aragona  in  Sicilia  e  col  tragico 
fato  di  Andrea  Chiaramonte  —  il  più  potente  dei  quattro  Vicarj  del 
Regno. 

Xon  occorre  qui  narrare  per  disteso  la  storia  della  famiglia  Chia- 
ramonte e  i  drammatici  avvenimenti,  che,  svoltisi  in  Sicilia  nella  se- 
conda metà  del  sec.  XIV,  porsero  ad  Isidoro  La  Lumia  argomento  per 
uno  dei  suoi  più  mirabili  racconti  :  I  Quattro  Vicarj.  Ricorderò  solo 
che  prima  di  questo  Manfredi  aveva  levato  grido  un  Giovanni  Chiara- 


1  G.  Pipitone-Fetìe7-ico  —  I  Chiaramonte  di  Sicilia.   Appunti  e  documenti.  Pa- 
lermo, G.  Pedoue-Laui-iel  edit.   1891. 


Parte  ii.  il  testamento  di  Manfredi  chiaramonte.  329 

monte,  strenuo  difensore,  nel  1325,  di  Palermo  da'  fieri  colpi  degli 
Angiomi,  non  rassegnatisi,  pur  dopo  il  trattato  di  Caltabellotta,  alla 
rinunzia  dell'isola,  e  rappresentante  di  Federigo  all'incoronazione  di 
Ludovico  il  Bavaro  in  Roma  ;  quindi  ribelle  al  re  e  fautore  ardente 
del  Bavaro;  graziato  in  seguito  da  Pietro  II,  e  prigioniero  nel  L339 
di  Roberto  d'Angiò.  Dopo  Giovanni  venne  in  fama  un  Manfredi  ,  (Iran 
Siniscalco  del  Regno  e  Capitano  Giustiziere  in  Palermo,  clic  a  tanta 
potenza  crebbe  da  far  coniare  dalla  Zecca  di  Messina  monete  con  gli 
stemmi  intrecciati  de'  Palizzi  e  de'  Chiaramonte.  Fu  costui  Vicario 
Generale  del  Regno  insieme  con  Matteo  Palizzi  e  Blasco  di  Alagona, 
e  signore  e  arbitro  di  Palermo.  Xell' amministrazione  del  Comune  un 
Pretore  e  un  forte  nucleo  di  giurati  alla  sua  dipendenza;  a'  cenni  di  lui 
squadre  di  assoldati  briganti  e  di  armati  vassalli,  scesi  giù  da'  suoi 
feudi;  per  propria  dimora  un  palazzo  magnifico,  che  parca  sorpassare 
le  proporzioni  ordinarie  del  fasto  privato;  due  fortezze  in  città,  ch'ei 
teneva  presidiate  e  munite  :  il  Castellammare  e  la  vuota  regia  de' 
passati  monarchi;  un'altra  fortezza  alla  sommità  del  Caputo:  il  Castel- 
laccio,  che  guardava  dall'alto  sulla  spaziosa  sottostante  pianura;  col 
dominio  di  fatto  sulla  capitale  dell'isola  una  clientela  infinita,  ad  ali- 
mentar la  quale  servivano  insieme  le  proprie  dovizie  e  i  denari  del 
pubblico,  a  sua  posta  amministrati  e  profusi. 

In  sul  cadere  del  1353,  morto  questo  Manfredi,  la  grandezza  della 
casa  riassumevasi  nel  cosiddetto  bastardo  Manfredi,  figlio  pure  di  Gio- 
vanni Chiaramonte  il  giovane.  Ereditava  costui,  col  titolo  di  Conte  di 
Modica,  la  dignità  di  Grande  Ammiraglio  del  Regno  e  diveniva  l'ar- 
bitro della  capitale.  Nel  L378  socio  ,  nel  Vicariato  del  Regno ,  con 
Aitale  Alagona,  balio  della  giovinetta  regina  Maria,  con  Francesco  Ven- 
timiglia,  conte  di  Ceraci,  e  Guglielmo  Peralta,  conte  di  Caltabellotta, 
ebbe  Manfredi  in  Palermo  e  nell'isola  autorità  grandissima;  combattè 
con  successo  i  Barbareschi  presso  le  Ceibe,  e  la  figliuola  Costanza  im- 
palmò al  giovine  Ladislao  re  di  Xapoli  —  ignaro  della  tristissima  sorte 
che,  per  queste  nozze,  preparavasi  alla  buona  fanciulla. 

Allorché — per  le  concluse  nozze  fra  Martino,  detti»  il  Giovane,  figlio 
del  duca  di  Monblanco,  {Martino  ii  Vecchio)  e  Maria  regina  di  Sicilia — il 
giovine  e  il  vecchio  Martino  si  apparecchiavano  a  venire  in  Sicilia.  Man- 
fredi volle  farsi  promotore  della  difesa  nazionale  contro  quella  che 
molti  ritenevano  invasione  straniera,  ma  in  mezzo  agli  apparecchi  belli- 
cosi ,  già  innanzi  negli  anni,  moriva,  lasciando  l'ufficio  di  Vicario,  e 
con  questo  l'arduo  compito  della  resistenza,  al  tiglio  Andrea,  che  la 
nobile  sua  condotta  di  fronte  all'  invasore  avrebbe  espiata  lasciando 
la  fiera  testa  sotto  la  mannaja,  sorta   nella   stessa  piazza  di   quel  ma- 


530  tì.    PIPlTONE-FEDEIUCO.  PARTE   it. 

gnifico  Steri,  che,  testimonio  già  della  sua  grandezza,  lo  sarebbe  pure 
stato  della  sua  fine  miseranda. 


Il  testamento  si  apre  col  solito  esordio,  nel  quale  notasi  l'anno 
del  regno  nominale  di  Maria ,  già  sposa  di  Martino  il  giovane ,  ma 
non  ancor  venuta  in  Sicilia  col  marito  ;  e  accenna  al  difetto  di  giu- 
dici ch'era  allora  in  Palermo,  defectu  judieum  nondum  electorum. 

Quindi  l'illustre  e  potente  Manfredi  Chiaramonte,  per  grazia  di 
Dio  Buca  delle  Gerbe,  Conte  di  Malta,  di  Chiaramonte  e  Modica,  Si- 
gnore di  Ragusa  e  di  Naro,  Ammiraglio  del  Eegno  di  Sicilia  e  Vicario 
Generale  del  Eegno  di  Sicilia,  dichiara  di  eleggere  la  primogenita  Eli- 
sabetta erede  sia  della  somma  promessa ,  come  dote,  al  marito  di  lei, 
il  magnifico  Nicolò  Peralta,  sia  della  contea  di  Modica  e  dell'isola  di 
Gozzo  con  tutti  i  diritti,  le  giurisdizioni,  le  acque,  i  corsi  d'acqua,  i  mu- 
lini, le  foreste,  i  censi,  e  con  tutti  gli  annessi  beni  feudali  e  hurgensaticj, 
oltre  la  clausola  della  decadenza  da  qualsiasi  diritto  ereditario  se  alla 
morte  del  padre  avesse  ella  accampato  delle  pretese  contrarie  alle  pa- 
terne disposizioni.  Dato  questo  caso,  non  le  sarebbero  spettate  che  sole 
once  mille  d'oro,  mentre  i  surriferiti  beni  immobili  si  sarebbero  de- 
voluti alla  magnifica  signora  Giovanna,  terzogenita  del  testatore. 

Nel  caso  in  cui  la  magnifica  Elisabetta,  all'epoca  di  sua  morte, 
avesse  due  figli  maschi ,  o  più,  le  vien  data  facoltà  di  lasciare  ad  uno 
di  essi  la  Contea  di  Malta  e  l'isola  di  Gozzo,  a  patto  ch'egli  si  fosse 
obbligato  a  portare  il  nome  e  le  armi  di  Chiaramonte. 

Che  se  il  figlio  scelto  da  Elisabetta  non  avesse  adempito  l'obligo 
impostogli ,  quei  beni  avrebbero  dovuto  passare  al  più  prossimo  (ad 
proximiorem)  dei  maschi  della  contessa,  o  al  figlio  dell'erede  da  lei 
scelto,  con  la  medesima  invariabile  condizione,  e  così  via,  di  figlio  in 
figlio,  con  le  clausole  menzionate.  Poscia  Manfredi  fa  obbligo  agli  eredi 
di  provvedere  alla  dote  conveniente  pel  matrimonio  delle  figlie  nubili 
«  nisi  aliunde  liabeant  unde  se  maritare  possente  etsi  non  liabeant  unde 
maritare  se  possent ,  ad  paragium ,  fiat  eis  supplimentum  usque  ad 
debitam  quantitatem  ».  Continua  il  testatore  disponendo  che  se  i  pre- 
detti ducati  e  le  predette  contee  fossero  pervenuti  ad  uno  dei  discen- 
denti da  Elisabetta;  e  dal  figlio  di  costui,  o  di  un  altro  discendente, 
fossero  nati  due  maschi,  avrebbe  dovuto  il  padre  dividere  fra  i  due 
figli  il  ducato  e  la  contea  di  Chiaramonte  e  Modica ,  salve  sempre 
le  solite  clausole  e  condizioni,  tranne  il  caso  che,  sopravvivendo  al  testa- 
tore figli  legittimi,  a  favore  di  costoro  si  fosse  disposto  de'  beni  e  de' 


PARTE    H.  II,   TESTAMENTO   DI   MANFREDI   CIIIARAMOXTE.  331 

titoli  suaccennati.  In  tal  caso,  però,  sopravvivendo  Elisabetta,  oltre  alla 
dote,  le  spetterebbero  once  cento  d'oro,  e  non  più. 

A  Costanza,  secondogenita  diletta  ,  regina  di  Ungheria,  Gerusa- 
lemme e  Sicilia,  lascia  Manfredi  la  dote,  che  all'  epoca  del  testamento 
era  stata  però  quasi  tutta  pagata  al  marito  re  Ladislao,  seu  persone 
prò  eadem  etc.  ,  oltre  a  cinquecento  fiorini  d'  oro  (avrà  forse  detto 
500,000  ?).  (Mie  se  costei  avesse  preteso  qualcosa  al  di  là  dalle  paterne 
disposizioni,  sarebbe  essa  pure  decaduta  da  qualsiasi  diritto  ereditario 
già  stabilito  nel  contratto  nuziale  e  avrebbe  dovuto  tenersi  paga  di 
riscuotere  soltanto  cinquemila  fiorini  (?) 

Alle  figlie  Giovanna,  Eleonora  e  Margherita  lascia  il  Cliiaramonte 
seimila  once  d'oro,  cioè  duemila  once  per  ciascuna,  parte  in  denaro 
parte  in  arnesi  e  gioielli,  ad  arbitrio  della  madre  duchessa  Eufemia, 
sua  consorte  diletta. 

Alla  prossima  nascitura  da  lui  e  dalla  predetta  duchessa  lascia 
1500  once  d'oro,  e  se  da  costei  fossero  nate  più  temine,  anche  1500 
once  d'oro  per  ciascuna  ,  parte  in  denaro  ,  parte  in  arnesi  e  gioielli 
come  sopra,  rispettate  sempre,  s'intende,  le  clausole  di  rito. 

Morendo  senza  maschi  il  testatore,  avrebbe  egli  lasciato  la  pri- 
mogenita magnifica  Elisabetta  erede  oltre  che  della  dote  promessa 
al  nobile  Niccolò  Peralta,  suo  marito,  della  Contea  di  Malta  e  dell'isola 
di  Cozzo.  E  se,  venuta  a  morte  la  magnifica  Elisabetta,  avesse  lasciato 
uno  o  più  tìgli  maschi,  i  beni  surriferiti  dovevano  passare  ad  uno  di  essi 
con  le  condizioni  sunnotate.  In  caso  d'inosservanza  di  tali  prescrizioni, 
i  beni  medesimi  si  sarebbero  dovuti  devolvere  «  ad  proxiniiorem  ma- 
HCìilum  diete   domine  comitisse   rei  dieti  clectì  per  eam  ». 

Alla  regina  Costanza  ,  oltre  la  dote  ,  lascia  Manfredi  il  ducato 
Gerbarum  et  Berbera  rum,  a  patto  che.  ricuperando  questo  ducato,  la 
giovine  regina  desse  cinquantamila  fiorini  alle  sorelle.  Di  tutti  gli  altri 
suoi  beni  instituiva  eredi  le  figlie  di  Giovanna,  Eleonora  e  Margherita, 
prelegando  alla  sua  terzogenita,  Giovanna,  il  castello  e  la  terra  di  Ca- 
stronovo  con  tutte  le  sue  pertinenze  e  con  le  clausole  ripetute;  ad  Eleo- 
nora, quartogenita,  il  castello  e  la  terra  di  Bivona;  a  Margherita,  quinto- 
genita, il  castello  e  il  casale  di  Carini,  nonché  il  fortilizio  e  il  feudo  di 
Comiso.  Premorendo  la  primogenita  Elisabetta,  si  sarebbe  dovuto  so- 
stituirle, nell'eredità  dei  beni  lasciatile  dal  padre,  la  sorella  secondo- 
genita Giovanna,  esclusa  affatto  Costanza:  premorendo  costei.  Gio- 
vanna, e  in  ultimo  Eleonora.  Ciò  con  le  formule  consuete  riguardanti 
il  diritto  di  ereditare  ne'  discendenti  tino  all'ultimo  di  essi,  nel  quale, 
mancando  altri  eredi,  si  sarebbero  concentrati  tutti  i  beni  de'  Chia- 
ramente. 


332  G.    PIPITONE-FEDERICO. 


Il  testamento  di  cui  ho  dato  un  brevissimo  sunto  non  e  origi- 
nale, che  gli  atti  di  notar  Faustino  di  Saliceto  non  esistono  nel  no- 
stro Archivio ,  ma  è  un  transunto  rinvenuto,  come  dissi,  per  mera 
fortuna  nel  voi.  XIX  delle  Miscellanee,  le  quali,  per  savio  consiglio  del- 
l'archivista eavalier  Giuseppe  Lodi,  approvato  dal  compianto  direttore 
bar.  Starabba,  si  vanno  riordinando,  nel  detto  Archivio,  a  cura  del  so- 
lerte dott.  Giuseppe  La  Mantia.  La  copia  da  cui  ho  trascritto  il  testa- 
mento di  Manfredi  Chiaramonte  è,  siccome  avvertii,  del  Cinquecento, 
e  le  cresce  valore  la  mancanza  dell'originale.  Trattasi  dunque  di  un 
importantissimo  documento,  il  quale  si  collega  a  quelli  già  da  ine  su' 
Chiaramonte  pubblicati  in  sullo  scorcio  del  1890,  ed  in  ispecie  al  primo 
di  essi,  in  cui,  ricordandosi  la  morte  recentissima  del  conte  di  Modica, 
si  afferma  com'egli  nel  suo  solenne  testamento  avesse  istituito  tutrice 
e  curatrice  delle  minorenni  Elisabetta,  Giovanna,  Eleonora,  Margherita, 
l'Università  di  Palermo. 

Di  questo  documento  ,  che  fu  pubblicato  in  un  volumetto  dive- 
nuto assai  raro,  panni  quindi  utile  ricordare  il  sommario. 

L'Università  di  Palermo,  nominata,  per  atto  in  notar  Fazino  di  Saliceto,  tu- 
trice delle  figlie  minori  del  fu  Manfredi  Chiaramonte,  insieme  con  la  loro  madre 
Eufemia  ,  attesa  1'  impossibilità  di  poter  amministrare  direttamente  i  beni  delle 
minorenni  suddette  ,  ne  affida  1'  incarico  a'  nobili  Federico  di  Federigo  e  notai- 
Andrea  di  Monaco,  cittadini  palermitani,  i  quali,  accettandolo,  in  presenza  del 
Pretore,  dei  Giudici  e  dei  Giurati  della  città,  giurano  su'  santi  Evangeli  di  am- 
ministrar bene  1'  asse  ereditario  procurandone  tutti  i  possibili  incrementi  e  di  re- 
digerne l'inventario.  L'Università  di  Palermo  ,  pertanto  ,  assegna  a  garenzia  dei 
contutori  i  proprj  beni. 

Ed  ora  ecco  il  testamento. 

TESTAMENTUM 

Trans umptum  Notarij  Faczini  de  Saliceto 

(Transunto  di  Notar  Faustino  de  Saliceto  XIV  Iudiz.  1390) 
Adsit  gratia  Saucti  Spiritus 


In  nomine  domini  amen.  Anno  dominice  incarnaciouis  eiusdem  Mille- 
simo trecentesimo  nonagesimo,  mense  septembris,  octavo  die  mensis  eiusdem, 
quarta  decime  Indicionis,  Regnante  Serenissima  domina  domina  regina  Maria 
dei  grada  Regni  Sicilie  Regina  ac  athenarum  et  neopatrie  ducissa  illustri, 
Regni  eius  anno  XIV  feliciter  amen.  Nos  Ubertinus  de  friderico  judex  felicis 
urbis  panormi  defectu  judicum  nondum    creator  um  in  dieta  urbe  anno  pie- 


PARTE   II.  IL    TESTAMENTO   DI   MANFREDI   CHIARAMONTE.  333 

senti,  fastiuus  de  saliceto  Eegius  publicus  civitatum  et  terrarum  et  locorura 
totius  Insole  Sicilie  notarius  et  testes  subscripti  ad  hoc  vocati  specialiter 
et  rodati,  presenti  scripto  puplico  notimi  faci  no  us  et  testa  mur  quod  II  lustri  8 
et  poteus  domiuus  manfridus  de  claramonte  dey  grafia  dux  gerbarum  etc. 
Comes  meliveti  claramontis  et  niohac,  ac  terrarum  ragusie  et  nari  dominus, 
regni  Sicilie  admiratus  et  Vicarius  una  cum  socijs  generalis,  sanus  per  dei 
graciam  niente,  licet  eger  corpore,  faciens  nos  infiascriptos  judicem  notarili m 
et  testes  ad  sui  presentiani  evocavi,  considerans  divinum  judieium  repentinum 
ac  ecciam,  quod  human  uni  est,  movi  nolens  intestatns  sed  testatus  decedere, 
de  omnibus  predictis  suis  ducatu,  comitatibus  ,  alijs  omnibus  terris,  locis  et 
castris  suis  alijsque  ecciam  bonis  omnibus  stabilibus  tam  pheudalibus  quam 
burgensaticis  et  mobilibus,  in  presenciam  nostrorum  omnium  predictorum  ad 
hoc  specialiter  vocatorum  et  rogatorum,  presens  suum  per  nuncupassiouem 
condidit  testamentnm.  Et  quia  caput  testamenti  dicitur  heredis  institucio,  idei  reo 
in  primis  dictus  domiuus  Illustvis  dux  testator  instituit  sibi  heredem  magni  - 
ficam  et  egregiam  dominam  Elisabectam  primogenitam  suam  in  dote  quam 
promisit  magnifico  corniti  Xicolao  de  pevalta  contemplacione  sponsaliornm  (sic) 
iuter  eos  coutvactorum  et  debitorum  pio  precio  inatrimouij  iuter  eos  foeli- 
citer  contvahendi  et  consumando  nec  non  in  comitatu  miliveti  et  insula  gau- 
disij  cum  omnibus  juribus,  jurisdicionibus,  aquis,  aquarum  decuvsibus,  molen- 
dinis,  foresti*,  censualibus  et  omnibus  alijs  proprietatibus  et  pertiueneijs  suis 
et  omnibus  alijs  bonis  tam  pheudalibus  quam  burgensaticis  in  dictis  comitatu 
et  Insula  gaudisij  existentibus,  prout  et  sicut  dictus  Illustvis  dominus  dux 
testator  dictum  comitatum  et  dictam  insulam  tenebit  et  possidebit  tempore 
mortis  sue  prò  et  de  quibus  voluit  et  inandavit  dictam  ruaguificam  fìliain  suam 
fore  et  esse,  ac  tenere  se  debere  tacitam  et  contentam  de  omni  et  toto  juve 
quod  habevet  et  habere  posset  tempore  movtis  dicti  Illustvis  domini  ducis  in 
et  super  bonis  tam  pheudalibus  quam  burgensaticis  pvedicti  Illustvis  domini 
ducis  tcstatovis  tam  jure  successiouis  paterne  (piani  jure  nature  secundum 
jura  comunia  vel  muuicipalia,  quam  quocumque  alio  jave,  racione,  occasione, 
vel  causa,  ita  quod  nullo  modo  possit  aliquid  aliud  petere  vel  habere  in  et 
super  bonis  omnibus  dicti  domini  ducis  tam  pheudalibus  quam  burgensaticis, 
et  in  casa  quod  dieta  magnifica  et  egregia  domina  comitissa  contrafecerit 
super  pvemissis  vel  aliquo  pvemissovum  etiam  conivoversiam  tantum  movendo, 
cadat  ab  hereditate  predicta  et  habeat  et  habere  debeat  jure  iustituccionis 
et  recoguiccionis  nature  quam  quocumque  alio  jure,  raccione  vel  causa, 
uncias  miri  mille  tantum.  Et  in  eo  casa  reliquid  (sic)  comitatum  pvedictuin 
meliveti  et  insulam  gaudisij  cum  alijs  predictis  bonis  relictis  ut  supva  niagni- 
fice  domine  Johanne  fìlie  sue  terciogenite;  pvetevea  voluit  quod  in  casu  quo 
dieta  domina  comitissa  Elisabecta  tempore  mortis  sue  habevet  duos  tìlios  ma- 
sculos  et  abinde  super  quod  teueatur  et  debeat  relinquere  predictos  comitatum 
meliveti  et  iusolam  gaudisij  uni  ex  filijs  suis  masculis  quem  elegerit  sub  condi- 
cione  quod  ille  electus  teueatur  et  debeat  cognominar]  de  Claramonte  et  de- 
ferre  arma  de  Claramonte,  et  in  casa  quo  ab  intestato  decesserit,  dicti  coini- 
tatus  et  Insula  gaudisij  perveuiant  et  pervenire  debeant   ad   secuudogenitum 


334  G.    PIPITONE-FEDERICO.  PARTE   II. 


quem  ex  nunc  prout  ex  tunc  substituit  et  in  predictis  bonis  pliendalibas 
diete  coraitisse  sub  condicionibus  predictis  qaod  nomiaetur  de  Claramonte  et 
deferat  arma  de  Claramonte.  Quod  si  secus  factum  fuerit  per  dictam  comi- 
tissam  vel  illum  ex  filijs  suis  ad  queni  pervenerint  dicti  comitatus  et  insola,  quod 
dicti  Comitatus  et  iusola  perveniaut  et  pervenire  debeant  ad  proximiorem 
masculum  diete  coinitisse  vel  dicti  electi  per  eam,  descendentem  tamen  a  dicto 
domino  duce  testatele  sub  condicione  predicta.  Et  si  ille  proximior  non  imple- 
verit  condicionem  predictam,  perveniaut  ad  proximiorem  recusantis  adimplere 
condicionem  predictam  de  descendeutibus  tamen  dicti  domini  ducis.  Et  si  plu- 
res  erunt  proximiores,primogenitus  preferatur;  quod  dictum  est  de  dieta  domina 
comitissa  Elisabet  intelligatur  de  quolibet  alio  ab  ea  descendeute  qui  cepit 
Imbere  duos  fllios  vel  plures.  Istud  capitulum  sopradictum  sequitur  ut  infra 
credo  quod  in  eo  difficiunt  plures  clausule  quia  concluditur  in  baros  (sic). 

Illustri  domino  duci  testatori  (?)  per  lineami  masculinam  noluit  admicti 
ad  successionem  suam  vel  suorum  masculorum  allo  unquam  tempore  vel  modo. 
Voluit  tamen  quod  quotiescumque  alius  ab  eo  desceudens  habuerit  dieta  bona 
ipsius  illustris  dominii  testatoris  in  totum  vel  in  partem,  et  ea  habeat  resti  - 
tuere  virtute  presentis  disposicionis,  alias,  ut  predicitur,  quod  dictus  fidecom- 
missarius  cui  restituenda  et  postea  restituta  fuerint  dieta  bona,  virtute  presen- 
tis disposicionis  teneatur  et  debeat  maritare  flliara  vel  Alias  feminas  illius 
defunti  iu  cuius  locum  suecessit  per  viam  substituccionis  ad  paragium,  consi- 
deratis  videlicet  condiccione  predictarum  et  numero  filiarum  ac  qualitate  et 
quantitate  honorum  ad  eum  perveutorum  virtute  substituccionis  paterne,  nisi 
aliuude  babeant  unde  maritare  se  possent  in  totum,  et  si  non  habeant  unde 
maritare  se  possent  ad  paragium,  fiat  eis  supplirnentutn  usque  ad  debitam 
quantitatem,   quod  totum  reliquit  ad  arbitrium  (sic)  boni  virj. 

Itera  voluit  et  mandavit  quod  predicti  ducatus  comitatus  miliveti  et  alij 
supradicti  comitatus,  salte m  comitatus  clavamontis  cum  dictis  ducato  et  comi- 
tatù  ad  unum  pervenerint,  aliquo  casu  quod  quandocumque  ex  dicto  tali 
uno  fuerint  nati  duo  filij  vel  a  fìiio  ipsius  masculo  vel  aliquo  alio  descen- 
dente ab  eodem  per  lineam  masculinam  fuerint  duo  filij  masculi,  prò  tali  quod 
ille  talis  qui  primo  incepit  babere  duos  fllios  teneatur  et  debeat  dividere 
dictos  ducatum  comitatum  claramontis  et  mobac  inter  primogenitura  et  se- 
cundogenitura  suum  sub  modiflcacionibus,  modo,  formis  et  clausulis  supradictis 
in  duobus  filijs  masculis  dicti  illustris  domini  testatoris  dictum  est.  Item  reliquit 
in  casu  predicto  quo  fllium  masculum  unum  vel  plures  baberet  dictus  Illustris 
domiuus  testator  jure  jnstituceionis  et  recogniceionis  nature  magmifice  et  egregie 
domine  elisabect  primogenite  dotera  quam  promisit  magnifico  corniti  Nicolao 
de  peralta  contemplaccione  sponsalium  inter  eos  contractorum  et  deo  pro- 
pizio matrirnonij  inter  eos  foeliciter  contrahendi  et  consumaudi,  nec  non  et 
uncias  auri  centuin  de  quibus  et  prò  quibus  voluit  et  mandavit  ipsam  fore 
et  esse  contentami  de  omui  jure  quod  liabet  et  babere  potest  tara  jure  na- 
ture secuudum  comunia  jura  vel  muuicipalia,  quanijure  successionis  paterne 
et  quocumque  alio  jure,  raccione  et  ocaxione  vel  causa,  ita  quod  nullo  modo, 
vice,  vel  jure  possit  aliquid  aliud  in  et  super  bonis  dicti  Illustris  domini  testa- 


PARTE   II.  IL   TESTAMENTO    DI    MANFREDI    CHIARAMOXTE.  335 

toris  petere  vel  habere,  et  in  caso  quo  coutrafecerit  in  preraissis  vel  aliqvio 
premissorum  cadat  ab  bereditate  predicta  et  habeat,  seu  liabere  debeat,  jure 
instituccionis  et  recogniccionis  nature,  uncias  auri  centuni  tantum.  Ite  ni  eodem 
jure  instituccionis  et  recogniccionis  nature  reliquit  illustri  et  spectabili  do- 
mine domine  costancie  dilecte  filie  sue  secundogenite,  Ungarie,  Jerusaleni  et 
Sicilie  regine,  dotem  prò  ea  promissam,  que  nunc  prò  maiori  parte  est  soluta 
et  traddita  serenissimo  principi  et  domiuo  domino  lanzalao  predictorum  regno- 
rum  regi  eius  viro ,  seu  persone  legitime  prò  eodem,  coutemplaccioue  spon- 
saliorum  incter  eos  contractorum;  et  cum  tempus  aderit  matrimouij  deo  propi- 
tio  inter  eos  contrabendi  et  feliciter  consumaudi,  nec  non  in  tìoreuis  auri 
quingentis  (?)  de  et  prò  quibus  voluit  et  mandavit  predictam  illustrem  et  incli- 
tam  dominam  costanciam  fore  et  esse  tacitam  et  contentali!  et  sic  se  tenere 
debere  de  omnibus  juribus  eidem  conipetentibus  et  competituris  tempore  mor- 
tis  dicti  illustris  domini  ducis  in  et  super  bonis  predicti  illustris  domini  ducis, 
parentis  et  genitoris  sui.  Ita  quod  non  possit  aliquid  aliud  ulterius  petere  vel 
habere  iu  et  super  bonis  ipsis  racione  successiouis  paterne  jure  nature  secun- 
dum  jura  comunia  et  municipalia,  nec  aliqna  alia  racione,  ocaxione  vel  causa. 
Et  si  forte  dieta  Illustris  et  spectabilis  domina  regina  coutrafecerit  in  pre- 
dictis  vel  aliquo  predictorum  aliqua  racione,  occasione,  vel  causa,  movendo  que- 
stiouem  seu  controversiam  tantum  con  tra  testamentum  predictum  vel  aliquid 
ex  contentis  in  eo,  cadat  ab  bereditate  predicta  et  habeat  et  habere  debeat 
jure  iustituccionis  et  recogniccionis  nature  quinque  milia  rlorenos  tantum  prò 
omnibus  juribus  competeutibus  et  competituris  in  bonis  predictis. 

Item  reliquit  jure  instituccionis  et  recogniccionis  nature  maguifice  domine 
Johanne,  domine  Alionore  et  domine  Margarite,  filiabus  suis,  susceptis  et  natis 
ex  se  et  predicta  inclita  domina  ducissa  Euphemia  eius  consorte,  sex  mille 
uncias,  duomilia  videlicet  qualibet  (per  cuilibet),  parti m  iu  pecunia,  parti m  in  ar- 
nesio  et  jocalibus  sponsalicij  ad  arbitrium,  videlicet,  predicte  inclite  domine  du- 
cisse  Euphimie  consortis  eius  dilecte,  et,  in  eius  defechi,  fidecommissarioruni  qui 
ordinare  ac  costituir)  debent  (?)  dicti  Illustris  domini  ducis  testatoris  vel  il- 
lorum  ex  eis  qui  tunc  supervixeriut. 

Item  reliquit  jure  instituccionis  et  recogniccionis  nature  postimie  (per 
postume)  nasciture  ex  se  et  predicta  inclita  domina  ducissa  Euphemia  uncias 
auri  mille  et  quiugeutas,  et  si  plures  femine  nascerentur  ex  ea,  earum  cui  libet 
alias  uncias  auri  mille  et  quingentas,  parti m  in  pecunia  et  partim  iu  arnesio 
et  jocalibus  sponsaliciis  ad  arbitrium  predictorum  sicut  supra  pio  et  de  quibus 
voluit  et  mandavit  predictas  eius  Alias  uascituras  et  earum  quamlibet  tenere 
se  tacitas  et  contenta»  de  oinni  et  toto  eo  quod  habere  et  recipere  deberent 
et  posseut  in  et  super  predicti  domino  ducis  testatoris  earum  patris  jure  suc- 
cessiouis paterne  et  jure  nature  secundum  jura  comunia  et  municipalia  et 
quacumque  alia  racione,  occaxioue,  vel  causa.  Et  si  forte  aliqua  ex  predictis 
filiabus  suis  coutrafecerit  impredictis  vel  aliquo  premissorum,  eciam  contro- 
versiam tantum  faciendo  ,  cadat  ab  bereditate  predicta  et  habeat  et  habere 
debeat  jure  instituccionis  et  recogniccionis  nature  et  prò  omnibus  alijs  juri- 
bus ei  competeutibus  et  competituris  in  predictis  bonis  uncias  auri  centum 
tantum  sicut  jam  dietimi  est  super  de  filiabus  jam  natis. 


336  G.    riPITONK-FEDKRICO.  PARTE   II. 

Iteui  casu  quo  tempore  mortis  dicti  domini  ducis  testatoris  non  supere- 
rint  uec  superere  speraverint  fìlij  masculi,  eo  casu  instituit  sibi  heredem  magni- 
ficam  et  egrcgiam  dominam  comitissam  Elisabet,  primogenitam  suam,  in  dotem 
quam  promisit  dictus  illustris  dominus  dux  magnifico  et  egregio  corniti  Nico- 
lao  de  peralta  racione  qua  supra  dictum  est,  in  instituccione  particulariter 
facta  nisi  fìlij  ma  sculi  supererint  eidem  domino  duci,  nec  non  in  comi  tatù  meli- 
veti  et  insula  gaudisij  cum  omnibus  juribus,  jurisdicionibus,  aquis,  aquarum 
decursibus,  molendinis,  forestis,  censualibus,  racionibus  alijs  spectantibus  et 
pertinencijs  suis  et  omnibus  alijs  bonis  tam  pheudalibus  quam  burgeusaticis 
in  dictis  comitatu  et  insula  gaudisij  sistentibus  prout  et  sicut  dictus  illustris 
dominus  dux  testator  dictum  comi  tatù  m  et  dictam  Insolam  tenebit  et  possi- 
debit  tempore  mortis  sue  prò  et  de  quibus  voluit  et  mandavit  dictam  magni- 
ficam  tìliam  suam  fore  et  esse  ac  tenere  se  debere  taci  tam  et  contentam  de 
omni  et  toto  jure  quod  haberet  et  habere  possent  tempore  mortis  dicti  Illu- 
stris domini  ducis  et  super  bonis  tam  phendalibus  quam  burgeusaticis  pre- 
dicti  illustris  domini  ducis  te3tatoris  tam  jure  successionis  paterne  quam  jure 
nature,  secundum  jura  comuuia  vel  municipalia  quam  quocumque  alio  jure, 
raccione,  occaxione,  vel  causa,  ita  quod  nullo  modo  possit  aliquid  aliud  petere 
et  habere  in  et  super  bonis  tam  pheudalibus  quam  burgeusaticis  dicti  domini 
ducis.  Et  in  casu  quo  dieta  maguifìca  et  egregia  domina  comitissa  contrafe- 
cerit  in  premissis  ve!  aliquo  premissorum  ecciam  controversiam  movendo,  cadat 
ab  hereditate  predicta  et  habeat  et  habere  debeat  jure  instituccionis  et  reco- 
gniccionis  nature  quam  quocumque  alio  jure,  raccione,  vel  causa,  uncias  auri 
mille  tantum  et  in  eo  casu  reliquit  predictum  comitatum  miliveti  et  insolam 
gaudisij  cum  '.dijs  predictis  bouis  relictis  ut  supra  magniflce  domine  filie  sue 
terciogenite.  Et  preterea  voluit  quod  in  casu  quo  dieta  comitissa  Elisabet  tem, 
pore  mortis  sue  haberet  duos  filios  masculos  et  abinde  supra  quod  teneatur 
et  debeat  relinquere  predictos  comitatum  melivetj  et  insolam  gaudisij  uni  ex 
filijs  suis  masculis  quem  elegerit,  sub  condicione  quod  ille  electus  teneatur  et 
debeat  cognominali  de  Claramonte  et  deferre  arma  de  Claramonte;  et  in  casu 
quo  ab  intestato  decesserit  (lieti  comitatus  et  insola  perveniant  et  pervenire 
debeant  ad  secundogenitum  quem  ex  uunc  prò  tunc  substituit  impredictis  bonis 
pheudalibus  diete  comitisse  sub  coudiccionibus  predictis  quod  nominetur  de 
Claramonte  et  deferre  (sic)  arma  de  Claramonte  quod  si  secus  factum  fuerit 
per  dictam  comitissam  vel  illum  ex  filijs  suis  ad  quem  perveneriut  dicti  comi- 
tatus et  insola  perveniant  et  pervenire  debeant  ad  proximiorem  niasculum 
diete  domine  comitisse  vel  dicti  electi  per  eam  descendentem  tam  a  dicto 
domino  duce  testatore  sub  condiccione  predicta  et  si  ille  proximior  non  imple- 
verit  condicionem  predictam  perveniant  ad  proximioiem  recusantis  adimplere 
condieionem  predictam  de  descendentibus  tamen  dicti  domini  ducis.  Et  si 
plures  eruut  proximiores,  primogenitus  pi'eferatur  et  quod  dictum  est  de  dieta 
domina  comitissa  Elisabet  intelligatur  de  quolibet  alio  ab  ea  descendente  qui 
cepit  habere  duos  filios  vel  plures. 

Item  eo  casu  relinquit  jure  instituccionis  et  recognicionis  nature  Illustri 
et  inclite  domine  domine  regine  constaucie  dotem  per  dictum  illustrem  domi- 


Parte  li.  il  testamento  di  Manfredi  crtaramonte.  337 

num  dacem  promissam  serenissimo  domino  regi  lanzalao  etc.  eius  viro  et  per- 
sone legitime  prò  eodem  et  prò  ruajori  parte  solutam  racioue  qua  supra  et 
in  florenis  auri  quiugentis  sub  modis  formis  prohibiccionibus,  condiccionibus 
et  clausulis  apposilis  in  instituccione  et  particulariter  facta  supra  quando 
dictus  dominus  dus  testator  haberet  fllios  masculos  unum  vel  plures,  et  prete- 
rea  instituit  eamclem  illustrem  dominam  reginarn  in  ducatu  gerbarum  et  berbe- 
rarum  cum  onere  iufrascripto  videlicet:  quod  in  casu  quo  dieta  illustris  do- 
mina regina  recuperaverit  ducatum  gerbarum  teneatur  et  dare  debeat  quinqua- 
ginta  milia  rlorenorum  alijs  sororibus  suis,  et  si  ex  eis  aliqua  morta  fuerit  libe- 
ris  relictis,  omnes  eius  liberi  succedant  eo  (?)  ipsius  facti  destricte  ita  quod 
omnes  habeant  unicam  portionem  tantum  prout  habuisset  dieta  eorum  mater 
si  vixisset. 

Item  instituit  sibi  befedes  universales  in  omnibus  alijs  bonis  suis  tam 
pbeudalibus  quam  burgensaticis  magnificam  dominam  Jobaunam  dominam 
alionoram  dominam  Margaritam  filias  suas  legitimas  et  naturales. 

Item  eo  casu  prelegavit  predicte  magniflce  domine  Jobanne  terciogenite 
filie  sue  dilecte  castrum  et  terram  castri  novj  cum  omnibus  juribus  etc.  sicut 
supra  dictum  est  de  comitatu  miliveti  et  insola  gaudisij  in  personam  cotni- 
tisse  Elisabect  et  in  jocalibus  robba  et  arnesium  (sic)  spousalieijs  uncias  auri 
mille  sub  modis  et  formis  prohibiccionibus  condiccionibus  et  clausulis  appositis 
supra  in  persona  domine  comitisse  Elisabet,  preterea  voluit  et  mandavit  quod 
in  casu  quo  dieta  magnifica  domina  Johanna  tempore  mortis  sue  haberet  duos 
filios  masculos  et  aliuude  supra  quod  teneatur  et  debeat  reliuquere  predictos 
castrum  et  terram  illi  ex  filijs  suis  quem  elegerit  sub  coudiccionis  quod  ille 
electus  teneatur  et  debeat  coguomiuarj  de  Claramonte  et  non  aliter  et  deferre 
arma  de  Claramonte.  Et  in  casu  quo  ab  intestato  decesserit  dicti  castrum  et 
tersa  peeveniant  et  pervenire  debeaut  ad  secundogeuitum  diete  domine  Jo- 
haune  sub  coudiccioue  predicta  quod  nominetur  de  Claramonte  et  deferat 
arma  de  Claramonte  quod  si  secus  factum  fuerit  predictam  dominam  Jobau- 
nam vel  alium  (sic)  ex  filijs  suis  ad  quem  perveuerint  terra  et  castrum  pre- 
dictj  quod  dictj  terra  et  castrum  pcrveuiant  et  pervenire  debeaut  ad  proxU 
miorem  masculum  diete  domine  Johaune  vel  dicti  electi  per  eam  desceudentem 
tamen  a  dicto  domino  duce  testatore  sub  coudiccioue  predicta.  Et  si  ille  proxi- 
mior  non  impleverit  condiccionem  predictam  perveniaut  ad  proximiorem  recu- 
sautis  adimplere  condiccionem  predictam  et  si  plures  erunt  proximiorcs  primo- 
genitus  preferatur,  et  quod  dictum  est  de  dieta  domina  Johanna  iutelligatur 
de  quolibet  alio  ab  ea  descendeute  qui  cepit  habere  duos  filios  vel  plures  in 
casu  quo  ipsa  unicum  tantum  filium  reliuquerit  (sic). 

Item  prelegavit  niagnifice  domine  alionore  quartogenite  fllie  sue  castrum 
et  terram  bisboue  cum  omnibus  juribus  suis  et  uncias  auri  mille  in  jocalibus 
robba  et  arnesia   (sic)  spousalieijs  de  quibus  voluit  eam  esse  contentane 

Item  prelegavit  magnifice  domine  Margarite  quintogenite  fllie  sue  castrum 
et  casalem  careni  situm  et  positura  in  valle  mazarie  nec  non  et  fortilicium 
et  pheudum  chomisi,  situm  et  positura  in  valle  uothi  cum  omnibus  juribus  etc. 
sicut  supra;  hoc  addito  quod  ubi  ibi  dicitur  suis  debet  dici  his  et  cuiuslibet  (?) 
ipsarum,  22 


338  G.    PIPrTONE-EEOERICO.    -  •  PARTE   li. 

Itera  voluit  et  mandavit  io  casu  quod  absit  quo  predicta  magnifica  do- 
mina comitissa  Elisabet  moriretur  inpupillari  etate  vel  postea  quaudocumque 
cura  fìlijs  de  suo  corpore  legitime  descendentibus,  iu  dictis  coniitatu  et  insola 
gaudisij  nec  non  in  omnibus  alijs  bonis  stabilibus  pbeudalibus  et  burgensa- 
ticis  de  bonis  dicti  domini  ducis  testatori s  ad  eam  perventis  quacumque  ra- 
cione  vel  causa,  et  specialiter  jure  institucciouis  quam  substituccionis  substi- 
tuit  illam  ex  tribus  sororibus  suis  minoribus  excepta  predicta  illustri  domina 
regina  costancia  ,  quam  ab  omni  et  omnium  et  cujuslibet  suarum  sororum 
substituccione  exclusit  et  excludit  etiam  si  de  eius  exclusione  non  fuerit  facta 
aliqua  meutio  specialis  quia  per  bauc  exclusionem  generalem  voluit  vires  ba- 
bere  ac  si  in  qualibet  substituccione  filiarum  et  cuiuslibet  earum  exelusa  fuisset 
specialiter  quo  maritata  seu  coniugata  non  fuerit.  Et  si  plures  non  fuerint 
maritate  seu  coniugate,  maiore  nata  (?),  et  si  omues  maritate  essent  seu  coniu- 
gate, similiter  maiorem  natura  ex  eis  de  institutibus  beredibus  universalibns 
sub  condiceioue  cognomiuis  et  delaccionis  armorum  de  Clararaonte  et  alijs 
oneribus  et  clausufis  superpositis  impersona  diete  maguifice  comitisse  et  de- 
scendentibus  ab  eadem  in  alijs  autem  bonis  diete  comitisse  et  substituit  et 
equaliter  sorores  suas  excepta  domina  (?). 

Itera  voluit  et  mandavit  quod  in  casu,  quod  absit,  quo  dieta  magnifica 
domina  Jobanna  moriretur  impupillari  etate  vel  postea  quaudocumque  siue 
filijs  de  suo  corpore  legitirae  descendentibus,  substituit  eidem  impredictis  bonis 
stabilibus  pbeudalibus  et  burgensaticis  eidera  relictis  et  ad  eara  pertinentibus 
de  bonis  dicti  domini  ducis  per  viam  institucciouis  vel  substituccionis,  illam 
ex  sororibus  suis  que  non  fuerit  maritata  ,  seu  coniugata.  Et  si  plures  essent 
nou  coniugate  majorera  natu,  et  sic  si  omues  coniugate  fuerint  maiorem  na- 
tura ex  institutis  universalibns  sub  coudiccione  taraen  cognorainis  et  delac- 
cionis armorum  de  Clararaonte  sicut  dictuin  est  de  dieta  domina  comitissa 
Jobanna  et  descendentibus  ab  ea  cura  condicciouibus,  substituccionibus  et  clau- 
sulis  impersona  diete  domine  comitisse  et  descendentium  ab  eadem  appositis 
iu  boc  in  reliquis  autem  bouis  ei  relictis  et  ad  eam  perventis  de  bonis  dicti 
domini  ducis  substituit  eidem  omnes  alias  sorores  suas  equaliter  exceptis  pre- 
dictis  domina  regina  et  comitissa. 

Itera  si  dieta  magnifica  domina  alionora,  quod  absit,  moriretur  impupil- 
lari etate  vel  quaudocumque  siue  iiberis  de  suo  corpore  legitime  descenden- 
tibus, vel  postea  quaudocumque,  substituit  eidem  in  predictis  bonis  pbeudalibus 
et  burgensaticis  eidem  relictis  per  viam  institucciouis  vel  substituccionis  illam 
ex  sororibus  suis  que  non  fuerit  maritata  seu  coniugata;  et  si  plures  essent 
non  coniugate  raaiorera  natu  ex  eis  et  sic  si  omnes  coniugate  fuerint  maio- 
rem  natu  ex  filiabus  et  beredibus  universalibus  in  reliquis  alijs  autem  bonis 
ei  relictis  et  ad  eam  perventis  ex  bonis  dicti  domini  ducis  equaliter  ei  substi- 
tuit omnes  alias  sorores  suas  insti tutas  vel  heredes. 

Itera  si  dieta  domina  Margarita  in  casu  quod  absit  moriretur  in  pupil- 
lari etate  vel  quaudocumque  siue  Iiberis  de  suo  corpore  legitime  descenden- 
tibus vel  postea  quaudocumque  ,  substituit  eidem  impredictis  bonis  pbeuda- 
libus et  burgensaticis  eidera  relictis  per  viara  institucciouis  seu  substituccionis 


PARTE    II.  IL    TESTAMENTO    DI    MANFREDI    CUIARAMONTE.  339 

illam  ex  sororibns  suis  que  non  fuorit  maritata;  et  si  pi  urea  essent  non  coniu- 
gate maiorem  nata  ex  ci,  et  si  omnes  coniugate  fuerint  idem  disposuit  pront 
saper  disposuit  impersonali!  domine  alionore  etiam  in  bonis  alijs  ei  relictis 
et  ad  eam  perventis  de  bonis  predieti  domini  ducis. 

Itera  voluit  et  raandavit  quod  si,  qnod  absit,  dieta  magnifica  domina  comi- 
tissa  mortua  Tuerit  cura  liberis  legitiinis  et  naturalibus  et  postea  dicti  eorura 
liberi  decesserint  sine  liberis  1  egiti  rais  et  naturalibus,  ita  quod  millus  super- 
fuerit  ex  eis  descendens  legitimus,  snbstituit  omnibus  lil>eris  seu  ultimo  descen- 
denti ex  eis  in  bonis  predictis  ad  eam  perveutis  ut  supra  illam  ex  filiabus 
suis  quìim  substituit  cidem  magnilìee  comitisse  ,  et  si  il  hi  premortila  tuerit 
descendentes  ab  eadera  ita  quod  masculus  temine  preferatur  et  raaior  natii 
minori  natii  cura  coudiccioue  coguominis  et  delaccionis  arraorum  de  Clara- 
monte  et  uou  al  iter  et  substituccionibus  omnibus  et  alijs  clausulis  in  hoc 
appositis  in  personis  diete  comitisse  et  descendenciura  ab  eadem;  et  similiter 
si  dieta  domina  Johauna  fuerit  mortua  superstitibus  liberis  legitime  descen- 
deutibus  ab  eadem  et  postea  liberi  eius  decesserint  sine  liberis  legitimis  et 
naturalibus  ita  quod  nullus  snperfuerit  ex  ea  substituit  eisdem  liberis  seu 
ultimo  descendenti  ex  eis  in  bonis  predictis  eidem  fìlie  sue  relictis  ut  supra 
ilìam  ex  filiabus  suis  quarti  substituit  eidem  magnifico  domine  Jobanne.  Va- 
cat  pagina  alba. 

Hec  est  eius  ultima  voluutas  et  ultimura  testamentum  quam  et  quod 
voluit  valere  jure  testamenti,  et  si  iure  testamenti  non  valeret  voluit  valere 
et  valeat  jure  codicillorum  seu  causa  niortis  aut  iuter  vivos:  et  si  jure  codic- 
cillorum  non  valeret  voluit  valere  et  valebit  jure  cuiuscumque  sue  ultime 
voluntatis  vel  alio  jure  quo  melius  valere  poterit  in  futurura. 

Dal  volume  di  N.  19  delle  Miscellanee  dei  notai  defunti,  fase.  243,  che 
si  conserva  nell'Archivio  di  Stato  di  Palermo,  ramo  giudiziario.  Collazionato 
dal  dott.   Giuseppe  La  Mantia,   bibliotecario  dell'Ai  eluvio. 

Palermo,  aprile  11)06. 

G.  Pipitone-Federico. 


PER  LA  GIUSTA  COLLOCAZIONE  DI  DUE  SONETTI 

DI   FRANCESCO   PETRARCA. 


11  codice  Vaticano  latino  3105  che,  come  tutti  sanno,  contiene 
le  due  prime  parti  del  poema  italiano  di  F.  Petrarca  (la  raccolta  di 
rime  che  s'è  soliti  di  dimandare  il  Canzoniere),  fu  diviso  nettamente 
dal  poeta  medesimo  :  la  prima  parte  si  chiude  col  son.  Arbor  vieto- 
riosa  ;  s'apre  la  seconda  con  la  canz.  F  vo  pensando.  Sul  verso  della 
e.  49,  eh'  è  1'  ultima  della  prima  parte,  scrisse  una  mano  tardiva  : 
Francisci  Fetrarce  ewj)liciunt  soneta  de  vita  [in  anxietate]  l  amoris,  et 
ileo  gratias.  Sedotto  forse  da  quest'annotazione,  messer  Pietro  Bembo, 
nella  sua  edizione  delle  rime  del  Petrarca  impressa  da  Aldo  Manuzio 
il  1501,  le  partì  anch'  egli  in  sonetti  e  canzoni  in  vita  di  Madonna 
Laura  e  in  morte  di  Madonna  Laura  2  5  ma  la  divisione  rimase  pur 


1  Oggi,  come  avverte  il  dr.  E.  Modigliani  nella  sua  edizione  del  Canzoniere, 
Roma,  1904,  p.  114  n.,  questa  parola  non  si  legge  più  per  la  macchia  prodotta 
da  un  reagente  chimico.  Il  quale  fu  adoperato  sotto  i  miei  occhi  da  monsignor 
Isidoro  Carini  ,  allora  bibliotecario  della  Vaticana  ,  e  potemmo  leggere  distinta- 
mente in  anxiet.  amor. 

2  Che  Pietro  Bembo,  trascritto  per  Aldo  chi  sa  da  qual  codice  il  testo  delle 
Poesie  volgari  nel  Vaticano  latino  3197,  collazionasse  la  sua  trascrizione,  avanti 
la  stampa,  sul  codice  originale,  non  può  parer  controverso  a  chi  conosca  la  storia 
della  questione  così  lucidamente  riferita  dal  Mestica  nel  suo  lavoro  II  Canzoniere 
del  Petrarca  (estr.  dal  Giorn.  stor.  d.  leti.  ital.  XXI,  p.  300  e  segg\). 

Non  intendo  poi  come  l'ultimo  editore  delle  Poesie  volgari,  il  dr.  Modigliani, 
dal  mio  sospetto  che  «il  Bembo  dovette  avvertire  quell'annotazione  quand'ebbe 
tra  mano  il  codice  originario,  e  non  gli  parendo  dispregevole  affatto,  se  n'  av- 
vantaggiò per  la  stampa  d'Aldo  Manuzio  »  si  tenga  licenziato  ad  attribuirmi  l'idea 
che  il  Vaticano  3195  fosse  stato  1'  antigrafo  del  Vaticano  3197;  «  ciò  che  è  er- 
roneo ».  La  critica  del  dr.  Modigliani  è  un  po'  troppo  svelta.  S'egli  avesse  stu- 
diato direttamente  e  seriamente  il  problema,  si  sarebbe  persuaso  che  il  Bembo 
collazionò  per  la  stampa  d'Aldo  il  suo  codice  sul  codice  originario,  se  bene  delle 
varianti  si  giovò  a  modo  suo  e  secondo  il  suo  gusto  ;  s'  egli  avesse  osservato  il 
Vaticano  3197,  avrebbe  inteso  come  non  ci  sia  punto  bisogno  d'immaginare  che  il 
Bembo  lo  ricopiasse  di  sul  codice  del  Petrarca,  per  ammettere  che  dalla  notazione 
tardiva  ed  apografa  della  e.  49  possa  esser  venuta  al  Bembo  l'ispirazione  delle  sue 


PARTE   II.       PER  LA  GIUSTA  COLLOCAZ.  DI  DUE  SONETTI  DI  V.   PETRARCA  341 

quella  del  Petrarca.  Più  tardi,  vale  a  dire  nell'aldina  del  1514,  fu 
introdotta  una  partizione  novella  ,  eh'  è  poi  la  volgata  ,  secondo  la 
quale  i  componimenti  in  vita  arrivano  tino  al  son.  Signor  mìo  caro 
e  quelli  in  morte  cominciano  col  son.   Oimè  il  bel  riso. 

11  rinvenimento  del  codice  originale  e  in  parte  autografo  di 
quelle  rime  consigliò  gli  editori  a  tornare  all'  antica  divisione,  la 
(piale,  riméssa  in  onore  dal  Mestica  la  prima  volta,  fu  poi  seguitata 
da  tutti  gli  altri.  Se  non  che  codesta  divisione,  autentica  quanto  si 
voglia,  è,  almeno  in  un  punto,  irragionevole.  E  io  fai,  credo,  il  primo 
ad  avvertire  la  cosa  in  fondo  al  mio  scritto  L' ordinamento  delle 
«  Poesie  volgari  »  :  «  E  non  mi  fermo  su  questo  luogo  se  non  per 
domandare  come  mai  posson  trovarsi,  dopo  la  canzone  introduttiva 
alla  seconda  parte,  que'  due  sonetti  Aspro  core  e  stiraggio  e  Signor 
mio  caro,  i  soli  in  tutta  la  raccolta,  i  quali  contrastino  con  quello 
stadio  d'una  certa  unità  quasi  di  poema,  determinata  particolarmente 
nei  prologhi  e  negli  epiloghi,  che  si  riscontra  per  tutto  il  volume  »  i. 
Di  fatti,  mentre  la  seconda  parte  contiene  rime  tutte  di  religione  e 
di  morte,  que'  due  sonetti  soltanto  sprigionali  faville  di  desiderio  e 
d'amore  terreno  come  tutt'i  componimenti  della  prima  parte  alla 
quale  si  vorrebbero  ricongiunti  e  ricollegati. 

Anche  Adolfo  Mussana  stupì  della  contraddizione  2,  nò  riuscì 
a  scavizzolarne  un  motivo  plausibile,  come  non  v'era  prima  riuscito 
il  Cochin  ;5.  Giovanni  Melodia,  che  pur  seppe  acutamente  oppugnare 
l'altrui  congetture  su  questo  proposito  ',  non  s'arrischiò  di  proporne 
alcuna  per  conto  proprio. 

Ma  forse  il  poeta  medesimo  ci  può  aprir  la  via  a  risolvere  il 
delicato   problema. 

Era  le  poesie  del  Petrarca    riprodotte    diplomaticamente    di  sul 


due  rubriche  :  Sonetti  et  Canzoni  I  Di  Messer  Francesco  Petrarcha  \  In  l'ita  di  Ma- 
donna Laura  e  Sonetti  et  Canzoni  \  Di  riesser  Francesco  Petrarcha]  In  Morte  di  Ma- 
donna Laura.  La  quali  occorrono,  non  punto  come  ci  s'  aspetterebbe,  iu  capo  a 
ciascuna  delle  due  parti  o  sul  recto  il'  una  carta  di  guardia;  ma  l'uua  sul  verso 
della  carta  che  precede  la  prima  pagina  delle  rime,  l'altra  in  fondo  al  verso  della 
e.  98,  in  cui  la  prima  parte  Unisce  :  luoghi  entrambi  non  i  più  consueti  per  in- 
testa/ioni; onde  viene  il  sospetto  che  il  Bembo  ve  le  abbia  segnate  dopo  la  tra- 
scrizione di  tutto  il  suo  codice  e  quando  per  l'appunto  si  diede  a  collazionarlo 
con   quello   del   poeta. 

1  Su  le    «Poesie  volgari»   del  P.  pp.   127-8. 

2  Ne'   Denkschriften  dcr  kais.  Akad.  der  Wissenschaft  —  in    ììien,  Philos.-histor. 
Classe,   ]'».   XLVI,   VI,   1899,  p.   17  dell'estratto. 

3  La   Chronol.     d.    Canzoniere,    Paris,    1898  ,    p.   122.   Cfr.    anche  A.   Moschetti, 
nella  Pass,  bibliograf.   1899,  jì.   131. 

4  Nel   Giornale  dantesco,  1900,  p.   370. 


542  G.    A.    CESAREO. 


Vatic.  3195  a  cura  del  Modigliani,  alcune  sono  segnate  sul  margine 
da  una  crocetta,  con  la  quale,  a  mio  giudizio,  il  poeta,  rivedendo 
l'opera  sua,  intendeva  ammonire  se  stesso  che  avea  da  recar  qualche 
emenda,  sia  nella  lezione,  sia  nella  collocazione. 

Or  per  l'appunto  i  sonn.  Aspro  core  e  Signor  mio  caro  (n.  205 
e  n.  200  della  raccolta)  son  preceduti  da  una  crocetta,  anzi  il  secondo 
da  due,  l'ima  nell'  interno  dell'iniziale,  1'  altra  sul  margine.  In  vece, 
dopo  il  son.  Arbor  rictoriosa  onde  si  chiude  la  prima  parte,  è  un  acci- 
dente ch'io  riferirò  con  le  parole  medesime  dell'editore  :  «  Circa  due 
centimetri  sotto  questo  verso  è  una  larga  rasura  di  parole,  ora  non 
più  leggibili,  scritte  su  due  righe.  La  prima  riga  sembra  comprendesse 
due  o  tre  parole  e  incominciasse  con  un'A  ;  la  seconda  è  un  po'  più 
lunga,  principia  con  un  S  e  termina  con  un'o  o  con  un  ro  ». 

Ebbene  :  io  sospetto  forte  che  le  parole  scritte  su  le  due  righe 
fossero  il  cominciamento  de'  due  sonetti;   così  : 

Aspro  core. 

Signor  mio  caro. 

Ognun  vede  come  i  dati  corrispondano  esattamente.  La  prima 
riga  contiene  due  parole  e  comincia  con  A;  la  seconda  è  un  po'  più 
lunga,  principia  con  S  e  finisce  con  ro.  E  la  trasposizione  di  quei 
due  componimenti  non  potrebb'  esser  più  acconcia  e,  sto  per  dire, 
più  necessaria. 

Chi  ha  potuto  indicare  quel  tentativo  di  trasposizione,  e  chi  l'ha 
cancellato  ? 

Non  essendo  stata  avvertita  alcuna  differenza  di  scrittura  fra  le 
lettere  superstiti  di  quelle  parole  e  il  rimanente  della  pagina,  eh'  è 
di  pugno  del  poeta ,  bisognerebbe  attribuire  la  notazione  ad  esso 
il  Petrarca.  Xiun  altro  difatti,  che  non  fosse  l'autore,  poteva  avere 
non  dirò  intelletto  da  scorgere,  ma  autorità  da  indicare  una  tale  mo- 
dificazione all'opera  sua.  Più  inesplicabile  è  la  ragione  della  rasura. 
La  quale  forse  fu  consigliata  a  un  tardivo  possessore  del  codice  dalla 
considerazione,  che  i  due  sonetti  richiamati  in  quella  notazione, 
ond'egli  non  intese  il  significato,  si  ritrovavano  interi  poco  più  oltre. 

Se  la  mia  congettura  paresse  plausibile,  un  inconveniente  non 
piccolo  nell'ordinamento  delle  Poesie  volgari  ne  verrebbe  sanato,  e  i 
due  sonetti,  tornando  nella  prima  parte,  occuperebbero  il  luogo  che 
loro  spetta  con  l'altre  rime  dell'  errore  e  della  passione  mondana, 
mentre  la  parte  seconda  apparirebbe  composta  tutta  di  rime  ispirate 
a  pensieri  d'espiazione  e  di  morte.  E  la  trasposizione  sarebbe  stata 
accennata  dallo  stesso  poeta. 

Palermo. 

G.  A-  Cesareo 


ALCUNI  EPIGRA/A/AI  LATINI  DEL  RINASCI/AENTO 


Come  mio  tenne  tributo  di  omaggio  al  nostro  caro  e  valoroso 
collega,  io  apporto  questi  piccoli  carmi  latini  ,  da  me  raccolti  in  codici 
del  rinascimento.  Son  poca  cosa  :  ma,  se  si  guarda  bene,  ciascuno,  di 
essi  ha  qualche  punto,  che  lo  raccomanda  all'attenzione  degli  studiosi: 
qualche  accenno  storico  o  qualche  tratto  felice  di  buona  ispirazione. 
Spero  quindi  che  non  sia  per  sembrar  vano  il  pubblicarli. 

I. — Incomincio  con  un  breve  epigramma  su  Roma  papale.  È  nel 
codice  Laurenziano  ,  pluteo  33,  eod.  24,  cartaceo,  della  seconda  metà 
del  sec.  XV,  contenente  varii  carmi  di  Cristoforo  Landino  e  di  Xaldo 
de  Xaldis.  A  foglio  70  v,  di  mano  posteriore ,  si  legge  questo  argu- 
tissimo  distico  (aggiungo  la  punteggiatura)  : 

Roma,   vale  :   vidi,  satis  est  vidisse;  revertar 
Curri   meretrix,   leno,  scurra,   cinoedus  ero  '. 

II. — Nel  codice  miscellaneo  Ambros.,  G.  109  inf.  del  sec.  XVI, 
si  legge  al  foglio  21  il  seguente  epigramma  latino,  che  noi  riprodu- 
ciamo, aggiungendo  solo  al  terzo  verso  il  tu  che  è  richiesto  dal  metro  : 

Flavia  cum  statuit  me  gens,  nil  Roma  videbas 
Pulchrius;  imperio  pulchrior  ipsa  tuo. 
Sed  cum  non  posses  tu  mi  formosa  videri, 
Hausissetque  tuas  barbarus  iguis  opes, 
Snbtraxi  ex  oenlis  tibi  me,  ne  saepe  ridendo 
C'.iui  gemitìi  decoris  admonerere  tui. 
Nunc  sibi  reddiderit  veterem  cum  Julius  urbem, 
Spectandum  refero  me  tibi  nunc  iterum. 

Chi  così  parla  è  evidentemente  l'antiteatro  Flavio.  E  l'epigramma 
deve  riferirsi  ad  una  restaurazione  del  Colosseo  fatta  sotto  Giulio  li. 
Di  Giulio  II  è  giustamente  detto  :  sibi  reddiderit  veterem  cum  Iuliux 
urbem.  La  lapide  a  lui  posta  a  Roma  in  via  dei  Lancili,  ha  :  «  urbem 


1  Nello  stesso  foglio  sono  altri  epigrammi;  quello  Roma  retus  pubblicato  nei 
Poetac  Latini  minores  ed.  "Wernsdorfì' — Lem  aire  ,  IV,  p.  536;  l'iscrizione  metrica 
che  è,  tra  gli  altri,  in  Bnecluder  ,  Carmina  epigraphica  ,  n.  52:  e  il  distico:  Xon 
nobis  est  nosse  datum  quae  tempora  rerum   Condidit  in  sacro  pectore  causa  prior. 


$44  C.    PASCAL.  PARTE   ti. 

Romani,  occupatae  similiorem  quam  divisele,  patefactis  dlmensisque  viis 
prò  m alesiate  imperli  ornami  ». 

III. — Uno  scherzoso  ed  elegante  epigramma  De  Curtio  si  legge 
nel  medesimo  codice,  Ambros.  G,  109  In/.,  a  f.  71.  Il  Curzio  del  no- 
stro epigramma  non  è  il  Curzio  antico,  che  si  gettò  nella  voragine 
per  salvare  Roma;  è  invece,  in  certo  modo,  la  parodia  di  esso.  Que- 
sto novus  Curtius  andava  dunque  a  cavallo,  quando  l'animale  si  lanciò 
a  gran  corsa  e  stava  per  precipitarlo  giù  in  un  fossato.  E  il  disgra- 
ziato invocò  aiuto.  «  Se  l'antico  Curtius  volle  sagriti  carsi  per  salvare 
Roma  dai  suoi  malanni,  perchè  dovrei  sacrificarmi  io,  or  che  Roma 
è  incolume  ?  ».  E  accorrono  i  giovani  e  il  salvano  ;  e  un  lungo  co- 
dazzo di  ninfe,  dal  destro  lato  del  Tevere  e  dal  Lupercale  accompa- 
gnano il  cavaliere  salvato  per  le  vie.  Il  poeta  leva  i  ringraziamenti 
agli  dèi  tutelari.  Bisognerà  supporre,  affinchè  lo  scherzo  sia  salace, 
che  si  tratti  di  alcuno  che  avesse  veramente  il  cognome  Curzio  o 
dirti.  Ecco  ora  l'epigramma  : 

De  Curtio 
Ciim  novus  horribili  praeceps  raperetur  hiatu 
Curtius  et  celeri  chasma  pateret  equo, 
'Quod  fatuin  immite  est,  quod  fas?'   ait,  'alter  ut  aegra 
Alter  ut  incolumi   Curtius  urbe  ruat  ? 
Tollite  me  actutum,  pueri.  Num  me  atra  vorago 
Hauriet  ?  Audacis  pes  revocetur  equi. 
Ereptum,  Tiberini  ululatibus  ainne  secutae 
Ab  dextro  Nymphae  quaeque  Lupercal  habeut. 
Gratia  magna  igitur  tibi,  Phoebe,  parensque  Qniriue, 
Et  de  Tarpeia  Iuppiter  arce  touans, 
Quod  postquam  periit  dira  prior  ille  mephiti, 
Noster  hic  incesto  ab  limite  sospes  abit. 

Una  nota  a  sospes  ha  :  nel  tutus.  Actutum  è,  com'è  noto,  forma 
latina  arcaicizzante. 

IV.  Nel  medesimo  codice  Ambrosiano  a  f.  09  trovo  il  seguente 
epigramma  sopra  Leone  X  : 

De  Raph.  Car.H  et  Leone  Pont. 

Optavit  Raphael  celebri  fulgore  tiara, 

Supremisque  sacris  stemma  Leo  abripuit. 

Sumnia  fuit  postbaec  voti  lare  consummato 

Posse  fruì  atque  opibus  :  haec  Leo  diripuit. 

Excessit.  Repetit  funus.  Leo  fata  vocat  vi 

Ante  diem  moriens,  iustaque  praeripuit. 

«  Haud  »,  ait,  «haec»,   Raphael   «  tam  me  angunt  quam  ne  et  amoeno 

Iste  locum  eripiat  iam  datum  in  Elysio». 


PARTE   II.  ALCUNI   EPIGRAMMI    LATINI   DEL   RINASCIMENTO.  345 

Questo  epigramma  non  è  insigne  per  forma  poetica  o  per  finezza, 
ma  credo  che  abbia  qualche  importanza  storicamente.  Il  cardinale  di 
cui  si  parla  credo  che  sia  Raffaele  Mario  ,  del  titolo  di  San  Giorgio. 
Questi  che  per  ricchezze,  splendore  di  vita  e  potenza  familiare  era 
tra  i  più  autorevoli  del  Sacro  Collegio,  era  avversissimo  a  Leone  X, 
anzi  a  tutta  la  famiglia  dei  Medici.  Giovanetto  ,  aveva  preso  parte 
alla  congiura  dei  Pazzi. 

Una  medesima  promozione  portò  alla  porpora  Giovanni  dei  Me- 
dici e  Raffaele  Riario.  Ma  il  primo  non  dimenticò  l'assassinio  di  suo 
zio,  l'attentato  contro  la  vita  del  padre  suo;  uè  il  secondo  dismise 
punto  i  rancori  e  gli  odii  della  sua  giovinezza.  Quando  il  cardinale 
Petrucci  organizzò  il  complotto  contro  la  vita  di  Leone  X,  il  Riario, 
stando  a  quel  che  dissero  gli  accusatori  suoi,  vi  prese  parte.  Leone 
X  stesso  dichiarò  che  due  altri  cardinali  complici  gli  avevano  con- 
fessato che  l'intesa  era  di  nominar  papa  Raffaele  Riario.  E  nel  no- 
stro epigramma  si  legge  :   Optarit  Raphael  celebri  fulgere  tiara. 

Imprigionato,  fu  il  20  giugno  1517  degradato  dalla  sua  dignità 
(cfr.  stemma  Leo  abripuit).  Ebbe  però  salva  la  vita  ;  ed  in  seguito, 
per  potenti  intercessioni,  fu  anche  riammesso  nelle  funzioni  ecclesia- 
stiche, mediante  il  pagamento  di  una  grossa  ammenda.  Il  nostro  epi- 
gramma ricorda  appunto  la  devastazione  ,  che  Leone  fece  ,  del  suo 
patrimonio  (haec  Leo  diripuit).  Il  vecchio  cardinale  precedette  di  poco 
Leone  nella  tomba  :  morì  a  Xapoli  nel  luglio  1520.  Arguissimo  è  il 
motto  finale  :  Raffaele  Riario  sperava  che  Leone  non  gli  portasse  pur 
via  il  posto  assegnatogli  in  paradiso.  Nell'epigramma  dunque  Leone 
X  è  messo  in  una  luce  molto  fosca.  Non  bisogna  però  dimenticare 
che  pur  tra  i  contemporanei  s'insinuò  il  sospetto  che  il  Riario  fosse 
innocente  e  che  Leone  X  tentasse  farlo  comparire  colpevole  per  ven- 
dicarsi delle  antiche  ingiurie  fatte  alla  sua  famiglia.  E  la  lettera  (ri- 
portata dal  Fabroni  ,  Vita  Leoni»  X),  che  il  papa  gli  scrisse  dopo  il 
rappacificamento,  è  concepita  in  termini  così  remissivi,  che  quasi  pare 

una  ritrattazione  dell'accusa  antica  :   « remitto  Dominationi  Ve- 

strae  Rererendissimae  omnem  iniuriam,  si  quam  ullo  casti  aut  tempore 
contro,  me  fecistis  .  .  .  ». 

Nell'epigramma  l'ignoto  fautore  del  Riario  accusa  quasi  Leone 
di  persecuzione  che  duri  fin  oltre  la  morte;  ma  lode  di  magnanima 
mitezza  ,  per  il  modo  appunto  ond'egli  trattò  1'  avversario  suo  ,  gli 
die  Angelo  Colocci  (cfr.  Roscoe,  Leone  X,  cap.  XIV,  §  13,  ediz.  di  Mi- 
lano, 1810-17): 

Accepere  manus  Riari  vincla  nocentes, 
Ju  caput  Etrusci  qui  tulit  aruia  (lucia. 


S46  C.    PASCAL.  'PARTE!   II. 

Vitam  orat,  vitam  lacrimis,  Leo  magne,  dedisti, 
Debnit  exitium  dextra,  dedit  veniam. 

Scilicet  hoc  Medicum  est:   quod  fesso  aetate  senecti  (aie). 
Tu  facis,  hoc  iu\reni  fecerat  ante  Pater. 

Però  accanto  alla  letteratura  elogiativa  serpeggiavano  e  si  dif- 
fondevano gli  epigrammi  denigratori  dei  fatti  e  del  carattere  di  Leo- 
ne. Come  saggi  da  porre  accanto  al  nostro,  riporteremo  dal  Koscoe 
(cap.  XXIIT,  §  17  e  19)  altri  due  epigrammi  di  tal  genere,  benché  non 
riferentisi  al  Kiario. 

1.  Sacra  sub  extrema  si  forte  requiritis  bora 
Cur  Leo  nou  poterit  (sic)  sumere  :   vendiderat. 

2.  Obruta  iu  hoc  tumulo  est  cum  corpore  fama  Leonia, 
Qui  male  pavit  oves,  nunc  bene  pascit  bumum. 


Catania. 


Carlo  Pascal. 


LA  AADONNA  DELL'ANNUNZIATA  IN  TRAPANI. 


E  ben  conosciuta  la  storia  della  Madonna  di  Francesco  Laurana 
che  si  trova  a  Monte  S.  Giuliano.  Come  narra  il  Di  Marzo,  secondo 
il  gesuita  Giovanni  Amato,  «  Paolo  di  Gammiccliia,  arciprete  di  Erice, 
e  Paolo  Toscano  ,  allogarono  per  la  lor  chiesa  madre  a  Francesco  Lau- 
rana, una  statua  di  Nostra  Donna  a  simiglianza  dell'altra  più  antica 
nel  convento  dell'Annunziata  fuori  le  mura  di  Trapani,  pel  prezzo  di 
once  venticinque  (L.  318,  75),  per  pubblica  convenzione  fatta  pure  in 
Palermo  agli  atti  di  notar  Antonio  di  Messina  ».  11  Di  Marzo  aggiunge 
che  non  ha  potuto  trovare  tale  strumento  ,  di  modo  che  mi  pare  im- 
possibile di  stabilirne  il  testo  esatto.  Quando  Laurana  ebbe  fornito 
la  sua  opera  «  gli  uftìziali  preposti  al  municipal  reggimento  della  città 
[Palermo]  impedirono  affatto  ch'ella  ne  fosse  uscita,  e,  cominciatosi 
tosto  con  religioso  fervore  a  venerarla,  l'arcivescovo  Paolo  Visconti 
la  locò  incontanente  nel  duomo  col  titolo  di  S.  Maria  Maggiore,  o  di 
Monte  Maggiore.  Perlochè,  non  potendo  più  averla,  gli  Ericini  con- 
vennero eoll'artence  per  un'altra  simile  statua  agli  atti  del  lor  notaio 
Ruggiero  di  Salute  a  10  agosto  del  1109,  obbligandolo,  che  di  Pa- 
lermo, isgrossatone  il  marmo,  la  portasse  e  finisse  in  Erice.  Del  che 
è  detto,  colla  testimonianza  de'  documenti,  in  un  manoscritto  di  storia 
ericina  di  Vito  Carvini,  della  cui  autorità   si  giova  l'Amato  »  ', 

Le  parole  di  questo  documento  che  ci  interessano  più,  sono  quelle 
che  fanno  allusione  alla  Madonna  dell'  Annunziazione  di  Trapani.  Paolo 
di  Gammicchia  e  Paolo  Toscano  vi  obbligano  1'  artefice  Laurana  di 
fare  un'opera  «  ad  instar  et  similitudinem  imagiitis  marmoreae  P>.  M. 
Virginis,  quae  est  in  conventi!  S.  Mariae  Annuntiatae  extra  civitatem 
Drepani  »  2,  e  Francesco  Laurana  promette  ,  dopo  clic  i  Palermitani 
hanno  ritenuto  la  Madonna  ordinata  dagli  Ericini,  di  fare  «  imam  aliam 
hnaginem   Virginis  praedictae  de  petra  marmorea,  (piani  dictus  Fran- 


:  Di  Marzo,  /.    Gagini.  Palermo,   188:5.  I.  p.    Ili,    17. 

2  Di  Marzo,  /.    Gagini.   Palermo,   ISSI,   II,   p.   S.  —  Come  si   vede,    le  parole 
«  più  antica  >    sopra  citate,  sono  aggiunte  dal  d'Amato. 


348  W.    ROLFS.  PARTE   II. 

ciscus  asseruit  de  proximo  Imbuisse  et  habere  in  dieta  urbe  Panormi, 
ipsamque  imaginem  facere  melioratam  imaginis  hujusmodi  praedictae 
civitatis  Drepani  extra  moenia  dietae  civitatis  ,  vel  saltelli  ad  simili- 
tudinem  imaginis  praedictae,  et  comodo  et  forma  »  ete.  * 

Come,  modello  delle  Madonne  di  Monte  S.  Giuliano  e  del  Duomo 
di  Palermo,  la  Madonna  dell'Annunziata  di  Trapani  guadagna  dunque 
un  interesse  straordinario  per  lo  studioso  delle  opere  di  Laurana. 

Qnal  è  la  sua  storia  ? 

Sfortunatamente,  gli  antichi  archivi  di  Trapani  furono  distrutti  2. 
«  Temporum  injuria  scriptorumque  incuria,  liujus  S.  Imaginis  adventus 
obsenrus  est  »  3. 

Inoltre,  la  leggenda  s'  è  impadronita  della  storia  con  un  suceesso 
completo.  Secondo  il  Ferro  «  la  più  fondata  opinione  »  sarebbe  quella, 
«  di  esserei  giunto  [il  simulacro]  nel  1291,  sotto  il  regno  del  re  Gia- 
como di  Aragona.  Sembra  eerto  ,  che  fosse  stato  scolpito  in  Cipro; 
portato  in  Tolemaide  di  Fenicia  ;  e  da  quei  luoghi  orientali  (invasi 
poscia  dalle  armate  di  Saladino)  trasmigrato  qui  in  Trapani.  Kon  è 
improbabile  la  fama,  che  avesse  decorato  colà  una  commenda  di  Tem- 
plari, di  cui  v'era  investito  un  certo  cavalier  Pisano  ,  di  nome  Guer- 
reggio; che  giunto  in  questo  porto,  assordato  egli  dalle  instanze  del 
popolo  ,  vi  dovè  lasciare  questa  imagine  ,  che  ha  ricevuto  un  culto 
sempre  grandioso...  Si  va  intanto  per  infallibili  rapporti  storici,  con- 
solidati da  documenti,  che  un  tal  simulacro,  sin  dall'  epoca  del  suo  ar- 
rivo, fosse  stato  affidato  dalla  città  alla  famiglia  Carmelitana.  La  sag- 
gezza di  una  tale  scelta  giustifica  abbastanza  la  condotta  tenuta  allora 
del  popolo,  e  da'  suoi  magistrati,  nell'aver  ammesso  in  mano  dei  fi- 
gliuoli di  Flia,  un  monumento  così  prezioso,  e  venerando  »  4. 

Il  valore  critico  di  questi  «  rapporti  storici  consolidati  da  docu- 
menti »  è  nullo.  Tutto  ciò  che  si  può  asserire  è  che  la  Madonna  del- 
l'Annunziazione  fu  sempre  al  posto  ove  si  trova  ora ,  e  che  fu  sempre 
tenuta  in  somma  venerazione.  S' intende  che  per  aumentarne  il  pregio 
la  si  faceva  molto  antica,  e  il  nome  del  «  cavalier  Pisano  »  e  signifi- 
cativo per  la  ragione  che  fin  adesso  non  mancano  eruditi  che  l'attri- 
buiscano all'arte  pisana  5. 


i  1.  e.   p.  9.  —  Qui   pure  non  è  quistione  di  una  statua  «più  antica». 

2  «  Caenobii  fuere  omnia  igne  combusta  tempore  pestis  ».  Ex  Decr.  regis  Feder. 
an.  1499,  citato  dal  F[erro],  G.  M.  D.,  Guida  per  gli  stranieri  in  Trapani,  Tra- 
pani, 1825,  p.  287. 

3  Pirri,  Sic.  Sacra,  II,  VI,  pag.   878,  citata  dal  Ferro,  1.  e. 

4  Ferro,  1.  e,  p.   288,  289. 

5  Venturi,  Storia  dell'arte  ital.,  IV,  p.  263,  la  tratta  brevemente  come  imita- 


PAKTE   II.  LA   MADONNA   DELL'ANNUNZIATA   IN   TRAPANI.  349 

Sarebbe  dunque  P  arte  pisana  il  modello  di  Francesco  Laurana 
per  le  madonne  siciliane,  Parte  di  Giovanni  Pisano  ?  Quando  si  esa- 
mina da  vicino  la  Madonna  di  Trapani ,  non  vi  si  vede  alcuna  traccia 
di  lavoro  pisanesco.  È  vero,  che  Pesame  critico  di  quelPopera  è  oltre- 
modo difficile.  La  cappella,  dove  essa  è  posta,  è  oscurissima;  la  Ma- 
donna stessa  è  coperta  dai  piedi  fino  alla  testa  da  ex-voto  d'argento, 
specialmente  di  orologi.  Guardando  così  superficialmente  non  si  vede 
quasi  nulla.  Però  ,  un  esame  più  attento  rivela  che  la  Madonna  è 
senza  dubbio  lavoro  del  Quattrocento.  E  (piando  si  osservano  le  teste 
della  madre  e  del  bambino ,  gli  occhi  senza  pupille  e  leggermente 
curvi,  le  mani  lunghe  modellate  alla  maniera  lauranesca,  i  capelli  del 
bambino  che  toccan  la  faccia,  sopra  le  orecchie,  il  movimento  di  esso 
bambino  quasi  attaccato  al  petto  della  madre  e  una  quantità  di  altri 
indizi,  noi  ci  troviamo  subito  a  fronte  dell'idea  che  il  modello  delle 
Madonne  di  Palermo  e  di  Monte  S.  Giuliano  debba  essere,  anch'esso, 
della  stessa  officina,  cioè  di  Laurana  e  di  Domenico  Gagini. 

Per  quanto  ardita  possa  parere  al  primo  momento  questa  attri- 
buzione, essa  non  ha  nulla  di  straordinario.  Xella  statua  di  Trapani 
sì  trovano  tutte  le  altre  particolarità  delle  madonne  del  Laurana. 
Tediamo  come  la  descrive  il  Ferro,  da  persona  che  Pha  vista,  quando 
non  era  tutta  coperta  da  ex- voto  :  «  L'  altezza  di  questa  statua  è  di 
palmi  sei  e  due  terzi...  11  marmo  è  (niello  finissimo  orientale,  chiamato 
Xassio,  di  cui  abbonda  l'isola  di  Cipro.  Le  grazie  delle  sue  forme,  i 
contorni  delle  sue  parti ,  le  sue  bellezze  non  ricercate,  ma  che  nascono 
dalla  natura,  la  giusta  proporzione  dei  membri  ,  la  struttura  degli  or- 
gani, ci  annunziano  chiaramente  di  essere  un'opera  degna  dei  greci, 
e  dei  greci  dei  più  bei  giorni  dell'arte.  —  La  Vergine  è  vestita  di  una 
lunga  tunica,  che  le  cuopre  il  piede  sinistro.  LI  (/inocchio  destro  è  un  poco 
rialzato,  come  in  atto  di  muoverlo.  Tiene  sul  manco  braccio  il  bambino, 
e  colla  mano  destra  stringendo  la  mano  del  figlio,  se  l'avvicina  al  petto  l. 
Ljo  reciproca  compiacenza  dei  loro  teneri  sguardi ,  mette  un  certo  riso 
sulle  loro  labbra.  Rimirato  questo  simulacro  dal  suo  vero  punto  visuale, 
presenta  ad  un  maestoso  sembiante  un  misto  di  grazia,  di  leggiadria  e  di 
dolce  maestà  »  \  Nemmeno  mancano  altri  segni   caratteristici.   Il  manto 


/.ione  delle  opere  di  Giovanni  Pisano  e  non  dice  di  che  secolo  è.  Vi  è  un  distinto 
ricordo  dell'  arte  pisana  nel  movimento  della  testa,  la  quale  è  volta  a  sinistra  e 
verso  il  bambino,  e  nel  vestimento  della  Madonna  —  cose  che  non  si  ripetono  nella 
Madonna  di  Palermo  e  di  Monte  S.  Giuliano.  Ma  questo  mi  pare  non  basti  per 
escludere  l'ipotesi  da  tue  proposta.  Vedi  l'illustrazione  data  dal  Venturi,  p.  264  (189). 

1  Un   pezzo  di  marmo  fa  sostegno  alle  mani   unendole  al  petto. 

2  Ferro,  1.   e,  p.  289. 


350  W.    KOLFS.  PARTE   II. 

e  l'abito  della  statua  di  Trapani  è  al  pari  di  quelle  di  Palermo  e  di 
.Munte  S.  Giuliano  guarnito  di  «  parole  Siriache  in  oro»,  come  dice  il 
Ferro.  È  la  maniera  ben  nota  di  ornare  di  lettere  così  dette  «  orien- 
tali »  i  costumi  delle  persone  della  storia  santa,  maniera  che  è  sem- 
plicemente un  bordo  decorativo  popolarissimo  nel  quattrocento. 

Abbiamo  detto  :  l'officina  di  Laurana  e  di  Gagini.  Entrambi  han 
lavorato  lungo  tempo  insieme  ed  hanno  avuto,  se  nulla  m'inganna, 
anche  un  opifìcio  comune  in  Palermo  :  così  soltanto  possono  spiegarsi 
le  analogie  spesso  meravigliose  nella  maniera  in  cui  son  concepite  ed 
eseguite  le  loro  opere  siciliane. 

Si  chiederà  :  il  Laurana  non  poteva  da  solo  avere  compiuta  la 
Madonna  di  Trapani  'ì 

Le  ragioni  che  stanno  contro  questa  ipotesi  son  le  seguenti. 

Il  panneggiamento  della  statua  di  Trapani  è  fondamentalmente 
diverso  da  quello  di  tutte  le  altre  Madonne  del  Laurana.  L'atteggia- 
mento reciproco  della  madre  e  del  tìglio  è  in  quella  più  marcato  che 
nelle  altre;  esso  è  già  notevolmente  più  debole  nella  Madonna  di  Monte 
S.  Giuliano,  e  scompare  in  quella  del  Duomo  di  Palermo  come  nelle 
altre.  È  poi  assai  diffìcile  fissare  per  Laurana  un  tempo  in  cui  egli  possa 
aver  compiuta  la  statua  di  Trapani.  Xoi  possiamo  rilevare,  specie  dal 
secondo  soggiorno  di  questo  scultore  in  Francia,  che  egli  deve  aver 
accettata  contemporaneamente  una  serie  non  piccola  di  commissioni, 
che  perciò  non  può  avere  disimpegnate  se  non  per  opera  dei  suoi  sco- 
lari e  de'  collaboratori  del  suo  opificio;  rimane  tuttavia  a  considerare 
che  immediatamente  dopo  il  suo  arrivo  in  Sicilia  ,  nel  1467,  noi  tro- 
viamo il  maestro  occupato  in  lavori  a  Partanna  ed  a  Sciacca,  e  che 
nel  14C9  la  Madonna  da  eseguire  sul  modello  di  quella  di  Trapani 
era  già  pronta  e  veniva  sequestrata  dalla  città  di  Palermo  per  il  suo 
Duomo;  è  necessario  perciò  che  i  lavori  del  Laurana  in  Partanna 
ed  in  Sciacca  ,  la  Madonna  di  Trapani  nonché  quella  del  Duomo  di 
Palermo  siano  tutte  venute  fuori  nel  breve  intervallo  tra  il  1407  ed 
il  14G9,  il  che  non  sarà  impossibile,  ma  non  è  neppur  facile  ad  am- 
mettere. 

In  queste  circostanze  ,  io  inclino  a  credere  che  la  Madonna  di 
Trapani  è  opera  uscita  dall'opificio  di  Domenico  Gagini,  alla  quale  il 
Laurana  può  aver  data  l'ultima  mano  :  Domenico  teneva  le  Madonne 
a  provvista  —  ciò  che  e  dimostrato  dalla  lite  eh'  ebbe  a  Barcellona. 

Lo  stesso  dobbiamo  pensare  anche  della  Madonna  di  Monte  S.  Giu- 
liano. Poiché  anche  questa,  nonostante  che  in  base  ai  documenti  ap- 
partenga a  Francesco  Laurana ,  è  in  realtà  un  lavoro  della  ditta 
Gagini-Laurana  in  Palermo   e    quest'  ultimo  le  die'    gli  ultimi  tocchi 


PARTE    II.  LA    MADONNA    DELL'ANNUNZIATA    IN    TRAPANI.  351 

quando  essa  era  già  al  suo  posto.  Essa  porta  l'impronta  della  conce- 
zione gaginesca  e  mostra  la  mano  del  Dalmata  solo  nella  maniera  in 
cui  è  ultimata  e  compiuta,  al  contrario  di  quanto  si  scorge  nella  Ma- 
donna di  Sciacca,  della  Cappella  Mastrantonio  in  Palermo  ,  di  Noto 
e  di  Messina. 

In  ogni  modo ,  per  quel  che  riguarda  la  Madonna  di  Trapani, 
1'  esame  esatto  e  coneludente  non  si  può  fare  se  non  sgombrando  il 
manto  di  ex-voto  che  la  copre  e  che  ne  impedisce  lo  studio  critico 
oscurato  inoltre  da  una  tradizione  fantastica. 

Miesbach  presso  Monaco  (Baderà). 

Wilhelm   Rolfs. 


UN  DOCUMENTO  INEDITO  DI  FRANCESCO  DI  LAURANA. 


In  seguito  ad  un  notevole  documento  palermitano  del  1468,  già 
da  me  rinvenuto  e  pubblicato  sullo  scultore  Francesco  di  Laurana  *, 
mi  è  grato  adesso  poter  darne  alla  luce  un  altro  del  medesimo  anno 
e  che  pur  lo  riguarda,  non  mai  fin  qui  stampato,  dai  registri  del 
Protonotaro  del  regno  di  Sicilia  (reg.  66,  e.  63)  nell'Archivio  di  Stato 
in  Palermo. 

Esso  è  il  seguente  : 

Pro  JHagistro  Francisco  Laureino  sculptori. 

Johannes,  eie.  —  Vicercx,  eie.  Nobili  Baroni  terre  partanne  eonsiliario  B.  d.  8. 
Noviter  ni  è  stato  cum  gravi  querela  reverenter  expostu  pri  parti  di  mastro  francisco 
laurano  sculpturi  corno  commorando  ipso  in  quissa  vostra  terra  ad  vostra  priyera  vi 
prestao  linci  sey  comu  si  dichi  conteniri  in  una  apodixa  subscripla  di  vostra  manu 
propria;  et  dimandanduci  ipso  exponenti  li  dicli  unci  sey  pir  chi  intendia  partirisi  pri 
fari  facti  soy,  li  denegastivo  roliri  quilli  restituiri,  et,  quod  peius  est,  hacendusi  ips- 
conferuto  in  la  terra  di  xaeca,  vui  li  fachistico  prendivi  dui  soy  figuri  sculpiti  di  alao 
bastro,  li  quali  ipso  havia  lavorato,  et  edam  certi  altri  soy  cosi  et  ferramenti,  dichen- 
dochi  volivi  chi  vegna  in  la  dieta  vostra  terra  pir  pigiavi  et  lavorari  dili  petri,  li  quali 
su  in  lo  territorio  di  la  vostra  terra  predicta;  et  non  obstanti  più  volti  vi  havissi  pri- 
gato  et  riquesto  li  volissivo  restituiri  li  dicti  dinari,  figuri  et  ferramenti,  usque  adeo 
haviti  ricusato  fatilo  in  eius  grave  dapnnm,  preiudidum  et  interesse.  Supplicaiidoni 
propterea  humiliter  super  premissis  li  volissimo  de  opportuno  juris  anxilio  debite  prò- 
vidiri,  qua  supplicacione  admissa,  ìiiaraviglati  nui  de  premissis  ,  si  ita  est  proni  expo- 
nilur,  vi  dichimo  et  comandatilo  expresse  chi  digiati  restituiri  alo  dicto  exponenti  li  dicti 
mici  sey,  per  ipso  a  vui  prestati  ut' saprà,  et  li  figuri  et  ferramenti  predicti  ac  edam 
t ucti  altri  cosi  soy,  chi  haviti.  Et  si  forte  aliquod  jus  pretenditis  contra  dietimi  magi- 
strum  franciscum,  digiati  legitime  comparivi  innanli  a  nui  infra  termino  di  jorni  odo, 
a  die  presentacionis  et  intimacionis  parcium  in  antea  numerando;  et  auditis  juribus 
utriusque  partis,  vi  sarrà  ministrato  complemento  di  justicia,  et  premissa  exequiri  cum 
effectu,  non  di  facendo  modo  aliquo  in  contrariarli  per  quanto  haviti  cara  la  grada 
regia,  sub  pena  unciarum  centum  regio  fisco  applicandarum.  —  Datura  panhormi  xxij.° 
May  prime  Ind.  (M.°  cccc.°  lxviij.°). 

LOP.    XIMENEZ   DURREA. 

Dominile  vicercx  mandavit  mihi  Antonio  sollima,  et  vidit  eam  Bertus. 


1  Nell'opera  I  Gagini  e  la  scultura  in  Sicilia    nei    secoli  XV  e  XVI.  —  Paler- 
mo, 1883,  voi.  II,  pagg.  7-8,  doc.  V. 


PARTE    II.  UN   DOCUMENTO    INEDITO    DI    FRANCESCO    DI    LAURANA.  353 

Xe  appare  adunque  ,  che ,  regnando  in  Sicilia  Giovanni  di  Ca- 
stiglia,  il  viceré  Lopez  Ximenez  de  Urrea,  in  data  de'  22  di  maggio 
dell'anno  1408,  scrisse  al  barone  di  Partanna  (allora  Onofrio  Grifeo, 
undcciino  barone,  ed  insieme  visconte  di  Galletten  in  Sardegna),  avendo 
sporto  grave  querela  contro  di  lui  appunto  lo  scultore  Francesco  di 
Laurana.  Costui  aveva  esposto  in  essa,  che,  stando  in  Partanna,  terra 
feudale  in  quel  tempo  ed  oggi  comune  in  provincia  di  Trapani,  aveva 
prestato  once  sei  a  quel  barone  con  apoca  da  lui  soscritta,  e  che  poi 
richiestele,  dovendo  indi  partirsi  per  sue  faccende,  si  era  quegli  ne- 
gato a  restituirle:  oltreché,  partitosi  egli  e  recatosi  a  Sciacca,  quel 
prepotente  gli  aveva  fatto  sepuestrare  due  figure  da  lui  scolpite  in 
alabastro  ,  non  che  alcuni  suoi  ferri  ed  altro,  ed  avevagli  ingiunto 
che  ritornasse  per  intendere  al  lavoro  di  cavamento  e  d'intaglio  di 
certa  pietra  del  suo  territorio.  Xè  mai  eran  valse  istanze  e  preghiere 
per  indurlo  a  restituire  il  mal  tolto;  e  ciò  con  grave  danno,  pregiu- 
dizio ed  interesse  dell'esponente.  Laonde ,  avendo  fatto  appello  il 
Laurana  all'autorità  del  viceré,  costui,  sorpreso  dell'occorso,  ordinava 
al  barone,  che  gli  rendesse  ogni  cosa,  danaro,  figure,  ferri  e  tutt'altro 
di  suo.  Che  se  poi  pretendesse  avere  alcuna  ragione  contro  lo  scul- 
tore, venisse  fra  otto  giorni  a  sperimentarla  in  giudizio;  e.  dopo  udite 
ambe  le  parti,  si  sarebbe  fatta  giustizia.  Invece,  non  adempiendo, 
perderebbe  la  grazia  regia,  e  incorrerebbe  in  una  multa  di  cent'once, 
applicabili  al  regio  fisco. 

Questo  documento  è  il  più  antico,  che  fin  ora  si  sia  rinvenuto, 
del  soggiorno  del  Laurana  in  Sicilia  ,  essendo  anteriore  di  dodici 
giorni  a  quello  del  2  di  giugno  dello  stess'anno,  ond'egli  e  Pietro  di 
Bonate  si  obbligarono  insieme  per  le  sculture  della  cappella  dei  Ma- 
strantonio  in  San  Francesco  d'Assisi  in  Palermo  ,  non  che  di  circa 
quindici  mesi  all'altro  dei  16  d'agosto  del  1400,  onde  promise  scol- 
pire una  seconda  statua  della  Madonna  per  la  maggior  chiesa  di 
Montesangiuliano.  Il  documento  medesimo  precede  intanto  di  tre  anni 
l'altra  statua  della  Vergine  col  divin  Putto,  da  lui  scolpita  ed  esi- 
stente in  Noto  nella  chiesa  del  Crocifisso,  recando  dappiè  riscri- 
zione: FKAXCISCVS  LAVPAXA  .AIE  FECIT  1471.  Con  che  fin  ora 
appare  indubitato  almeno  un  triennio  di  sua  dimora  in  Sicilia.  Non 
si  sa  però  perchè  sia  stato  in  Partanna  prima  del  22  di  maggio  del 
14(>S,  nò  a  qual  uopo  volevasi  chVi  cavasse  e  lavorasse  del  tufo  di 
(pud  territorio,  nò  (piai  destino  abbiano  avuto  le  due  ligure  da  lui 
scolpite  in  alabastro  e  che  gli  furono  sequestrate,  nò  come  sia  andata 
a  finire  la  sua  vertenza  con  «pici  barone.  Solo  ò  da  pensare  che,  a 
parte  della  scultura  ,  siasi  egli  pure  occupato  di  fabbriche,  e  quindi 

23 


354  G.    DI    MARZO. 


si  il  stato  adoprato  a  riforme  o  a  decorazioni  edilizie  in  quel. castello 
baronale.  Il  che  ha  più  ragione  dal  fatto,  che  dalmati  entrambi  furon 
Francesco  e  l'architetto  Luciano  da  Laurana,  e  ch'entrambi  lavora- 
rono in  Napoli ,  onde  non  sembra  infondata  1'  opinione  del  Muntz, 
che  siano  stati  della  stessa  famiglia,  e  probabilmente  fratelli  *.  Del 
resto  in  Partanna  nulla  vi  ha  di  notevole  in  fatto  di  sculture  ,  lad- 
dove di  tredici  statuine  di  marmo,  ch'erano  nel  giardino  di  quel  ca- 
stello, una,  che  rappresentava  Giovanni  Grifeo,  capostipite  di  sua  fa- 
miglia e  primo  barone,  fu  ridotta  in  polvere  nel  1854  per  dare  il 
bianco  alla  maggior  chiesa,  e  le  altre  dodici ,  che  figuravano  i  mesi 
dell'anno,  decorando  i  diversi  viali,  scomparvero  tutte  e  non  ne  resta 
vestigio.  Non  appare  intanto  che  specialmente  queste  ultime,  a  giu- 
dicarne dai  soggetti,  abbiano  potuto  avere  alcun  rapporto  col  Laurana. 
Sciacca  invece,  dove  l'insigne  scultore  si  recò  da  Partanna,  dà 
adito  a  migliori  indagini  intorno  ad  opere,  ch'ei  potè  avervi  fatto,  e 
specialmente  nella  chiesa  di  S.  Margherita.  Questa  chiesa ,  secondo 
il  Pirri  2,  fa  eretta  e  dotata  dall'infante  Eleonora  d'Aragona,  figlia 
di  Giovanni ,  duca  d'Atene  e  di  Neopatria  ,  e  moglie  di  Guglielmo 
Peralta,  come  risulta  da  regie  lettere  del  1342  e  del  1375.  Vi  ebbero 
ospizio  i  Teutonici,  e  fu  perciò  dipendenza  della  loro  Magione  in  Pa- 
lermo ;  ed  altresì  vi  ebbe  sede  una  congrega  di  disciplinanti  o  bat- 
tuti, di  cui  è  già  ricordo  dal  1393.  Più  tardi  un  Antonio  Pardo  lar- 
gheggiò molto  del  suo  in  favore  di  essa,  siccome  accenna  il  Fazello  3j 
ed  il  Pirri  non  lascia  di  notarvi  signum  marmoreum  uffabre  scutytum, 
cioè  l'antica  statua  di  S.  Margherita,  che  ancora  vi  esiste.  Né  il  culto 
ne  venne  meno  nel  secolo  decimottavo,  laddove  appare  che  ai  20  di 
luglio  del  1711,  per  la  festività  della  Santa,  vi  fu  rappresentata  una 
tragedia  del  martirio  di  essa,  scritta  da  un  Gioacchino  Bona  e  Far- 
della  e  stampata  in  Palermo  con  dedica  a  Michele  Arone  e  Tagliavia, 
barone  di  Valentino  e  protettore  di  detta    chiesa  *.  Oggi  però  essa, 


1  Vedi  due  articoli  di  Anatole  de  Montaiglon,  Francesco  Laurana,  in  Chronique 
des  Art»  et  de  la  curiosité  ;  supplément  a  la  Gazette  des  Beaux-Arts.  (Paris,  1881, 
n.  10,  pag.  79;  n.  14,  pag.  Ili);  ed  ivi  una  lettera  del  Muntz.  —  Cfr.  Di  Marzo, 
I  Gagini,  ec,  voi.  II,  pag.  23,  in  nota. 

2  Sicilia  sacra.  —  Pauormi,  1733,  toni.  I,  pag.   736. 

3  De  rebus  siculis.  —  Pauormi,  1560,  dee.  I,  lib.  VI,  pag.   145. 

4  Nella  Biblioteca  Comunale  di  Palermo  ne  esiste  un  esemplare  ai  segni 
CXXXVI  B  135,  n.  1.  Ed  eccone  il  titolo  :  Il  Martirio  di  S.  Margherita  ,  vergine 
antiochena;  tragedia  di  Don  Giachixo  3ona  e  Fardella,  da  rappresentarsi  nel  famoso 
e  celebre  tempio  di  detta  Santa,  eretto  nella  città  di  Sciacca,  il  giorno  della  sua  festività 
a  20  luglio  1111.  Dedicata  al  signor  Don  Michele  Arone  e  Tagliavia,  barone  di  Valen- 
tino e  protettore  della  sudetta  chiesa.  —  In  Palermo,  per  Antonio  Epiro,  1711.  In-16°. 


PARTE    II.         UN   DOCUMENTO    INEDITO    DI    FRANCESCO   DI    LAURANA.  35o 

per  manco  di  ogni  suo  avere,  è  chiusa  al  culto  e  crollante.  Laonde 
occorre  apprestarvi  riparazioni  opportune  ;  e  ciò  almanco  a  scongiu- 
rare il  pericolo  che  vada  del  tutto  a  male  quanto  vi  ha  di  notevole 
in  arte.  Imperocché,  a  tacere  di  una  pittoresca  decorazione  architet- 
tonica in  tufo  nella  porta  maggiore,  lavoro  del  '500,  vi  meritano  spe- 
ciale studio  le  sculture  marmoree  pregevolissime  della  porta  laterale, 
e  quelle  di  xmHcona  parimente  in  marmo  nella  cappella  della  Santa 
al  di  dentro  :  le  une  e  le  altre  opera  del  Rinascimento  e  di  scalpello 
italiano,  ma  che  certo  non  appartengono  ad  un  medesimo  artefice. 

Quella  porta  laterale  è  specialmente  di  tale  eleganza  da  ben  po- 
tersi annoverare  fra  le  più  belle  opere  di  scultura  esistenti  in  Sicilia 
del  '400  l.  Rettangolare  di  forma,  reca  essa  gli  stipiti  decorati  nella 
parte  superiore  da  due  vaghe  figurine  di  Santi  in  piedi  ed  in  alto- 
rilievo, la  Maddalena  e  S.  Calogero  forse ,  e  più  in  su  da  graziosi 
ornati  con  due  conchiglie  e  quattro  testine  o  busti  di  angioletti,  cui 
fan  riscontro  al  di  sopra  nell'architrave  retto  e  sotto  la  cornice  di 
esso  cinque  altre  testine  di  angeli  o  di  fanciulli.  Fiancheggiano  in- 
tanto gli  stipiti,  ed  il  vano  della  porta  con  essi,  due  colonnine  svelte 
e  sottili  ,  elegantissime  ,  faccettate  da  più  della  metà  in  giù,  ed  ivi 
legata  ciascuna  da  un  bel  nodo,  pur  con  testine  angeliche,  alla  parte 
superiore,  che  si  compone  di  cordoncini  in  fascio.  Sul  più  vago  e  fine 
corinzio  dei  due  capitelli  ricorre  poi  la  cornice  dell'architrave,  dando 
luogo  al  di  sopra  in  mezzo  ad  un  semicerchio  ,  ricco  di  tini  ornati 
come  a  ricamo,  dentrovi  S.  Margherita  di  fronte  ed  in  mezza  figura, 
con  libro  aperto  in  mano  ed  al  di  sotto  prosteso  il  dragone  infernale, 
mentre  quattro  angioletti,  due  per  ciascuna  banda,  le  son  daccanto 
genuflessi  in  atto  di  preghiera.  Una  larga  cornice  esteriore  del  semi- 
cerchio indi  si  allunga  elegantemente  nel  mezzo  ,  sviluppando  sovra 
esso  un  bel  pennacchio  cuspidale  ,  che  ha  nel  centro  un  Dio  Padre 
benedicente  in  mezza  figura  ,  fra  quattro  angioletti  in  ginocchio  dai 
lati,  oltreché  tre  altri  in  piedi  gli  stanno  dietro.  Ed  altri  due  begli 
angeli  in  piedi  e  con  le  braccia  conserte  sul  petto  fiancheggiali  ora 
esternamente  la  sommità  della  cuspide  ,  sporgendo  isolati  dal  muro, 
in  cui  non  si  sa  (piando  furon  muraci.  Ma  son  fuor  di  luogo,  benché 
dello  stesso  scalpello  ;  e  non  dubito  ch'essi  in  prima  doveano  aver 
posto  in  cima  a  due  candelabri,  che  certo  ergevansi  da'  lati  del  se- 
micerchio fin  presso  al  Dio  Padre,  e  di  cui  ora  non  restano  (die  due 
belle   figure    sottostanti    della   Vernine  Annunziata  e  dell'angelo  Ga- 


1   Vedi  iìg.   55,  da  una  fotografia  del  signor  Sebastiano  Agati. 


356 


G.    DI    MARZO. 


bride  sulle  due  estremità  della  cornice  dell'architrave  e  sui  capitelli 
delle  due  colonnine.  Tali  figure  in  fatti  sporgono  entrambe  in  alto- 
rilievo dal  marmo,  che  bruscamente  d'ambo  le  parti  è  rotto  al  di  so- 


Fiz.  55. 


PARTE    II.         UN    DOCUMENTO   INEDITO    DI   FRANCESCO   DI   LAURANA.  357 

pra,  talchi'  ancor  vi  si  vedono  più  o  meno  unitilo  due  conchiglie,  con 
cui  cominciavano  i  due  candelabri  distrutti.  Ne  questa  sola  mutila- 
zione ebbe  a  subire  sì  bella  opera  d'arte,  laddove  altresì  la  cornice 
esterna  del  semicerchio  centrale  vi  è  monca  «l'ambo  i  lati  nella  parte 
inferiore.  Ma  nonpertanto  per  tutto  il  resto  essa  è  tale  opera  da  non 
doversi   attribuire  che  ad  eccellente  maestro. 

Sommamente  ne  differisce  per  una  eerta  fiacchezza  di  stile  ed 
inferiorità  di  tecnica  V  icona  parimente  di  marmo,  eretta  sull'altare 
della  cappella  di  S.  Margherita  nella  chiesa  medesima  l.  Sopra  una 
predella,  in  cui  ricorrono  undici  mezze  figurine  di  Sante  vergini  dai 
lati  d'una  del  Cristo  in  passione  ,  che  occupa  il  centro  ,  si  ergono 
quattro  pilastri  corinzii  con  fregiature  già  sviluppate  del  Rinasci- 
mento, le  quali  pure  adornano  due  larghe  fasce  verticali  ed  aderenti 
ai  due  pilastri  esteriori.  Altre  due  simili  fasce  più  strette  aderiscono 
internamente  agli  altri  due  ,  decorando  gli  stipiti  d'una  nicchia  nel 
mezzo,  dove  in  grandezza  del  vero  sorge  una  pregevole  statua  della 
Santa  titolare.  Dai  lati,  negli  spazi  intermedi  fra  pilastro  e  pilastro, 
ricorrono  sei  scompartimenti,  tre  per  ciascun  lato,  dentrovi  storiette 
della  vita  e  del  martirio  della  Santa  in  altorilievo.  Indi  sui  quattro 
pilastri  ricorre  un  architrave  retto  con  fregio  fra  due  cornici,  e  sovra 
esso,  in  un  vano  rettangolare  nel  mezzo  e  fra  due  pilastrini  è  rap- 
presentato il  Presepe  col  nato  Gesù,  laddove  inoltre  dai  lati  sono  fra 
due  candelabri  due  nicchie  con  le  statuette  di  San  Pietro  e  San  Paolo, 
non  che  nel  vertice  con  allungati  fioroni.  Sul  vano  intanto  del  Pre- 
se})!' ha  luogo  una  cornice  con  tre  testine  di  serafini,  alla  (piale  so- 
vrasta un  mezzo  tondo  coll'Annunziata  e  l'Angelo  fra  due  minori 
candelabri,  e  più  su  in  cima  si  erge  una  mezza  figura  del  Dio  Padre, 
che  benedice.  Dal  complesso  poi  dell' /con  a  par  ch'essa  debba  prove- 
nire da  tale  artefice,  che  o  precedette  o  seguì  di  poco  il  primo  levarsi 
del  genio  di  Antonello  (ìagini  ,  ben  potendosi  argomentarlo  dall'ana- 
logia del  congegno  e  specialmente  dell'ornamentazione  con  simili  opere 
del  sovrano  scultore  palermitano.  Laonde  non  sembra  dubbio  ch'essa 
sia  stata  scolpita  non  pochi  anni  dopo  la  decorazione  marmorea  della 
porta  laterale  di  quella  chiesa,  indubitata  opera  del  più  bel  quattro- 
cento, ed  altresì  non  pochi  anni  dopo  il  triennale  soggiorno  del  Lau- 
rana  in  Sicilia.  Qui  dunque  gioverà  meglio  non  tenerne  conto  più 
oltre,  e  lasciarla,  come  suol   dirsi,   Cuori   combattimento. 

.Ma  che  andò  a   fare  a  Sciacca   il  Laurana,  recatovisi  da  Partanna 


1  Vedi  rig.   5(>.  da  una  fotografia  del  prof.  Salinas. 


$58 


G.    DI    MARZO. 


PARTE    II. 


prima  del  maggio  del  1468  ?  Non  vi  andò  certo  pei  bagni  termali, 
ne  per  mangiarvi  le  sogliole,  ma  pri  fari  facti  soy,  siccome  scrisse  il 
viceré  Durrea,  cioè  per  suoi  affari  dell'arte.  Or  dell'arte,  in  cui  tanto 


egli  valse,  viene  in  mente  potergli  attribuire  la  preziosa  decorazione 
architettonica  e  scultoria  in  marmo,  dinanzi  descritta  ,  dell'anzidetta 
chiesa  di  S.  Margherita  ,  siccome    quella    che  ben  rivela    dallo    stile 


PAKTE    II.  UN    DOCUMENTO    INEDITO    DI    FRANCESCO    DI    LAURANA.  339 

appartenere  appunto  al  tempo  della  dimora  del  medesimo  in  Sicilia, 
e  che  risponde  al  delicato  sviluppo  di  sentire  ed  all'eleganza  di  scal- 
pello, di  cui  egli  in  quest'  isola  generalmente  die  mostra  nelle  sue 
opere.  Provano  ciò  ,  a  mio  avviso,  i  rapporti  stilistici  delle  sculture 
figurative  di  essa  porta  con  l'autentica  sua  statua  della  Madonna  col 
divin  Pargolo  in  grembo,  già  detta  della  Presentazione  e  poi  di  Li- 
bera Inferni,  nel  duomo  palermitano,  con  quella  di  simigliante  sog- 
getto e  da  lui  stesso  firmata  in  Xoto,  con  una  parte  e  forse  la  più 
pregevole  delle  sculture  della  cappella  de'  Mastrantonio  in  San  Fran- 
cesco d'Assisi  in  Palermo,  ed  ivi  molto  probabilmente  altresì  col  pre- 
gevolissimo busto  di  Eleonora  d'Aragona,  di  già  trovato  dal  professor 
Salinas  nell'antico  monastero  benedettino  di  S.  Maria  del  Bosco  di 
Calatamauro  e  di  là  trasportato  al  Museo  Nazionale.  In  proposito  del 
quale  busto  giova  ora  considerare,  ch'esso  rappresenta  ({nella  mede- 
sima infanta  Eleonora,  maritata  a  Guglielmo  Perai ta,  la  quale  eresse 
e  dotò  al  suo  tempo  la  chiesa  appunto  di  S.  Margherita  di  Sciacca, 
e  fu  altresì  prodiga  di  sue  beneficenze  al  monastero  anzidetto  del 
Bosco,  presso  Giuliana.  Quivi  adunque  in  un  monumento  funebre  in 
memoria  di  lei,  eretto  nel  '400  non  poco  tempo  dopo  la  sua  morte, 
ebbe  luogo  il  connato  busto,  ch'è  ora  nel  Museo  di  Palermo;  e  poiché 
la  finissima  tecnica  di  un  tal  busto  mirabilmente  risponde  a  quella 
delle  sculture,  che  decorano  in  Sciacca  la  porta  laterale  della  chiesa 
di  S.  Margherita  ,  di  già  fondata  e  dotata  dalla  medesima  infanta, 
ben  è  da  stimare  che  l'imo  e  le  altre  siano  state  allogate  allo  stesso 
scultore,  e  quindi  più  o  meno  contemporaneamente  eseguite.  La  cer- 
tezza poi,  che  ora  si  ha  dell'andata  del  Laurana  a  Sciacca  non  molto 
prima  del  maggio  del  14(58,  accresce  peso  storicamente  a  pensare,  ch'egli 
forse  ne  sia  stato  l'autore. 

Esistono  intanto  busti  più  o  meno  simili  a  quello,  di  cui  qui  è 
discorso,  e  di  conforme  finezza  d'arte,  frai  (piali  ben  rinomato  quello 
dell'Incognita  al  Louvre,  ed  altri  nelle  collezioni  di  (instavo  Dreyfus 
ed  Eduardo  André  in  Parigi,  e  nei  musei  di  Berlino,  Vienna  e  Fi- 
renze: oltreché  un  altro,  ma  danneggiato,  ne  pervenne  al  museo  di 
Palermo  dal  vicino  convento  di  Laida.  Dei  busti  anzidetti  giudica  il 
Lode,  dotto  conservatore  del  museo  di  Berlino,  che  sien  opera  ap- 
punto di  Francesco  di  Laurana,  siccome  pure  il  Courajod  aveva  opi- 
nato dinanzi.  Pelò  emeriti  critici  d'arte  francesi  ne  dissentono  ,  non 
trovando  alcun  riscontro  fra  essi  e  le  sculture  eseguite  dal  Laurana 
in  Avignone.  Laonde  fu  prima  stimato  che  appartenessero  alla  Scuola 
fiorentina  e  più  precisamente  a  Desiderio  da  Settignano.  Ma  altri- 
menti opinò  André  Michel,  non  riconoscendovi  l'opera  di  Desiderio  e 


360  '  G.    I>I   MARZO. 


concludendo,  che  in  proposito  si  rimanga  in  assoluta  ignoranza.  Lo 
stesso  tenne  anco  il  Muntz,  e  propose  dar  luogo  ad  un  nuovo  arte- 
fice, nomandolo  il  Maitre  des  bustes  de  femmes  et  des  masqucs.  Ed 
inoltre  E.  Molinier  dichiarò  incisamente  ,  che  l'attribuzione  di  quel 
busti  al  Laurana  è  «  una  delle  maggiori  enormità  che  giammai  si 
siano  prodotte  »,  promettendo  bensì  «  dar  presto  la  soluzione  documen- 
tata di  questo  piccolo  problema  artistico  ed  iconografico  »,  Ma  la  so- 
luzione dal  1892  si  fa  ancora  attendere  ,  ed  il  problema  rimaneva 
insoluto  \  Entrò  allora  nel  campo  della  controversia  il  nostro  pro- 
fessore Salinas ,  e,  giovandosi  di  fotografìe  tirate  da  lui  medesimo, 
pose  in  confronto  in  una  sua  lettera  la  testa  della  Madonna  di  Noto 
col  busto  di  Eleonora  di  Aragona  nel  museo  di  Palermo  ,  e  l'ima  e 
l'altro  con  quello  del  Louvre,  e  ne  rilevò  che  a  torto  si  era  combat- 
tuta l'attribuzione  di  essi  al  Laurana.  Il  che  era  avvenuto  i>erchè  lo 
si  era  soltanto  studiato  nelle  sculture  dell'ultima  sua  maniera  in  Avi- 
gnone, e  non  già  in  quelle  anteriori  da  lui  eseguite  in  Italia  e  spe- 
cialmente in  Sicilia  2.  Ma  di  ciò  in  Francia  non  si  restò  convinti, 
negatasi  bruscamente  l'identità  di  espressione,  di  forme  e  di  tecnica  fra 
la  Madonna  di  Noto  ed  il  busto  di  Palermo  '\ 

Nondimeno  io  consento  all'opinione  del  Salinas,  pur  non  vedendo 
fra  l'ima  e  l'altro  identità  di  espressione  e  di  forme.  La  quale  iden- 
tità non  vi  è,  ne  vi  dev'essere,  stante  la  differenza  dei  soggetti  rap- 
presentati. L'ideale  della  Vergine  Madre  di  Gesù  nulla  può  aver  di 
comune  col  ritratto  aristocratico  d'una  gran  dama  di  regio  sangue, 
qua!  fu  Eleonora  d'Aragona  ;  e  la  diversità  di  ciò  dee  rispecchiarsi 
nell'arte.  Ma  ben  altrimenti  è  per  la  tecnica  di  tali  sculture,  giacche 
l'identità  della  tecnica  io  la  ravviso  in  esse  ,  convincendomi  che  dei 
pari  sieno  uscite  da  un  solo  scalpello  in  ragion  dell'estrema  finitezza 
ed  eleganza,  che,  a  mio  avviso,  vi  han  chiaro  riscontro.  Dico  altret- 
tanto ponendo  in  confronto  il  busto  medesimo  con  la  Madonna  del 
duomo  di  Palermo,  benché  deturpata  da  brutti  colori  nel  volto  e  spe- 
cialmente nei  capelli,  e  parimente  in  Palermo  coi  Padri  della  Chiesa 
in  altorilievo  nella  cappella  de'  Mastrantonio  in  San  Francesco  di 
Assisi ,  ed  ora    altresì    con  la  porta    marmorea    in  S.  Margherita  di 


1  Su  La  question  Laurana  vedi  la  rivista  mensuale  Les  Arts.  Paris,  1902,  nu- 
meri 2,  3  e  4. 

2  Nella  rivista  cit.  Les  Arts.  Paris,   1902,  n.   12. 

3  Iu  una  nota  della  direzione  della  rivista  Les  Arts ,  in  fine  alla    lettera  del 
prof.  Salinas. 


PARTE   II.         TJX   DOCUMENTO    INEDITO    DI   FRANCESCO    DI   LAURANA.  361 

Sciacca,  dove  l'eleganza  dell'architettura  decorativa  lia  mirabil  risalto 
dalle  preziose  figure,  che  ne  fan  parte.  Nonpertanto  è  mestieri  rico- 
noscere ,  che  il  Laurana  in  merito  non  è  mai  eguale  a  sé  stesso,  e 
che  talora  nell'arte  rivelasi  un  proteo  addirittura  :  dal  che  si  spiega 
com'egli  abbia  potuto  dare  alla  Madonna  di  Montesangiuliano  un 
volto  sì  privo  di  espressione  e  così  fiaccamente  condotto  da  nulla  in 
ciò  aver  di  comune  con  le  altre  due  Madonne  di  Palermo  e  di  Xoto 
e  sembrar  cosa  piuttosto  da  debole  scalpellino.  Laonde  ,  sospettando 
che  quivi  sia  mano  d'altri,  e  non  potendo  provarlo  con  documenti, 
giovami  rilevar  meglio  siccome  nella  Madonna  di  Xoto,  una  delle  ul- 
time opere  del  soggiorno  del  Laurana  nell'  isola,  il  Bambino,  ch'ella 
sostiene  in  braccio  e  che  amorosamente  la  guarda  in  viso,  in  nulla 
risponde  per  finitezza  di  esecuzione  all'intera  figura  di  lei,  sembrando 
invece  appena  sbozzato  e  quasi  non  finito.  Il  che  forse  fu  inizio  di 
quell'ultima  sua  maniera,  che  poi  tanto  prevale  nelle  sue  sculture  di 
Francia.  Queste  perciò  differiscono  dai  lavori  lasciati  in  Sicilia,  giacche 
la  tecnica  dell'artefice  ebbe  in  esse  generalmente  smarrito  l'anteriore 
perfezione;  quella  perfezione,  dico,  ond'egli  con  le  sue  statue  di  Pa- 
lermo e  di  Xoto  si  lasciò  addietro  Domenico  Gagini  ed  il  suo  socio 
Pietro  di  Bonate,  ed  onde  ora  con  la  certezza  della  sua  anelata  a 
Sciacca  si  apre  ancor  l'adito  a  sospettare  che  sia  di  lui  la  porta  di 
S.  Margherita.  Laonde,  venendo  or  questa  altresì  in  appoggio  con  la 
sua  somma  eleganza  e  delicatezza  di  sculture  ,  ben  può  cercarsi  il 
Maitre  des  bustes  in  Sicilia  e  riconoscerlo  in  non  altri  che  nel  Lau- 
rana nel  suo  triennio  qui  di  soggiorno  ;  e  ciò  pure  non  escludendo 
ch'egli  abbia  adottato  per  essi  busti  una  maggior  cura  e  finitezza  che 
altrove.  Del  resto  occorrono  ben  altri  argomenti  a  troncare  la  contro- 
versia, ed  io  troppo  oltre  per  ora  mi  son  condotto  ad  illustrare  un 
sol  documento. 


Il  precedente  articolo  era  già  scritto  quando  il  dottor  Guglielmo 
liolfs  ,  veivuto  due  volte  in  Sicilia  in  traccia  di  sculture  del  Laurana, 
e  recatosi  a  Sciacca  ad  osservarvi,  a  mio  suggerimento,  diverse  statue 
della  Madonna  esistenti  in  quella  maggior  chiesa,  da  me  già  vedute 
di  passaggio  in  mia  giovinezza ,  ne  ha  trovato  ivi  una  appunto  del 
detto  scultore  in  quella  della  Madonna  della  Catena.  Di  essa  ha  già 
pubblicate  due  fototipie  in  un  suo  articolo  intitolato  :    Die  erste  sizi- 


)62  G.    PI   MARZO. 


lianìsche  Madonna  des  Franz  Laurana  i  ;  e  non  è  menomamente  da 
dubitare,  a  mio  avviso,  del  giudizio  del  dotto  tedesco.  Perocché,  a 
tagliar  corto ,  rivelasi  evidente  l'analogia  di  forme  e  di  stile  fra  la 
detta  Madonna  di  Sciacca  e  quella  firmata  esistente  in  Noto,  talché 
stimerei  enorme  errore  il  voler  contrastare  una  si  chiara  attribuzione. 
Neppure  inoltre  si  può  agevolmente  dileguare  il  sospetto ,  ormai  messo 
in  campo  dal  medesimo  Rolfs,  che  possa  bensì  esser  opera  dello  scul- 
tore dalmata  la  pregevolissima  statua  di  Nostra  Donna  in  piedi  col 
bambino  in  grembo,  comunemente  detta  la  Madonna  di  Trapani,  quivi 
esistente  nella  chiesa  dell'Annunziata ,  già  del  convento  ora  abolito 
dei  Carmelitani.  A  simigliarmi  della  quale  il  Laurana  si  obbligò  indi 
a  scolpir  quella,  che  doveva  aver  luogo  nella  maggior  chiesa  di  Monte- 
sangiuliano  e  che  fu  trattenuta  nel  duomo  di  Palermo,  dove  rimane  2. 
Oltreché  la  presunta  origine  pisana  della  Madonna  di  Trapani  insin 
da  tempo  anteriore  al  1291  non  procede  che  da  una  leggenda  desti- 
tuita di  fondamento  e  così  piena  di  contraddizioni,  che  fiocco  Pirri, 
stimato  meglio  non  tenerla  in  conto  ,  giudicò  invece  dovere  affermare  : 
Tcmporum  injurià,  scriptorumque  incuria,  huius  ss.  imaginis  adrentus 
óbseurus  est  \  Gioverà  dunque  attivare  le  indagini  per  trovar  docu- 
menti coevi ,  che  facciali  luce  in  proposito  ,  e  cercare  insieme  ogni 
mezzo  da  potere  attentamente  osservare  la  detta  Madonna  sgombra 
di  tutti  i  gioielli,  degli  ori  e  degli  argenti,  di  che  in  tutta  la  persona, 
e  non  meno  in  quella  del  divin  Putto  ,  la  ingombrò  la  pietà  dei  fedeli. 
Imperocché  se  da  tali  documenti  e  da  complete  osservazioni  potesse 
mutarsi  in  certezza  il  sospetto  del  dottor  Kolfs  che  quella  statua  sia 
uscita  dallo  scalpello  del  Laurana,  non  sarebbe  più  luogo  a  dubbio 
ch'egli  e  non  altri  sia  stato  il  Maitre  des  bustes  ,  che  inutilmente  si 
va  cercando  fin  ora.  Tanta  finitezza  e  perfezione  d'arte  trovasi  in  essa 
così  nella  testa  della  Madre  che  in  quella  del  Figlio,  cioè  in  quanto 
è  dato  vederne  al  presente,  da  dovervi  scorgere  un7  esecuzione  con- 
forme a  quella  dei  detti  busti  4. 


1  In  Zeitschrift  fur  bildende  Emisi.  N.  F.  XVII.  H.  8.   193-195. 

2  Di  Marzo,  I  Gagini,  ec,  voi.  II,  doc.  VI,  pag.  8. 

3  Pirri,  Sicilia  sacra.  Panormi,  1733,  tom.  VI,  not.  VI,   pag.  878. 

4  Non  comprendo  però  fra  essi  ,  come  opere  del  dalmata  ,  il  busto  di  Pietro 
Speciale  nella  scala  del  suo  antico  palazzo  in  Palermo  ,  e  V  altro  del  giovinetto 
(probabilmente  suo  tìglio,  a  lui  premorto)  nel  Museo  Nazionale  palermitano.  Pe- 
rocché ambi  quei  busti,  fino  a  prova  contraria,  stimerò  sempre  di  Domenico  Ga- 
gini, preferendo  alle  altrui  vaghe  impressioni  le  induzioni  basate  su  documenti. 


NUOVI  DOCUMENTI  DI  PIETRO  DI  BONATE 

Scultore  lombardo  in  Sicilia  nel  Quattrocento. 


Neil' Archivio  Storico  Messinese  (anno  IV,  Messina,  1903,  pag.  221 
e  seg.)  il  cav.  Gaetano  La  Corte  Cailler  diede  già  in  luce  circa  una 
terza  parte  soltanto  di  un  documento  inedito  notevolissimo  del  1408, 
riguardante  il  lombardo  scultore  Pietro  di  Bonate,  latinamente  de  Boni- 
tate  l,  non  che  il  compimento  della  sontuosa  decorazione  marmorea  della 
porta  maggiore  del  duomo  di  Messina;  il  qual  documento  egli  attinse 
dai  rogiti  di  notar  Leonardo  Camarda  in  quell'Archivio  Provinciale 
di  Stato.  E  poiché  molto  innanzi ,  mercè  un  altro  documento  palermi- 
tano da  me  rinvenuto  2  ,  io  era  riuscito  pel  primo  a  disseppellir  dal- 
Pobblìo  la  memoria  di  un  tale  artefice  ,  che  con  Francesco  di  Laurana 
e  Domenico  Gagini  fé'  parte  di  una  insigne  triade  di  rinnovatori  della 
scultura  in  Sicilia  ,  stimo  qui  ora  utile  dar  fuori  intero  il  documento 
messinese  anzidetto  insieme  a  due  altri  ,  che  vi  sono  allegati  e  che 
fedelmente  trascrivo,  corredandoli  di  une  osservazioni.  Leggesi  dunque  3: 

Ultimo  octobris  [indiz.  II,  an.  1468]. 

Magister  petrus  de  bonitate,  lombardus,  residens  in  presenciarum  in  urbe 
felici  panormi,  couseuciens,  etc,  sponte  se  constituit  et  sollepniter  obligavit 
sollepni  stipulatone,  interveuientibns  magnitìcis  viris  Johanni  de  faleonibus, 
Johanui  de  Johanne,  angelo  de  lignamine  et  petro  de  stayti,  tamquain  jnratis 
nobilis  civitatis  messane  et  in  eodem  officio  Juracie  perseverantibus,  nec  non 
et  maguiflcis  Jacobo  campulu,  ci  vi  messane,  tamqnara  anno  preseuti  magistro 
opere  sive  fiabrice  opere  sancte  inajoris  messanensis  ecclesie,  nec  non  et  An- 
thonio  muleti  et  petro  de  stayti  similiter  tamquain    magistris  opere  frabrice 


1  Bonate  superiore  e  Bonate  inferiore  sono  un  connine  di  Lombardia  in  pro- 
vincia e  circondario  di  Bergamo,  mandamento  di  Ponte  San  Pietro.  Fi  da  un  tal 
luogo  di  sua  nascita  si  cognominò  lo  scultore,  che  pure  il  Muntz  appella  di  Bonate. 

2  Cfr.  Di  Marzo,  I  Gagini  e  la  scultura  in  Sicilia  nei  secoli  XI'  e  XVI. —  Pa- 
lermo,  1883,  voi.  II,  doc.   V.   pag.   7  e  seg. 

3  Agli  atti  di  notar  Leonardo  Camarda  nel  volume  degli  anni  Uti8-71  ,  nel- 
l'Archivio Provinciale  di  Stato  in  Messina. 


o64  G.    DI   MARZO.  PARTE   II. 

predicte  diete  ecclesie  in  ai  ori  s  messar.ensis,  in  ordine  sequentibus  post  pre- 
beutem  annum,  presentibus  et  stipuhmtibus  prò  dieta  opera  et  frabrica  diete 
ma jori s  messtmensia  ecclesie  :  lune  ad  anuos  duos  proximo  venturos,  ut  ma- 
zouus,  ut  decet ,  compiere  subscriptam  jauuam  maiorem  diete  sancte  raaioris 
niessauensis  ecclesie  cura  lapidibus  marmoreis  et  aliis  quibuscumque  expeusis 
dicti  magi  stri  petri,  et  expedire  et  compiere  fabricani  et  jauuam  predictam, 
hacteuus  inceptam  et  apparentem  secundum  designimi  in  forma  diete  janue 
complende  per  ipsum  magistrum  petrum,  visutn  recoguitum  et  sibi  exbibitum 
et  obsteusum  in  tela  ,  pcrmanendnm  penes  magistrum  opere  predictum  et 
consocios  suos  ,  etiam  in  dicto  officio  animatila  sequentes  ,  cimi  omnibus  et 
singulis  ornamentis,  foglagiis,  fìguris  et  aliis  quibuscuuque  necessariis,  diete 
janue  necessariis  et  ceteris  aliis  apparentibus  hedificiis  diete  janue  agiture 
conformis,  et  dictam  jauuam  cimi  lapidibus  marmoriis  fabricare,  expedire  et 
compiere,  ut  decet,  cimi  omnibus  fìguris  marmoreis,  foglagiis  ,  volugiis  et 
aliis  quibuscunque  necessariis  oruamentis  :  Et  hoc  prò  unciis  auri  duo  centis 
quinquaginta  £  dicto  magistro  petro  solucionibus  et  temporibus  infrascriptis, 
de  quibus  iu  presenciarum  dictus  Jacobus  eidem  magistro  petro  presenti 
prò...  parte  solucionis  fabrice  predicte  se  nomiuibus  quibuscunque  constituit 
solutorem  unciarum  auri  quinque  unciarum  quatraginta  quinque  ad  compli- 
mentimi unciarum  quinquaginta,  secundum  suinitur  prò  eius  officio  anno  pre- 
senti; eidem  magistro  petro  seu  alteri  legitiine  prò  sui  nomine  ei  prò  parte... 
prestantis  fìdeiussiouem  per  ipsum  magistrum  petrum  in  urbe  panormi,  gratam 
maguificis  domino  pliilippo  eampuli  et  Johanni  de  Joliaune,  seu  aliis  quibus 
deeet  in  officio  prenominato  ,  de  implicando  dietas  uneias  quinquaginta  in  la- 
pidibus marmoriis  ad  opus  fabrice  et  complimentimi  diete  jauue  ,  afferendis 
messanam,  sub  omni  et  quocunque  risico  et  perieulo  dicti  magistri  petri,  iu 
centrata  videlicet  in  portu  nobilis  eivitatis  messane,  consignandis  in  centrata 
auula  2;  quorum  dicti  magnifici  prezii  predicti,  quantum  serra,  nomine  dicti 
magistri  petri,  solvere  teuentur  et  eonstituerunt  :  quos  lapides  dicti  magnifici 
eorum  sumptibus  se  eonstituerunt  deferri  tacere  a  ni  ari  ti  ma  ad  locum  depu- 
tatum  prò  fabrica  predicta  fìeuda  :  quibus  lapidibus  ibi  delati s,  idem  magister 
petrus  se  ad  mastbazenuin  opere  predicte,  prope  ecelesiam  maiorem,  consti- 
tuit taniquam  mazonum  pio  compiendo  dictam  januaui  laborare  per  se  et  eius 
laborautes  et  vacare  in  expedimento  et  fabrica  jauue  predicte  usque  ad  fìnem: 
reliquas  uutias  auri  ducentas  ad  complimentum  integri  precii  dictus  magni- 
ficus  antonius  de  inoletis,  magister  opere  anni  terzie  Ind.  primo  venturi,  prò 
rata  eum  nomiuibus  quibus  supra  contingenti ,  eidem   magistro  petro  solvere 


1  Fin  qui  soltanto  trascrisse  e  pubblicò  il  La  Corte  Cailler;  e  tutto  il  rima- 
nente, lasciato  inedito,  fu  indi  <ia  me  trascritto  ed  ora  la  prima  volta  viene  qui 
in  luce. 

2  Non  son  certo  di  questa  lezione  del  nome  proprio  della  contrada,  potendosi 
fors'anco  leggere  rinula  o  vivida.  Nò  ad  alcuna  contrada  della  marina  messinese, 
a  quanto  io  mi  sappia,  rimane  ora  alcun  nome  di  tal  natura. 


PARTE   li.  NUOVI    DOCUMENTI    DI    PIETRO   DI   BOXATE.  365 

et  pagare  tenetur  et  promisit  in  pecunia  numerata  cum  laboraverit  et  vaca- 
verit  in  fabrica  et  expedinieuto  janue  predicte  :  magnificila  Johannes  de 
Job  arine  ,  nomine  et  prò  parte  magnifici  a  ti  toni  i  saccani  .  diete  fabrice  ma- 
gistri  opere  in  anno  quarte  Ind.,  se  constituit  soluturum  eidem  magistro  petro 
ratam  precii  predicti  coutingentem  dicto  antouio  saccano  tari  qua  in  magistro 
opere  diete  fabrice  prò  anno  quarte  Ind.  proxime  futuro,  cimi  dictus  magister 
petrus  laboraverit  et  vacaverit  iu  fabrica  predicta.  Similiter  magnificila  al- 
fonsins  de  stayti,  nomine  magnifici  nucii  de  boniilio,  magistri  opere  predicte 
in  anno  quinte  Ind.  proxime  futuro,  eidem  magistro  petro,  presenti  prò  fa- 
brica et  complimento  diete  janue,  se  constituit  soluturum  ratam  contingeutem 
dicto  micio  ,  tamquam  magistro  opere  ,  prezii  predicti.  Similiter  maguificus 
alfonsius  de  stayti  ,  tamquam  magister  opere  predicte  in  anno  sexte  Ind. 
proximo  future,  se  constituit  soluturum  eidem  magistro  petro  ratam  contin- 
geutem ipsius  pretii...  nominibus  pretii  predicti:  qui  magister  petrus  tenetur 
et  promisit  in  dieta  fabrica  pò  nere  lapides  marmoreos  ,  magisteri  um  eius  et 
attìngere  seu  assictari  lu  lavuru  bi  havira  taglata  :  magistri  opere  predicte 
tenentur  et  debent  iu  dieta  fabrica  et  expedinieuto  predicto  ponete  pontes, 
magistros  moratores  et  manuales  ,  calcariam  calcis  et  alia  necessaria  :  ulterius 
tenentur  et  promiseruut,  durante  dieta  fabrica,  eidem  magistro  petro  prò  se 
et  famulis  suis  si  ve  laborantibus  mastbazenum  opere  predicte  dum  vero  ma- 
gister petrus  ,  famuli  eius  et  laborantes  sui  possint  habitaro  et  morari  iu 
masthazeno  opere  prediete;  in  quaruin  aliqua  solueione...  dicti  magistri...  te- 
neri voluit  dietis  maguificis  nomine  diete  opere  ad  omnia  dapna  ,  expensas 
et  interesse:  iu  quo  casa  liceat  dietis  magnificis,  nomine  diete  ecclesie,  sumpti- 
bus  omnibus  et  expensis  dicti  magistri  petri  coiupleri  facere  ad  dietas  fabri- 
cam  et  complimentimi  janue  predicte  usque  ad  debitum  fine-m;  in  quo  casa 
possit  beri  executio  brevi  maini  in  persona  et  in  bonis  dicti  magistri  petri. 
Que  omnia,  etc. 

Presentibus  magnifico  domino  Jolianue  de  stayti  milite,  ven.  fratre  leonta 
de  falconibus  et  no.  antbonello  de  aza fello. 

Vi  è  inoltre  inserita  quest'apnea   in   egual  data  : 

Eodem.  —  Dictus  magister  petrus  sponte  prò  causa  predicta  coufessus  est 
se  recepisse  et  Imbuisse  a  discreto  et  maguifico  Jaymo  rizu  presenti,  velati 
procuratore  et  crideuzerio  opere  prediete  ,  per  banconi  miucii  mimila,  uncias 
auri  quiuque  ....  l'enunciando,  etc,  et  tarenos  sex  pri  farisi  spisa  prò  rece- 
dendo a  civitate  messane  et  se  conferendo  iu  urbe  panormi.  —  Presentibus 
matlieo  de  cathaudo  et  dannano  spinella. 

E  poi  del  tempo,  in  cui  l'opera  fu  compiuta  dopo  quasi  nove  anni, 
vi   ha   questa  seconda   apoca  a  saldo  di  tutto  il   prezzo  : 

xj  frebruarii  x.1'  lud.  m.°  cccclxxvj  1  dictus  magister  petrus  de  bouitate... 
de  precio  diete  janue,  videlicet  de  precio  predicto....  de  dietis    unciis   duo- 


1  Anno  1476  col  vecchio  stile,  ma  1477  col  nuovo. 


366  G.    DI    MARZO. 


centi*  quinquagintn,  computatis  omnibus  solucionibus  ....  sibi  factis,  est  con- 
fessila sibi  integre  et  in  totum  fuisse  solutum  et  satisfactum  ,  ])resentibus 
presbitero  berto  di  la  castello,  presbitero  Jobauue  pisanello  et  berico  micbo 
de  leone. 

Or  dai  detti  tre  rogiti  messinesi  evidentemente  risulta  ,  ehe  ai 
31  di  ottobre  del  14(58  lo  scultore  Pietro  di  lionate,  essendo  andato 
da  Palermo  a  Messina,  vi  ebbe  allogato  tutto  il  lavoro  di  compimento 
della  decorazione  in  marmo  della  porta  maggiore  di  quel  duomo;  che 
non  potè  ivi  incontanente  por  mano  all'opera  ,  essendosi  pure  allora 
obbligato  mandarvi  in  prima  i  marmi  da  lavorarsi;  clie  quindi  tosto, 
avuti  tari  sei  per  le  spese  del  viaggio,  sen  ritornò  a  Palermo  ,  sua 
ordinaria  dimora  ,  e  che  poi  molto  più  tardi  si  occupò  di  quella  in 
Messina,  laddove  essa  non  ebbe  termine  se  non  circa  nove  anni  ap- 
presso, quand'egli  con  l'apoca  degli  11  di  febbraio  del  1177,  e  non 
prima,  sen  dichiarò  soddisfatto  di  tutto  il  prezzo.  Xè  potè  essere  stato 
altrimenti  (checché  ne  abbia  pensato  in  contrario  il  cavalier  La  Corte 
Cailler)  i,  giacche,  pure  ignorandosi  gli  altri  suoi  impegni  anteriori 
in  Palermo  ,  è  certo  che  lo  stesso  scultore  ,  insieme  a  Francesco  di 
Laurana,  dovea  decorarvi  di  sontuose  sculture  la  cappella  de'  Mastran- 
tonio  in  San  Francesco  d'Assisi,  allogategli  a  2  di  giugno  dello  stesso 
anno  1468,  cinque  mesi  avanti  che  la  porta  del  duomo  messinese  2; 
e  non  è  a  dubitare  che  le  abbia  fornite  molto  pria  d'  intendere  ad 
essa.  Ma  ciò  non  è  tutto.  Perocché  indi  trovo  una  lettera  in  data  di 
Palermo  a  13  di  ottobre  del  1472  ,  onde  il  viceré  Lopez  Ximenez  de 
Urrea  ingiungeva  ad  un  Guglielmo  Vaccaro,  canonico  palermitano  e 
collettore  delle  rendite  dell'  arcivescovo  (allora  Paolo  Visconti) ,  che, 
qua!  debitore  di  quest'ultimo  ,  pagasse  trentacinque  onze  a  maestro 
Pietro  di  Bonate,  incaricato  del  lavoro  del  soglio  reale  in  marmo  nel 
duomo.  Il  qual  documento,  che  trascrivo  dai  registri  del  Protonotaro 
del  regno  di  Sicilia  (reg.  71,  e.  37  v.  a  38,  an.  1472-73)  nell'Archivio 
di  Stato  in  Palermo,  è  il  seguente. 

Pro  mayistro  petro  bollitati. 

Joaunes,  etc.  —  Vicerex,  etc.  Venerabili  guillelmo  vaccaro,  canonico  pa- 
normitano,  collectori  redditnuui  R.mi  archiepiscopi  panorinitani,  oratori  regio 
dilecto,   saluterei  :  Cimi  sit  chi  la  eclesia  raajuri  di  quista  felichi  cintati  di  pa- 


1  In  Archivio  Storico  Messinese.  Anno  IV.  Messina,  1903,   pag.  220  e  seg. 

2  Cfr.  Di  Marzo,  /  Gagini,  oc,   voi.  II,  doc.  V,  pag.  7. 


PARTE   ìt.  NUOVI   DOCUMENTI   DI    PIETRO   DI   BOXATE.  36? 

lertno  seiupri  sia  stata  la  sedia  et  loco  ondi  soli  sediri  venendo  ala  dieta 
eclesia  la  Maistà  delo  signuri  Re  et  soy  presidenti  seu  vicegereuti ,  et  per 
farisi  altri  fabrichi  et  ornamenti  in  lo  choro  di  la  dieta  eclesia  la  dieta  sedia 
sia  guastata  et  levata,  la  qual  cosa  nui  sapendo  indi  raxonammo  cum  hi  dicto 
R.m0  archiepiscopo  ,  lu  quali  ni  promisi  fari  la  dieta  sedia  et  contribuii  la 
mitati  di  la  dispisa  di  la  dieta  opera  ,  et  P  altra  mitati  si  divia  pagari  dili 
denari  dili  marammi  :  Et  nui ,  per  honnri  dilo  dicto  Signuri  Re  ac  soi  suc- 
cessuri,  bagiamo  dato  ordini  fabricarisi  la  dieta  sedia  di  marmori,  sicut  decet; 
divendosi  pagari  lo  mastro  dila  dieta  opera,  et  sapendo  nuy  vui  esseri  de- 
bituri  alu  dicto  R.m0  archiepiscopo,  vi  dicliimo,  hortamo,  requirimo  et  qua- 
tenus  opus  est  comandamo  qaod  de  pecuniis  elicti  debiti  digiati  pagari  et  con- 
sigliar! a  mastro  petro  de  bollitati  ,  maystro  marmoraro  ,  uuci  xxxv  per  la 
mitati  contingenti  alu  dicto  archiepiscopo,  recipieiido  vuy  da  ipso  apoi'a  de 
recepto,  prò  vestri  cautela  ;  li  quali  unci  xxxv  comandamo  volimo  vi  siano 
admissi  dali  audituri  di  vostri  cuneti  seu  procuraturi  di  lu  dicto  archiepiscopo, 
non  fachendo  di  czo  lu  contrario  pirchì  ni  fora  displachenti...  ,  sapendo  nuy 
lu  dicto  archiepiscopo  esseri  contento  et  permìsinilo.  —  Datum  Paiiormi  xiij 
octobris  vj.e  Ind.  —  Lop.  X1MENEZ  DE  Urrea. 

Dominus  vicerex  mandavit  mi/ti  gerardo  agiata  prothonotario. 

Da  ciò  adunque  è  innegabile  che  Pietro  di  Bonate  era  tuttavia 
in  Palermo  nel  1472,  intento  al  lavoro  del  soglio  reale  in  marmo,  al- 
logatogli dal  viceré  pel  prezzo  di  settanta  once,  rilevante  anziché  no 
per  quei  tempi,  da  pagargli  in  metà  l'arcivescovo  ed  in  metà  la  Ma- 
ramma  ossia  l'Opera  della  fabbrica  del  duomo.  Sembra  perciò  che  fin 
allora  non  fosse  ritornato  in  Messina  a  darvi  principio  ai  lavori  di 
compimento  alla  decorazione  in  marmo  della  gran  porta  di  quel  mag- 
gior tempio  ;  ed  anzi  è  probabile  che  ancor  non  poco  egli  abbia  in- 
dugiato a  recarvisi,  benché  obbligatosi  dal  1408,  laddove  l'ultima  sua 
apoca  a  saldo  del  prezzo  di  quei  lavori  è  poi  del  1177. 

Ma  qual  fu  ivi  l'opera  ornamentale  del  lombardo  scultore  a  com- 
piervi la  decorazione  marmorea  preesistente  ?  È  indiscutibile  in  vero 
che,  quand'egli  a  ciò  fu  adibito  ,  propriamente  il  grande  arco  acuto 
di  quella  porta  era  stato  già  tutto  decorato  delle  ricche  sculture  in 
marmo,  ornamentali  ad  un  tempo  e  figurate,  che  vi  si  ammirano  tut- 
tavia. Son  quelle  degli  stipiti  in  doppia  fascia  con  le  ligure  dei  pa- 
triarchi e  dei  re  della  genealogia  del  Redentore,  non  che  con  varie 
altre  figure  in  bei  meandri  di  ornati;  e  nell'architrave  retto  le  mezze 
figure  degli  Evangelisti  coi  relativi  lor  simboli  e  col  divin  Pargolo  in 
mezzo  ,  e  sul  detto  architrave  in  un  lungo  cartoccio  ed  in  lettere  go- 
tiche P  iscrizione  :  liane  vitam  accomodabit    xps  qui  prò  co  certabit  l7 


1   Così  precisamente  sta  scritto  :  ma  la  parola  qui  dee  leggersi  vui  per  far  senso. 


368  Cx.    DI   MARZO. 


frammezzata  questa  da  una  corona,  che  sovrasta  al  Bambino  sotto- 
stante :  oltreché  vi  sono  alle  estremità  quattro  scudi,  due  per  ciascuna, 
con  le  armi  della  casa  regnante  di  Aragona  e  della  città  di  Messina, 
svolgendosi  poi  al  di  sopra  un  ampio  e  stupendo  fregio  ad  archetti 
e  meandri  ornatissimi,  il  quale  decora  la  parte  più  acuta  dell'arco. 
Né  qui  si  limitò  la  decorazione  più  antica,  dovendosi  con  la  interiore 
contare  ancor  1'  altra  più  sporgente  ,  che  tutto  esternamente  adorna 
l'arco  medesimo  dall'imo  al  sommo.  Questa,  che  fino  all'altezza  del- 
l'architrave prospetticamente  riancheggia  gli  stipiti,  si  compone  di  due 
ordini  di  parecchie  sottili  colonne  per  ciascun  lato,  legate  le  inferiori 
da  tralci  di  vite  con  molti  putti  ignudi,  che  vi  si  appendono,  mentre 
al  di  sopra  vengon  fuori  da  archetti  a  trifoglio  sei  mezze  figure  mu- 
liebri, tre  per  ciascuna  banda  e  forse  ritratti,  alle  quali  sovrasta  il 
second'  ordine  di  colonne  ,  adorno  pure  in  mezzo  da  tralci  di  vite  e 
grappoli  e  con  ricchi  capitelli  di  acanto  spinoso  e  di  stile  settentrio- 
nale. Su  questi  poscia  è  impostata  l'esterna  ornamentazione  della  parte 
più  acuta  dell'arco  in  cordoni  concentricamente  disposti,  dei  quali  il 
maggiore  e  mediano  ricorre  con  un  bel  fregio  a  meandro  con  foglie 
e  grappoli  d'uva,  e  l'estremo  ed  esterno  dà  luogo  ad  un'elegante  cor- 
nice di  archetti  a  rovescio. 

Non  dubito  intanto  che  tutta  cotale  opera,  non  meno  ammirabile 
e  preziosa  nel  complesso  che  nelle  singole  parti  ,  appartenga  più  o 
meno  alla  prima  metà  del  trecento,  siccome  ad  un  tempo  dimostrano 
ed  il  carattere  innegabile  delle  sculture  di  essa  e  gli  scudi  con  le 
regie  armi  d'Aragona,  che  vi  sono  apposti.  Laonde  forse  non  si  diva- 
gherebbe dal  vero  pensando,  che  ne  sia  stato  primo  e  precipuo  scul- 
tore quel  medesimo  Goro  o  Gregorio  di  Gregorio  da  Siena,  di  cui  si 
legge  il  nome  con  l'anno  1333  nel  sarcofago  dell'arcivescovo  Guidotto 
de  Tabiatis  nel  duomo  stesso  di  Messina  ,  dove  altresì  ne  esiste  sopra 
un  altare  una  Madonna  col  Bambino  ,  mezza  figura  in  marmo  ,  che 
prima  facea  parte  dello  stesso  sarcofago.  Notevole  analogia  di  sviluppo 
e  di  carattere  stilistico  si  avverte  ivi  intanto  fra  le  sculture  di  esso 
e  quelle  della  parte  più  antica  della  porta  maggiore  ;  e  ciò  appunto 
rafforza  l'opinione  ,  che  Goro  non  siasi  recato  a  Messina  soltanto  per 
quel  sarcofago,  ma  bensì  per  la  sontuosa  opera  della  porta  medesima, 
e  che  pei  lavori  di  essa,  più  che  per  altro,  non  sia  indi  più  ritornato 
in  terraferma.  Perocché  quivi ,  dopo  1'  urna  di  San  Gerbone ,  da  lui 
fornita  sulle  migliori  tracce  dell'arte  nella  cattedrale  di  Massa  in  Ma- 
remma nel  1323,  non  si  ha  contezza  di  altre  sue  opere  l.  Vuoisi  anzi 


1  Cicognara,  Storia  della  scultura..,  in  Italia.  —  Prato,  182o,  voi.  Ili,  cap.   V, 
ig.  297. 


PAItTE   II.  N'UOVI   DOCUMENTI   DI   PIETRO   DI   BOXATE.  369 


aggiungere  che  probabilmente  in  Messina  non  sia  stato  ideato  se  non 
da  lui  l'intero  disegno  della  decorazione  dell'anzidetta  porta  del  duomo 
con  la  gran  cuspide  sovrastante  nel  mezzo  e  coi  due  grandiosi  can- 
delabri sporgenti  dai  lati  con  dieci  statue,  e  ch'egli,  forse  prevenuto 
da  morte,  non  sia  stato  a  tempo  ad  eseguirlo  del  tutto.  Certo  è  che 
quando  nel  secolo  seguente  venne  allogato  a  Pietro  di  Bonate  il  com- 
pimento di  sì  grand'opera,  espressamente  si  volle  ch'ei  la  compiesse 
8ecundum  design  ti m ....  risimi,  recognitum  et  siiti  exhibitum  et  obstensum 
in  tela,  cioè  un  disegno  non  suo,  ma  certo  preesistente  e  fors' anco 
lasciato  da  Goro. 

Comunque  egli  sia,  i  detti  due  grandi  candelabri  dei  lati  nel  loro 
complesso  ornamentale  non  sono  ad  attribuirsi,  a  mio  avviso,  che  al- 
l'arte del  trecento.  Sorretto  ciascuno  da  una  colonna,  col  fusto  a  treccia 
di  cordoni  e  con  capitello  a  piccole  foglie,  poggiando  sul  dorso  di  un 
leone  secondo  Fuso  prevalso  dal  medio  evo,  dà  luogo  esso  al  di  sopra 
siccome  a  quattro  tabernacoli,  1'  uno  siili'  altro,  con  relativi  cappelli 
in  marino  ornatissimi  e  dagli  archetti  a  trifoglio,  con  la  maggior  pre- 
valenza di  antico  e  nordico  stile.  Dentrovi  in  ambo  i  candelabri  son 
otto  statue,  più  o  meno  grandi,  una  per  ogni  tabernacolo,  oltre  due 
di  angeli  in  piedi  al  di  sopra  .  standone  una  al  sommo  di  ciascuno 
dei  candelabri  medesimi  e  dandovi  termine.  Ma  di  cotali  dieci  statue 
non  è  contezza  da  chi  e  quando  siano  state  scolpite,  tranne  che  di 
(incile  degli  apostoli  Pietro  e  Paolo,  opera  del  carrarese  Giambattista 
Mazolo  insieme  all'altra  della  Madonna  sedente  col  Bambino  in  grembo, 
posta  sull'architrave  in  mezzo  al  vano  dell'  arco,  tutte  e  tre  scolpite 
e  collocate  tra  il  1524  e  il  .'»4.  Sembra  però  evidente,  a  rilevarlo  dallo 
stile  e  dal  grado  di  sviluppo  dell'arte,  che  al  sorgere  del  cinquecento 
altresì  appartengano  le  cerniate  statue  dei  due  angeli  in  cima  ,  ed  allo 
stesso  secolo  più  o  meno  le  due  minori  statuine  giovanili  ,  special- 
mente quella  dell'angioletto  con  le  braccia  conserte  al  petto,  ossieno 
in  basso  le  due  prime,  che  si  levano  sulle  colonne.  Le  due  seguenti 
più  in  alto,  che  son  di  due  sante  vergini,  di  cui  una  par  S.  Barbara, 
non  è  poi  a  dubitare  clic  siano  di  scalpello  più  antico  :  ma  non  è  fa- 
cile precisare  di  quanto.  Ed  indi  quelle  dell'Annunziata  e  dell'Arcan- 
gelo, che  stanno  all'altezza  del  cominciar  della  cuspide  e  la  fiancheg- 
giano,  rivelansi  sculture  del  secolo  XV.  e  tali  da  potere  fors' anco 
ascriversi  a  Pietro  di  Poliate,  specialmente  osservando  clic  ivi  la  poca 
genialità  di  espressione  della  figura  della  Madonna  ha  molto  riscontro 
con  la  fiacchezza  della  statua  di  essa  siili'  altare  della  cappella  de* 
Mastrantonio  in  San  Francesco  d'Assisi  in  Palermo.  11  che  certo  è 
da  ascrivere  ai  tanti  problemi,  di  cui  non  di  leggieri  trovasi  il  ban- 
dolo in  fatto  di  cose  d'arte.  24 


370  G.   DI   MARZO.  PARTE   II. 

L'  opera  di  compimento  di  sì  magnifica  decorazione  in  marmo 
della  porta  maggiore  del  duomo  messinese,  qua!  fu  allogata  a  Pietro 
nel  1468  e  terminata  dal  medesimo  nel  1477  ,  io  tengo  intanto  che 
principalmente  sia  stata  la  sontuosa  cuspide  marmorea  sovrastante  al 
grand'arco  di  quella.  Sull'estrema  cornice  della  parte  più  acuta  di  esso 
arco  ei  quindi  cominciò  dall' aggiungere  una  fascia,  nella  quale  ricor- 
rono fra  le  loro  ali  spiegate  tredici  teste  vaghissime  di  serafini,  lad- 
dove legò  inoltre  ai  candelabri  laterali  una  bella  cornice  a  dentelli 
ed  a  fogliettine  di  acanto,  la  quale  dà  luogo  al  gran  triangolo  della 
cuspide.  Questa  poi  esternamente  della  detta  cornice  decorò  di  grandi 
fogliami  con  rosoni ,  otto  per  ciascun  de'  due  lati ,  e  la  terminò  in 
cima  con  un  bel  capitello  corinzio,  i>ostavi  sopra  la  consueta  mezza 
figura  di  Dio  Padre  benedicente  e  col  libro  in  mano.  Quivi  l'aura  del 
Rinascimento  spira  più  viva  che  altrove  in  tutte  le  forme  architetto- 
niche ornamentali,  e  non  men  certamente  nel  soggetto  figurato  al  di 
dentro.  Perocché  tutto  lo  spazio  interiore  del  detto  triangolo  ei  de- 
corò nel  mezzo  con  un  gran  tondo  o  medaglione  marmoreo,  vagamente 
fregiato  di  archetti  a  trifoglio  in  giro ,  dentrovi  in  altorilievo  le  due 
figure  sedenti  e  bellissime  della  Vergine ,  che  a  mani  giunte  riceve 
sul  capo  la  corona  dal  Redentore  :  oltreché  indi  egli  colmò  i  tre  spazi 
minori  triangolari ,  che  restan  fuori  del  gran  medaglione  di  centro, 
con  nove  mezze  figure  di  angeli,  tre  per  ogni  spazio,  in  atto  di  suo- 
nare strumenti  musicali,  ovvero  preganti.  Si  nota  di  essi  che  non  han 
la  bellezza  e  l'espressione  delle  due  principali  figure,  e  che  per  merito 
di  tecnica  ne  stan  molto  più  in  basso,  e  che  son  posate  come  tipica- 
mente. Ma  forse  così  volle  lo  stesso  scultore,  acciò  le  figure  accessorie 
non  distraessero  dal  soggetto  primario.  Del  resto  cotale  insigne  opera 
di  cuspide  senza  fallo  è  da  annoverarsi  fra  le  più  pregevoli  sculture 
dell'arte  lombarda  in  quel  tempo;  e  ch'essa  sia  quella  appunto  onde 
si  volle  che  Pietro  di  Bonate  desse  compimento  alla  gran  decorazione 
marmorea,  di  cui  è  discorso,  pare  risulti  evidente  dall'atto  stesso  di 
convenzione  coi  Messinesi ,  benché  non  vi  sia  espressa  con  termini 
precisi,  ma  cennata  generalmente  con  termini,  che  vi  alludono.  Vi  si 
legge  di  fatti ,  eh'  egli  doveva  farla  cum  omnibus  Jiguris  marmoreis, 
foglagiis  ,  volugiis  et  alils  quibuscunque  necessarils  ornamentis  ;  ed  il 
prezzo  fissatovi  di  onze  250  (L.  3187,  50),  in  rapporto  al  valore  della 
moneta  in  quel  tempo ,  ben  corrisponde  alle  spese  ed  al  merito  del 
lavoro. 

Finisco,  aggiungendo  qualche  notizia  del  suddetto  soglio  reale  in 
marmo,  del  quale ,  per  ordine  viceregio ,  lo  stesso  Pietro  occupavasi 
nel  1472  nel  duomo  di  Palermo.  In  esso  duomo,  finché  non  fu  van- 


PARTE  II.  NUOVI  DOCUMENTI  I>I  PIETRO  DI  BOXATE.  371 

dalicamente  rifatto,  poggiavano  ai  pilastri  dinanzi  al  coro  due  sogli 
in  marmo,  un  dalla  destra  dell'altare  pel  re  o  pel  viceré,  e  l'altro 
dalla  sinistra  per  l'arcivescovo.  Del  secondo  risulta  (checche  ne  sia 
stato  dinanzi),  che  per  pubblico  atto  del  7  di  novembre  del  1544,  già 
da  me  pubblicato  1  ,  si  obbligarono  insieme  a  farlo  di  marmo  i  fra- 
telli Giacomo  e  Fazio  Gagini  di  unita  ai  loro  congiunti  e  scultori  Fe- 
dele e  Scipione  di  Carona,  padre  e  figliuolo  ;  e  fu  certamente  quello, 
ch'esisteva  al  tempo  del  Mongitore,  che  lo  descrisse  2,  ma  che  poi 
scomparve  affatto,  sostituito  da  uno  posticcio  in  legno.  Però  non  ri- 
sulta fin  ora  che  il  soglio  regio  fino  al  declinare  del  settecento  abbia 
giammai  subito  alcuna  essenziale  rifazione  dacché  l'avea  fornito  Pietro 
di  Bonate,  onde,  a  mio  avviso,  è  da  credere,  che  ,  tranne  in  alcune 
modificazioni  accessorie,  fattevi  dopo  ,  vi  corrisponda  in  sostanza  la 
seguente  descrizione  ,  che  pure  ne  lasciò  il  Mongitore  3  :  «  Il  solio 
«  reale  dalla  parte  del  Vangelo  ha  cinque  scalini  di  marmo,  alto  dal 
«  pavimento  cinque  palmi.  Xe'  suoi  fianchi  gli  fan  riparo  due  gran 
«  tavole  di  marmo,  lavorate  a  craticola.  Lunga  palmi  10,  alta  4,  la 
«  spalliera  è  messa  a  mosaico  con  porfidi  e  diaspri.  Sopra  si  vedono 
«  due  angioli  volanti  ,  che  sostengono  nel  centro  una  corona  gigliata. 
«  La  piegatura  della  spalliera  ,  che  si  piega  a  forma  di  tosello ,  di 
«  sopra  forma  un  cielo  tempestato  di  stelle  e  rose  d'  oro.  Sopra  detta 
«  copertura  si  alza  a  dar  finimento  al  solio  un  timpano  con  due  cor- 
«  nici,  in  mezzo  alle  quali  in  una  fascia  si  legge  a  lettere  ben  grandi  : 
«  piuma  sedes  corona  RECiis  et  regni  CAPVT.  Sopra  si  vedono  tre 
«  scudi  tenuti  ognun  di  essi  da  due  angioletti.  Quel  di  mezzo  ha  l'armi 
«  della  Sicilia  ,  quel  della  destra  1'  armi  della  chiesa  palermitana ,  e 
«  quel  della  sinistra  l'armi  della  città  di  Palermo.  In  altro  timpano 
«  a  triangolo  era  in  uno  scudo  il  nome  di  desìi  a  lettere  gotiche,  e 
«  fu  levato  nel  1525  ...  e  collocato  nella  cappella  della  Madonna  di 
«  Libera  Inferni ,  come  pure  fu  tolto  uno  scudo,  che  era  in  cima  del 
«  timpano,  coll'armi  dell'imperatore  Carlo  V,  ec.  ».  Questo  scudo  era 
stato  di  certo  aggiunto  nel  tempo,  in  cui  Carlo  regnava  in  Sicilia,  e, 
durante  il  suo  regno,  era  stato  ancor  tolto  lo  scudo  col  nome  di  Gesù 
a  lettere  gotiche,  cioè  col  sacro  monogramma,  che,  ideato  e  diffuso  da 
San  Bernardino  da  Siena  nella  prima  metà  del  quattrocento,  era  molto 


1  Cfr.  Di  Marzo.   I  Gagini  ec,  voi.   II,  doc.  CCII,  pag.  252. 

2  Nella  sua  opera  inedita  sn  La  Cattedrale  di  Palermo  :  ms.  autografo  nella 
Biblioteca  Comunale  Palermitana  a'  segni  Q<i  E  3,  eap.  XXV,  pag.  159.  —  Cfr, 
Di   Marzo,   I  Gagini,  ec,  voi.  I,  cip.  IX,   pag.  512  e  seg. 

3  La  Cattedrale  di  Palermo.  Ms.  cit..  pag.   157  e  seg. 


312  G.   DI   MARZO.  PARTE   II. 

in  uso  nel  1472,  e  quindi  fin  da  principio  dovea  far  parte  del  soglio. 
Questo  poscia  in  complesso,  ripeto,  durava  fino  al  tempo  del  Moni- 
tore, clie  lo  descrisse,  lasciandoci  almeno  un'idea  dell'  opera,  che  fu 
dovuta  al  lombardo  scultore.  Ma  tutto  poi  ne  andò  a  male  quando 
l'antico  duomo  fu  manomesso  dal  1781  fino  allo  scorcio  di  quel  se- 
colo. Eimosso  allora  l'antico  soglio  reale  dal  luogo  o v'era  dinanzi  al 
coro,  in  ogni  parte  andò  sconvolto  o  distrutto.  Sol  ne  rimane  l'iscri- 
zione in  una  lastra  di  marmo  ed  a  grandi  lettere  in  tre  righi ,  ripor- 
tata dal  Mongitore  ,  la  quale  fu  trasferita  e  murata  nel  portico  me- 
ridionale, dove  fin  oggi  si  vede,  in  alto  della  parete  di  fronte,  a  destra 
entrando.  I  grandi  caratteri  di  essa  iscrizione  per  la  lor  forma  chia- 
ramente rivelano  l'opera  del  quattrocento.  All'antico  poi  fu  sostituito 
il  soglio  di  nuova  fattura,  qual  ora  si  vede  in  fondo  al  coro,  a  destra 
dell'altare.  Si  erge  pur  esso  con  cinque  gradini  in  marmo  bianco  :  ma 
ne  mancano  affatto  le  due  sponde  marmoree  laterali,  sostituite  invece 
da  sconce  balaustre  di  legno.  La  spalliera,  piana  del  tutto,  è  decorata 
di  un  moderno  musaico  ornamentale,  che  imita  lo  stile  arabesco  dei 
pavimenti  delle  chiese  normanne;  e  simiglianti  musaici  han  luogo  al 
di  sotto  dai  due  lati  esteriori  del  soglio.  L'iscrizione  in  alto  della  spal- 
liera è  finalmente  riprodotta  in  grandi  lettere  di  bronzo  dorato  sopra 
una  nuova  lastra  di  marmo.  Così  un  architetto  di  genio  vandalico, 
Ferdinando  Fuga,  sostituendo  il  moderno  all'antico,  distruggea  l'opera 
di  Pietro  di  Bonate. 

Palermo,  dicembre  1906. 

Gioacchino  Di  Marzo. 


XILOGRAFIE  SICILIANE 

IN   UNA  EDIZIONE  MESSINESE  DEL  SECOLO  XVI. 


Mentre  sul  cadere  del  XV  secolo  le  immagini  xilografiche  delle 
edizioni  di  Norimberga  fanno  già  presentire  l'abilità  di  cui  gli  inci- 
sori daranno  prova  più  tardi  sotto  l' influenza  di  Alberto  Durer,  ed 
in  Italia  gli  intagli  del  Decamerone  (1492)  e  del  Polifilo  (1499)  gareg- 
giano per  la  purezza  del  segno  e  la  leggiadria  dei  soggetti  colle  mi- 
gliori incisioni  su  metallo,  nelle  più  antiche  stampe  siciliane  di  quella 
fine  di  secolo,  tuttavia  esistenti,  adorne  di  figure  e  di  fregi  1  :  le  Con- 
stitutiones  (1497)  2  e  le  Consuetudine*  (1498)%  entrambe  raccolte  da 
Pietro  Appaio,  l'incisione  in  legno  appare  ancora  imperfetta  e  troppo 
vicina  alle  sue  umili  origini. 

La  differenza  è  perfino  sensibile  nelle  pagine  stesse  del  primo  dei 
due  libri,  ove  si  confrontino  lo  stemma  aragonese  e  le  diverse  capo- 
lettere  colle  piccole  e  ben  composte  vignette,  che  in  due  o  tre  tipi  di 


1  Nessuna  xilografia  del  400  si  è  fin  qui  ritrovata  in  Sicilia,  che  corrisponda 
alle  moltissime,  di  carattere  sacro,  in  vendita  allora  in  Germania,  e  alle  poche  ita- 
liane illustrate  dal  Kristeller  e  da  Lionello  Venturi.  Sembrerebbe  pertanto  accetta- 
bile, per  quanto  riguarda  l'isola,  l'an'ermazione,  dimostrata  non  vera,  del  Liupmann, 
(Der  italienischc  Holzschnitt  im  XF  Jahrhundert.  —  Berlin,  Grote,  1885),  il  quale  am- 
mette soltanto  verso  la  fine  di  quel  secolo  un  notevole  sviluppo  delle  immagini 
xilografiche  nell'Italia  settentrionale.  Qualcuno  di  questi  Iragili  documenti  deve 
tuttavia  esistere  nelle  chiese,  nelle  biblioteche,  negli  archivi  siciliani,  in  gran  parte 
inesplorati,  poiché  non  è  da  supporre,  anche  per  la  presenza  degli  stampatori  te- 
deschi, stabiliti  a  Messina  e  a  Palermo,  che  un'industria  così  lucrosa  fosse  del 
tutto  sconosciuta. 

2  Mongitore  ,  Bibliotheca  Sicilia,  II,  appendix,  pag.  24  —  Mira,  Bibliografia ,  I, 
169-170.  I  due  esemplari  della  Comunale  di  Palermo  ,  i  soli  forse  esistenti  ,  non 
sono  perfettamente  eguali  nel  testo;  v.  La  Mantia,  Antiche  consuetudini  delle  città 
di  Sicilia.  Palermo,  1900,  in  nota  alla  pagina  LXXVI. 

3  Mira,  op.  cit.,  I,  255.  — Esistono  a  Palermo  due  esemplari  di  quest'opu- 
scolo, uno  alla  Comunale,  l'altro  alla  Nazionale,  quest'ultimo  in  cattivo  stato  di 
conservazione.  Un  terzo  esemplare  fu  acquistato  a  Messina  dallo  Hartwig,  che  lo 
vendette  alla  Biblioteca  del  Senato,  (v.  La  Mantia,  op.  cit.,  pag.  LXXX). 


374  C.    MATRANGA.  PARTE   II. 

re  sbarbati,  (sempre  uguali),  con  corona,  globo  e  scettro  ci  danno,  nel- 
l'intenzione del  tipografo,  la  serie  non  breve  di  sovrani  da  Giacomo 
(1285)  a  Ferdinando  il  Cattolico  (1470).  Queste  invero  risentono  del 
gusto  e  dell'eleganza  precisa  di  un  miniatore,  già  convertito  ai  nuovi 
metodi  illustrativi ,  che  tuttavia  non  osa  abbandonare  le  dimensioni 
più  adatte  ai  suoi  inezzi;  quelle  invece  dell'  imperizia  di  un  umile  al- 
lievo di  stamperia,  die  vuol  provarsi  in  un'arte,  ritenuta  affine  alla 
propria,  e  nella  distribuzione  degli  ornati  e  delle  leggende,  che  com- 
pletano gli  emblemi,  smarrisce  anche  quel  senso  di  armonia  decora- 
tiva comune  alle  molteplici  manifestazioni  della  vita  e  dell'  arte  nel 
Kinascimento.  È  da  supporre  quindi  che  dallo  stampatore  Andrea  di 
Bruges  si  adattassero  al  testo  matrici  importate,  e  che  la  parte  illu- 
strativa più.  debole  costituisca  una  delle  prime  esercitazioni  dei  xilo- 
grafi siciliani. 

Equilibrio  maggiore  e  maggior  sicurezza  si  trovano  poco  dopo  in 
quell'  enigmatica  figura  alata,  racchiusa  in  una  cornice  rettangoìare 
collo  stemma  messinese,  posta  in  fine  delle  già  citate  ConsnetudÌHe.s  l, 
malgrado  non  abbia  con  esse  alcun  rapporto  apparente.  Pur  respin- 
gendo l 'affermazione  di  Agostino  Gallo  *,  (non  esclusa  dal  Di  Marzo) 3, 
che  la  ritiene  opera  di  un  Jafo  de  Grannore,  sol  perchè  questo  nome 
si  legge  a  grandi  lettere  bianche  su  fondo  nero  al  di  sotto  della  sega, 
che  fa  da  piedistallo  all'  uomo  dalla  lunga  zimarra,  cui  credo  debba 
riferirsi  4,  si  può  tuttavia  ammettere  che  siciliano  dovette  essere  l'a- 
nonimo xilografo  non  solo  per  le  particolarità  dello  stemma  e  della 
abbreviatura  dialettale  nella  leggenda,  notata  dal  Di  Marzo  r>,  ma  più 
ancora  per  la  purezza  quasi  ingenua  del  tratto,  immune  da  qualsiasi 
traccia  di  contorcimento  nordico. 

Da  questi  scarsi  esempi  ha  origine  in  Sicilia  lo  sviluppo  notevole 
delle  illustrazioni  xilografiche  nella  prima  metà,  del  XVI  secolo  e  pre- 
cisamente sino  al  1522  ,  dopo  il  quale  anno  parecchi  ne  trascorrono 
pria  che  da  Pietro  Del  Po,  Filippo  Juvara  e  Pietro  Dell'Aquila  l'in- 
cisione siciliana,  trasformata,  riceva  nuovo  e  fecondo  impulso. 

11  singolare  aspetto  di  coteste  xilografìe  è  conseguenza  di  quella 
tenàcia  conservatrice,  abbastanza  sensibile  nei  monumenti  delle  arti 


1  La  riproduce  il  Mira,  Man.  di  Bibl.,  Palermo,   II,  394. 

2  A.  Gallo,  Elogio  storico  di  Pietro  Novelli.  Palermo,   1830,   pag.  62. 

3  G.  Di  Marzo,  La  Pittura  in  Palermo  nel  Rinascimento.  Palermo,  1899,  pag.  326. 

4  Nei  ritratti  xilografici  :  la  firma  dell'incisore,  rarissima,  non  occupa  mai  uno 
spazio  troppo  in  vista,  di  frequente  è  indicata  da  un  misterioso  monogramma. 

5  Op.  cit.,  pag.  326, 


PARTK   II.  XILOGRAFIE   SICILIANE.  375 

principali,  onde  i  caratteri  del  secolo  tramontato  permangono  qua  e 
là  malgrado  le  diverse  aspirazioni  e  insieme  a  forme  più.  evolute. 
Così  mentre  una  classica  larghezza  già  piega  e  arrotonda  le  foglie  e 
i  rami,  che  egualmente  inquadrano  i  monogrammi  riuniti  dei  tipografi 
Antonio  Maida  e  Giovanni  Pasta  nei  frontespizi  delle  Pragmatico  e 
dei  Capitala  (1511)  l  ,  le  due  opere  del  mazarese  Giovanni  Giacomo 
Adria  (15151516)  2  e  la  traduzione  di  Silvestro  Sigona  (1521)  3  sono 
adorne  di  figure  e  di  fregi,  che,  pur  non  ripetendo  la  loro  origine  da 
intagli  più  antichi ,  conservano  certi  particolari  stilistici  evidentis- 
simi in  altre  xilografie  del  XV  secolo  tedesche  e  toscane  4,  inserite 
nelle  stesse  stampe,  quasi  a  dimostrare  la  persistenza  dei  modelli  an- 
cora in  uso. 

Da  tali  soluzioni  di  continuità,  che  turbano  1'  unità  illustrativa 
dei  libri  ricordati  ,  F  arte  xilografica  apparirebbe  in  Sicilia  soggetta 
sempre  alla  tradizione  di  determinate  influenze,  se  a  rivendicarne  i 
caratteri  originali,  distruggendo  ogni  ipotesi  pessimista,  non  si  incon- 
trasse in  una  stampa  messinese  del  1522  un  gruppo  omogeneo  di  grandi 
e  belle  xilografìe,  fin  qui  poco  accessibile  agli  studiosi,  e  non  mai  de- 
scritto con  intendimenti  critici.  Alludo  alle  incisioni  del  rarissimo  trat- 
tato :  Sequitur  la  quarta  Opera  de  arithmetica  et  Geometria  facta  et  or- 
dinata per  Johanne  de  Ortega  spagnolo  pale  ut  ino  5,  (di  cui  una  copia 
trovasi  da  poco  tempo  nel  Museo  di  Palermo),  che  x>ei  loro  rapporti 


1  Evola  ,  Storia  tipografico-letteraria  del  secolo  XVI  in  Sicilia.  Palermo  ,  1878, 
pag.  191  e  298,  u.  52,  225.  Può  darsi  che  anche  qui  si  tratti  di  matrici  impor- 
tate. I  fregi  infatti  rivelano  un  unico  intaglio  più  grande  e  non  eseguito  per  le 
dimensioni  delle  pagine,  cui  invece  un  incisore  locale  li  avrebbe  certamente  adattati. 

2  G.  Salvo  Cozzo,  Le  edizioni  siciliane  del  secolo  XVI.  Palermo,  1885,  pag.  6  e  seg. 

3  G.   Salvo  Cozzo,  op.  cit.,  pag.  13. 

4  Uno  studio  analitico  come  quello  fatto  dal  Bartsch  sulle  xilografie  del  XV 
secolo,  non  incise  pei  libri,  gioverebbe  non  poco  alla  ricerca  degli  originali.  Cu- 
riose rassomiglianze  esistono  p.  e.  tra  il  Combattimento  di  cavalieri  al  verso  della 
terza  carta  nell'opuscolo  del  Sigona  ed  una  xilografia  tedesca  del  1476,  riprodotta 
dal  Eosenthal  al  n.  195  del  suo  Catalogo,  (Incunabula  xilografica  et  chaleographica. 
Miinchen),  utile  anche  per  riconoscere  le  vignette  tedesche  delle  Laudi  dell'Adria, 
pubblicate  dal  Maida  nel  1529,  quando  cioè  la  decadenza  dell'incisione  in  legno 
cominciava  a  manifesfarsi. 

D  Antonio  (Biblioteca  Htspanica  1-750),  trascrive  il  titolo  di  un  trattato  di 
aritmetica  dell'Ortega  ripubblicato  a  Granata  nel  1563  e  a  Siviglia  nel  1573,  che 
comprende  probabilmente  le  tre  prime  parti  della  Quarta  opera.  Questa  è  iu  modo 
imperfetto  riportata  in  molte  bibliografìe  (Bruuet,  Graesso  ,  Mira,  Evola  etc.)  e 
solo  con  esattezza  dal  Dott.  Gaetano  Caracciolo,  che,  a  pag.  15  delle  citate  Edizioni 
del  Salvo  esamina  la  copia  esistente  nell'Università  di  Messina, 


376  e.  matranCtA.  parte  ii. 

di  indiscutibile  identità  ci  inducono  a  ritenere  come  certa  l'esistenza  a 
Messina  in  quell'epoca  di  un  artista  xilografo  dalla  tecnica  personale  e 
vigorosa ,  inspirata  sempre  ad  un  verismo  sincero  e  ricca  di  nuove 
risorse. 

Eeputo  quindi  non  inutile  di  descrivere,  per  la  prima  volta,  le 
importanti  xilografìe  con  speciale  riguardo  alle  figurazioni. 

I  (carta  18,  verso) 

Carlo  V  in  trono.  —  Siede  quasi  nel  mezzo  ,  ha  sul  capo  la  co- 
rona imperiale ,  sulla  mozzetta  di  ermellino  il  toson  d'  oro  ,  in  una 
mano  lo  scettro,  e  volge  a  destra  il  viso,  completamente  raso,  per  ri- 
cevere un  librOj  che  un  giovane  dalla  barba  a  punta  e  vestito  di  una 
lunga  tunica ,  aperta  ai  fianchi ,  gli  offre  in  ginocchio.  Ai  lati  della 
sedia  a  baldacchino  con  due  leoni  alati  a  guisa  di  bracciuoli  ,  sulla 
quale  leggesi  REX  CAliOLVS  :  IMP.  stanno  due  gruppi  di  cortigiani, 
(ciascuno  di  quattro  personaggi),  nei  più  svariati  costumi  :  spaglinoli 
tedeschi  e  orientali ,  che  commentano  il  gesto  del  donatore.  Il  fondo 
è  occupato  da  una  tenda  a  minute  pieghe.    Dim.  mm.  213  X  172. 

L' incisione,  che  rende  assai  bene  il  movimento  delle  figure,  non 
fu  fatta  pel  trattato  dell'Ortega,  come  il  soggetto  potrebbe  far  credere; 
si  incontra  invece  una  prima  volta  nei  Capitala,  pubblicati  dagli  Spira 
nel  1521  *,  ed  è  poi  riprodotta  in  quelli  del  1526  2.  Nessuna  somi- 
glianza vi  è  infatti  tra  il  personaggio  inginocchiato  e  il  ritratto  del- 
l'Ortega, di  cui  parleremo  in  seguito. 

II  (carta  29,  recto) 

Santa  Caterina,  (fig.  57)  —  In  piedi  nel  mezzo,  vista  di  fronte, 
Xiiega  un  po'  verso  sinistra  la  testa  coronata  e  adorna  di  lunghi  ca- 
pelli, chinando  i  grandi  occhi  a  mandorla  sopra  un  libro  aperto,  che 
tiene  fermo  al  fianco  coll'indice  e  il  medio  della  destra  distese  e  le 
altre  dita  ripiegate.  La  mano,  che  resta  libera,  poggia  con  eleganza 
non  priva  di  energia  siili'  elsa  a  croce  di  un  pesante  e  largo  spadone, 


1  Salvo,  op.  cit.f  pag.   12,  n.  8. 

2  Salvo,  op.  cit.t  pag.  19,  n.  12.  In  questa  comune  stampa  del  XVI  secolo  si 
nota  anche  un  legno  tirato  in  più  esemplari  e  rappresentante  un  re  in  trono  ora 
giovine,  ora  vecchio,  che  riceve  i  Capitala  tra  due  gruppi  sempre  eguali  di  digni- 
tari. Le  curiose  immagini  sono  ottenute  con  due  matrici  mobili  incastrate,  secondo 
il  bisogno,  nell'intaglio  principale.  La  xilografia  di  scarso  valore  artistico  rivela 
tuttavia  lo  stile  dell'autore  del  Carlo   V,  ed  è  forse  l'ultima  da  lui  incisa. 


PARTE   II. 


XILOGRAFIE    SICILIANE. 


377 


presso  il  quale  trovasi  la  ruota  dentata  e  infranta  del  martirio.  Un 
lungo  e  classico  panneggio,  fermato  sotto  il  collo,  avvolge  l'esile  figura, 
lasciando  scoperto  il  busto  verginale,  chiuso  come  in  una  guaina  da 
un  corpetto  a  larghe  striscie  di  pelliccia,  e  nascondendo  in  parte  il 
vecchio  steso  per  terra  e  poggiato  sul  destro  braccio ,  di  cui  si  intra- 
vedono solo  il  viso  e  la  grande  barba  da  fiume  pagano.  In  fondo  al  di  là 
di  un  vasto  terreno  ondulato  e  fertile,  da  una  parte  roccioso,  si  stende 


(gtalalcqaoiKtnftMOtcdrinotn»  eoo»  frhnq»iirraof!tUKKU'><t>coapigniitra»Miìit        4i 

Kfw  orna  per  bmo  :i  ;  tc-iy  j  outr  j  ca-a  tempo 


Fi-.  57. 


una  città  marittima  col  porto  fortificato,  le  torri  e  le  cupole,  (che  nulla 
hanno  di  gotico),  e  gli  alti  campanili,  qualcuno  dei  quali  supera  il  li- 
mite netto  dell'orizzonte.  Dim.  mm.  235  X  183. 

La  xilografia,  che  non  si  trova  in  nessun'altra  edizione  del  500, 
sta  qui  a  rappresentare  la  protettrice  delle  scienze  e  delle  lettere.  È 
la  più  bella  della  serie,  e  la  maniera  dell'oscuro  maestro  vi  si  rivela 
per  intero  nella  eleganza  dei  contorni  sintetica  e  misurata. 


3?8  C.  MatraKga. 


Ili  (carta  36,  verso) 

8.  Sebastiano.  —  In  piedi,  legato  a  un  albero ,  che  si  biforca  in 
alto,  volge  il  viso  dai  lineamenti  nobilissimi  verso  destra  con  espres- 
sione apollinea  di  calma  e  di  serenità ,  ed  ha  il  corpo  ignudo  e  vigo- 
roso già  ferito  da  più  treccie.  Il  terreno  è  disseminato  di  pianticelle 
a  lunghe  foglie,  come  nella  Santa  Caterina.  In  fondo  a  sinistra  un  fos- 
sato rettilineo  e  un  castello  dalle  mura  merlate.  Dim.  mm.  161X099. 
È  un'immagine  di  devozione,  inserita,  nel  libro. 

IV  (carta  56,  verso) 

Un  astronomo  l.  —  È  seduto  per  terra  sulla  vetta  di  un  monte  con 
una  gamba  distesa  e  l'altra  ripiegata,  ha  il  capo  protetto  da  un  tur- 
bante, il  corpo  da  una  lunga  zimarra  stretta  alla  cintola,  e,  levando 
in  alto  la  mano  sinistra,  misura  le  distanze  tra  gli  astri  del  cielo  con 
un  compasso,  le  cui  punte  toccano  due  stelle.  Presso  a  lui  tra  le  ine- 
guaglianze della  roccia  si  vedono  una  sfera  celeste  e  alcuni  libri. 
Dim.  min.  092X070.  Curiosa  xilografia  riprodotta  probabilmente  da 
qualche  opuscolo  popolare,  di  scienze  occulte. 

V  (carta  64,  verso) 

S.  Girolamo.  —  Il  Santo  dalla  folta  barba,  seminudo,  è  inginoc- 
chiato a  sinistra  presso  un'alta  roccia,  tiene  nella  destra  una  pietra 
e  nell'  altra  mano  il  crocifisso,  sul  quale  sono  diretti  i  suoi  sguardi. 
Dietro  a  lui  appare  la  testa  del  leone,  per  terra  dalla  parte  opposta 
è  posato  il  cappello  cardinalizio.  Dim.  mm.  159  X  099.  Xilografia  in- 
feriore di  merito  alle  altre  e  sommariamente  espressa.  È  anche  questa 
un'  immagine  sacra,  che  non  ha  alcun  rapporto  col  testo  (v.  n.  III). 

VI  (carta  65,  recto) 

Ritratto  di  Giovanni  de  Ortega.  (flg.  58)  — L'autore  dell'opera  è 
seduto  sulla  cattedra,  visto  di  fronte,  e  il  suo  volto  raso,  di  forma  un 
po'  allungata,  dalla  fronte  breve  coronata  di  alloro,  non  ha  alcun  ca- 
rattere che  ricordi  la  nsonomia  giovanile  del  personaggio  ,  descritto 
al  n.  I.  Veste  una  tunica  larga  con  mantellina  a  squame,  ed  accenna 


1  Non  Euclide,  come  crede  il  Caracciolo. 


PARTE   II. 


XILOGRAFIE    SICILIANE. 


379 


coll'indice  della  mano  sinistra  ad  una  figura  geometrica,  racchiusa  in 
una  superfìcie  rettangolare.  Più  in  basso  ai  due  lati,  nei  banchi  a  piano 


À  POI  cB  in  tutte  Ter egule  &  capitali  padri  teho  in  tfgnato  fi 
mete  in  che  modo  &  manera  fefara  qua!  teuoglia  re  gufa  mcr< 


Fig,  58. 


inclinato  stanno  quattro  discepoli  dai  capelli  lunghi  e  lisci  in  attitu- 
dini diverse  di  profonda  attenzione.  La  cattedra,  sulla  cui  predella  si 


380 


C.    MATRANGA. 


legge  il  nome  :  Johanne  De  Orteca,  è  adorna  di  due  sfingi,  che  intrec- 
ciano le  code.  Accanto  al  maestro  si  notano  una  squadra  ed  alcuni 
libri,  uno  dei  quali,  sopra  un  leggìo  a  destra,  con  le  pagine  coperte 
di  grossi  numeri.  Dim.  mm.   122  X  107. 

Questa  xilografia  ha  valore  di  documento,  e  supera  nello  studio 
dei  particolari,  che  ne  rendono  non  dubbia  l'autenticità,  quella,  cui 
dobbiamo  il  ritratto  del  vecchio  Adria ,  due  volte  ripetuta  nelle  ci- 
tate stampe  palermitane,  e  di  recente  riprodotta  da  R.  Stanley  Faber  1. 

A  queste  belle  figurazioni  si  alternano  nel  libro  stemmi  ed  em- 


Fig.  59. 

blemi,  resi  con  ampiezza  decorativa;  (primeggia  la  splendida  arma  del- 
l'Impero, (fig.  59),  espressa  con  energia  di  segno,  non  facile  ad  imitare), 
svelte  candeliere,  fregi  a  foglie,  a  meandri,  ad  animali  chimerici,  che 
inquadrano  le  pagine,  ed  infine  eleganti  motivi  stilizzati,  come  quello 
del  legno  longitudinale,  in  cui  due  putti  sopra  un  alto  albero,  popo- 
lato di  uccelli,  raccolgono  fiori  per  due  giovani  donne,  che  stanno  sul 
prato  ad  attendere. 

Anche  questa  parte  ornamentale  ricca  e  varia  e ,  dirò  di  più,  per- 
fino la  raccolta  insignificante  di  esempi,  che  completano  i  problemi,  riu- 


1  Printing  in  Sicily  (1478-1554).  A  papcr  read  before  the  Bibliorjraphieal  Society. 
Fehruary  19,  1900.  London  1901. 


PARTE   li.  XILOGRAFIE   SICILIANE.  381 

niti  in  fondo  al  volume,  sono  condotte  nello  stile  delle  figure  a  con- 
torni rapidi  ina  precisi,  ombreggiati  sempre  da  tagli  trasversali,  che 
cambiano  di  pendenza  e  di  direzione  a  seconda  dei  valori  diversi  del 
chiaroscuro  e  degli  effetti  prospettici  :  e  contribuiscono  a  ben  deter- 
minare la  fisonomia  dell'ignoto  e   unico  illustratore. 

Ma  chi  fu  mai  il  modesto  artefice,  indubbiamente  formatosi  alla 
scuola  del  grande  Antonello,  la  cui  opera  è  tutta,  chiusa  come  in  un 
albo,  nel  raro  in-folio,  uscito  dai  torchi  di  Giorgio  e  Pietruccio  Spira  ''. 
L'indagine  non  è  facile  ,  nò  può  giovarsi  del  sussidio  di  prove  certe, 
ma,  pur  limitandola  al  solo  esame  dei  rapporti  stilistici,  è  forza  rico- 
noscere in  lui  le  qualità  e  i  difetti  dell'  anonimo  messinese  della  Di- 
sputa di  8.  Tommaso,  (Museo  di  Palermo) ,  e  dei  Magi,  (Chiesa  paler- 
mitana del  Cancelliere) ,  che  qui  ripete  con  tecnica  diversa  ma  non 
meno  ferma  il  carattere  e  i  lineamenti  fisonomici  dei  suoi  personaggi 
dalle  ricche  vesti,  disposti  con  egual  simmetria,  facendo  al  solito  gran- 
deggiare nei  piani  più  remoti,  contro  le  leggi  del  disegno  e  della  pro- 
spettiva ,  le  figure  principali  a  scapito  delle  secondarie  ,  piccole  ed 
umili  nella  brevità  degli  spazi,  loro  concessi. 

Da  queste  intime  analogie  nuova  conferma  riceve  una  giusta  at- 
tribuzione del  Cavalcasene  ,  accolta  dal  Brnnelli  ,  il  quale  non  solo 
scorge  nelle  tavole  suddette  la  mano  di  Antonio  De  Sabba,  ma  gli 
assegna  con  ragione  il  *S'.  Sebastiano  di  Berlino,  (affine  all'  immagine 
incisa)  ;  ed  infatti  dall'  intaglio  in  legno  ornamentale  ,  che  il  pittore 
apprese  dal  padre  Giovanni,  ed  esercitò  da  solo  con  perizia  l,  all'in- 
taglio xilografico  è  breve  il  passo  ,  e  giustifica  inoltre  la  soverchia 
preziosità  decorativa,  a  torto  censurata  dal  suo  severo  biografo  ?,  che 
si  ritrova  non  meno  leggiadra  e  varia  nella  serie  descritta  ,  riflesso 
discreto,  ma  ancor   vibrante    della  pura  giovinezza    quattrocentesca. 


1  G.  Di  Marzo,  /  Gagini.  Palermo,   1883,  I,  171,  678  a  680;  II,  Doc.  ai   nu- 
meri :  CCXCVI-CCXCIX.CCC -CCCI. 

2  E.  Brunelli,  Antonello  De  Saliba.   v.  V Arte,  anno  VII  ;  1904),  pag.  271  e  seg. 

Palermo. 

Cesare  Matranga. 


LO  STENDARDO  DELLA  SANTA  LEGA  DEL  1571 


Lo  Stendardo  della  Santa  Lega,  benedetto  da  Pio  V  e  consegnato 
solennemente  nel  tempio  di  Santa  Chiara  in  Xapoli  a  Don  Giovanni 
d'Austria  dal  Cardinal  Granvela  il  14  agosto  1571;  spiegato  sublime 
su  la  galea  Beale  il  7  d'ottobre,  al  momento  d'ingaggiare  la  grande 
battaglia,  e  salutato  quattr'  ore  appresso  dall'immenso  grido  di  vittoria 
dei  Cristiani;  quello  Stendardo  ,  dopo  di  avere  invano  cercato,  nel  suc- 
cessivo anno,  nuovi  raggi  di  gloria  nei  mari  del  Levante  ,  veniva  tri- 
stamente abbassato  nel  porto  di  Xapoli  ai  venti  d'  aprile  del  1573, 
quando  improvvisa  e  inattesa  vi  giungea  la  nuova  del  disfacimento 
della  Lega,  per  la  conclusa  pace  di  Venezia  col  Turco. 

Che  ne  avvenne  dopo  ?  E  che  memoria  ci  resta  di  sì  glorioso  ci- 
melio 'ì  E,  prima  d'ogni  altro,  come  e  quale  era  esso  ? 

Cercherò,  per  quanto  è  possibile,  di  appagare  il  giusto  desiderio 
di  queste  domande  ,  interrogando  ,  tra  l' ingente  numero  di  scrittori 
coevi  al  memorando  avvenimento  della  Lega,  quei  che  veramente  sono 
al  caso  di  farci  conoscere  quanto  occorre,  o  perchè  sotto  a  quella  In- 
segna pugnarono,  o  perchè  con  amore  e  diligenza  ne  raccolsero  e  di- 
vulgarono i  fasti  '. 

Ferrante  Caracciolo  ,  un  prode  che  con  la  spada  e  con  la  penna 
illustrò  Lepanto  e  le  altre  imprese  di  Don  Clio  vanni  contro  i  Turchi, 
scrive  che  «  il  Papa  gli  mandò  lo  Stendardo  con  1'  armi  de  Collegati, 
sopra  le  quali  era  un  Crocifìsso  2  ».  Bartolomeo  Sereno,  altro  valoroso 
che  alla  fede  e  all'onore  della  propria  nazione  consacrò  tutta  la  vita 


1  Nella  Biblioteca  dell'Escuriale,  tra  le  varie  scritture  mss.  del  sec.  XVI  re- 
lative alla  vittoria  navale  del  7  ottobre  1571  ,  ne  trovo  fuggevolmente  ceunata 
una  su  lo  Stendardo  di  Lepanto,  ebe  ignoro  qual  valore  ed  estensione  abbia.  Cfr. 
Gli  Archivi  e  le  Biblioteche  di  Spagna  in  rapporto  alla  storia  d'Italia  in  generale  e 
di  Sicilia  in  particolare;  Relazione  di  Isidoro  Carini  ecc.  (Palermo,  Tipografìa  dello 
Statuto,   1884),  Parte  prima,  pag.  431. 

2  /  Commentarii  delle  guerre  fatte  co'  Turchi  da  D.  Giovanni  d'Austria,  dopo  che 
renne  in  Italia ,  Scritti  da  Ferrante  Caracciolo  Conte  di  Biccari  (In  Fiorenza, 
M.D.LXXXI.  Appresso  Giorgio  Marescottij,  pag.  11. 


PARTE   II.  LO   STENDARDO   DELLA   SANTA   LEGA   DEL   1571.  383 

dando  il  braccio  ed  il  senno,  notava  :  «  Fn  nella  galea  Reale  di  D.  Gio- 
vanni inarborato  il  grande  Stendardo  della  Sacra  Lega,  il  quale  dal 
Papa  era  stato  mandatogli  con  gran  circostanze  di  devozione  ,  a  fine 
che  non  prima  che  il  giorno  della  battaglia  si  dovesse  spiegare;  nel 
quale  Stendardo  una  gran  figura  di  nostro  Signore  Crocifisso  era  di- 
pinta i  ».  Paolo  Paruta  e  Giovan  Pietro  Contarmi,  in  forma  pressoché 
identica  fanno  solo  conoscere  ,  che  lo  Stendardo  della  Lega  inalzato 
su  la  Beale  portava  le  armi  dei  tre  Potentati  confederati  2;  ma  Uberto 
Foglietta  con  più  precisione:  «  Austrius ,  omnibus  rebus  ad  imminens 
certamen  instructis,  Yexillum,  in  quo  sub  imagi  ne  unanimi  Xuminis  in- 
signii foederatorum  Principimi  expressa  erant,  à  Pontefice  transmissum 
-extollit  3  ».  Meglio  specificando ,  Tomaso  Costo  menziona  «  lo  Sten- 
dardo della  Lega  mandato  dal  Pontefice ,  su  il  quale  era  dipinto  un 
Crocifisso  con  l'arme  de'  Collegati  a'  pie,  nel  mezzo  quella  del  Papa, 
a  man  destra  quella  del  Ee ,  et  a  sinistra  quella  de'  Venetiani  4  ». 
E  qualche  altra  particolarità  aggiunge  lo  storico  della  vita  di  Pio  V, 
Giovann' Antonio  Gabuzio  :  «  Quo  quidem  in  Vexillo  Jesu  Christi  affixi 
cruci  imago  mira  auro  et  argento  adumbrata  erat  :  sub  qua  locata  in 
medio  Ponti ficis  maximi,  a  dextera  Philippi  Regis,  a  laeva  ftenatus  Ve- 
neti, atqae  ex  iis  quibusdam  annexa  catenulis  ipsius  Johannis  pendebant 
insignia  5  ».  Meritano ,  in  fine  ,  che  si  riportino  le  parole  di  Cesare 
Campana  per  un  ultimo  particolare  che  gli  altri  non  hanno  :  «  Lo  Sten- 


1  Commentari  della  Guerra  di  Cipro  e  della  Lega  dei  Principi  Cristiani  contro  il 
Turco,  di  Bartolomeo  Sereno;  ora  per  la  prima  rotta  pubblicati  da  ms.  autografo  con 
note  e  documenti  per  cura  de'  Monaci  della  Badia  Cassincse  (Pei  Tipi  di  Monte  Cas- 
sino, MDCCCXLV),  lib.  Ili,  pag.  191. 

2  Storia  della  Guerra  di  Cipro,  libri  tre  di  Paolo  Parata  (Siena,  dalla  Tipografia 
di  Pandolfo  Rossi  all'insegna  della  Lupa,  MDCCCXXVII)  ,  lib.  II  ,  pag.  279;  — 
Historia  delle  cose  successe  dal  principio  della  guerra  mosca  da  Selim  Ottomano  a'  Ve- 
netiani ,  fino  al  dì  della  gran  Giornata  Vittoriosa  contra  Turchi.  Descritta  non  meno 
particolare  che  fedelmente  da  M.  Gio.  Pietro  Contarini,  Venetiano  (In  Venetia,  Ap- 
presso Francesco  Rampazetto,  MDLXXII),  f.  48. 

3  liberti  Folietae  De  sacro  foedere  in  Selimnm  libri  quatuor.  Eiusdem  varine  expe- 
ditiones  in  Africani.  Eiusdem  obsidio  Melitac  (Gennae  MDLXXV),  lib.  Ili,  pag.  168. 

4  Del  Compendio  dell'  Istoria  del  Regno  di  Napoli,  di  Tomaso  Costo  Napolitano. 
Parte  terza.  Aggiuntovi  in  questa  ultima  editione  il  Quarto  libro  che  supplisce  per  tutto 
l'anno  MDCX  ecc.  (In  Venetia  MDCXIII,  Appresso  i  Giunti),  lib.  II,  pag.  38. 

5  Jo.  Ant.  Gabutius.  De  vita  et  rebus  gestis  Pii  F(Romae,  1605),  lib.  V,  cap.  I, 
pag.  127.  —  Girolamo  Catena,  nella  Vita  del  gloriosissimo  Papa  Pio  Quinto  (In  Roma, 
M.D.LXXXVII)  descrive  a  pag.  170  lo  Stendardo  di  damasco  rosso  col  Crocifisso 
e  i  SS.  Pietro  e  Paolo  consegnato  a  M.  A.  Colonna  come  Ammiraglio  della  flotta 
pontificia,  ma  non  dice  verbo  dello  Stendardo  della  Lega. 


384  S.   SALOMONE-MARINO.  PARTK  II. 


dardo  della  Lega...  era  di  color  turchino,  con  Otri  sto  in  Croce  dipinto 
nel  mezzo,  et  a'  piedi  Parme  de'  tre  Collegati  ne'  luoghi  convenienti  i  ». 

Quanto  poi  a  quel  che  riguarda  la  qualità  della  stoffa  e  la  forma 
dello  Stendardo,  nessuno  ha  pur  una  i>arola;  salvo  per  la  stoffa  il  do- 
cumento siciliano  che  più  giù  si  reca,  il  quale,  descrivendolo  con  esat- 
tezza dice,  che  era  di  «  damasco  azzurro  ». 

Abbiamo  dunque  :  Stendardo  grande  di  damasco  azzurro,  con  al 
centro  grande  figura  del  Crocifìsso  dipinta,  sotto  la  quale  son  disposte 
l'arme  dei  Confederati  :  quella  del  Papa  in  mezzo,  a  destra  di  essa 
quella  del  Re  Filippo  II,  a  sinistra  quella  della  Serenissima,  e  sotto 
a  tutte,  pendente  da  certe  catenelle,  aggiunta  quella  di  Don  Giovanni. 
I  fregi  d'oro  e  d'argento ,  si  intende  che  eran  sul  Crocifìsso  ,  presu- 
mibilmente nel  nimbo  del  capo,  e  fors'  anco  su  la  fascia  avvolgente 
i  lombi. 

Consultando  poi  un  documento  del  tempo  di  natura  diversa,  cioè 
la  medaglia  commemorativa  della  consegna  dello  Stendardo  in  Santa 
Chiara  2,  rileviamo  :  Che  esso  è  mediocremente  grande,  se  si  tien  conto 
delle  proporzioni  fra  esso  e  le  persone  rappresentate  in  funzione;  che, 
apparendovi  il  drappo  in  voluta,  attesa  la  rigidità  che  questo  pre- 
senta, dimostra  esser  fatto  di  un  tessuto  molto  spesso  (il  che  è  na- 
turale); e  dimostra  in  fine,  che  non  è  a  punta,  ne  molto  lungo,  se  il 
Crocifìsso  che  vi  si  scorge  delineato  sta  al  centro,  come  ragionevol- 
mente deve  essere  e  come  lo  storico  Campana  scrive  che  era. 

Or,  tenuto  presente  tutto  questo  che  precede  ,  io  credo  di  aver 
trovato  e  di  poter  indicare  la  figura  e  forma  precisa  dello  Stendardo 
della  Lega  in  un  disegno  di  alquanto  rozza  esecuzione  che  trovo  im- 
presso in  due  rarissime  stampe  della  fine  del  1571,  cioè  subito  dopo 
della  vittoria  di  Lepanto.  Sono  esse  le  seguenti  : 

1.  Raccolto  Di  Tvtto  il  Svccesso  segvito  da  che  si  Fermo  la  Santa 
Lega  de  Christiana  per  j\r.  $.  Pio  Quinto  sino  a  questo  giorno.  Nel  quale 
si  contiene  ogni  ^articolar  auuiso  della  Battaglia  et  Botta  Nauale  data 
all'Armata  Turchesca  per  il  Sereniss.  Don  Giouanni  d'Austria  Generale 


1  Delle  HÌ8torie  del  mondo,  Descritte  dal  si g.  Cesure  Campana,  Gentilh uomo  aqui- 
lano, volume  primo,  che  contiene  libri  dieci:  Ne'  quali  diffusamente  si  narrano  le  cose 
avvenute  dall'anno  1570  fino  al  1580.  Novamente  stampati  ecc.  (In  Pavia.  Appresso 
Andrea  Viani  MDCII),  lib.  I,  pag.  34. 

2  Ne  conserva  un  esemplare  il  Museo  Nazionale  di  Napoli  ;  è  riprodotta  da 
Luigi  Conforti,  I  Napoletani  a  Lepanto  (Napoli,  Casa  Ed.  artistico-letteraria,  1886), 
tav.,  e  da  Sir  William  Stirling-Maxwell,  Don  Iohn  of  Austria  ecc.  (London;  Long- 
raans,  Green,  and.  C,  .MDCCCLXXXIII),  voi.  I,  chap.  XIV,  pag.  359. 


PART.R  II. 


LO  STENDARDO  DELLA  SANTA  LEGA  DEL  1571. 


383 


dell' Armata  di  detta  Manta  Lega.  Per  annitrì  hauuti  da  sua  Serenità  e 
da  altri  Signori  ritrouat'm  presenti  in  detto  conflitto.  In  <S°,  di  pp.  :\'l 
non  nuiner.  È  uno  dei  più  importanti  libretti  del  tempo,  ed  è  eviden- 
temente stampato  dagli  Eredi  del  Biado  di  Roma.  11  disegno  dello 
Stendardo  vi  è  inserito  nel  testo,  alla  pag.  8. 

2.  Ritratto  D'Yna  Lettera  scritta  all'Ili.™  Et  Ecc.™  K.or  Amba- 
sciator  Cesareo  Dalla  Armata.  Donde  si  hanno  molti  nuoui  ,  belli ,  et 
particolari  ragliagli  circa  la  Vittoria  hauuta  contro  Turchi.  In  Roma 
Appresso  (/li  heredi  di  M.  Antonio  Biado  Stampatori  ('omerali.  In  8°, 
di  pp.  4  non  mini.  Non  meno  importante  libretto  anche  questo,  nel 
(piale  il  disegno  dello  Stendardo  è  impresso  nel  frontispizio,  dopo  il 
titolo  e  prima  del  luogo  di  stampa   '. 

^Ne  metto  ai  lettori  sott'oeeliio  la  riproduzione  in  zincotlpia  :  e  ci 
si  accorge  subito,  dai  particolari  del  Crocifisso,  dalle  arme  de' Colle- 
gati e  disposizion  loro,  dai  fregi  del  bordo  e  perfino  dai  nove  fori  del 


Fi< 


margine  laterale  per  i  quali  il  drappo  doveva  legarsi  all'asta,  che  noi 
ci  troviamo  innanzi  ad  una  precisa  rappresentazione,  né  più  ne  meno, 
dello  Stendardo  della  Santa  Erga,  il  (piale  si  vede  che  lo  stampatore 
romano  volle  appunto  conservare  a  ricordo,  nei  suoi  libretti  d'occasione. 


1  La  mingine  del  Crocifìsso,  soprastante  ai  tre  blasoni  dei  Collegati,  trovasi 
ancora  nel  frontispizio  dell'altro  opuscolo:  (ìratione  de  l'Ili:  Signor  D:  Gasparro 
Turai  tu    <d    Sercniss.  Signor  1)  :  Ciardi/  d'Austria    (In  Napoli  ,    Appresso    Giuseppe 

Caccbij   1572);   ma  qui   non  si   trovano   i  contorni  dello  Stendardo. 


386  S.    SALOMONE -MARINO. 


Apparisce  lo  Stendardo  composto  nettamente  da  otto  teli  uniti 
per  lungo,  dei  quali  i  due  estremi  giungono  a  poco  più  che  la  metà 
degli  altri.  Il  Crocifisso  occupa  il  centro  della  parte  più  larga,  ed  ai 
suoi  piedi  stanno  gli  stemmi  dei  Collegati  e  del  Generalissimo,  disposti 
e  legati  da  catenella,  precisamente  così  come  ce  li  han  fatti  conoscere 
nella  sommaria  descrizione  gli  scrittori  coevi.  Notisi  poi  la  speciale 
forma  sua,- che  non  è  né  la  quadra  ne  quella  a  punta,  ma  una  forma 
che  dell'una  e  dell'altra  partecipa,  e  che  potè  forse  esser  così  creata 
appositamente  acciocché  con  nessun'altro  Stendardo  potesse  nella  mi- 
schia venir  confuso  quello  del  Generalissimo.  E  non  vale  dire  che 
bastava  il  Crocifisso  per  distinguerlo;  perchè  ,  non  tenendo  conto  di 
Stendardi  minori  che  lo  avevano,  noto  che  l'istesso  Crocifisso  in  grandi 
proporzioni  era  stato  anche  dipinto  su  lo  Stendardo  ammiraglio  delle 
galee  pontificie ,  Stendardo  che  ondeggiò  pur  esso  al  vento  il  sette 
d'ottobre  nel  mare  di  Lepanto  l. 

Debbo  qui  far  rilevare  che  in  varj  dipinti  e  disegni  incisi,  che 
ho  potuti  vedere  ,  rappresentanti  la  grande  battaglia  ,  lo  Stendardo 
della  Lega  che  sventola  su  la  Reale  ha  bensì  il  Crocifisso,  ma  quanto 
alla  forma  non  differisce  da  tutti  gli  altri  delle  galee  cristiane.  Ma 
fo  presente,  che  non  sono,  essi,  riproduzioni  storiche  nello  stretto  senso 
come  oggi  le  intendiamo,  ed  è  troppa  presunzione  il  volervi  trovare 
l'esattezza  e  precisione  dei  minimi  particolari  ;  perchè,  da  un  canto, 
l'arte  ha  le  sue  esigenze  e  bizzarrie,  e,  dall'altro,  in  piccole  rappre- 
sentazioni grafiche  non  possono  aversi  segnate  che  le  cose  di  maggior 
rilievo  2. 

Trovato  così  quale  era  e  come  fatto  lo  Stendardo  della  Santa 
Lega,  ricerchiamo,  se  ci  riesce,  come  e  dove  sia  andato  a  finire. 

Tra  i  preziosi  ricordi  di  Don  Giovarmi  e  della  vittoria  di  Lepanto 
che  restano  all'  Escuriale  o  in  altri  luoghi  di  Spagna  ,  lo  Stendardo 
della  Lega  non  c'è  3.  Una  inesatta  tradizione  ,  accettata  anche  da  di- 


1  Cfr.  Catena,  <>p.  e  loc.  cit,;  —  Marcantonio  Colonna  alla  battaglia  di  Lepanto, 
per  il  P.  Alberto  Guglielmotti  ecc.  (Firenze,  Felice  Le  Monnier,  1862),  lib.  I, 
cap.  II,  pag.  13;  —  Lettere  di  Onorato  Caetani  Capitan  Generale  delle  Fanterie  Pon- 
tificie nella  battaglia  di  Lepanto,  pubblicate  da  G.  B.  Carinci  (2a  ediz.  Roma,  For- 
zani  e  C.  Tipografi  del  Senato,  1893),  pag.   77. 

2  Valga  per  tutti  1'  esempio  del  grande  affresco  del  Gerardi  nel  Palazzo  Co- 
lonna iu  Roma,  ove  lo  Stendardo  pontificio  dato  a  Marc' Antonio,  sì  noto  a  tutt'i 
Romani  massime  dopo  il  Trionfo  del  4  dicembre  1571,  fu  dall'artista  dipinto  in 
giallo  ! 

3  Cfr.  Roseli,  Historia  del  Combat  naval  de  Lepanto  ecc.  (Madrid,  Impronta  de 
la  Real  Academia  de  la  Historia.  1853),  cap.  IV,  pag.  127,  nota  48,  e  Adiciones, 
pag.  255.  ' 


I>ARTE    II.  LO    STENDARDO    DELLA    SAXTA    LEGA    DEL    1571.  38? 

ligenti  moderni  cultori  di  storia,  fé  credere  tino  a  ieri  eh'  esso  fosse 
donato  da  Don  Giovanni  stesso  per  voto  alla  Cattedrale  di  Gaeta,  ove, 
ritagliato  poi  e  messo  in  cornice,  si  venera  pur  oggi  su  l'altare  mag- 
giore '.  Ma  un  recente  accuratissimo  scritto  del  Prof.  P.  Fedele  ha 
sfatato  la  leggenda  ed  ha  luminosamente  ed  inappellabilmente  pro- 
vato, che  quel  quadro  è  bensì  un  cimelio  prezioso  della  battaglia  di 
Lepanto,  che  fu  bensì  Stendardo  benedetto  pur  da  Pio  V  ,  ma  lo  Sten- 
dardo ammiraglio  della  flotta  pontificia,  consegnato  a  M.  A.  Colonna 
il  dì  11  giugno  1570,  e  da  questi  donato  per  voto  alla  Cattedrale  di 
Gaeta,  dopo  disfatta  la  Lega  2. 

E  allora,  lo  Stendardo  della  Lega,  che  è  ancor  più  prezioso,  come 
e  dove  è  finito  !  È  certo,  che  Don  Giovanni  non  lo  spiegò  più  su  la 
propria  Beale  dopo  il  20  aprile  1573,  né  lo  avrebbe  potuto:  che  ne 
fece  dunque  ? 

Un  documento  siciliano,  che  non  è  coevo,  ma  non  molto  lontano 
agli  avvenimenti,  ci  reca  in  proposito  delle  notizie,  che  vai  la  pena 
di  far  conoscere  per  intero  e  sottoporre  a  disamina. 

Nella  Chiesa  del  Monastero  di  San  Girolamo  in  Marsala  ,  su  l'al- 
tare della  seconda  cappella  a  sinistra  di  chi  entra,  si  venera  da  antico 
tempo  l'immagine  dipinta  di  un  Crocifisso,  che  costantemente  in  pas- 
sato e  fin  ad  oggi  si  è  chiamato  e  chiama  :  il  Crocifisso  della  Batta- 
glia, ed  è  con  gran  divozione  festeggiato  annualmente  nel  giorno  7 
d' ottobre. 

Il  quadro,  in  tela,  è  alto  metri  3,20,  largo  metri  2,40.  Al  centro 
vi  ha  incollata  una  Croce,  alta  (pianto  il  quadro,  da  cui  pende  il  Corpo 
di  Cristo  ;  Croce  e  Corpo  dipinti  a  guazzo  con  colori  giallo  e  nero 
ormai  sbiaditi ,  sopra  un  tessuto    grossolano  ,  evidentemente  diverso 


1  Conforti,  op.  cit. ,  cap.  VI,  pag.  32  e  segg.; —  Jurien  de  la  Gravière,  La 
Guerre  de  Chypre  et  la  Jìataille  de  Lépante  ecc.  (Paris,  E.  Plon,  Nourrit  et  C,  1888), 
tome  II,  partie  III,  ebap.  I,  pag.  150;  —  Pompeo  Molmenti,  Sebastiano  Venterò  e 
la  Battaglia  di  Lepanto  (Firenze,  G.   Barbèra  ed.,   1899),  cap.  IV,  pag.  SG. 

2  P.  Fedele,  Lo  Stendardo  di  Marco  Antonio  Colonna  a  Lepanto  (Perugia,  Unione 
Tipografico  Cooperativa  .  M.DCCCC.III).  Il  Prof.  Basilio  Magni  (Storia  dell'  arte 
italiana,  Roma,  1902,  voi.  III,  pag.  560)  avea  già  corretto  l'errore  della  tradizione 
dei   Gaetini. 

Rilevo  qui  in  nota  l'equivoco,  in  cui  è  incorso  il  D.r  Cornili.  Carlo  Dell'Acqua 
(Di  San  rio  V  Papa  ecc.,  Milano,  Tip.  Ed.  Cogliati,  1901.  cap.  IV,  pag.  83)  scri- 
vendo die  lo  Stendardo  della  Lega  è  in  Cagliari  presso  l'Arciconfraternita  del 
Rosario.  Questo  di  Cagliari  è  uno  Stendardo  di  Compagnia  spagnola,  come  si  di- 
mostra per  la  forma  e  pei  colori,  e  appartenne  probabilmente  alla  valorosa  Com- 
pagnia di  Arcbibugieri  Sardi  clic  sotto  il  comando  di  Lope  de  Figueroa  pugnò  su 
la  Beale  di  Don  Giovanni.  Cfr.  in  proposito  G.  L.  Mulas  ,  I  Sardì  a  Lepanto  (Ca- 
gliari; Tip.  Ed.  dell'  «Avvenire  di  Sardegna»,   1887). 


S88 


S.    SALOMONE  MARINO. 


lWIiTE    li. 


dalla  tela  del  quadro  l.  Il  corpo  ed  anche  la  testa  del  ('risto  sono 
scorrettamente  disegnati.  Nel  fondo  della  tela  (oltre  a  Maria  e  San 
Giovanni  che  stanno  in  prima  linea)  è  disegnato  il  golfo  con  le  mon- 
tuose rive  e  il  mare  di  Lepanto,  in  cui  sono  le  due  riotte  avversarie 
nel  momento  che  vengono  all'attacco  2. 


Fiar.  61. 


1  È  pressoché  impossibile,  per  l'impiastricciatura  dei  colori  e  della  colla,  che 
si  conosca  se  il  tessuto  sia  seta  o  tela;  bisognerebbe  staccarne  qualche  filo  o  sot- 
toporlo ad  esame,  ove  ciò  fosse  consentito. 

2  Non  essendo  stato  possibile  ottenere  la  fotografia  del  quadro  originale,  pre- 
sento quella  d'una  stampa  del  secolo  scorso,  che  la  riproduce  abbastanza  esatta- 
mente nell'insieme,   ma  dando  corretto  il  disegno  del  corpo  di   Cristo, 


Parte  ir.  lo  stendardo  della  santa  lega   del  1571.  .'J89 

A  illustrazione  del  quadro  e  del  nome,  in  una  tabelletta  appesa 
al  muro  della  cappella   stessa,  leggesi  (pianto  appresso  : 

«  h' e  I a z i o  ne 
Del  Crocifisso  (iella  Battaglia   lasciato  in  questo  Monostero  di  S.  Giro- 
lamo dai  Serenissimo   Principe   />.    Giovanni  d'Austria. 

«  Avendo  Se-lini  Imperatore  de  Turchi  violato  colla  solita  infe- 
deltà la  pace  che  aveva  giurato  A  Veneziani  ,  portò  sotto  il  comando 
di  Mustafà  l'anni  in  Cipro,  dominio  di  questa  Republica ,  e  coll'espu- 
gnazione  di  Nieolosia  '  ,  una  delle  principali  piazze  dell'Isola,  le  passò 
all'assedio  di  Faniagosta,  dalla  cui  caduta  dipendea  l'acquisto  totale 
di  quel  fioritissimo  regno.  Ad  una  così  amara  nuova  stordirono  i  Ve- 
neziani colti  alla  sprovista  dalla  proditoria  doppiezza  di  quel  Barbaro, 
e  niente  di  meno  s'addolorò  la  Santità  di  Pio  V,  Pontefice  allora  re- 
gnante ,  che  invigilando  con  attenzione  pastorale  al  bene  comune  del 
Cristianesimo  per  impedire  i  progressi  all'  ostinato  nemico  del  nome 
Cristiano,  s'  ingengnò  a  tutto  sforzo  di  sostenere  la  fortuna  cadente 
di  quella  Serenissima  Bepubliea,  e  non  trovando  negl'  altri  Principi 
ne  disposizione  ne  forze  da  collegarsi,  si  espresse  all'Invittissimo  .Mo- 
narca delle  Spagne  Filippo  Secondo  di  sempre  gloriosa  memoria,  ck'aco- 
piando  al  titolo  un  genio  veramente  catolico,  non  ricusò  di  concorrere 
nel  gusto  del  Pastore  Vniversale  a  difesa  della  Cristianità  allora  per 
le  vittorie  ottomane  pericolante;  e  così  a  25.  di  Maggio  1571.  si  con- 
chiuse in  Roma  nel  sacro  Concistoro  una  lega  santa  tra  il  Pontefice, 
il  Re  Catolico  e  la  Signoria  Veneta,  in  virtù  della  (piale  si  pose  su- 
bito in  mare  da  Collegate  una  poderosissima  Armata,  al  cui  comando 
generalizio  fu  destinato  il  serenissimo  Principe  I).  Giovanni  d'Austria 
figliolo  del  già  Imperatore  Carlo  Quinto  e  fratello  del  Ile  Catolico, 
che  subito  sciolse  da  Barcellona  eoi  l'armata  di  Spagna  e  di  passagio 
in  Napoli  prese  con  sollenne  cerimonia  nel  Monastero  di  S.  Chiara 
dal  Cardinal  Granvela,  Viceré  di  (pici  Pegno  e  Legato  di  sua  Beati- 
tudine a  quest*  effetto  ,  lo  Stendardo  della  Santa  Legha.  Era  di  da- 
masco azzurro  ,  in  cui  stavano  dipinti  a  riccamo  2  1'  armi  del  Papa, 
a  destra  quelle  del  Uè  Catolico,  e  all'altro  lato  quelle  della  Republic;), 
dalle  «piali  pendevano  colla  bizzarria  di  un  attacco  artificioso  altresì 
quelle  del  Generalissimo   I).  Giovanni  :!  :  che  fornita  la   funzioni;,  si 


1  Sic.   Il  trascrittore  avrà  letto  male  il  Nicossia  dell'  antica  scrittura,  o  è  un 
suo  trascorso  di  penna. 

2  Dipinti  a  riccamo  ,   espressione  non   felice  ,   ma  che    ci    là    conoscere  che  gli 
stemmi  erau  fatti  a  ricamo  l'orse  sopra  un  tracciato  dipinto. 

3  È  omessa  la   cosa  più  importante,   la  lìgula  del  Crocilisso  ;   però  se  ne  tien 
conto  più  innanzi. 


390  S.    SALOMONE-MARINO. 


fece  subito  alla  vela  per  Messina ,  nel  cui  porto  si  dovea  unire  il  corpo 
lutto  dell'armata;  che  però ,  avendovi  precorso  la  Pontifìcia  e  la  Ve- 
neta, uscirono  ad  incontrare  colle  maggiori  dimostrazioni  di  giubilo 
e  collo  sparo  di  tutto  il  cannone  il  lor  supremo  Comandante.  Ivi,  ras- 
segnata a  tutta  fretta  la  milizia,  provistosi  di  viveri  ed  attrezzi  da 
guerra,  ordinato  il  modo  della  navigazione,  e  invocato  con  divotissima 
processione  Pagiuto  del  (Melo,  partì  subito  alla  volta  di  Levante. 

«  Gemea  il  mare  sotto  l'incarco  di  313.  legni  Cristiani,  e  in  essi 
volava  a  militare  in  ossequio  della  Fede  il  flore  della  Nobiltà  d'Eu- 
ropa; e  fra  gli  altri  avventurieri  molti  Prencipi  liberi ,  come  Alessan- 
dro Farnese  Prencipe  di  Penna  *,  quello  dWrbino  e  I).  Francesco  di 
Savoja.  Nel  progresso  del  loro  velegiare  udirono  da  un  bergantino 
candioto  la  resa  a  patti  di  Famagosta  in  potere  de  Turchi,  e  che  fu- 
rono da  quei  barbari  violate  le  leggi  delle  genti  coli'  inosservanza 
delle  capitolazioni.  Attizzò  magiormente  quest'  aviso  el  zelo  ell'ardore 
di  quei  petti  Catolici  e  generosi ,  onde  sollecitarono  al  possibile  la 
navigazione  per  attaccare  l'armata  ottomana  e  fare  di  quei  sagrileghi 
una  memorabile  vendetta.  Quindi  a  7  8bre  giunti  a  certe  Isolette  di- 
sabitate dette  Escorzolare  ,  entrando  per  un  canale  nel  golfo  di  Co- 
rinto, scoprirono  l'armata  Turchesca,  che  affidata  nell'esorbitante  mol- 
titudine [era]  uscita  dal  porto  di  Lepanto  in  busca  della  Cristiana; 
allora  I).  Giovanni  postosi  in  una  leggiera  fragata  ,  ordinò  con  ammi- 
rabile valore  e  desterità  1'  armata  in  forma  di  battaglione  ;  e  fatto 
l'istesso  dal  Turco,  caminava  ciascuna  di  paro  coragiosamente  ad  in- 
vestirsi, solo  con  questo  divario,  che  i  Maomettani  venivano  secondati 
dal  vento  ;  inalberandosi  però  nella  Beale  Cristiana  un  Crocifìsso  in 
tela  benedetto  dalla  Santità  di  Pio  V.  mutossi  al  punto  la  traversia 
in  un  favorevole  sopravento.  Si  spiccano  in  ciò  le  Beali  due,  e  attac- 
cando la  zuffa  si  cambiò  di  repente  il  mare  di  regione  d'acqua  in  un 
inferno  di  fuoco;  ma  alla  fine,  doppo  lunga  e  ostinata  tenzone,  si  di- 
chiarò la  vittoria  da  parte  de  fedeli.  Restorno  prese  in  questo  conflitto 
da  200.  Galere  de  Turchi,  oltre  delle  sommerse.  Gl'uccisi  de  nemici 
furono  30  mila,  i  prigioni  tì.  mila,  e  liberati  lo.  mila  schiavi  cristiani; 
rese  perciò  da  tutti  furono  le  grazie  al  Signore  degl'Eserciti. 

«  Voltò  l'armata  le  prore  al  ritorno  ,  e  toccando  Messina,  ove  si 
disciolse  l'armata  de  Collegati.  Il  Serenissimo  I).  Giovanni,  portatosi 
di  passo  2  in  Marsala,  per  contracambiare  l'umilissimo  ossequio  pre- 


1  *Stc.  Ma  si   vede  subito  che,  leggendo  male  l'originale,  il  copista  mutò  Parma 
in  Renna.  Il  Villabianca  a  sua  volta,  copiando  dalla  copia,  corresse  in  Benda. 

2  Passaggio. 


PARTE  II.        LO  STENDARDO  DELLA  SANTA  LEGA  DEL  1571.  391 

statoli  da  questa  fedelissima  Città,  in  pegno  del  suo  amore,  nel  1573 
lasciò  in  questo  venerabile  Monastero  di  S.  Girolamo  1'  accennato  Cro- 
cifìsso in  tela,  che  sotto  titolo  del  Signore  della  battaglia  s'  adora  in 
questa  divotissima  Cappella  ,  a  gloria  della  Religione  ed  in  memoria 
della  munifieenza  di  quel  Serenissimo  Principe,  ove  di  continuo  eser- 
cita a  prò'  de'  fedeli  la  pienezza  delle  sue  misericordie  con  evidenza 
di  molti  miracoli  ». 

Questa  Relazione,  in  caratteri  del  secolo  XVII I  ma  evidente  copia 
di  un  originale  antico  che  più  non  esiste,  trovo  identicamente  trascritta 
negli  Opuscoli  Palermitani  del  Marchesi;  di  Villabianca,  tra  le  memorie 
ch'egli  ivi  raccolse  della  città  di  Marsala  ,  intorno  al  1780  '.  K  in- 
nanzi a  lui  l'ebbe  sott'occhio  il  Sac.  Angelo  (reumi,  il  quale,  nel  suo 
Annate  cronologico  della  Città  del  TÀlibeo  2,  dopo  di  aver  cennato  alla 
Santa  Lega  e  descrittone  lo  Stendardo  con  le  x>arole  stesse  della  Re- 
lazione, continua  :  «  Il  Generale  venne  in  Marsala  da  Messina  a  1°  ot- 
tobre 1573  con  100  galee,  entrò  in  porto,  e  disbarcato  fece  sollenne 
entrata;  al  quarto  giorno,  occorrendo  la  festività  di  S.  Francesco,  fu 
nella  Chiesa  dei  PP.  Cappuccini,  come  si  legge  in  una  lapide  posta 
nella  stanza  pria  della  sagrestia  sopra  la  porta  che  conduce  alla  ('ap- 
pella maggiore  3  ...  e  dopo  altri  giorni  diede  in  dono  al  Venerabile 
Monastero  di  S.  Girolamo  lo  Stendardo  di  l'io  V.  col  Crocefisso,  che 
si  venera  nella  Chiesa  sotto  titolo  del  Crocefisso  della  battaglia  ».  Ma 
più  in  là,  tornando  su  l'argomento,  l'Autore  aggiunge  :  «  Per  quello 
che  riguarda  alla  bandiera  del  Crocefisso  benedetta  da  S.  Pio  V.  Papa, 
di  cui  si  è  parlato  a  foglio  1*57,  che  si  conserva  in  questo  Monastero 
nell'Altare  primo  dopo  l'arco  maggiore  della  Chiesa,  son  di  parere 
che  S.  A.  1\.  I).  Giovanni  d'Austria  l'anno  1572  (sic)  venuto  in  Mai- 
sala  l'avesse  data  in  dono  al  Cavaliere  Margio,  che  dispose  l'edilizio 
del  Monastero  nel  suo  testamento  l'anno  15S7,  eseguito  l'anno  1003, 
o  pure  al  Magistrato,  il  quale  per  maggior  venerazione  lo  ha  posto 
in  Chiesa  ». 


1  Bella  Nobiltà  della  Città  di  Marsala,  ò  ma  del  Lilibeo  antico,  e  moderno  :  Jìc 
Iasione  minuta  topografica,  e  Commentario  Storico  colla  notizia  insieme  della  qualità 
delle  di  lei  Famiglie  antiche  e  moderne  che  formano  il  nobile  suo  corpo  Governante. 
Opuscolo  del  Villabianca.  Negli  Opuscoli  Palermitani  Storici,  tomo  XX,  pagg.  19-53, 
iris,   segnato  Qq.  E.   96,  nella  Biblioteca  Comunale  di  Palermo. 

2  Manoscritto  iuedito,  conservato  nella  Biblioteca  Comunale  di  Marsala,  a  fo- 
glio 257.  Me  ne  ha  fatta  comunicazione  il  compianto  e  dotto  amico  Cav.  Salva- 
tore Struppa. 

3  Sopprimo  la  iscrizione,  che  qui  non  ha  interesse. 


S92 


S.    SALOMONE-MARINO. 


Dalle  quali  parole  si  dee  concludere,  che  il  Genna  non  avea  pre- 
cisa ne  sicura  conoscenza  del  come  e  del  quando  lo  Stendardo  era 
divenuto  quadro,  ne  di  chi  lo  avea  regalato  alla  Chiesa  di  San  Gi- 
rolamo. Accoglie  dapprima  quanto  la  Relazione  afferma  ,  ma  poi  ,  di 
fronte  alla  indubbia  data  di  erezione  del  Monastero ,  si  corregge  ed 
esprime  il  parer  suo  :  o  che  lo  Stendardo  fu  regalato  dal  Principe  al 
Cavalier  Margio  fondatore  del  Monastero,  o  che  fu  regalato  al  Magi- 
strato Municipale,  che  per  maggior  venerazione  lo  pose  in  Chiesa. 

La  supposizioue  prima,  va  sicuramente  scartata.  Girolamo  Margio, 
nobile  marsalese  senza  prole,  nel  suo  testamento  del  12  settembre  1587  *, 
disponeva,  che  nella  casa  sua  e  con  le  rendite  proprie  si  fondasse  un 
Monastero  con  annessa  Chiesa  (che  veniva  infatti  compiuto  ed  inau- 
gurato nel  1(503  2),  da  intitolarsi  al  Santo  suo  omonimo;  ed  ivi  enu- 
mera i  quadri  che  possedeva,  designando  come  e  dove  li  desiderava 
collocati  nella  erigenda  Chiesa  ;  ma  non  menziona  affatto  nò  Crocifisso 
nò  Stendardo.  Del  resto  ,  con  che  ragione  o  diritto  avrebbe  potuto  ot- 
tenere sì  prezioso  dono  dal  Principe  ?  Nò  dal  testamento  appare,  nò 
altrimenti  si  sa  ,  che  il  Margio  avesse  seguito  le  insegne  di  lui  in 
quelle  imprese  contro  gl'infedeli,  nò  che  con  lui  avesse  avuto  relazioni 
di  sorta  3.  Se  mai,  volendo  dimostrar  gratitudine  o  affetto  ad  un  pri- 
vato marsalese,  l'Austriaco  avrebbe  potuto  lasciare  il  glorioso  ricordo 
al  nobile  Baldassare  Barbara,  Regio  Capitano  della  Città  ,  che  amba- 
sciatore della  stessa  andò  a  incontrarlo  a  Trapani  ,  e  poi  1'  ebbe  in 
Marsala  ospite  per  una  settimana  *;  ma  pel  Margio  non  se  ne  vedrebbe 
proprio  il  perchè. 

Esaminiamo  pertanto  se  la  seconda  supposizione  si  può  reggere. 

In  mancanza  di  più  antiche  testimonianze  invano  cercate  nell'Ar- 
chivio municipale  di  Marsala  ed  altrove,  comincio  dall'  esaminare  la 
Relazione,  il  documento  che  solo  ci  rimane  oltre  il  Quadro. 

Leggendola,  si  rivela  indubbiamente  scritta  nel  seicento.  Per  la 
maniera  come  vi  si  ricorda    il    Re  Filippo  li  ,  per  la   precisione  dei 


1  Agli  Atti  di  Notar  Giovati  Tommaso  da  Cremona,  nell'Archivio  Comunale 
di  Marsala. 

2  Vedi  Atti  di  Notar  Giovanni  Navarretta,  25  aprile  1603,  nell'Archivio  Co- 
munale cit. 

3  Nella  iscrizione  sepolcrale,  ch'è  nella  Chiesa  sotterranea  o  Grotta  del  Con- 
vento degli  Agostiniani  scalzi  di  Marsala  ,  il  solo  titolo  eli'  è  dato  al  Margio  è 
quello  di  Giurato  della  città:   Patrie  IvraUls. 

*  Cfr.  Villahianca,  loc.  cit.,  pag.  65,  e  Registro  1578-74  nell'Archivio  Comu- 
nale di  Marsala. 


PARTE  II.        LO  STENDARDO  DELLA  SANTA  LEGA  DEL  1571.  cQ'A 

particolari  con  cui  si  narra  della  Santa  Lena  e  della  giornata  di  Le- 
panto ,  si  potrebbe  pensare  che  fu  stesa  da  tale  che  la  memoria  ne 
conservava  viva,  e  potrebbe  assegnarsi  ai  primi  anni  del  secolo;  ma 
sorge  tosto  la  obiezione,  che  uno  che  avesse  scritto  in  tali  anni  dovea 
ben  conoscere  che  il  Monastero  di  San  Girolamo  era  sorto  dalle  fon- 
damenta pur  allora,  al  1603,  e  per  conseguenza  non  avrebbe  assolu- 
tamente vergate  le  parole  :  «  il  Serenissimo  I).  Giovanni...  nel  1573 
lasciò  in  questo  venerabile  Monastero  di  S.  Girolamo  l'accennato  Cro- 
cifisso »;  e  perciò  è  necessità  che  spostiamo  di  parecchi  anni  hi  scrit- 
tura, portandola  verso  la  metà  del  secolo.  Ma  non  per  questo  il  valore 
della  Relazione  vita  meno.  Essa  ci  registra  un  fatto  ,  che  non  poteva 
inventarsi  di  sana  pianta;  essa  illustra  un  cimelio,  che  era  già  vene- 
rato dai  cittadini  per  ragioni  che  non  nascono  d'improvviso  ed  inco- 
scientemente, ma  hanno  base  nella  costante  tradizione  che  muove  dal 
fatto  reale  ,  il  dono  dello  Stendardo  che  il  Principe  fa  «  per  contra- 
cambiare l'umilissimo  ossequio  prestatoli  da  questa  fedelissima  città  ». 
Il  dire,  dopo  due  terzi  di  secolo,  che  il  dono  fu  fatto  al  Monastero 
proprio  dal  Principe  e  non  dal  Magistrato  della  Città,  o  è  ignoranza, 
o  è  meditato  artificio  in  prò'  della  venerabilità  del  Monastero,  o  anche 
del  giustificato  orgoglio  per  la  possessione  di  una  reliquia  di  sì  alto 
valore  e  di  tanta  venerazione  presso  i  ciltadini. 

Don  Giovanni  d'Austria,  disciolta  la  Lega,  volse  tutto  1'  animo 
suo  e  tutte  le  forze  navali  e  terrestri  di  cui  disponea,  alla  lungamente 
vagheggiata  impresa  di  Tunisi.  L'  accolta  si  fé'  nel  vasto  porto  di 
Marsala;  ed  egli  giungeva  in  questa  città  il  1°  d'ottobre  1573  ,  e  vi 
permaneva  a  dar  gli  ultimi  provvedimenti  fino  al  7,  giorno  in  cui  le- 
vava le  àncore.  In  Marsala  ricevè  feste  ed  accoglienze  come  maggiori 
quella  cittadinanza  potè  farle,  ed  augurj  caldi  e  sinceri  di  nuovi  trionfi. 
Egli  inalberò  per  la  nuova  impresa  lo  Stendardo  Reale  di  Spagna. 
Quello  glorioso  della  Lega  non  restava  più  presso  di  lui  clic  come  un 
caro  ricordo.  Or,  ripugna  forse  a  supporre,  a  credere  che  egli  .  nel- 
1*  atto  di  accingersi  alla  nuova  impresa  .  per  rispondere  degnamente 
alle  splendide  manifestazioni  di  stima  ed  ai  fervorosi  voti  di  vittoria, 
per  dare  un  attestato  della  sua  gratitudine,  un  «  pegno  del  suo  amore  ». 
lasciasse  in  dono  quel  glorioso  e  caro  Stendardo  .'  >»To  ,  certo.  Anzi 
appare  naturale  .  appare  logico  e  giusti»  che  quel  dono  fosse  legato 
alla  Sicilia,  e  in  Sicilia  si  conservasse  ;  che  in  Sicilia  Don  Giovanni 
d'Austria  ebbe  i  maggiori  aiuti  per  le  sue  imprese,  le  più  splendide 
feste  e  onoranze  .  il  più  sincero  affetto  .  la  devozione  più  illimitata. 
E  poiché  Marsala  fu  la  città  augurale  donde  egli  mosse  per  la  prima 
impresa  dopo  la  dissoluzione  della    Lega,  a  Marsala,  degna  rappreseli- 


594 


S.    SALOMOXE-MARINO. 


tante  dell'Isola,  donò  quel  suo  santo  ricordo,  santo  per  la  benedizione 
di    l'io  V,  santo  per  i  divini  raggi  della  vittoria  che  lo  ricingevano. 

Nei  Registri  dell'Archivio  Comunale  di  Marsala  non  si  trova  un 
cenno,  non  si  conserva  un  documento  che  provi  sicuramente  il  dono 
sì  prezioso,  il  quale  è  impossibile  che  non  avesse  lasciato  vestigi  ;  ma 
è  ad  osservare,  che  que'  Registri  non  sono  completi,  hanno  molte  la- 
cune, e  questo  potrebbe  spiegarci  la  mancanza  che  lamentiamo.  Però 
nei  rogiti  di  Notar  Bartolomeo  Passalacqua  l,  in  un  atto  del  2  aprile 
2H  indizione  1575,  il  compianto  mio  amico  S.  Struppa  ha  trovato  che 
il  nobile  Vito  Frisella,  marsalese  ,  uti  Alferins  militie  hiijus  civitatis 
Màrsalie,  dichiara  di  avere  ricevuto  dai  Giurati  banderiam  Compagnie 
diete  militie.  Quain  banderiam  dietus  nobilis  Alferius  promisit  dare,  re- 
stituere  et  reeonsignare  dietis  dominibus  Juratis  quo  stupra  nomine  sti- 

pulantibus  statini  et  incontinenti 2  pace.    Quam  consignationem  dicti 

domini  Jurati  dixerunt  ferisse  et  facere  coacte  non  volentes  aliud  agere 
timore  jniunetionis  liodie  facte  per  Ill.mum  dominum  Comitem  Bussemj 
viearium  et  armorum  Capitane)  diete  civitatis  et  hoc  ad  literas  excellencie 
sue  et  non  aliter  3. 

Il  mio  amico  scriveami  :  «  Ohe  sia  questa  la  bandiera  che  ci  preoc- 
cupa ?  » 

Io  dico,  che  la  prova  netta,  assoluta,  non  e'  è;  ma  che  è  ben  pos- 
sibile, che  è  anche  probabile  che  i  Giurati  di  Marsala  abbian  voluto 
con  giustificato  orgoglio  mettere  la  propria  Milizia  sotto  una  Insegna 
sì  gloriosa  e  santa,  donata  da  tanto  famoso  Principe;  e  allora  mi  spiego 
e  trovo  giuste  e  doverose,  la  riluttanza  dei  Giurati  a  concedere  che 
essa  Insegna  uscisse  dalle  mura  cittadine  per  andare  in  provincia,  la 
imposta  promessa  di  restituzione,  e  la  solenne  dichiarazione  che  ce- 
dono alla  coartazione  del  Vicario  e  Capitano  e  degli  ordini  di  Sua  Ec- 
cellenza il  Presidente  del  Regno. 

E  così  ugualmente  dico  possibile  e  probabile  e  spiegabilissimo  il 
fatto,  che  in  prosieguo  di  tempo,  essendosi  reso  logoro  il  glorioso  Ves- 
sillo per  l'uso  a  cui  ora  stato  destinato,  i  Giurati  lo  abbiano  voluto 
salvare  dalla  totale  rovina  e  conservare  alla  venerazione  dei  cittadini, 


1  Si  conservano  nell'Archivio  Comunale  di  Marsala. 

2  Illegibile  perchè  ròsa  la  carta. 

3  Don  Giuseppe  Requesenz  Conte  di  Buscemi  ,  Vicario  e  Capitan  d'  armi  a 
guerra  in  Marsala  fiu  dal  31  agosto  1573,  avea  giurisdizione  nel  Val  di  Mazzara 
e  andava  con  le  milizie  in  sorveglianza  e  difesa  del  litorale  contro  le  temute  in- 
vasioni di  Turchi  e  Barbareschi.  Cfr.  Bcgistro  1572-73  nell'Archivio  Comunale  di 
Marsala. 


PARTE  II.       LO  STENDARDO  DELLA  SANTA  LEGA  DEL  1571.  395 


donandolo  al  Monastero  delle  Agostiniane  di  San  Girolamo.  Donde  il 
successivo  necessario  ritaglio  del  Crocifisso,  e  l'adattamento  di  Esso 
su  la  nuova  tela,  e  la  dipintura  della  battaglia  navale  in  questa,  e 
per  ultimo  la  .Relazione  che  ne  tacesse  la  illustrazione  e  ne  dicesse  la 
origine.  E  quindi  la  grande  e  vetusta  venerazione  ,  sino  a  qui  non 
estinta,  del  popolo  marsalese  per  questo  Crocifisso  ;  quindi  il  nome  di 
Crocifisso  della  Battaglia,  non  senza  ragione  dato  fin  dal  principio  e 
mantenuto  per  tre  secoli. 

E  pertanto ,  dopo  tutto  questo  che  sopra  ho  esposto  ,  io  tengo 
ferma  convinzione,  come  già  sin  dal  1875  annunziai  l,  che  sia  questo 
Crocifisso,  che  è  in  San  Girolamo  di  Marsala,  il  Crocifisso  che  rifulse 
sublime  nello  Stendardo  della  Santa  Lega  il  dì  della  memoranda  vit- 
toria. Questo  immortale  dì  è  il  7  d'ottobre:  il  7  d'ottobre  è  anche  il 
dì  della  partenza  di  Don  Giovanni  da  Marsala  ,  e  presumibilmente 
quello  del  dono  prezioso  dello  Stendardo  al  Comune  ;  non  senza  ra- 
gione quindi  e  non  senza  alto  significati»  il  popolo  di  Marsala  festeggia 
appunto  il  7  d'ottobre  questo  suo  Crocifisso,  di  valore  artistico  nullo, 
ma  di  inestimabile  valore  per  la  storia  e  per  la  gloria  tutta  italiana 
della  giornata  di  Lepanto. 

L'insigne  Stendardo  della  Santa  Lega  del  1571,  che  ora  parti- 
colarmente abbiam  potuto  conoscere,  no,  non  è  del  tutto  perduto;  ne 
permane  la  parte  principale  e  più  significante,  il  ('risto,  sotto  i  cui 
auspici  si  strinse  la  Lega,  che  fu  con  viva  fede  acclamato  vero  Duce 
della  flotta  alleata  al  momento  del  combattere  ,  e  nel  cui  nome  si  gridò 
la  vittoria.  E  questo  sacro  cimelio,  questo  Crocifisso  della  Battaglia, 
Duce  sempre  ne  le  battaglie  che  come  quella  di  Lepanto  si  combat- 
tono per  la  Lede,  per  la  Civiltà,  per  la  Libertà  dei  popoli  ,  merita- 
mente sopravvive  in  Sicilia,  su  l'altare  di  San  Girolamo  in  Marsala. 
ed  ha  culto  fervoroso;  un  culto  che  non  menomerà,  che  durerà  sem- 
pre, tino  a  che  Fede,  Civiltà,  Libertà,  sono  l'alto  faro  luminoso  a  cui 
tende  l'occhio  e  l'animo  del   t'atigato  umano  navigatore   '. 


1  C'fr.  Descrizione  delle  feste  della  eittà  di  Palermo  a  Don  Giovanni  d'Austria 
dopo  la  vittoria  di  Lepanto  ecc.  in  -ì  Nuove  Effemeridi  Siciliane  »,  Serie  terza,  voi.  I, 
pag.  27  (Palermo,  1875). 

1  Scrissi  già  al  1875  e  ripeto  ora  qui,  che  fa  pena  e  disdoro  il  veder  tenuta 
con  poca  cura  la  preziosa  tela,  indifesa  perlina  angli  oltraggi  della  polvere  e  del- 
l'umidità. 

Palermo. 

Salvatore  Salomone-Marino. 


UN  AUTOGRAFO  DEL  PITTORE  PIETRO  NOVELLI. 


Il  documento  che  io  pubblico  è  un  memoriale  autografo  di  Pietro 
Novelli  scritto  nel  1025,  quando  egli  contava  ventidue  anni.  Sin  qui 
non  si  conosce,  salvo  qualche  firma,  altro  autografo  del  celebre  pittore 
siciliano  :  e  però  il  documento  di  cui  diamo  la  riproduzione  (fig.  02),  è 
pregevolissimo,  restando  come  unico  termine  di  paragone  di  fronte  ad 
ogni  altro  autografo,  che  in  seguito  possa  riferirsi  al  Novelli.  E  scritto 
nella  parte  anteriore  di  un  foglio  doppio  di  carta  bambagina  di  centi- 
metri 30X21,  la  quale  è  contrassegnata  dai  due  soli  timbri  traspa- 
renti della  carta  siciliana  dell'epoca.  Sono  chiari  e  ben  conservati  il 
carattere  e  l'inchiostro,  e  la  scrittura  procede  con  poche  abbreviature. 

Che  il  memoriale  sia  veramente  autografo  ,  ce  ne  persuade  anzi 
tutto  la  natura  stessa  del  documento,  il  quale  non  risente  per  nulla 
lo  stile  e  le  formule  curialesche  del  tempo  ,  ma  ha  il  semplice  tono 
di  un  esposto  o  di  una  lettera  di  preghiera. 

Or  non  si  vede  uè  la  necessità  ,  ne  la  convenienza  per  cui  il  No- 
velli, che  sapeva  scrivere,  avesse  dovuto  o  voluto  adibire  altra  persona 
in  sua  vece  per  formare  un  esposto  così  semplice  e  così  breve.  Del 
resto,  in  questo  autografo  del  1025  il  nome  di  Pietro  Novello  calligra- 
ficamente corrisponde  benissimo  con  le  poche  firme  che  troviamo  dal 
Novelli  apposte  nel  1045  in  alcune  cautele  di  opere  eseguite  per  conto 
della  Città  di  Palermo,  le  quali  cautele  si  conservano  in  un  registro 
del   1645  presso  l'Archivio  Comunale  di  detta  città,  al  n.  1655. 

Una  sola  differenza  si  osserva  tra  il  cognome  del  Novelli  scritto 
nell'autografo  del  1625  e  l'altro  apposto  alle  cautele  del  1645,  ed  è 
questa,  che  il  cognome  del  pittore  nell'autografo  ha  la  desinenza  in  o 
mentre  nelle  cautele  l'ha   in  i. 

Su  tale  proposito,  però,  piace  notare  che  dal  1510  al  104.'>  in  tutti 
gli  atti  parrocchiali  e  notarili  il  cognome  della  famiglia  del  nostro 
pittore  fu  sempre  Novello;  dal  1044  al  1047  per  contrario  lo  troviamo 
modificato  in  Novelli.  E  nel  testamento  dell'infelice  pittore  Monrealese, 
stipolato  a  dì  20  agosto  1047,  vediamo  che  non  solamente  Novelli  chia- 
masi il  testatore,  ina  Novelli  si  chiama  Costanza,  sua  moglie,  Novelli 
Pietro  Antonio,  suo  figlio  maggiore,  e  Novelli  la  Posalia,  pittrice  gen- 
tile che  meglio  (Fogni  altro  ritrasse  lo  stile  paterno. 

L'avere  poi   il   pittore  stesso  negli  ultimi  anni  della  sua  vita  pie- 


PARTE    II.  IN    AUTOGRAFO    DEL    PITTORE    PIETRO    NOVELLI.  ài)7 


ferito  la  desinenza  in  i  nel  suo  cognome,  e  l'avere  adottata  questa 


&[(MMt~y u*iui**-)y-  7/Umu*~* <?KJL  OAIMM^ 0ve 
ti  tuo  di$L9*  'Oràu^  unPsffer^^Jpdi  a  ***# 


à,  c7o  /A/ÀfiUM  sou^k-iùt*-  OLiiù./urfto^  J&/u+s  ss 


Fig.  62.  —  Autografo  di  Pietro   Xotcili. 


medesima  forma  i  suoi  credi  e  discendenti  in  cagione  per  cui  all'intiera 
famiglia  Novello  tu  attribuito  generalmente  il  cognome  Xovellìx 


o98  G.    M1LLUNZI.  PARTE   II. 

11  contenuto  ])oi  del  memoriale  autografo  del  pittore  Pietro  Xo- 
velli  si  riferisce  ad  un  furto  perpetrato  in  suo  danno  nei  giorni  della 
morte  del  pittore  Pietro  Antonio  suo  padre.  Questi,  il  4  maggio  1625, 
colpito  dalla  peste  bubbonica,  dettava  il  suo  testamento  nel  lazzaretto 
di  Monreale,  e  moriva  due  giorni  dopo. 

Nel  testamento  istituiva  erede  universale  suo  tìglio  Pietro  pur 
riconoscendo  1'  altro  tiglio  Vincenzo  ascritto  alla  Società  di  Gesù  ,  e 
faceva  ricordo  dettagliato  non  solo  dei  beni  immobili  che  lasciava, 
ma  anche  di  non  pochi  quadri  da  lui  o  compiti  o  solamente  comin- 
ciati, di  alcune  incisioni  in  rame  ,  di  pietre  di  mosaico  e  ferramenti 
che  appartengono  ad  indorare. 

Intanto  in  quel  tramestìo  della  peste,  e  in  mezzo  alle  angustie 
della  morte  e  del  lutto  non  mancò  chi  abusasse  dell'  assenza  dei  fi- 
gliuoli appropriandosi  indebitamente  non  solo  alcune  quantità  di  monete 
ma  ancora  oro,  argento  ,  ramo,  stagno  ferro  et  altre  simile  come  anco 
robbe  di  lana,  lino,  seta,  stiglie  et  arnesi  di  casa  et  dello  esercizio  con- 
cernente alla  pettura,  scripture,  contratti,  palisi  et  altre. 

Cessato  però  il  contagio  della  peste,  il  nostro  Pietro  Xo velli,  erede 
universale  del  defunto  Pietro  Antonio,  scrive  di  suo  pugno  il  Memo- 
riale consaputo,  col  quale  domanda  a  Mons.  Gabriele  de  Santostefano, 
vicario  generale  dell'Arcivescovo  di  Monreale,  che  voglia  minacciare 
la  scomunica,  come  usavasi  in  quei  tempi  di  buona  fede,  contro  chiun- 
que avesse  occupato,  rubato  ed  occultato  oggetti  appartenenti  alla  sua 
casa  paterna,  trattandosi  di  una  somma  rilevante  di  più  di  onze  due- 
cento in  circa  in  grave  damno  pregiudieio  et  interesse  del'  esponente. 
Ecco  il  testo   intiero  del  memoriale  : 

lll.mo  e  Eev.mo  Signore, 

«  Pietro  novello  figlio  et  herede  Universale  del  già  defunto  Pietro  An- 
tonio novello  di  questa  citta  di  Monreale  dice  a  V,  S.  Illuni  che  limanti  et 
dopo  la  morte  di  quello  li  sono  stati  denegati  ,  occultati,  et  Rubbati  non  solo 
alcune  quantità  di  Monete  ma  ancora  Oro  Argento  ,  Ennio,  Stagno  ferro  et 
altre  simile  come  anco  Robbe  di  lana,  liuo  ,  seta  stiglie  et  arnesi  di  Casa, 
et  dello  esercitio  concernente  alla  pectura  scripture  estratti,  polisi  et  altre, 
del  che  lo  esponente  non  tiene  ne  bave  altro  modo  di  poterli  trovarle  ne 
sapere  chi  l'havesse  tenesse  o  sapesse  ,  se  non  con  il  Keinedio  et  Modo  Ec- 
clesiastico trattandosi  la  somma  di  più  d'onze  ducento  Incirca  in  grave  damno 
preiudicio  et  Interesse  del  expouente  per  tanto  vieni  a  supplicare  V  S.  Ulma 
si  degni  restar  servita  ordinare,  se  li  facciano  lettere  Monitorale  a  chi  spetta 
in  questa  Citta  accio  possa  sapere  et  recuperare  la  robba  et  beni  ereditarli 
del  Modo  suddetto  Occupati  Rubati  et  Occultati  tanto  più  il  detto  quondam 
bavere  morto  in  lazzaretto  in  quel  tempo  tanto  suspetto  et  confuso  che  il 
tutto  oltre  esser  giusto  lo  recevera  a  gratia  etc.  ut  Altissimus  etc.  » 


parte  n.  un  autografo  del  pittore  Pietro  novelli.  399 

Nel  dorso  dello  stesso  memoriale  del  Novelli  il  Vie.  Gen.  de  Santo- 
stefano  scrisse  la  provvista  «  die  XII0  novembri*  9  ind.  1625.  Fiant 
litere  monitoriales  in  forma.  —  Santostefano    V.  (ì.  » 

E  dalla  Curia  Arcivescovile  (come  leggesi  nel  Reg.  Spir.  1025- 
1020 ,  fol.  58)  furono  subito  spedite  le  lettere  Monitoriali  ai  Rev.mi 
Canonici  e  Parroci  della  Cattedrale  di  .Monreale,  nelle  quali  oltre  alla 
fedele  trascrizione  del  Memoriale  del  Novelli  si  leggono  le  seguenti 
disposizioni  : 

«In  civitate  Moutis  Regalis  die  xijo  Novenibris  9  ind.  1625:  ex  parte 
Revmi  Domini  Vie.  Gen.  de  Santostefano  fiant  litere  Monitoriales  in  forma. — 
Anton.  Griandili vigni  Mag.  Not.  Ordinarius.  —  Et  trattandosi  oltre  la  somma 
di  onze  cinco  prout  cum  juramento  fuit  aftirmatum  et  sub  eodem  jurameuto 
de  non  utendo  criminaliter  revelationibus  forte  fiendis  uisi  tantum  agi  prò 
civili  interesse  ita  quod  per  preseutes  non  comprehendantur  persone  certe 
nec  alie  de  jure  prohibite  et  sunt  nonnulli  iniquitatis  et  perditionis  filii  im- 
memores  salutis  eterne  quos  ipse  significans  prorsus  ignorat  in  animarum 
suarum  maximum  periculum  et  ipsius  significantis  non  modicum  detrimentum 
et  interesse  quia  a  nobis  ecclesiasticum  remedium  supplicavit  et  quia  veritas 
aliter  haberi  non  potest  :  qua  supplicatione  admissa  vobis  et  vestrum  cuilibet 
dicimus  et  mandamus  quatenus  infra  terminimi  trium  ebdomadarum  pio  prima 
secunda  et  tertia  monicione  canonica  assiguainus  omnes  et  singulos  utriusque 
sexus  Christifideles  premissa  scientes  et  non  revelantes  monere  debeatis  quod 
habeaut  et  debeant  penes  acta  nostre  curie  arcliiepiscopalis  huius  civitatis 
Montis  Kegalis  revelare  et  revelasse  alias  dicto  termino  elapso  et  nequiter  et 
raalitiose  non  revelantes  nec  restitueutes  ad  seutentiam  exeomunicationis 
procedatis  babita  prius  a  nobis  liceutia  et  premissa  cum  effetti!  exequamini 
sub  pena  unciarum  quinquagiuta  curie  arcbiepiscopali  applicanda.  Datum  die 
Xll°  novembris  9  ind.   1625.  —  Gabriel  De  Santostefano  V.   G.  —  > 

E  la  triplice  pubblicazione  di  questa  scomunica  nella  Cattedrale 
di  Monreale  fu  fatta  al  popolo  dal  parroco  nelle  tre  domeniche  con- 
secutive dei  giorni  10,  23  e  30  novembre  1025,  come  risulta  dai  re- 
gistri parrocchiali.  Ma  sortì  l'effetto  desiderato.'  Chi  lo  sa! 

A  noi  però  il  memoriale  del  1025  ha  procurato  la  felice  occa- 
sione di  possedere  un  raro  autografo  del  Novelli,  il  quale  anche  per 
la  parte  storica  ha  la  sua  importanza  ,  perche  ci  riferisce  con  una  in- 
genuità grande  e  gli  usi  dei  tempi,  e  l'animo  del  Novelli  e  un  aned- 
doto della  sua  vita  ,  il  quale  ben  si  riallaccia  all'  epoca  della  peste 
siciliana  del  101*4  e  L025,  al  testamento  e  alla  morte  del  pittore  Pietro 
Antonio  Novelli ,  suo  padre  ,  e  alle  condizioni  finanziarie  della  sua 
famiglia. 

Monreale, 

Gaetano  Millunzi. 


NOTIZIE  INEDITE  SUL  EONTE  ORIONE  IN  MESSINA. 


Nella  primavera  del  1547  ,  il  giorno  della  solenne  festività  del 
Corpus  Domini ,  al  cospetto  del  magistrato  cittadino  e  della  popola- 
zione esultante,  accorsa  in  gran  folla  nella  piazza  del  Duomo,  allora 
chiano  di  S.ta  Maria  la  Nuova,  inauguravasi  in  Messina  1'  acquedotto 
del  ('amaro,  che,  iniziato  sin  dal  1530,  portavasi  a  compimento  con 
ingentissima  spesa  ,  dopo  che  il  peritissimo  architetto  Francesco  La 
Canicola  era  riuscito  a  ben  costruire  le  gallerie  attraverso  le  montagne 
clic  a  sud-ovest  fan  corona  alla  città  '.  Così  le  acque  scaturenti  dai 
colli  peloritani  —  verdeggianti  allora  di  boschi  e  di  castagneti ,  che, 
per  la  varia  ed  abbondante  selvaggina  tur  di  delizia  per  la  caccia 
agli  antichi  re  di  Sicilia  —  allacciate  dalla  nuova  conduttura  ed  in- 
trodotte per  la  porta  dei  Gentili 2 ,  fra  il  compiacimento  dei  cittadini, 
le  squille  festose  delle  campane  e  lo  sparo  dei  mortaretti  ,  fur  viste 
scorrere  fino  a  quella  piazza,  dove  si  attinsero  ,  notava  il  contempo- 
raneo Cav.  Buonflglio  :i ,  da  un  picciolo  fonte,  finché  sì  dirizzò  quel  no- 
bile, di  ricco  e  vago  la  raro  clic  .si  vede,  (piale  è  quello  scolpito  dal  Mon- 
torsoli,  ammirato  quale  splendida  opera  d'arte. 


1  «  Gli  acquedotti  sotterranei  ne'  monti  forati  ,  opra  furono  di  Francesco  la 
Canicola,  Messinese».  Buoufiglio  ,  La  Messina  Nobilissima.  In  Venetia  MUOVI, 
pag.  8r.  Nella  piccola  lapide  interna,  linora  inedita,  esistente  sulla  spalla  sinistra 
della  galleria  Arcipeschieri  si  logge: 


M°    CIUCO   LA  CAM 
10LA   PCHAVLI  MO 
NTAGNI  E  FICHI  VIN 
Ilil  LAQVA  A  LA  C 
H  ITATI  1548 


2  Msiurolico  ,   Sicanicarum  rerum   Compendium  ,  Messauae  ,  apud  Pctruin  Spira, 
MDLXII,  pag.  215v. 

3  tintoria  Siciliana,  parte  li,  In  Venetia,  appresso  Bonifacio  Ciera,  MDCVI, 
pag,  491. 


PARTE   II.  NOTIZIE   INEDITE   SUL  FONTE   ORIONE   IN   MESSINA.  401 

Messina  traversava  a  quei  giorni  uno  dei  periodi  più  fortunosi 
della  sua  floridezza  economica  e  commerciale.  Le  condizioni  di  gene- 
rale benessere,  pur  alimentando  il  culto  del  bello  e  delle  arti,  forte- 
mente concorrevano  allo  immegliamento  edilizio  ed  igienico  della  città 
con  l'ingrandirsi  della  cinta  delle  mura  e  dei  fortilizi,  con  l'apertura 
di  spaziose  vie,  con  le  costruzioni  di  palazzi  pubblici  e  privati.  Sicché 
dopo  che  i  giurati  ed  il  consiglio ,  per  maggior  decoro  della  città  e 
per  completare  con  nobile  monumento  la  recente  condotta  delle  pub- 
bliche acque,  ebber  deliberato  di  erigere  sulla  piazza  del  Duomo  un 
fonte  «  con  un  ornamento  grandissimo  di  statue  »  ,  eransi  all'uopo 
recati  a  Roma  alcuni  messinesi  «  a  cercare  d'avere  uno  eccellente  scul- 
tore ».  F  benché  essi,  attesta  il  Vasari  l,  «  avevano  fermo  Raffaello  da 
Montelupo,  perchè  s'infermò  quando  appunto  volea  partire  con  esso  loro 
per  Messina  »,  fecero  altra  risoluzione  ,  e  condussero  il  frate  Gio.  An- 
gelo Montorsoli  (1506-1563)  da  Poggibonsi ,  anch'  egli  tra  i  migliori 
discepoli  del  Buonarroti,  e  già  salito  in  grande  fama  per  le  varie  opere 
eseguite  nella  sagrestia  di  S.  Lorenzo  in  Firenze ,  in  Arezzo,  in  Ge- 
nova ed  in  Napoli,  dove,  da  poco,  avea  scolpito  la  grandiosa  e  ricca 
tomba  del  Sannazaro,  la  quale  ha  tutte  le  impronte  e  1'  atteggiamento 
michelangiolesco  nelle  statue  ,  quantunque  negli  ornati  si  mostri  un 
po'  pesante  2. 

Nel  giugno  del  1517  trattenendosi  egli  in  Roma  ,  ove  tornando 
da  Genova  si  era  recato  per  rivedervi  il  maestro  ,  seppe  della  com- 
missione dei  messinesi  e  della  malattia  del  Montelupo,  per  cui  «  con 
ogni  instanza  e  qualche  mezzo  cercò  d'  avere  quel  lavoro  »  ,  che  gli 
fu  allogato  assai  probabilmente  mercè  l'ingerenza  di  Gio.  Francesco 
Verdura,  nobile  messinese  e  canonico  ,  elevato  in  seguito  alla  dignità 
di  vescovo  di  Corone  3,  come  ricordò  soltanto  Antonio  Filoteo  da  Ca- 
stiglione J,  che  ,  essendo  stato  mandato  due  anni  appresso  in  quella 


1  Le  Vite  ecc.  Fra  Giovanni  Agnolo  Montorsoli,  voi.  VI,  Firenze,  Le  Mounier, 
1881,  pag.  647.  Del  Montorsoli  si  hanno  altre  notizie  dal  Di  Marzo,  Degli  scultori 
della  penisola,  che  lavorarono  in  Sicilia  nei  secoli  XIV,  XV  e  XVI,  in  Archivio  Sto- 
rico Italiano,  Firenze,  1872,  serie  III,  tomo  XVI  ,  pag.  340  e  seg.  e  nella  magi- 
strale opera  dello  stesso  :  /  Gaglni  e  la  scultura  in  Sicilia  nei  secoli  XV  e  XVI, 
voi.  I,  Palermo,   1883,  pag.  769  e  seg. 

2  B.  Croce.  La  tomba  di  Jacopo  Sannazzaro  e  la  chiesa  di  S.  M.  del  Parto  in 
Napoli  Nobilissima,  voi.  I  ,  Napoli,  1892  .  pa^.  68-76.  Il  chiarissimo  autore  porta 
in  proposito  anche  l'autorità  dell'insigne  critico  d'arte  Gustavo  Frizzoui. 

3  Morì  in  tal  dignità  ,  a  Corfù ,  il  14  dicembre  1570.  Archivio  della  confra- 
ternita degli  Azzurri  di  Messina,  voi.  XIV. 

4  Descrizione  della  Sicilia,  nel  voi.  XXIV  della  Biblioteca  storica  e  letteraria  di 
Sicilia  del  Di  Marzo.   Palermo,  L.  Pedone  Lauriel,    1876,  pag.  34. 

26 


402  G.    ARENAPRIMO  DI  MONTECHIARO.  PARTE  II. 

città  per  il  disbrigo  di  alcuni  incarichi  affidatigli  dal  marchese  Gioeni  i, 
avrà  potuto  saperlo  dall'istesso  prelato  e  compatrioto. 

Nel  settembre  Giovan  Angelo  Montorsoli  ,  o  il  fiorentino  ,  come 
il  chiamavano,  era  di  già  in  Messina  insieme  col  nipote  Martino  Mon- 
tanini, suo  allievo,  che  gli  era  stato  di  aiuto  nei  grandi  lavori  della 
cappella  e  della  sepoltura  di  Andrea  Dori  a  nella  chiesa  di  S.  Matteo 
a  Genova.  Quivi,  assunta  la  carica  di  capo  mastro  sculturi  de  li  fon- 
tani ,  con  lo  stipendio  di  onze  110  (Lit.  1402,  50)  e  provvisto  di  al- 
loggio anche  a  spese  della  città ,  si  die  con  sollecitudine  al  ritiro  dei 
marmi  da  Carrara  ed  all'acquisto  di  altri  blocchi  e  di  frammenti  che 
potè  trovare  in  Messina  9.  Depositati  questi  nei  magazzini  della  Mu- 
nizione —  dove  è  ora  il  teatro  che  serba  questo  nome  —  cominciò  con 
i  suoi  lavoranti  scalpellini  ed  intagliatori  a  preparare  i  pezzi,  le  tazze 
e  le  statue  della  grandiosa  fontana ,  rappresentante  il  trionfo  di 
Orione ,  favoloso  restauratore  di  Zancle.  Opera  di  alto  ingegno  ed 
assai  ben  riuscita  e  della  quale  si  hanno  particolareggiate  descrizioni 
dallo  stesso  Vasari  3  e  dal  Buonfìglio  4,  dal  La  Farina  5,  dal  Di  Marzo  6, 
e  dalla  recente  Guida  a  cura  del  Municipio  7.  Molto  probabilmente 
l'allegoria  del  soggetto  che  rappresenta  e  la  disposizione  delle  varie 
parti  avran  potuto  esser  suggerite  al  Senato  della  città,  o  allo  stesso 
Montorsoli,  dal  nostro  illustre  Francesco  Maurolico,  che  pure  illustrava 
quella  insigne  opera  d'  arte  dei  suoi  distici  stupendi  8,  e  che ,  allora 
nel  vigore  degli  anni,  rifulgeva  fra  quanti  per  ingegno  e  per  dottrina 
onorassero  il  paese. 


1  Di  Marzo,  op.  cit.  Prefazione,   pag.  XII. 

2  «  Adì  21  de  genn.ro  oz  duj  per  tanti  ne  e  fatto  debitore  detto  Jo:  salvo  balsamo 
per  una  polisa  di  oz  2  di  la  cita  al  detto  governatore,  li  quali  oz  2  foro  per  lo  predo 
una  marmora  era  in  S.to  basili  Servio  ala  fontana  di  la  m.ri  ecc.0  ».  Dal  voi.  II  della 
nobile  confraternita  degli  Azzurri  di  Messina.  —  «  lunidi  addi  xxviij  di  marzo  [1558] 
bastiano  dansalonj  tesorexj  per  conto  di  lacqua  dilj  Camarj  oz  setti  conM  per  sua  po- 
lisa a  antonello  bonjorno  cond.m  luca  dissiro  li  paga  per  polisa  dili  Jurati  dili  25  dito 
presentj  et  foro  per  lo  prezo  duna  colonna  di  marmora  chi  rindio  ala  cita  at  opra  di 
la  fontana  di  detta  cita...  oz  7.  Archivio  della  Tavola  Pecuniaria  di  Messina.  — 
Primo  giornale  contanti  1558,  segn.  N.  5. 

3  Le  vite  cit.,  voi.  VI,  pag.  647-49. 

4  La  Messina  Nobilissima,  pag.  8. 

5  Messina  ed  i  suoi  monumenti,  Messina,  1840,  pag.  82  83. 

6  /  Gagini  e  la  scultura  in  Sicilia  ecc.,  voi.  I,  pag.   770. 

7  Messina  e  dintorni,  Messina,  1902,  pag.  243-48.  Si  hanno  i  disegni  di  questo 
fonte  nell'opera  di  Hittorff  e  Zauth,  Jrchitecture  moderne  de  la  Sicile,  Paris,  1828. 

8  Macrì  Giacomo.  F.  Maurolico  nella  vita  e  itegli  scritti,  Messina,  1901,  pag.  114 
e  seg. 


parte  ii.         notizie  inedite  sul  fonte  orione  in  Messina.  403 


Attesta  il  Vasari  che  questo  grandioso  fonte  fu  dal  Montorsoli 
e  dai  suoi  scolpito  con  «  molta  prestezza  ».  Nonostante  ciò  trascorsero 
ben  sei  anni  perchè  fosse  collocato  nella  piazza,  come  si  ricava  dalla 
iscrizione  su  marmo  bianco  che  è  stata  da  recente  scoverta  nella  gal- 
leria sotterranea  del  fonte  medesimo  l,  (piale  iscrizione  conferma  piena- 
mente quel  che'ne  avea  scritto  il  Maurolico  2,  contrariamente  al  Buon- 
figlio,  anch'  egli  contemporaneo,  il  quale  assicura  essere  stato  innalzato 
nel  1551  3.  Più  preciso  Antonio  Filoteo  da  Castiglione  *  ,  che  tro- 
vandosi in  quegli  anni  in  Messina  ,  potè  ammirare  tra  i  primi  «  la 
eccellentissima  fontana  ,  di  bellissimo  e  sottilissimo  artifìcio ,  dalla 
quale  ben  si  conosce  quanto  li  Messinesi  si  debbano  alli  antichi  Ito- 
mani  paragonare  »,  che  ei  dice  finita  nell'anno  1554.  Sembra  questa 
affermazione  assai  sicura  massime  per  gli  ultimi  rifinimenti  apportati 
alla  fontana,  se  si  pensi  che  solo  in  sullo  scorcio  del  1552  il  Senato 
fa  ce  a  promulgare  il  bando  invitatorio  per  lo  staglio  della  fabbrica  delle 
fondazioni  di  essa. 

Ecco  il  bel  documento,  rimasto  finora  inedito  : 

iiij  augusti  1552 

Leonardus  Lugli  Publicus  Preco  Nobilis  Civitatis  Messanae  retulit  qua- 
liter  de  mandato  Sp.lhm  Do.ri<m  Juratorum  emissit  infrascriptum  bannum  per 
loca  solita  et  consueta  hujus  Nobilis  Civitatis,  cujus  tenor  est  ut  infra,  videlicet 

Sia  uoto  et  manifesto  ad  ornili  persona  tanto  citatina  conio  foristera  qual- 
ìuenti  li  Sp.1'  Sig.rì  Jurati  pretendino  dar  ad  Staglio  tutta  la  fabrica  de  lo 
palamento  de  la  nova  Fontana  si  liavira  di  hedificar  jn  lo  plano  de  la  Mayore 
Eccl.a  di  questa  Cita  juxta  la  forma  de  lo  modello  li  sarà  dato  da  M.r0  Jo  : 
angelo  montorsuli  capo  mastro  de  la  Cita,  cura  li  condicioni  jnfrascritti,  la 
qual  fabrica  havirà  da  esser  beu  fatta  juxta  la  ordini  li  sarà  dato  per  detto 
M.r0  Jo:  angelo,  et  cui  vorrà  veder  lo  modello  predetto  anderà  jn  casa  di 
dicto  M.r0  Jo  :  angelo. 

In  primis,  quella  persona  prindirà  lo  detto  Staglo  perchè  la  Cita  al  pre- 


1  Pubblicata  per  la  prima  volti  dalla  Commissione  municipale  per  la  guida, 
Messina  e  dintorni  cit.,  pag.  248  e  poscia  dal  eli.™'  Mous.  Di  Marzo,  Di  un  aned- 
doto del  Montorsoli  nel  suo  soggiorno  in  Messina,  in  Archino  Storico  Siciliano,  anno 
XXIX,  pag.   92.   Palermo,   1904. 

2  «  Per  idem  tempus  [1553]  Messanae  fons  marmorea  juxta  Templum  maximum, 
perfectis  jam  statuis,  sculpturis,  atque  inscriptionihus,  completa  fistulis  aquas  ejacula- 
batur».  Sicanicarum  rerum  compendia m,  Messanae,  MDLXII,  pag.  215. 

3  La  Messina  Nobilissima,  pag.   8. 

4  Descrizione  della  Sicilia  cit.,  pag.  34. 


404  G.    ARENAPRIMO  DI  MONTECHIARO.  PARTE  II. 

senti  non  sta  comoda  di  dinari  farà  vi  spi  sa  attratto  et  mastranza  ad  sua 
dispisa,  la  quali  si  reimburserà  de  la  gabella  de  lo  dinaro  de  lo  pani  depu- 
tato a  la  fabrica  de  la  acqua  da  vendirsi  di  settembre  xje  Iud.nis  proximijn 
tutto  januarj,  juxta  la  forma  che  si  ha  venduto  per  lo  passato  ,  de  la  qual 
gabella  detti  Sig.ri  Jurati  siudi  reservano  uncj  XXV0  lo  misi  per  lo  lauro  de 
li  marmori  et  altri  dispisi  nece&sarj  per  ditta  acqua. 

Item,  a  cui  restirà  detto  Staglo  si  oblighirà  compiili  lo  ditto  pidamento 
fra  termine  di  uno  misi  numerando  da  lo  jorno  de  la  liberacioni  de  lo  ditto 
Staglo. 

Item,  quando  fra  detto  termini  di  uno  misi  non  complissi  la  fabrica  de 
lo  dicto  pidamento  lo  restanti  de  la  fabrica  si  bavera  da  compiili  si  darra 
tt.  3  manco  per  omui  canna  si  havirà  da  fabricari. 

Item  ,  quella  persona  piglirà  lo  d.°  Staglo  non  poza  dar  ad  Staglo  la 
fabrica  preditta  ad  maestri,  et  chi  di  tutto  lo  predetto  ni  haveranno  di  fari 
contratto  publico  cura  dar  jdonea  et  sussistenti  plegeria. 

Item,  a  cui  rimanirà  lo  ditto  Staglo  li  sarra  concesso  di  far  far  petra, 
calci  et  tutto  lo  attratto  che  sarà  bisogno. 

Item  ,  lo  detto  Staglo  si  bavera  da  vindiri  per  dicti  Sig.1'  Jurati  a  la 
candii  a  ,  et  liberarsi  ad  quella  persona  che  farra  offerta  più  utile  a  la  pre- 
ditta Cita,  lo  quali  si  havrà  di  mettiri  a  la  candila  fra  giorni  quattro. 

Ex  Actis  Offieij  lll.mi  Senatus  hujus  Nobilis  Fid.mae  et  Exemplaris 
Urbis  Messanae  extracia  est  praesens  copia  l. 

Coli/  salva 
f  1.  s.  Salesius  Mannamo  Keg.  M.r  Not. 
Ex  lib.  Diversorum  anni  1551  et  1552,  fol.  135  r.° 

L'illustre  Monsignor  Di  Marzo,  a  proposito  di  un  curioso  episodio 
di  cui  fu  principale  attore  un  Lazzaro  da  Carrara  2  —  che  abusando 
della  fiducia  del  Montorsoli ,  barattò  o  bruciò  alcuni  affusti  e  legname 
che  questi  si  avea  ricevuto  in  consegna  dalla  città  nel  magazzino  della 
Munizione  —  crede  attribuire  il  ritardo  della  collocazione  della  sontuosa 
fontana  non  solo  «  alla  ricchezza  dei  lavori  di  essa  ed  alla  costruzione 
dall'acquedotto  dalla  sorgente  del  Camaro  »  —  inaugurato  di  già,  come 
si  è  scritto  —  «  ma  bensì  all'essersi  addetto  il  Montorsoli  ad  altre  note- 
v  >U  opere ,  che  gli  furono  allogate.  Fra  le  quali  non  dubito  —  egli 
dice  —  ascrivere  il  bellissimo  sepolcro  degli  Staiti,  eretto  in  un  che 
la  detta  fonte  nel  1553  »  ,  e  che  anch'io  ,  allora  giovinetto ,  ricordo 


1  Dal  :  Misceliamo  di  scritture  per  Affari  Pubblici  di  questa  Città  di  Messina, 
voi.  Ili,  pag.  97  (raccolto  da  Salesio  Mannamo  Mastro  Notaro  del  Senato),  presso 
il  Municipio  di  Messina.  Ms.  del  1803. 

2  Di  un  aneddoto  del  Montorsoli  ecc.,  pag.  92. 


PARTE    II.  NOTIZIE    IXEDITE   SUL   FONTE    ORIONE    IX    MESSINA.  405 

in  sullo  spiazzale  della  chiesa  <li  S.  AL  di  Gesù  ,  detta  del  Ritiro,  dove 
era  stato  collocato  dopo  l'alluvione  dell'ottobre  1863  ,  che  avea  di- 
strutto l'altra  chiesa,  eretta  sull'antica,  di  già  investita  ed  interrata 
dal  torrente  nel  1855.  Sarà  stato  come  vuole  il  Di  Marzo,  quantun- 
que io  abbia  ragione  di  credere  che  il  ritardo  sia  stato  provocato  dalle 
lunghe  pratiche  necessarie  per  ottenersi  dalla  Sede  Apostolica  e  dal 
viceré  di  Sicilia  1).  Giovan  De  Vega  il  breve  e  la  conferma  di  potersi 
abbattere  la  chiesa  di  S.  Lorenzo,  che  ergevasi  dove  fu  postala  fontana; 
pratiche,  che  iniziate  nel  1547,  furono  spesso  interrotte  per  le  reci- 
proche pretese  ed  anche  per  la  sede  vacante  alla  morte  del  pontefice 
Paolo  Ili,  e  che  ebber  line  con  la  licenza  data  al  Senato  dal  nuovo 
papa  Giulio  111  nel  1550  ,  a  condizione  di  riedificarsi  la  ecclesia  in 
lo  plano  in  luogo  opportuno  e  di  far  celebrare  una  mensa  quotidiana  in 
perpetuo. 

E  già  noto  che  il  disegno  «Iella  nuova  chiesa  di  S.  Lorenzo,  col 
prospetto  sulla  piazza,  dirimpetto  la  fontana,  e  facente  angolo  con  la  via 
anticamente  «letta  degli  A  stari  e  poi  del  fiume,  fu  dato  dall'istesso  Mon- 
torsoli,  che  die'  saggio  di  sua  perizia  anche  nell'architettura  in  questa 
opera,  assai  lodata  l,  notò  il  Vasari,  e  degna  di  essere  considerata  con 
attenzione,  aggiungeva  il  Gallo  2  «  pella  perfetta  ordinanza  di  tutte  le 
sue  parti  e  per  la  sveltezza  delle  tre  cupole  ovate  al  di  sopra  ».  Se 
ne  continuarono  i  lavori  dopo  il  15(51)  3  ,  rispettando  sempre  il  mo- 
dello dato  da  quel!'  insigne  artista  ,  il  cui  soggiorno  in  Messina  dal 
1547  al  1557,  fu  di  grande  incremento  al  rifiorire  delle  belle  arti  e 
della  scultura  principalmente. 


1  «  In  sulla  piazza  del  medesimo  Duomo  [il  Montorsoli]  ordinò  con  bella  ar- 
chitettura il  tempio  di  San  Lorenzo,  che  gli  fu  molto  lodato  ».  Vasari,  Le  Vite  ecc., 
pag.  651. 

2  Annali  di  Messina,  Apparato,  voi.  I,  In  Messina,  MDCCLVI ,  pag.  159.  Se 
ne  vede  il  disegno  nelle  Vedute  di  Messina,  della  fine  del  secolo  XVIII,  incise  da 
Francesco  Sicuro. 

3  La  fabbrica  procedeva  nel  1557  sotto  la  direzione  amministrativa  dei  de- 
putati a  ciò  preposti  Giovanni  Minatoli  e  Vincenzo  di  Messina.  Il  consiglio  ci- 
vico a  21  giugno  1569  stabiliva  di  «  darsi  altre  oz.  200  per  il  proseguimento  delli 
lavori,  da  pigliarsi  dalli  danari  dell'acqua  delli  Caulinari  ».  Giuliana  di  scritture  del- 
V Archivio  Senatorio,  ms.   del   sec.  XVIII,  presso  l'A. 

Messina. 

G.  Arenaprimo  di  Montechiaro. 


ABROGAZIONE  DELLE  TRASFORMAZIONI  DELLE  RICETTILE 

IN  COLLEGIATE. 


§  1.  Della  laicalità  e  della  trasformabilità  delle  rieettizie  in  col 
legiate  il  concordato  1818  non  si  occupa. 

§  2.  Bolla  Inipensa  13  agosto  1819  e  disposizioni  relative  costi- 
tuiscono convenzioni  o  disposizioni  dipendenti  dal  concordato  :  laica- 
lità rispetto  alle  imposte  ed  alla  nomina  differenziava  le  rieettizie  dalle 
collegiate  nel  sec.  XVIII;  dopo  il  concordato  1818  solo  rispetto  alla 
nomina,  sino  alla  Bolla  1819  :  collegialità  «  quoad  lionores  tantum  » 
si  riferiva  alla  laicalità  ,  non  a  diritti  speciali  delle  collegiate  vere 
e  proprie,  i  quali  non  esistono. 

§  3.  Perciò  decreto  17  febbraio  1861  :  nel  richiamare  in  vigore 
il  dispaccio  26  agosto  1797  è  esplicativo,  non  tassativo  :  richiama  in 
vigore  tutto  il  diritto,  anteriore  al  concordato  1818  ,  sulle  rieettizie: 
abroga  tutte  le  disposizioni  posteriori  al  1818  sulle  rieettizie  :  anche 
i  provvedimenti  di  trasformazione  in  collegiate  posteriori  al  1819. 

§  4.  Interpretazione  Mancini  :  non  riflette  la  laicalità  :  non  con- 
traria a  noi  nel  caso  speciale  :  richiamo  del  solo  dispaccio  26  agosto 
1797  basterebbe  per  la  abrogazione   delle  trasformazioni. 

§  5.  Dispacci  del  sec.  XVIII ,  compreso  quello  26  agosto  1797. 

§  6.  Sicilia  e  resto  d'Italia,  eccetto  il  Xapoletano. 

§  1.  Nel  Concordato  16  febbraio -7  marzo  1818,  pubblicato  con 
legge  21  marzo  medesimo  anno,  Concordato  tra  la  S.  Sede  ed  il  Be 
delle  Due  Sicilie,  rispetto  alle  chiese  rieettizie  vi  è  solo  il  seguente 
accenno  :  dopo  disposto  intorno  alla  congrua  parrocchiale  o  supple- 
mento di  congrua  a  carico  dei  Comuni,  e  dopo  soggiunto  che  «  questo 
articolo  non  comprende  le  chiese  parrocchiali  di  giuspatronato  » ,  si 
stabilisce  :  «  Xè  pure  vi  restano  comprese  le  chiese  rieettizie ,  sieno 
numerate,  sieno  innumerate,  i  capitoli  e  le  collegiate  con  cura  di  anime, 
avendo  la  loro  congrua  nella  massa  comune  »  (art.  7). 

Questo  accenno  evidentemente  riguarda  solo  la  quistione  dell'o- 
liere della  congrua  o  supplemento    di  congrua  ,   e  non  anche  1'  altra 


PARTE    II.        ABROGAZIONE  DELLE  TRASFORMAZIONI  DELLE  RICETTIZIE.  407 

della  laicalità  od  ecclesiasticità  delle  ricettizie,  e  perciò  neppure  quella 
connessa  della  trasformabilità  delle  ricettizie  in  collegiate. 

Agli  effetti  di  quest'  ultima  controversia  giova  tener  presente 
anche  l'art.  10,  relativo  al  conferimento  dei  canonicati  delle  collegiate 
(nonché  di  quelli  delle  cattedrali)  :  «  I  canonicati  di  libera  collazione, 
tanto  dei  capitoli  cattedrali,  che  dei  collegiati,  si  conferiranno  rispet- 
tivamente dalla  Santa  Sede,  o  dai  Vescovi  ,  cioè  nei  primi  sei  mesi 
dell'anno  dalla  Santa  Sede,  e  nei  secondi  sei  mesi  dai  Vescovi.  —  La 
prima  dignità   sarà  sempre  di  libera  collazione  della  S.  Sede  ». 

Dunque  nel  concordato  LSI 8  non  si  dispone  intorno  alla  laicalità 
delle  ricettizie  ed  alla  loro  trasformabilità  in  collegiate.  Ma  da  ciò 
non  si  può  concludere  che  le  «  disposizioni  e  provvedimenti  »  poste- 
riori al  1818,  coi  (piali  alcune  ricettizie  furono  trasformate  in  colle- 
giate, non  siano  da  considerarsi  come  «  dipendenti  »  dal  concordato  e 
dalle  altre  «  convenzioni  »  relative,  e  perciò  non  abrogati  col  decreto 
17  febbraio  1801  ,  n.  218  ,  che  abolisce  il  concordato  e  convenzioni 
relative  e  richiama  in  vigore  il  diritto  anteriore. 

Giacche  il  citato  decreto  luogotenenziale  17  febbraio  18G1  e  abro- 
gatorio non  solo  del  concordato  1818,  ma  anche  «  dell'  altra  conven- 
zione del  16  aprile  1831  posta  in  osservanza  con  la  legge  del  30  feb- 
braio 1839,  che  parimenti  è  abrogata  ;  e  di  tutte  le  altre  convenzioni 
anteriori  e  posteriori  stipulate  tra  il  cessato  Governo  delle  Due  Si- 
cilie e  la  Corte  Romana;  nonché  delle  disposizioni  e  dei  provvedimenti 
di  esecuzione,  che  siano  dipendenti  dalle  convenzioni  medesime»  (art.  1). 

§  2.  Occorre  dunque  ricercare,  se  della  laicalità  e  trasformabilità 
delle  ricettizie  si  sia  trattato  e  concluso  con  qualche  altra  conven- 
zione fuori  quella  del  1818. 

Anteriormente,  no;  lo  Stato  delle  Due  Sicilie  aveva  legiferato  da 
se  in  proposito  contro  la  chiesa,  rivendicando  la  laicalità  delle  ricet- 
tizie e  sancendo  la  loro  non  trasformabilità   in  collegiate. 

Ma  dopo  il  concordato  1818  vi  è  la  Bolla  Pontifìcia  Impensa 
13  agosto  1810,  con  la  quale  le  ricettizie  in  sostanza  vengono  trasfor- 
mate da  enti  laicali  in  enti  ecclesiastici,  in  quanto  la  nomina  dei  par- 
tecipanti non  si  fa  più  da  quelli  già  esistenti  di  ciascuna  chiesa,  per 
cooptazione,  ma  dall'autorità  ecclesiastica  ossia  dal  Vescovo  :  «  in  av- 
venire alla  partecipazione  stabilita  nelle  chiese  ricettizie  siano  sol- 
tanto ammessi  quei  sacerdoti  e  quei  chierici  ,  che  dai  nostri  venerabili 
fratelli  arcivescovi,  vescovi  o  ordinari]  dei  luoghi  rispettivi  saranno 
trovati  più  commendabili  o  per  pietà  o  per  dottrina:  quindi  ordiniamo, 
che.  (piante   volte  abbia   ad   ammettersi  in  dette  chiese  ricettizie  (piai- 


408  T .    SCADUTO.  PARTE   II. 

cheduno  nel  possesso  del  diritto  di  conseguire  la  stabilita  porzione. 
si  faccia  prima  esperimento  dell'ingegno  e  dei  costami  di  coloro  che 
desiderino  esservi  ammessi,  e  si  istituisca  di  essi  l'esame  in  presenza 
degli  stessi  ordinarli  e  dei  loro  viearii  generali  e  almeno  di  tre  esa- 
minatori sinodali;  eseguito  il  quale  esame,  Y Ordinario  elegge  quelli  ehe 
in  sua  coscienza  e  integrità  conoscerà  più  degni,  e  li  metta  nel  pos- 
sesso del  diritto  ili  conseguire  la  stabilita  porzione.  Costoro .  in  tal 
modo  eletti,  e  ninniti  della  commendatizia  del  loro  Ordinario,  che  li 
dichiari  aggregati  ed  ascritti  alla  tale  determinata  chiesa  ricetti  zia, 
e  posti  nel  po*se**o  del  di  ritto  di  c*>H#egnirne  le  stabilite  porzioni ,  noi 
vogliamo  che  tali  siano  riconosciuti  ». 

Xel  secolo  XVIII  allorché  gli  enti  ecclesiastici  erano  ancora  nel 
godimento  della  esenzione  dalle  imposte,  nn  altro  elemento  della  lai- 
calità  delle  ricettizie  consisteva  appunto  nella  mancanza  di  tale  godi- 
mento.  Ma  nell'epoca  del  concordato  del  1818  questa  cosiddetta  im- 
munità reale  era  scomparsa  completamente.  Perciò  dicevamo,  che  colla 
Bolla  Inipensa  13  agosto  1810,  sostituendosi  al  diritto  dei  partecipanti 
di  nominare  quello  del  Vescovo,  le  ricettizie  sostanzialmente  si  tra- 
sformavano da  laicali  in  ecclesiastiche  .  giacche  questo  rappresentava 
l'ultimo  elemento  essenziale  di  laicalità. 

Così,  sostanzialmente,  scompariva  anche  la  differenza  fra  ricettizie 
e  collegiate  :  un  tempo  le  prime ,  laicali  rispetto  alla  non  esenzione 
dalle  imposte  ed  alla  nomina  per  cooptazione;  le  seconde  sempre  ec- 
clesiastiche, un  temp«>  per  la  esenzione  dalle  imposte  e  per  la  nomina 
dei  canonici  da  parte  dell'autorità  ecclesiastica  .  ora  soltanto  per  la 
nomina. 

La  distinzione  tra  ricettizie  collegiate  «  quoad  honores  tantum  » 
e  collegiate  vere  e  proprie  aveva  ragione  di  esistere  nei  due  suddetti 
elementi  i-elativi  alla  imponibilità  ed  alla  nomina;  oggi  non  più.  giacché 
i  detti  elementi  eran  venuti  meno.  !Xè  ora  era  il  caso  di  distinguere 
la  collegiata  «  quoad  honores  »  da  quella  «  quoad  honores  et  jura  »: 
giacche  la  collegiata  diritti  speciali,  di  fi-onte  ad  altri  enti  ecclesia- 
stici .  non  ne  gode  :  non  tiene  la  cosidetta  «  jurisdietio  »  :  non  tiene 
altro  che  diritti  onorifici,  non  diversi  da  quelli  che  tenevano  nel  se- 
colo XVIII  le  ricettizie  trasformate  in  cosidette  *  collegiate  quoad 
honores  tantum  ».  Perciò .  se  in  alcuni  decreti  posteriori  alla  Bolla 
Impensa  13  agosto  1810  si  parla  di  «  diritti  »  oltre  che  di  «  onori  »  di 
ricettizie  trasformate  in  collegiate,  tali  pretesi  diritti  .  distinti  da  quelli 
onorifici,  sono  una  mera  lustra,  non  rappresentano  nulla  di  concreto, 
nulla  di  giuridico. 

Ci  si  potrebbe  osservare,  che  questa   bolla,  trasformatoria  delle 


PARTE    II.        ABROGAZIONE  PELLE  TRASFORMAZIONI  OELLE  RICETTIZIE.  409 

rieettizie  da  laicali  in  ecclesiastici,  resa  obbligatoria  con  decreto  reale 
7  settembre  1811*.  non  rappresenti  una  «  convenzione  stipulata  tra  il 
cessato  Governo  delle  Due  Sicilie  e  la  (orti-  Romana  »,  ne  una  «  dispo- 
sizione  e  provvedimento  ili  esecuzione  .  che  sia  dipendente  dalla  con- 
venzione medesima  »:  sicché  non  sarebbe  stata  abrogata  col  decreto 
luogotenenziale  17  febbraio  1861,  u.  248. 

Questo  però  parla  non  semplicemente  di  «  concordato  ».  ma  anche 
di  «  convenzioni  ».  quantunque  «stipulate  tra  il  cessato  Governo  delle 
Due  Sicilie  e  la  Corte  Romana  »  .  e  parla  pure  di  «  disposizioni"  e 
provvedimenti  di  esecuzione  ».  Cioè  contempla  non  solo  i  concordati 
veri  e  proprii,  ossia  stipulati  nelle  forme  diplomatiche  .  ma  anche  i 
concordati  per  così  dire  di  fatto,  cioè  le  convenzioni  stipulate  senza 
forma  diplomatica,  semine,  si  sottointende  rispetto  a  queste  ultime, 
in  quanto  siano  lesive  «lei  «  diritti  inerenti  alla  i>olitica  Sovranità  dello 
Stato  »  (decreto  17   febbraio  1801,  art.    1  . 

Ora  .  che  la  laicalità  delle  rieettizie  si  ritenesse  inerente  ai  di- 
ritti essenziali  dello  Stato  .  secondo  il  concetto  che  dei  medesimi  si 
aveva  nel  1861  e  nel  secolo  XVIII,  è  fuori  dubbio.  Resta  quindi  a 
vedere,  se  la  Bolla  Inipensa  ed  il  relativo  decreto  Reale  che  ne  or- 
dina l'osservanza,  rappresentino  una  «^  convenzione  »  tra  la  S.  Sede  ed 
il  Re.  o  se  invece  ciascuna  delle  due  parti  abbia  disposto  \k-y  conto 
proprio,  la  S.  Sede  di  sua  iniziativa,  il  Re  approvando  senza  previa 
intesa. 

Il  testo  della  stessa  bolla  dimostra,  che  è  vera  la  prima  ipotesi. 
cioè  che  si  tratti  di  «  una  convenzione  »  .  di  un'aggiunta  al  concor- 
dato del  1818,  quantunque  fatta  senza  le  forme  diplomatiche  vere  e 
proprie,  solenni. 

Infatti .  nella  bolla  si  premette  che  il  Re  abbia  fatto  osservare 
al  Papa  la  convenienza  di  disporre  l'accennata  riforma  delle  rieettizie: 
si  aggiunge  che  «  poiché  nell"  ultimo  Concordato  non  trovasi  alcuna 
disposizione  particolarmente  data  a  riguardo  delle  chiese  rieettizie. 
abbiamo  trovato  conveniente  di  aderire  al  desiderio  manifestato  dal 
Sovrano  e  di  provvedere  colla  nostra  autorità  apostolica  ».  Riferiamo 
il  passo  :  <.<  Egli  e  perciò  che  volenterosi  abitiamo  accolti»  le  preghiere 
che  il  Nostro  Carissimo  tiglio  in  Cristo  Ferdinando  1.  Re  del  Regno 
delle  Due  Sicilie,  ha  disi>osto  che  si  fossero  da  noi  dati  gli  opportuni 
provvedimenti  per  la  più  utile  amministrazione  di  quelle  Chiese  che 
appellansi  Rieettizie.  esistenti  nei  suoi  domi  ni  i  al  «li  qua  del  Faro. 
Or  egli  ci  ha  fatto  esporre  esservi  di  tali  Chiese  Rieettizie.  delle  quali 
altre  Numerate  son  dette,  secondo  che  sono  ivi  ammessi  o  un  deter- 
minato numero  di  Ministri,  o  generalmente  tutti  i  preti  del  luogo,  e 


410  V.    SCADUTO. 


queste  della  proprietà  de'  fedeli  arricchite  di  congrue  rendite  da  di- 
stribuirsi prò  rata  a  testa  tra  coloro  che  addetti  sono  al  servizio  di 
essa,  e  precisamente  alla  cura  delle  anime  per  lo  più  alle  medesime 
Chiese  annesse;  ed  esser  però  necessario  che  si  prescrivesse  qualche 
norma  secondo  la  quale,  tolta  via  ogni  accettazione  di  persone,  asse- 
gnassero alle  indicate  Chiese  ricettizie  tali  ecclesiastici,  i  quali  sareb- 
bero per  ricevere  le  porzioni  destinate,  o  mensualmente  o  annualmente; 
ma  che  commendabili  essendo  per  pietà,  per  dottrina  o  per  prudenza 
fossero  in  grado  di  disimpegnare  ottimamente  i  loro  doveri  in  utilità 
e  vantaggio  de'  fedeli;  ed  a  tale  oggetto  ricercarsi  la  nostra  autorità 
apostolica,  perchè  una  tal  norma  si  stabilisca ,  e  che  dagli  ordinarli 
de'  luoghi  ,  dai  noi  loro  commessa ,  accuratamente  si  osservasse.  — 
Avendo  noi  quindi  ravvisato  che  questo  desiderio  del  piissimo  Sovrano 
sarebbe  stato  per  tornare  a  sommo  vantaggio  delle  anime,  e  maggior 
decoro  delle  medesime  chiese,  abbiamo  stimato  annuirvi,  senza  esita- 
zione alcuna;  e  poiché  nell'ultimo  Concordato  conchiuso  con  la  prefata 
Maestà  Sua  non  trovasi  alcuna  disposizione  particolarmente  data  a 
riguardo  delle  Chiese  Ricettizie,  abbiamo  trovato  conveniente  il  prov- 
vedere con  la  nostra  autorità  apostolica  alla  più  vantaggiosa  ammi- 
nistrazione delle  j>redette  Chiese  in  quella  misura  che  nel  Nome  del 
Signore  abbiam  giudicato  più  propria  ». 

§  3.  Posto  che  la  Bolla  Impensa  ed  il  relativo  decreto  Reale  rap- 
presentano una  delle  «  convenzioni  »,  di  cui  parla,  abrogandole,  l'art.  1 
del  decreto  luogotenenziale  17  febbraio  1861  ,  segue  che  il  periodo 
sulle  ricettizie  collocato  in  fine  dell'art.  2  del  medesimo  decreto  luo- 
gotenenziale ha  carattere  esplicativo,  e  non  tassativo.  Spieghiamoci. 
Stabilitosi  nell'art.  1,  che  il  Concordato  1818  e  le  altre  convenzioni  ecc. 
sono  abrogati ,  nell'  art.  2  si  soggiunge  che  si  richiama  in  vigore  il 
diritto  anteriore,  e  poi  si  dice  :  «  Quanto  alle  chiese  ricettizie  ,  sono 
ripristinate  in  vigore  le  disposizioni  contenute  nel  Real  dispaccio  del 
20  agosto  1797  ».  Ora,  posto  il  carattere  esplicativo  di  questa  pro- 
posizione, segue  che  la  Bolla  Impensa  ed  il  decreto  Beale  relativo  sono 
considerati  come  «  convenzione  »,  perciò  abrogati,  e  non  solo  essi,  ma 
anche  tutte  le  «  disposizioni  e  provvedimenti  di  esecuzione  »  dei  me- 
desimi, quindi  anche  tutte  le  trasformazioni  delle  ricettizie  in  colle- 
giate fatte  in  seguito  agli  stessi.  Dunque  non  si  tratta  soltanto  di 
richiamo  in  vigore  del  Beai  dispaccio  20  agosto  171)7,  ma  addirittura 
di  abrogazione  della  bolla  e  relativo  decreto  reale,  nonché  di  tutte  le 
disposizioni  e  provvedimenti  di  esecuzione  dei  medesimi  :  perciò  anche 
quelli  o  quelle  parti  che  non  contraddicono  al  real  dispaccio  171)7,  si 


PARTE    II.        ABROGAZIOBE  DELLE  TRASFORMAZIONI  DELLE  HICETTIZIE.  411 


intendono,  ciò  non  ostante,  abrogati;  e,  se  l'argomento  si  trova  con- 
templato iu  altre  disposizioni  anteriori  indipendenti  dal  detto  dispaccio 
171)7,  esse  si  intendono  pure  richiamate  in  vigore  :  sicché  è  richiamato 
in  vigore  non  soltanto  il  dispaccio  171)7,  ma  anche  altre  disposizioni 
anteriori  o  posteriori  al  medesimo  che  non  siano  in  contraddi/ione  con 
lo  stesso:  nel  decreto  luogotenenziale  abrogatorio  17  febbraio  180] 
si  parla  del  dispaccio  171)7  soltanto,  perchè,  in  fatto,  esso  riassumeva 
tutto  il  diritto  pubblico  giuri sdizionalista  sulle  ricettizie  anteriore  al 
Concordato  1818  ,  e  perchè  tale  diritto  non  era  stato  modificato  tra 
il  1797  ed  il  1818  :  ma,  se  ciò  spiega  l'accenno  speciale  ed  esclusivo 
al  Reale  dispaccio  20  agosto  171)7  nell'art.  2  del  decreto  luogotenen- 
ziale 17  febbraio  1861,  non  esclude  che,  a  rigore  d'interpretazione, 
si  intende  richiamato  in  vigore  tutto  il  diritto  pubblico  sulle  ricettizie 
anteriore  al  concordato  1818  :  né  questa  distinzione  in  fatto  è  pura- 
mente teorica;  giacché  ,  siccome  vedemmo  ,  discendendo  dal  concetto 
che  la  bolla  Impensa  ed  il  relativo  decreto  reale  costituiscono  conven- 
zione ,  porta  la  conseguenza  che  sono  abolite  anche  le  «  disposizioni 
e  provvedimenti  di  esecuzione  »  ,  che  perciò  debbono  ritenersi  abro- 
gate le  trasformazioni  delle  ricettizie  in  collegiate,  e  deve  perciò  am- 
mettersi il  diritto  dei  comuni  sulle  rendite  delle  medesime  giusta  la 
legge  15  agosto  1807,  art.  2,  diritto  che  altrimenti  potrebbe  preten- 
dersi escluso. 

§  4.  Alla  nostra  interpretazione  ,  che  le  disposizioni  sulle  ricet- 
tizie, posteriori  al  concordato  1818,  siano  dipendenti  dal  concordato 
medesimo,  contraddice  la  dicasteriale  20  giugno  1SIJ1  per  le  provincie 
napoletane,  emanata  dal  Ministro  di  Grazia  e  Giustizia  e  Culti  della 
Luogotenenza,  Mancini,  dicasteriale  che  dà  chiarimenti  sulla  intelli- 
genza bell'art.  2  del  decreto  luogotenenziale  17  febbraio  1861,  n.  218, 
abolitivo  del  concordato  del  1818.  Essa  dice  :  «  D'altronde  le  RR.  Istru- 
zioni del  1823  e  le  altre  posteriori  disposizioni  riguardanti  le  chiese 
ricettizie  emanarono  dalla  civile  sovranità  nell'  esercizio  delle  proprie 
prerogative  ,  senza  necessaria  dipendenza  dal  Concordato  con  la  Sede 
Pontificia;  e  quindi  non  possono  ritenersi  abrogate,  se  non  in  (pianto 
possono  scorgersi  in  qualche  parte  inconciliabili  col  R.  Dispaccio  del 
171)7,  dalla  stessa  civile  potestà   richiamato  in  vigore  ». 

Xoi  abbiamo  invece  dimostrato  la  dipendenza. 

Del  resto  nella  specie  possiamo  prescindere  da  questa  quistione 
generale.  Giacche  la  circolare  Mancini  nega  l'abrogazione  delle  dispo- 
sizioni posteriori  al  Concordato,  non  in  modo  assoluto,  ma,  come  ri- 
sulta dal  testo  del  Decreto-legge    luogotenenziale    17    febbraio   1801, 


412  F.    SCADUTO.  PARTE   II. 

testualmente,  solo  in  quanto  non  siano  contraddittorie  col  R.  Dispaccio 
2<;  agosto  1797  :  o,  più  precisamente,  il  detto  decreto  luogotenenziale 
17  febbraio  1861  testualmente  richiama  in  vigore  il  E.  Dispaccio  2G 
agosto  1797,  e  la  questione  resta  solo  sulle  altre  disposizioni  poste- 
riori al  Concordato  1818,  che  mai  non  siano  in  contraddizione  col 
Dispaccio  26  agosto   1797. 

Aggiungiamo  che  la  specie,  che  dette  occasione  alla  circolare  Man- 
cini, non  è  la  trasformazione  delle  ricettizie  in  collegiate  ,  ma  la  nu- 
merazione e  la  divisione  delle  partecipazioni  in  maggiori  e  minori,  e 
la  conclusione  della  circolare  stessa  riflette  solo  questi  due  punti  : 
«  In  conseguenza,  per  la  retta  applicazione  dell'  art.  2  del  citato  de- 
creto 17  febbraio  1861,  mentre  è  richiamato  in  osservanza  il  dispaccio 
del  26  agosto  1797  ,  deve  restar  fermo  quanto  altro  finora  è  stato 
disposto  circa  le  chiese  ricettizie  di  queste  provincie,  tanto  per  man- 
tenerle numerate  e  regolate  dei  proprii  statuti,  salvo  le  possibili  ul- 
teriori modificazioni  dei  piani  e  degli  statuti  medesimi ,  quanto  per 
la  divisione  delle  partecipazioni  in  maggiori  e  minori ,  per  la  loro 
idoneità  a  servire  di  titolo  canonico  di  promozione  agli  ordini,  e  per 
lo  prelevamento  delle  congrue  parrocchiali  dalla  massa  ». 

Ancora.  Il  Mancini  considera  che  su  questi  due  punti  principali, 
e  sopra  altri  accennati  nel  passo  riferito,  non  vi  sia  del  resto  contrad- 
dizione, anzi  vi  sia  conformità,  fra  le  disposizioni  posteriori  al  con- 
cordato da  una  parte  ed  il  E.  Dispaccio  26   agosto  1797  dall'  altra. 

Dunque  la  circolare  Mancini  non  riflette  la  laicalità  delle  ricet- 
tizie, esplicitamente;  anzi,  implicitamente,  la  riflette  ,  in  quanto  con- 
ferma (e  di  fronte  al  testo  dell'  art.  2  del  Decreto-legge  luogotenen- 
ziale 17  febbraio  L861  non  avrebbe  potuto  fare  altrimenti)  il  richiamo 
in  vigore  del  dispaccio  1797,  nel  quale  appunto  precisamente  è  con- 
fermata la  detta  laicalità. 

Sicché,  indipendentemente  dalla  tesi,  che  le  disposizioni  sulle  ri- 
cettizie, posteriori  al  concordato  1818  sono  dipendenza  del  medesimo, 
basta  il  richiamo  in  vigore  dei  dispaccio  26  agosto  1797  ,  richiamo 
testualmente  fatto  col  decreto  luogotenenziale  17  febbraio  1861  e  con- 
fermato colla  circolare  Mancini  20  giugno  1861 ,  per  concludere  che 
le  trasformazioni  delle  ricettizie  in  collegiate,  avvenute  dopo  il  1818, 
sono  «  convenzioni,  »  o  «  provvedimenti  di  esecuzione  »  del  concordato, 
o,  ad  ogni  modo,  contraddittorie  al  dispaccio  26  agosto  1797;  e  quindi, 
ad  ogni  modo,  abrogate  col  decreto  luogotenenziale  17  febbraio  1861. 

§.  5.  Eesta  a  dimostrare  la  detta  contraddittorietà,  ossia  che  le 
ricettizie,  secondo  il  dispaccio  26  agosto  1797  sono  enti  laicali,  e  non 
ecclesiastici. 


PARTE   II.       ABROGAZIONE  DELLE  TRASFORMAZIONI  DELLE  RICETTIZIE.  413 

Il  ripetuto  dispaccio  non  solo  considera  le  ricettizie  quali  enti 
laicali ,  ma  ritiene  che  la  trasformazione  in  collegiate  implicherebbe 
ecclesiasticità  ,  quindi  la  vieta  ,  e  la  permette  solo  «  quoad  honores 
tantum  »  cioè  in  quanto  possano  ottenere  gli  onori  di  collegiate  senza 
per  altro  perdere  la  natura  essenziale  di  ricettizie  e  perciò  di  enti 
laicali. 

E  su  questo  riguardo  il  dispaccio  26  agosto  1797  è  pienamente 
conforme  alla  legislazione  anteriore,  rispetto  alla  quale  perciò  non  fa 
altro  che  confermarla. 

Giuridicamente  a  noi  basterebbe  di  riferire  i  passi  del  detto  di- 
spaccio relativi  ai  detti  due  punti  della  laicalità  delle  ricettizie  e 
della  non  trasformabilità  delle  medesime  in  vere  e  proprie  collegiate. 
Ma,  per  abbondanza  di  prova,  riferiremo  anche  i  dispacci  anteriori, 
i  quali  nettamente  e  ripetutamente  sanciscono  tali  principii. 

Facciamo  lo  spoglio  dal  Gatta  Diego,  «  Regali  dispacci,  nelli  quali 
si  contengono  le  sovrane  determinazioni  dei  punti  generali,  o  che  ser- 
vono di  norma  ad  altri  simili  casi  ,  nel  Regno  di  Napoli  »  ,  Napoli, 
1773-77;  parte  I,  tomo  I,  titolo  XXVIII  ,  dispacci  3-6  ;  tomo  4  ,  ti- 
tolo 31,  dispacci  1-6,  9,  22. 

1757,  settembre,  20.  Parte  I ,  tomo  I,  titolo  28,  dispaccio  3.  Ru- 
brica :  «  Si  ordina  dalla  Maestà  del  Re  ,  che  nelle  chiese  ricettizie 
curate  e  non  curate  li  primiceriati,  cantorati  ,  decanati  e  simili  non 
sono  benetìzi,  ma  semplici  e  meri  uffizi,  titoli  di  onorificenza  e  pre- 
cedenza solamente  e  dignità  ventose.  Perciò  nelle  provviste  di  quelli 
nessun  diritto  o  ingerenza  ha  la  Corte  di  Roma  ,  ne  l'Ordinario  del 
luogo,  ma  la  elezione  spetta  alli  soli  partecipanti  dello  stesso  ceto  di 
essi,  nella  stessa  forma  e  mainerà  ,  che  gli  compete  nello  ammettere 
li  preti  patrimoniali  alla  partecipazione  ;  purché  non  vi  sia  annesso 
lo  esercizio  della  cura  delle  anime  ,  nel  (piai  caso  solamente  spetta 
all'  Ordinario  il  diritto  di  esaminare  e  approvare  lo  eletto  dalli  par- 
tecipanti ». 

175!),  luglio,  20.   Ibidem,  dispaccio  4,  idem. 

1766,  agosto,  2.  Ibidem,  dispaccio  5.  idem. 

1700,  agosto,  9.   Ibidem,  dispaccio  7.   idem. 

1750,  dicembre,  20,  tomo  IV,  titolo  31  ,  dispaccio  1,  pagg.  1-2. 
Rubrica  :  «  Si  proibisce  erigersi  in  collegiata  la  chiesa  curata  ricet- 
tizia  di  S.  Agata  di   Reggio  ». 

1753,  luglio.  22.  Ibidem,  dispaccio  2.  pag.  2.  Rubrica  :  «  Si  nega 
il  R.  Exequatur  alla  bolla  di  Roma  ,  con  la  quale  si  voleva  erigere 
in  collegiata  la  chiesa  ricettizia  curata  di   S.  Giovanni    Rotondo  ». 

1750,  aprile,  27.   Ibidem,  dispaccio  3,  pagg.  3-4.  Rubrica  :  «  Il  Re 


414  F.    SCADUTO.  PARTE   II. 

permette  che  una  parrocchia ,  ossia  un  benefizio  parrocchiale,  si  com- 
muti in  chiesa  ricettizia  :  perchè  li  beni  da  ecclesiastici  ritornino  alla 
natura  e  stato  laicale.  E  ordina  che,  fatta  questa  commutazione,  non 
possa  mai  più  mutarsi  questo  nuovo  stato  ,  e  le  porzioni  dei  parte- 
cipanti sieno  meramente  temporali.  Che  queste  mai  potessero  pren- 
dere la  qualità  di  benefizio  ecclesiastico.  E  finalmente  dichiara  ,  che 
colli  benefizi  ecclesiastici  niente  hanno  che  fare  le  chiese  ricettizie  ». 

1756,  luglio,  24.  Ibidem,  dispaccio  4  ,  pag.  5.  Rubrica  :  «  Il  Re 
permise  alli  cleri  delle  chiese  ricettizie  di  S.  Maria  in  Silvis  lo  uso 
delle  insegne,  che  il  Vescovo  a  loro  aveva  conceduto.  Ma  colla  espressa 
condizione,  che  per  lo  uso  di  quella  o  di  qualunque  altra  onorificenza 
non  mai  possono  le  divisate  chiese  qualificarsi  colli  loro  cleri  per  col- 
legiate e  canonici,  anche  puramente  onorarii  e  di  solo  titolo;  ma  ri- 
maner sempre  nel  perpetuo  stato  attuale  di  chiese  ricettizie  aperte 
innumerate,  e  quelli  preti  meri  partecipanti  :  perchè  né  la  insegna  né 
il  nome  fa  il  canonico  ». 

1757,  settembre,  20.  Ibidem,  dispaccio  5,  pagg.  Q-S.  Rubrica  :  «  Si 
ordina  dalla  Maestà  del  Re,  che  nelle  chiese  ricettizie  curate  e  non 
curate  i  primiceriati ,  cantorati ,  decanati  e  simili  non  sono  benefizi 
ecclesiastici  o  prebende  erette  in  titolo  ,  ma  semplici  e  meri  uffizi, 
titoli  di  onorificenza  e  precedenza  e  dignità  ventose.  Perciò  nelle  prov- 
viste di  quelli  nessun  diritto  e  ingerenza  ha  la  Corte  di  Roma ,  né 
l'Ordinario  del  luogo,  ina  la  elezione  spetta  alli  soli  partecipanti,  da 
cadere  nelle  persone  dello  stesso  di  loro  ceto  ,  nella  stessa  forma  e 
maniera ,  che  a  essi  appartiene  il  dritto  di  ammettere  i  preti  patri- 
moniali alla  partecipazione.  Purché  non  vi  sia  annesso  lo  esercizio 
della  cura  delle  anime,  nel  qual  caso  solamente  spetta  all'Ordinario 
il  dritto  di  esaminare  e  approvare  lo  eletto  del  clero  partecipante, 
presso  cui  risiede  la  cura  primaria  ed  ordinaria  ». 

1759,  maggio,  25.  Ibidem,  dispaccio  6,  pagg.  9-11.  Rubrica  :  «  Il 
Re  permette  una  chiesa  parrocchiale  commutarsi  in  ricettizia,  e  as- 
segnarsi a  quella  le  rendite  delle  cappelle  e  luoghi  pii  laicali;  sul  ri- 
flesso che,  essendo  la  chiesa  ricettizia  di  sua  natura  laicale,  li  beni 
delle  cappelle  e  luoghi  pii  laicali  rimangono  della  stessa  natura  e  qua- 
lità laicale  e  temporale,  e  non  si  pregiudica  né  la  regalia ,  nò  la  re- 
gale giurisdizione,  nò  lo  Stato  ». 

1760,  agosto,  23.  Ibidem,  dispaccio  9,  pagg.  14-15.  Rubrica  :.«  Si 
ordina  che  nelle  partecipazioni  o  siano  porzioni  delli  partecipanti  delle 
chiese  ricettizie  non  dee  praticarsi  alcuna  sollennità  di  possesso,  né 
altra  formalità  :  perchè  non  sono  benefizii  ». 

1774,  agosto,  6.  Ibidem,  dispaccio  22,  pagg.  30-32.  Rubrica  :  «  Per 


PARTE    II.        ABROGAZIONE  DELLE  TRASFORMAZIONI  DELLE  RICETTIZIE.  415 

hi  chiesa  matrice  della  terra  di  (Calatone   il   Re   ha    comandato  »  di 

quanti  debba  essere  il  numero  dei  partecipanti;  e  soggiunge  «  senza 
dipendere  ne  dalla  Corte  di  Roma,  ne  dal  Vescovo  per  tali  provviste  ». 
Ed  ora  veniamo  al  Reale  dispaccio  20  agosto  1707:  (Giustiniani 
Lorenzo),  «  Nuova  collezione  delle  prammatiche  del  Regno  di  Napoli  », 
Napoli,  1803-1805,  tomo  3,  titolo  07,  dispaccio  .'50,  pagg.  370-73.  Esso, 
nell'art.  1,  conferma  il  detto  principio  che  le  ricettizie,  anche  se  de- 
corate di  onorificenze  collegiali,  dovranno  sempre  conservare  la  natura 
di  ricettizie,  e  spiega  che  perciò  debbano  essere  sempre  considerate 
come  enti  laicali,  e  soggette  ai  tributi,  e  libere  dall'autorità  ecclesia- 
stica nella  nomina  alle  partecipazioni  :  «  I.  Che  le  partecipazioni  delle 
rendite  delle  sole  chiese  vere  ricettizie  ,  o  numerate  ,  o  innumerate, 
ancorché  fossero  decorate  di  titoli  di  dignità  di  semplice  e  puro  nome, 
dovranno  in  ogni  futuro  tempo  conservare  la  natura,  e  qualità  di  puri 
beni  laicali,  senz'alani  carattere  di  be?iefìcii  ecclesiastici,  siccome  sono 
state  dichiarate  colle  precedenti  sentenze  di  magistrati,  e  con  Sovrane 
risoluzioni,  che  S.  M.  conferma  in  quest'occasione.  E  quindi  saranno 
soggette  a  pagare  i  pesi  pubblici  a  tenore  del  Concordato,  delle  Istru- 
zioni Camerali  e  degli  ultimi  Reali  Stabilimenti.  Non  dovranno  esser 
mai  divise  in  quote,  o  once;  e  non  saranno  mai  sottoposte  ,  (piando 
dovranno  esser  provvedute,  ad  interposizioni  di  decreti,  e  spedizione 
di  Bolle  delle  curie  ecclesiastiche  e  della   Dataria   Romana  ». 

§  G.  Sicilia. 

L'art.  2,  comma  ultimo,  della  legge  lo  agosto  1807,  che  devolve 
ai  Comuni  la  rendita  delle  ricettizie  curate  ,  riflette  tutto  il  Regno, 
quantunque,  in  fatto,  le  ricettizie  fossero  assai  più  numerose  nelle 
Provincie  napoletane. 

Le  sovracennate  disposizioni,  sulle  ricettizie,  posteriori  al  Con- 
cordato 1818  tra  la  S.  Sede  ed  il  Re  del  Regno  delle  Due  Sicilie, 
riguardano  solo  le  provincie  napoletane,  siccome  è  detto  espressamente 
nelle  disposizioni  medesime.  Similmente  l'abrogazione  del  Concordato 
1818  fu,  col  Decreto  luogotenenziale  27  febbraio  1801,  disposta  solo 
per  le  provincie  napoletane. 

Inoltre  le  disposizioni  anteriori  al  Concordato  ISIS  sopra  riferite 
pare  che  siano  state  pubblicate  pure  solo  nelle  provincie  napoletane, 
e  non  anche  in  Sicilia. 

Da  questi   dati   segue  : 

1.  Che  tutte  le  quistioni ,  sopra  esaminate,  relative  alla  dipen- 
denza o  meno,  dal  Concordato  1818,  delie  disposizioni  posteriori  al 
medesimo,  ed  alla  abrogazione  delle  medesime,  ed  al  richiamo  in  vi- 
gore delle  disposizioni  anteriori,  sono  estranee  all'Isola  di  Sicilia. 


416  V.   SCADUTO.  PARTR   II. 

2.  Che,  in  mancanza  di.  disposizioni  speciali  tassative  per  l'Isola 
di  Sicilia,  ritenendo  il  principio  generale  della  laicalità  delle  ricetti  zie 
confermato  colla  legge  15  agosto  1867,  è  applicabile  anche  all'Isola 
di  Sicilia,  come  a  qualsiasi  altra  regione  del  Regno,  la  devoluzione 
<lelle  rendite  delle  ricettizie  curate  ai  comuni. 

3.  Che  nella  ipotesi  che  una  ricettizia  prima  della  legge  15  ago- 
sto 1807  sia  stata  trasformata  in  vera  e  propria  collegiata,  non  può, 
diversamente  che  nel  Napoletano,  aver  luogo  la  devoluzione  a  favore 
dei  comuni  ne  in  Sicilia  ne  in  altre  parti  del  Eegno. 

Napoli. 

Francesco  Scaduto. 


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