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BUsTOINa LIST VIAR 1 1923-
NUOTA
ANTOLOGIA
LETTERE, SCIENZE ED ARTI
SESTA SERIE
GENNAIO-FEBBRAIO 1922
VOLUME CCXVI — DELLA RACCOLTA CCC
DIREZIONE DELLA < miOVA ANTOLOGIA > '
Piazza di Spagna, Via di S. Sebastiano, 3
• i922
I \ \
^1
PKOPREÈTÀ UÈTTERAKIA
Rom» — sub. Lito-Tipografico DiiU E. Ann*ni — PI&sb«1« Flamiaio, S.
LA SANFELICE
POEMA TRAGICO
LE PERSONE DELLA TRAGEDIA
Luisa Sanfelice II capitano Bitbgio
L'abate AiìTOBello II monre-vlese
Gerardo Baccheb Lao Giumuara
Fernando Ferri La caporalessa
Domenico Cirillo La monaca
Ettore Carata, conte di Rirvo Zizzella
Eleonora Fonseca Pimentel Donna Lucia, levatrice
Donna Giulia Cabala duchessa di II canonico Puon
Cassano Un uffiziale
Donna Mariantonia Carata dudiessa Un brigadiere
di Popoli Un guardiano del carcere
Il generale Manthonè Guardie, soldati, marinai, gentiluo-
Bruto, lacchè mini, dame.
A Napoli nel 1799 e a Palermo nel 1800.
ATTO PRIMO
n giardino del palazzo SanfeUce. In fondo si leva un lato del palazzo; a
sinistra fra gli alberi s'intravede^ dietro un'inferriata, la via. L'Abate Alto-
beUo, adagiato in un sedile di ferro, a destra, legge un giornale.
SGENA PRIMA.
L'Altobello
[chiamando]
Cittadino lacchè!
Bruto
[venendo dal fondo)
Pronto! — E ardirei
Anco pregarvi, se non v'increscesse,
Di chiamarmi col nome che mi danno
Gli altri.
L'Altobello.
E sarebbe?...
la sanfelice
Bruto.
Cittadino Bruto.
L^Altobello.
Ah! tu ti chiami Bruto?
Bruto.
Ecco: il mio nome
Veramente era quello di Nicola;
Ma da quel giorno che, fatto uomo libero,
Proclamai la Repubblica sul La,rgo
Di Palazzo Reale, non mi volli
Chiamar che Bruto.
L'Altobello.
E il nome ti sta bene
Come la forca aJ ladro. Cittadino
Bruto, da' retta dunque. Appena avrai
Introdotto qui uno che fra poco
Verrà... {S'ode sonare al cancello)
Lo senti? è proprio lui che suona.
Va' dal padre Lorenzo a Piedigrotta...
Bruto.
Quel sanfedista?
L'Altobello.
Non temere: in breve
Lo serviremo: scilp.T. {Fa il gesto di mozzare il capo)
E gli dirai
Da parte mia questo strambotto arcano:
— A dieci ore la zoppa è a mezza via — .
Inteso?
Bruto.
Vado.
L'Altobello.
E fa' le cose in modo
Non troppo bruto, cittadino Bruto!
Bruto
{fra sé)
Bella fraternità, questo ritaglio
Di prete! {Va ad aprire il cancello)
Avanti, cittadino! {Esce).
SCENA II.
L'Altobello e Fernando Ferrl
Il Ferri.
Solo?
la sanfelice
L'Altobello.
Come vedete.
Il Ferri.
La notizia ancóra
Non v'è giunta?
L'Altobello.
No: quale?
Il Ferri.
Il re fellone
È sbarcato in Calabria con ottanta
Mila soldati.
• L'Altobello.
Bene. {S'odono spari di moschetto).
- Il Ferri.
Udite?
L'Altobello.
Colpi
Di moschetto, mi sembra.
Il Ferri.
La marmaglia
Che rialza la cresta e tira addosso
Ai cittadini inermi.
L'Altobello.
O che ne dice
Il generale Manthonè co' suoi
Patetici colleghi del Governo
Provvisorio?
Il Ferri.
Ah che farsa! Fondar una
Repubblica di donne e di poeti!
Fare della politica per uso
De' pastori d'Arcadia! Infagottare
La libertà nel guardinfante e innanzi
Menarla tutta nastri e tutta fiocchi
A strisciare gl'inchini con un ramo
D'olivo in pugno! La Rivoluzione
Col volto umiliato nel cappuccio
E il cilizio su' lombi, oh, oh!...
L'Altobello.
Beati
I mansueti, è scritto nel Vangelo.
la sanfelice
Il Ferri.
E gli effetti si vedono!... Ma quando
Avessimo ogni dì mozzato il capo
A un centinaio di nemici della
Repubblica, ora. il re de' lazzaroni
Non penserebbe di tornare, e i suoi
Segugi non darebbero la caccia
Ai patrioti! {S'odono altri spari).
Udite? Avrà paura
Donna Luisa?
L'Altobello.
fi uscita stamattina
A buon'ora.
Il Ferri. .
Imiprudente! Qualche nuova
Debolezza di cuore?
L'Altobello.
Eh no! per quello
Ci son qua io, che vigilo. Sapete
Gh© il cavalier Sanfelioe mii ci ha
Mésso apposta.
Il Ferri.
Sicuro! e non le dee
Garbar troppo l'idea di ritornare
Nel monastero di Montecorvino.
L'Altobello.
La bella amica nostra, con quel suo
Fare allegro, un po' frivolo, direi...
Scandaloso talora, ha in serbo poi
Tesori di virtù che le biscia
Spendere in tutt'i modi. Ora s'è vòlta
A rubare il mestiere alle zitelle
Di carità : gira di casa in casa
Questuando ogni giorno per i bimbi
Straccioni, a cui fu spento il padre in guerra,
E va per le corsie di^li ospedali
Medicando gli eroi della casata
Di Pulcinella.
Il Ferri.
Come siete sempre
Amaro, voi! Per me trovo sublime
Questo che dite.
L'Altobello.
Ah si?... Gusti! Che fajci?
lo non sono un filantropo. Non chiedo
Alleanze. Vo solo, come i cani
Di notte.
la sanfelice 7
Il Ferri.
Siete un vero enigma.
L'Altobello.
Un uomo.
Solo chi è solo, è libero.
Il Ferri.
Ma pure
Servile la Repubblica!
L'Altobello.
Sì: dico
Bene; perchè consente d'andar soli
Ai cani. — E quando avrete, uomo felice.
La congiuntura d'abboccarvi al prode
Manthonè?
Il Ferri.
Questa sera.
L'Altobello.
Gli direte,
Via, che si rassicuri. È una fandonia
Lo sbarco di Nasone.
Il Ferri.
Eh? ma di dove
Lo sapete?
L'Altobello.
Di dove io so le cose!
Fate celia? Per altro, ditegli anco
Che tenga aperti gli occhi, perchè in aria
Vedo del nero.
{S'ode 'un colpo di moschetto e itn rumore di spade cozzanti)
Il Ferri.
Che accade?
SGENA III.
{Luisa San/elice entra a precipizifi tutta sbiancata e tremante;
poi Gerardo Baccher e r Alto bello; il Ferri).
Luisa.
Salvatelo!
Salvatelo!
{L'abate Altobello esce da sinistra).
LA SANFELICE
Gerardo {di dentro).
Briganti, indietro! Sono
Il capitano Baccherl
Voci di dentro.
Non è vero!
Muoja.la giacobina!...
{Entra Gerardo, accompagrnato dalV abate Altobello).
Gerardo {a Luisa, con ansietà)
Come state,
Signora?
Luisa.
Un poco meglio, adesso : grazie!
E voi?
Gerardo.
Non 90... mi sento qui, nel braccio...
Luisa.
Ma c'è sangue!... Lasciatemi vedere.
{Fa sedere Gerardo, e gli rivolta la manica della giubba).
Una ferita!...
L'Altobpllo.-
Di coltello.
Luisa.
Oh Dio!...
Sarà pericolosa?...
L' Altobello {con ironia).
No... per lui
Punto.
Gerardo {brusco).
Che vuol dir ciò?
L'Altobello.
Bel capitano,
Non v'agitate: e' vi può riuscire
Fatale alla complessione.
Voci lontane.
Muoja
La giacobina!
Il Ferri {air Altobello).
Sono andati, e corro
Anch 10 dal generale. ',4 Luisa) Cittadina,
Abbiatevi riguardo!
la sanfelice
Luisa.
Arrivederci,
Cittadino! {Fernando Ferri esce).
Un po' d'acqua, abate, presto!
{L'abate Alto bello esce).
SCENA IV.
Luisa e Gerardo.
Luisa.
Eh signorino!... vedete a che rischi
Voi m'esponete con la vostra folle
Inconsideratezza?
Gerardo.
Io v'amo, io v'amo,
Luisa. Che mi fanno i rischi, mentre
Vi guardo? Come siete bella! Come
Siete bionda! Il mio sole! Anche lontano
Da voi, mi basta chiuder gli occhi, e vedo
Sempre la luce sfolgorante della
Vostra capigliatura!
Luisa.
Un bell'effetto
A voi fanno i salassi! Avete inteso
L'abate? Calma, calma!...
Gerardo.
No, vi prego.
Non ridete di me, Luisa! Soffro
Già tanto della vostra indifferenza
Distratta!... Dunque non vi dice nulla
Questa mia passione furibonda
E triste, di cui muoio? Invano dunque
L'anima mia si gitta incontro a voi
Delirando e pregando? Né anco una
Parola buona?...
Luisa.
Ah seguitate? E io
Vi pianto lì con la ferita aperta
E ne lascio spicciare tutto il sangue
Insidioso...
{Gerardo fa Vatto di svincolarsi)
Ah no!... che fate?... Via,
Capitano!... Ma guarda che fanciullo
Dispettosaccio!... Non vi voglio bene,
Punto! Lesto, ridatemi quel polso!...
Gerardo {ridistendendo il braccio)
Dolce tiranna mia!
10 la sanfelice
Luisa.
BravoI lai quale
Gosne ne' melodrammi dell'abate
Metastasio. A proposito! O quell'altro
Abate dove s'è cacciato?
(Chiamando)
Abate!
SCENA V.
L'Abate Altobello, Gerardo e Luisa.
L'Altobello {ambiguo).
Posso?...
Luisa.
Non faite l'impostore! L'acqua!
{Lava la ferita di Gerardo, e la fascia con le bende che cava
dalla sua borsa).
L'Altobello. ^
Si saprà dunque cos'è stato, adesso
Che, grazie a Dio, non c'è più alcun timore
Di lutti?...
Luisa.
Non me ne parlate ! Anche una
Delle mie scapataggini. Discesa
Dall'Ospedale del Gesù, passavo
Per via Medina, quando, non so come.
Cacciando il capo fuor dello sportello
Della vettura, scorg:o due soldati
Francesi tolti in mezzo da una squadra
Di nove camiciotti. Fo fermare,
E attendo, trepidante. I miei due prodi
Si giiatano da tomo, e senza indugio
Sguainate le sciabole, si danno
A mulinarle, indietreggiando a poco
A poco fino al muro. Il balenìo
Si fa più rado; i camiciotti a gara
Si lanciano gridando; ma i Francesi
Volgon le punte ipdù ratte del lampo,
E ne stendono tre sul marciapiede.
I nemici indietreggiano, si guardano
Irresoluti, non fanno più a tempo
Di tornare all'assalto; e come i due
Son loro a dosso tempestando, quelli
Si sbandano. Io non posso più tenermi,
E mezza fuor dello sportello, batto
Le mani a' miei due valorosi. I quali
Si volgono, sorridono, e mi fanno
Col cenno della sciabola un saluto
Degno d'andare a una generalessa.
la sanfelice 11
L'Altobello.
Fin qui le rose.
Luisa.
Già! La mia vettura
Riprende a andare verso casa, quando
A cento passi di quivi, odo intomo
Brusìo di voci, e scorgo uno di quei
Camiciotti seguito da un codazzo
Di lazzaroni, che gridando: — Muoja
La giacobina — mi serran la strada.
— Frusta, cocchiere! — La carrozza piglia
Il galoppo, odo crepitare i colpi
De' moschetti, slam giunti a casa. E q'uelli
Dietro noi, sbraitando. Come fare
Per discendere?... A un tratto si spalanca
Lo sportello, mi volgo esterrefatta,
E vedo... vedo il nostro uffiziale,
Un po' bianco, a dir vero, che mi grida:
— Presto! scendete! presto! — In fatti, mentre
Chei con la spada sguainata armeggia
Tenendo testa a' miei nemici, solo,
Io balzo in terra, apro, entro, son salva!
{Ridendo).
La giacobina che deve la vita
A un capitano realista: il bello
Questo è!...
Gerardo.
Via! via! Voi siete giacobina
Signora mia, perchè ora è di moda.
Donna Giulia Carafa e la sorella
Pòpoli han dato l'esempio, e già tutte
Fanno lo stesso. Grilli di vezzose
Sfaccendate, nonpiìi. Ma un gentiluomo
Difende sempre una dama, e per fare
Che faccia il vostro Ghanupionnet col suo
Esercito di ladri e di pezzenti.
Non riuscirà certo a cambiar mai
Un gentiluomo in un persecutore
Di donne. Queste son prodezze degne
Unicamente di quel pio, gentile.
Cavalleresco popolo di Francia,
Che osò iportare la mano ribalda
Su la più santa e su la più infelice
Delle regine'
L'Altobello {a Litica).
Eh, che ne dite? Un vero
Campione da Tavola Rotonda!
Luisa.
Ah no, njo, no!... Se comiiwiate adesso
12 LA SANFEUCE
A altercar di politica, v'avverto
Che me la svigno.
Gerardo.
Non abbiate alcuna
Paura, cittadina: non ragiono
Di politica mai né con le dame,
Né con le spie.
Luisa.
Le spie?...
Gerardo.
Sì : voi, so bene,
Non mi potete intendere : l'abate
Invece, qui, eh 'è un sapiente...
L'Altobello.
Ha inteso
A meraviglia. Anzi, donna Luisa,
Vi pregherei che ci Lasciaste un poco
Soli: ho bisogno di chiedere qualche
Chiarimento a quest'uomo di Plutarco.
Luisa.
Sia; ma non divoratevi l'un l'altro,
Ve ne scongiuro : avrei perduto a un tempo
La spada e il pastorale... {Corre in casa ridendo).
SCENA VI.
Gerardo e Z'Altobello.
L'Altobello.
Impetuoso
Armigero, s'è' non m'annebbia i sensi
Un po' d'orgoglio, è questa la seconda
Volta che piace a voi di provocarmi
Coranupopulo. A me, proprio, per dire
La verità, non me n'importerebbe'
Nulla; ma il mondo è pieno d'innocenti
A cui potrebbe fare impressione
La vostra accusa. E io non voglio ancóra
Disgustarmi col mondo.
Gerardo.
Ah convenite,
Però, eh 'è vera la coea!
L'Altobello.
Cospettol
E me ne vanto. Che gusto c'era ^li
A tosare le carte?
la sanfelice 13
Gerardo.
Eravate anche
Baro?
L'Altobello.
Così, per passatempo. Quando
Regnava il nostro buon re Ferdinando,
Avevam fatto una lega di sei
Amici, tutti della stessa risma,
E si smungea balordon balordoni
Le scarselle dei gonzi. Ora codesto
È un mestiere fallito. Già, persino
Il pio re, dicono, avea quel viziaccio
Birbone.
Gerardo.
Infamie!
L'Altobello.
E vi guastaste il sangue
Per così poco? Sicché, ipensai bene
Di darmi alla politica, ch'è arte
Da perdiglomi, si sa. Fiuto, indago,
V^lio, sto sempre a orecchi tési, e via!
Qualche servigio l'ho reso alla buona
Causa. .
Gerardo.
Mentite! voi mentite sempre!
Del resto, ciò non mi rileva. Io v'odio!
V'ho sempre odiato, sì!
L'Altobello.
Prima di tutto
È raro chio mentisca. E in ogni caso,
Non lo farei col figliuolo d'un mio
Vecchio collega...
Gerardo.
Che c'entra mio padre?
L'Altobello.
Già, vostro padre — degno uomo! — era uno
Di que' sei sozii...
Gerardo.
Ah miserabile! osi
Sputare la tua bava?...
L'Altobello.
Eh, no! perdóno!
Ho le prove io, se le volete...
14 la sanfelice
Gerardo.
Taci!
Non voglio nulla, e non ti credo. T'odio!
E s'anco ciò che affermi fosse vero,
Al doppio t'odierei.
L'Altobello.
Ciò non ostante,
Avete torto. È un gran pezzo oramai
Che più non amo quella donna, e anzi
M'è cascata di collo. Sì, m'avea
Stregato... Eh!... eh!... Gli è questo che vi cuoce,
Nevvero?... E avevo accettato con gioia
Dal cavalier Sanfelice l'impegno
Di salvar la virtù della sua casta
Mogliera. Invece, fiasco! Eh no, né anche
L'ira: il motteggio! Le due volte o tre
Che le accennai la disperata mia
Voglia, colei m'accolse con un tale
Scampanellìo di spensierate risa.
Ch'io rimasi più sciocco di quel gatto
Che andato ad aggraffare il pappa,gallo,
Gli sentì fare: gnau!
Gerardo.
Bisogno ho forse
D'altro, per esser certo, non ostante
La vostra goffa malizia, che anc'oggi
Continuate a maturare il turpe
Divi samento?
L'Altobello
{scoppiando in una risata)
Ah! siete un furbo, voi!
Non vi si può accoccarvela. Che birba!
M'arrendo. È vero: l'amo ancóra.
Gerardo
{con impeto)
L'amo
Anch'io!
L'Altobello.
Ma se lo so!... sgallinatore
Di pollai. Già, se ne avvedrebbero anche
Le tope cieche. Ora pensate dunque
Che pacione son io! La lascio andare
Sola, perchè v'incontri in qualche luogo;
Chiudo un occhio, se voi l'accompagnate
Pino a casa; mi bevo in santa pace
Tutte le vostre frottole, che sono
Da far dormire a veglia... Eh?... dite poi
LA SANFELICE 16
Che non vi sono amico!... È anche giusto
Aggiungere che, me, mi può soffrire
Quanto il fumo negli occhi.
Gerardo.
Oh ne son bene
Persuaso!
L'Altobello. .>
Ah, ne siete persuaso
Proprio? Elppure, vedete, non si può
Dir nulla mai di positivo circa
Quello che accade fra un uomo e una donna,
I quali — a questo pensate!... — da un mese
Dormono sotto il medesimo tetto,
0 quasi.
Gerardo.
Che?... vorreste forse farmi
Dubitare di lei? S'anche con questi
Occhi miei la vedessi, ebbene...
L'Altobello.
Ebbene?...
Gerardo.
Direi che sono un pazzo, come dico
Ora che voi siete un furfante. Pure
Io non debbo lasciarla alla balìa
D'un pari vostro, una così soave
E delicata creatura. Dunque
Vi comando, intendete? vi comando
D'uscir da questa casa entro, al più tardi...
Due settimane... il tempo d'avvisarne
Quel marito balordo.
L'Altobello.
E... piano un poco!
Con che diritto, s'è lecito, voi
Mi comandate, fervido Amadigi?
Gerardo
{con voce bassa e vibrante)
Voi non fate la spia solo per conto
Nostro, ma anche per conto de' nostri
Nemici. . Che cieca opera d'inferno
Tramiate ne' chiusi penetrali
Della vostra coscienza, non riesco
A intendere; ma so questo: che devo
Schiacciarvi,- e lo farò.
L'Altobello.
Denunziando
Al generale Manthonè le mie
Benemerenze realiste?
16 la sanfelice
Gerardo.
O anche
Al re, quand'egli ri tomi, le vostre
Repubblicane macchinazioni,
' Traditore!
L'Altobello.
Così, bel cicisbeo,
Libeftilmente voi lasciate al mio
Genio la scelta tra la vecchia forca
Di casa e la novella ghigliottina
Alla moda di Francia. Ecco, per ora
Non mi saprei risolvere; ma certo
Ci penserò, compare. Oh! non è ch'io
Tenga molto alla vita, una facezia
Triste di chi sa quale saltimbanco
Invisibile: solo vorrei fare
Quel tal salto nel nulla il giorno e l'ora
Destinati da me, da mei con tutto
Agio, a mio modo, e senza spettatori
Fastidiosi.
Gerardo.
Prendete le vostre
Misure, dunque!
L'Altobello.
Il consiglio è superfluo,
Fratello!
Gerardo.
Arrivederci!
L'Altobello.
Ah, dico bene!
Non togliete commiiato dalla bella
Beneficata?
{Chiamando) Ohe! donna Luisa!.
Luisa!...
SCENA VII.
Luisa, L'Altobello e Gerardo.
Luisa.
Vengo! Eccomi. Avete poi
Fatto la pace?
L'Altobello.
Siam legati come
Il paziente e l'aguzzino.
Gerardo
{baciando la mano a Luisa)
Addio,
Signora!
LA SANFELICE IT
Luisa.
E grazie, capitano! Senza
Di voi, passavo un brutto quarto d'ora,
Ogg-i. Verrete a ritrovarmi presto?
Gerardo.
Domani, se v'aggrada.
Luisa
{con malizia)
Sì, ma voglio
Rivedervi guarito.
Gerardo.
[con dolore)
Oh!...
(Esce),
SGENA Vin.
Luisa e L'Altobello.
L'Altobello.
Il capitano
È intraprendente, credo.
Luisa.
{con gaia ironia).
Ah, sì?...
L'Altobello.
Ma voi
Gli avete dato il suo dovere.
Luisa.
Avete
Visto? Schemi, rabbuffi, la minaccia
Di piantarlo lì solo, la presenza
Vostra chiesta nel meglio... Eh? si poteva
Mostarsi piìi intrattabile?...
{Scoppiando in una risata)
Mio caro
Abate, proprio non ne indovinate
Una!
{Con passione)
L'amo!
L'Altobello.
{enigmatico)
Oh, oh!... Meglio!... meglio!... meglio!...
CALA LA TELA.
(Continua). G. A. CESAREO.
(Proprietà letteraria: tutti i diritti riservati).
2 Voi. CCXVI, serie VI — !• gennaio 19».
I^ICORDANZE E AUGURII D'UN VECCHIO INSEGNANTE
Risalire dai tardi tramonti dellia vita verso l'operoso meriggio,
•e di quelli restituirmi alle ore liete nelle quali l'educazione dei gio-
vani al pensiero e al sentimento, ai segreti della bellezza e alla evi-
denza del vero, alla fede negli alti ideali e al santo amor della patria,
mi era come una gioventù dell'animo, che non doveva quella, grazie
a Dio, conoscer vecchiezza; questo tornare, questo restituirmi, questo
ringiovanire, è per me oggi, o Golleghi e Studenti del nostro Liceo
Dante, l'attenimento della promessa che avete voluta da me, d'inau-
gurare pel nuovo anno scolastico le lezioni di questo fra i Licei di
Firenze l'anziano, io uno dei pochi sopravvissuti ai suoi insegnanti
di mezzo secolo fa. La provvida intitolazione dei Licei italiani dal
nome dei maggiori fra i nostri Grandi, non poteva in Firenze at-
tuarsi, innanzi ad ogni altro nome, che in quello di "Dante; sì perchè
Dante e Firenze sono unisonanza gloriosa, si perchè eran quelli gli
anni nei quali il Secentenario natalizio del Poeta fiorentino d'Italia
veniva conclamato siccome un suggello dell'unità nazionale animo-
samente conquistata. Ed è oggi non sine diis, dicevano i padri nostri
romani; noi cristianamente, è provvidenziale; che quel nome si riaf-
fermi in questa nuova sede del nostro Liceo, e il vessillo in cui il
nome di Dante allora fu scritto spieghi alteramente qui il suo tri-
colore, oggi nel Secentenario della morte di lui, o veramente del-
l'inizio della soia immortalità, oggi che la patria italiana, con le
a,rmi al piede vittoriose per la legittima integrazione, fa a questa
schermo delle Alpi sacre, e rivendica sul- mare di San Marco quel
più de' suoi diritti imprescrittibili che le è oggi commisurato dai
raziocinatori del destino delle nazioni.
Da allora a oggi l'Italia ha proceduto per la sua via con avanza-
menti che farebbero maravigliare chi non credesse di ferma fede
nei finali trionfi che alle giuste cause segna infallibile la mano di
Dio. Né, del resto, può sembrar troppo rapido il costituirsi dell'Italia,
in poco più che mezzo secolo, e afforzarsi a nazione, se pensiamo
essere stati interi secoli di errori e colpe nostre e abbominio di vio-
lenze straniere, quelli lungo i quali il disgregamento della nostra
potenziale unità fu perpetrato; enormità dii mali, ai quali il rimedio
conveniva esser violento o non esser mai; e se pensiamo altresì che
del decimonono, del secolo di rivendicazione, la seconda metà ha
potuto naccogliere a man sicura la messe del seminato negli ante-
NoTA. — Inaugurandosi l'anno scolastico nel R. Liceo Dante di Firenae
il di 8 novembre 1931.
RICORDANZE E AUGURII D'UN VECCHIO INSEGNANTE 19
cedenti decennii. Fin da quando lo Spielberg ingoiava nelle sue
tane Pellico e Ck>nfalonieri; e Sant-arosa, non potendo per l'Italia,
combatteva e moriva per la libertà della Grecia; e a Cosenza cade-
vano fucilati i Bandiera; e dalle forche di Belfiore scendeva sui
compagni di supplizio la benedizione di Tazzoli sconsacrato; l'Italia
si affermava in un avvenire irresistibile e imminente. Quelli furono
i confessori e i martiri della religione della patria. Li accompagna-
vano e li susseguirono i v^g-enti dalle alture del pensiero; Mazzini,
Gioberti. Con la prima guerra d'indipendenza, a mezzo il secolo,
tra il fremito delle rivoluzioni popolari, sorgono duci e affidatori
gli statisti del nuovo diritto; Cavour: i campioni, gli eroi, dèlie sante
battaglie; Vittorio Emanuele, Garibaldi. E si fa l'Italia. L'Italia oggi
integrata; se non quanta e quale si sarebbe dovuto e potuto fare che
fosse, tale tuttavia, che, nel tristo non ancor debellato mondo della
forza e del sofisma, nessuno può dissimulare la valida esistenza di
lei, e tutti devono riconoscerne, sia pure a loro malgrado, sia pure
per combatterle, le rinfrancate enei^ie; né dalla collaborazione del-
l'umana civiltà potrebbe essa ritrarsi, senza venir meno all'esercizio
de' suoi diritti, che è anche adempimento d'immanenti doveri e as-
serzione essenziale di vita.
A tale collaborazione si preparava sin d'allora la scuola; dico la
scuola che oggi, dismesse le esotiche pappagallesche classificazioni
di Primaria e Secondaria, designamo con l'appropriata sua grada-
zione di Media, e nella quale consiste il forte della cultura dei più,
o diciam m^lio il necessario alla cultura di tutti. Da allora, —
quando anch'essa la scuola media si proclamava, nel battesimo dei
grandi nomi italiani, italiana, — sino a oggi, è stato dell'Italia
nostra tutto un ricercare sé stessa nelle sue tradizioni di cultura, e
un cimentare le migliori sue attitudini ad essere, anche per la cul-
tura, l'Italia dei nuovi tempi. E non oseremo dire che tali ricerche
e tali esperienze abbiano sempre battuto le vie meglio conducenti
allo scopo. Ma nemmeno potrebbe affermarsi che da questo lavorìo
intellettuale non sia uscito molto di bene nel campo della scuola,
dischiusa oggi all'azione di forze che un tempo essa ignorava, o non
degnava, o aveva in sospetto. Vero è che dietro le dubbietà di codeste
ricerche e nel cimento di coteste esperienze, — troppo spesso e corri-
vamente istituite a cieca imitazione delle altre nazioni, delle quali le
inique alternate servitù ci avevano avvezzati ad ammettere senz'altro
la superiorità, — si venne detraendo non jxxx) alle virtù di quella
istintiva e geniale apprensione, a noi latini italici meglio che ad altre
genti connaturata, che gli antichi metodi secondavano con efficacia,
forse inconsapevole, ma non per questo meno feconda di resultati:
i quali erano che, più largamente esercitata la facoltà della memoria
e meno quella del raziocinio; chiedendosi alla scuola media men di
pramanatico e più di educativo; indugiate a superiori studi le indi-
screzioni della critica; l'impressione dell'appreso è sentito sui libri
rimanesse più profondamente e durevolmente segnata negli animi;
e in particolare la cultura classica, col restituir quasi lingua viva e
familiare il latino, s'impersonasse, dalla scuola nella vita, in qiiella
hurrmnitas che non designava soltanto il p>assaggio dalla gramma-
tica allo studio interiore delle cose e della loro afBgurazione, ma
Accompagnava poi « tra la polve della vita e il suono», nell'esercizio
20 RICORDANZE E AUGURU D'UN VECCHIO INSEGNANTE
delle professioni e nelle relazioni sociali, i maturati nella scuola
alla realtà del civile consorzio: hwmamlas verament;e, nel più alto
e intimo significato di questa grande parola. Ora, se della esperienza
vogliam fare tesoro, e su quella assennarci per l'avv^enire, noi do-
vremmo ai metodi antichi riconoscere quanto di vitale essi sapevano
effettualmente produrre, proponendoci bensì di governarne razional-
mente l'attuazione; sfrondare l'insegnamiento da quel « troppo » che
si risolve nel •« vano » ; porre la mira non tanto agli effetti imme-
diati del meccanismo programmatico, quanto a ciò che l'insegna-
mento sia per lasciare dietro di sé; ottenere, Dio volesse!, che l'igno-
bile ossessione dell'esser promossi, sia sapendo sia non sapendo,
oj^da negli animi giovanili il luogo alla coscienza dell'avere studiato
per sapere, e al proposito di dovere e volere essere dalla scuola li-
cenziati sapendo : dimodoché l'imparato in essa prema di conservar-
selo, come il miglior viatico per tutta la vita, quali che siano i een-
tieri che in essa si aprano alle attitudini e alle vocazioni individuali.
Ci fu tempo che era così : tempo non tanto lontano, che a noi vecchi
non sia stato in cospetto. Io conservo con religione i Virgili i Cice-
roni gli Grazi, postiÙati di sua mano giovanile dal babbo mio; i quali
egli, dopo adoperati nella scuola, custodì per la vita, e così fecero
parte della modesta sua biblioteca di medico. Oggi la vertiginosa
fornitura dei libri di testo, che annualmente si rinnova ad ogni (come
i sagaci editori la chiamano) campagna scolastica, finisce, alle mani
dei più, col riversarsi, sdirucita e logora, sui banchetti girovaghi. Ma
quel med'ico (mi si consenta oramai d'indugiarmi su questo pio ri-
cordo filiale), quel medico conservatore dei cari suoi classici, alla
vita onoratamente consumata nel pratico esercizio dell'arte sua, potè
e volle trarre conforto, nei mesti anni della vecchiezza, dalia lodata
versione, ohe io pubblicai postuma, dell'aureo latino di Gelso nel
vivo toscano del nostro paese.
Or io vorrei che degli amici cari e pregiati i quali mi furono
Golleghii nell'insegnare in quesfo Liceo ai padri vostri, o giovani miei
oggi uditori, di que' miei carissimi vorrei si ravvivasse dalle tombe
lacrimate la voce, e non pure alla mia ma a quella dei due colleghi
meco superstiti, Marangoni ed Bcoher, voci di scienza e di patria,
si unisse, in un conversevole ricordo dell'opera che qui tutti ci ebbe
congiunti, sotto gli auspici! di quel gran nome, nel quale in qpie-
st'anno augurale riconosce sé stessa e per l'avvenire si afferma
l'Italia. Vorrei che Giuseppe Rigutini, uno dei venuti su coi metodi
antichi, ma umanista che la familiarità coi classici disposava al senso
squisito della viva toscanità, e l'arguto giudizio alla spontanea pro-
prietà della parola; Carlo Belviglieri, nel cui insegnamento efficace
la storia era visione comprensiva e comparativa di fatti, governata
da criterio retto e sicuro; Agenore Gelli, che le diramazioni storiche
della sua Firenze sapeva, con sentimento italiano, rannestare al
ceppo originale della unifìcatrice storia d'Italia; Giacomo BarzelloUi,
il filosofo artista, che le teorie del pensiero animava con le squisi-
tezze del sentimento, e di là dalle formule scolastiche sospingeva
gli animi all'apprensione del reale esteriore ed intemo; Francesco
Merlo, il rigido matematico che nei classici della scienza esatta sot-
toponeva a peso e misura anclie i tesori della lingua; Tommaso Del
Beccajro, nella direzione del Liceo Ginnasio applicatore cauto e sa^o-
RICORDANZE E AUGURH D'UN VECCHIO INSEGNANTE 21
di principi basati solidamente sull'esperienza; e gli altri che me nel
laiolo degli insegnanti al Dante o precedettero o, come Raffaello For-
naciari, sussegnirono; il Fornaciari, al quale la sua Lucca ha tribu-
tato appena ieri solenni onoranze, e che dairinsdgne nome paterno
raccoglieva e ampliava le virtù di quel purismo che il sentire d'aver
noi oltrepassato non ci disobbliga dal riconoscerne le benemerenze
verso il riscatto della italianità dalle imposizioni straniere; tutti voi,
che o nomino espressamente o nel segreto del mio cuore ricordo (e
vi unisco gli efficaci prei>aratori dalle classi ginnasiali alle nostre),
tutti vorrei poteste, o valenti e buoni, evocati raffacciarvi oggi in
quest'aula, e al vostro Liceo recare dal mondo degli spiriti eletti,
col memore saluto, il veggente presagio, che istituzioni sin dal prin-
cipio vitali di vita sana e durevole chiedono al loro passato in aflB-
damento del loro avvenire.
Con voi, se dato ne fosse, rianderemmo lungo quelli anni i nomi
di alunni, in cui più espressamente vedevamo non fallirci il propo-
sito e la speranza che l'opera nostra fruttificasse a bene. Tacerò di
viventi; taluno dei quali il maestro ha potuto compiacersi di vedere
in uffici onorati aggiungerglisi a cooperazione di vita e di studi. Così
in questo tacere potessimo comprendere, e che da noi innanzi tempo
non si fosse dif>artito, Giuseppe Rondoni! del cui nome il Dante a
doppio titolo si onora, per averlo avuto, quando noi insegnavamo,
studente dei più cari e pregiati, e poi insegnante lui stesso sin quasi
a ièri : insegnante che alla interpretazione della storia vi guidava, o
giovani, con dottrina coscienziosa avvivata dall'entusiasmo del buono
e del bello, animata da un alto sentimento di civiltà di religione di
patria, quasi facendo della cattedra un apostolato; nel quale la espo-
sizione era già un ammaestrcimento, e i criteri a giudicare la storia
che fu addivenivano una scorta fedele e amorevole per la storia che
operiamo e viviamo.
Ma se del Rondoni nostro può dirsi aver egli, pur non riserbato
a vecchiezza, adempiuto onoratamente il corso nella vita destina-
togli, non così di altri pur discepoli nostri, il nome dei quali, con-
giunto alle memorie del Liceo Dante, consacrava già da molti anni
nel mio cuore la morte immatura : ricordo ed imnmgine, la loro e dei
condiscepoli loro, di quella convivenza spirituale che fra chi precede
amorevole e chi docile segue rinnova nella scuola i benefìci consensi
e le cooperazioni affettuose della famiglia. Due specialmente di tali,
lasciatemeli così chiamare, convissutimi e presto dipartitisi, si raf-
facciano al mio pensiero: Tommaso Theocari. Guido Levi. Il Levi
mancato agli studi storici e alla feconda operosità degli Archivi di
Stato nel fior dell'età e della vigoria intellettuale : l'altro, il Theocari,
rumeno, un rimasto ignoto, perchè morto non appena terminati gli
studi professionali nel Politecnico di Zurigo; e il suo nome, al bal-
zarm.i fuori dalle recenti pagine autobiografiche d'uno scomparso di
questi giorni, Piero Barbèra suo compagno di pensione scolastica,
mi ha fatto l'effetto d'una pallida visione emergente dal segreto d'una
tomba ignorata. Non pK)tuto approvare quando si presentò all'esame
d'ammissione, perchè deficientissimo nella lingua non sua, p>ochi
mesi dopo aveva saputo così largamente riparare a tale deficienza,
da potere, alunno esemplare in tutte le materie del corso, acquistar
poi sì della lingua e sì della storia d'Italia tal padronanza, da ci-
22 RICORDANZE E AUGURI! D'UN VECCHIO INSEGNANTE
meritarsi a far rivivere e dialog-aiPe, in un italiano, dite pure, d'in-
dustria, personai^gi d'altre età: esercizio di lingua, di riflessione
storica, d'immaginazione; prosa con alito di creazione poetica, senza
tortura di verseggiamenti retorici; al quale io volentieri, più volen-
tieri che al verseggiare, cimentavo gli alunni migliori. E cosi erano
evocati a dialogo, una volta coetanei di Michelangelo fuorusciti in
Roma dopo caduta la Repubblica, un'altra volta giovani milanesi del
Bel mondo pariniano, in occasione di quei pubblici saggi di studio,
coi quali nel marzo, per l'anniversario della proclamazione del
Regno, era prescritto ai Licei proseguissero il culto dei grandi nomi
d'Italia, leggendo uno degli insegnanti un discorso (oratore nel 69
su Michelangiolo il Barzellotti, io nel 70 sul Parini), e gli alunni re-
cando in pubblico il meglio delle loro esercitazioni, italiane e latine,
in prosa ed anche in verso, attorno a quel medesimo tema. Non ram-
niento se le chiamassimo Accademie; anzi mi pare che questo titolo
fosse, non a torto, evitato : ma è tuttavia lecito domandare, se l'abo-
lizione di qualsivoglia segno di vita che la scuola media, cioè la
scuola educatrice anche del senso della bellezza, dia fuor delle pa-
reti quotidiane, e sia pure con qualche ambizioncella di parata,
quasi come un po' di festivo interposto una volta tanto ai giorni di
lavoro, se tale sistematica abolizione guadagni tanto all'accigliata
severità degli studi, da compensare lo scapito del togliersi agli in-
gegni giovanili occasioni ed eccitamenti a manifestazioni geniali,
che possono essere, almeno un tempo erano, impulso e inizio allo
svolgimento di potenze d'arte aspettanti d'esser prodotte in atto.
Ad una di quelle scolastiche solennità (che tali veramente finivano
ad essere) avemmo ascoltatore venerando, giudicatore se altro mai
autorevole, Niccolò Tommaseo : la cui benevolenza verso l'insegnante
in quel giorno oratore si traduceva per lettera in parole d'affetto,
che oggi rileggo commosso; ma più al proposito odierno si adattano
le lodi che egli in cotesta lettera dà ai componimenti degli alunni,
segnatamente ai versi latini, e le congratulazioni che mi commetr
teva di fare al Preside per le cure che egli, l'educatore insigne,
chiama « i>aterne » : la massima lode, o Golleghi, desiderabile al-
l'inisegnamento mnanisUco.
In Guido Levi (l'altro dei due che vi ho nominati) il discepolato
del « Dante » si protrasse anche di là dalla Licenza liceale; e fra me
e lui divenne amicizia, e, sopra un argomento che ebbe a sé molti
laboriosi anni della mia vita, finì in vera e propria comunanza di
studi. La sua monografia « Bonifazio Vili e il Conmne di Firenze,
Contributo di studi e diocumenti nuovi alla Cronica di Dino Com-
pagni » ebbe questa origine. Dopo pubblicata la mia opera su Dino,
io mi rivolsi a lui, divenuto archivista di Stato in Roma, pregandolo
che negli Archivi Vaticani, non prima d'allora dischiusi agli stu-
diosi, eseguisse egli per me la ricerca d'alcuni documenti di capitale
importanza, che a me non era stato, in tempo utile, concesso di leg-
gere. A quei documenti lo essersene, nella felice ricerca, aggiunti
altri pur vaticani, ed altri fiorentini aver io a mia volta potuto ap-
porvene, portò che io stesso proposi all'amico e collaboratore, con-
vertisse la comunicazione, ch'egli era per fare all'antico maestro, in
pubblicazione dell'amorevole discepolo: e tale essa è rimasta fra le
sue più pregiate e belle avute in più alta considerazione dagli stu-
RICORDANZE E AUGURH DUN VECCHIO INSEGNANTE 2B
diesi di quel periodo storico. Ma quando in una pagina di essa io
leggo queste indulgenti parole, « A me, che ricordo con sentimento
" di viva gratitudine e di compiacenza il tempo in cui ebbi il pro-
« fessore Del Lungo sicura e affezionata guida ne' miei studi, è tor-
« nato uflBcio carissimo rimettermi alcun poco sotto la sua fidata
« scorta», tali parole leggendo, non la sola tenerezza verso quel de-
sideratissimo mi si risveglia nel cuore, ma altresì ritomo col pen-
siero al mio Liceo Dante, per le cui lezioni furono da me intrapresi
i primi saggi dinterpretazione del libro di Dino.
Si erano (una delle tante volte!) rinnovati i programmi d'inse-
gnamento : e Dino era stato assegnato fra gli autori da spiegarsi nel
Liceo. Ma era presto detto spiegarlo! ci s'era provato, pochi anni in-
nanzi, nell'Università di Bologna, il Carducci; e gli era, mi con-
fessò, mancata, come a noi tutti allora mancava, la base di fatto a
una coscienziosa interpretazione : « lasciai » mi scriveva l'amico « la-
sciai la cosa per disperata». Base, occorreva, documentale, sulla
quale si esplicasse parte a p«arte ciò che in cpielle i>agÌDe è di atti-
nente non tanto alla storia esteriore dei fatti, quanto al segreto loro,
saputo e sentito dall'uomo che quella storia ha intimamente e inten-
samente vissuta. Le edizioncelle scolastiche che l'ammissione della
Cronica fra i libri di testo fece subito fermentare e sfungar fuori,
lambivano la buccia, mostrando d'intendere, con effetto nei lettori
più o men persuasivo d'avere inteso. Bisognava, innanzi tutto, fer-
mare il vero carattere di quel libro : non cronaca (titolo per gli an-
tichi generico), ma racconto particolareggiato di un unico e circo-
scritto fatto: la divisione fiorentina di i>arte Guelfa in Bianchi e
Neri, cioè il dramma della vita politica di Dante, con le due grandi
figure ai due estrani : il Pajmto e l'Impero; Bonifazio e Arrigo. Non
cronaca, dunque, che è registrazione continuativa e complessiva di
avvenimenti qualsiansi e di date, ma storia circoscritta di subietto e
d'intenzione; e dentro tali limiti, e fra l'uno e l'altro di que' due
termini mondiali, riboccante e tumultuante, nell'orbita fiorentina,
di particolari, di allusioni, di sottintesi, a penetrare nel cui segreto
era chiave insufficiente, e così l'aveva sperimentata il Carducci, la
critica esteriore letteraria, della quale ci si era tradizionalmente ap-
pagati per una ammirazione di mera superficie, ed era invece ne-
cessario interrogare i documenti, e alla parola poi di questi rag-
guagliare la parola del narratore, con diritto sentimento della lingua
e dell'anima di Firenze antica. Secondo tali miei propositi, fra il 68
e il 70, nella mia scuola,, il Liceo Dante elaborò, in un fascicoletto
contenente il primo dei tre libri della « Cronica » , i lineamenti di
quello che venne poi formandosi testo critico ed esauritivo commento
della non più cronaca ma commentario storico di Dino Compagni :
elaborazione, il cui primo passo, a renderci ben conto della materia
e sua distribuzione e correlazione delle parti, fu la distinzione del
testo in capitoletti, che io dettavo e spiegavo a' miei alunni; ed è
quella medesima, secondo la quale si cita ormai da tutti la restituita
al suo vero carattere istoria fiorentina dei Bianchi e dei Neri : cioè a
dire il libro di parte (ben altro che Oonica, come intendiamo oggi
noi) scritto nella Firenze di Dante da uno dei vinti e in essa tolle-
rati; scritto d'un animo col grande Esule, dopo^a concorde loro
partecipazione al r^gimento civile; e consegnato da Dino al segreto
1Ì4 RICORDANZE E AUGUHU D'UN VECCHIO INSEGNANTE
domestico, non senza intendimento, quandoché nell'avvenire si foaee,
di protesta e vendetta, covata negli anni stessi in che, fra i dolori
dell'esilio, vendicatrice immoriale di quei proscritti e di quei civil-
mente soppressi, veniva formandosi la Commedia divina.
Non vogliate appormi a meschina compiacenza d'amor proprio,
né che io converta in autobiografìa scolastica una pagina della imo-
rata vita del nostro Liceo, se le memorie care de' miei discepoli, e
questa in j>articolare d'uno di essi che accomunò meco in lavoro di
matura investigazione storica lo studio, meco incominciato nella
scuola, d'un testo e di storia e di lingua, se tali memorie di discepoli
mi hanno condotto e mi trattengono a parlarvi di questo testo, che
proprio per essi e con essi io incominciai a studiare, e quello studio
mi si continuò poi e allargò e complicò in tutt'altro campo che sco-
lastico. Neir89, dopo passata sotto i ponti molt'acqua, e ben quat-
tordici anni da che avevo lasciato l'insegnamento, io dal mio volu-
minoso Dino Compagni e la stia Cronica desumevo un'edizioncina
scolastica del testo criticamente formato e del Commento compen-
diato, e la intitolavo ai miei scolari del Liceo Dante:
Affli scolari miei
coi quali ventanni fa ero ffiovine
e stiu&iavo queste pagine del Trecento
giovani sempre.
Ogni volta che quel volumetto si ristampa, io ripeto intenzional-
mente, con memore gratitudine, quella dedica ai miei alunni, e ri-
penso il Liceo Dante, ripenso la giovinezza che, alle pw^ine di Dino
rimasta, non ha osservato la medesima fedeltà verso il suo inter-
preet. Ma all'interprete toccò, e deve bastargli, la doppia ventura
d'aver potuto, a luce di documenti, chiarire di quelle pagine i segreti
nobilissimi; testimoniarne, conforme al vivo idioma de' contempo-
ranei di Dante, la lingua; e così, mediante la intima e piena intelli-
genza del contenuto, e con l'autenticazione storica della parola, re-
stituire ai fatti l'attualità del momento e la virtiì conmiotiva che ne
emana; in quei fatti ravvivare di vita autentica e palpitante la Fi-
renze vissuta dall'Alighieri. Fortunato poi, anzi troppo altamente
onorato di ciò: che l'opera mia, iniziata nel tranquillo ambiente
della scuola, della scuola nostra, o Colleghi, mi addossasse, strada
facendo, il dovere, il sacro dovere, d'una difesa, alla quale ci fu mo-
mento che mi trovai ad essere, mi sia concesso dirlo, quasi solo:
difesa della nostra intellettualità nazionale e delle sue manifesta-
zioni storicamente caratteristiche, contro le arroganze d'una spavalda
ipercritica d'oltralpe, sopraffattrice per sua destinatasi imperialistica
missione; arroganze accettate allora e sofferte, anzi favorite applau-
dite volute emulare, duole il ricordarlo ma è doveroso e salutare, da
italiana servilità.
Io non intendo né voglio, o giovani, qualunque sia per essere a
ciascun di voi il campo professionale che la preparazione degli
umani studi vi dischiuderà, non intendo alienarvi dalle pazienti du-
bitose esigenti indagini della critica : la quale si applica imparzial-
mente, così ai fatti e ai fenomeni tangibili come a quelli del pen-
siero, e a quelli ìhe nella parola il pensiero riflette e il sentimento
colorisce. Ma nello studio della parola, la quale, o che sia atteggiata
RICORDANZE E AUGURH D'UN VECCHIO INSEGNANTE 25
dall'arte o emerga dalle cose, si estrinseca innaim tutto per impres-
sioni sull'animo vostro, non vogliate, o giovani, a tali impressioni
precludere l'adito, aspettando, diflBdenti a priori, che la critica si
degni di concedere ad esse il lasciapassare. Ricevetele senza precon-
cetti, e lasciate che operino sull'animo vostro. Ne avrete immediati
apprendimenti 'che sono visioni del vero, commozioni che sono ispi-
razione: il che non v'impedirebbe, quando ne fosse poi il caso ma
a ragion veduta, coteste impressioni cimentarle all'esperimento della
loro legittimità. La legittimità delle impi-essioni che il libro di Dino
faceva sui narratori della vita di Dante, la genuinità del prezioso
contributo che cotesto libro a quella vita ajrecava, furono volute
impugnare da quella ipercritica il cui vanto è la imperviabilità a
tuttociò che non sia osservazione e ai^omentcìzione, se anche, anzi
m^lio se fondate sulla ingegnosità delle ipotesi, dalle quali al so-
fisma è breve e agevole il passo. L'opera d'arte è per coloro, innanzi
tutto, un cadavere da sezionare. Sia per voi, o giovani, così com'ella
vi si affaccia, corpo vivente e trasmettitore di vita. Cesare Balbo, —
nomino il biografo che, deficiente c^gi rispetto al tanto più e meglio
che della vita e dei tempi di Dante si sa, tuttavia riman sempre, per
altezza di mente e profondità di sentimento, il più condegno all'alto
soggetto, — il Balbo che traverso alla passionata narrazione di Dino
aveva sentito palpitare la realtà storica da Dante vissuta, sarebbe
stato per quella critica menante i suoi colpi fra capo e collo, un po-
vero di spirito, un credenzone, un illuso. Dal Secentenario natalizio
del 1865 a questo del 1921, una testimonianza di convissuto con
Dante e partecipe e consenziente avrebbe dovuto esser abolita come
suppositizia e non sussistente; quando nostri maestri, anche a inse-
gnarci le più intime cose nostre, erano costituiti e a grande onore
insediati eruditi e critici di altra stirpe dalla nostra; e il contrastare
alle loro ardimentosità burbanzose bastava a render sospetto e di
dubitabU merito un libro italiano, anche se frutto di studi coscien-
ziosi e di originali pazienti ricerche. Quella testimonianza, che at-
t^giava dinanzi ai nostri occhi uomini e cose, e con la parola di
Dino ci echeggiava il vivo quotidiano linguaggio dei convissuti con
Dante, avrebbe dunque dovuto essere abolita, se la violenta e dis-
sennata manomissione fosse stata di qua dalle Alpi, come pur risicò
di essere, ossequentemente tollerata. Ma non lo fu.
Nel Liceo fiorentino che da Dante trae col nome l'auspicio, ebbe
umile inizio quella che può chiamarsi (posta affatto da parte la mia
persona) rivendicazione dantesca, e quell'inizio considerare siccome
opera collettiva della scuola, di questa scuola oggi vostra, o Gol-
leghi. A questa scuola, clie fu m.ia, richiamato dalla vostra be-
nevolenza, largito da voi alla mia vecchiezza un sì generoso con-
forto, un premio superiore a qualsisia stato il merito delle mie buone
intenzioni, ho sentito che la mia gratitudine non poteva avere più
adatta ne più conveniente espressione che questa, di congiungere
quel ricordo di collaborazione scolastica, non cancellatomisi mai dal-
l'animo, congiungerlo con la solennità di queste commemorazioni
secentenarie, che il Comune vuole oggi coronate, nel nome di Dante,
con la inaugurazione della nuova sede del più antico Liceo.
Nelle /tante biografìe del Poeta le quali il Secentenario del 1921
ha fatto pullulare, distese o succinte, dissertative o narrative, erudite
26 RICORDANZE E AUGURII D'UN VECCHIO INSEGNANTE
o popolari, italiane o straniere, l'ordito storico sul quale la vita fio-
rentina e de' primi anni d'esilio di Dante è intessuta, lo dà a tulle»
concordemente, quel piccol libro, « I>elle cose occorrenti ne' tempi
isuoi», come Dino volle intitolarlo, e noi potremmo «Delle cose oc-
correnti ne' tempi di Dante». Da quando io lo leggevo co' miei sco-
lari nell'antica sede del nostro Liceo, là da Santa Trinità, — e le
nostre scuole erano nel chiostro contiguo alla chiesa dovB egli, con
parole degne di Dante, deprecò (e avrebbe ahimè a deprecare oggi
novamente!) le civili sanguinose discordie, e dove ebbe domestica
sepoltura, — da allora a oggi, che nel nome di Dante l'Italia si
esalta ed è esaltata, molta parte dei fati della patria si è venuta
adempiendo; e l'avvenire di lei, che non è chiuso, è in mano nostra,
se sapremo* e vorremo. Se saprete voi e vorpete,o giovani, speranza
nostra. Dal Seoentenario di Dante s'imprimano a fondo nel cuor vo-
stro questa fede e questo proposito.
E da essi emerga, e signoreggi gli affetti vostri, l'amore della
patria italiana. Quale più nobil patria pK>teva Dio destinarvi? Senti-
tene, o giovani, sentite di tal patria l'orgoglio; che è orgoglio santo,
non vanagloria, e non può che ispirarvi indirizzarvi sospingervi al
bene. Erede privilegiata dell'antica civiltà, larga partecipatrice di
quel suo tesoro alle altre nazioni, pur a quelle che glielo ricambia-
vano con le catene, l'Italia è oggi restituita a sé medesima, anche
per riassumiere nel mondo, in comune beneficio, l'alta missione in-
tellettuale del genio latino. Non è più l'Impero, non è più quella
coronata astrazione d'un arbitrato universale, che da Roma doveva,
nella magnanima visione di Dante, pacificare l'irrequieto genere
umano, e innanzi tutto conciliare in esercizio di libertà i turbolenti
Comuni italiani : non è l'Impero latino, né, molto meno, é la mo-
derna degenerazione di quella idea nell'imperialismo dfei violenti;
non quello potrebbe più essere, né questo è, il termine verso il quale
l'umanità è incamminata. Ma é la fraterna unità delle patrie, co-
stituite ciascuna di esse ne' suoi propri confini; e questi segnati dalla
natura nel suo congeigno gigantesco di monti e di mari, poi dalla
sopravvivenza dei monumenti, dalla fedele persistenza delle tradi-
zioni, dal suggello incancellabile degli idiomi. In quella fraternità
di patrie troveranno la miglior soluzione gli affannosi problemi so-
ciali, dietro i quali ciascuna di esse si travaglia oggi in torve malac-
cozzate tumultuanti congreghe settarie, ostinate a sconoscere, pri-
mordiale vincolo di civile associazione essene da natura la patria:
la pàtria, riflessa immagine della famiglia; e la famiglia, coesione
inalterabile, che dissolvere é vano, e sconoscerla empio e ridicolo.
Ed è la patria, sola essa la patria, la pietra angolare dell'edifizio so-
ciale e della fratellanza umana. Furono le nostre piccole patrie mu-
nicipali, ciascuna di esse sentita fortemente gelosamente ferocemente,
che nonostante tali eccessi di sentimento, svolsero, ciascuna per sé
ma con benefizio e gloria, non che d'Italia, del mondo, le superbe
potenze del genio italiano. Saranno oggi le patrie grandi, se fer-
mata con piena giustizia la loro costituzione, che assicureranno al-
l'umanità, tranquillo e fecondo di bene, il sospirato avvenire. Cos^
giovi sperare! Fra esse, nel loro augusto consesso, luminosa delle
sue glorie, santificata dai suoi dolori, coronata dalla sua vittoria.
RICORDANZE E AUGURH D'UN VECCHIO INSEGNANTE 27
nòd vecchi auguriamo, voi giovani vedrete, assidersi, forte del suo
diritto, consapevole de' suoi doveri, la patria italiana.
Ma con quelle del Secentenario dantesco della morte, un'altra
memoria vogliate congiung-ere, o giovani, e custodirìa serenatri<»
della vostra vecchiezza, pel settimo Centenario, al quale voi per-
^-er^ete, natalizio del Poeta che da secolo a secolo sopravvive. Vecchi
in quel lontano futuro, vi sarà bello il so\-venirvi di aver veduto
passare, in questi giorni, dietro le orme del risorto Vate d'Italia, il
fantasma luminoso d'un altro immortale : ignoto e immortale! Tutti
dinanzi ad esso, che aleggiava sul suo mistico feretro, ci siam ge-
nuflessi, e abbiamo inchinata reverenti la fronte. Dal Carso eroico
al Campidoglio trionfale, lo hanno circondato, lo hanno avvinto, ab-
bracciato, i fiori d'Italia, aspersi da lacrime, superbe di vittoria e
di gloria. Perchè quell'ignoto era tutti i soldati d'Italia; e in (juesto
ideale impersonamento faceva esser seco presenti, non pure i caduti
con lui nella guerra d'integrazione, ma altresì tutti quanti i morti
già prima per l'indipendenza e la libertà: legione sacra, alla quale
le scuole nostre — neanche questo dimenticherete, o giovani! —
hanno, di generazione in generazione, offerto così largo e generoso
contributo. Presenti nella persona del Milite ignoto tutti quanti per
l'Italia hanno operato, sofferto, combattuto, data la vita: presenti e
benedetti nelle memorie della patria; presenti e ispiratori alle sue
speranze; presenti nell'avvenire, in aflBdamento sicuro di giustizia
nazionale e di pace sociale,
Isidoro Del Lungo.
LORD J. BRYCE E LA DEMOCRAZIA
Jahss Bryce: Modem- democracies. London, MacmiUan, 1921. Due Tolumi.
Mentre, di qua e di là del Reno, Bergson, Spengler ed Einstein
sembrano proporsi di disorientare completamente questa umanità
sbigottita da un quinquennio di sangue, abbandonando la filosofia,
la storia e la fisica, in preda alle indiscipline del più scapigliato sog-
gettivismo, i fleanmatici indagatori d'oltre-Manica attingono alla os-
servazione obbiettiva della realtà l'intuizione serena delle massime
leggi normatrici, proseguendo così la gloriosa tradizione mentale, che
è tanta parte non solo della sovranità filosofica, ma della fortuna po-
litica di quella grande ed invitta nazione. Ieri era Marshall, che di-
stillava da trent'anni di osservazioni, di studi e di viaggi una cerebra-
zione potetitemente suggestiva delle regolarità della vita industriale.
Oggi è Bryce, il quale da trent'anni di studi elettissimi, di nobile atti-
vità parlamenitare, di colloqui cogli uomini migliori del nostro tempo,
di viaggi per le più disperse regioni del globo, trae motivo ad
un'opera geniale e profonda, intesa a divisare i molteplici atteggia-
menti assunti dalle istituzioni democratiche presso le diverse na-
zioni, nonché le regolarità universali, cui esse soggiacciono. L'opera
di Bryce è degnissima del Sacro Romano Impero e della Repub-
blica americana, che l'han preceduta di tanto intervallo e consacra
la posizione suprema, che compete all'autore nella scienza politica
contemporanea.
Non si tratta invero di un libro pazientemente ponzato a tavo-
lino, ma di un'opera vissuta, poiché l'autore visitò di persona tutti
i paesi, di cui ritrae le costituzioni politiche; in ciò probabilmente
superiore allo stesso Aristotele, il quale difficilmente potè osservare
di persona le centinaia di Stati, di cui ha commentate ed illustrate
le costituzioni. Dalla Francia al Canada, dagli Stati Uniti all'Au-
stralia, dalla Svizzera alla Nuova Zelanda e perfino alla minuscola
repubblica di Andorra, tutti quasi i territori, su cui oggi dispiega i
liberi vanni il reggimento democratico, vengono diligentemente cer-
cati dal nostro autore, affine di trarre dalla viva voce dei fatti argo-
menti a considerazioni e giudizi preziosi e profondi. E se dico quasi
tutti, gli è perchè una lacuna s'avverte nelle pagine dell'autore, tanto
più meritevole di rilievo, quanto che ci ferisce intimamente. Pare
davvero incredibile! Quest'opera, che vuol essere l'erbario più dovi-
zioso e molteplice degli assetti democratici mondiali, tace comple-
tamente dell'Italia. Inutile che l'autore ci avverta come uno sjesso
k
LORD J. BRYCE E LA DEMOCHAZL\ 29-
silenzio ei dovè serbare rispetto al Belgio, allOlanda, alla Danimarca,
alla Svezia ed alla Norv^ia; dacché son questi paesi di importanza
assai tenue rispetto al nostro soggetto. Indarno del pari si addur-
rebbe a sua scusa, che uno stesso silenzio egli serba rispetto alla
Spagna, questa consocia indefettibile di tutte le nostre umiliazioni;
poiché anzitutto un tal silenzio è temperato dall'ampia considera-
zione, che l'autore dedica alle repubbliche dell'America Latina; e
perchè d'altronde la Spagna, anziché una democrazia, è una monar-
chia militare mascherata da LStitu2doni democratiche. Ma non ap-
pare affatto giustificato il silenzio nei riguardi dell'Italia. Non solo
infatti sono pure italiani quei sommi, da Dante a Machiavelli, da
Cavour a Mazzini, ai quali Bryce attinge apertamente le migliori
ispirazioni del suo libro; ma le istituzioni politiche italiane, genui-
namente d^nocratiche quant'altre mai, affacciano munerose peculia-
rità e speciali vicende, ricche di preziosi ammaestramenti agli studiosi
d'c^ni riazione. Chi invero può dirci quali interessantissimi frutti
saprebbe trarre un'indagine* serena dalle applicazioni così disformi,
che trovano le istituzioni democratiche nel Nord e nel Sud della pe-
nisola? O dall'impulso così spiccato, che impresse all'ascesa di quelle
istituzioni in Italia il moto operaio e socialista, fra noi cotanto diverso
da (juello d'oltremonte? 0 da quell'elemento specialissimo alla nostra
compagine politica, che è la presenza del Pontefice? E la stessa gio-
ventù delle nostre istituzioni democratiche, la loro formazione re-
cente dopo tanti secoli di avvilimento e di servaggio, gli stessi detriti,
o sopravvivenze morali di regimi politici assolutamente contrapposti,
debbono bene imprimere alle nostre istituzioni democratiche un mar-
chio indelebile, che non permette di confonderle con quelle d'oltre-
monte e d'oltremare, e che impone per ciò stesso ad un severo inda-
gatore uno studio particolareggiato e profondo. Collaverie escluse
dal proprio quadro, Bryce ne ha cancellate alcune tinte più vive e
possenti, che aATebbero giovato mirabilmente a porre l'altre in risalto
ed ha inflitta alla sua opena — che rimane pur sempre elettissima —
una deplorabile mutilazione.
• Tanto più questa lacuna ha d'altronde di che meravigliarci,
in quanto che l'autore stesso non esita a sapientemente dilatare la
propria investigazione oltre le frontiere rigidamente segnate dall'ob-
bietto immediato de' suoi studi. Infatti, con felicissimo intuito, egli
ha sentita tutta l'opportunità di far precedere all'indagine delle demo-
crazie genuine cfuella delle pseudo-democrazie, quale l'antioa demo-
crazia ateniese e le sedicenti democrazie sud-americane durate fino a
poco dopo il 1850; democrazie sulla carta, o di nome, perchè prive
della condizione primissima alla loro genuina esplicazione. Invero
come inglese e f)er ciò stesso economista, anche se non professionale,
Bryce non può a meno di scorgere che la democrazia vera e propria
non può allignare ove il rapporto economico essenziale è contami-
nato da uno stigma di servitù vera e propria, come nell'antichità, (y
di senitù mascherata, come nelle repubbliche sud-americane del-
l'epoca ricordata. Egli intende benissimo, che su questo piedestallo
di soggezione e di in^naglianza non può sorgere che una società di
despoti, come ad Atene, od un despota solo, alla maniera dei presi-
denti autocrati dell'America del Sud; e dimostra egregiamente come
la democrazia genuina giunga ad istituirsi colà solo a strascico di
30 LORD J. BRYCE E LA DEMOCRAZIA
un incremento ulteriore della popolazione, che, sopprimendo le terre
disponibili, vi inizia la formazione del salariato. Tutto ciò Bryce
chiarisce perfettamente in due capitoli preliminari, i quali creano
un riuscitissimo effetto di chiaro-scuro, quanto che la pittura delle
contraffazioni della democrazia pone nel più efficace risalto la sua
adeguata configurazione.
Venendo poscia allo studio delle democrazie vere e proprie, Bryce
giudica con grande simpatia la democrazia francese della terza re-
pubblica. A tal riguardo il suo libro è un eccellente antidoto alle
tante diffamazioni accademiche della Francia repubblicana, oggi pur
troppo di moda fra scrittori nazionali e stranieri; poiché esso di-
mostra ai meno veggenti che la democrazia di Francia funziona otti-
mamente; che il Senato vi adempie un'opera preziosa di dilazione e
di emenda, approvando speditamente i disegni, che l'opinione pub-
blica più favorisce ed incalza, ma rigettandone altri, mentre la Ca-
mera è assorbita in altre cure, o ch'essa approvò flettendo ad un mo-
mentaneo clamore, o provvedendo a correggerli e rinviarli alla Ca-
mera dopo che il suo zelo s'è raffreddato ed il fervore popolare s'è
affievolito; — che il Palazzo Borbone ribocca d'uomini di spirito e
d'ingegno, i quali elevano la discussione ai fastigi più eletti, né mai
le consentono di trascendere a volgarità od a vie di fatto. Una ri-
prova eloquente della prestanza delle istituzioni democratiche fran-
cesi, si ha già nella frequente e quasi consueta rielezione di quei par-
lamentari. Ma la più bella riprova è data dal mezzo .secolo di tran-
quillità e di continuità politica che esse seppero dare al paese, e che
nessuno dei regimi susseguiti all'SQ era riuscito ad ottenere.
Ma le più calde simpatie del nostro autore son rivolte alla de-
mocrazia elvetica, nella quale ei ritrova soltanto virtù, punto offu-
scate da vizi. Ei descrive, a tocchi magistrali, il governo diretto che
costituisce la speciale caratteristica della democrazia svizzera e che
si ramifica nelle due gemine istituzioni del Referendum e dell'/n/-
ziativa: il dirito conferito ad un certo numero di cittadini, di pro-
porre al voto popolare un emendamento alla costituzione. Al qual
proposito però mi sia consentita una sommessa rettificazione. L'au-
tore mostra di credere che il governo federale sia, in proposito, pu-
ramente passivo, o non abbia altro compito che di sottomettere la
proposta, ove effettuata nelle condizioni richieste dalla legge, al voto
popolare. Ora ciò non è perfettamente esatto: perchè il Consiglio
Nazionale ed il Consiglio degli Stati hanno il diritto ed il dovere di
esaminare la propoeta di iniziativa e di raoc'omandame al popolo la
adozione, o la rejezione. E in qualche caso la rejezione, proposta dal
Consiglio, ebbe il suffragio della maggioranza popolare.
Appare, comunque, dalle pagine di Bryce tutta la idillica im-
peccabilità della democrazia svizzera, nella quale le lenti lincee dei
critici più arcigni non giungono a discernere la più lieve deformità;
tanto che uno svizzero, sollecitato ripetutamente dall'autore ad ad-
ditare almeno una menda di quella democrazia, non seppe indicare
che il vezzo delle Commissioni governative di adunarsi durante i
mesi estivi nei grandi alberghi montanini, protraendo eccessiva-
mente i dibattiti per ricrearsi a spese dello Stato. Ma colà non scis-
sure parlamentari a base di partiti, non intromissioni colpevoli della
politica nella amministrazione, non corruzione, venalità, impero
LORD J. BRYCE E LA DEMOCR.\ZL\ 31
politico della ricchezza, non irruenti passioni, o litigiose incande-
scenze; ma le assemblee politiche riduconsi nel fatto alla fignra di
corpi amministrativi, ed i membri del Parlamento, troppo scarsa-
mente privilegiati e retribuiti per ambizionare i loro seggi, e nem-
meno blanditi dalla carezza popolare, dacché il modesto tenor dei
dibattiti, che neppur trovano un'eco nella stampa cfuotidiana, esclude
i fastigi dell'oratoria ed i suoi clamorosi successi, si adoprano co-
scienziosamente all'unico intento di promovere la prosperità econo-
mica ed assicurare la sicurezza interna ed estera della nazione.
E certo la esaltazione, che l'autore traccia della democrazia sviz-
zera, è perfettamente legittima; ne alcuno, p)enso, vorrà dissentir dal
suo asserto, che un popolo, il quale seppe foggiarsi istituzioni così
inappuntabili, animandole del soffio purissimo del più nobile patriot-
tismo e del civismo più illibato, un tal popolo, malgrado la tenuità
del suo territorio e la inferiorità delle sue forze militari, non potrà
mai perire. Certo. Ma il problema, che s'affaccia impellente e che
il nostro autore sorvola, è codesto: le istituzioni democratiche, che
sono l'orgoglio della vicina federazione, o la loro eccellenza e pu-
rezza, possono esse allignare anche altrove, o non sono il prodotto
delle condizioni specialissime, in cui la vita di quello Stato si svolge?
S'intende invero perfettamente, che un paese, il quale è immune,
per ventura sua, *da ambizioni imperialiste e coloniali e perciò non
ha, di fatto, politica estera, in cui la distribuzione meno ineguale
della ricchezza attutisce i conflitti sociali, che non è turbato da un
proletariato incalzante ed irrequieto — che un paese, alfine, cui la
neutralità secolare esime dalle spese di guerra, s'intende, dico, che
un paese siffatto vegga svolgersi le proprie istituzioni democratiche
entro un atmosfera eccezionalmente serena e purificata, che le immu-
nizza d^ corrompimenti o contaminazioni. Ma come non è lecito pro-
tendere alla vita vissuta le esperienze compiute in una atmosfera
artificialmente rarefatta, così non è possibile estendere le esperienze
elvetiche, compiute nell'atsimosfera ultraossigenata di un sanatorio
politico, alla ardente e mefìtica arena delle competizioni mondiali.
Naturalmente non è possibile attendere un giudizio del pari en-
tusiasta delle istituzioni democratiche degli Stati Uniti. L'autore
della Repubblica Anìericana non può smentire sé stesso; e perciò in
questo libro riappajono, comunque l^germente attenuate, le tinte
fosche del quadro, che egli ci aveva tracciato or sono trent'anni nella
sua opera fondamentale. È l'antica storia tante volte narrata; la
ignobile tregenda delle consorterie locali, le bieche manovre dei'
bosses che le signoreggiano, le l^gi subdolamente comprate dagli
interessati, lo strabocchevole influsso della ricchezza, la venalità più
indegna della magistratura e del governo, centrale o locale, la impu-
nità costituzionale dei delinquenti, le dilapidazioni sistematiche dei
pubblici averi, le oligarchie spadroneggianti, il livello volgare della
vita pubblica, l'ostracismo od auto-ostracismo degli intelletti supe-
riori dalla attività politica e parlamentare. Ma l'autore ha cura però
di soggiungere che parecchi di codesti vizi son dovuti a cagioni cui
la democrazia è affatto straniera, e che d'altronde essi son venuti at-
tenuandosi negli ultimi tempi.
Anche queste pagine non risolvono per altro quella che forma,
a mio avviso, la grande sciarada politica degli Stati Uniti — la pò-
32 LORD J. BRYCE E LA DEMOCRAZIA
lenza tanto assoluta e quasi direi imperiale del Preaidtente, che stride
cosi stranamente frammezzo a quelle istituzioni schiettamente de-
mocratiche e fa della Federazione Stellata una specie di autocra-
zia repubblicana, od un comizio popolare sormontato da un trono. —
L'autore, anziché risolvere il proble-ma, lo tronca a priori, n<egando
l'onnipotenza presidenziale, asserragliata, a suo credere, da una mol-
titudine di contrappesi, quali il controllo del Senato ed il voto del
Congresso. La verità è però che il Presidente degli Stati Uniti di-
spone di un potere smisurato, a paragone del quale perfino quello
del fu Imperatore germanico (cui mancava il diritto di veto) appare
modesto e limitato, e che perciò il problema saffaccia tuttora nella
sua più intensa acutezza. Lo storico americano Fiske spiega il fatto,
osservando che i redattori della costituzione americana vollero do-
tare il loro paese di un sovrano comparabile al re d'InghilteiTa, che
aveva allora allora data prova irrecusabile del suo assolutismo du-
rante la storica contesa colle colonie (1). Ma anche codesta spieg-a-
zione non parmi appieno attendibile; e penso che la cosa potrebbe
meglio spiegarsi ricordando le tendenze separatiste, così bene de-
scritte da Bryce stesso in uno de' soioi saggi magistrali, prevalenti
agli esordì della libertà americana, e l'opportunità di crear loro un
antidoto, accentrando un potere dispotico nella . persona del capo
dello Stato.
Uno studio particolarmente amoroso è consacrato dall'autore alle
giovani democrazie del Nuovo Mondo: al Canada, all'Australia ed
alla Nuova Zelanda. Il rapido raffronto, che l'autore traccia fra i\
Canada e gli Stati Uniti, avverte che il primo è più schiettamente de-
mocratico, sia perchè abitato da un popolo di piccoli proprietari,
sia perchè non ha la dittatura del Presidente, né lo strapotere della
ricchezza, perché non ha licenza, né linciaggio, e a motivo infine della
straordinaria prosperità del paese. E tuttavia quel popolo è insoddi-
sfatto del siuo Parlamento e de' suoi ministri, ne censura l'opportu-
nismo, la flessione agli interessi locali, Io sfrenato arrembaggio d«i
lavori pubblici, ed il peculato sistematico, infuriante, sopratutto,
nella capitale. Nell'Australia ciò che ha specialmente colpita l'atten-
zione dell'autore é il molteplice intervento dello Stato in favore delle
classi popolari, o la provvida legislazione sociale, che vi funziona
egregiamente da tempo. La Nuova Zelanda, alfine, benché atllitta
dal predominio latifondista, menomata dall'inerzia e deficiente pro-
duttività degli operai impiegati nei lavori pubblici, e snervata dal
proprio isolamento frammezzo ad un oceano sterminato, è pure un
paese ben governato e veramiente felice, che dette mirabili prove
della sua robustezza politica nei duri cimenti della grande* guerra.
Fin qui l'opera di Bryce potrebbe compararsi ad un dramma,
composto di un prologo (sulle pseudo-democrazie) e di sei atti (sulle
democrazie di Francia, Svizzera, Canada, Stati Uniti, Australia e
Nuova Zelanda). Ma ora giunge l'epilogo, dedicato a formulare un
giudizio sintetico sulle democrazie precedentemente indagate; ed è
qui che l'autore ha campo di spiegare le sue qualità veramente supe-
riori di studioso e di meditante.
(1) John Fiskk, Tht criticai period of american history {1783-1789).
New York, 1888.
LORD J. BRYCE E LA DEMOCRAZIA 33
Una lucida prova della serena e giusta veduta dell'autore è che
la predilezione legittima per l'oggetto degli incessanti suoi studi
non fa velo al suo giudizio, né gli vieta di scorgere il carattere asso-
lutamente subordinato, ch'essi vanno oggi assumendo a paragone
di ricerche d'indole più profonda. « L'assorbimento delle menti
umane nelle idee e negli schemi di ricostruzione sociale ha distratta
l'universale attenzione da quei problemi di governo libero, che tanto
preoccupavano gli spiriti, allorché la marea democratica saliva or
sorlo 70 od 80 anni; e mi é parso talvolta, nello scrivere questo libro,
che esso si rivolgesse piuttosto alla precedente che alla presente ge-
nerazione. Quella generazione si preoccupava sopratutto delle istitu-
zioni; la presente è invece piuttosto occupata dei fini, cui quelle isti-
tuzioni debbono servire ». Né l'autore è tratto a biasimare codesta
mutata orientazione 'mentale, ch'egli all'opposto giustifica, awer
tendo egregiamente che la forma di governo e la legislazione é pei
piccolissima parte fra i fattori del benessere umano, il quale dipende
da ben altre cagioni, più intimamente ripost© nella natura dell'uomo
e de' suoi aggregati.
Venendo poscia a librare sulla bilaiicia della valutazione scien-
tifica i meriti e demeriti della democrazia, avverte anzitutto il nostro
autore che questa non é, né dev'essere, il governo del popolo, poiché
deve in ogni caso riserbare il governo ad una minoranza di indi-
vidui peculiarmente adatti alla funzione direttrice; ma che essa as-
segna pur sempre al popolo una triplice poderosa funzione: trac-
ciare al governo i suoi scopi, che in ogni caso debbono convergere al
bene comune; affidare ai cittadini più adatti i Vnezzi necessari a rag-
giunger quel fine; vigilare alfine sulla condotta dei governanti e pre
venirne gli abusi. Ora non può negarsi che in codesto molteplice
campo la democrazia abbia ben meritato della civiltà. Essa, infatti,
ha mantenuto l'ordine, senza conculcare le libertà, ha creata una
razionale amministrazione civile, ha diretta la legislazione al bene
del maggior numero, non é stata mai incostante ed ingrata (i re, dice
Bryce, sono assai più spesso ingrati che i popoli), non ha affievolito
il patriottismo ed il coraggio, ha permesso alfine alle masse (che
spesso hanno ragione) di imporsi alle classi (che troppo 'sovente
hanno torto). Di certo non difettano anche nel regime di libertà vizi
€ deformità irrefragabili. Sovente, infatti, la democrazia è spenderec-
cia e sregolata; essa non sa, di regola, arruolare al servizio dello
Stato un numero sufiìciente di cittadini capaci ed onesti; essa si è
rivelata meglio idonea a sopprimere il male che a creare il bene;
non ha estirpata la corruzione, né suscitato un senso di soddisfa-
zione universale nei paesi ove impera; ha fatto ben poco per miglio-
rare le relazioni intemazionali, o per assicurare la pace; non ha pro-
mosso un umanitarismo cosmopolita, non ha attenuati gli egoismi
di classe, non ha esorcizzate le rivoluzioni. Pur troppo! Carducci
dicevami, un giorno, che la democrazia uccide la rivoluzione. Ma i
fatti lo hanno deplorevolmente smentito, facendoci assistere al pa-
radosso politico delle sassaiole ed incomposte violenze organizzate
da un popolo legislatore. E benché codeste aberrazioni siano meno
fiequenti ne' paesi d'Oltr'Alpe, sembra tuttavia che abbiano modo
di manifestarsi ivi pure con discreta veemenza, a giudicare dalle
preoccupazioni rodenti che enuncia in proposito n nostro pensatore.
3 Voi. OCXVI, serie VI — 1" gennaio 1922
34 LORD J. BRYCE E LA DEMOCRAZIA
Eppure ei non crede di avere con questo elenco esaurita la serie
dei vizi inerenti alla democraaia, che un altro se ne affaccia ben altri-
menti deplorabile e pauioso. Al pari di tutti i suoi compatrioti più
intelligenti e profondi, di Brown, ad esempio, che tanto insiste sul
fatto nel libro Sul concetto di democrazia (1), Bryce denuncia corag-
giosamente quello che costituisce il tarlo delle istituzioni democra-
tiche e la minaccia immanente alla loro stessa vitalità: lo smisu-
rato dominio politico che vi consegue la ricchezza. Al qual prop>o-
sito anzi l'autore, con un'alzata di erudizione, non si perita d'ihvo-
care l'autorità del divino poeta. Invero Dante non dice forse nel VI
canto del Purgatorio: Quivi trovammo Pluto, il gran nemico? Ora
Pluto vuol qui significare il dio romàno della ricchezza ed il poeta
vuole appunto farci intendere che la ricchezza è la fatale avversaria
dei liberi reggimenti. Se l'interpretazione non sia per avventura un
tantino forzata; se Plutone non possa denominarsi il gran ^nemjco,
semplicemente quale personificazione suprema del male e del pec-
cato; se sopratutto non sia temerario trarre da quel verso dantesco
nuovo argomento di critica contro la plutocrazia, è questione, che
abbandoniamo volentieri al giudizio dei dantisti, più che mai pul-
lulanti in quest'anno commemorativo. Ma siamo però consenzienti
coll'autore, quando avverte che la prepotenza politica del danaro
non è specialità dei regimi democratici, i quali all'opposto sono i
soli, che valgano ancora ad opporle qualche pur tenue riparo nella
pubblicità dei dibattiti e nelle libere manifestazioni della volontà po-
polare. Come pienamente mi accordo nella conclusione finale del-
l'autore: che per quanto grandi possano essere i vizi della democra-
zia, essa è pur sempre infinitamente superiore alle forme politiche,
che sole potrebbero surrogarla — l'autocrazia e l'assolutismo.
L'autore è d'altronde disposto a riconoscere che molti fra i vizi
delle moderne democrazie potranno opportunamente correggersi con
/azionali riforme; benché a dir vero egli non additi al riguardo
proposte concrete, ali infuori d'una, però assai modesta e discu-
tibile. La proposta concerne il modo di formazione del Senato —
cha l'autore vorrebbe affidata ad una commissione, composta in gran
parte di parlamentari, ed incaricata di assegnare a ciascun partito
un numero di senatori proporzionale alla sua rappresentanza nella
Camera elettiva, e di chiamare inoltre all'alto consesso un certo nu-
mero di personalità superiori, estranee ai partiti. Il disegno nop è
per verità al tutto nuòvo, poiché ricorda assai dappresso la forma-
zione del Senato di Roma pei" opera del Censore. Ma, comunque si
voglia giudicarne, ninno vorrà negare che il rimedio sembra spropor-
zionato alla cattolicità delle esperienze politiche istituite dall'autore
ed alla profonda analisi speculativa di cui vorrebbe esijere la logica
deduzione.
Voi credete forse che a questo punto il dramma abbia termine
e stia per calarp il sipario. Ebbene no; resta ancora l'ultima scena, e
la più inattesa e stupefacente. Ci rimane a vedere il visconte Br>Te,
dignitario e gran signore del più aristocratico fra i regni, affac-
ciarsi alla ribalta, pel solenne commiato, in veste di Bolscevico e di
(1) Brown, Tht meaning of demoeracy. London, 1920, pag. 68 e eegg. e
capo IK.
LORD J. BRYCE E LA DEMOCRAZIA 35
Comunista. E passi ancora pel bolscevisnao dell'autore, che non ha
nulla di propriamente terribile, né esorbita dall'ambito anodino
dei rapporti amministrativi. « Questo sistema di governo, egli scrive,
con una serie di corpi locali, di assemblee primarie amministrative
e ad un tempo elettive, che invia delegati ad enti più vasti e questi
a lor volta ad enti più ampi, fino al Supremo Congresso Nazionale,
il quale elegge e vigila il ristrettissimo Consiglio Amministrativo Su-
premo, è ingegnoso ed interessante, come una nuova forma di costi-
tuzione e merita di essere giudicato alla stregua de suoi propri me^
riti, fra cui due sono specialmente rilevanti : di abilitare i migliori
ingegni del paese a raggiungere il fastigio, e di consentire all'opi-
nione pubblica del paese di venir prontamente accertata senza il
costo e l'indugio di un Referendum; poiché la .«stessa proposta può
venir simultaneamente assoggettata a tutti i Soviets, e le loro risposte
possono tosto esser trasmesse al quartier generale. È solo deplore-
vole che un sistema così sapientemente architettato non abbia avuta
finora una seria e genuina attuazione».
Ma ben altrimenti grave e solenne è la professione di BrjTe per
quanto concerne il Comunismo, dacché qui non e più in causa un
assetto amministrativo; bensì tutto un nuovo sistema di economia.
Gli avvocati del comunismo, egli scrive, hanno evidentemente buon
gioco nella spietata lor critica dell'assetto economico vigente, poiché
pochi osan tuttora difenderlo, ed il desiderio di mutarlo incontra il
fervido assenso di quanti avvertono che i beni materiali son ripartiti
disugualmente e senza alcun riguardo ai meriti individuali. Ma il
problema per noi assillante, conseguente al loro trionfo, e ch'essi
non curan risolvere, concerne ciò che diverrebbero le istituzioni
democratiche in un regime di perfetto comunismo. Non v'ha dub-
bio che questo sancirebbe l'onnipotenza burocratica, comunque at-
tenuata dal fatto, che gran parte dell'attività legislativa e dell'azione
governativa verrebbe allora inutilizzata. Nemmeno può tacersi che
il nuovo assetto schiuderebbe la stura ai più acerbi conflitti fra gli
avvocati dei cinema, dei drammi e dei concerti, ciascun dei quali
vorrebbe ammannite al popolo le ricreazioni di propria competenza;
mentre poi lo Stato, nella sua qualità di esclusivo editore, sarebbe
chiamato a decidere quali opere di prosatori e di poeti avessero a
pubblicarsi. Censure queste, che non ci pajono al tutte convincenti;
poiché il comunismo, nell'ideale de' suoi corifei, non dovrebbe punto
sopprimere l'iniziativa individuale, né attribuire allo Stato funzioni
letterarie e scientifiche, alle quali è .completamente inadatte. Più
dappresso egli stringe la questione, quando avverte che il carattere
essenzialmente economico dello Stato comunista contrasta al con-
cetto democratico, il quale raffigura lo Stato come un tutto intellet-
tuale e morale. Ma il meno che possa dirsi di tutte codeste elucubra-
zioni, è che esse sono del fiiturismo politico privo di ogni base con-
creta, pel difetto d'ogni positiva esperienza dell'assetto di cui si ra-
giona.
Qualunque siano per essere d'altronde i frangenti, che il ritmo
fatale degli eventi economici sta per apprestare alle istituzioni re-
pubblicane, conclude il nostro autore, è fuor di dubbio ch'esse sa-
ranno ciò che le farà il livello morale dei cittadini e degli uomini.
Se questo si eleverà a quelle altitudini di simpatia fratellevole, che
36 LORD J. BRYCE E LA DEMOCRAZIA
Mazzini ha divinate, la. democrazia potrà assurgere a più gloriosi
destini. Di certo l'esperienza della guerra recente, in cui milioni di
uomini son corsi a morire per un conflitto, che arrecò ai vincitori
non minori disastri che ai vinti, prova troppo che le anime non sono
cresciute a paro coi progressi della tecnica e della civiltà. Ma non
la democrazia è responsabile di codeste enormezze; ma lo stesso spi-
rito di sacrifìcio, con cui tante migliaia di prodi si immolarono nella
tremernda conflagrazione per la causa della democrazia, ci conforta
a bene sperare delle definitive sue sorti; e finché durerà la speranza
nei destini della democrazia, non è possibile che questa abbia a
perire.
Tale il succo e il sangue dell'opera poderosa, ch'io mi sforzai di
riassumere ne' più salienti suoi tratti. E forse, nel riassumerla, l'avrò
per gran parte sciupata, poiché non mi fu dato di rendere lo stile
fulgido, affaccettato, fluente, che dona alle sue pagine un incanto
inobliabile. Ma io mi terrò pago se questi imperfetti e pallidi cenni
varranno a destare nel nostro pubblico il desiderio di un più diretto
contatto coll'ultimo e più nobile campione della libertà politica, oggi
tanto sinistramente insidiata dai sognatori decadenti delle prepostere
restaurazioni.
Achille Loria.
I
L'ANTICO DISEGNO DELLE REGIONI
CAVOUR - FARINI - MINGHETTI
La proposta di un nuovo ordinamento amministrativo dell'Italia
per Regioni fa {xarte oggi del programma di un poderoso partito po-
litico, il partito popolare, né può escludersi venga in avvenire ac-
colta anche dai partiti liberali costituzionali : l'avversa invece fie-
ramente, col giovanile suo ardore combattivo, il nuovo partito del
Fascio. Nella viva contesa che doATà aver luogo in Paese e nel Par-
lamento su questo tema grave ed appassionante, un argomento sto-
rico di grande importanza avranno i fautori del programma della
Regione: l'essere stata la proposta della creazione dell'ordinamento
amministrativo per Regione, concezione di Camillo Cavour, di quel-
l'incomparabile Uomo che portava occhiali d'oro, ma che miope non
fu mai, che vide sempre giusto e più lungi della media comune dei
mortali nel campo economico politico e sociale ed il cui affetto per
l'Italia, che chiamava ed era veramente la donna dei suoi pensieri,
non potè mai essere da alcuno superato. Non sarà pertanto inutile,
crediamo, un breve esame dell'elaborazione dell'antico disegno di
legge delle Regioni, Cavour-Farini-Minghetti, per chiarirne di fronte
all'opinione pubblica l'esatto valore politico e storico e la vera por-
tata, esponendone i concetti principali. Si deve anzitutto stabilire
come dato storico incontrovertibile che il disegno di legge di cui si
tratta, fu opera di comune collaborazione, prima del Conte di Cavour
e di Luigi Carlo Farini e poi di Minghetti, succeduto al Fàrini nel
Ministero dell'Interno. Luigi Carlo Farini, Ministro dell'Interno nel
Gabinetto presieduto dal Conte di Cavour nel 1860, dopo aver con-
cretato col Presidente del Consiglio le linee generali del disegno di
legge, sceglieva nel seno del Consiglio di Stato una Commissione
incaricata di preparare la Riforma dell'Amministrazione del nuovo
Regno. Eravamo ancora in quei tempi aurei in cui si soleva appro-
fittare dell'esi>erienza amministrativa del Consiglio di Stato per
farne un organo di sapiente e cauta preparazione legislativa, né,
come purtroppo oggi av\àene, erano allora soltanto i Ministeri inte-
ressati gli autori di progetti di leggi improv\-isate, destinate a di-
ventare, sotto l'azione della nuova e tumultuosa improvvisazione
parlamentare, aborti mostruosi ed inconcludenti, non vitali, né utili
al Paese.
Che il program^ma del Disegno di legge fosse concordato tra
Cavour e Farini non sarebbe duopo dimostrare, bastando la consi-
derazione che il Conte di Cavour era Presidente del Consiglio e che.
38 l'antico disegno delle regioni
come è ben noto, il Ck)nte, colla potenza della mente geniale e colla
attività divorante, impartiva le grandi linee direttive per ogni Mini-
stero. Noi viviamo ancora oggi delle sue idee, dicevano dopo la ful-
minea e angosciosa scomparsa del gran Ministro, i suoi collabora-
tori. Una prova storica irrefutabile risulta del resto da un appunto da
me rinvenul^ fra le carte cavouriane, scritto di mano del Conte, nel
quale si trovano parole e frasi stesse contenute nel programma espo-
sto da Luigi Carlo Farini, scritto che, per maggior chiarezza e ordine
logico, sarà pubblicato più avanti.
Esiste poi una lettera del Ck)nto di Cavour, pubblicata dal Chiala
(Voi. IV, pag. i82) colla quale il Conte rinviava al Minghetti, nel
febbraio 1861, le .proposte di leggi sull'ordinamento amministrativo
del disegno da presentarsi al Parlamento, da lui stesso diligente-
mente esaminate ed annotate.
« Ho obbedito scrupolosamente alle vostre prescrizioni, scriveva
« il Conte, dopo aver lavorato fino alle 12 alle leggi marittime, ho
« consacrato quattro ore alle vostre leggi, come potrete oonvincer-
« vene dalle note che troverete in margine segnate » .
Tali note importantissime sono pubblicate in Appendice dal
Chiala nel Volume stesso e riguardano tutto l'ordinamento comunale
e provinciale. Una sola nota riguarda l'ordinamento regionale e con-
cerne i poteri da assegnarsi alla Commissione che doveva assistere
il Governatore di ogni Regione.
All'art. 4" della legge sulle Regioni il Conte pone la seguente
Nota:
M Aggiungerei :
<( La Commissione dovrà esser© sempre chiamata ad emettere voto
« consultivo :
« 1° sulle concessioni di strade ferrate che corrono sul territorio
« regionale;
«2° sui servizi dei battelli postali che toccano porti regionali.
« È da esaminarsi inoltre se il concorso della Regione non sia
«da richiedersi per i lavori marittimi di maggiore importanza».
Pressoché in tutte le Note appare l'acume geniale del Conte; inte-
ressantissima l'annotazione riguardante l'elettorato comunale all'ar-
ticolo che sanciva l'esclusione degli analfabeti. Il Conte osserva a
questo . proposito sull'articolo accennato:
« Non applicabile inuuediatamente al Regno di Napoli, la Sicilia
e la Sardegna. Una disposizione transitoria ed eccezionale è neces-
saria se non si vuole che i Comuni di quella parte d'Italia cadano
sotto la tirannia dei dottoruzzi di villaggio, la peggiore di quante se
ne conoscono».
Altra nota importantissima {che dovrebbe molto dare a riflettere
in occasione di una nuova riforma elettorale perchè indica con un
rapido e magistrale tocco la causa principale del tanto lamentato as-
sentismo elettorale) è quella che riguarda l'art. 20. « Crederei oppor-
tuno che nelle città di oltre 20,000 abitanti il C^omune fosse diviso in
più distretti elettorali ».
Gli elettori cf'oJicorrerebbero certo molto j/ià numerosi alVuriìa
se si trattasse di scegliere rappresentanti degli interessi' ad essi piii
vicini.
l'antico disegno delle regioni b9
• •
Sull'elaborazione del disegno di legge per l'ordinamento dell'Am
ministrazione Regionale possediamo un documento molto prezioso,
esistente alla Biblioteca del Senato, cioè gli Estratti dei verbali delle
Adunanze della Comimissione nominata presso il Consiglio di Stato
il 24 giugno 1860, da Luigi Carlo Farini, allora Ministro dell'In-
terno per la preparazione di tale disegno di legg'e (1).
Nell'inaugurare i lavori della Commissione il Farini dava let-
tura di una Nota che designa in forma nitida e magistrale i caratteri
ed i limiti della riforma per quanto riguarda La costituzione delle
Regioni, riforma concordata coU'allora Presidente del Consiglio, Ca-
millo Cavour. Per necessità di spazio ne riferirò i punti principali e
più salienti :
« Vuoisi » — diceva il Farini — « considerare da un lato quali
siano le vere condizioni della società civile italiana, e dall'altro lato
quale sia il fine a cui s'intende, per farsi giusto concetto del proble-
ma che a noi tocca risolvere. Esso consiste, per mio av\'iso, nel coor-
dinare la forte unità dello Stato con l'alacre sviluppo della vita locale,
colla soda libertà delle Provincie, dei Comuni e dei Consorzi, e colla
progressiva emancipazione dell'insegnamento, della beneficenza e
degli istkuti municipali e provinciali dai vincoli della burocrazia
centrale.
« Per fare una legge che miri a questo fine è necessario innanzi
tutto io stabilire le massime fondamentali, sulle quali deve farsi il
disegno della circoscrizione politica dello Stato. Volendo divisare
questa circoscrizione, dobbiamo noi disconoscere ogni altra unità
morale fuorché quella costituita dalla Provincia, così come provvede
ìa legge in vigore? 0 invece non dovremo conoscere che le Provincie
italiane si aggruppano naturalmente e storicamente ' fra di loro in
altri centri piìi vasti, che hanno avuto ed hanno tuttavia ragione
di esistere nell'organismo della vita italiana? Questi centri possie-
dono antichissime tradizioni fondate in varie condizioni naturali e
civili, la politica italiana disgregata fra i Comuni e le Repubbliche
del Medio Evo ha trovato in essi una prima forma e disciplina di
Stato: la più stretta colleganza politica e sociale ha portato partico-
lari resultamenti di civiltà che ad ognuno di essi "sono cari e preziosi.
Al di sopra della Provincia, al di sotto del concetto politico dello
Stato, io penso che si debba tener conto di questi centri, i quali rap-
presentano quelle antiche autonomie italiane che fecero così nobile
omaggio di sé alla Nazione.
« La circoscrizione politica che dobbiamo stabilire non vuol es-
sere, né il frutto di un concetto astratto, né un'opera arbitraria; ma
deve rappresentare quelle condizioni naturali e storiche, quei centri
di forze morali, le quali se fossero oppresse per pedanteria di sistema,
potrebbero riscuotersi e risollevarsi in modo pericoloso, e che legit-
timamente soddisfatte, possono mirabilmente concorrere alla forza e
(1) Debbo alla grande cortesia dell'illustre comm. Pintor, Direttore capo
della Biblioteca del Senato, l'indicazione dell'esistenza di tale importante do-
cumento, come di altre pnbblicazioni intomo all'argomento, e mi è grato ren-
dergli pubblicamente vive azdoni di grazia, con sincera gratitudini»
40 l'antico disegno delle regioni
allo splendore della Nazione. Se vogliamo compiere un'efficace opera
di decentramento e dare alla nostra patria gli istituti che più le si
convengono, bisogna a parer mio rispettare le membrature naturali
dell'Italia. Se volessimo creare l'artificiato dipartimento francese riu-
sciremmo a spegnere le vive forze locali, spostandone e distruggen-
done i centri naturali e turbando l'antico organismo pel quale esse
si mantengono e si manifestano. Io penso quindi, che noi faremo
opera savia e previdente non usando violenza per conseguire ciò,
ohe seppure ad altri possa parere perfetto, non può essere che il
frutto del tempo.
« Così adoperando, la pubblica opinione, dalla quale solo un li-
bero Stato deve pigliare i consigli di buon Governo, potrà manife-
stare le vere inclinazioni universali e favoreggiare senza rammarichi
e senza gelosie il sistema della unità. Altrimenti potrebbe accadere
che per impaziente sollecitudine e per iscrupolo di sistema, si abu-
sasse del concetto unitario, il quale per se stesso tira a centralità in
ogni ordine dello Stato. Oggi forse non se ne vedrebbero tutti i pe-
ricoli e i danni', perchè oggi im{>era sulla coscienza pubblica l'idea
e la forza del moto unificativo e la preoccupazione della politica na-
zionale leva i pensieri da ogni cura ed interesse di minore momento;
ma, o m'inganno o sarebbe poi a temersi una riscossa perturbatrice
dello Stato e poco propizia a quella forte unità politica, che- tutti noi
vogliamo fermamente stabilire.
« Però, tenute buone queste avvertenze, noi dobbiamo dimenti-
care che le così dette autonomie non vanno rispettate più di quello
che abbia voluto rispettarle il sentimento nazionale degli italiani,
quando con meravigliosa concordia pronunciò che, solamente in uno
Stato unico, l'Italia poteva trovare la forza, la prosperità e la dure-
vole pace. Egli è mestiere adunque il differenziare sostanzialmente
il concetto dei*varii centri morali, che possono essere ad una na-
zione circoscrizione dello Stato, dalla memoria di quegli antichi
Stati che tenevano l'Italia frastagliata e soggetta ad un forzato e
quasi inestricabile sistema di servitù. Sarebbe opera contraria alla
coscienza nazionale il fare una rappresentanza amministrativa degli
Stati irrevocabilmente condannati dalla volontà della Nazione; tanto
più che quelli nemmeno disegnavano sempre le naturali regioni
della geografia e della vita storica, d'Italia; ma i più. erano il por-
tato di trattati di potenze straniere e della lunga ed infelice con-
quista, che pesò sopra il diritto nazionale. È pertanto mio divisa-
mento che la nuova circoscrizione rispetti e reintegri, dove occorra,
i centri naturali della vita italiana, ma non seguiti necessariamente,
né mantenga le vecchie divisioni politiche.
« Stabiliti i limiti delle regioni dovranno essere determinate le
attribuzioni. Dirò, per le generali, non essere mio avviso che alle
accennate grandi circosrizioni territoriali si convenga di dare una
rappresentanza elettiva, come quella che ben si addice«alla Provincie
e ai Comuni. Gli interessi di più Provincie non si possono accumu-
lare e confondere ad arbitrio di legge: essi si formano col tempo,
col tempo si muttmo, e si formano e si mutiino, tenendo dietro bensì
ai mutamenti che avvengono nell'economia sociale e civile, ma pur
sempre mantenendo una grande attinenza colle {articolari condizioni
e costumanze locali. Nelle grandi circoscrizioni sono facili e nabu-
l'antico disegno delle regioni 41
rali i consorzi di più Provincie o comunità per particolari interessi :
non è naturale, non è fcicile, non è g^iusta la comunanza ammini-
strativa.
« Altra e più grave ragione non permette a parer mio di dare.
una rappresentanza elettiva alle grandi circoscrizioni. Un Consiglio
numeroso deliberante, co« larga autorità sugli interessi di regioni
ampie, in città che furono capitali di Stati, renderebbe imagine
di Parlamento: e le possibili leghe di più Consigli, le tentazioni
usurpatrici, che sono naturali a tutte le numerose adunanze rappre-
sentative, (potrebbero offendere l'autorità dello Stato e menomare
la libertà di quei solenni deliberati che sd appartengono per legge
e per ragione di Stati al solo Parlamento della àìazione. Nel Parla-
mento n£Lzionale gli interessi, le sollecitudini, le gare e come di-
ciamo i pre^udizi locali rimpiccioliscono e si sentono vergognosi
di sé medesimi. Invece in quelli che si potrebbero chiamare Parla-
menti amministrativi delle grandi circoscrizioni, quegli interessi,
(juei pregiudizi sarebbero alteri, ostinati e procaccianti, e potreb-
bero nei gravi momenti, recare offesa all'autorità suprema ed alla
forza dello Stato.
« Considerate poi sott'altro aspetto codeste rappresentanze delle
grandi circòsci-izioni, esse andrebbero direttamente contro il fine
che vogliamo proporci, cioè al decentramento amministrativo che è
utile e grato a tutta la comunanza civile. Gli impedimenti alla li-
bera provvida amministrazione derivante dall'accentramento gover-
nativo sarebbero rinnovati in tanti numeri di centri quante sareb-
bero le grandi circoscrizioni territoriali e perchè sarebbero più
dannosi.
« Seguendo i principii accennati, sottopongo all'-esame della Com-
missione per sommi capi il modo onde io penso si possa recarli ad
effetto e la distribuzione degli attributi, le reciproche attinenze, e
quelle dello Stato.
« E perchè intendo di lasciare ampia libertà di discutere e pro-
porre, ferme le massime sostanziali, tutto ciò che riguarda l'ap-pli-
cazione, così darò forma di quesito ad alcune idee sulle quali de-
sidero un autorevole consiglio.
« Il Regno si divide in Regioni, Provincie, Circondari, Manda-
menti e Comuni. Più Provincie insieme riunite formano una Re-
gione la cui circoscrizione deve rispondere ai naturali e tradizionali
scompartimenti italiani, p. es. : Piemonte, Lombardia, Emilia, To-
scana, Liguria, Sardegna.
« Ogni Regione è sede di un Governatore che rappresenta il Po-
tere esecutivo con le attribuzioni. Fanno capò ad esso politicamente
gli Intendenti delle Provincie. Egli pronuncia in via d'appello nelle
materie che la legge determina. Komina i sindaci, o gonfalonieri,
sopra una terna proposta dai Consigli comunali, meno quelli dei
Capoluoghi di Regione e di Provincia i quali saranno nominati dal
Re. Presso di lui vi sarà un ufficio d'ispezione sulla disciplina degli
impiegati e dei pubblici funzionari. Nomina gl'impiegati d'ordine
inferiore: propone gl'impiegati d'ogni grado, e li può sospendere
per un tempo determinato. Governa supremamente la polizia in
tutta la Regione. La Commissione giudicherà, se convenga lo adu-
42 l'antico disegno delle regioni
nare presso il Governatore una ipoco numerosa congregazione di
Delegati delle Provincie.
« Le Provincie comprese in una medesima Regione possono
eventualmente formare dei Consorzi per affari determinati, p. es. :
strade, acque, istruzione, beneficenza, belle arti, e fors'anche car-
ceri di pena, ecc., stabilire fra le Provincie della stessa Regione
Consorzio permanente»
R' sulta chiaro il concetto del ministro Farini di creare colla
Repcione un organo di governo intermedio e di decentramento locale,
evitando di costituire un ente amministrativo sovrapposto alla Pro-
vincia, con rappresentanza elettiva propria, foggiata a guisa di Par-
lamento regionale. ^Evidentemente si trattava di una direttiva fon-
damentale concretala col Presidente del Consiglio, Conte di Ca-
vour, del quale trovo l'aippunto autografo seguente, di cui sopra ho
fatto cenno:
« Sarebbe opera contraria alla coscienza nazionale il fare una
rappresentanza amministrativa degli Stati irrevocabilmente con-
dannati dalla volontà della Nazione; un Consiglio numeroso delibe-
rante, con larga autorità sugli interessi di regioni ampie, in città
che furono capitali di Stati, renderebbe immagine di Parlamento
e potrebbe colla prevalenza degli interessi e delle gare locali, offen-
dere l'autorità dello Stato e menomare la libertà dei solenni deli-
berati ohe appartengono al solo Parlamento della Nazione». *
Notevole la ripetizione di alcune frasi stesse cavouriane nella
nota sovratrasc ritta di Farini, il quale desiderò naturalmente at-
tenersi nel modo più esatto alla concezione del suo grande Capo ed
intimo ispiratore di ogni suo più importante atto politico.
La Commissione norpinata dal Farini delegò ad una Giunta,
scelta nel seno della Commissione stessa, l'esame della proposta del
Ministro e questa deliberò di sottoporre all'intiera Commissione tre
proposte per servire di tema alla discussione e per rendere più fa-
cile una risoluzione definitiva. La prinna proposta era così concepita :
« Sulla questione delle così dette Regioni corrispondenti agli
«antichi Stati di Piemonte, Toscana. Lombardia, Emilia, ecc.;
« Considerando che due diversi sono gli aspetti sotto i quali una
«tale questione può essere esaminata:
« 1° Sotto il rapporto delle attribuzioni che nelle cose di am-
« ministrazione generale e centrale convenga attribuire ai Capi delle
« Regioni;
«2° Sotto il rapporto delle attribuzioni che si vogliano jlare
«alla Regione come corpo morale.
« Lo scrivente propone sulla prima questione, che si affidi al
«Capo della Regione la suprema direzione di tutti i servizi. che si
« esercitano per conto dello Stato» in materia amministrativa e po-
<f litica, fissando che la corrispondenza dei Ministri sia fatta sola-
« mente con esso; eh© da esso debbano partire le proposte; che gli
«competano le nomine degli impiegati subalterni, ecc.; die nel suo
" Uffizio esistano, colla forma di Direzioni distinte per ogni servizio,
« tutti gli uffizi che servono alle amministrazioni centrali; che questo
« Capo-regione debba poi in ogni cosa essere obbligato a s^uire le
« direzioni e gli ordini generali del Governo, ed altro non sia che
« l'organo della sua volontà.
l'antico disegno delle regioni 43
« Sulla seconda questione che, senza intaccare l'esistenza delle
Provincie, si affidino alla Regione, come corpo morale, tutti quegli
" affari di cui da attento esame risulterà potersi liberare l'Ammini-
« strazione centrale senza pericolo per l'unità e la forza dello Stato;
« che si ammetta un Corpo deliberante elettivo circondato da quelle
«cautele che la discussione dimostrerà opportune per assopire i ti-
« mori che desta in molte persone una tale creazione.
« Proporrei subordinatamente : Centri amministrativi-politici,
« ma senza Rappresentanza collettiva, né Corpi elettivi, ma solo
«come discentramento daireLzione governativa.
« Un Governatore sai-ebbe il nucleo di questi grandi, centri;
«avrebbe la rappresentanza del Governo; attribuzioni sul ramo po-
« litico, ossia sulle' materie attribuite al Ministero dell'Interno da cui
« dipenderebbe; potrebbe forse attribuirsi al medesimo in via nor-
« male anche ciò che spetta al Ministero d'agricoltura, industria e
«commercio: sugli altri rami della pubblica amministrazione non
« avrebbe che un'alta vigilanza.
« Sarebbero da crearsi in questi grandi centri degli Uffizi supe-
« riori per le finanze e pei lavori pubblici.
« Il giudiziario ed il militare rimarrebbero affatto indipendenti,
salvo la creazione anche per questi Tribunali superiori e di Co-
mandi militari.
« Quanto alle rapipresentanze degli interessi, resterebbero ferme
« le attuali, cioè le Comunali, le Provinciali, la Parlamentare.
« E ciò senza pregiudizio di eventuali Consorzi giusta la prb-
« posta antecedente » .
Nella discussione la Commissione si divise in due grandi cor-
renti di opinioni, l'una favorevole alla creazione della Regione come
divisione governativa unicamente, l'altra che intendeva ohe la Re-
gione dovesse costituire altresì un ente morale e che il Governatore
fosse assistito da una Commissione composta di membri eletti dai
Consigli provinciali nel proprio seno.
Dopo lunghi e gravi dibattiti si formò una maggioranza a fa-
vore di quest'ultima opinione e fu deciso di rassegnare al Ministro
le diverse disposizioni così riordinate :
Proposte rassegnale al Ministro.
Regioni.
« Le Regioni corrispondono alle grandi divisioni territoriali ac-
cennate dal Ministro, salve le modificazioni di confine, che, per ra-
i:ioni (particolari, debbano stabilirsi, e di cui sarà miglior giudice
il Governo. Si riserva per ora la questione riguardo all'Emilia.
« La Regione ha vita ed amministrazione propria. È ammini-
strata da una Commissione regionale come autorità deliberante.
« I Commissari regionali sono eletti dai Consigli provinciali nel
proprio seno. — Ciascheduna Provincia deputa tre Commissari. Qua-
lora però una Regione si componga di un numero di Provincie non
maggiore di tre, ognuna di esse ne eleggerà quattro. — La Commis-
sione regionale sarà riunita una volta l'anno in s^sione ordinaria».
44 l'antico disegno delle regioni
Governatore.
« In ogni Regione è stabilito un Governatore, che rappresenta
il Governo del Re, ed ha la precedenza sulle aU-re Autprità della
Regione. .
« Il Governatore ha nella sua diretta dipendenza i servizi pub-
blici, di sicurezza pubblica e di amministrazione, che sono di com-
p-etenza del Ministero dell'Interno, e vi provvede sulla sua respon-
sabilità in conformità delle istruzioni del Ministero. Esso compie
inoltre quegli atti nell'interesse dei servizi dipendenti dagli altri
Ministeri, che gli fossero attribuiti da l^gi speciali, o delegati dai
Ministri.
« Il Governatore generale veglia, nell'interesse dell'ordine e della
sicurezza pubblica, sull'andamento di tutti i servizi dipendenti dal-
l'Amministrazione dello Stato, ed esercita un'alta sorveglianza sulla
disciplina del personale addetto ai servizi medesimi. — Non ha però
ingerenza nei servizi giudiziari e militari. A quest'effetto i Capi dei
diversi servizi pubblici esistenti nella Regione sono tenuti di rag-
guagliarlo di tutti i fatti, la cui gravità e natura interessar possa
lordine pubblico».
Competenza delle Commissioni Regionali.
«Sono regionali tutte le strade che non sono consortili, Comii
nali o Provinciali, e non saranno per legge dichiarate Nazionali
perchè interessanti direttamente la generalità dello Stato, sotto il
rapporto della difesa nazionale, e del commercio coll'estero.
« Saranno Nazionali i porti che saranno riconosciuti di utilità
generale dello Stato.
« Gli altri porti, che non siano meramente Comunali, o Provin-
ciali, sono Regionali.
« La Regione sottentra nei diritti, e negli obblighi dello Stato ri-
guardo agli argini, ed altre opere e spese occorrenti pei fiumi, ad ec-
cezione di quelli che saranno per legge dichiarati nazionali, siccome
interessanti la difesa ed il commercio generale dello Stato.
«< Per le strade e fiumi, che interessano più Regioni ed i confini
dello Stato, il Governo determina le discipline, e decide i conflitti.
« Nelle strade, e nei fiumi, ohe vengono dalla legge dichiarati
Nazionali, lo Stato concorre colla Regione, o colle Regioni nelle
misure da esso deliberate.
« Il Governatore, quale rappresentante dello Stato, prowederà
ai lavori, per mezzo degli Uffizi Regionali.
« Sono a carico delle Regioni i mentecatti e gli esposti, per
quanto erano a carico dello Stato, delle Provincie e dei Comuni.
« GÌ' Istituti d'istruzione pubblica superiore, . le Università ed
Accademie di belle arti appartengono alla Regione, riservate allo
Stato le norme superiori direttive, e tutte le discipline iper gli esami
e collazione dei gradi, riservate ancora lo libertà d'insegnamento,
nei modi che saranno stabiliti dalLa legge.
« Non s'intende con ciò di escludere il diritto dello Stato di aver»
Istituti esemplari.
l'antico disegno delle regioni 46
« La Commissione regionale avrà la facoltà di fare Regolamenti
speciali nelle materie forestali, agrarie, e della caccia (nei limiti
che saranno det-erminati dalle leggi) coll'approvazione del Re, pre-
ceduta dal parere del Consiglio di Stato.
« Le Regioni avranno inoltre quelle altre attribuzioni, che loro
saranno date con leggi speciali. Quelle poi ora ad esse conferite
s'intenderanno date in conformità delle leggi speciali sulla materia ».
Potere esecutivo della Regione.
« Il potere esecutivo per le cose della Regione appartiene al Go-
vernatore, il quale rende conto alla Commissione regionale della
sua amministrazione.
« Egli è assistito da due Assessori nominati dalla Commissione,
ai quali ipuò chiedere consiglio, e delegai^ anche disgiuntamente i
proprii poteri. Questi Assessori in un col Governatore costituiscono
la Giunta incaricata di formare il bilancio preventivo.
« Le nomine degl'Impiegati degli uffizi della Regione apparter-
ranno esclusivamente al Governatore.
« Quanto alle nomine degli altri Impiegati e funzionari dipen-
denti dalla Regione, provvederà la Commissione Regionale, osser-
vate le norme stabilite dalle leggi relative alle singole materie e dai
>ingoli Regolamenti speciali, che si faranno dalla Regione, coll'ap-
provazione del Re » •
•
Succeduto il Minghetti al Farini nel Ministero presieduto dal
Conte di Cavour, pregò di nuovo la Commissione stessa nominata dal
suo predecessore di continuare gli studi e di formulare più specifi-
camente e nelle sue varie parti il disegno di legge sull'Ordinamento
amministrativo del nuovo Regno. Nella seduta del 28 novembre 1860
egli dava lettura alla Commissione della nota seguente ohe per ne-
cessità di spazio riproduco solo jiella parte che si riferisce all'ordi-
namento regionale:
« La riforma deve avere per fine di stabilire e eonsolidare l'unità
politica, militare e finanziaria del Regno, e discentrare al possibile
l'amministrazione. I Commissari! avranno sempre presente all'animo
il primo di questi due intenti, siccome quello che è essenziale e
supremo, e però, dando nelle loro proposte alla iniziativa dei pri-
vati e delle minori aggregazioni civili tutta la larghezza possibile,
non dimenticheranno mai che le varietà locali, per quanto si fon-
dino sulla tradizione, sulle abitudini e sui desiderii, non debbono
affievolire, ma afforzare l'unità nazionale.
« Pertanto il discentramento amministrativo non potrà operarsi
che intomo alle attribuzioni di quattro. Ministeri, cioè Interno. Istru-.
zione pubblica. Lavori pubblici. Agricoltura e Commercio. Dal pri-
mo può togliersi tutto quanto riguarda beneficenza, opere pie, igiene,
sanità, teatri, caccia e pesca, monumenti pubblici; dal secondo,
l'insegnamento medio ed il tecnico, le università ed accademie di
belle arti; dal terzo, le acque, strade e porti secondarli; dal quarto,
l'agricoltura, boschi e statistica.
46 l'antico disegno delle regioni
« Verrà giorno forse, in cui anche la pubblica sicurezza e le
carceri di pena possano essere amministrate dalle Autorità locali,
ma ora lo vietano le condizioni presenti d'Italia e la pubblica opi-
nione.
« Quanto alle modificazioni che di necessità verranno alle fi-
nanze, comeohè rilevanti, non saranno che accessorie, e non deb-
bono alterare il sistema dei tributi. ^
«Il discentramento può farsi in, due modi: o delegando ai Rap-
presentanti del Governo nelle varie parti del Hegno molte facoltà
che sogliono essere proprie dei Ministeri, ovvero spogliando il Go-
verno di queste facoltà ed attribuendole ai cittadini.
« La Provincia italiana non è così vasta né così «popolata e co-
piosa di ricchezze da poter supplire, almeno per ora, a tutte quelle
funzioni che ho indicato sopra e che il Governo sarebbe disposto di
affidare ai cittadini. I Prefetti sono troppi di numero da poter loro
delegare tutti i poteri efficaci ad un vero discentramento, senza cor-
rere il pericolo di varietà e discrepanza soverchia nell'andamento
dell'amministrazione.
« Uopo è dunque di formare . un'altra aggregazione, un altro
Ente morale maggiore della Provincia, cosicché il Rappresentante
del Governo possa ivi securamente avere quei poteri che abbiamo
accennato, ed insieme il consorzio delle Provincie bastare. al fine
desiderato. .Tali sarebbero le Regioni.
« Non é mia intenzione che la Commissione per ora determini
precisamente quante e quali debbano essere queste regioni. Ciò for-
merà l'oggetto di altro studio speciale, nel quale molti elementi
dovranno tenersi a calcolo, e non ultimo Ja diversità di leggi e di
istituti che sinord ebbero vita nelle varie parti d'Italia. Imperocché,
quand'anche l'unificazione amministrativa volesse farsi in modo più
completo nell'avvenire, la instituzione delle Regioni potrà riguar-
darsi come mezzo a cotanto fine.
«E veramente io la considero tanto come. un temperamento di
transizione, quanto come una prova che può renderne stabile durata.
Dico un temperamento di transizione, per facilitare il trapasso dallo
stato di divisione, in che l'Italia fu per tanti secoli, ad uno stato
normale. Quando la libertà avrà vivificato e svolto tutti i germi d'in-
gegno, di ricchezze, che sono pur troppo latenti nella nostra patria,
quando l'esercizio delle pubbliche funzioni sarà divenuto un abito
generale dei cittadini, potrà allora la Provinica sola compendiare in
sé molti degli uffici che il Governo deporrebbe ora nelle mani del
Governatorato e dell'Ammmistrazione regionale; e la Regione stessa
scomparirà. Che se questa invece rispondesse all'indole ed alle in-
clinazioni italiane, potrà mettere salde radici, e perfezionandosi, di-
venire istituzione perenne. Giudicar questo a priori lo credo impos-
sibile, e l'esperienza sola potrà dare il responso; a me basta che lo
stabilire oggi questo ordinamento sia non solo possibile, ma utile
ed opportuno. Appresso a queste considerazioni generali passo ad
avvertenze particolari.
«e Le Regioni sono un consorzio permanente di Provincie.
« In ogni Regione havvi un Governatore.
« Il Governatore ha nella sua diretta dipendenza i servizi poli-
tici e di amministrazione che sono di competenza del Ministero del-
l'Interno, e vi provvede in conformità delle istruzioni del Ministero.
l'antico disegno delle regioni 47
« Egli compie inoltre quegli atti, nell'interesse dei servizi dipen-
denti dai Ministeri che gli fossero attribuiti da leggi speciali, o dele-
gati dai Ministri.
a II Governatore veglia, nell'interesse dell'ordine e della sicu-
rezza pubblica, sull'andamento di tutti i servizi dipendenti dallam-
ministrazione dello Stato, e sulla disciplina delle "persone addette ai
servizi medesimi. Non ha però ingerenza nei serv.izi giudiziari e
militari.
« Al fine suddetto i capi dei diversi servizi pubblici esistenti nella
Regione, sono tenuti di ragguagliarlo di tutti i fatti la cui gravità, o
natura può interessare l'ordine pubblico.
« Il Governatore è in diritto di fare, o di prescrivere in ogni
tempo le indagini, od inchieste che allo stesso fine riconoscerà neces-
sarie; gli Ufficiali del Governo sono nell'obbligo di ottemperare a tali
richieste.
« Il Governatore, venendo a riconoscere a carico degli Ufficiali
pubblici fatti previsti dalle leggi penali, li rimette all'Autorità giu-
diziaria; provoca dall'Autorità competente la riforma di ogni abuso.
« Esso può, in caso d"'urgenza, sospendere gl'impiegati dipendenti
dal Governo del Re; può parimenti sospendere i provvedimenti delle
diverse Amministrazioni in corso di esecuzione; e può anche dare,
sotto la sua responsabilità, ordini obbligatori per tutte le Ammini-
strazioni. In tutti questi casi deve immediatamente informare il Go-
verno del Re del suo operato.
« Il Governatore protegge tutti gli Ufficiali del Governo nel com-
pimento delle loro attribuzioni.
« I provvedimenti relativi a nomine, sospensioni, o revoche d'im-
piegati del Governo nelle Regioni devono essere dal Governo comu-
nicati ai capi dei servizi speciali per mezzo dell'Ufficio del Governa-
tore. Questi è sempre in diritto di sospenderne la spedizione per fare
al Governo del Re le rappresentanze che fossero convenienti e per
illuminarlo.
«La Regione, come consorzio permanente di Provincie, formerà
un Ente morale, avente due peculiari fini, che sono i seguenti :
1" Il mantenimento delle strade che finora ebbero il nome di
nazionali, gli argini ed altre opere occorrenti alla difesa dei fiumi,
le quali non siano amministrate da Consorzi, o da Comuni. Sarà
stabilito per Legge quando lo Stato debba concorrere alla costruzione,
o al mantenimento di alcune principali strade, e similmente alla di-
fesa di taluno dei principali fiumi.
« Per le strade e fiumi che interessano piìi Regioni ed i confini
dello Stato, il Governo determina le discipline e decide i conflitti.
« Le strade ferrate, le poste, i telegrafi spettano interamente allo
Stato.
2*' Gli Istituti d'istruzione *superiore, le Università ed Accade-
mie di belle arti, riservando allo Stato le norme superiori direttive,
l'approvazione degli statuti organici e tutte le discipline per gli esami
e la collazione dei gradi, come pure l'ispezione sulle, scuole di ogni
genere.
« Non s'intende con ciò di escludere lo Stato dall'avere Istituti
esemplari d'ogni maniera; similmente è riservata la libertà d'inse-
gnamento nei modi che saranno stabiliti dalla legge.
48 l'antico disegno delle regioni
« L'amministrazione di, questi due importantissimi servizi pub-
blici è affidata al Governatore e ad una Commissione regionale. Que-
sta si compone di Commissarii eletti nel proprio seno per ciascun
Consiglio provinciale. Il numero dei Gommiissari potrà proporzionarsi
al numero delle Provincie consociate, in guisa però che non oltre-
passi mai il numero di venti.
« La Commissione regionale è convocata dal Governatore una
volta l'anno: ha voto deliberativo sul bilancio. Il potere esecutivo ap-
partiene intieramente al Governatore, il quale può scegliere fra i
Commissari due Assessori e delegar loro anche disgiuntamente i pro-
pri! poteri, all'uno pei lavori pubblici, all'altro per l'istruzione. Que-
sti Assessori, in un col Governatore, costituiscono la Giunta inca-
ricata di formare il Bilancio di previsione.
« Le nomine degli impiegati degli uffizi della Regione apparten-
gono interamente al Governatore. Quanto alle nomine degli impie-
gati del Genio Civile e dell'insegnamento superiora, sarà da studiare
in (jual modo possa parteciparvi anche la Corrmiissione regionale.
« Non è per avventura necessario il ripetere che colali disposi-
zioni saranno sempre subordinate a norme generali, comuni a tutto
lo Stato, e alla suprema tutela governativa. Il Governo avrà per la
Commissione regionale la stessa facoltà che ha già per i Consigli co-
cunali e provinciali, quella cioè di scioglierla per motivi d'ordine
pubblico, provvedendo ad una nuova convocazione.
« Il bilancio attivo della Regione sarà formato mediante un con-
tributo delle Provincie.
« Piacciavi, o signori, di determinare nel progetto di legge, quali
debbano essere le regole di siffatta ripartizione».
•
Dai lavori della Commissione uscì il progetto di legge Minghetti
sul decentramento amministrativo comprendente la divisione del
Regno in Comuni, Provincie e Regioni, progetto respinto dalla Com-
missione parlamentare a cui era stato deferito poche settimane dopo
la morte del Conte di Cavour. Come è noto la Commissione propose
invece di estendere a tutto il Regno la legge amministrativa piemon-
tese del 1859 e la proposta fu accolta senza opposizione dalla Camera
e dal Senato, dopoché Bettino Ricasoli, succeduto al Cavour nella
presidenza del Òonsiglio, si era affrettato a ritirar^ il progetto Min-
ghetti, abbandonando la concezione di Cavour, Farini e Minghetti, di
una riforma amministrativa organica, conforme alle tradizioni delle
popolazioni italiane, alle quali evidentemente mal poteva adattarsi
una legge fatta per una sola Regione italiana.
Rimase così sepolto il disegno delle Regioni, né mai valse a n
sollevarlo neppure la voce autorevole di uomini di Stato la cui mente
è paragonabile a quella dei primi ordinatori del nuovo Regno, quali
Francesco Crispi, Stefano Jacini e, in tempi a noi più vicini, Pietro
fJortolini. Nel 1874 fu annunziato dal partito della Destra, allora al
|K)tere, il «proposito di ripresentare alla Camera la riforma ammi-
nistrativa comprendente le Regioni, ma a tale proposito il ministro
Minghetti non diede dipoi seguito. Luigi Luzzatti, allora segretario
generale, discepolo preidiletto e collaboratore cfi Marco Minghetti,
l'antico disegno delle regioni 49
potrebbe dircene le ragioni e ci auguriamo vorrà farlo, anche perchè
la sua parola autorevole avrebbe la massima importanza, sull'argo-
mento.
Qualunque siano le sorti del nuovo tentativo che si sta oggi ma-
turando per dare all'Italia una riforma amministrativa veramente or-
ganica che la liberi da uno dei mali più gravi di cui soffre il nostro
Paese, cioè l'inceppamento burocratico, ciò che mi parve essenziale
fosse messo in luce è il concetto generale della riforma che si intitola
ai, nomi di Cavour, Farini e Minghetti. Secondo la quale si trattava
di rispettare le membrature naturali dell'Italia per dare ad essa mag-
gior forza di unità nazionale, non già di creare altrettanti Parlamenti
locali, focolari di federalismo regionale, destinati a riprodurre, forse
ingigantiti, i mali da cui è afflitto il Parlamento nazionale. A questo
grave pericolo crediamo intendesse accennare, con intuito di uomo
di Stato, Filippo Meda, nel recente Congresso del Partito Popolare
a Venezia. Possano i nostri legislatori rinvigorire e rinsaldare con
poderose armature, secondo il carattere nazionale, la struttura in-
terna del maestoso edifìcio che sorse dalle macerie dei varii Stati della
Penisola, edifìcio innalzato a gran tratti ed a linee possenti col no-
stro Risorgimento e coronato ora del supremo suo fastigio colla vit-
toriosa guerra nazionale; ma si ispirino sempre alle concezioni so-
brie ed alte degli eroici architetti, concezioni che, anche in mezzo ad
incertezze e ad errori inevitabili, portano pur sempre l'impronta im-
mortale del genio, si ispirino, come a nume tutelare, al loro salutare
buon senso, . al loro insuperabile amore per l'Italia, onde rafforzare
ed abbellire il sublime edifìcio della Patria, non guastarlo mai.
• Ernesto Artom.
I
Voi. CCXVI, serie VI — l* gennaio 1922
IL CASO DI BIANCA NERI
I.
— È una ragazza nata a scorno della logica e del principio di
causalità, diceva l'istitutrice, una vecchia inglese lunga e stecchita,
con gli occhiali.
Infatti era un carattere a rovescio. Durante gli anni ch'era stata
rinchiusa nell'Bkiucandato delle Suore, aveva fatto disperare maestre
e Madre Superiora. Chi cercava ? Le compagne che la fuggivano e le
facevano dispetti. Che preferiva? Gli studi nei quali non riusciva.
Rideva il Venerdì Santo e piangeva di Natale e di Pasqua, studiava
nelle ore di ricreazione e faceva il chiasso in quelle di studio, dor-
miva in Chiesa e pregava nel dormitorio: sentiva freddo d'estate
e caldo d'inverno. Ma ciò che faceva perdere addirittura il lume
della ragione a Suor Ekigarda era l'incostanza nelle sue stesse con-
tradizioni, perchè talvolta nella contradizione si contradiva, tornando
alla norma comune.
Quando, spinte all'esasperazione da questa creatura di follia, le
maestre secolari o le compagne le gridavano: — Insomma, che dia-*
volo hai? — ella, mentre dalle pupille sprizzava fiamme birichine
e indemoniate, alzando le spalle e distendendo le braccia in croce,
rispondeva col suo accento napoletano:
— Che ci posso fare ? Mi chiamo Bianca Neri.
E intanto le sue ciglia bellissime s'inarcavano fino alla massa
bruna dei capelli e la chiostra dei dentini splendeva — avrebbe detto
il poeta Wang-ci-fu — come una fila di chicchi di riso ben brillati.
Bianca Neri ! Proprio così : il padre, bizzarro anch'egli, trovan-
dosi di cognome Neri, aveva creduto di non poterle imporre altro
nome che Bianca.
È un vero cotrattempo ohe questo carattere non appartenesse a
qualche Sonia o Feodorow^na fascmatrice e fatale, passionale ed
enigmatica, ad una di quelle slave ohe ormai è convenuto che siano
state messe al mondo per far perdere la testa a quelli che non l'hanno.
Bianca Neri, nata sulle sponde della Neva, del Volga o del Don,
avrebbe formato la delizia intellettuale di tutti i Sardou o Gher-
buliez del mondo. Ma tant'è : ella era napoletana e come tale — in
questo almeno non c'era contradizione — ghiottissima di mozzarelle
e spaghetti con le vongole.
Predire la sorte di Bianca Neri? Questa sì che sarebbe stata
virtù profetica. Il suo cuore e il suo cervello erano due arche di Noè,
dove il colombo e lo sparviero, l'agnello e il lupo, l'aquila e il &er-
IL CASO DI BIANCA NERI Òl
pente s'erano dati convengno. Il padre sosteneva ohe, siccome tutto
ciò che è nuovo e peregrino piace, così Bianca sarebbe stata deside-
ratissima e altamente apiprezzata nel mondo: ima specie di Sha-
kespeare della femminilità.
Ma, non di meno, a ventiquattro anni e con cinquecentomila
lire di dote, non aveva trovato ancora marito : vero che più di una
volta non l'aveva voluto. Lo trovò e lo volle in condizioni roman-
zesche.
Viaggiava con la sua istitutrice per la Sicilia quando, per una
di quelle distrazioni dei capi stazione volute da Dio perchè si sfolli
l'umanità, il treno direttissimo nel quale viaggiava cozzò contro un
accelerato fermo. Bianca si trovava in una vettura prossima alla
vaporiera, vettura sulla quale saltò, come un toro in amore, la suc-
cessiva sconquassandola e infrangendola. Nella paurosa confusione,
s'erano durati sforzi per liberare quella vettura e se ne erano ipotuti
estrarre otto o dieci viaggiatori feriti. Bianca e l'istitutrice, illese
per fortuna, si trovavano rincantucciate in una specie di scatola com-
posta a caso dai rottami, la loro voce s'udiva poco e nessuno se ne
curò. Ma, intanto, la scatola posticcia sotto il peso del ferro e del
legname accatastati scricchiolava e, se i soccorsi fossero ritardati, si
sarebbe potuto dire di Bianca Neri come di Seiano: « actum est ».
Volle il caso, signore del mondo, che Renato Alberti sentisse i
lamenti che, come di sotterra, venivano fuor dai rottami, si desse
attorno, riuscisse a trovare uomini, leve e picconi, e, dopo un'ora e
mezzo di faticoso lavoro, estraesse dalla fucina negra la bella fan-
ciulla dalle ciglia lunate e la vecchia istitutrice.
Corbezzoli! Fu una lieta sorpresa : come quella dei racconti delle
fate. Una deliziosa giovinetta, che la paura — questa volta le con-
tradizioni solite si vollero contradire — aveva reso più interessante
ed amabile, apparve agli occhi di Renato. Simile avventura non po-
teva lasciar freddi i due cuori. L'uno sentiva che la bella bruna era
cosa sua ii>erchè senza il proprio aiuto sarebbe perita, l'altra vide nel
liberatore, senza il quale ella si sarebbe spenta come un fiammifero,
l'uomo mandato da Dio, il cavaliere della legenda, colui al quale
Bianca Neri, per superiore decreto, doveva essere legata per sempiv.
— Chi è Lei? — Dove va? — Che prodigio! — Io le debbo la vita.
— Ma io debbo la vita a Lei, che per la prima volta me ne rivela
l'incanto — Oh Dio! — Sì — No — e, dopo un colloquio fra il dram-
matico e il mellifluo, che non riferisco perchè tutti lo direbbero
arbifìzioso, i due giovani viaggiatori stabilirono di proseguire il
viaggio insieme.
I fratelli Alvarez Quintero nel « Chiaro di Luna » fanno finire la
cosa diversamente, perchè i due viaggiatori innamorati, anziché
godere l'uno dell'altro dopo avere tanto girato nel mondo per ritro-
varsi, se ne vanno ciascuno dalla sua parte per non perdere il pro-
fumo, la delizia di quell'incontro e consen^arli, come rigeneratori
d'ideale, per tutta la vita: fame insomma una specie d'ischirogeno
sentimentale da tenersi in una fialetta a portata di mano. Ma Renato
e Bianca erano di questa terra e preferirono di non lasciarsi, anche
perchè nell'avvenire un bis in simili condizioni sarebbe stato troppo
difficile.
52 IL CASO DI BIANCA NERI
Per farla breve, si amarono, si convenivano, si sposarono. Le
cose vanno sempre così. Bianca Neri, per una volta tanto, quando
s'era trattato del gran passo, quando si faceva sul serio, era guarita
del mal bizzarro. Forse chi sa? I misteri psichici sono impenetrabili
e come a un inverno freddo, per ristabilire l'equilibrio termometrico
annuale, succede un'estate calda, c'è da credere che anche in un'ani-
ma le contradizioni e le follìe dei piccoli atti quotidiani siano com-
pensate dalla coerenza e dalla saggezza degli atti maggiori. In-
somma, sia quel che si voglia. Renato e Bianca divennero marito e
moglie.
Ma veramente pareva ohe il Destino avesse fatto all'uno e al-
l'altra un brutto scherzo, perchè due caratteri peggio appaiati non
si sarebbero ritrovati nelle cinque parti della terra.
Bianca era nata a scorno della logica e del principio di causalità.
Ptenato, al contrario — anche il nome, omaggio a Cartesio, lo si-
gnificava — era per indole, iper studi, per idiosincrasia specialis-
sima, la ragione latta persona. Non solo. Ma, laureatosi in filosofìa,
si era a poco a poco stabilito in un pensiero, dal quale attendeva
la gloria e che, dalle profonde meditazioni della biblioteca ai quoti-
diani incontri della vita, lo dominava tutto. Egli credeva ferma-
mente che come esistono la fisiologia e la patologia del corpo umano
con la terapia medica e chirurgica, così doveva esistere la fisiologia
e la patologia dell'anima, con la terapia anch'esse: non chirurgica
perchè l'anima non ha pilori e duodeni da resecare, ma medica:
una terapia eseguita per mezzo di impressioni morali, atte a mo-
dificare profondamente lo stato dello spirito: la «scienza nuova»;
come Giambattista Vico. Migliaia di osservazioni annotate confer-
mavano la verità della tesi, e tutti cadevano sotto la sua osservazione :
gli amici, sua moglie, sé stesso. Dopo tanto studio e così costante
abito mentale, era sicuro di conoscere tutti e di poter guardare
dentro un'anima come dentro un orologio aperto. Bianca era l'oro-
logio aperto che egli aveva più spesso a disposizione : ne usò e ne
abusò : e un bel giorno fu convinto di conoscerla meglio ch'ella non
conoscesse sé medesima.
II.
I due opposti caratteri non (potevano formare un connubio ar-
monico. Renato era di piacevole umore, affettuoso verso la moglie
che veramente amava e sempre disposto a farla vivere gradevol-
mente. Così Bianca alla quale, in fondo. Renato riusciva fisicamente
accetto, gli voleva bene. Una sventura del marito l'avrebbe molto
afflitta e per risparmiare a lui un dolore o un danno avrebbe soste-
nuto anche, fino a una certa misura, un sacrificio.
Ma la felicità, dirò elementare, fondamentale, della vita non
sempre basta neppure a una donna normale: tanto meno poteva
bastare a Bianca Neri. Il trovarsi in continuo contrasto di parole,
il concepire così oppostamente la vita, l'essere formata da madre
natura a dissentire così stridentemente dal marito, le generava un
IL CASO DI BIANCA NERI 53
disagio, un'avversione, un desiderio di qualche cosa e qualcheduno
meglio rispondente a sé medesima: « Indizio certo di futura piova ».
La sicurezza di lui sul proprio conto l'esasperava come un segno
di freddezza, di scarso interesse: era la quiete sonnacchiosa del
pigro di spirito; e l'errore fondamentale circa la diagnosi psichica
della moglie nello psicologo di professione dava all'omonimo di Car-
tesio una tinta, un odoretto di ridicolo da trarne il più sinistro pre-
sagio.
Da quando Abramo andò a visitare il Faraone, si iniziò la serie
dei mariti in pericolo. Se non che, ciò che per un'altra sarebbe
avvenuto e presto, per Bianca Neri, chi sa? Poteva avvenire e no:
poteva avvenire tardi o fors'anco non mai.
Bianca Neri con gli occhi bruni da Menade, con le chiome ab-
tfondanti e nere come quelle d'una congolese, col corpicino svelto e
felino, attizzava gli appetiti degli sfaccendati. Ma finora, picche!
Ella incedeva «per ignes» incolume, come i fanciulli della biblica
fornace. *
Perchè? Con Bianca Neri bisogna rinunciare ai perchè. Non
ho detto che era stata generata a scorno del principio di causalità?
L'epoca presente era designata da un tenente di cavalleria:
«un brillant officier, un jeune homme d'elite», avrebbe scritto un
romanziere francese della vecchia scuola. Bel giovane, appassionato,
ricco di coraggio e di brio, contava a doz2àne le sue « bonnes for-
tunes». più sostanziose di quella cantata da Alfred de Musset:
« Mon bonheur, tu le vois, veeut une soirée » e sembrava fattoi a
posta per vincere la partita. Ma finora scacco al Re anche per lui.
Aveva iniziato il fuoco, come di solito, con ardenti strali ottici,
con carezzevoli voci, con divagazioni poetiche, con assidue perse-
cuzioni, con ipioggie di fiori e madrigali. Ma sì ! A Bianca Neri !
Appunto per ciò la casta moglie di Renato non si commoveva. Così
facevano tutti i damerini, i Don Giovanni senza commendatore, i
facili spiriti che vanno balzelloni iper i salotti. Nulla di vero, di
serio, di sentito. Mancare al proprio dovere per gettarsi nelle fiamme
divoranti e purificatrici della passione, sì : ma peccare per intricarsi
nelle folte orticaie della volgarità, questo no, mai.
Il tenente, allora, mutò metodo. Si mise a fare il galletto con
altre belline da la sigaretta in bocca, la mano al fianco e le spalle
nude più del necessario. Finse di riawicinarsi a Maria Sargenti,
donna di spiriti liberali, che nel lungo elenco dei beneficati com-
prendeva Renato e lui, non si curò più di Bianca Neri, che salutava
cerimoniosamente da lontano, e attese. Ma neppure questa volta il
pesciolino abboccò all'amo. Intanto Renato osservava e sorrideva:
e forse, o senza forse, il compiacimento del filosofo della scienza
nuova per l'esattezza della diagnosi psichica era maggiore di quello
del marito per la saldezza di così rara « turris eburnea » .
Ma appunto questo eccessivo compiacimento esasperava Bianca.
Possibile che un simile tacchino, un simile pappagallo impagliato
la imbroccasse? Che davvero ella Bianca Neri fosse quell'esemplare
da museo che il filosofo aveva così ampollosamente classificato ? Che
Renato fosse un uomo di genio e lei un'imbecille ? Ah questo no !
64 IL CASO DI BIANCA NERI
III.
Fosse stizza contro Bianca e il tenente, fosse rigurgito di tene-
rezza passata, fatto è che quel giorno Maria Sargenti, la quale da
anni parecchi non parlava al filosofo, avendolo incontrato presso
il Segretariato del popolo, gli offrì la destra, lo attrasse in un canto
e gli parlò, come suol dirsi, col cuore in mano.
Con le amanti collocate a riposo è come con i compagni di scuola :
si può star dieci, venti anni, senza parlarsi e senza vedersi: appena
ci si incontra di nuovo, il lungo evo si discioglie al calore degli
antichi sentimenti e si ritorna d'un tratto al giorno in cui ci èi vide
l'ultima volta.
Così fu tra Renato e Maria. Maria voleva avvertire l'amico del
pericolo che correva, anche per fargli, con arsenicale bonomia, com-
prendere che non era stato un grande acquisto quel matrimonio con
una ragazza per bene. »
Maria Sargenti metteva dunque sull'avviso Renato Alberti circa
i pericoli delle cariche di cavalleria.
— Renato, statevi accorto, — ripeteva nel suo dialetto naipole-
tano. — Quello è 'nu guaglione pericoloso.
— Gara Maria, voi siete molto buona di occuparvi delle cose
mie : grazie ! Ma io sono sicuro di Bianca come di me stesso.
— Ah ! Il solito ritornello. Non lo sapete che proprio questo è
il canto di tutti i merli ?
— Ma i merli sono merli e. io ho passato tutta la mia giovinezza
a studiare il cuore umano.. Credete forse che io sia un merlo?
— Dio me ne guardi ! Ma i libri, sa^pete, la scienza, sono un'altra
cosa Bisogna conoscere la vita reale.
— Ma che libri, che scienza! Le mie teorie, il mio sistema si
fondano sulle osservazioni empiriche; tutte le scienze schio state
fondate così. Aristotile informi.
— Lasciatelo stare questo qua, mo'! Credete a me, non li perdete
di vis^a.
-- Ma, insomma, una donna che ama suo marito e non ama
quello che le fa il cascamorto può tradire l'uomo che ama per quello
che non le piace? Ditelo voi, ohe non siete filosofo.
— Eh ! chi sa? La logica, sapete, in queste cose non cx>nta.
«Con te, avrebbe voluto rispondere Renato, che le facevi iper
gusto professionale, sta bene: ma tu non sei Bianca, per grazia
di Dio ».
Tacque un poco: poi soggiunse:
— Sentite. Il tenente le ha provate tutte: le buone e le cattive:
da più di sei mesi batte il ferro, ma non riesce a scaldarlo. Bianca
lo vede? Come vedesse Pripri il vostro cagnolino. Né bianca nò
rossa, né allegra, né melanconica. Le parla? Presto sbadiglia, e gli
sbadigli repressi vengono fuori nelle contorsioni della bocca e nella
lacrimazione degli occhi. Il tenente va a. fare il bello con questa e
con quella? Bianca non si scomoda neippure a seguirlo con lo sguar-
do. Lo sente nominare? « Non mosse collo né piegò sua costa». Ne
dicono bene? Non si commove. Ne dicono male? Non ascolta nep-
pure. Quando il tenente le stringe la mano, la sua rimane inerte.
IL CASO DI BIANCA NERI 66
Ebbene, sentite, sentite ancora. L'altra notte io ho sofferto una ma-
ledetta angina di gola che mi pareva di soffocare. Mi lamentai un
poco. Bianca saltò dal letto, s avvolse nella sua veste da notte, si
mise al mio capezzale, non si mosse più finché non fui addormen-
tato. L'ho vista io, con questi occhi, pallida per l'ansia del mio male
e per la pena di vedermi soffrire. Fate il ^paragone.
— E che significa? La donna che si concede all'amante e odia
suo marito sta nei romanzi. Nella vita è un'altra cosa, bello mio:
statevi quieto. Nella vita si vuol bene al marito e gli si fa.
IV.
« Mi sono sforzato di scordarv'i; non ho potuto. Perdonatemi.
Domani il reggimento andrà sulla strada di Pasian Schiavonese:
deve arrestare il neanico che avanza: arrestarlo a qualsiasi prezzo.
Saremo duemila contro centomila: è la morte. Non me ne dolgo.
Sono orgoglioso di offrire la mia giovine vita alla Patria: troppo è
durata la fragranza delle rose : vado verso l'alloro. — Non si mente
quando si muore, ha scritto un poeta. Io vi dico in questa ora so-
lenne che non tornerà mai più : voi siete stata la mia unica passione.
Consalvo — lo ricordate? — ottenne il bacio sognato prima di la-
sciare la terra. Sarete voi più severa di Elvira? Né io vi chiedo
tanto... Mi basterà una parola e l'abbandono della vostra mano,
formata dalle Grazie, .perché io abbia un dolcissimo viatico per la
Morte. Debbo partire col treno delle cinque. Vi attenderò alle tre
nel mio eremo di Via Arno. Verrete ? Oh sì che verrete ! Ne la bel-
lezza abita sempre la bontà».
Questa la lettera del tenente, che Bianca ricevette mentre il
marito studiava nella Biblioteca Nazionale i teoremi della Scienza
Nuova.
Perchè Bianca Neri, che era stata sempre sorda agli apj3elli
del bell'ufficiale, si sentì tocca questa volta nel più secreto taber-
nacolo del suo cuore multiforme? Lasciamo stare i perché: fatto é
che Bianca, ricevuta la lettera, stabilì senz'altro di andare dal te-
nente. Quando? Alle tre? Troppo presto. Diamine! Pareva che
avesse fretta più di lui. Alle quattro? Troppo tardi: era crudele
farlo attendere con lo spasimo dell'ansia così a lungo; e poi se par-
tiva alle cinque... Alle tre e mezza. Ecco: benissimo.
Nelle brevi ore che la separavano dalle tre e mezza, soffrì qual-
che esitazione di coscienza, un poco di rimorso per Renato, un poco
di timore, se fosse scoperta: un poco di vergogna. Ma Renato se lo
meritava appunto per la sua sicurezza esasperante e per le sue
teorie baggiane; il timore era assurdo e la vergogna senza ragione.
Infine, non si trattava che di andare a dir addio a un nobile cuore
che l'adorava e .palpitava forse sulle soglie della morte. Era ben
sicura ella che non le avrebbero strappato altro che un addio sia
pure dolcissimo. L'illusione di tutte : nessuna donna, quando si mette
a discendere la scala, pensa di ruzzolare fino in fondo.
Studiò di farsi più bella Bianca Neri. Perché desiderava di
piacere di più al tenente? Per infiorare di più fragrante ghirlanda
il capo della vittima? Non si sa. Si sa ohe indossò il vestito che le
56 IL CASO DI BIANCA NEBI
stava meglio, ornò il seno di una rosa rossa fiammante (dolce al-
lusione alle pose della lettera?), si profumò di ambra grigia, im-
memore o forse memore dei versi del Baudelaire sulla sua potenza
fascinatrice, e partì.
Alla narrazione romantica si sarebbe addetta meglio un'auto-
mobile Fiat o almeno una vittoria tirata da due cavalli inglesi; ma
Bianca dovette accontentarsi di una di quelle vetture da nolo che, a
espiazione dei peccati, il Comune concede ai cittadini dell'augusta
metropoli. Ma sì r Accontentarsi ? Appena gli automedonti, dalla
faccia di galeotti inebetiti dal sole e dal vino, udivano che si doveva
andare in Via Arno, una frustata e via. Le rozze sgranchivano le
zampe rattrappite e trotterellando sbilenche tra l'assordante fragore
delle ruote arrugginite sulle selci sconnesse, se la svignavano.
Ci volle tutta la pazienza e l'astuzia di Bianca per indurre un
giovinotto — simbolo vivente della più autentica teppa — a cedere al
supplichevole invito: ci vollero, per dir meglio, dieci lire. Ma ap-
pena Bianca Neri fu salita nella sgangherata vettura, comprese che
quello era forse l'ultimo giorno della sua vita. Il giovinotto frustava
la rozza con furore bacchico, lanciando la cordicella a fantastica
altezza col braccio levato, quasi a brandire la clava di Ercole, e,
«cic-ciac», facendola ricadere sulle malcapitate ossa con fragore
di sibili e di scoppi. La rozza finalmente tornò in sé stessa, cioè
imbestialì, e via a precipizio trascinando. a zig-zag per le strade la
carrozzella sconquassata, nella quale, aggrappandosi al mantice
lercio e non redolente di gigli, Bianca si sforzava di rimanere se-
duta.
— Piano, piano ! Siete pazzo? Ma che è ? Piano : ho paura.
Niente. A una svolta si udì solo gridare dalla cassetta:
— Solo còsi il cavallo può arrivare a Via Arno, mannag^gia
l'anima... E seguì uno dei soliti fiori del bel parlar gentile del
vetturino romanesco.
La gente si faceva da parte accostandosi spaventata al muro:
chi scagliava dietro al vetturino una maledizione, chi un'ingiuria,
chi un grido d'orrore.
Ma niente : « cic-ciac » , avanti !
È doloroso constatarlo, ma Bianca Neri non pensava più affatto
al prossimo drammatico colloquio, né al bel tenente né, tanto meno,
all'onore dello psicologo in pericolo. Aveva semplicemente paura
e basta.
Ma ecco un colpo come di tuono : un grido, imo sbalzo. Bianca
Neri è distesa sull'acciottolato, la vettura è infranta, il cavallo mezzo
morto, il vetturino a gambe all'aria. Un carrozzone del tram sboc-
cando da Via Agostino Depretis ha cozzato contro la vettura lan-
ciata a precipizio e l'ha sventrata.
La gente si affolla : il tramviere, regolarmente, se la dà a gambe.
— Signora ! O povera signora ! 3i ode da tutte le parti, quan-
d'^ecco, facendosi largo, s'avanza una guardia municipale. Pare
favola che in un'occasione simile si sia trovata a Roma una guardia
municipale. Ma così è : questa volta c'era. La guardia era un roma-
nesco pacifico, ignaro di ogni nozione di dovere e di disciplina, che
aveva lasciato per tempo immemorabile andar libere di notte tutte
le biciclette a corsa sfrenata senza lampada e senza campanello, che
IL CASO DI BL\NCA NERI 57
aveva sempre voltato la t-esta dall'altra parte quando s'era incontrato
in teppisti intenti a trasformare i palazzi del Corso Vittorio Ema-
nuele in templi di Vespasiano, che s'era sempre fìnto sordo a tutti
i reclami e cacciato nel folto buio delle strade traverse a ogni sentore
di rissa o d'altro accidente.
Appunto perciò, ora che non si arrischiava nulla, s'incaparbì
quasi con furore nella sua parte di guardia.
Bianca, fatta di porpora dalla vergogna, ma lieta d'essersela
cavata a buon mercato, con una lieve ferita nella testa, s'era rial-
zata, ravviava le sue vesti e non cercava di meglio che andarsene.
Ma c'era il Quirite.
— No, signora. Io ho il dovere di accompagnarla al Policlinico.
No, no ! non sarà mai ! Che direbbero i miei superiori ?
Bianca piangeva di rabbia: e l'altro credeva ohe -piangesse di
dolore. Non ci fu verso. In un'altra vettura al Policlinico. Quando
ne uscì erano le cinque: tardi. Oh se, al contrario, fosse andata!
Il tenente era sempre là ad attenderla, non ipartiva che alle sette:
aveva scritto alle cinque per farla venir prima, aver agio maggiore...
Ma anche le favole d'Esopo insegnano che la frode è pena a sé
stessa.
Bianca Neri tornò in casa.
Un'altra, rivedendo il marito dopo averlo fatto spenzolare sul-
l'abisso per un filo, il marito che, nello scorgerle la testa infasciata,
s'era fatto con amorosa sollecitudine a domandarle che . fosse e,
dopo, l'aveva baciata in fronte per la gioia di saperla salva, un'altra,
ripeto, fra il pentimento il rimorso e la gratitudine, gli si sarebbe
gettata al collo. Ma questo non voleva e non poteva Bianca Neri, che,
sentendosi un /poco ridicola, pensando al i>ericolo corso e conclu
dendo che tutto ciò era effetto della scempia condotta di suo marito,
gli rispose con mal garbo e verde acredine.
— Ma perchè, gioia mia? Io so che sei un tesoro e lo diceva
poco fa anche a Maria Sargenti, ohe voleva insinuare... non so...
che il tenente non ti era sgradito. Figurati, tu... Ci metterei le mani
sul fuoco !
— E te le bruceresti, gridò Bianca fuor di sé dalla esaspera-
zione.
Ma, al subito pallore di Renato, che aveva veduto in un istante
rovinare insieme la felicità coniugale e la scien2a nuova, soggiunse
ridendo :
— Ho scherzato, via: ti pare, se mai, che sarei così sciocca
da dirtelo?
Alfredo Baccelli.
L PITTORE LUIGI SERRA
(1846-1888)
Il nome e l'opera di Luigi Serra, legati alla generazione che
precedette la nostra, hanno patito la congiura del silenzio. Educato
sulla tradizione paesana, egli non com'pì altre conquiste che non
fossero interiori, e gli mancò il tempo di varcare i confini della
patria.
A Bologna, dove era nato, si preparò quietamente alla disci<plina
dello studio, prima nel Goll^io Venturoli, poi nell'Accademia di
Belle Arti. Ma l'insegnamento pedante, irrazionale ohe si praticava
a quei tempi, non suggeriva che poche sillabe al giovanetto, così
diverso dagli altri scolari. In quei primi anni, egli pennelleggiava
come vien viene, e con scarso giudizio. Soltanto più tardi divenne
severo con se stesso, come uno cui s'è aiperta la via della verità.
Nel 1868 esponeva alla Società Protettrice bolognese un quadro
di piccole dimensioni, che rappresentava «Maria dei Medici esiliata
nel castello di Blois», dov'è manifesta, coi difettucci del princi-
piante, la volontà di rendere il carattere della donna condannata
alla solitudine e alla noia dell'esilio.
L'argomento storico è assai caro al Serra giovane: il quale,
quando è libero nella scelta, approfitta di episodi che rivelano piut-
tosto la combattuta intimità che l'apparenza estema dei personaggi,
siano essi martiri o carnefici, eroi o malfattori.
Quando — nel 1868 — egli potè compiere il suo primo viaggio
a Firenze, ed entrare nelle Gallerie d'Arte Antica, poipolate di quadri
del Quattrocento, il suo appetito trovò alfine il cibo che agognava.
Si entusiasmò del sentimento che anima quei dipinti; e l'accura-
tezza della tecnica, la padronanza della forma, la precisione dei
contorni, entrarono fin da allora nella pratica del suo lavoro. Egli,
che già disamava i pittori viventi, si mise a copiare con rispetto in-
finito alcuni particolari dei quadri di Fra Filippo Lippi. Poi s'af-
fidò in braccio alla natura.
L'arte del Serra muove dunque non da (predecessori immediati,
ma dagli antichi maestri, sopratutto da Giovanni Bellini e da Andrea
Mantegna, dei quali egli contempla, senza stancarsi, le Madonne e
i Santi.
Una fotografia del 1868 rappresenta il Serra, giovane robusto,
col viso serio e sbarbato, dai lineamenti netti; il naso sensitivo, e
gli occhi profondi, scrutatori sotto la fronte larghissima. La sua
faccia mut^ più tardi, quando si fece crescere intomo una barbetta
breve e ricciuta. Ma l'espressione rimase sempre quella d'un uomo
illuminato di bontà e vivente con se stesso, òhe egli dovette esser
IL PITTORE LUIGI SERRA 59
bello, penso non solo per le testimonianze concordi di coloro che
lo conobbero e lo amarono, ma per la felice mescolanza d'uomo e
d'artista che era in lui, per quella singolare sincerità della sua in-
dole, che d'altra parte gli fu di tanto inciampo nella vita.
Al concorso del Pensionato Angiolini egli aveva presentato un
bellissimo saggio « Annibale Bentivoglio prigioniero nel Castello di
Vai-ano», e fu premiato con un assegno in danaro per quattro anni.
DofK) il « Bentivoglio » , espose una seconda tela, « Laura » , che fu
molto ammirata. Ma dai saggi collegiali il Serra moveva senza in-
dugi ad opere forti e indipendenti; tra le quali primeggia al pari
d'una scoltura la eloquentissima «Jone».
La donna, espressione elementare e completa della natura, lo
interessava moltissimo. Egli non ne indagava le eleganze esteriori,
che così spesso dimenticano, nella pittura come nelle altre arti, i
fatti personali della passione e del dolore umano; piutt<^to cercava
di carpirne quelli intimi segreti che tanto giovano ad un'opera, la
quale vivrà più di essi.
Il Serra non seppe mai liberarsi del tutto dalla pittura di co-
stume. Era un entusiasta della storia; la sua immaginazione si spro-
fondava pili volentieri nel passato che nell'avvenire. Egli fu in-
somma continuatore, non iniziatore; tradizionalista nel senso piìi
vasto della parola.
Nel 1873 il Serra fece il suo unico viaggio all'estero, insieme
ai pittori suoi concittadini Mario De Maria, Paolo Redini e Raffaello
Faccioli. Rimasero a Vienna due mesi, e il Serra cantava allegro
nell'allegra compagnia. Poi, prima di tornare in Italia, visitarono
Monaco di Baviera. Non mi risulta che egli riportasse particolari
impressioni da codesto viaggio; né conosco alcun suo quadro com-
piuto in quel periodo; ma solo bozzetti e studi d'eccezionale bravura.
]\Iarco Galderini lo descrive quale lo vide nel 1874 a Torino:
« Era allora il Serra un bellissimo giovane, un tipo perfetto di razza
greco-romana: statura e costituzione giusta, svelta, molti capelli,
neri e ricciuti, colore, poco, gli occhi neri penetranti, il viso pen-
soso, l'insieme proprio virile e forte. Il discorso poi era schietto,
rapido, lo spirito pronto, l'affabilità pure, senza sussiego, il tempe-
ramento ardito e pure raccolto... »
La sua ^personalità cominciò a manifestarsi meglio, in un boz-
zetto, «Michelangelo al letto del morente suo servo Urbino», col
quale vinse il concorso per la pensione triennale governativa, nel
1875. In quello stesso anno fu chiamato a dipingere il sipario e al-
cune figure della vòlta, nel Teatro Gentile in Fabriano.
•
• •
Discorrere di Luigi Serra disegnatore: ecco una cosa da gra-
dire. I suoi primi schizzi di persone, d'animali, e d'utensili, segnati
con timidezza su piccoli fogli di carta, portano la data del 1874.
Sono delle sagome sottilissime, a matita, ancora incerte, sminuz-
zate qua e là; \i s'indovina appena, in embrione, il futuro maestro
delle linee e dei contorni.
Le cartelle de' suoi studi sono argomento d'osservazione ignoto
a quanti potrebbero amarle e diffonderne la conoscenza. Sono qua-
60 IL PITTORE LUIGI SERRA
ranta di numero, e contengono una mole di circa seimila disegni
in matita, in penna, e saggi vari di colore. Le cartelle sono disposte
cronologicamente, e i fogli recano, di pugno del Serra, oltre all'in-
dicazione del soggetto, il giorno e talvolta l'ora d'esecuzione.
Codesta pazienza quotidiana non si stancava né per le vie né
agli spettacoli, e in ogni luogo chiedeva alla matita la sincera im-
mediatezza della verità, oltre alla consapevolezza del documento.
La sera egli incollava e catalogava i foglietti volanti del suo tac-
cuino, affinchè il lavoro potesse presto o tardi giovargli, e non an-
dasse siperduto. Tale cura quotidiana testimonia l'alto concetto nel
quale egli teneva l'arte sua.
Sono quasi sempre studi dal vero. Ciascuna cartella si riferisce
ad un soggetto solo, come animali, mascherate, processioni, strade
e palazzi. Altre raccolgono le faticose prove e riprove dell'artista per
l'esecuzione d'un dipinto: allora gli studi non finiscono mai. Son
profili visti appena, una prima volta, di scorcio, passando per una
strada o all'angolo d'una piazza. Ora la sagoma d'un naso e d'una
fronte si stendono; guardo qua il contomo d'una testa: non intera,
si delinea a poco a poco, si riempie e matura come un frutto. Ecco
un'espressione che La caratterizza; adesso ride, pensa, sofTre; final-
mente sembra preparata ad accogliere i primi baci del pennello. La
rivedo più oltre, dentro una gabbia di linee ohe la intersecano,
perchè vogliono misiu*arla. Ogni linea ha un numero; le linee nu-
merate s'incrociano verticalmente con altre linee numerate: è la
proporzione, che non deve mancare. Ma ecco altre sorprese. Ci sono
delle linee tj*asversali, le quali richiamano categoricamente alla pro-
spettiva. L'artista non pretende d'indovinare; disprezza l'approssi-
mazione, il mi pare; vuole la riprova come un aritmetico nelle cifre.
Apro una cartella dove sono studiati dei bimbi di pochi mesi.
Non si vedono che membra staccate, incomplete, rotte qua e là non
per importanza o pentimento del disegnatore, ma perché il model-
lino irrequieto s'è mosso : tre quarti d'un tenero cranio, le pieghe
d'una coscia, le morbide risegole; gli occhi, un orecchio, tre, quattro
dita d'un piede, con le falangi che vibrano, si spostano di continuo.
Il neonato non sta fermo un momento, e l'artista non pretende di
ritrarre se non le parti immobili. Se un membro si muove, la ma-
tita cerca altrove, poiché non ammette alcuna alterazione della ve-
rità
Certo la natura ebbe pochi adoratori scrupolosi quanto Luigi
Serra. Come la cartella dei bimbi, si esprimono tutte le altre: bestie
d'ogni sorta, profili di case, pieghe di manti, particolari da nulla
talvolta accesi dal bagliore d'una pennellata che ne indora la so-
stanza senza alterare i contomi. Gli oggetti sono nitidi, spiccati da-
vanti a lui : il ramo dell albero come il pomo, lo stecco della siepe
come il sasso della strada. L'atmosfera sgombra non convince l'oc-
chio a nebbiose mollezze, a facili tradimenti. Le cose hanno una
statica gravità ohe si distingue nell'aria come si distinguono le linee
ad inchiostro sopra la carta bianca.
Qualche volta viene la voglia di l^gere i titoli dei diversi studi :
curiosi soggetti, motivi effimeri d'ogni giomo e d'ogni ora. Ci sono
ordini di palchi d'un teatro visti dal lubbione, obelischi eretti nel
mezzo d'una piazza contornata come un'aiuola, tube e piedi di per-
IL PITTORE LUIGI SERRA 61
sone che compongono un corteo, gruppi di mendicanti sulla gra-
dinata duna chiesa, comizi di popolo con ceffi barbuti e occhialuti,
cavalli al trotto in una piazza d'armi, fanciulle inginocchiate dentro
le chiese, donnicciuole che comareggiano da uscio a uscio, archi
trionfali per feste subito preparate e subito dimenticate, laula della
Corte d'Assise durante un processo celebre; e sempre appunti di
colore, accenni di tonalità da non dimenticare.
Se la scena, quale gli appare davanti o disotto, è ampia, egli
prosegue a rappresentarla da foglio a foglio nel suo taccuino, quasi
uno scrittore che prenda appunti. Quando sarà giunto a casa, li in-
collerà in fila uno dopo l'altro, formando una visione che chiamerò
cinematografica iper intenderci, e che nessun altro pittore seppe così
indovinare avanti di lui. La folla lo interessa, lo appassiona; studia,
misura le masse da ritrarre con segni elementari ed essenziali. Come
scruta, come penetra i particolari che sfuggono agli altri! Conta
sulle dita delle mani, calcola, proporziona.
Tutto egli guarda e ritrae. Con matita dura scalfisce i foglietti
di carta leggiera del taccuino, quasi tentasse delle sculture. Il segno
è deciso sempre, tanto che per migliaia di studi non ho visto un
pentimento, una cancellatura. Matita e penna sono guidate dalla
sua mano con istinto infallibile, che non lo abbandona un momento.
Scorrendo i fogli, sorge di tanto in tanto un disegno di linee
pili angolose, più rotte, con strani ghiribizzi e riprese violente : sono
i disegni eseguiti alla rovescia; quelli tentati per via, sotto il man-
tello, senza il controllo dell'occhio. Sono schizzi buttati giù di notte,
alla chetichella, in un rione oscuro e deserto; sagome di case de-
crepite che aspettano U piccone; effetti di luna sopra un quartiere
eccentrico. Così egli tiene all'erta la sua bravura, la sfida a coni-
piere delle prodezze airimpro\'^so.
La prodigiosa attitudine aJ disegno si maritava in lui alla pas-
sione incontentabile della ricerca, alla religione della realtà. Le
prove delle sue indagini riescono infatti il migliore insanamente
a chi pratichi l'arte non per mestiere, ma per bisogno dello spirito.
Egli sente in sommo grado lo sdegno d'ogni artificio malizioso o
raffinato, il disprezzo dei mezzi eccessivi; e la cruda coscienza del
proprio individualismo, la quale è il segreto della forza che riempie
tutta quanta l'opera sua. Codesta coscienza sofferente, ma non mai
intorbidata né inquinata od ottenebrata da influssi passeggeri, dà
armonia alle sue aspirazioni e limpidezza a' suoi concetti. Nell'arte
sua traluce il dramma personale, e la volontà disciplinata d'un
uomo che non costruisce alla brava nemmeno uno stecco, e dove
lavora mette il vivo fuoco del suo spirito.
L'opera del Serra vuol essere sopratutto una testimonianza
ideale. Rivela infatti un carattere, una personalità che intendeva —
contro le false degradazioni ohe la circondano — restaurare ideal-
mente l'arte della pittura.
Il suo amore della realtà non è soltanto formale, ma deriva e
prende continuo alimento dall'anima. Pochi pittori italiani furono
più sinceramente idealisti di lui, fuori d'ogn astrazione e dentro
ogni atto quotidiano. L'arte del Serra, troppo ricca di preparazione
per esser numerosa nei resultati finali, bella di precisa incompiu-
tezza, esercita sopra di noi un fascino religioso, indimenticabile, che
62 IL PIITORE LUIGI SERRA
viene dalla sua commossa volontà, dalla severa sapienza de' suoi
teoremi estetici ben dimostrati, i quali stringono la mente e pre-
mono il cuore di chi guarda ben disposto. Comparandosi al grigio
branco dei mestieranti che si vedeva attorno, egli sognò un'alba or-
gogliosa che sconvolgesse e animasse di nuova luce quel pennelleg-
giare senza distinzioni, senza individualità e senza ideali. Né si
aspettava altro conforto all'infuori di quello che potevano dargli le
fatiche rivelatrici de' suoi giorni operosi.
•
• •
La singolarissima potenza di Luigi Serra nell'arte del disegno
ha trattenuto i critici dal vantarne le qualità di colorista. Fu detto
che i suoi quadri son pochi, e si volle censurare nella scarsezza del
numero l'inabilità della mano, che era invece profìcuo tormento.
Nell'esaminare la nobile e complessa figura di questo poderoso
artista, bisogna pur muovere dalle minime cose, dai cartoncini e-
dalle tavolette a colore, che sono anch'esse — al pari dei disegni —
prove eccellenti della sua continua preparazione. Certi studi minuti
e bozzetti succosi, come cespugli di verde intinti di fragili sfuma-
ture, lo spicco morbido e bianco di due rose aperte, un muretto ac-
carezzato dal sole, o sagome consunte di pietre sgranate come l'epi-
dermide d'un corpo nudo, i partiti delle (pieghe d'un mantello, le
gambe solide d'una scranna, cose viste una prima volta, poi so-
gnate e riprese, frugate, riprodotte trenta volte con curiosità sempre
diversa: sono embrioni d'un tutto ohe traspare da ogni pennellata,
come un vetro spezzato nei frantumi.
Luigi Serra prova un poetico interesse per tutto ciò ohe vede.
Un niente lo fa pensieroso e lo ispira. Talora affronta dei tparticolari
come fossero delle piramidi : in uno spazio irrisorio s'immerge beato
scorgendo delle ampiezze, delle lontananze che sono ignote agli altri.
Oggi una mano scarna o una vermiglia coccinella, domani uno sten-
dardo multicolore o un ciottolo iridescente, possono farlo felice. Ma
non amplifica, non snatura le cose: le vede quali sono, rendendole
senza alterazioni o sforzi inopportuni. Il suo pennello, dotato e in-
dagatore, castiga gli effetti volontariamente.
Prodigo nella ricerca, si fa poi avaro allorché deve spenderne
i resultati. Sente che c'è del mistero in ogni aspetto della natura, e
si sforza d'addentrarli, d'interpretarli. È la sua coscienza che non
dorme, e mai non lo abbandona. A lui infatti non si possono rim-
proverare appagamenti superficiali; la sua gioia è interna, diffìcile
a conseguire. Sa che le perle stanno nel fondo, e" a~ galla non tre-
mano altro ohe le foglie.
Esaminati uno per uno, certi suoi bozzetti sono dei delicati do-
cumenti di pittura, nei quali i rapporti sono pesati, resi con effetti
sinceri: indovini il calore della terra smossa tra l'erba, cerre nel-
l'azzurro l'aria vaporosa e leggiera, e perfino i petali dei fiori, le
frange delle nubi, staccano dallo stelo e dal cielo con deciso vigore.
Dagli studi eseguiti all'Accademia, ai numerosi abbozzi iper i
S»uoi maggiori ed ultimi dipinti, quale operosità schietta e confor-
tante !
IL PITTORE LUIGI SERRA 63
Non è facile suddividere l'opera del Serra in diversi periodi.
La sua incontentabilità di cercatore presta a tutta quanta l'arte sua
una continuità progressiva senza stacchi e riprese. L'ultimo saggio
della pensione governativa fu « Al Monte di Pietà », nel quale aveva
a poco a poco concentrato tutta la sua attenzione sopra una vecchia
d'evidenza straordinaria. Ma a forza d'eccedere nei particolari, egli
perdette di vista l'effetto totale, come più tardi nel « San Carlo ai
Catinari » , dove pure avea speso le migliori energie della sua matu-
rità artistica.
Soleva ripetere, a chi gli rimproverava incerteaaa e pigrizia:
« L'artista deve es^uire poche opere, ma che siano il resultato di
grandi studi, di fatica, e d'affanni ». Disprezzava i pittori troppo
prolifici, dalla produzione floscia e snervata. Praticava d'istinto
quanto scrisse il Ruskin, ohe cioè sia regola d'onestà non abbando-
nare un'opera fin che sia possibile farla progredire d'un tócco e
d'un (pensiero. La sua lotta pel successo fu una milizia troppo dura
ed onesta. Sempre in bisogno, non volle avvilirsi al commercio, né
inginocchiarsi alla moda; rassegnato a soccombere pur di non ce-
dere : cavaliere dell'arte sua.
Così rimase estraneo alle facilonerie che allora andavano coi
nomi d'impressione e di macchia; né accettò mai accomodamenti o
transazioni per quanto riguarda il vero visto in movimento. La sua
sicurezza, che trionfava di rado, aveva bisogno di fatica, la quale
non si vergognava di mostrarsi. Il suo pensiero fu organica com-
prensione della vita; vita; ala della vita qualche volta. Del resto egli
conservò sempre la sua libertà spirituale, che fu una specie di do-
lorosa saggezza temprata in una ricerca metodica e incontentabile.
Se ne scorgono i frutti nell'energia di carattere e d'espressione che
impronta tutte le sue opere; nei visi corrugati e nelle pietre consunte,
nella voluttà lasciata per intero alle cose che egli ritrae.
•
• •
Trasferitosi a Roma nel 1879, il Serra sentì ohe era giunta l'ora
della sua pdenezza artistica. I^ sua passione al lavoro parve rad-
doppiarsi.
Disegnava sempre; coloriva di quaiido in quando. Non preten-
deva mai di fare un'opera definitiva. Egli provava, riprovava; e in
questo esercizio là stanchezza non lo coglieva mai.
I quartieri eccentrici di Roma, gli abbattimenti delle cata{)ecchie
e il sorgere dei nuovi palazzi, lo interessavano come fatti domestici,
che lo riguardassero. Dagli alberi passava a disegnare le persone,
e viceversa, con piacere ininterrotto. La città lo avvinceva quanto
la campagna. Di marzo andava girellando per quelle piane desolate,
con gli occhi al cielo, e dipingeva le nubi, tra i lembi turchini che
hanno ampiezze tranquille di laghi; i tramonti che accendono mi-
schie sonore e sanguinose sui ruderi sparsi per l'Agro romano! Quan-
do c'era la luna, lavorava anche di notte. Nella campagna laziale
annota tutto: la terra, le siepi, le case; i contadini che zappano, i
barroccini coi loro carichi diversi; e il cielo sopra, immenso come i
poemi dell'antichità, e come i sogni dell'adolescenza.
Tuttavia gli rimane il tenrpo di meditare, compulsar libri, ri-
64 IL PITTORE LUIGI SERRA
cavandone aippunti e notizie preziose; poiché — prima di chiedere
ispirazione al suo ingegno — ricorreva sempre alle fonti che pote-
vano illuminarlo sul soggetto che prendeva a trattare. Quando il
principe don Alessandro Torlonia lo invitò a dipingere nel catino
dell abside di Santa Maria della Vittoria in Roma, « L'ingresso delle
truppe austriache in Praga, dopo la vittoria della Montagna bianca»,
egli fece un'infinità di ricerche erudite sulla guerra dei Trent'anni.
Elccolo poi intento ad analizzare, su centinaia di piccoli fogli, archi-
bugieri, portatrofei, capitani e valletti, alabardieri e trombettieri,
teste d'uomini e di donne curiose nella folla; e vecchi, bambini; pri-
gionieri, e cavalli, soldati, vessilli, alabarde a perdita d'occhio.
Basta quest'ultimo affresco, terso, limpido, esultante e come
scolpito nell'aria e nella luce, per affermare che il Serra fu eccel-
lente maestro non solo nel disegno, ma anche nella pittura.
Nel 1881 ebbe il più grande dolore della sua vita : la sconfìtta
nel concorso per la decorazione del Senato, che fu affidata invece
al Maccari. Delusioni ed a^narezae non mancarono quindi per lui,
sia per la «Madonna e Santi», ora alla Galleria Nazionale d'Arte
Moderna in Roma, sia per ritratti rifiutati dai committenti, sia per
allogagioni di opere, ohe non ebbero sèguito.
La sensibilità tormentosa e le continue delusioni del Serra ap-
paiono negli sfoghi sinceri delle sue lettere ai (pochissimi amici,
specie in alcuni brani inviali allo scultore Enrico Barberi negli anni
1882 e seguenti. Sono confessioni ritmate con ansia febbrile, buttate
giiì in furia con abbondanza d'avverbi e di superlativi, nei quali
traluce l'amore all'arte che lo infiamma, l'incrollabile e scrupoloso
convincimento che guida il suo lavoro.
Il Calderini lo rammenta nel novembre 1883 a Roma. Aveva
allora il suo studio in via Quattro Fontane : « uno stanzone alto di
soffitto e mal chiuso, con davanti un terrazzino allegro e un vasto
terreno tenuto a orti, non ancora invaso dai casoni di Roma nuova.
Sul terrazzino venivano, tra alcuni fiori, i colombi famigliari del
Serra, coi quali egli parlava, come il buon San Francesco d'Assisi
del suo quaidro pei frati del Cestello».
Il lavoro, e le delusioni dell'anima, in un corpo deperito da una
grave malattia, gli facevano scrivere, quando era ormai prossimo
, ai quarant'anni e alla fine : « Io vivo sempre nell'oscurità. La mia
' stella è lontana e non spunta ancora. Non vorrei che spuntasse sul
mio cataletto ».
Per dodici mesi lavorò intorno alla poderosa opera «< San Carlo
li Catinari ». Non appena la ebbe terminata, riprese i suoi studi
crudetti e senza malizia, di nudo e di paese. Pennelleggiava la cu-
pola di San Pietro nel cielo frangiato di nuvole bianche e rosee;
stampava su carta e su tela la testa energica dell'allieva, dieci, venti
volte, in maniera sempre diversa. Poiché insistere era sempre il suo
svago e il suo rovello.
La sua pittura elementare e personalissima appare come eman-
cipata dai limiti del tempo e della bellezza. Vi si notano tuttavia
dei -passaggi progressivi da una tavolozza potente ad una visione
più chiara, celestiale del colore. Specie nel rendere l'aria, ^li chia-
ma a raccolta le vaporosità più tenui e trasparenti, gentilezze che
direi femminee, alle quali la sua virilità si piega come ad una ca-
IL PITTORE LUIGI SERRA 65
rezza. I calici dei gigli, per esempio, gli escono dal pennello madidi
duna castità monacale.
« Preparati a vedermi strano, qualche volta piangente come un
bambino, scontento mai! », così scriveva al Barberi il i9 gennaio
del 1886, mentre la sua passione ricominciava davanti ad un nuovo
lavoro da compiere : r« Irnerio » per la Sala del Consiglio Provin-
ciale in Bologna.
In quell'anno fervevano i preparativi per l'ottavo centenario
dello Studio, che ricorreva nel 1888. Così r« Irnerio » del Serra cam-
peggiò sullo sfondo della città sfolgorante, di torri. Capire il gran
dottore, coglierlo nell'atto stesso della sua vocazione, era per l'artista
la risoluzione per problema. Così per ritrarre « Irnerio che riunisce
è glossa i frammenti delle Pandette » egli passò delle giornate intere
nelle Biblioteche di Roma ad osservare e disegnare gli studiosi che
esaminavano gli antichi manoscritti e palinsesti, affinchè quelle di-
verse attitudini di profondo raccoglimento gli suggerissero ciò che
gli abbisognava. Dopo studii, prove, abbozzi innumerevoli, ecco il
dottore e maestro nella cattedra dell'antico studio. A' suoi piedi, nel
verde dei campi e nel sereno del cielo che lo circondano, la natura
accoglie il popolo bolognese, e gli armati in piedi, sui cavalli, con le
insegne e i pavesi multicolori, che buttano ovunque note di festa.
« In quella rappresentazione l'arte fu spirito poetico della storia » :
acclamò il Carducci nel suo celebre discorso commemorativo.
•
• •
La malattia continuava intanto ad opprimerlo, a turbare fin
troppo la quiete che è tanto necessaria all'arte. Per lui, abituato a
combattere, la vittoria non giungeva mai, se non quella intima, che
da sola non basta al cuore dell'uomo.
Ho accennato di volo alle qualità superiori di ritrattista che pos-
sedette Luigi Serra. Certo il florido, plastico « Ritratto della signora
Enrica Merlani » è uno dei più sugosi, e sta a paro con uno della
madre, con due o tre dell'allieva, e con quello stupendo di Federico
de Maria. Largo, violento, è l'autoritratto a colori del 1887, di tinte
rossobrune, e un fare opaco, affumicato, di grandissimo effetto.
Il Serra raggiunse un'altezza, finora mai toccata da artisti ita-
liani moderni, nella « Testa d'una morta », forse più suggestiva della
« Testa d'un morto » di Giovanni Segantini; e nel capo di un monaco,
eseguito a Roma nel 1879, allorché lavorava in Santa Maria della
Vittoria. La fronte rugosa, le grinze tutte della faccia, i capelli, i
baffi, la barba son resi con fluida imponenza.
Una penetrazione anche più condensata e profonda si può scor-
gere in uno « Studio di testa » del 1887, disegno in penna, che scar-
nisce signorilmente quel volto di popolano, lo viviseziona, ne fruga,
conta, misura le ossa; brusco, deciso, possente come il ferro d'un mi-
racoloso chirurgo e la parola d'un poeta immortale. Esso annunzia
e prepara l'affascinante « Autoritratto » in penna del 1888, espres-
sione definitiva, disperata della sua arte, cui il destino stava per tron-
care la via per sempre.
In quell'ultimo periodo della sua vita ebbe dal duca di Ceri l'or-
dinazione d'una pala d'altare raffigurante « San Giovanni Nepomu-
5 Voi. CCKXl, serie VI — 1" gennaio 1922.
66 IL PITTORE LUIGI SERRA
ceno martirizzato da Venceslao ». Per codesta pala eseguì tre box-
zetti, di diverso valore e interesse. Nel primo si rivela il felice arric-
chirsi della tavolozza del Serra, densa e vaporosa insieme, d'un can-
giante continuo che non s'adagia più in toni uniti e duri, ma si fonde
e si sposa senza schianto. Nel secondo la scena presenta una mag-
giore ampiezza, una più riposata consistenza di composizione, e la
gloria del Santo vi è manifestata umanamente, senza ricorrere ai
mezzi propri ai moderni^ pittori di chiesa. L'ultimo bozzetto aveva,
nell'insieme, perduto d'efficacia e d'immediatezza rispetto ai prece-
denti. E forse il Serra, dipingendo poi il quadro, vi avrebbe appor-
tato altri mutamenti. Senonchè venne a troncarli, repentina, la
morte.
Il tramonto rapido e tragico dell'esistenza d'un artista così di-
gnitoso, seguito da così lunga notte di silenzio, comunica al cuore
un'ombra di sgomento e di sconforto.
Ma per chi sappia quanto l'onestà — nella vita e nell'arte — ri-
manga estranea ai battimani spensierati delle folle, la figura solita-
ria, addolorata di questo maestro infaticabile, giganteggia via via
che s'allontana negli anni, e promette di non perdere la sua bella
statura nell'avvenire.
Francesco Sapori.
NEL CENTENARIO DI SISTO V
Dopo quattro secoli, la figura grande e
terribile del famoso papa marchigiano riap-
pare, con le sue linee michelangiolesche di-
nanzi alla mente degli italiani in occasione
dell' imminente centenario. Già or non è
molto P. Sterbini, in un interessante arti-
colo sul « Giornale d'Italia », rilevava a pro-
posito della precipitazione nel decretare
provvedimenti dovuti poi rimangiare, una
certa simiglianza di carattere tra .Sisto V e
F^io X. E niuno avrebbe mai pensato che la
pia e mite anima del buon papa l^arto po-
tesse avere dei punti di contatto con quella
dell'implacabile Peretti!,.. Il prof. Vincenzo
Sisto V Rocchi rievocò, riproducendo anche una
stami>a del secolo xvi, il ricordo di una mis-
sione di donne venute dalla Libia a portar doni ed omaggi a Sisto V,
con la predizione per giunta che papa Peretti avrebbe esteso il suo
dominio in quelle terre, sulle quali ora sventola la bandiera d'Italia.
La donna araba, che capitanava la missione, offrendo i doni, avreb-
be, secondo il poeta del tempo, detto al gran Papa:
^■^ Accìpe primitias, regni presaga futuri,
^ Africa quas mittds, foemina quasque refert. *
I E che la vasta mente di Sisto vagheggiasse la dominazione di parte
I dell'Africa mediterranea non è diflBcile credere se ^li, come attesta
' qualche cronista contemporaneo, tra le grandiose opere progettate
aveva incluso anche il taglio dell'Istmo di Suez!...
I Fu Sisto V il più possente interprete del pensiero di dominazione
universale del papato; che paragonavasi al sole, dal quale ricevevano
a e luce, come pianeti o satelliti, tutti i sovrani cattolici... Ma egli
a.-^surse troppo tardi al soglio o morì troppo presto. E in lui si spense,
I con superbo e splendido sfolgorìo prima del tramonto, il sole della
! mondiale supremazia politica dei Papi. È bene quindi rievocare la
Ì figura caratteristia dal lato umano e politico.
A prescindere dalla probabilità che Sisto V avesse concepito tra
i primi la preparazione deU'unità d'Italia, raggriippandone intanto
le sparse membra in quattro potenti Stati (Gasa Savoia, i Medici,
, la Repubblica Veneta e il Papa dominante sino alla estrema Sicilia),
I è certo che colla istituzione in Roma del Gollegio Illirico per Alba-
68 NEL CENTENARIO DI SISTO V
nesi e Dalmati, con i provvedimenti per la difesa delle coste italiane
da corsari e pirati, con le aumentate fortificazioni di Civitavecchia
e di Ancona, con gli eccitamenti ai Sovrani ad unirsi contro i nemici
della cristianità, anziché guerreggiarsi tra loro, con le eventuali mire
di occupazione della Libia ecc. si proponeva di fiaccare nel Medi-
terraneo la barbarica sopraffazione dei turchi. Ed è sotto questo punto
di vista che i ricordi del pontefice grande e terribile, rex tremendae
maiestatis, hanno sempre sapore di attualità.
Il fatto della nascita in Grottammare dà perfetta ragione ai erot-
tesi di chiamare Sisto loro concittadino, come alrove dimostrai. Che
comune d'origine del padre sia stato Montalto, tutti riconosciamo e
nulla vieta che Montalto ritenga Sisto suo oriundo. Né il fatto che
Sisto, abbia per qualche anno avuto educazione in Montalto, dà di-
ritto ad affermare che Montalto é la patria sua. Che direbbero gli
egregi polemisti se dal fatto che Giuseppe Sacconi, loro illustre con-
cittadino, ebbe completa educazione in Roma, si volesse dedurre che
il meraviglioso architetto del monumento al Padre della Patria é
romano?... Sorvolando sulla località di nascita si Papa Sisto che la
questione anche troppo a lungo è durata e fu risoluta, occupiamoci
della vita e dell'opera di lui. i
Il suo pontificato di 5 anni e 4 mesi (dall'aprile del 1585 all'ago-
sto del 1590) fu così pieno di gesta terribili e di grandiose opere da
\potersi dire che se Giosuè, secondo l'asser'zione biblica, fermò il sole
, per avere tempo di completare la vittoria, Sisto costrinse una molti-
tudine Òi avvenimenti ad affrettarsi e a condensarsi per capir dentro
alla sua giornata storica, relativamente breve.
Sulla figura grande e terribile di questo Papa si fermava sovente
il pensier mio sin dagli anni piiì verdi, quando solitario studente
m'aggiravo per l'immensità di Roma; ed anche a me parve, come a
mio padre, che Sisto V meritasse solenne ricordanza da' suoi con-
cittadini, colà donde sorse da umili origini per le eccelse vette del
Pontificato.
Felice Peretti venne su da bassa origine. I suoi biografi eccle-
siastici — primo fra i quali il Moroni — imputano al Fleury ed al
Leti d'esser stati inesatti ed anche fantastici e maliziosi nel riferire
che esso fu figlio di porcaro e, da fancmllo, anch'esso guardiano di
.porci. Ma, da un confronto spassionato tra tutti (e sono moltissimi)
gli scrittori di vite di Sisto V, si arguisce che quella asserzione se
non sicurissima, è più che probabile.
Onde il Moroni stesso, dopo avere, nella sua <iualità di biografo
aulico dei Papi, tentato di accertare le origini cospicue e quasi pa-
trizie dei proavi albanesi di Sisto, non insiste troppo nello smentire
che questi avesse, da ragazzino, condotto al pascolo il succulento ani-
male caro a Sant'Antonio, e filosoficamente conclude, con Pitagora,
essere maggiore la nobiltà che si acquista con le virtù, che quella
proveniente dai natali... Nobilior a quo genus incipit!
Certo è che la tradizione immediata non ebbe riguardi per le
basse origini di Felice Peretti, se nell'invido mondo ecclesiastico,
dopo la di lui elevazione alla porpora (per opera di Pio V, il 17 mag-
gio 1570), e quando si cominciò a comiprendere che esso aspirava
alla tiara, allegando un sogno paterno e successive profezie, non si
aveva ritegno di ohiamarlo «Lazzaro puzzolente» ed «asino della
NEL CENTENARIO DI SISTO V 69
Marca » complimenti che parecchi cardinaJi, tra cui il Medici, rii)e-
terono all'indirizzo di lui ajiche durante il conclave da cui uscì Pipa.
Il celebre Wan-Dfik, che fiorì pochi anni dopo la sua morte, nel
quadro « la giovinezza di Sisto V » lo raflBgurò in atto di suonare il
piffero, con le unghie sporche e lunghe, e il ©levano suo zio di dargli
in premio un bicchiere di vino, e accanto la sorella Camilla, e in
fondo, accovacciate, due bestie, che posson sembrare tanti cagnacci
da pastore, quanto porci; se i cronisti registrano una quantità di aned-
doti al proposito, tra cui quello del padre Michelangelo SoUeri, il
quale imbattutosi in campagna nel ragazzo Peretti che stava a cu-
stodia dei porci e chiestogli d'indicargli la strada, ne ebbe così pronte
e vivaci risposte che subito si piacque di lui e ne secondò la preghiera
di portarlo seco al convento... onde si disse che la cortesia da lui
usata a quel frate fu l'origine della sua fortuna.
Siano fantastici o maliziosi, come vogliono alcuni scrittori cat-
tolici, questi aneddoti narrati dal Leti e da altri biografi, o siajio,
come è presumibile veri, è ben sicuro ohe per interessamento dello
zio paterno padre Salvatore Ricci, il quale vestendo l'abito dei mi-
nori conventuali, aveva mantenuto il c<^Tiome di famiglia. Felice
Peretti cominciò, all'età di 7 anni i primi studi nel patrio convento'
di S. Agostino, ed a 9 anni fu condotto a quello di Montalto, ove era
lo zio. Così iniziò la carriera, cominciando naturalmente, col servir
la messa, coll'addobbare l'altare, col fare, alternati agli studi, umi-
lissimi uffici di novizio. Ma, ohe il suo carattere sin dalla infanzia
fosse umile non si può dire davvero. Narrasi che nel convento di
Ascoli dove passò da Montalto a 12 anni ebbe contrarietà ed inimi-
cizie di novizi, alcuni dei quali gli rammentavano la sua origine
sino a seguirlo nella scuola, nel refettorio imitando alle sue spalle
il grugnito dei porci. Felice un giorno, adiratosi, si volse al piìi pe-
tulante di quei giovani frati dicendogli : « Io sono stato porcaro e
non porco, ma giacché tu fai da cattivo porco, io la farò da buon
porcaro!... », e giù percosse santissime con un bastone. Né fu quella
la sola volta che reagisse con impetuosa violenza di parole e di fatti
ai sarcasmi, alle insolenze, ai tradimenti frateschi. Però finì col di-
sprezzare i suoi nemici, invidiosi dell'ingegno suo e dei meravigliosi
progressi che faceva negli studi. Nel 1535, e perciò quando il frati-
cello Peretti aveva appena 14 anni, il birraio Gianni di Leyda, capo
degli anabatisti, aveva occupato Mùnster. Felice, quantunque si trat-
tasse di un eretico,, non nascondeva la sua ammirazione per l'oscuro
popolano divenuto re-profeta. E un frate, alludendo al mestiere di
porcaro che Gianni Leyda aveva esercitato in gioventù, disse sarca^
sticamente: «fra Felice, si tratta di un vostro parente!... ». E Felice
pronto: « se. a me è parénte come porcaro, a voi lo é come eretico! ».
Questa prontezza di lingua, e non di rado di mano, fu una sua
caratteristica anche negli anni maturi. Quando era cardinale e pro-
curatore dei conventuali, morì il padre generale dei conventuali
stessi, lasciando una cospicua eredità che, secondo una consuetudine
abusiva, avrebbe dovuto passare in privata proprietà del successore.
Questo il cardinale di Montalto non volle, ed ottenne dal cardinale
Borromeo, reggente gli affari della chiesa, un breve col quale l'ere-
dità passava in proprietà collettiva del convento dei SS. Apostoli!
Toccare im frate nell'interesse — dice il biografo da cui rias-
70 NEL CENTENARIO DI SISTO V
sumo l'aneddoto — è come pestare la coda d'un serpe!... Il nuovo
padre generale non la perdonò al procuratore, contro il quale ordì
tradimenti e calunnie d'accordo col baccelliere Magnti; che il Mon-
talto, in un impeto d'ira, schiaffeggiò alla persenza del padre gene-
rale, del cardinale protettore e del segretario.
E parecchi altri di aneddoti simili ci sarebbero da ricordare; ma
ix)ichè non debbo abusare della cortese pazienza dei lettori, dirò
rapidamente sulla carriera del Peretti. Vestito a dieci o dodici anni
l'abito dei minori conventuali a Montalto, progredì rapidamente negli
studi in Ascoli, a Pesaro, a Jesi, a Ferrara, a Bologna, ove si raf-
forzò in teologia; nel 1544, fu destinato lettore di sacri canoni nel
convento di Rimini, e dopo due anni in quello di Siena, ove nel 1547
si ordinò sacerdote; nel 1548 ricevette la laurea dottorale in Fermo.
Poi, fu successivamente mandato a r^gere i conventi del suo ordine
in Siena, in Napoli, in Venezia, ecc. Ma, già, sin dai dieciannove
anni di età, aveva acquistato fama di eloquente predicatore, onde
spesso usciva dai chiostri, recandosi a predicare per le città d'Italia.
Pare che fosse una specie di padre Agostino di quei tempi, -fascina-
tore degli uditorii. D'aspetto grato e signorile, con occhi neri viva-
/;issimi, parlava in pubblico c^n maestosa, talvolta enfatica eloquenza.
Ricco di una coltura storica letteraria, anche scientifica, che in quei
tempi non era comune; pieno di energia e di risolutezza, il giovine
predicatore attaccava dal pulpito anche gli uomini più potenti. Fece
rumore una sua predica in Roma, durante la quale censurò con vee-
menti parole la politica religiosa dell'imperatore Carlo V, di Ferdi-
nando I e di Enrico II; e il cardinale da Carpi, protettore dei con-
ventuali, che molto apprezzava il Peretti, dovette adoperare tutta la
sua influenza per difenderlo ed evitargli qualche spiacevole conse-
guenza della imprudente diatriba. Tra le polemiche suscitate da
quelle prediche, aumentava la sua fama di poderoso e franco ora-
tore, di ifrate austero e rigidissimo. Era divenuto in Roma il predi-
catore di voga. Dame, diplomatici, teologi, letterati si affollavano
attorno al suo pulpito; ebbe fra gli ascoltatori Ignazio di Loyola già
vecchio e vicino al tramonto, Filippo Neri ed altri illustri perso-
naggi e porporati dell'epoca, che preconizzavano in lui un poderoso
campione della chiesa cattolica, i cui abusi e i cui dogmi erano fie-
ramente combattuti dai seguaci di Lutero, che di quel tempo era
morto tranquillamente lasciando nei grandi solchi sanguinosi per
tante guerre religiose, i virgulti rigogliosi della Riforma. Ed anche
gli ascoltatori insigni si sentivano affascinare dalla severa magnilo-
quenza del Peretti, di cui ambivano l'amicizia. Si videro i cardinali
Caraffa (che fu poi Paolo IV), Chislieri (in seguito Pio V), e molti
altri scendere di carrozza alla porta del convento per far visita al
predicatore marchigiano; onde frati e -popolo rimanevan sorpresi a
si alte dimostrazioni d'onore, che aumentavano la rinomanza e la
considerazione in cui era tenuto. L'esemipio dei cardinali fu presto
seguito dal patriziato romano, che ambì la conoscenza del Peretti.
Ascimio Colonna affidò a lui l'educazione letteraria di Marcantonio,
che fu poi cardinale, e di Stefano, poi insigne condottiero... E il
figlio dell'umile ortolano si faceva delle potenti amicizie sgabello a
salire grado grado più in alto, verso la eccelsa mèta alla quale aspi-
rava. Uno dei suoi ammiratori il Caraffa, divenuto Papa Paolo IV,
ÌWL CENTENARIO DI SISTO V 71
lo nominò, nel 1557, inquisitore della fede nel donfiinio veneto. Così
tornò con maggior grado a Venezia, ove pochi anni prima era stato
rettore dei Frati e consultore dei S. UflBzio, ma donde avea dovuta
allontanarsi per gl'intrighi, le calunnie, le inimicizie dei frati, irri-
tati della sua severità. Come inquisitore si mostrò più rigoroso che
mai: ordinò ai frati di far vita in convento' e si die a perseguitare
i disobbedienti, molti dei quali godevano la protezione di case pa-
trizie: così creò imbarazzi al governo della Repubblica, col quale
ebbe attriti; la serenissima gli ordinò di non immischiarsi in cose
pregiudicievoli alla libertà dello Stato. Il nostro Felice anziché ri-
manersene tranquillo al mònito di quel potente e terribile governo,
mandò ad affiggere sulle porte di S. Marco una censura al Senato,
citando a comparire alla sua presenza alcuni di quella augusta as-
semblea, E il Senato ordinò ai birri di arrestarlo. Egli n'ebbe sen-
tore in tempo e fuggì in fretta, tornandosene a Roma, ove agli amici
diceva: «quei Pantaloni mi avrebbero appiccato, ed io non ho voluto
farmi appiccare a Venezia, perchè ho fatto voto d'essere Papa a
Roma! ».
Pio IV (Giovannangelo Medici) eletto Papa, la notte di Natale
del 1559, per acclamazione dei cardinali inupazienti d'uscir dal Con-
clave in cui stavan chiusi da tre mesi e mezzo, volle servirsi del se-
verissimo frate in una sua truce vendetta e, fattolo giudice del San-
t'Uffizio, lo nominò consultore segreto contro i Carafeschi.
Questo tragico processo lum^gia tetramente l'indole e il carat-
tere del ipapato in quei tempi...
Credo che Felice Peretti sia stato uno di quei tipi fisici e morali
che non sentono stanchezza, ma a raccogliersi per poter prendere
uno slancio maggiore, ^li si trasse in disparte dalle fervide lotte
del pulpito, delle missioni e dei processi inquisitoriali; smise Tumore
acre e severo, si fece docile e affabile con tutti, badando a far denari
e ad acquistarsi benevolenza tra i collabi. A Fermo non stette molto :
dopo avervi fondato il seminario, rimmziò a quella sede per dedi-
carsi al poderoso lavoro della correzione delle opere di S. Ambrogio,
dottore della Chiesa, ed anche, e più specialmente io ritengo, per
tornare a Roma, il gran centro degli aspiranti alla tiara.
Era papa allora Gregorio XIII, cui non poteva piacere quell'at-
teggiarsi del cardinale di Montalto a suo successore e perciò non gli
nascondeva antipatia. Da buon calcolatore, il futuro papa, si ritirò
dallo strepito e dagli intrighi della corte vaticana e dai pubblici uf-
fici; ed, acquistata nel 1576, per 1500 scudi, facendo figurare acqui-
rente la sorella Camilla Mignucci, una vigna verso S. Maria Mag-
giore, dichiarò di volervi passare tranquillamente il rimanente dei
suoi giorni, attendendo agli studi su S. Ambrogio, piantando di sua
mano viti ed alberi, e provvedendo all'ampiamento della sua amena
residenza, che fu il nocciolo . da cui si sviluippò la sontuosa villa
« Montalto ».
. Gregorio XIII credeva poco a tanta modestia di propositi, ed, a
tarpargli un po' le ali desiose di eccelso volo, gli tolse il piatto car-
dinalizio. Deve aver masticato male il Peretti; ma facendo buon viso
a cattiva fortuna, si mostrò rassegnato, sospese di fabbricare alle-
gando di non averne più i mezzi e cominciò a rappresentare la parte
d'uomo fisicamente affievolito, debole persino nella voce, toesicchian-
72 NEL CENTENARIO DI SISTO V
te. Si reggeva a stento sul bastone, quasi in attesa deirultimo riposo,
al quale si preparasse con ascetiche meditazioni, lontano dai rumori
e dagli intrighi del mondo. E, dall'esame e confronti delle biografie
e cronache del temipo, parmi che quanti, sulle orme dell'aulico Mo-
roni, si affaticarono a smentire questa finzione del cardinale di Mon-
tai to, non abbiano argomenti seri per contraddirle.
Però; quanto fervore d'idee, qual fuoco e qual tumulto di ambi-
zioni e di passioni sotto quel mentito aspetto d'uomo esaurito e ca-
dente!... Malgrado la matura età, il cardinale di Montalto era tut-
t'altro che insensibile al più forte e tenero dei sentimenti. Parecchi
biografi, imputati da quelli ligi al Vaticano d'aver scritto romanzo,
non storia, non dubitarono di affermare che il cuore del futuro papa
tutto s'accese, ed arse in segreto per la bellissima, spiritosa, vivace e
lusinghiera Vittoria Accorramboni. Che tragedia anche questa e in
quanti oscuri veli rimane ancora confusa!...
Felice Peretti, già da più anni, avea chiamato seco in Roma la
sorella Camilla, il marito di lei G. B. Mignucci ed i loro figli Fran-
cesco e Maria. E Francesco, il giovinetto nepote dell'ardente porpo-
rato, chiese in isposa la celebrata fra le belle; della quale era inva-
ghito Paolo Giordano Orsini, il potente e terribile duca di Bracciano,
ch'era steto comandante delle truppe di Paolo IV contro i turchi nel
15G6 e che aveva, fra gli abbracci maritali, strangolato la moglie
Isabella de' Medici, accusata di nefanda domestichezza col padre,
il Granduca Cosmo, e d'altre scostumatezze. Il duca di Bracciano era
quarantacinquenne, corpulento, deforme, infetto da cancrenosi umori.
Non di meno la calcolatrice madre di Vittoria preferiva, per ambi-
zione e p>er interesse, il parentado ducale, mentre il padre Claudio,
modesto gentiluomo di Gubbio, stabilitosi da molti anni in Roma,
inclinava a Francesco, giovane, sano e nepote al cardinale preconiz-
zato papa. E vinse la suggestione patema. La fatale Vittoria entrò
in casa del cardinale Montalto, sposa al di lui nepote. Quali misteri
passionali rimasero impenetrati nella villa Montalto dopo questo ma-
trimonio?!... Riassumo dalla biografìa più ortodossa di papa Sisto,
pubblicata dal Moroni nel suo gran dizionario di erudizione storico-
ecclesiastica. Felice ricolmò di favori la famiglia della bellissima
nuora ; fece ottenere al fratello di lei Ottavio Accorramboni il vesco-
vado di Fossombrone; all'altro, Giulio, la nomina di gentiluomo del
cardinale Sforza; fece tramutare nello esilio la pena di morte cui era
stato (non dice per quale delitto) condannato un terzo fratello, Mar-
cello. Questo Marcello, che aveva potuto ascosamente rientrare in
Roma, rifugiandosi presso la sorella, si prestò (da chi istigato o
cooperato?) a nefasto delitto. Una notte essendosi allontanato da casa,
mandò una lettera pressante al cognato, scongiurandolo di recarsi
subito in una località dell'Esquilino ove egli doveva rimanere mo-
mentaneamente ascoso perchè ormeggiato dai birri. Malgrado la dis-
suazione della madre, quasi presaga della imminente sventura, l'in-
genuo Francesco prontamente vestitosi si avviò al convegno; ma in
una via oscura e deserta, presso gli orti Sforza, fu colpito da tre
archibugiate e quindi trucidato dai sicari che gli avean fatto la posta.
Dice il Moroni ch'eran sicari del duca di Bracciano e che il cardinale
di Montalto prudentemente dissimulò e seppe anzi ricevere con di-
gnità La visita di condoglianza dell'audace duca.
NEL CENTENARIO DI SISTO V
73
La vedova dell'infelice Francesco rientrò nella modesta casa pa-
terna con tutte le gioie che il cardinale le aveva offerte e fatte offrire
dai suoi per le nozze, e poco dopo con la madre ed una cameriera,
partì insieme al duca Orsini, per il castello di Bracciano.
Fu grande il rumore dello scandalo: e poiché il dono divino
della bellezza accaparra quasi sempre la indulgenza degli uomini.
Vittoria veniva scusata e si imputava alla di lei madre la maggiore
comiplicità nel delitto. Il papa ordinò il processo e pieno di sdegno,
promise, in concistoro, esemplare giustizia al cardinale di Montalto;
Chiesa di S. Lucia - Aitare.
il quale lo pregò di sospendere il suo rigore, intendendo perdonare
chiunque fosse l'autore del delitto. Sorpreso il papa di questa stoica
indifferenza, disse poi col proprio nepote: «veiamenle costui è un
gran frate! ». Nondimeno, ad istanza del cardinale Medici (che non
avea, come già ho accennato troppo simpatia per il Peretti) e del-
l'ambasciatore di Spagna, il papa ordinò che si proseguisse nell'i-
struttoria e fece rinchiudere Vittoria in Castel Sant'Angelo proiben-
dole di sposarsi, senza il suo consenso, con l'Orsini. Ma Gregorio XIII,
addì 10 aprile 1585, morì : il duca profittò subito del tumultuoso pe-
riodo della sede vacante e coi suoi partigiani e con le corruzioni, li-
berò la bella e la sposò, partendo con essa per Padova; alcuni dicono
appena eletto Sisto V, altri circa 50 giorni dopo. Sembra ohe il nuovo
papa abbia indirettamente facilitato questa soluzione, la quale riuscì
74 NEL CENTENARIO DI SISTO V
però tragica per Vittoria, ohe egli, senza, dubbio, voleva ricca e du-
chessa fra le più illustri, sposa ad uji uomo vecchio ed infermo, che
presto gli avrebbe levato l'incomodo! Infatti il duca morì sette mesi
dopo l'elezione di Sisto, a Salò sul lago di Garda, lasciando cento-
mila scudi aita vedova ed altre rendite speciali perchè si mantenesse
una corte di 40 persone. Ludovico Orsini un congiunto del duca che
aveva accompagnato gli sposi e, forse era amante non riamato della
bellissima donna, ritenendo nullo il testamento, si impossessò dei
beni a nome del figlio della prima moglie del defunto. Vittoria ri-
corse al duca di Ferrara esecutore testamentario e al patrocinio del
Senato veneto; e l'esasperato Lodovico, secondo le delittuose abitu-
dini dei grandi di quel tempo, la fece assassinare!... Papa Sisto in-
teressò la Repubblica di Venezia a far vendetta del delitto che gli
aveva lacerato il cuore; Lodovico fu strangolato in prigione e i sicari
ebbero mozzo il capo.
♦
•
Il 21 aprile del 1585 si era aperto il Conclave. Gli aspiranti alla
tiara erano molti ed i 42 cardijiali elettori fieramente divisi; finirono,
credendo di prender tempo, per accordarsi sul nome del Peretti,
reputando che, per le condizioni di sua salute, avrebbe durato po-
chissimo; e il 24 successivo lo elessero. Qui incomincia una nuova
grandiosa fase dell'uomo straordinario. Non mi è possibile conden-
sare in un articolo la storia di un pontificato come il suo. Cercherò
di lumeggiarlo, ricordando anche i più caratteristici aneddoti.
Già, l'aver scelto il nome in omaggio alla memoria di Sisto IV,
il fiero Della Rovere, che era stato promotore della guerra santa,
contro Maometto II; che aveva mandato una flotta a saccheggiare e
bruciar Smime; clie, quale fautore della congiura dei Pazzi, era stato
scomunicato dal Sinodo fiorentino, ma se ne era ricattato scagliando
l'interdetto su Firenze ed inviando un grande esercito suo e dell'al-
leato re di Napoli 'p)er soggiogarla; ohe aveva concesso a Ferdinando V
l'istituzione" della feroce Inquisizione di Spagna; che avea riempito
Roma di stragi e supplizi, indica con quali propositi il Peretti ascen-
desse al soglio.
Pur lasciando a drammaturghi e romanzieri la scena del gettito
improvviso delle stampelle, certo è ohe appena eletto apparve al-
tr'uomo di quello che prima s'infìngeva. Si rizzò fiero e forte sulla
persona e intuonò con voce robusta le preci rituali. Secondo un bio-
grafo francese, che lo qualifica « uno dei più grandi pontefici apparsi
sulla cattedra di S. Pietro», avrebbe alteramente detto ai primi car
dinali che gli si strinsero attorno, offerendosi di sorreggerlo: «ci
sentiamo abbastanza vigore per governare non solo la Chiesa, ma il
mondo! ». Quando montò a cavallo per recarsi a prender possesso
nella basilica lateranense, lo fece con tanta snellezza e leggiadria
che uno degli ambasciatori, giovani principi giapponesi cui aveva
concesso l'onore di tenergli la staffa, lo complimentò dicendogli :
«io non saprei fare altrettanto». E Sisto: «Eppure siamo pesanti
perchè abbiamo un mondo sulle spalle! ». Interloquì il cardinale
Farnese non senza una punta di sarcasmo: « tutt'altro che pesante...
vostra santità non era così snello quand'era cardinale! »; ai che il
NEL CENTENARIO DI SISTO V 75
«
papa: «più pesanti eravamo in quel tem/po perchè allora avevamo
il mondo ai piedi e nel cuore; adesso lo abbiamo sulle spalle e nel-
l'anima e ci è di gran leggerezza! ». E al cardifiale Medici, che gli
aveva detto : « Vostra santità ha tutt'altro garbo di quand'era car-
dinale » rispose : « da cardinale siamo andati con le spalle basse a
capo chino per cercare nella terra le chiavi del cielo; ma adesso che
le abbiamo trovate, guardiamo il cielo, non avendo piìi bisogno al-
cuno della terra! ».
Nella cerimonia della incoronazione, quando il diacono bruciata
la stoppa, pronunziò la frase rituale : « Sancte Pater, sic transit gloria
mundi! ». Sisto rispose: «La nostra gloria non passerà, poiché altra
non ne desideriamo che quella di far buona giustizia! ». Nessun pon-
tefice avea mai parlato in quella circostanza, onde i cardinali, mera-
vigliando, sentirono di essersi creato un padrone energico e risoluto.
La buona giustizia, per la implacabile severità sua aipparve trop-
po spesso ferocia. Cominciò subito col segnalare il suo avvento al
soglio facendo, malgrado le esortazioni a clemenza fattegli dai car-
dinali, impiccare al ponte Sant'Angelo, nel quarto giorno del ponti-
ficato, quattro giovani provinciali, fra cui due fratelli da Cori, ohe
venuti in Roma per le feste del nuovo paipa, erano stati dai birri
trovati, malgrado il divieto, in possesso di pistole. Non permise ohe
per la coronazione, si aprissero, secondo il solito, le carceri, dicendo:
«purtroppo vi sono dapertutto malfattori e non conviene metterne
altri in libertà ». Raccontano che la sera del concistoro Sisto, chia-
mati a sé il governatore di Roma e i giudici, li ammonì che lui re-
gnante doveano usare tutto il rigore se non voleano il castigo cui sot-
traessero i colpevoli, poiché egli era stato chiamato da Dio (?) alla
sede di Pietro per rimunerare i buoni e castigare i colpevoli, e quindi
i rei di morte fossero senza indugio, consegnati ai carnefici.
Ordinò che fosse proibito, sotto pene severe, di affollarsi e gri-
dare al suo passaggio: « Viva Sisto ». « Abbiamo — egli disse — vo-
lontà di girare per Roma senza essere infastiditi, né abbiamo bisogno
di plauso alcuno bastandoci quello della nostra coscienza».
Ai conservatori di Roma, recatisi ad ossequiarlo, disse : « Avrete
giustizia, ma anche voi dovete esercitare la giustizia, che se farete
ii vostro dovere avrete tutto il nostro appoggio, ma se vi mancherete
noi siamo pronti, occorrendo, a farvi recidere il caipo! ». Parlava
chiaro ed agiva con implacabile severità!
Dopo due giorni dalla incoronazione di Sisto, un gentiluomo spo-
letino, ingiunato pubblicamente da un suo nemico sguainò la spada
minacciando colpirlo. Furono vane le supplicazioni di ambasciatori
e cardinali : il terribile papa lo fece immediatamente decapitare. E
mandò per le spiccie alla forca banditi, omicidiari, ladri, malfattori
d'ogni risma. Plebe e grandi tremarono. Il suo nome solo spaven-
tava. Si narra che due stallieri d'un cardinale vennero a rissa fu-
riosa : uno mise sotto l'altro e sguainò il pugnale per colpirlo; ma si
sovvenne che regnava quel severissimo, onde gittò il ferro, dicendo
al nemico : « ringrazia Sisto; se non fosse il terrore che esso m'in-
cute, t'avrei scannato! ».
Alcuni cardinali, pensando mgraziarselo, vestirono da princi-
pessa la sorella Camilla e gliela condussero in Vaticano. Ma, quando
gliela presentarono, Sisto disse: « Questa principessa non può essere
76 NEL CENTENARIO DI SISTO V
t
mia sorella, che nacque modesta contadina! », e fìngendo di non co-
noscerla, senz'altro, la rimandò. Ma il dì seguente, quando Camilla
gli tornò innanzi, indossando le solite vesti, la abbracciò affettuosa-
mente dicendole : « Ora ti riconosco, sorella! spetta a me darti la qua-
lità e il manto di principessa, non ad altri». Assegnò ad essa e ai
nepoti una pensione di mille scudi mensili, affinchè vivessero con
decoro nella villa Montalto, si recassero spesso a trovarlo, ma non
si immischiassero negli affari di Stato, altrimenti, con suo grande
rammarico, sarebbe stato costretto ad allontanarli da Roma.
Agli esempi di ferreo e spesso di crudele rigore, frammischiava
atti di generosità. Seppe dal proprio medico di un avvocato, amico
suo prima della esaltazione, che era caduto in miseria e per giunta
stava malato: gli mandò dal suo ortolano un cestello di cicorietta
con nel fondo gran copia di zecchini; l'avvocato si riconfortò, guarì,
andò a ringraziarlo. Onde il popolo proverbiando, in casi di malattia
accoppiata a miseria, soleva dire: «ci vorrebbe l'insalata di ipapa
Sisto! ».
Grande e terribile papa!... Ricordando quanto il tempo suo fu
infetto per delitti, prepotenze e ferocie di costumi, si può applicare
metaforicamente anche a lui il detto: «a corsaro, corsaro e mezzo»,
dappoiché non ebbe pietà, non ebbe scrupoli nell'imporre a tutti il
suo assolutismo e la sua ferrea volontà.
La satira e le mormorazioni lo addentarono spesso, avendo Sisto
punito colpe che risalivano anche a venti anni addietro; un giorno,
sotto il famoso torso di Pasquino, videsi affisso un cartello in cui era
effigiato S. Pietro in abito da viaggio con la sacca in mano; S. Paolo
gli domandava dove andasse; « parto, rispondeva Pietro, per timore
che Sisto si ricordi dell'orecchia tagliata a Marco' ». Di questa e
d'altre pasquinate, ohe alludevano alla sua inflessibile risolutezza, il
papa non s'adontò, anzi parve compiacersi. Un'altra volta, Marforio
domandava a Pasquino perchè avesse la camicia sporca, e Pasquino
rispondeva: « perchè il papa ha fatto principessa la mia lavandaia».
Sisto, irritato, non riuscendo a scoprire l'autore, dissimulò e fece
bandire che ove si fosse presentato spontaneamente, avrebbe salva
la vita e mille doppie in regalo. Il disgraziato si andò a discoprire,
e il papa, dopo avergli rimesso mille doppie, gli fece tagliare lingua
e mani, dicendo che manteneva così la promessa di lasciarlo in vita,
ma gli toglieva modo di dire e scrivere altre satire.
Era dunque vendicativo. Eippure, quando l'ascosa passione o il
freddo calcolo politico glie lo consigliavano, sapeva far mostra d'aver
dimenticato, quantunque in un registro «< memento vivorum » notasse
tutto il bene e il male sin da quando era semplice frate.
Aveva penetrazione, perspicacia, viste meravigliose: appena
messo piede nella sala si accorgeva di chi mancasse al concistoro;
scrutando i volti degli ambasciatori spesso ne penetrava gli ascosi
pensieri. Amava i libri, le arti, le fabbriche, delle quali conosceva
la tecnica, tanto che da cardinale aveva diretto da sé i lavori della
villa Montalto. « In politica — soleva dire — bisogna saper perdo-
nare, dissimulare, combattere non con tutti i nemici ad un tempo,
ma con uno alla volta; l'affabilità soverchia coi domestici, se qualche
volta è utile, porta sovente con sé serii inconvenienti; ai grandi co-
municare i motivi delle proprie azioni, a^li altri queste soltanto;
NEL CENTENARIO DI SISTO V 77
conservare sempre l'abituale espressione della fisonomia; finire di
riflettere per cominciare ad agire; rigore e denaro sono elementi
indispensabili di buon governo; un principe senza denaro è un
nulla».
E queste massime, cui avrebbe sottoscritto il famoso segretario
fiorentino, applicò costantemente per procurargli denaro e molto;
non risparmiò tasse e imposizioni; e il denaro profuse in grandiose
e geniali opere, tra cui le ampie strade aperte in Roma, gli obelischi
erettivi, la facciata meridionale del palazzo lateranense, la ricostru-
zione del palazzo del Quirinale, la torre del Belvedere in Vaticano,
la cupola di S. Pietro, i restauri alle colonne Traiana e Antonina,
i colossali acquedotti, le fontane, il ponte Felice, l'ingrandimento
della città di Loreto e Montalto, e via dicendo, che non mi è possi-
bile enumerare tutti i lavori fatti compiere e ordinati durante il suo
pontificato.
Non si curava di farsi amare, bastandogli d'essere temuto. Con
tutti, piccoli e grandi, andava per le spiccie: se qualche ricco tar-
dava a retribuire gli operai o lesinava sulla misura delle retribu-
zioni, Sisto si faceva portare le liste e pagava del suo, per rifarsene
ad usura sui cattivi pagatori. Fece frustare pubblicamente sul Corso
dei giovani cristiani che avevano dileggiato sconciamente alcuni
Israeliti uscenti dal Ghetto; e per questo, e perchè aveva notevol-
mente diminuito il medioevale regime di restrizione, cui gli ebrei
erano sottoposti, si disse che egli li proteggeva per trame denaro
di cui era avido. — Ignazio di Lojola, che poi fu santificato, gli era
antipatico, e più la setta dei gesuiti, che qu^li aveva da poco fon-
data, e Sisto in un impeto di collera gridò nemica al Vangdo; sicché
quando gli proposero per confessore un gesuita, rispose : « troviamo
più giusto .che i gesuiti si confessino da noi, che noi da loro».
. Così, tra l'arrogante ambasciatore e l'impetuoso pontefice era.
cresciuto un odio cupo e tremendo, che minacciò di produrre — e,
forse, in fine produsse! — conseguenza mortale. Si narra che l'Oli-
vares dichiarasse di voler axi ogni costo precedere l'ambasciatore di
Francia in una processione e che Sisto cupamente l'ammonisse a
non farlo; e si aggiunge che, appena uscito lo spagnolo, il papa
fecesse chiamare mastro Gigolò, capo dei suoi munerosi carnefici,
per ordinargli : e< se nella processione di posdimani vedrai l'Olivares
precedere l'ambasciatore di Francia, lo afferrerai gettandogli un
laccio al collo e lo strangolerai in mia presenza! ». L'Olivares, pre-
sentito il pericolo, o non andò, o, se andò, rimase al suo posto!
Mentre il patriottismo francese lottava per assicurare il regno
di un sovrano di sensi magnanimi e liberali, (piale fu il grande
Enrico IV, in Inghilterra, Elisabetta, che salendo al trono, avea con
la proclamazione della liberià di coscienza posto fine alle esecu-
zioni e alle persecuzioni religiose, ristabiliva possentemente il pro-
testantismo con il concorso del Parlamento, il quale avea procla-
mato la regina capo della Chiesa anglicana, e rifiutava Filippo II
che ne aveva chiesta la mano, pensando ambiziosamente di tornar
despota anche sugli inglesi, che aveva brevemente governati quando
era marito di Maria Tudor. Il tetro monarca spagnolo, eccitato
anche da Sisto V, si atteggiò allora a vendicatore di Maria Stuarda
e, dichiarando altresì di voler riconquistare quel regno al cattoli-
78 SHLL CLNIENARIO DI SISTO V
cismo, preparò una formidabile flotta, destinata a portare i suoi
eserciti in Inghilterra per detronizzare Elisabetta, che per altezza
di mente, spiriti liberali, eccezionale sapere, fu una delle più grandi
figure politiche del sedicesimo secolo. Ma, le furie del mare, il pa-
triottismo inglese, i sagaci e poderosi provvedimenti della virile
regina, mutarono in disastro l'impresa vagheggiata da Filippo e da
principio anche da Sisto. La distruzione della invincibile armada
segnò la rovina della potenza marittima spagnola, ohe veniva poi
sostituita nel mondo da quella inglese.
Sisto V da buon estimatore soleva dire, neg"li ultimi mesi del
suo pontificato, che tre soli personaggi eran degni di regnare : lui,
Enrico IV ed Elisabetta d'Inghilterra, quantunque contro quest'ul-
tima avesse scagliato una etrribile Bolla. E la grande instauratrice
della Riforma nel Regno Unito, la quale aveva detto di volere sulla
sua tomba l'iscrizione : « Qui riposa Elisabetta che visse e morì re-
gina e vergine », quantunque ci sia ragione a credere che non abbia
perfettamente mantenuto il proposilo austero, ricambiava Sisto della
sua ammirazione, poiché ad una delle tante sollecitazioni di sce-
gliersi uno sposo, rispose sorridendo dì non conoscere che un sol
uomo degno della sua mano: Sisto V!... la cui fiamaiiante e san-
guigna giornata stava per giungere a sera.
Verso i primi «l'agosto del 1590 il ferreo papa, ancor vegeto e
robusto malgrado i 69 anni, volle visitare i lavori delle paludi pon-
tine, delle quali aveva fatto intraprendere il prosciugamento. Vi si
trattenne più giorni, sorvegliando, eccitando, e vi contrasse, dicono
i biografi, una febbre che i medici stimarono terzana, dalla quale
venne assalito due giorni dopo il suo ritorno in Vaticano e precisa-
mente il 20 agosto. Non voleva mettersi in letto, ripetendo il motto
d'Augusto: « Oportet imperatorem stantem mori»; però,, cambiatasi
la terzana in continua, non potè più alzarsi, ma, serbando lucidità
di pensiero, non ismentì nemmeno sul letto di morte la violenza
quasi selvaggia del carattere.
Al cardinale nepote che gli diceva come in tutte le chiese si fa-
cessero preghiere per la sua guarigione, osservò : « nepote, tante
preci ci fanno credere dal popolo più morto che vivo, e noi abbiamo
in pensiero di farci credere vivo ancorché morto». — Al suo fido
monsignor Sangallotto ripeteva : « Caro monsignore, gli spagnoli
non ci vogliono più papa e per questo ci levano dal mondo prima di
finire il nostro pontificato! ».
Egli ebbe il convincimento che l'ambasciatore di Spagna l'avesse
fato avvelenare e, sentendosi morire, mormorò l'ordine vano che
roiivares fosse impiccato, e poi corresse: «anzi costretto a bevere
di propria mano il veleno». Pare che anche i medici sospettassero
rawelenamento del papa, ma non riuscirono a salvarlo, che il 24
(altri dicono il 27) agosto 1590, mentre imperversava su Roma un
terribile temporale con lampi, tuoni e dirottissima pic^gia, esalò la
grande anima irosa.
Appena divulgata la notizia della morte di quel papa tremendo,
il popolo, sentendo spezzato il ferreo giogoeotto, il quale viveva tre-
mando da oltre cinque anni, sorse infuriando sul leone c^uto, ne
oltraggnò sconciamente il nome e tumultuò sulla piazza del Campi-
doglio per atterrare la statua erettagli dal Senato,, ma fu persuaso
NEL CENTENAMO DI SISTO V
79
a non farlo dai mariti delle pronipoti di Sisto, i principi Orsini e
Colonna, che col loro ascendente e la loro eloquenza riuscirono a
calmarlo. Il Moroni afferma c<he fu postuma vendetta dovuta all'ac-
canimento deirOlivares ,il quale aveva già eccitato una mano di
banditi segreiamente fatti venire dal napoletano e parte della plebe
di Roma a deporre Sisto come eretico e fautore di eretici, perchè
proteggeva Enrico IV di Borbone.
Così imperversando l'ira del cielo e degli uomini, uscì dalla
scena del mondo, che tutta aveva riempita di sé per pochi anni, il
pontefice nato a Grottammare.
Gran pontefice come la maggior parte degli storici e dei bio-
grafi lo hanno proclamato, o tiranno efferato, aocarezzatore di car-
nefici, come nella sincerità di una tragedia intima si sarebbe da sé
stesso qualificato?...
Per celio le parecchie migliaia d'uomini che egli fece impic-
care, decapitare, torturare dai carnefici, lo sfacciato nepotismo per
cui arricchì di màlioni la sorella e i nepoti, uno dei quali, Ales-
sandro Damasceni-Peretti fece cardinale a 14 anni, l'altro. Michele,
di 8 anni, creò principe assistente al soglio e governatore di Borgo;
gli impeti suoi violenti, rissosi, vendicativi; la ferocia con cui s'era
proposto di affogare nel sangue la Riforma, pur riconoscendo la ne-
cessità di purificare i corrotti Ordini religiosi, il che tentò di fare
con una quantità di Bolle e con severità di provvedimenti; la ipo-
crisia di cui dette prove prima e anche dopo d'esser salito al soglio,
impongono a noi che viviamo in secolo tanto più civile, liberale ed
umano, severità di giuaizio.
Ma riportandoci al tempo suo, dobbiamo considerare che nel-
l'ipocrisia, nel nepotismo, nella tirannide, nella rapacità, nell'as-
solutismo e nella sanguinosa ferocia, molti papi furono peggiori di
lui, senza averne la grandiosità dei concepimenti, la meravigliosa
operosità nelle imprese gigantesche e sontuose, il genio vasto e
ardito.
Giudicandolo come principe temporale riconosciamo in Sisto V
l'ultimò e grande politico dell'assolutismo papale. Dileguavano in-
nanzi ai primi bagliori della moderna civiltà le ultime nebbie del
80 NEL CENTENARIO DI SISTO V
medio-evo; una nuova concezione umana e liberale si diffondeva
tra i popoli preparando l'instaurazione di nuovi ordinamenti poli-
tici e civili, p)ersino del nuovo diritto delle genti, che un altro
grande marchigiano, Alberico Gentili, con la protezione della grande
Elisabetta, bandiva dall'Inghilterra, ove era scampato alla persecu-
zione religiosa che in patria lo avrebbe spento. E sorse Sisto V,
campione ultimo, forte, audace, impetuoso del crollante diritto as-
soluto della Chiesa alla universale dominazione.
Combattè con insuperata energia, con accanimento feroce la
grandiosa battaglia della reazione cattolica suscitata dalla Riforma,
ma in ultimo la mente sua poderosa ed acuta forse lo ammonì del
pericolo della dominazione esclusiva del cupo fanatismo spagnolo
sull'Europa, e mostrò, colla simpatia per Enrico IV e per Elisa-
betta, la velleità se non di tornare indietro, almeno d'arrestarsi.
La morte lo incolse in questa perplessità. Fu come il sole che
tramontasse sull'assolutismo politico del papato tra nuvoloni foschi
e procellosi. Dopo di lui, la Santa Sede, miserabilmente legata alla
volontà di Spagna, vide sempre più realizzarsi la propria potenza,
fino a che il nuovo diritto e la nuova politica trionfarono definitiva-
mente del medio-evo.
Sisto V, malgrado gli errori e le colpe, fu l'ultimo papa in cui
era come un'eco dell'anima dominatrice di Gregorio VII. Anche nel-
l'orridità del paesaggio storico la sua figura fu imponente e gran-
diosa.
Alceo Speranza.
{Disegni di Carlo D'Aloisio).
GLI ULTIMI "CIMBRI,.
(TRAMONTO D'UNA PARLATA)
Una importante « Nota» di Antonio Marcello Annoni, pubblicata
nel fascicolo del gennaio di quest'anno del Bollettino della Reale So-
cietà geografica italiana, e dedicata ag*!! Strandem e Ungile straniere
in Italia, dopo avere affermato, giustamente, che sono « quasi sparite
le parlate tedesche nelle regioni dei Sette Ciomuni vicentini, e dei
Tredici Ck>muni veronesi», soggiunge: «anzi, in questi ultimi, se
ne serba solo il ricordo ». Il che potrebbe far credere, contrariamente
al \'ero, che l'antica parlata sia, nel territorio dei Tredici Comuni ve-
ronesi, effettivahiente spenta. Il «cimbro» invece, come lo chiama-
vano i nostri. vecchi, non è morto ancora: e per qualche centinaio
di persone è tuttavia la lingua d'uso corrente, in un remoto paesello
della provincia di Verona. Si tratta di una curiosa sopravvivenza,
e di un fenomeno linguistico, in sé, assai interesasnte, e non a tutti
esattamente noto. Di modo che io, che ho avuto occasione "di cono-
scerlo da vicino, credo di fare opera non inutile, né sgradita, discor-
rendone brevemente ai lettori della Nuova Antologia.
•
Bella, pittoresca, fra le amene vallate veronesi, è quella di Tre-
gnago, antichissima borgata romana. Da Tregnago si prosegue, in
leggera graduale ascesa, per Badia Calavena, già sede di un ricco
monastero benedettino, di cui esistono resti notevoli, e da Badia,
continuando a procedere verso la montagna lungo il fondo della
valle, si raggiunge, altro capoluogo di Comune, Selva di Progno.
Siamo, ormai, vicinissimi ai «Cimbri». Pochi chilometri ancora,
battendo una strada resa oggi, per le necessità imposte dalla guerra,
larga e comoda, ed ecco un paesello, che, raccolto intorno alla sua
chiesetta, serra quasi bruscamente la valle : é il paesello dei « Cim-
bri », Giazza, frazione del Comune di Selva di Progno, a circa otto-
cento metri stiì liveillo del mare.
Leggiamo ora la breve descrizione, poetica, ma rispondente in »
tutto e per tutto al vero, di Giazza, composta in bellissimi sciolti,
spiranti un profumo fresco "di pace montana, dal compianto conte
Francesco Cipolla. La tolgo da un opuscolo d'occasione, ignorato
dai più. E rammento che i fratelli Cipolla (Carlo, l'eminente storico,
e Francesco, il letterato dal nobile ingegno multiforme) sono senza
contestazione, nell'età moderna, i grandi benemeriti dello studio
scientifico delle popolazioni dei XIII Comuni veronesi e della loro
(> Voi. OOXVI. serie VI — 1° gennaio 1922.
S2 GLI ULTIMI « aMBRI »
parlata (1). Scriveva dunque, ned 1883, Francesco Cipolla, che era
spesso ospite amatiseimo del paesello di Giazza :
La valle è stretta, e chiusa tra due monti
« erti; le rupi, in. forma idli castella,
diroccate, incoronano le cime;
sotto v'è il bosco, e, sotto il bosco, un liscio
tappeto, d'un bel verde vellutato,
che si spinge laggiù fino al torrente.
Acgua lionipida e fresca ivi continua^
mente, di sasso in sasso rimbalzando,
susurra. Le casette del paese
• di Giazza, bianche, spiccano sul fondo
verdescuro. Dall'alto, tra le rocce
(frastagliate, dardeggia il Sol la bella
luce, die piove nella valle, e scherza
tra le macchie, i dirupi, i seni erbosi.
Sulla piazzetta, adesso, a capannelli
si raduna la genite, e aspetta l'oira
deUe funzioni, il vecchio donn'Antonio
eed/uto sul gradino della porta
poccola della chiesa, com'è solito,
prende tabacco, e scambia due parole
or coU'uno, or coll'altro. Io sto allacciato
alla finestra, tacito, e contemplo.
Ho nominato i « Cimibri » ed il «cimbro». Non è il caso di ri-
cordare og'gl, per confutarla, la vecchia leg-genda, di marca umani-
stica, secondo la quale le popolazioni dei XIII Comuni veronesi sa-
rebbero, assieme a quelle dei VII Comuni vicentini, direttamente
discendenti dai Cimbri sconfìtti da Mario. Il nome di « Cimbri » è
rimasto, per denotare quelle popolazioni, nell'uiso comune veronese
e, credo, vicentino, ma alla Leg"genda cimbrica nessuno presta più
fede. La sostenne, ai suoi tempi, calorosamente Scipione Maffei nella
Verona illystrata, senza successo. Resta, in ogni modo, all'eruditis-
simo enciclopedico marchese il grande merito di avere indirizzato lo
studio del « cimbro » per una via strettamente scientifica. Egli si
recò sui luoghi, dove tixwava « Tedesco veramente essere il linguag-
gio » dei XIII Comuni, e si propose, con ardita novità di intendi-
menti e di metodo, un lavoro di lunga léna, e precisamente di raf-
fronto linguistico, sul linguaggio stesso.
Carlo Cipolla, nel saio classico Compendio della stoica politica
di Verona, ha condensato, in non molte parole, quanto oggi si sa di
più preciso nei riguardi dei « Cimbri », ed io riproduco senz'aitano
la uÙlissima pagina del Maestro :
(1) I versi, che cibo, recanti il titolo di Giazza, si leggono a pag. 21 deg-
l'opuscolo : Cario Cipolla, L'ongim delìn parrocchia della Giazza, Verona,
Stabilimento ti|>o-lit. Q. Franchini, 1898. La bibliografia de^i scritti dei fra-
telli Cipolla, riguardanti la storia e il linguaggio delle po|>olazioni dei XIII
Comuni veroneM, è indicata da Francesco Cipolla, Ultimi echi della parlata
dei XIII Comuni veronesi, in Atti del Beale Istituto Veneto di sciente, let-
tere ed arti, anno accademico 1912-19IS, tomo LXXII, parte II, pagg. 405-406.
GLI ULTIMI « OMBRI » 83
Va collocata ormai fra le leggende erudite l'opinione, secondo la quale
dai Cimbri fuggenti dopo la loro sconfitta avrebbero avuto origine le colonie
teutoniche dei XIII Comuni veronesi e dei VII Comuni vicentini. Trattasi di
tutt'altro. Non c'è indizio alcuno che faccia, non dico ammettere, ma neppure
sospettare l'esistenza di qualche colonia tedesca nel Veronese nei secoli più
antichi del medioevo. Si volle supporre che certi Alemanni, ricevuti da Teo-
■derico di Grande, re degli Ostrogoti, siano stati da lui colUocati nel Veronese,
ma non c'è il più piccolo argomento positivo per crederlo. Soltanto si può
facilmente concedere che Verona, trovandosi in prossimità alla Germania,
ed essendo legata con molteplici vincoli all'Impero, abbia subito l'influsso
della civiltà tedesca più che non avvenisse in regioni lontane. Questo è chiaro.
Ma ciò non include la presenza di una numerosa e stabile popolazione te-
desca sul territorio veronese, ancorché questa ipotesi venga di frequente ri-
messa a nuovo, sia dagli eruditi italiani, sia dai dotti tedeschi. Le regioni
abitate poi dai coloni tedeschi erano a i)ascolo e non avevano popolazione
stabile fino alla venuta dei tedeschi. Questi, come risulta da documenti cer-
tissimi, vennero a Rovere di Velo sul cadere del xiii secolo, dopo avere rice-
vuto in regolane investitura (1287) una ben determinata regione da Bartolomeo
della Scala, vescovo di Verona. Vennero qui dal Vicentino, dove probabil-
mente giunsero dal Trentino, mentre in quest'ultimo territorio, per quanto
pare, si erano stabiliti dietro invito del vescovo di Trento Federico Wanga,
al principio del medesimo secolo. I documenti pubblicati in questi ultimi
anni ci fanno assistere al lento allargarsi delle comunità così dette Cimbriche
all'epoca Scaligera, specialmente fino a che esse raggiunsero quell'ampiezza,
che diede loro il nome storico di XIII Comuni, benché al loro diffondersi fa-
cesse tosto séguito il ristagno e quindi la rapida decadenza. Ma il linguaggio
natio, mentre pareva dovesse finire ben presto, diede prova di una inattesa
vivacità; non riguadagnò ciò che avea perduto, ma seppe almeno contendere
U suo terreno, palmo a i>almo, contro i dialetti italiani che lo assalgono
d'ogni parte La leggenda che ascrive a quei tedeschi
l'origine cimbrica risale al secolo xiv ed è affatto di creazione umanistica.
Tradizioni di tal genere, i pretesi Cimbri non hanno. Se tengono parola dei
Cimbri, è per un riflesso erudito, ma quando vogliono propriamente dichia-
rare quale sia la loro lingua, la chiamano : — parlata tedesca, tauc az Gareida.
E se anche oggi domandiamo, a Giazza, che lingua parlino
quegli abitanti, ci sentiamo rispondere: bar reidan in tatù; — noi
parliamo in tedesco. — Per aJtro, il loro sentimento è, intendiamoci
bene, schiettamente italiano e nazionale. E i giovani di Giazza, in-
corporati quasi tutti negli alpini, fecero magnificaimente il loro do-
vere di italiani, durante la grande guerra. I nostri « Cimbri » sono
vissuti, sino a ieri, a pochi passi dal confine con l'Impero a.ustriaco:
ma ì\ loro cuore è sempre stato italiano.
Carlo Cipolla, dunque, nel passo citato, riassume in breve la
questione dei « Cimbri », rispondendo da pari suo alle esagerazioni,
tanto in voga alcuni anni or sono, pangermaniste. Non è da dimen-
ticare, che, crollata la vecchia teoria cimbrica, lo spirito pangerma-
jiistico arrivò a fame sorgere altre, sostenendo, ad esemspio, che le
popolazioni dei XIII Comuni erano i resti deirantica popolazione te-
desca del Veronese e delle Prealpi, rifugiatisi sui monti davanti ad
una invasione italiana! Così che, osserva il Simeoni nella sua Guida
di Verona, i tedeschi sarebbero gli aborigeni, e noi gli invasori!
84 GLI ULTIMI « CIMBRI »
La primitiva salda latinità dei luog-hi è affermata anche dalla
toponomastica. I nomi dei XIII Comuni sono tutti prettamente la-
tini, nota Carlo Cipolla, e così pure anche i nomi delle contrade più
popolose. Come Tavernole, ohe suppone un tabemulae latino, cosi
Giazza {glacies), Campofontana, ecc., provano identica origine. Anche
alcuni dei nomi secondari dimostrano etimologia latina. Per l'op-
posto, i nomi dei luog-hi più piccoli, dei campi, e via dicendo, sono
spesso tedeschi. I nomi dei XIII Comuni, che ancora nel secolo xviii
formavano una unità amministrativa distinta (il Vicariato delle Mon-
tagne), sono i seguenti : Velo, Rovere di Velo, Val di Porro, Campo
Silvano, Selva di Pregno, San Bartolomeo delle Montagne, Azza-
nno, S<prea con Progno (Badia Calavena), Saline, Bosco con Frizzo-
lana (Ghieeanuova), Erbezzo, Alferia o Cerro, Tavernole (1). Manc^
Giazza, che, unita prima a Selva di Progno, non assunse qualche
imiportanza che sulla fine del secolo xviii, quando fu eretta in par-
rocchia. Il centro abitato di Giazza, in ogni modo, è molte volte se-
colare, come quello che già esisteva, espressamente menzionato nella
cronaca di Maestro Marzagaia (edita da Carlo Cipolla), nel secolo xiv.
Tutti i paesi dei XIII Comuni sorsero nella parte più settentrionale,
ricca di pascoli e di boschi, degli alti Lessin-i veronesi : i noti monti,
situati fra la provincia di Vicenza, l'Adig-e e il Trentino, ohe por-
tano un nome, il quale vuol dire un problema etimologico: certo
è che «Lessino» e «terra Lessinica», come avverte Carlo Cipolla,
sono voci, che valgono costantemente, nei documenti, per indicare
terra usata e preparata per i pascoli.
Il dialetto tedesco così detto cimbrico, un temipo largamente par-
lato nei XIII Comuni, sta ora agonizzando, rincantucciato nella gola
di Giazza. Pcemoito dall'italiano, il « cimbro » non ha fatto che per-
dere terreno, e s'è ridotto, ormai, agli estremi, in un ultimo ba-
luardo. « Singoiar cosa è ohe nelle nostre montagne confinanti alle
Vicentine e alle Trentine, un tratto di dodici villaggi in circa, nel
mezzo de' quali è quello che Progno si nomina, parli una lingua
differente da tutti i cii-costanti pwLesi». Così il Maffei, nella Verona
illustrata, la cui prima edizione fu pubblicata nel 1732. La decadenza
del «cimbro» continuò inesorabilmente. «Oltreché in Giazza» —
scrivevano nel 1884 i fratelli Cipolla — « il cimlbro è ancora parlato
in alcune contrade settentrionali di Selva di Progno, e in altre, verso
Giazza, spettanti alla parrocchia di Gampofontana, sempre nel Go-
miume di Selva di Progno. Camtpofontana sorge sull'alto della mon-
tagna, a oriente di Giazza. Sono in tutto un misrliaio di persone
che ancora serbino questa favella». Ma nel 1912 Francesco Cipolla,
malinconicamente, constatava: «La parlata tedesca di questi luoghi
è vicina a tacere affatto. Anche nella stessa Giazza non è più così
padrona del sito come lo era sino a pochi anni sono ».
Ed io, per mia parte, non posso che confermiare l'affermazione
di Francesco Cipolla, valendomi, oltre che della diretta conoscenza
dei luoghi, sopra tutto dei dati che mi sono stati cortesejnente for-
niti, nel gennaio 1921, dal rev. prof, don Giuseppe Cappelletti, che,
(1) V., per la toponomastica, l'ottiino libro di Dants Olivikri, Saggio
di una ìHustrazione gen^.rale della toponomastica veneta. Città di GaatellOy
Casa editrice S. Lapi, 1915, pa^im.
GLI ULTIMI « OMBRI » 85
nativo di Giazza, è molto affezionato al suo lingiiag"gio materno. Il
Cappelletti conosce il « cimbro » alla perfezione, ed a Giazza è il solo
che sappia scriverlo.
Oggi il « cimbro » non si parla che a Giazza. Nelle contrade li-
mitrofe, appartenenti a Selva di Progno {Capilite, Skódadar, Par-
lónge, Buskan), a Gampofontana [Pagén, Gduler, Muscen) e a Velo
(Pózze, Tece), unicamente i vecchi pronunziano ancora, bene o male,
qualche paix)la in «cimbro», e nulla più. Lo stesso baluardo di
Giazza {Glietzen, Ljetzen, Jetzen) minaocsia rovina. Un terzo della
popolazione parla abitualmente italiano, o, per dir meglio, il dia-
letto rustico veronese, ed è immemore, da poco, del suo vecchio lin-
guagg^io tedesco. I rimanenti due terzi, circa cinquecento persone,
usano abitualmente il «cimbro», ma tutti conoscono in paii tempo,
salvo i piccoli, l'italiano. Vi ha una contrada per altro, a nordovest
di Giazza, detta del Bosco {Bàldran), in cui parecchi si esprimono
più facilmente in « cimbro » che in italiano, e, se possono, preferi-
scono, nella confessione, la parlata materna, specialmente i piccoli,
i vecchi e gli ammalati. Se possono, ripeto; perchè di sacerdoti, che
sappiano il « cimbro», non c'è che don Cappelletti, il quale non può
trattenersi a Giazza, in famiglia, che una parte dell'anno. Da molto
temipo in qua, nella chiesa di Giazza, il «cimbro», nelle prediche
ai fedeli e nell'insegnamento della Dottrina Cristiana, non è più
usato. Si aggiunga, finalmente, che in certe contrade di Giazza non
mianca chi « per affettaziione di un malinteso patriottismo » (dice Fran-
cesco Cipolla), fa quanto può perchè i suoi conterranei smettano il
loro linguaggio, siccome incivile e barbaro: fa cpianto può, e ci
riesce. E non facciamo cenno dell'influenza della scuola, e di altre
ca.use.
Don Giuseppe Cappelletti, l'odierno leader del «cimbro», è pro-
fessore di matematiche nel Seminario Vescovile di Vert)na, e duranste
il periodo delle vacanze dimora a Giazza, fra i suoi buoni montanari,
che lo adorano. Egli ha disseminato qua e là, per le stampe, svariati
suoi componimenti in «cimbro», i più in forma dialogica, di cui si
serve volentieri, per rappresentare, da artista, tipi e sentimenti della
sua umile popolazione prediletta. E così il Cappelletti è venuto ad
aumentare la messe, bene scarsa in verità, dei testi « cimbri » dei
XIII Comuni, raccolta per merito, al solito, dei Cipolla. Appar-
tiene ai fratelli Cipolla anche un saggio di vocabolario « cim-
bro», pubblicato nel 1882, nelV Archivio glottologico dell'Ascoli. Ed
ora il Cappelletti sta per dare l'ultima mano ad un suo compiuto
Glossario deila parlata dei XIII Comuni veronesi, che presto potrà
vedere, speriamo, la luce.
Sarà utile, se non erro, che i lettori abbiano qui sott'occhio al-
meno un saggio del «cimbro». Scelgo, senza esitazioni, il brindisi,
pronunziato da don Cappelletti, fra la grata meraviglia dei presenti,
il 10 agosto 1911. a Revolto, in presenza dell'on. Nitti, allora Mi-
nistro dell'agricoltura, e di altre autorità, nell'occasione della solenne
inau.a^i razione di un nuovo I>emanio forestale. Ai lettori non isfug-
girà il sentimento di patria, ond'è fremente il breve componimento.
Revolto, si ricordi, a un'ora e mezzo da Giazza, è località montana,
a pochi passi dall'antico iniquo confine con l'Austria. Al testo del
86 GLI ULTIMI « aMBRI »
Cappelletti segue la eleg-antissima e fedele versione metrica, datane
da Francesco Cipolla: la disseppellisco [sit venia verbo, che, trattan-
dosi di Atti accaxiemici, non è poi fuor di luogo del tutto) dagli Atti
del Reale Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti del 1912-1913. Il
Cipolla, che di poesia tedesca si intendeva moltissimo, osserva, a
proposito del brindisi : « godo di far notare, ohe non solo è tedesca
la lingua, ma anche il sentimento poetico è schiettamente germanico.
C'è viva viva quella semiplice personificazione della natura, ch'è
tutta propria dei poeti nordici: quello scambio di sentimenti, per
cui pare che l'anima del poeta e l'anima della natura corrano ad
abbracciarsi e a fondersi in una sola vita » . Ma ecco il brindisi :
I heJie de Tatze, uà huk©: Am der Gesojoit saimer Excellenz, un 'un aljanl
Hearnl Dise Bàldar hen-a gapaitat tze kòun.a: Sait boukenf
iSet-ar dise Tanaian? Saindre pukan ire Wipfllj tze eegan saine nauge
Heann; un prim kòun: — Dise baun^-us bau, am barandre tuan-inj Bau. Bar
darhaltan Bazzar un Schnea ta in Pach trage aiicht hin de Bege, un darhudar
nicht de Ackar. —
Hoart-ar ditza Binila, bo da kint 'un ouban?
Iz ist an Busar 'un Pòmiljar, bo da sain gasteikat droubar 'me Marche.
Sandre kòun in ame Oare 'un sainj belische Schweistadar : — Lebet Italia! —
Du Bintla, 6te nicht hia; lo abe, abe feare, un kut in aljan usarn Prua-
dam : — Lebet Italial —
Helfa-bar bidar de Tatzan un huka-bar:
An der Gesunt sainer Excellenz un 'un aljan!
Ed eccone la versione :
Levo in alto il bicchiere,
e brindo alla salute
di sua Eccellenza © di tutti i presenti!
Signori! Ecco che queste
boscaglie v'aspettavano per darvi
1 benvenuti. Ecco che, .per mirare
1 lor muovi padnml,
incurvano gli abeti le alte creste,
e ©emhran dir: — Costoro
ci voglion ben: noi larem beiìe a loro.
Ponremo all'acque ed alle nevi inciampi,
, per modo che il toranenite
più non corra furente
a portar via le strade
e a desolare i campi. —
Or ncvn sentite voi quel venticello,
che spina di laseuso? Il bacio è quello
che mandano le fresche póanticine.
dal di là del ootnAnie,
all'itale sorelle, bisibigliando
in nm orecchio a lor: — Viva l'Italia! —
O venticello, qui non ti fermare:
GLI ULTIMI « aMBRI » 87
va' giù: vola a trovare
lutti i nostri fratelli,
ripetendo a oi>ascTin: — Viva l'Italia! —
Leviamo alto il bicchiere
e brlDidlamo di nuovo alla salute
di sua Eccellenza e di tutti i presenti!
L'ultima <xxmxx)sizione in « cimbro » del Cappelletti è stata pub-
blicata da me, nel 1919. È in forma di dialogo fra due donne di
Giazza, la Menichina dal Bosco e la Rosina dei Boasi {iz Miklja 'un
Bàldran un iz Rósale un Boasan), che discorrono della grave epi-
demia, che nell'autunno del 1918 colpì il loro paesello, desolandolo
con una morbilità spaventevole e con una forte mortalità : era l'in-
fluenza, la « spasola » , che imperversava, allora, in gran parte
d'Italia.
La i>arrocchia della Giazza comprende ventiquattro contrade, di
cui Giazza è la principale. La popolazione è buona, laboriosa, mo-
desta; composta in prevalenza di piccoli proprietari, che s'occupano
del bestiame, dei boschi e della faticosa coltivazione di pochi e magri
campicelli. Delle condizioni e dei costumi (che, del resto, non hanno
molto di caratteristico) dei nostri « Cimbri » scrissero i Cipolla, e,
più recentemente, il Baragiola, nelle sue pregevolissime pagine su
La casa villereccia di Giazza nei Tredici Comuni veronesi. Il Bara-
gioia descrive fedelmente l'economia alpestre degli abitanti di Giazza
e le loro case. Agli scritti dei Cipolla e del Baragiola rimaindo il let-
tore. Al quale, se è amante di curiosità bibliografiche, mi i)ermetterei
di suggerire la lettura della Jazzeides macaronica sive Carmen ma-
caronicunn de bellezzis et de pregiis famosi paesis de Jazza meschi-
nissimi et extremis V eronesorum: una lunga tiritera in distici mac-
cheronici, compresa in un raro opuscoletto di PoemiUa macaronica^
stampato a Verona nel Ì8i8, Autore dei Poemula è un prete, don
Giuseppe Peruffi, che conosceva bene Giazza e quei, montanari. Non
meravigliamoci che egli abbia scritto in latino maccheronico. La
poesia maccheronica a Verona, come m altri luoghi •ri{3l:a (e qui
si potrebbe ricordare un'avventura, toccata a Chioggia a quel bir-
bante di Giacomo Casanova), era in onore, sulla fine del secolo xvm
e nei primi decenni del xrx. Gente senza troppi pensieri, e bei capi
ameni, quei nostri nonni! Ma non si creda che nei distici del PeruflS
ci sia qualche cosa dell'arte sovrana del piii grande poeta realista
d'Italia, il poeta delle Maccheronee, Merlin Cocai. No: la Jazzeides
del prete veronese non è da j>aragonare ai versi immortali del frate
mantovano. Ma la Jazzeides ha valore di documento di qualche in-
teresse; e il PeruflB afferma il vero quando di Giazza scrive :
Hic fortis, patiens, parvo contenta, fadighìs,
assidua est gens ac religione pia;
e quando accenna alle pesanti opere agricole di quei villici :
Meesoras, forcones, rastros, state manezant,
foena segant, voltant, adqne tesam inde femnt.
88 GLI ULTIMI « OMBRI »
Interdum seu capras aut manzas pegorasve
menant bastone ad pascola pastorio,
ant oum zerlo per montem ludamina portant,
hinc zerlo aut fasso legna brusanda casae (1).
Queste mie-pagine spingeranno qualche lettone di buona volontà
ad informarsi un po' per esteso delle cose dei « Cimbri » veronesi, o,
meglio ancora, a visitare Giazza, ultimo rifugio della loro parlata?
Oserei sperarlo. Oggi, da Verona, per Illasi, Tregnago, Badia Cala-
vena e Selva di Progno, si raggiunge Giazza comodamente. E da
Giazza si può far partenza per compiere interessantissime gite: ad
esempio, a Recoaro dalla bella conca di smeraldo, o, per Revolto,
ad Ala (2).
Luigi Messedaglia.
(1) Messora, falce; tesa, fienile; zcrlus, gerla; ludamen, letame; fassus,
fascio.
(2) Si veda anche il recentissimo scritto di Elisa Hochkofler, A'ofa sta-
tistica sul variare della jìarlata tedesca nei 13 Comuni Veronesi dal sec. XVIII
ai nostri giorni, pubblicato nella Bivista geogixifica italiana, fascic. I-IV, 1921.
ANTICHI FASTI E PRESENTI CONDIZIONI DELLA SICILIA
I.
Malgrado i progressi verificatisi in questi ultimi sessant'aimi,
pili per forza di cose che p>er virtù degli uomini, la Sicilia non è an-
cora uscita da quel periodo di profonda decadenza, che ebbe prin-
cifpio con la dominazione spagnuola, e ohe si aggravò poi sotto gli
ultimi Borboni. Chi ha seguito le vicende storiche dell'isola, non
ha bisogno di chiarimenti; siccome però molti le ignorano o fingcMio
dignorarle, mi sembra opportuno discorrerne. Libri sull'argomento
non mancano, ma chi li legge? Eppure mai come oggi, in cui bi-
sogna rinnovare e risanare tutta la nostra vita, è necessario cono-
scere le vere cau9e che hanno impedito alla Sicilia di progredire
più rapidamente, perchè solo a questo mod5 essa potrà rendersi
conto del lungo cammino che le resta ancora a percorrere per as-
surgere alla sua antica grandezza, della quale sembra che molti
abbiano perduto anche la memoria.
Specchiantési nelle onde azzurrine del Mar Mediterraneo, con
un cielo iridescente e puro, con un clima dolce, con un suolo uber-
toso, vario, incantevole, la Sicilia ha tutte le condizioni per rendere
felici i suoi abitatori. Se è vero poi che la eccellenza dei popoli si
misura dalla somma dei beni materiali e spirituali, ohe essi hanno
saputo accumulare e tramandare alla posterità, al contributo che
hanno apportato all'incivilimento umano, il popolo siceliota deve
annoverarsi fra i più eccellenti ed illustri.
Ci volevano i moderni antropologi, con la loro leggerezza ed
ignoranza, per affermare che il popolo siciliano sia etnicamente in-
feriore. Se questi antropologi, invece di misurar crani, lavoro che
non conclude, avessero data una scorsa alla storia della Sicilia, si
sarebbero guardati bene di dire una simile eresia. Infatti, anche a
tacere della primitiva civiltà sicula, che gli studi e le ricerche ar-
cheologiche di Holm, di von Adrian, di Ccivallari e di Orsi hanno
messo in bella luce; basta ricordare quello che fu la Sicilia nel-
l'epoca greca, in quella saracena e finalmente in quella normanno-
sveva, per comprendere la natia virtù, il genio del popolo siciliano.
Cominciando dall'epoca greca, nessuno ignora che St^core, lo
afferma Plinio, nella lirica emulò Pindaro; Democrito d'Imera di-
venne così celebre nella pittura, da essere ritenuto maestro di Zeusi;
Pitagora leontino avanzò nella scultura lo stesso Policleto. Il tempio
della Concordia in Agrigento, per la maestà e la grazia delle sue
linee, era superiore ad ogni altro, compreso il Partenone; il tempio
90 ANTICHI FASTI E PRESENTI CONDIZIONI DELLA SICILIA
di Giove Olimpico, che sorgeva del pari in Agrigento, per la sua
grandiosità, era superato . soltanto da quello di Diana in Efeso; il
teatro di Siracusa, dove sedettero Pindaro, Eschilo, Aristippo e Piar
tone, fu uno dei più grandi e più belli del mondo greco. Chi fossero
stati gli artefici di tali monumenti ignorasi, ma è certo che il genio
siceliota aggiunse del suo a ciò che aveva ricevuto dalla Grecia.
È fuori di dubbio, poi, c!he nella numismatica, nella ceramica e nei
lavori di argento e di avorio, i sicelioti ebbero il primato; la mimica
fu loro invenzione; nell'eloquenza Gorgia leontino superò Pericle, e
stupì gli Ateniesi che pur erano avvezzi ai certami oratori. Sul pie-
distallo della statua d'oro ohe fu eretta a Gorgia in Olimpia, si leg-
geva questa iscrizione : « Alcun mortale non inventò mai un'arte più
bella per preparare le anime degli uomini alle opere della virtù».
Emperocle, maestro di Gorgia, fu poeta celebre: i suoi versi si
cantavano nei giuochi olimpici con quelli di Omero e di Esiodo; fu
sommo filosofo: la sua teorica degli elementi promordiali e delle
loro combinazioni ha un valore inestimabile. Essa schiuse le vie
alla chimica, alla fisiologia e alla psicologia moderna, abbattendo
le barriere fra l'inorganico e l'organico : la teoria dell'" Amicizia »>
e della « Discordia » fra gli elementi, preludia alla legge di Newton.
La scomparsa delle varietà mostruose nelle specie animali con-
tiene i germi della legge darwiniana della sopravvivenza del più
adatto. Empedocle fu inoltre igienista e sommo medico: fece pro-
sciugare le paludi attorno a Selinunte, liberando quella città dalle
epidemie, che la infestavano; fece tagliare un monte presso Agri-
gento per vincere i calori che la dominavano nei mesi estivi.
Empedocle fu il primo che si servì del potere dell'imaginazione
e dell'ipnotismo nella cura di certe malattie, donde la sua fama di
mago e di taumaturgo. « Quando egli percorreva le campagne della
Sicilia, scrive il Gomberz, una folla di adoratori e di adoratrici lo
circondava e gli offriva l'omaggio della propria ammirazione. Mi-
gliaia e diecine di migliaia di persone lo acclamavano e si stringe-
vano attorno a lui, chiedendogli qualche predizione o lo addolci-
mento di qualche dolore, la guarigione di qualche malattia».
Empedocle fu sommo uomo di Stato : egli fece riformare in senso
democratico la costituzione di Agrigento, ma quando i suoi concitta-
dini gli offrirono la corona di re, Emipedocle rifiutolla, perchè nemico
di ogni tirannide, e perchè egli sentiva di essere un genio, e sapeva
ohe i geni sono più grandi dei re.
Le leggi di Garonda, le quali vennero accolte non solo in Sicilia,
ma in tutta la Magna Grecia, furon celebri per la loro saggezza.
Platone avrebbe voluto introdurne parecchie nella sua Repubblica.
Archimede, chi lo ignora? fu il più grande dei matematici e dei
fisici dell'antichità. Cicerone lo disse uomo di mente divina. Egli
inventò il metodo dei limiti, che è la base del calcolo differenziale
ed integrale; fu il iprimo che dettò le regole della misura del circolo,
dei conoidi e degli sferoidi e quelle della quadratura della parabola.
Fondatore della scienza meccanica, scoperse le leggi dei centri di
gravità e dell'equilibrio dei piani e quelle della leva, nonché il prin-
cipio fondamentale dei corpi che si muovono nei fluidi, rendendo
possibile i meravigliosi progressi che si son raggiunti ai dì nostri
ANTICHI FASTI E PRESENTI CONDIZIONI DELLA SICILL\ 91
neir idrostatica e nell'aeronautica. Fece un gran numero di utiH in-
venzioni : dalla coclea, che Galileo disse maravigliosa e miracolosa,
e da cui venne poi l'elica, alla sfera celeste, la quale era intesa a
determinare i movimenti degli astri e la loro reciproca velocità.
Immensi furono i servigi resi all'umanità da Archimede, ed
altri avrebbe potuto renderne, se la di lui preziosa esistenza non
fosse stata, troncata, come narra la tradizione, dalla barbara mano
di un soldato di Marcello, quando questi, che per circa tre anni non
era riuscito, in grazia delle macchine belliche, inventate da x\rclii-
mede, ad espugnare Siracusa, potette impadronirsene con l'insidia,
macchiando la sua fama di guerriero. E Siracusa, di cui Pindaro,
Simonide, Baochilide, Epicarmo ed Elschilo cantarono la grandezza,
l'opulenza e le gesta; Siracusa che aveva vinto i Cartaginesi ad Imera,
e più tardi sotto le proprie mura, distruggendone in pari tempo la
flotta, e salvando la Sicilia dalla barbaria punica; Siracusa che aveva
osato con Agatocle di portar la guerra in Africa, facendo tremar la
sua potente rivale; Siracusa che determinò irreparabilmente la de-
cadenza di Atene, della quale vinse l'^ercito e distrusse la flotta,
che era la più agguerrita di quante allora tenevano il mare; Sira-
cusa che per le sue ricchezze, per i suoi commerci, per la sua posi-
zione geografica era destinata a diventare la capitale di un grande
impero coloniale, come avevano sognato Gelone e Dionisio il Vec-
chio, per il tradimiento di un vile mercenario, lo spagnuolo Merico,
cadde, e con essa la civiltà greco-sioeliota, che ha lasciato traccie in-
delebili nella storia, e monumenti, i cui ruderi destano ancora l'am-
mirazione del mondo.
II.
Ma i popoli che possiedono intrinseche virtù, come quello sice-
liota, e che hanno il privilegio di abitare una regione, alla quale la
natura ha prodigato largamente i suoi doni, malgrado i colpi del-
l'avversa fortuna, non muoiono. Essi decadono, ma per risorgere ap-
pena le circostanze lo permettono. Ma le circostanze furono per lungo
tempo avverse al popolo siceliota. Malgrado la sua posizione insu-
lare, la Sicilia era tropjK) esposta alle invasioni dei popoli, che, at-
tratti dalle sue naturali bellezze, cercarono in ogni tempo d'inapa-
dronirsene.
Infatti, dopo i Cartaginesi ed ,i Greci, la Sicilia vide successiva-
mente passare sulle sue belle contrade, Romani, Vandali, Goti, Ostro-
goti, Bizantini, Saraceni, Normanni, Svevi, Angioini ed Aragonesi.
Però nessuna di queste dominazioni riuscì a mettere profonde ra-
dici nell'isola, perchè il popolo siciliano non si lasciò mai né assor-
bire né interamente sopraffare. Esso, in mezzo a tante vicende, con-
servò sempre la sua natia fierezza ed uno spirito d'indipendenza,
che gli costarono sacrifìci e dolori, ma non permisero scomparisse
dalla scena del mondo, come accadde ad altri popoli.
Dopo un lungo periodo di decadenza, la Sicilia risorse sotto i
Saraceni. Chiamati da Eufemie, che si era ribellato al crudele ed
inetto imperatore Michele il Balbo, i Saraceni, che avevano tentato
più volte, e sempre invano, d'impadronirsi dell'isola, trovarono in-
92 ANTICHI FASTI E PRESENTI CONDIZIONI DELLA SICILIA
fine minore resistenza nel popolo siciliano, il quale era ormai stanco
del dispotismo bizantino e delle ubbìe monastiche. Superati i primi
ostacoli, i Saraceni, specialmente sotto gli emiri fatimiti, diedero
alla Sicilia una certa autonomia ed indipendenza, e fecero rinascere
Tagricoltura, le arti, le scienze e le virtù militari, dando all'isola
una notevole prosperità.
I suoi ubertosi campi producevano largamente grano, cotone,
canapa, indaco, zafferano, canne da zucchero, miele e frutta di (^ni
spec-ie. Anche le industrie fiorirooo, specialmente quella delia seta.
III.
Del fecondo impulso, dato all'isola dai Saraceni, si giovarono
largamente i Normanni, i quali,, malgrado il loro esiguo numero,
riuscirono a trion.fare sui primi, tperchè il popolo siciliano li accolse
più come liberatori, ohe come conquistatori. I Normanni, infatti,
per la lunga permanenza nella Penisola, erano riguardati come ita-
liani; mentre i Saraceni, per la diversità della lingua, dei costumi
e della religione, malgrado la loro tolleranza e i benefìci arrecati
alla Sicilia, non potettero fondersi con gl'indigeni, che li conside-
rarono sempre come stranieri. Ben altro contegno tenne il popolo
siciliano verso i Normanni, sotto la cui dominazione, l'isola divenne
potente e ricca. Lungo il fausto regno di Ruggiero II e di Guglielmo
il Buono, la Sicilia non solo vide prosperare le arti, le lettere e le
scienze, ma anche l'agricoltura ed il commercio. Le navi siciliane
percorrevano i mari, esportando grano, cotone grezzo e filato, zuc-
chero, storace odorifero, pece, frutta secche e giulebbate ed altri pro-
dotti.
Palermo s'ingrandì e s'abbellì notevolmente. Eissa vide ampliato
il Palazzo reale, fondata la Cappella Palatina, che è unica al mondo
per i tesori d'arte che racchiude, ed ebbe quella che Ibn-Gibbair
appellò collana di ville regge: la Zisa, Cuba, Menàni e Maredolce.
La vicina Morreale vide, infine, sorgere il suo famoso Duomo.
IV.
Ma fu sotto Federico II (anno 1197-1250), che la Sicilia raggiunse
l'apogeo della sua potenza e del suo splendore. Nato in Italia, ed
educato dalla madre italianamente, questo grande e geniale monarca
avrebbe affrettato di sei secoli l'indiipendenza e l'unità della patria
nostra, se i Pontefici, che consideravano la Sicilia come un feudo
della Chiesa, non avessero attraversato i suoi disegni e la sua prov-
vida e mirabile opera. Incoronato a Palermo quando non aveva che
tre anni, e dichiarato maggiorenne a 14, Federico accettò la corona
di Germania, ma le sue predilezioni furono sempre per l'Italia, ed
il suo amore per la Sicilia, dove ^Ji era cresciuto, per la sua Pa-
lermo, dove era stato educato e dove rifulse maggiormente la sua
gloria. Il pensiero di Federico era quello di unire sotto il suo scettro
tutta l'Italia, la quale avrebbe dovuto essere il ifulcro e la sede del-
l'Impero, e non già una provincia della Germania, come era stata
ANTICHI TASTI E PRESENTI CONDIZIONI DELLA SICILIA 93
sempre considerata e tenuta dai suoi predecessori. E Federico sa-
rebbe certamente riuscito a realizzare questo grandioso disegno, che
avrebbe assicurato all'Italia benefìci incalcolabili, se nella titanica
lotta, che egli dovè sostenere contro il Papato, le città lombarde non
avessero sorretto quest'ultimo.
In quell'epica lotta, la Sicilia si mostrò degna del suo gran Mo-
narca. Quando infatti Gregorio IX e poi Innocenzo IV condannarono
Federico come eretico e nemico della Chiesa, e lo dichiararono de-
caduto dal trono, invitando i sudditi a negargli obbedienza e tutti
i (principi della Cristianità a bandire una crociata contro di lui; il
popolo siciliano, compreso il clero, non abbandonò Federico, come
avevano fatto in simili circostanze altri popoli, ma gli si strinse at-
torno e lo sorresse virilmente, non esitando a battersi contro i sol-
dati che Gregorio IX aveva mandato contro Federico, mentre egli
era in Oriente per le Crociate, e più tardi a seguirlo nella spedizione
contro Roma. Precursore dei tempi nuovi in ogni manifestazione
della sua multiforme attività. Federico II fu il pTrimo che concepì
l'idea di uno Stato laico, forte ed inteso al bene del popolo. A tal
uopo, egli accrebbe i poteri dello Stato per meglio tutelare la lii)ertà
civile; tolse le immunità di cui godevano gli ecclesiastici; limitò il
potere ed i privilegi dei nobili; istituì magistrati r^i, onde fosse
resa a tutti imparziale giustizia; abolì i giudizi di Dio, ordinò meglio
la pubblica amministrazione e la polizia; volle che nei Parlamenti
sedessero, accanto ai nobili ed ai prelati, i sindaci delle città; restaurò
l'antica potenza marittima dei Normanni, ponendo a servizio di essa
la fiotta che egli aveva fatto costruire; proclamò la libertà di com-
mercio all'interno ed assicurò quello estemo con opportuni accordi
intemazionali; abolì il barbaro diritto di naufragio, e protesse in
varie guise i commercianti. Amico delle scienze, delle arti e delle
lettere., non solo fondò l'Università di Napoli, ma raccolse libri di
ogni sorta, fece tradurre scritti greci in latino e divulgare le opere
di Aristotele; raccolse lavori artistici, ordinò gli scavi d'Augusta in
Sicilia; chiamò alla sua Corte gli uomini piìi illustri del suo tempo :
Pier delle Vigne, Taddeo da Sessa, lo storico Accadine, il filosofo
Michele Scoto ed il celebre scultore ed architetto Nicolò Pisano. E
tutto questo Federico II fece con nobili ed alti intendimenti. « Noi
crediamo, egli scriveva a Pier delle Vigne, che ci giovi molto se pro-
curiamo ai nostri sudditi occasione d'istruirsi, perchè, istruiti, am-
ministreranno meglio le cose dello Stato, e provvederanno meglio
al proprio benessere ed a quello della patria ». Federico II, insomma,
con le sue leggi che costituiscono un mirabile monumento di sapienza
politica, e con il suo provvido ed illuminato governo, diede, special-
mente alla Sicilia, sede del suo regno, una grandezza ed una pro-
sperità non mai vedute.
Fra le sue benemerenze vi è quella di aver dato asilo ai trova-
tori, perseguitati in Provenza, e di avere incoraggiato Io svilmppo
della lingua volgare, da cui venne poi quella italiana, che ebbe le
sue prime origini in Sicilia, la quale sotto Federico II acquistò un
nuovo e rigoglioso palpito di vita, che avrebbe rigenerato l'Italia ed
il mondo, se la sorte non fosse stata crudele con la dinastia sveva.
Imperocché, morto Federico nel 1250, breve e travagliato fu il regno
del figlio Corrado» e tragica la fine del valoroso Manfredi, che, tra-
94 ANTICHI FASTI E PRESENTI CONDIZIONI DELLA SICILIA
dito ed abbandonato dai baroni, cercò ©d ebbe la morte nella bat-
taglia di Benevento; e del giovinetto Gorradino che, sconfitto a Ta-
gliacozzo, fu mandato iniquamente al patibolo dal crudele Carlo
d'Angiò.
Ma se facile riuscì a Carlo, con gli aiuti del Pontefice e del
re di Francia, suo fratello, di conquistare il regno, non egualmente
facile gli riuscì di tenere la Sicilia, la quale, anche ned tempi peg-
giori, non tollerò violenze e sopraffazioni. E violenze, abusi e so-
praffazioni di ogni specie solevano quotidianamente commettere gli
Angioini, Il popolo ne fremeva, e, quando la misura fu colma, bastò
un piccolo incidente in una festa camipestre presso la chiesa di Santo
Spirito nelle vicinanze di Palermo, l'affronto fatto da un ufficiale
francese, tal Droetto, ad una giovane sposa, col frugarla nel seno,
perchè l'ira divamipasse terribile, prima fra gli astanti, che truci-
darono i duecento soldati che erano sul posto, indi a Palermo, ed
infine in tutta l'isola, al grido: «Muoiano, muoiano i francesi!».
E tutti furono implacabilmente massacrati. «-Parea, scrive lo storico
Saba Malaspina, che ogni uomo avesse a vendicare la morte del
padre, d'un fratello, di im figlio». Un solo francese fu risparmiato:
Guglielmo Porcelet: egli era un giusto. Mai vendetta di popolo fu
più rabbiosa ed esemplare. Chiudendo la narrazione di quanto al-
lora accadde, e che fu tramandato ai iposteri col nome di Vespro,
l'Amari, che mirabilmente l'illustrò, dice: « Corse vasta e miseranda
la strage; ma era necessaria, e però a ragione il popolo nostro or-
gogliosamente serba infìno ad oggi la memoria di quell'antica feroce
virtù».
Comipiuto lo sterminio dei Francesi, il popolo siciliano, preve-
dendo che Carlo, furente e sitibondo di vendetta, avrebbe cercato di
soffocare nel sangue la sommossa, prese le misure necessarie per
impedire che gli Angioini tornassero ad opprimere l'isola. A tal uopo,
le principali città si federarono, sperando di potersi reggere a re-
pubblica. Ma il timore che Messina, già assediata dall'esercito di
Carlo, non fosse in grado di resistere a lungo, e che i siciliani da
soli non bastassero a fronteggiare la coalizione che, auspice il Papa,
minacciava formarsi contro di loro, indusse il Parlamento a chia-
mar Pietro d'Aragona, che aspirava da tempo al trono della Sicilia.
E Pietro venne e fu proclamato re a Palermo il 7 settembre 1282. Ma
la resistenza di Messina fu così eroica, che, pochi giorni dopo l'arrivo
di Pietro, gli Angioini, sconfitti dai Messinesi, tolsero precipitosa-
mente l'assedio, e abbandonarono la Sicilia.
Se ciò fosse accaduto prima, la repubblica siciliana si sarebbe
forse consolidata, e gli avvenimenti avrebbero preso un altro corso.
Invece, la proclamazione di Pietro complicò le cose. La guerra, di-
ventata più aspra, si protrasse per ben venti anni, durante i quali il
popolo siciliano diede prova d'ammirabile eroismo, guadagnando
quattro battaglie navali e tre terrestri, espugnando fortezze, scio-
gliendo assedi, ed annientando tre esercito nemici.
Benefica si dimostrò sulle prime la dinafitia aragonese, rispet-
ANTICHI FASTI E PRESENTI CONDIZIONI DELLA SICILLV 95
tando la costituzione di Guglielmo il Buono, allargando i poteri del
Parlamento generale e quelli dei Municipi, e governando con sag-
gezza. Ma dopo il primo Federico le cose volsero a male. I baroni
alzarono la testa, e cominciarono a dilaniarsi fra loro; le città ed i
municipi ne seguirono l'esempio e le inimistà e le discordie divam-
parono in tutta l'isola, che decadde rapidamente.
Francesco Crispi, con l'acume e la concisione di Tacito, cosi
descrive i tempi che seguirono la gloriosa rivoluzione del Vespro:
« In meno di un secolo i nobili ed i prelati ricacciarono la Sicilia
nelle tenebro del Medio evo. Nel 1382 il paese era caduto nell'anar-
chia e govemavasi da quattro baroni; la regina in prigione, muto
il Parlamento, il popolo diviso in fazioni, dimentico dei suoi diritti.
Un secolo dopo, l'isola nostra era divenuta provincia straniera e ri-
ceveva leggi e governo dalla Spagna. Nel 1482 avreste detto che la
schiavitù nell'isola nostra fosse naturale, e che giammai il nostro
popolo avesse respirato aure di libertà. Nel 1582 era re quel feroce
Filiptpo, che Alfieri stigmatizzò con versi sublimi : « pessimo re,
padre inumano». Nel 1682 era re Carlo II, ultimo di casa d'Austria,
e viceré il Conte di Santo Stefano, il carnefice di Messina... Nel 1782
era re quel Ferdinando III che più tardi si battezzò primo, per di-
struggere le nostre franchigie: fu lui che inaugurò la mannaia e
che l'abbeverò del sangue dei patrioti » .
Gli ultimi Borboni fecero il resto.
Non par vero come la tirannide possa imbarbarire anche i po-
poli meglio dotati.
t VI.
La massima che i popoli hanno il governo che si meritano, è
vera soltanto per i popoli che vivono in regime di libertà. A quelli
che sono tenuti sotto il giogo con la forza, se hanno natie virtù,
altro non resta che congiurare ed insorgere, soccombere o liberarsi
dalla schiavitù che li opprime. Ed il popolo siciliano, scosso dal suo
torpore dalla rivoluzione francese, altro non fece, dal 1797 al 1860,
ohe congiurare ed insorgere. Innumerevoli furono i generosi ohe
lasciarono la vita in quelle sommosse o sul patibolo, e quelli che
marcirono nelle carceri o soffersero i dolori e le miserie dell'esilio;
ma finalmente il giorno della liberazione venne, e fu salutato con
immensa' gioia.
Se nonché deluse in gran parte andarono le speranze che il po-
polo siciliano aveva concepito nei ipatrio risorgimento, al quale esso
aveva largamente contribuito.
Numerosi e profondi erano i mali che affliggevano la Sicilia,
dovuti principalmente all'iniquo governo dei Borboni, i quali, sa-
pendosi cordialmente odiati, riponevano la salvezza del trono nel-
l'ignoranza e nella superstizione del popolo, nelle discoixlie inte-
stine, che essi non mancavano di fomentare; nei più odiosi metodi
polizieschi, nelle feroci repressioni e nel sistematico uso della forca.
Spettava al governo nazionale di risanare queste piaghe, ma
esso disgraziatamente non seppe farlo. Nei primi tempi, anzi, le
condizioni dell'isola peggiorarono. Credendo di poter m^lio e più
96 ANTICHI FASTI E PIIESENTI CONDIZIONI DELLA SICILIA
presto cementare l'ottenuta unità, furono estesi alla Sicilia le leggi
e gli ordinamenti del Piemonte, senza badare che essi non rispon-
devano alle tradizioni, all'educazione e alle speciali esigenze del-
l'isola. I numerosi funzionari continentali, che vi furono mandati, ivg-
gravarono poi, con la loro insipien25a, il disagio derivante dalla le-
;,'islazione inadatta. Sopraggiunsero indi i pesanti balzelli che riu-
soirono esosi ovunque, ma specialmente in Sicilia, sia perchè poche
e blande erano ivi le imposte sotto i Borboni, sia per il modo ves-
satorio come soleva farsi la riscossione. Seguirono la leva militare,
che prima non vi era, e che il popolino apiprese male; la confisca
dei beni ecclesiastici, che sembrò una spogliazione; il modo eccessivo
come furono repressi i mal comipresi moti del '66; queste ed altre
simili cose seguirono, e fecero apparire la sospirata ed ottenuta
unità, non come una liberazione, quale era effettivamente, ma come
una delle solite conquiste, ohe il popolo aveva sempre odiato e de-
precato.
Esso quindi guardò con diffidenza e con sospetto il nuovo go-
verno ed i suoi agenti, e si chiuse in sé medesimo.
Era fierezza, era sete di libertà e di giustizia, e parve sorda ri-
bellione, donde inconsulte misure, le quali inasprirono maggiormente
u:li animi. L'unico rimedio era invece quello di amministrare e go-
vernare bene l'isola, ma questo rimedio si fece a lungo attendere.
Il modo come fu intesa e si svolse in Sicilia la vita politica non era
il pili adatto a far risorgere nel .popolo la fiducia nella giustizia e
nelle autorità. Quantunque le istituzioni parlamentari fossero nate
in Sicilia, prima ohe altrove, tuttavia il lungo periodo di servitù a
cui l'isola soggiacque, aveva cancellato, come abbiamo visto innanzi,
il ricordo di esse e le virtù che occorrevano per fame buon uso e
per trarne profitto. Perciò quando il popolo, conquistata la libertà,
fu chiamato ad esercitare i diritti sovrani, che le nuove istituzioni
gli assicuravano, non seppe farlo come si conveniva. Essendo questa
la causa che ha maggiormente nuociuto, e ohe tuttora nuoce alla
Sicilia, consentitemi di esaminarla nei suoi particolari. Le cose che
dirò sono note a tutti, ma non tutti mostrano di conoscere le gra-
vissime conseguenze che ne sono derivate e ne derivano, e come sia
necessario ed urgente di farle cessare, eliminando la causa, che le
producono.
II regime parlamentare, anche quando funzioni regolarmente,
cioè, coH'alternarsi dei partiti al potere, per la realizzazione dei loro
programmi, si riduce sempre, nelle sue ultime conseguenze, ad una
lotta d'interessi materiali.
Ma questo regime in Italia ha funzionato e funziona, come tutti
sanno, in maniera molto imperfetta. Per comprendere le conse-
guenze che derivano da questa imperfezione rispetto agl'interessi
rrenerali e locali, bisogna principalmente guardare a ciò che gli elet-
tori sogliono pretendere dai loro rappresentanti, e a ciò che questi
ultimi debbono fare per assicurarsi la rielezione.
Ora, su questo punto, è fuori di dubbio ohe gli elettori delle
regioni più industriose, più ricche e più evolute, generalmente chie-
dono ai loro rappresentanti di ottenere dal governo la costnizione
di strade, di ponti e di opere pubbliche di ogni specie, la prote-
zione delle loro industrie, facilitazioni per esportare i loro prodotti,
ANTICHI FASTI E PRESENTI CONDIZIONI DELLA SICILIA 97
Ogni cosa insomma che valga ad accresoere la ricchezza e la pro-
sperità generale della loro regione, prosperità la quale poi ridonda
a favore di ogni singolo cittadino.
Gli elettori meridionali, in genere, e quelli siciliani, in ispecie,
sogliono, al contrario, prevalentemente domandare ai loro deiputati
piccoli favori personali, ed è soltanto di questi ohe essi si ricordano
il giorno delle elezioni. Quello che il deputato ha fatto nell'interesse
generale, della regione o del proprio collegio, si dimentica con faci-
lità. I deputati, che ciò non ignorano, sono costretti a coltivare prin-
cipalmente gl'interessi personali dei singoli elettori, e ad attender
meno, per necessità di cose, agl'interessi generali. Quelli che per
avventura fanno il contrario, vengono ordinariamente eliminati: il
corpo elettorale non li rielegge.
I deputati sanno inoltre che gli elettori, nella generalità dei casi,
guardano la vita politica a traverso le lotte locali, òhe nelle provincie
meridionali e specialmente in Sicilia sono ardentissime. Ogni de-
putato quindi è costretto a favorire in tutti i modi possibili i propri
amici e a combattere i loro avversari, dai quali non ha molto da
spyerare, qualunque sia il suo merito. Se egli cerca di conciliarli,
corre pericolo di perdere gli uni e gli altri.
Se gli amici dtl deputato hanno nelle mani l'amministrazione
comunale, quest'ultimo, se non vuol perdere il loro favore, deve
adoperarsi che vi rimangano anche quando amministrino male. Se
sono all'opposizione, perchè in minoranza, il deputato deve aiutarli
in guisa che diventino maggioranza, o che, comunque, afferrino il
potere e lo conservino. Ma x>6r fare l'una o l'altra cosa, il deputato
ha bisogno dell'appoggio del governo e dei suoi organi, e special-
mente del Prefetto. Per ottenere questo appoggio, il deputato non
sempre può conservare la sua libertà politica e la sua attività par-
lamentare; egli è costretto a lavorare e votare pel Ministero, bene
o male che faccia. La fedeltà è il primo requisito che si richiede nei
deputati amici del governo. Chi ha questo requisito, e d'ordinario
lo possiedono i mediocri, quelli, cioè, che non ne hanno alcun altro,
acquistano il diritto ai più alti posti, sono eletti nelle più impor-
tanti commissioni, sono nominati Sottosegretari di Stato o Ministri»
anche quando non abbiano alcuna preparazione tecnica, donde il
prepotere della burocrazia, la quale, invece di obbedire, comanda.
A questi deputati, in fine, suole farsi un trattamento di favore in
ogni tempo, e specialmente nelle elezioni.
Se, malgrado ^c ^..«àsioni del governo, gli elettori non li eleg-
gono, essi vengono, prima o poi, nominati senatori, escludendo gli
uomini di merito, ma indipendenti. E ciò non ha sempre contribuito
al prestigio dell'Alta A.ssemblea.
Io potrei illustrare con numerosi esempi, antichi e recenti,
quanto ho detto innanza; ma mi guarderò bene dal farlo, perchè
potrebbe sembrar pettegolezzo. Del resto chi segue da vicino lo svol-
gimento della nostra vita politica, conosce molto bene queste cose.
Mi fermerò piuttosto ad accennare alle gravissime conseguenze che
derivano da un sì fatto sistema.
In primo luogo, l'ingerenza della politica nell'amministrazione
perverte quest'ultima con grave danno dei 'cittadini, i quali, ammi-
7 rTol. OOXVI, Berle VI — 1* «ennaio 19£8.
"98 ANTICHI FASTI E PRESENTI CONDIZIONI DELLA SICILU
Distrati male e trattati con parzialità, finiscono col perdere ogni fede
nella giustizia e nelle istituzioni. Gli odii e le lotte locali, poi, invece
di smorzarsi si acuiscono e si perpetuano. In secondo luogo, il regime
parlamentare, invece di fondarsi sui partiti e sui programmi, si
fonda sulle clientele. I capi di governo cercano di formarsi la mag-
gioranza, dispensando favori, e quanto più sono larghi nel farlo,
(più è numeroso il loro seguito, sul quale possono contare anche
quando, e sopratutto quando incorrono in gravi errori, o compro-
mettono i più vitali interessi del paese. La loro opera è sempre lo-
data dalla clientela che li sorregge, e che ha interesse di mantenerli
al governo per ottenerne i favori.
È così che alcuni uomini politici in Italia sono diventati, forse
senza volerlo, veri dittatori. Ma questa specie di dittatura personale
è peggiore del dispotismo, perchè il despota almeno assume la re-
sponsabilità dei propri atti dinanzi al popolo; mentre il dittatore
cuopre la sua responsabilità con i voti del Parlamento, e quindi
non trova remora al suo arbitrio. Gli errori da lui commessi ven-
gono attribuiti a difetti d^lle istituzioni, le quali cadono in discredito
e diventano odiose.
Fu con un ragionamento di questo genere che gl'inconvenienti
da me descritti vennero attribuiti al collegio uninominale, e quindi
si suppose che allargando la circonscrizione elettorale ed introdu-
cendo lo scrutinio d'i lista, essi sarebbero cessati. Ma l'esperienza
delle ultime due elezioni hanno dimostrato la fallacia di tale sup-
posizione. L'allargamento delle circonscrizioni, che doveva romi)ere
i rapporti di clientela fra elettori ed eletti, e fra questi e i gover-
nanti, ha modificato ben poco tali rapporti. Ogni candidato porta
nelle liste, che si formano con criteri personali, il contributo dei
voti che gli danno i propri amici, con le relative preferenze, salvo
a mercanteggiare, e non sempre lealmente, le altre preferenze, di
cui ogni elettore può disporre. È a questo modo ohe funziona il
nuovo sistema elettorale, dove, come nelle Provincie meridionali e
nella Sicilia, non vi sono ancora veri partiti organizzati.
Il collegio uninominale in sostanza continua a vivere e con esso
tutti gli antichi inconvenienti, i quali vengono talora aggravati dalla
concorrenza sleale e fratricida che i compagni di lista sogliono farsi,
e dalle rivalità che si determinano fra le provincia che compongono
ogni singolo collegio, alcune delle quali ottengono, a danno delle
altre, un maggior numero di rappresentanti.
Non è certo questo sistema che cementerà, come alcuni spera-
vano, la compagine nazionale, e che farà scomparire la corruzione,
la quale, al contrario, si esercita più largamente di prima, con La
compra dei voti di preferenza, assicurando la vittoria ai candidati
meno scrupolosi e che dispongono di maggiori mezzi. La verità è
ohe la radice dei mali su deplorati è nella imperfetta educazione
politica degli elettori, e perciò, fino a quando essi resteranno quali
sono, è vano sperare che, mutando i metodi elettorali, gl'inconve-
nienti possano scomparire.
Ora, se la Sicilia, dopo 60 anni della sua liberazione, non ha
ancora le strade delle quali ha bisogno; se la manutenzione dei suoi
porti lascia molto a desiderare; ae le sue campagne, per mancanza
ANTICHI FASTI E PRESENTI CONDIZIONI DELLA SICILIA 99
di bonifiche, sono infestate dalla malaria; se frequenti sono le inon-
dazioni, perchè i suoi fiumi difettano di arginature ed i suoi monti
di boschi; se le sue industrie non sono protette; se in una parola
essa non ha potuto ottenere tutto quello che è indispensabile per
elevarsi e prosperare; ciò è dovuto, in gran parte, al modo come si
è svolta e si svolge nell'isola la vita politica.
I Siciliani, che vedono trascurati i loro interessi, ne attribui-
scono la colpa al governo, senz'accorgersi Ohe la causa prima dei
mali, che deplorano, risiede in loro stessi. Difatti, mentre nei go-
verni assoluti è il monarca, che, di suo arbitrio, provvede ai bisogni
generali delle varie regioni; nei governi parlamentari, invece, cia-
scuna regione fa valere i suoi interessi, premendo sui propri rajp-
presentanti, e questi sul governo, dal quale cercano di ottenere
quanto più è possibile. A seconda che sia maggiore o minore l'ascen-
dente e la pressione che questi rappresentanti sono in grado di eser-
citare sul governo; maggiore o minore è quello che essi ottengono a
favore dei loro rappresentati, sul fondo comune, ohe è costituito
dal bilancio dello Stato. Eissendo questa, e non altra, la natura deJ
regime parlamentare, è stoltezza lagnarsi del governo, per quello
che esso fa o non fa rispetto a questa o a quella regione; imperocché
il governo è la risultante delle forze (politiche, nel giuoco parlamen-
tare, ed opera non già secondo criteri assoluti di giustizia distribu-
tiva, ma secondo le necessità che lo premono, ed alle quali egli deve
necessariamente obbedire.
Se la Sicilia, adunque, vede non di reido trascurati i suoi inte-
ressi, ciò dipende principalmente dal modo come vengono eletti i
deputati e da quello che suole chiedersi con preferenza ai medesimi,
cioè, favori personali ed aiuti nelle com-petizioni locali, cose tutte
le quali asserviscono il deiputato al governo in guisa che, quando
egli chiede provvidenze d'indole generale, il ministero nicchia, sa-
pendo che non per questo il deputato gli voterà contro.
La deputazione siciliana, ipoi, non sempre riesce a mettersi d'ac-
cordo per chiedere collettivamente al governo date provvidenze, e,
quando vi riesce, chiede talora molto piìi di quello che esso può con-
cedere. Ciò non deriva da inettezza o mal talento dei singoli deputati
siciliani, come alcuni potrebbero credere, ma sibbene dal fatto che,
essendo molto numerosi i bisogni dell'isola e quasi tutti urgenti, e
non sempre jLrmonici, riesce difficile l'accordo fra i deputati, vo-
lendo ciascuno di essi dar la preferenza a quei bisogni che più gli
premono. L'accordo quindi ordinariamente si consegue col doman-
dare ai governo più di quello che in dati momenti è possibile otte-
nere, e non di rado si finisce per non ottenere nulla. Tutto ciò che
ho esposto innanzi costituisc<e la regola. Eccezioni ve ne sono molte,
e nobilissime, le quali f^no onore alla deputazione siciliana, che
deplora lo stato anormale di cose, in cui è costretta a svolgere la
sua attività politica, e desidera di vederlo oesscire al più presto. Il
risveglio che si è verificato in questi ultimi tempi per organizzare
nell'isola i partiti «politici, è un buon sintomo, perchè tale organiz-
zazione renderà più autorevole e più sicura e disciplinata l'opera di
ogni deputato.
100 ANTICHI FASTI E PRESENTI CONDIZIONI DELLA SICILU
VII.
Certamente, se si fosse tenuto conto che, aiutando la Sicilia, La
quale abbonda di naturali risorse, l'intera nazione ne avrebbe indi-
rettamente risentito notevoli benefìci, si sarebbe (provveduto ai suoi
più urgenti e generali bisogni, senza far dipendere ciò dal dina-
mismo parlamentare, da me sopra accennato. Così, ad esempio, se
si fosse, a tempo opportuno, pensato di risolvere il (problema del
latifondo, avrebbe potuto ricavarsi dalla Sicilia una considerevole
quantità di cereali, che abbiamo dovuto, invece, acquistare all'estero
a prezzi altissimi. Oltre a ciò, si sarebbero ottenuti altri benefici. In
un discorso ohe io feci alla Camera, il 10 maggio l'Oli, dimostrai
che il latifondo, per il modo come viene usufruito, esaurisce la fer-
tilità della terra, ostacola la trasformazione della cultura e lo svi-
luppo della ipiccola proprietà coltivatrice, impedisce lo sviluppo della
viaibilità agraria ed il bonificamento, produce l'assenteismo dei prot-
prietarii ed il parassitismo degli intermediari, sciupa le forze del
lavoratore, rende malsani ed infetti i comuni rurali, alimenta la
mafia e la delinquenza, ed impoverisce la classe agricola, costrin-
gendola ad emigrare. Alcuni di questi inconvenienti, dopo la guerra,
sono cessati, ma ne restano sempre tanti, da far ritenere che il lati-
fondo costituisca anche oggi una vera calamità per la Sicilia. Al-
lora la mia voce si perdette come in deserto : i contadini non erano
in quel tempo elettori, e perciò ben pochi s'interessavano della loro
sorte; ma non aippena acquistarono l'arma del voto, tutti comincia-
rono ad occuparsene, compreso il governo, il quale finalmente mo-
stra di voler risolvere la quistione del latifondo. Però io ritengo ohe
i mezzi, dei quali intende servirsi, non siano adeguati allo scopo.
Prima di spezzare il latifondo e di procedere alla colonizzazione,
occorrerebbero molteplici lavori preparatori : costruzioni di strade,
bonifiche, bacini montani, ecc.; lavori che dovrebbero farsi diret-
tamente dallo Stato, imitando in questo l'esempio della Prussia e
della Nuova Zelanda.
Dovrebbero inoltre farsi mutui di favore ai coltivatori per ren-
dere possibile la costruzione di case coloniche e la nascita di vil-
laggi, l'acquisto di concimi e di macchine agrarie, senza,' di che la
colonizzazione sarebbe destinata a fallire, come falliroDO le occupa-
zioni di teirre tumultuariamente verificatesi in questi ultimi tempi
nell'isola. Senza dubbio, per fare tutto quello che è necessario per
una colonizzazione razionale, occorrono larghi mezzi, l'impiego dei
quali riuscirebbe poi fruttuoso, in quanto ohe non solo si otterrebbe
la redenzione materiale e morale della Sicilia, ma si accrescerebbe
la ricchezza e la prosperità dell'intera nazione.
« La vecchia» società che si adagia sul latifondo, con le sue mi-
serie, con le sue rivalità e con i suoi odii implacabili, con le cricche
camorristiche e parassitarie, cadrà per sempre, e sorgerà sulle sue
rovine un nuovo mondo sociale, illuminato dalla luce della vera
civiltà e della giustizia». Così concludevo il mio discorso alla Ca-
mera nel 1911, e così ripeto oggi, augurandomi di vedere aJ più
presto risoluto il problema del latifondo in modo serio e radicale.
Anche un altro problema deve risolversi senza indugio, per
ANTICHI FASTI E PRESENTI CONDIZIONI DELLA SICILIA 101
assicurare la prosperità della Sicilia e dell'intefro paese: quello che
concerne la pubblica amnainistrazione.
È inutile che io ricordi i danni che produce il pessimo ordina-
mento amministrativo, che vige fra noi; perchè tali danni sono ormai
noti a tutti. Quando si pensa che nel discorso della Corona nel 1869
si riconosceva la necessità e l'urgenza di semplificare ramministra-
zione e di rendere i funzionari responsabili dei loro atti; e che, dopo
cinquantadue anni, non si è concluso ancora nulla, e, quel che è
peggio, si è lasciato aggravare il problema in guisa da renderlo
quasi insolubile; bisogna riconoscere che il nostro è un paese straor-
dinario. Ci voleva che gl'inapiegati scioperassero (sciopero a ragione
deplorato generalmente) iperchè il governo si decidesse ad intrapren-
dere la riforma dei pubblici servizi.
Dopo di avere, fino a poco tempo fa, assunto nuovi impiegati,
malgrado si sapesse che il loro numero era eccessivo, e che, anche
pagandoli meschinamente, ne derivava un onere finanziario insop-
portabile; si sono dovuti chiedere i pieni poteri per procedere alla
loro decimazione. Senza dubbio, questa è necessaria, ma essa pro-
durrà dolorose c<Miseguenze: molte famiglie che già sono povere,
cadranno nella miseria, il numero dei disoccupati intellettuali, alla
cui sorte è più diflBcile provvedere, aumenterà; quelli poi che avran-
no la fortuna di conservare il posto, è diflBcile che restino soddisfatti
dei miglioramenti ottenuti, ed ora che, in seguito allo sciopero, non
pochi hanno passato il Rubicone, avvicinandosi ai socialisti, po-
tranno, un giorno o l'altro, creare gravi imbarazzi, Bismarck pre-
vide che le nazioni civili sarebbero state schiacciate un giorno dalla
burocrazia subalterna. Auguriamoci che questa previsione non si
avveri fra noi. Auguriamoci altresì che si riesca a dare finalmente
un migliore assetto alla pubblica anuninistrazione.
Mentre prima, però, molti si contentavano d'un ragionevole de-
centramento, ora alcuni parlano di autonomia, di federazione: si
vorrebbe, a quanto sembra, far dell'Italia una grande Svizzera. Ciò
significa passare da un eccesso all'altro. L'unità italiana è cosa troppo
sacra, e però non è lecito comprometterla con esperimenti inconsulti.
Semplificare, decentrare, rendere responsabili i pubblici funzionari
e pagcurli bene, per ora almeno, potrà bastare. GU effetti di una
tale riforma saranno benefici, ed io confido che il governo dell'ono-
revole Bonomi riuscirà ad attuarla nel miglior modo possibile. Quan-
do i cittadini non avranno -piià bisogno di ricorrere, per ogni piccolo
affare, al governo centrale, e quando sapranno che questo non potrà
più concedere favori, perchè di ogqi atto che l'impiegato compie,
ne risponde personalmente, non si rivolgeranno più, tranne casi
eccezionali, ai deputati, e quindi, a poco a poco, si scioglieranno le
clientele, che avvelenano la nostra vita xx)litica. La funzione parla-
mentare diventerà normale. Gl'interessi pubblici saranno meglio cu-
rati, e la Sicilia potrà ottenere molte cose che finora non ha potuto
conseguire.
Se, come io spero, queste previsioni si avvereranno, la Sicilia,
questa terra di delizie" e di vulcEini, questa terra che vide sorgere
e tramontare tre civiltà, progredirà rapidamente, e raggiungerà
presto i suoi antichi splendori. '
M. Vaccaro.
LA GARA DELLA PIETÀ
PER I BIMBI BALDUCCI
Air appello lanciato dal Giornale
d'Italia, al quale ci professiamo pro-
fondamente grati, e della Nuova Anto-
logia per raccogliere i fondi onde co-
stituire una borsa di studio per i bimbi
del compianto nostro redattore pro-
fessor Primo Balducci, da tutte le parti
d'Italia collaboratori ed amici hanno
risposto con un vero slancio di gene-
rosità : esso è di per se stesso la te-
stimonianza più bella della stima e
dell'affetto di cui Egli era dovunque
circondato.
Con un senso di solidarietà umana
veramente commovente si sono asso-
ciati in una gara di pietà uomini delle
più differenti condizioni sociali, daì-
l'operaio allo scrittore, dall'impiegato
all'uomo politico, tutti animati da un
solo impeto di amore dinanzi allo stra-
zio di una sventura senza pari.
A tutti questi generosi vadano i rin-
graziamenti più fervidi della Nuova
Antologia.
Con le nobili parole con le quali
la nostra esimia collaboratrice Fanny
Zampini Salazar si associò nelle pagine
della Nuova Antologia al nostro ap-
pello, e che ci è caro qui riportare di
nuovo, diamo intanto l'elenco delle of-
ferte sin qui pervenute:
« Sarà indubbiamente accolto con pie-
tà e geneiosi sensi l'appello nobilissimo
che il nostro Direttore vuol fare per
raccogliere un fondo destinato a costi-
tuire una borsa di studio a favore dei
bimbi Balducci, sì crudelmente privati
dell'ottimo Padre.
« Egli lavorava per essi proponen-
dosi di farne due buoni italiani e li
lascia senza mezzi di coltivarsi!
« L'appello arriverà mentre le fami-
glie affettuose, in tutto il mondo, pre-
parano i doni di Natale per i bambini
fortunati nei caldi nidi domestici. Non
dubito che, intelligenti e vivaci come
sono, essi pei primi, vorranno rinun-
ziare al superfluo, per assicurare i
mezzi di studio ai derelitti fanciulli il
cui Natale, quest'anno, non avrà alcuna
gioia.
« Perchè Dio conservi ai bimbi felici
l'inestimabile tesoro di un buon Padre,
fino ai più tardi anni, sieno essi ad
invocare dai genitori e dai nonni, di
offrire agli orfani Balducci una parte
di quanto è loro destinato per le feste
Natalizie.
« Rasciugare le lagrime del dolore
inconsolabile di una buona madre, of-
frendole i mezzi di provvedere alla
educazione dei figliuoletti, che sarà
ormai sola ad avviare nel mondo, è
anche dare ai bimbi felici un esempio
salutare ed agli orfani un alto senso
di solidarietà umana.
« E sono convinta che essi sapranno
corrisponderci, rendendosi sempre de-
gni della stima che il loro Padre ispirò
in quanti oggi hanno a cuore di solle-
vare la grande loro sventura ».
103
Senatore Maggiorino Ferraris
per la Nuova Antologia . . I
.. 5000 —
Senatore Maggiorino Ferraris.
. 1000 —
Prof. Alessandro Bacchiani . .
250-
Prof. Ernesto Buonaiati . . .
► 250 —
Dott. Mario Missiroli ....
. 250 —
Dott. Adriano Tilgher ....
. 250-
Prof. Ettore Romagnoli . . .
50 —
Prof. Francesco Paolo Mule .
so-
Dott. Giovanni Bardi ....
lco—
Fausto Maria .Martini ....
25 —
Prof. Nicola Turchi
50 —
Guelfo Mannucci ■
IS-
Paolo Bianchi >
IS—
Alberto Bergamini i
300 —
Tipografia Courrier >
500 —
Dottoressa Maria Volpi, della
Nuova Autologia
100 —
Prof. Rodolfo Bottacchiari . . >
15 —
Ing. Rodolfo Barleni ....
10-
Prof. D. S >
50 —
Maggiore Claudio Pugliese . .
5 —
Tullio Giordana <
300-
Prof.a Emma Pugliese Torre .
o —
Giorgio Levi della Vida . . .
25-
Prof. Vittorio Gian >
50 —
Casa Editrice Urbis ■
100-
F. Sùrico, dirett. delle Lettere >
25 —
Alice Ferodi ■
25 —
Colonnello Pavese
25-
Luisa e Vittorio
40 —
Dario Levi ■
25 —
■Grazia Deledda «
50-
Prof. Domenico Rende
20 —
Aw. Ugo Cristina >
10-
Società Valsacco per la fabbri-
cazione dello zucchero . . . >
400-
Federico Mastrigli «
50 —
Arnaldo Cervesato
so-
Luigi ed Egle Galvani. . . . •
lco-
Ferdinando Nobili •
100 —
Aw. FranckJin De Grossi . . •
a95
Sorelle Facchini •
20 —
Sen. prof. Francesco Torraca . •
25 —
A. U. Mastelloni •
10 —
Angelina Serafini ■
5 —
Ing. Ernesto Mancini . . . . >
20-
Gina Lupi
5-
Giovanni Persico >
100 —
50 —
Donna Fanny Salazar . . . . >
50 —
Giovanni Costa >
5P-
B. E. ....
25
Giacomo Boni >
100 —
Prof. Cesare De Lollis. . . . >
lóO-
A. A., Iesi 1
25 —
A. F. Formiggini i
100 —
Benvenuto e Licia Cagli . . . i
100 —
Prof. Carlo Segrè ,
200 —
Luigi Tagliacozzo
10 —
Neil' anniversario della morte
del cav. G. Battista Luzzana.
40-
La piccola Ida per gli orfanelli
del prof. Balducci
5 —
N. M. Ferrari
5 —
Camillo e Maria Ferraris . .
100 —
Antonio, Mario e Guido Pepe .
so-
Reggiani Sigifredo, maresciallo
Prof. Anna Benedetti ....
lo—
25 —
Carlo Glingler e figli ....
50-
Aw. Francesco Andrea . . .
10-
► 200-
Senatore Erasmo Piaggio . .
. 100 —
Gonte Luigi Ferraris ....
. 100 —
Deputato Luigi Luiggi
Clarice Tartufari . .
Prof. G. Lesca. . ,
Prosperi Ernesto . .
Hans Barth ....
Dott. Giulio Staderini
Ing. Clemente De Fonseca
G. E. R., franchi 200 pari a
On. sen. Luigi Rava. . .
Alla memoria del redattore-capo
della Smuova Antologia la Bi
blioteca UflSciali della R. Nave
« Giulio Cesare »
Amalia e Giustino di Valmarana
Comm. Corrado Ricci
Umberto Tesone . .
Annamaria ....
F. T
Dott. Max Ascoli . . .
Aw. Eugenio Artom .
Insegnanti Scuola Comun
gina Elena > . . . .
Maria Pia d'Ormea. .
Famiglia Preda . . ,
D. B
S. S
Dott. -Libero Collenz
Adolfo Apolloni . . .
Carlo Franellich . . .
Luciana, Marcella e Ciupi
E. T. in memoria di persona cara
Prof. Giovanni Jannone
• Re
I— N. N.
Raccolte alla Banca Commer
ciale (sede di Roma) dal ca
valiere Silvio Samoggia con
direttore della- Banca stessa
Edvin Androvich . .
Prof. Osvaldo Polimanti . .
Ada Ulivi
Prof. Nunzio Vaccalluzzo. .
Antonio Bisogni
Dal brigadiere della regia guar
dia di finanza di S. Giustino
Gaetano Buoncristiano. . .
Augusto Mario Rebucci . .
Ada Pettini
Donna Fanny Salazar (2* off.)
Francesco Sapori
Carlo Ungarelli
Maria Luisa Fiumi ....
Adolfo Sassi
L. e G. G., in memoria del loro
figlio morto per la Patria,
N. N. pubblicista ....
Dal Comitato di New York del
r Italian Relief Fuud of Ame
■ rica, per mezzo del suo rap
presentante comm. H. Nelson
Gay
Giovanni Bezzi di Taranto
Zenaide Bezzi, id. . . .
Elena Possante, id. . . .
Famiglia De Angelis . .
S. Bulgari
Manfredi Porena ....
Personale della Tipografia del
Senato
Emilio Piazza
G. Contini
Emilio Girardini ....
Marchese Paulucci De Calb«li
On. Baccelli
Ersilia Caetani Loyatelli
100-
100-
50
25-
50-
20-
50-
339
100-
25-
50
50-
20-
10-
so-
lco
100-
150-
50-
50
10-
50-
100-
100-
15-
30-
10-
10-
100-
369-
100-
25-
10-
25-
20-
10-
100-
50-
50-
50-
25-
25-
25 —
10 —
50 —
3000-
10-
10-
10-
30-
100-
20-
137-
10-
20-
20-
250
200-
200-
104
Maria OttaTi
.
L
200-
Società Italo-Danese di Genova »
100-
On. Mondello •
100
Donna Sofia Bertolini . .
100-
Baronessa De Marinis •
100-
Ettore Levi Della Vida
100-
Raffaele Simboli . . .
100
Mario Puccini ....
100-
Dott. Pintor ....
100-
Generale Barbarich . .
100
O. V
i
50
Senatore Del Lungo
50
Prof. Luigi Grilli . .
70
On. Indri
50
Clerici
50
Rossana
50
Avv. Carlo Giacomelli .
50
Michele De Benedetti .
50
Coram. Vitta Zelman in memo-
ria del figlio morto in guerra
50
Giuseppe Bruguier ....
50
Marchese Filippo Crispolti
50
Bambini Trasselli - Palermo
)
50
Comm. Fea
50
Marino Marin
50
Attilio Parazzoli ... . .
25
Capitano Emilio Palàris .
25
Filelfo Foghetti . , , ,
25
Tenente Colonnello Roluti
20
Antonio Zardo ....
20
Avv. Francesco Calvanese
20
Dott. Vincenzo Scoccia .
15
Teodosio Fiorenzi . . .
10
Gaetano Perugini . . .
10
Dott. Gino Francesco Gobb
10
Dott. Antonio Monti . .
10
Angiolo Cabrini ....
10
Maggiore P. Martorelli .
10
Anna Angelucci ....
5
Prof. Barbord
5
Elena di Majo
50
Società Dante Alighieri dell'
Àjì
50
R. R. da Ancona ....
10
Vittorio Foschini . , .
52
Famiglia Beriggi . . .
25
I piccoli Lorenzino, Gabrielli
Ugo per il Natale dei barn
bini Balducci
. . 20
Petrucci e Ceccarelli .
.
50
Prof. Felice Momigliano. . . L. 15 —
Professori del R Liceo • Ennio
Quirino Visconti » CProf. Tri-
nani Carlo L. 30- Prof. Leo-
nardi Luigi, L. 63: Prof. Cac-
cialanza Filippo, 65; Prof.ssa
Bicchierai Olga, L. 65; Prof.
Micheletti Carlo L. 30 . . . 253 —
Regia Università degli studi di
Roma 100 —
Prof. Raffaello Onorato Lastella » 5 —
G. U 5 —
Quirico e Luisa Pellizza ...» 50 —
A. L. da Biccari » 5 —
Avv. Prof. Alessandro Levi . . • 100 —
Prof. Vittorio Rossi. . . . • . 50 —
« Circolo Marchigiano » ...» 200 —
Comm. Novi Lena Giuseppe . » 10 —
S. D 50 —
Associazione della Stampa Emi-
liana, Bologna ..... > 600 —
A. B » 15 —
Prof. Jolanda Balboni 50 —
Tommaso Spadavecchia, Mol-
fetta, fra amici frequentato-
ri della sua Libreria ...» 50 —
Rosa De Marco » 50 —
Adriana Paucaer 50 —
Prof. Spezia Pio » 10 —
M. N • 10-
Amalia Rossi Merighi .... » 10 —
Lolò 50 —
N. N. da Bari 10 —
N. N. da Firenze » 5 —
Raccolte alla Cassa Nazionale
per le Assicurazioni sociali » 1028.50
Avv. Giuseppe Nielli Panna . » 50 —
Silvio Cavazzuti » 20 —
I piccoli Mario e Vittorio Gian-
nuzzi » 20 —
Ugo Fleres 20 —
Cav. Giuseppe Visalli .... » 20 —
Adalgisa Persico » 25 —
Operai Tipografia Courrier » 125 —
Direttori, Professori e Alunni
del Collegio Internazionale. » 1008 —
Nino Angelucci • 20 —
Michele Cialdea ....•.» 5 —
Ugo MbSSINI. JSe«pon9aM«
Bonn» — DItt» Ann»nl di Mario Ooani«r.
LA SANFELICE;
POEMA TRAGICO
ATTO SECONDO
Sala da ricevimento nel palazzo Sanfelice. .Un uscio in fondo dà nell'anti-
camera, un altro a destra nell'appartamento di Luisa. A sinistra è una fine-
stra socchiusa. I mobili, le tende, i vasi, gli arredi sono in istile del Direttorio.
SCENA PRIMA.
Ritti 0 sediUi qua e là per la sala conversano Domenico Cirillo^
Ettore Carafa conte di Ruvo, Eleonora Fonseca Ppmentel, donna
GitUia Carafa duchessa di Cassano, donna Marianionia Carafa
duchessa di Popoli, Luisa Sanfelice e, un po' appartati dagli
altri, Ferìumdo Ferri e V abate Altobello.
La Cassano.
Qual è il numero giusto delle navi
Neanidie?
Il Ruvo.
Quelle entrate ieri nel golfo
Son dieci, e tutte inglesi; ma stamane
Ne sono state segnalate ancóra
Cinque tra Ischia e Procida,
La PIMENTE3L.
E Franceeco
Caracciolo che fa?
Il Ruvo.
Rauna a furia
La scarsa flotta, come può. L'ho visto
Io, girare sul molo e stimolare
Ad arrolarsi i marinai, pregando,
Minacciando, piangendo. Era una voce
Gonfia i^'aff anno e di speranza, infusa
D'ira e di tenerezza; e dal suo labbro
L'anima della patria urlava tutta!
Voi. (XJXVI, eerie VI — 16 gennak> 1922.
106 la sanfelice
Luisa
{battendo le mani)
Ah comfè bello, ciò!
Il Ferri.
Sì, per la moetra
Sarà bello, non dico. — Egli è ohe noi
Ci teniamo troppo della forma;
Siamo artisti tutti, e insomnia avremo
Fondato una repubblica di sogno,
Pia, giusta, umanitaria, ma non buona
Cerio da strangolar con le possenti
Dita la belva della tirannia.
Ah ah! frignare in piazza con su gli occhi
I lucciconi, per trovar soldati!...
Ma si decreti la leva, la leva
In piassa, tutto il popolo, anche i bimbi,
Anche i vecchi!... Su, vili! Difendete
La patria vostra! avanti tutti, a colpi
Di calcio di moschetto! E se qualcuno
Rimane a dietro, fucilato!...
D. Cirillo.
A tale
Patto, non credo, cittadino Ferri,
Che francasse la spesa di scrollare
II giogo di Tiberio.
Il Ferri.
Eh sì!... ma intanto
È a Precida, Tiberio, e le sue navi
Avviluppano Napoli d'un cerchio
Di fiamme. Il cardinal Fabrizio Ruffo
Sale per le Calabrie incendiando.
Saccheggiando, uccidendo; altri soldati
E altre navi muovono su noi
Di Russia, d'Austria, fino di Turchia.
Noi, soli; senza denari né armi;
Col nemico alle porte; anco tra poco
Abbandonati dalla Francia: or dunque.
Che far si può?
Il Ruvo.
Morirei
Il Ferri.
Ecco! la frase,
Il bel gesto; né avete piìi bisogno
D'altro: a voi basta! Cittadino...
la sanfelice 107
Il Ruvo.
Conte
Di Ruvo, signor mio! Son cordiale
Repubblicano; ma non ho motivo
Di rinnegare un titolo che attesta
La virt\> de' miei padri. E, per l'esempio,
Vuol dir qualcosa che, dietro condanna
Di Ferdinando di Borbone, salga
Sul palco infame io, Ettore Garafa
Conte di Ruvo!
La Pimextel.
E non già solo! È il nostro
Supremo orgoglio questo strazio infame *
Della nostra repubblica! Sì, vinta!
Sì, oppressa! sì, colpita al cuore! Ebbene:
Più santa, o patria!... E se vittoriosa
Noi ti glorificammo, ora in ginocchi
T'adoriamo agonizzante, o madre!
E sfideremo per te a fronte alta
I carnefici tuoi!... Conte di Ruvo,
Vi do conv^no su la ghigliottina!
{Gli stringe la mano).
Luisa
{abbracciando la Pimentel)
Eleonora mia, no, tu non devi
Morire! E io?... e io?... -la tua sorella
Piccola?... Io voglio tiiorire con te,
Eleonora!
D. Cirillo
{a Ltàsa)
Su, cara bambina.
Non v'affliggete. Viviamo in tempi
Perversi, è vero, e ciascuno dee sempre
Tenersi apparecchiato a ogni capriccio
Della fortuna; ma non è poi certo
Che la nostra valente Eleonora
Abbia a morire, come afferma. Forse
Potremo ancóra vincere; potremo
Anco saperci difendere in guisa
Da dettar patti al vincitore: salva
La vita a tutti, per esempio. E questa
Vostra sorella grande, come voi
Dite, viene a Parigi, ove da un pezzo
Mi propongo d'andare a ritrovare
L'illustre amico mio dottor Broussais,
E là si fa conoscere, e diventa
Come inadama di Staèl.
108 la sanfelice
L'Altobello
{a Luisa, beffardh)
Ed a voi
Manda una bella bambola col capo
, Pieno di vento, come .ara usa in Francia.
SGENA II.
I PRECEDENTI, BRUTO e il GENERALE MANTHONÉ.
Bruto
{armimziando)
Il cittadino Manthoné.
Il Manthoné.
Salute,
Cittadini!
Tutti.
Salute, generale!
Il Manthoné.
Donna Luisa, buona sera!... Cerco
Fra g-rinvitati vostri il cittadino
Ministro dell'interno.
D. Cirillo.
Per affari
Di Stato?
Il Manthoné.
Sì, gravi, assai gravi.
Luisa.
Ebbene,
Generale: a quest'ora don Francesco
Conforti è a confessare le sue buone
Monache di sant'Anna.
Il Manthoné
{con amarezza)
E nel frattempo
Nàpoli pende sotto la minaccia
D'una congiura spaventosa.
Tutti.
Quale?
la sanfelice 109
Voci dalla via
{coTitando)
« Facite bene e camiciotte :
Vennerdì sentirite e botte » .
Il Manthoné.
Udite? E noi non sappiamo nulla!
Non possiamo nulla! Le Unioni
Realiste cospirano, d'accordo
Con le navi nemiche, alla rovina
Della patria...
Il Ferri
{jproTompendo)
Arrestate tutt'i capi
Delle Unioni, sùbito!
Il Manthoné.
Ma forse
Che li conosco?.,. Qualcheduno avea
Promesso di scovarmeli...
{Fissando VAltobeCló).
L'Altobello
{tortuoso ed ambiguo)
Conviene
Andare a letto, generale... Dico,
Una presa?
{Gli offre la tabacchiera)
Sì, dico: il sonno è sempre
Buono; salvo che l'ultimo, s'intende.
Elh, eh! per altro, dormir con un occhio
Solo, è prudenza: ci si vede meglio
Che desti e con entrambi gli occhi... Poi,
Forse tutto è fandonia...
Il Manthoné
{accostandosi alVAltobellOy con voce sommessa)
Avete qualche
Idea?
L'Altobello
{a volta a volta alzando e abbassando la voce)
Peuh! chi lo sa? Ne avevo una
— Dite al Ferri d'attendere qui sotto —
Ma me la deve aver mangiata un tarlo!
— Andate via, con gli altri... — Generale,
È più agevole assai trovare un papa
Che un'idea, ve lo giuro.
110 la sanfelice
Il Manthoné.
Abate mio,
Voi delirate dal sonno. Signori,
Chi viene?
Tutti.
Tuttil
Il Manthoné
(a Lmsa)
Buona notte, donna
La Pimentel
{abbracciando Luisa)
Cara, a domattina!
Gli altri.
Addio,
Luisa!
Cittadina!
Luisa.
Buon sonno! Buon riposo
A tutti!... Abate, e anche a voi!...
L'Altobello.
Fo strada
Con gli altri, amica dolce... Ah, caso mai...
Dico, son sempre il vostro servo...
Luisa.
Grazie!
{Escono tutti fìwrchè Lmsa).
SCENA III.
Luisa, dopo avere spiato lungamente la partenza degl'invitati,
apre cautamente la porta di destra, e lascia il passo a Gerardo.
Luisa.
Bel capitano, che cosa avevate
Di sì 'ppeesantte da dirmi?
Gerardo.
Luisa,
Son tutti andati via?
la sanfelice 111
Luisa.
Tutti. Ma voi
Siete stravolto in faccia: che c'è egli?...
Non mi fate paura!...
Gerardo.
Una parola,
Luisa, e fug^p... I minuti mi sono
Contati.
Luisa.
Dite, dite presto!
Gerardo
[va ad aprire Fuscio del fondo, guarda, poi lo richiude a chiave)
L'alba
Di domam sarà, Luisa mia,
Una sanguigna alba di morte. Ignoro
S'io potrò esser qui, come vorrei
Con tutta, tutta l'anima. Per altro
Ho provveduto. Non avete dunque
A temere di nulla. In o^ caso.
Prendete questo cartellino. Basta
Mostrarlo a chi ve ne chiedesse.
{Le dà un cartellino bianco)
E ora
Addio, Luisa. Com^ v'amo!... Alcuno
Non sappia quello che v'ho detto : è rischio
Di vita!...
{Muove per uscire).
Luisa.
No, non ve n'andate!... Come?...
Io non intendo nulla... Che è mai
Questo segreto orràbile?... Gerardo,
Ditemi tutto!
Gerardo.
Non ho tempo!
Luisa.
Ah!... forse
La congiura?...
Gerardo.
Chi, chi v'ha detto?...
\
Luisa.
È questo?...
È questo?...
112 la sanfelice
Gerardo.
No; lasciatemi!
Luisa.
Mio caro
Gerardo, ve n© supplico!
Gerardo.
Non devo!...
Non posso!...
Luisa.
E allora... riprendete dunque
Il vostro dono! Eg^li mi scotta come
Brace di fuocol
Gerardo.
È la vostra salvezza
Quella carta... e la mia! Come potrei
Vivere...
«
Luisa.
Riprendetela, vi dico!
Gerardo
[fuggendo)
Luisa mia!... ci rivedremo! Amore!
{Apre ia porta per uscire, e si trova faccia a faccia con V Alto-
bello e il Ferri. Lidsa nasconde il cartellino nel petto, e cade
sfinita sur un canapè).
SCENA IV.
Luisa, Gerardo, TAltobello e il Ferri.
L'Altobello.
Guarda ohi si rivede! Ve n'andate,
Capitano?
Gerardo
[tornando indietro e simtUando di baciar la mano a Luisa, con voce
soffocata e vibrante)
Luisa, avete in pugno
La vita di dieci uomini — e la mia!
[Esce senza salutar gli altri due).
LA SANFELICE 113
SGENA V.
Luisa, I'Altobello e il Ferri.
Luisa
[rizzandosi con grande esaltazione)
Ancóra qui, signori? Io vi credevo
A casa vostra. Che volete? Come
Entraste qui? Ma dunque io son ridotta
Peggio d'una baldracca a cui chiunque
Capita, senza chiedere licenza?
Il Ferri.
Perdóno, cittadina: le rampogne
Vostre non sono giuste. Bruto, il probo
Domestico, ci stava annunziando,
Quando s'aiprì la porta...
Luisa.
Sì, va bene...
Ditemi che volete!... Ho sonno... Spero
Che potrò andare a letto, eh? abate, quando ,
Mi piaccia...
L'Altobello.
No, donna Luisa! Proprio
A letto non andrete...
Luisa.
Ah! lo sapevo
Io! Schiava, non è vero?... Peggio
Che schiava... cosa!
* L'Altobello.
Siete, salvo errore,
Un po' strana, stasera... Udite prima,
E poi giudicherete. Il generale
Manthoné, ricordate? ha fatto cenno
D'una congiura realista contro
La novella Repubblica. Stavolta
Ha imbroccato, purtroppo!... La congiura
Esiste.
Luisa.
Esiste, dite?...
L'Altobello.
E se n'udrà
Presto lo scoppio. Già gli usci di casa
De' patrioti più famosi sono
Segnati d'una bella croce nera.
Anche il nostro...
114 la sanfelicb
Luisa.
Anche il nostro?...
L'Altobello.
Or come voi
Foste affidata a me, cara Luisa.,
Dal cavalieiT vostro marito, io sono
Sfegatato de' fatti vostri, e credo
Obbligo mio dii sottrarvi alla morte
Che vi sovrasta.
Luisa.
A me?...
L'Altobello.
Sembrate come
Trasognata. A voi, già!... Chi dunque, appena
Mezz'ora a dietro aveva in casa il fiore
Del civismo di Napoli?... Ora a me.
Sicuro, può rincrescere che il conte
Di Ruvo o quel buon uomo del Cirillo
O, più, la nostra ardente poetessa
Eleonora Pimentel, che v'ama
Con passione, spenzoli domani
0 doman l'altro col cappio alla gola...
Luisa.
Ah ohe orrore!...
L'Altobello.
Ma voi, figliuola dolce.
No, proprio no!... Ne va dell'onor mio.
Bella guardia avrei fatta alla compagna
Dell'amico lontano!
Luisa.
E che dovrei
L'Altobello.
nisolvere?
Fuggire. Una paranza
Offerta, qui, dal cittadino Ferri,
Gì mena dritto a Procida, ove forse
Vostro marito è presso il re. Vedrete,
Tutto s'aggiusterà.
Eleonora?
Luisa.
Parte ella pure
la sanfelice 115
L'Altobello.
Fate celia? Quella
È ccHiiprocnessa ornai : se non foss'altro
Basterebbe quel suo facinoroso
Giornale «Il Monitore»! E poi, già, lei
Fa l'eroina di professione :
È un'altra cosa, via!
Luisa. "^
Bene, rimarco
Anch'io!... Voglio la mia parte de' vostri
Motteggi anch'io!... Sì! anch'io, anch'io, anch'io
Fo l'eroina di professione.
Abate!
L'Altobello.
Ah ah!... Mi spiace. In o^i caso.
Voi su la forca, no! Dunque io mi reco
Di questo passo da quel sacripante
Del capitano Baccher a pr^arlo
Che vi protegga lui.
Luisa.
Volete a forza
Farmi impazzire?... Eleonora!... mia
Eleonora!... E se ci fosse il mezzo
Di sventar la congiura?
' Il Ferri.
Ebbene, dite.
Dite quel mezzo ! . . .
Lui^A.
Ma non posso io dirlo!...
Non posso!...
L'Altobello.
Eh, poco male! In fin de' fini,
Che importa a voi che quella vostra amica
Fanatica — s'intende, ognun per sé
E Dio per tutti — abbia a salire i gradi
Del patibolo, scalza, in grigia veste
Di saja, raso il crine, con i polsi'
Legati, fra gli oltraggi della plebe
Ruttante vino e le dimestichezze
Immonde del carnefice?
Luisa.
Demonio!...
Ohe vuoi da me?... Via! via! via! via!... No... ecco...'
116 LA SANFELICE
Domani... sì... domani all'alba... forse...
La congiura... Ah, che faccio?...
(Cade a tefgra ginocchicmi e scoppia in singhiozzi)
0 Madre santa
Del buon consiglio, ispiratemi voi!
Il Ferri.
Cittadina Luisa Sanf elice,
Voi siete una cattiva patriota.
Il vostro stesso rimorso v'accusa!
Voi conoscete le nefande trame
De' traditori : non voglio per ora
Creder che teniate anco di mano
All'odioso tentativo. Dunque
Stasera avete raunato in casa •
Vostra tanti ins.igni uomini e le donne
Più generose, quelle due Carafa,
Le madri della patria, e quella bella,
Nobile, ardimentosa Eleonora,
Che chiamavate sorella, pe '1 gusto
Di consegnarle alla vendetta altrui?...
E quel Gerardo Baccher, quello sgherro
Del dispotismo, era qui rimpiattato
Per far la lista della ghigliottina?...
Luisa.
Ma io non so... non so... vi giuro!... Anch'io
Questa congiura dell'inferno aborro!...
M'è parso solo intendere che all'alba
' Di domani... Oh!... oh!... oh!... pietà!... Ma sono
Innocente, io!... (ma sono donna, io!...
\
Il Ferri.
È tutto? Or bene! Forse non avremo
Tempo d'agire, più. Traditi! oppressi!
Giustiziati! Ma sapranno tutti.
Lo sdegnoso saprà conte di Ruvo,
Sapranno le Carafa oneste e grandi,
Che v'onoraron di lor tenerezza...
* Luisa.
Ah noi...
Il Ferri.
... Saprà Domenico Cirillo,
Spirito probo, candido ed austero.
Saprà la vostra Eleonora, a cui
Gittavate le braccia intomo al collo
Forse per far la prova del capestro...
Questo
la sanfelice 117
Luisa.
Ah no!...
Il Ferm.
Sapranno tutti, tutti, tutti!
Che gli avete, voi, dati alla balìa
Del manigoldo, e che la moribonda
Patria voi stessa finiste con quelle
Vostre pallide mani!...
Luisa.
Ah no!... non voglio!
Il Ferri.
E quando saliremo a uno a uno
Sul palco del martirio, e dallo spiazzo
Voi scruterete trionfante...
Luisa.
Basta!...
{Smarrita, fuor di sé, tende il cartellino al Ferri)
Prendete... È tutto quel che ho!...
{Cade in terra tramortita).
Il Ferri
{leggendo il cartellino)
Disegna
Correr subito! Qui ci son tre firme
Preziose. Vedremo se stavolta
Staranno pur su le pietosarie!
{Esce a furia).
SCENA VI.
L'Altobello e Luisa svenuta.
L'Altobello
{mirando la giacente)
Bella da far dannare! Anche piìi bella
Così, riversa in terra, senza guardo.
Dolce come una morta!
{Si china per toccarla)
No: rimiene,
Eki è rotto l'incanto... Or io potrei
Illudermi che m'ami... Ecco, m'ha dato
Tutt'i suoi baci, e sussultante ancóra
Giace, ma sazia e lassa, al fianco mio!...
Su, su, su, bajel... Aver in petto un mondo;
US LA SANFELICE
Sentirsi sopra ad ogni legge, ad ogni
Morale della folla; essere solo,
Uno, colui che vuole e può; sapersi
Nato con pugno da dominatore,
E perder tutto per un po' di biondo
E bianco!... Oh degradazione!... Egli, egli
Dee morire... Poi... sì!... La donna è tanto
Volubile!...
Luisa
[tornando in sé)
Gerardo!
L'Altobello.
Amica mia.
Siete qui. Come state?
Luisa.
Ah!... non fu sogno!..
Etov'è? dov'è?
L'Altobello.
Luisa, non volete
Salvarlo?
Luisa.
Chi?
L'Altobello.
Gerardo.
Pericolo?
Luisa.
Ei corre dunque
L'Altobello.
Di vita.
Luisa.
Ah! lo sapevo.
Sciagurata che fui!...
L'Altobello.
Potete ancóra
Salvarlo.
Luisa.
Come?
la sanfelice 119
L'Altobello.
Volate a cercarlo;
Nascondetelo qui. Domani voi
Sarete predicata salvatrice *
Della patria. E a ninno salterà
Il grillo di cercar qui proprio, in casa
Vostra, colui che voi romanamente
Denunziaste.
Luisa.
, Io, lo denunziai?...
L'Altobello.
Ma fate presto, o egli è perduto.
Luisa.
È vero...
Grazie!... La mia mantiglia... il mio cappello...
M'aspetterete qui?
L'Altobello.
Come vi piace.
{Luisa esce dalla porta del fondo).
SCENA VII.
L'Altobello
{solo)
{Cava una presa dalla tabacchiera, seguendo la donna con gli
■occhi, e richiude la porta onde quella è passata).
La volpe è assicurata alla tagliola.
Cade la tela.
{Continua).
G. A. Cesareo.
(Proprietà letteraria: tutti i diritti riservati).
LETTERE A MIO PADRE DALL'AMERICA
(1866-1867)
Boston, 23 dicembre 1866.
Sono in America da tre giorni e ho già ricevuto tante cortesie
fui accolto con tale cordialità da rendermi entusiasta di questo Nuovo
Mondo. Anche il sole venne a darmi uno splendido benvenuto. Dopo
una tempestosa traversata nell'Atlantico, mentre ima fitta nebbia ob-
bligava il Giava a fermarsi parecchie ore fuori della baja di Boston,
una Fata benefica strappò d'un tratto il velo dal panorama della città
e del porto. La baja è seminata di collages, di fari, di segnali; scogli
in giro di forme bizzarre la rendono assai pittoresca; nel fondo sta il
porto di strettissima imboccatura difeso da due forti. Della città si
scorgono solo le prime case, le torri e la cupola della State house.
Dopo la visita della Dogana, passata con scrupolosità meticolosa, mi
avvìo all'Hotel.
Subito mi accorgo di essere in un paese diverso dalla nostra vec-
chia Europa : le vie sono solcate da rotaje su cui scorrono enormi car-
rozzoni, tirati da cavalli, che rimpiazzano i nostri omnibus: i bracci
di mare e i fiumi si attraversano su ferry boals, capaci di trasportar
vagoni ferroviari e mossi dal vapore, che -tengon luogo dei nostri mo-
desti traghetti : carrozze e slitte sì leggiere che paiono fatte di fil di
ferro, e finimenti ai cavalli di una semplicità sorprendente. Scendo
all'Hotel Parker, una città in miniatura: il convegno dei forestieri e
dei cittadini. Al pianterreno, oltre le sale e i restaurants, botteghe
ove si trova da rifornirsi di quanto occorre, lì cibo nazionale direi
che è l'ostrica: ve n'ha di ogni dimensione e sono preparate in zuppa,
in frittura, in insalata, in quaranta maniere diverse, m'insegna una
padrona di casa.
Boston, 25 dioembre 1866.
I cognati di Mr. Timiens (1), Martin Brimmer e Mr. Perkins e le
sue sorelle, mi .accolsero come una vecchia cxDnoscenza. L'altro giorno
fu Mr. Perkins, che dopo avermi presentato al Sommerset Club, e
fatto colazione colà, mi guidò nei deliziosi dintorni della città. l\
giorno appresso Mr. Brimmer mi condusse a Cambridge a visitare il
Collegio di Harvard dove inscrissi il mio nome dopo quello di Grant
(1) Mr. Timens, un gentiluomo imparentato alle più distinte famiglie di
Boston, avendo sposato una milanese, si era stabilito n Sfilano.
V LETTERE A -MIO PADRE DALL'AMERICA ITÌI
e del Principe di Galles. Al ritomo sostammo all'Union Club, di ori-
gine politica. Fu fondato 5 anni or sono. La città di Boston, prima
della guerra, era divisa anch'essa, come *le altre città del Nord, in
fautori dell'azione bellica e in avversari. I primi, i repubblicani avan-
zati, per contarsi e per discutere liberamente, decisero di fondare un
Club, esclusivamente di membri del loro partito. Il concorso fu straor-
dinario; l'apertura di questo circolo produsse una profonda impres-
sione nella cittadinanza che vide le personalità piìi influenti, sena-
tor Summer alla t€sta, farsi socie dell'Union. Questo fatto diede vinta
in Boston la causa al partito antischiavista. Ora non ha più un co-
lore politico pronunciato; però i soci in generale parteggiano per il
Congresso, il quale pretende che i vinti sudisti si sottomettano rigo-
rosamente ai patti imposti dai vincitori; mentre negli altri circoli vi
è buon numero di fautori del Presidente Johson, che ha un debole
per gli schiavisti, e vuol mandare ad effetto un suo piano di concilia-
zione. Le radicali divergenze fra il Presidente e il Congresso for-
mano il tema di ogni discussione. Ho però constatato un fatto : che
oltre la questione nazionale la nostra italiana occupa pure le meiatf
degli Yankees. « Che cosa avverrà del Papa? », chiedono ansiosamente
la gente e la stampa. Poco credono alla possibilità di accordo fra
Roma e Firenze e io li confermo nel loro parere. Nello stesso te'mpcf
ritengono sia difficile mantenere^un Papa senza Reame.
La maggior parte dei miei interlocutori conosce Roma, e ha la
persuasione che il prete vi abbia un gran potere. « Prendetevi il Pon-
tefice qui in America », dico io scherzando. « Se vuol venire buon
padrone, qui c'è posto per tutti, anche per chi rappresenta le id^e
più balzane ». Mi assalgono poi di domande sul meccanismo dei par-
titi in Italia, pur mostrandosi ben al corrente dei fatti nostri.
Gran pranzo jersera in casa Brimmer. Alla mia bella ed elegan-
tissima vicina, che sa di latino e d'italiano, espressi la mia mera-
viglia per essersi l'anfitrione scusato con me di non aver invitato ra-
gazze alle quali avrei potuto fare la corte, mentre, io aggiunsi, sarei
dispostissimo a farla anche a una signora. Ma essa molto seriamente
mi rispose che è verissimo quanto si racconta, cioè che le Americane
una volta maritate rinunciano alle pazze gioie della gioventù. La
vita che menano in Europa le signore qui la fanno le ragazze e vice-
versa. Sarà poi dav-vero così?
Dopo pranzo, rimasti soli gli uomini, si discorse di politica e mi
si tempesta di domande intomo all'Italia, e al suo avvenire. Un com-
mensale mi narra aver ospitato Garibaldi a Manilla. Sono tutti am-
miratori di Garibaldi e di Mazzini. Sbarcato di fresco, mi accontento
comprare anziché vendere, sino a quando mi sia orientato in que-
sto amibiente affatto nuovo. ^
Boston, 28 dicembre 1866.
Ho il tavolo ingombro di carte da visita e di inviti. La cortesia
dei gentiluomini, la gentilezza delle signore è insuperabile : ricevono
con la semplicità aristocratica della vecchia Inghilterra; lasciano an-
che capire di sentirsi di una casta superiore a quella dei ricchissimi
parvenus di Nuova York.
Q Voi. OCXVI, serie VI — 16 gennaio 1922.
122 LETTERE A MIO PADRE DALL'AMERICA
Ieri andai al ricevimento di Mrs. Howes; questa gentildonna di-
morò a lungo in Italia e. mi nominò famiglie milanési conosciute
20 anni or sono. È colta e scrive versi, ciò che qui non fa meraviglia.
Le sue due vezzose figliole seguono le orme della madre. V'incontro
il poeta Longfellow, bella figura, dai capelli bianchi spioventi, col
quale m'intrattengo molto semplicemente. Il vescovo di Boston si
lagna che la fede incomincia a rilasciarsi anche in questo paese, fra
protestanti, citati fino a poco fa come bigotti. Venivo appunto dal-
l'aver letto al Club, nella Atlantic Remie, un articolo su questo argo-
mento, e il suo lamento non mi riesci nuovo. Il Vice-Governatore
del Massachusset, al quale avevo portato il giorno innanzi una lettera,
di Mazzini nel suo fondaco di pellami, dove lo trovai a\^olto in un
grembiule di corame, mi propose una gita alla State House. Nella
conversazione generale apprendo che l'yacht Henriette, di 20 tonnel-
late, appartenente all'editore del New York Herald, ha vinto la
corsa sugli avversari Heatwing e Vesta attraversando l'Atlantico in
13 giorni e 22 ore. La posta era di 60 mila dollari. Un centinaio di
bianchi furono circondati e scalpati da il mila pelli rosse.
Ma ciò che mi ha più soddisfatto, fu di avere imparato a cono-
scere, per la compiacenza di un intervenuto, l'origine dei nomi Re-
publicano e Democratico, che distinguono i due grandi partiti degli
Stati del Nord, e suonavano illogici al mio orecchio europeo. Sono
di antica data; anteriori allo scoppio della guerra. Gli abolizionisti
trasformarono il primitivo loro appellativo di Whig o Moderati in
quello di Republicano; gli schiavisti conservarono, loro malgrado, le
mutate circostanze.
I Democratici di quel tempo erano democratici nel vero senso
della parola, e volevano le libertà che l'altro partito, detto allora
Whig, ostacolava. Per ottenere l'intento, il Democratico si intese con
gli Stati del Sud, e mediante reciproche concessioni, strinse con essi
un'alleanza che gli permise di attuare il vagheggiato programma.
Allorché le istituzioni liberali diventarono inoppugnabili leggi dello
Stato, il partito Whig le subì e si acquetò. Ma quando si affacciò la
nuova grande questione della soppressione della schiavitù, e della
pretesa degli Stati del Sud di staccarsi dalla Confederazione, i vec-
chi Whig si ricostituirono e formarono il partito dell'Unione, che
chiamarono Repubblicano, per dimostrare che volevano a ogni cost"
mantenere la Repubblica unita. I vecchi Democratici, non dimen-
tichi dei buoni rapporti con gli Stati del Sud, conservarono il nome
al partito che si adattava alla separazione, e voleva pace, prima, du-
rante, e dopo la guerra, à prezzo di qualsiasi transazione.
Dico di proposito « dopo la guerra» perchè, sebbene sia finita la
lotta con le armi, ogni gìomo«sorge un'occasione di conflitto. L'alta
Corte, per esempio, sospese, dichiarandoli arbitrari, gli ordini dati
dal Congresso ai generali che esercitano il potere militare negli Stati
del Sud, di usare rigore intransigente v^erso i ribelli recalcitranti. I
giornali repubblicani si domandano perchè il verdetto di nove giu-
dici, anzi cinque contro quattro, deve prevalere contro la volontà della
Nazione, la quale espresse categoricamente il suo pensiero eleggendo
un sì gran numero di Repubblic-ani a membri del Congresso. Il pre-
sidente Johnson dal canto suo persiste nell'opera di pacificazione ano-
dina; riprende i ribelli in seno all'Unione, tirando un velo sul pas-
I
LETTERE A MIO PADRE DALL'AMERICA 123
sato, parificando i debiti, concedendo amnistie generali. Così ripe-
teva pochi giorni or sono a un ex colonnello del Sud. Intanto, mal-
grado i fulmini del Congresso, che dichiara nulli i pagamenti fatti
in biglietti di banca dei ribelli, questi hanno ancora corso in alcuni
Stati; ancora leggo di vendite di negri al pubblico incanto nel Mary-
land. I miei amici protestavano che sono gli ultimi aneliti del vinto:
che gli schiavi liberati, adulti e fanciulli, si affollano nelle scuole
aperte dagli Yanckees nel Sud, e saranno presto in grado di eserci-
tare i diritti di cittadini. Citano con orgoglio il fatto nuovissimo e
unico, che nel prossimo anno due negri siederanno nella Legislatura
del Massachusset, e furono eletti in una sezione dove votarono quasi
solo bianchi.
Boston, 30 dicembre 1866.
Fui presentato al Governatore del Massachusset nella State House.
Questa sede del Congresso dello Stato del Massachusset è troppo pic-
cola e disadatta. Nella sala delle sedute vi sono certi scanni tanto
incomodi che mi ispirano pietà quei deputati che ci hanno a sedere
su. In ampie vetrine, insieme con altri cimeli della guerra, sono con-
sentale le 170 bandiere dei 170 reggimenti che il Massachusset inviò
contro i ribelli. L'Hotel de Ville è assai più elegante della State House;
vi ammiro un gran scalone in legno : belle le camere degli Aldermen
e del Consiglio. Nell'Atheneum una biblioteca e un meschino museo
di scultura e di pittura, mal tenuto, non fa onore a una città così
colta.
Invece il Fire OflBce e le sue dipendenze sono un modello al quale
non credo vi sia nulla paragonabile sul nostro continente. Sparse ppr
la città vi sono 150 cassette, di cui tutti i policemen hanno la chiave
e il negozio vicino, di cui si legge l'indirizzo sulla cassetta stessa.
Allo scoppiar d'un incendio si apre la cassetta, si gira una mano-
vella e rUflBcio centrale in millesimi di secondi conosce la località
del disastro. Al primo segnale tutti i pompieri devono mettersi sul-
l'attenti, ma Eiccorre solamente una macchina: in dieci minuti al
più si sviluppa il vapore necessario per far funzionare la pompa. Al
secondo segnale Eiccorrono le macchine del circondario prossimo alla
cassetta: al terzo segnale, quando l'incendio non è domato, le mac-
chine dei dodici circondari in cui è diviso il servizio volano al soc-
corso. E tutti i particolari sono scrupolosamente accurati : numerosi
galvanometri accertano che la corrente elettrica fra le cassette e gli
uflBci non sia mai interrotta; le verifiche si succedono ogni 20 minuti
e sono registrate automaticamente su liste di carta che si svolgono
con movimento di orologeria: è meraviglioso.
Visitata coscienziosamente la città in lungo e in largo, gli istituti,
i dintorni, le industrie; veduti i monumenti, a malincuore debbo de-
cidermi a partire (1). Ma non troverò un'accoglienza così geniale;
cavalieri perfetti; schiettamente cordiali; signore avvenenti, squisi-
tamente garbate, supremamente raffinate. Debbo resistere a cortese
(1) Nelle lettere descrivo gli istituti, le scuole, i penitenziari, le industrie,
i cantieri, ecc., visitate così a Boston quanto in altre città degli Stati: non
ripeto tanti minuti particolari per non tediare il lettore.
124 LETTERE A MIO PADRE DALL'AMERICA
insistenza perchè rimanga sino dopo le feste natalizie e di capodanno,
quando si apriranno i salotti a splendidi balli, e si inaugurerà la Le-
gislatura. A rivederci, cara indimenticabile Boston.
Nuova York, 6 gennaio 1867.
Viaggiai da Boston a New York sulla linea che costeggia il
mare; attraversa numerosi fiumi su certi ponti di legno, che saranno
solidissimi, ma mancano assolutamente di solidità apparente, come
diciamo noi ing'egneri. Sui fiumi più larghi il convoglio s'imbarca
in ferry boats. Barriere ai passaggi a livello non esistono, né guar-
diani; i passanti sono avvisati da un cartellone di non lasciarsi schiac-
ciare quando passa il convoglio. Arrivati in New York si stacca la
mlacchina, a ciascun vagone si attaccano quattro cavalli, e diventa un
omnibus che depone e raccoglie passeggeri a ogni angolo di via : è
curiosissimo.
In cinque ore, il giorno dopo il mio arrivo, ho raccolto più im-
pressioni sulla fisonomia di New York che non potrò forse racco-
glierne nel rimanente del mio soggiorno. Stavo assestando la partita
al banco del Westminstèr Hotel, quando un tale, vedendomi in mano
monete d'oro, inusitate qui, dove non corre che carta, indovinandomi
straniero, si fece presentare dall'albergatore, c^n il quale era tutta
cosa, e si offerse di menarmi fra le meraviglie della città. Accettai,
tenendomi però in prudente riserbo, per tema di essermi iml>attuto
in uno dei tanti scrocconi americani e intemazionali. In cambio non
ebbi che a lodarmi di lui: mi parlò" delle mie conoscenze di Boston
e di un'infìnitìi d'altra gente, come avesse tutte famigliarmente pra-
ticate: con rapidità di eloquio sbalorditiva mi raccontò, usando in-
differentemente l'inglese, il francese, l'italiano, intramezzato di spa-
gnuolo e di tedesco, di aver percorso tutta Europa, gli Stati Uniti
del Sud e del Nord, mezzo mondo. Ogni venti passi lungo Broadway
ferma un individuo, cava di tasca un fascio di carte, scribacchia due
parole; conclude un affare in furia, sotto un'androne, « in America
le faccende si trattano ,così », mi ripete; e mi narra delle fortune co-
lossali fatte e disfatte in pochi minuti sui gradini della Borsa con i
titoli dei pozzi di petrolio e delle miniere: storie delle Mille e una
notte. Entriamo in un magazzino di carrozze: che miracoli di leg-
gerezza e che grazia di proporzioni; certi buggies pesano 65 libbre.
Egli è ajnicone del proprietario. In un vasto deposito di piainoforti
il mio cicerone è come a casa sua, siede e non suona male. In una
esposizione di quadri francesi, dove ammiro, tra i 'molti, anche dei
Dorè, egli è addirittura padrone; è in trattative per l'ac^juisto in
blocco, per una certa speculazione. Ci arrestiamo davanti alle ma-
cerie fumanti di una fabbrica divorata dalle fiamme per presentare
le condoglianze al disgraziato che contemplava il suo disastro e nella
fac<;ia sconvolta non mostrava la proverbiale impassibilità ameri-
cana. Eccoci poco appresso su e giù per scale e elevetor fra i cinque
piahi della Gasa Cleslin, dove si vende di tutto, stringendo la mano
a commessi e direttori. Arriviamo al vecchio e meschino Post Offic<
una massa compatta fa coda allo sportello; dovrei aspettare il mi'
turno; la mia guida mi fa entrare per una porticina mascherata •
mi confida a un impiegato milanese, felice di ricapitarmi subito il
I
LETTERE A MIO pAdRE DALL'AMERICA l25
mio corriere. Mentre le^go le mie lettere, il tizio corre per certo suo
negozio di un fondaco di petrolio lì vicino. Saltiamo su un omnibus
per guadagnar tempo; ma poco vi rimaniamo; egli scorge un passante
col quale ha a che fare, e balza giù per afferrarlo. Da un cambiava-
lute, suo intimo, compero con il mio oro dollari al corso di 135. Diamo
una capatina nella Borsa, donde esco stordito dagli urli, dalle gesti-
colazioni di quella gente frenetica. Con una brigatella, raggranellata
da lui, si va da Del Menico a inaffiare, con innumerevoli cocktail,
ostriche larghe come piatti. E paga lui a ogni costo. Mi presenta a
un vecchio boxeitrr che s'è fatta una fortuna, che ebbe il ghiribizzo
di diventare deputato, e lo è.
Narro per sommi capi la storia della nostra corsa vertiginosa;
non so raccapezzarmi nei particolari. Scommetto aver dato non meno
di cencinquanta strette di mano, essermi soffermato in non meno di
cinquanta stazioni. In fine l'amico della ventura mi depose all'Hotel
e scomparve, lasciandomi intontito come una talpa. Chi diavolo sia,
donde sia pio\'uto non so. Certo un simile tipo non può estrinsecarsi
che nell'ambiente di New York.
I Nuova York, 16 gennaio 1867.
Come una bacchetta magica le lettere degli amici di Boston mi
apriiono le porte della migliore società di qui. Mi accorgo che si ha
una grande deferenza per l'opinione dei Bostoniani. Da Boston emana
il verbo che ispira i Repubblicani degli altri Stati. È la città più
calma, la più sensata, dove non si sfoggiano le, cosi dette da noi,
americanate. 'V^i sono delle ricchezze solidamente imbastite e serietà
di propositi. Il meeting in Boston degli uomini di colore per festeg-
giare il quarto anniversario della emancipazione proclamata con de-
creto nazionale da Lincoln, riuscì il più imponente fra quelli di tutte
le altre città della Repubblica.
Nei salotti, ai pranzi, alle serate, dei Weismart, dei Cork, da Ma-
dame de Boileau, da Madame Coope, incontro personaggi di ogni
categoria, dame e daanigelle. Queste sono sempre abbigliate all'ultima
moda di Parigi; la sera gran decolleté, e code smisurate: al giorno
cappeir e abiti montants. Sempre tutte così cortesi e preeiurose di far
buona accoglienza al nuovo arri^•ato. Alla rnati^ée musicale di Mrs.
Brodgett fui presentato a tante signore che mi s'è fatta una confu-
sione nella mente. Una miss cantò la romanza del Trovatore in un
italiano che mi ce ne volle per restar serio.
Frequento gli studi degli scultori e dei pittori; Gifford mostra i
suoi quadri famosi, e mi fa assistere a un meeting e a una cena di
artisti e di letterati al Century Club, la più allegra che si possa ima-
ginare. All'Union League Club, dalle pareti nascoste sotto i trofei
guerreschi, nei Circoli meno rigidamente repubblicani, prendo parte
a interminabili discussioni : si tratta di porre in istato d'accusa il
presidente Johnson, nientemeno; tutti i giornali hanno lunghe co-
lonne sull'argomento.
E a proposito di politica ho letto che quella vendita di schiavi nel
Marviand, di cui ti scrissi, ha sollevato un putiferio «i Washington e
provocò interpellanze e dibattiti nelle Camere: i Repubblicani non
mollano in nessuna occasione. Ho letto anche, e ne risi, che il mio
i26 LETTERE A MIO PADRE DALL'AMERICA
bravo albergatore di Parker Hotel, a Boston, è stato colto in frode
dli liquori e avrebbe dovuto andare in gattabuia per 3 mesi. Ma poi,
mi dicono, se la caverà al solito, lasciando correre mance agli inca-
ricati del controllo. Senza il contrabbando, organizzato su vasta scala,
la tassa esorbitante sui liquori in pochi anni basterebbe ad ammortiz-
zare i debiti degli Stati Uniti. Ultimamente si scoperse che parecchi
impiegati del Governo erano pure manutengoli.
Ho fatto colazione dal prof. Botta col celebre istoriografo Ban-
kroft, con Mr. Field che pose il cavo transatlantico e ora è direttore
della Gomipagnia, col Dr. Bellows, un'autorità ecclesiastica di gran
reputazione. Alle sue prediche, nella sua Chiesa unitaria, accorre un
pubblico numeroso e sceltissimo. A me apparve come un vecchietto
arzillo che tenne di buon umore la brigata con storielle delle quali
il presidente Johnson era il comico protagonista, lì nostro senatore
G'priani, ben noto per le sue avventure, m'invitò nei suoi vasti pos-
sedimenti in Galifomia. S'è parlato di Mazzini e della sua ultima cir-
colare, pubblicata quando ero a Londra: questa non ha fatto buona
impressione : nei giornali e nei convegni è criticata assai.
Ho conosciuto anche italiani che fanno onore al nostro paese,
oltre il prof. Botta, il sig. Fabricatti importatore di marmi, Ban-
delari, Bixio, Magni del nostro Consolato. Ma non sono in America
per incontrare italiani, e non voglio lasciarmi influenzare dalle loro
idee su questo paese, e formarmi, invece, un concetto dalle mie os-
servazioni. Non vado neppure a udire la Ristori.
Un bell'originale è il prof. Boemer del College; un tedesco che
servì a Milano nell'esercito austriaco con Radesky nel '42. A Milano
conobbe famiglie di rinnegati, dice lui, e me ne diede conto. È schia-
vista sfegatato, dichiara i negri una razza inferiore, e non può sop-
portare la vista di quelle facce di carbone e que' capelli lanuti. Si
dichiara democratico in America e democratico in Europa, opinioni
difficili a conciliarsi in una sola mente. Racconta aneddoti interes-
santi del suo soggiorno a Milano e negli Stati Uniti. È assai di-
vertente.
Gli ufficiali italiani che' combatterono fra le file dell'esercito del
Nord, non ne riportarono un'impressione troppo favorevole della di-
sciplina e della tenuta. Secondo il loro modo di vedere avrebbero
ragione: fanno il confronto con i reggimenti di truppe europee; ma
questi sono organizzati da secoli, quelli improvvisati durante la
guerra: io non ho un'opinione concreta. Certo a veder passare un
plotone preceduto da banda e da numerosi sapeurs, mi ha un po' l'a-
ria della nostra guardia nazionale.
Nuova York, 20 gennaio 1867.
Io mi compiaccio d'incontrare e di conoscere Americani di o»gni
classe; lasciando in disparte quelli che appartengono alla società
scelta, che è cosmopolita; della generalità, meglio che un mite giu-
dizio, valga a darcene un concetto quello che ne pensano essi stessi.
Un signore di qui donò 5 mila dollari a un istituto scolastico, e nella
lettera accompagnatoria dice che, essendo constatato come gli Ame-
ricani hanno bisogno di ingentilirsi nei modi e nel tratto, intende
che gli interessi sieno destinati a coniare ogni anno una medaglia
da accordarsi, dietro voti degli stessi alunni, a quello che fra loro si
ì
LETTERE A MIO PADRE DALL'AMERICA 127
fosse mostrato più gentleman. Stampa e pubblico lodano il donatore,
e incitano altri a seguirne l'esempio. Certo un po' di vernice non
nuocerebbe alle solide qualità di questo popolo. Volessero bere un
po' meno whisky e cocktails; ma nessuna legge draconiana emanata
vale a frenare l'abuso dei liquori. Come nessuna legge riesce a sop-
primere le case di gioco, altra piaga di New York. Ve ne sono di
splendide, sparse da Wall Street alla Fifth Avenue, con mense peren-
nemente imbandite, dove corre a fiotti champagne e bordeaux, tutto
gratis, e dove scompaiono milioni di dollari. Ma come rimediare
quando gli impresari sono membri del Congresso?
Del sesso gentile non posso che fare elogi. Le fanciulle, piene
di brio, pure non abusano dell'indipendenza di cui godono : certo
adorano divertirsi. Bisogna vederle allo Skating Rink della Fifth
Avenue, rendez-vous del mondo elegante, leggermente succinte, i
biondi riccioli al vento, i piedini imprigionati in bijou di stivaletti,
i patini lucenti finamente lavorati, animate della voluttà della corsa,
tracciare sul cristallo del ghiaccio le curve più audaci : come pati-
natrici non temono confronto: del resto non lo temono neppure
quando ballano, o si danno a qualsiasi esercizio. Già nella scuola im-
parano la franchezza, la disinvoltura. Mr. Lave, commissario per
l'istruzione, mi condusse a visitare la scuola di ragazze della 12*
strada. Mi vidi seduto nell'aula del Department Grammar Senior,
presentato poonposamente a un'accolta di giovinette dai 15 ai 20 anni,
birichine, graziose, in abitini freschissimi, che mi guardano con
aria canzonatoria. La direttrice piglia dal leggìo di una alunna il fa-
scicolo del testo delle canzoni e me lo porge onde io possa seguire il
coro, che canta quella prescelta, coll'aocompagnamento del piano.
Apro al titolo « Tutto è bello in questo mondo», e in margine, a
matita, « Tranne Mr. Gerard »; i'miei sguardi incontrano quelli della
colpevole e per poco non scoppiamo in una risata. Quando entra
Mr. Gerard, l'ispettore, con una strizzatina d'occhio le fo capire che
consento nella sua postilla. Mr. Gerard, del resto, vecchio e brutto,
è adorato dalla scolaresca per la sua bontà: da argomenti a discus-
sioni a cui nrkolte prendono parte; mi fa percorrere le classi, dove
s'insegna persino l'astronomia. Ciò che m'incanta è il vedere sola-
mente facce allegre e, quasi senza eccezione, avvenenti; anche le
maestre hanno poco più d'età delle scolare.
L'altro giorno invece una donna, non più giovane, a sua volta
s'impose alle mie simpatie. Mrs. Ward, condannata da dieci anni a
giacere su una sedia a sdrajo, mi fece le confidenze dei misteri della
sua psiche, e dell'origine morale delle sue sofferenze. Allevata a
Boston, si addottrinò, con intenso studio, nelle scienze speculative.
Si famigliarizzò con le opere dei filosofi, entrò in dimestichezza con
Longfellow, con Howe, con letterati e pensatori; discutendo con loro,
ragionando e meditando, si ridusse poco a poco a non credere più a
nulla. Ma la sua mente non poteva adagiarsi nello scetticismo scon-
fortante, e il dubbio l'assalse. I figli, crescendo negli anni, le chie-
devano consigli, sballottati com'erano fra vari membri della fami-
glia, ognuno appartenente a diversa setta religiosa. L'amor materno
la faceva spasimare non sapendo che cosa rispondere. Studiò di
nuovo; si sprofondò nella Bibbia. Codesta protratta tensione dello spi-
rito distrusse la sua salute; temette di impazare. I medici le ordi-
12 i LETTERE A MIO PADRE DALL'AMERICA
narono Nizza e Roma. A Roma l'atmosfera della basilica Vaticana
la calmava; la cupola del Briinellesco le dava l'idea del paradiso, abi-
tuata com'era alle disadorne pareti delle chiese della riforma. Un
giorno, in San Pietro, affranta dalle interne lotte, eblje una visione:
un lampo di luce le indicava la via da segnire. Iddio le parlava e le
diceva che essa doveva affidarsi a un'autorità superiore; che la reli-
gione cattolica le offriva la pace nella fede: i^ preti, pei quali non
aveva 'stima, erano strumenti che non contaminavano la santità dei
dogmi e dei misteri. Si sentì chiamata là dove si richiede di sacri-
ficarsi per gli altri, mentre nel protestantesimo non aveva trovato
che egoismo. Si convertì, e abbandonandosi con deca fiducia all'in-
fallibilità della Chiesa Cattolica, ebbe immediato sollievo alla co-
scienza malata. Finito il lungo racconto delle sue torture morali,
Mrs. Ward si aspettava da me un sermone teologico. Entrarono altre
visite in buon punto a togliermi dall'imbarazzo di sillogizzare con
codesto geniale San Paolo in gonnella.
Ho visto nel cantiere di Mr. Webb la culla della nostra sfortu-
nata nave di battaglia He (Pìtabia : che stretta al cuore! Al suo posto
ora si sta costniendo, per commissione del Governo Americano, un
aff ondatone di modello affatto nuovo, un Iron Ciad Ram, come di-
cono qui, il Dundeaberg; è di 7 mila tonnellate, ha muraglie d'ac-
ciaio enormi; è lungo 358 piedi, largo 72; porta 4 cannoni di 15 pol-
lici di diametro, 12 di 11 pollici; i primi lanciano palle di 450 libbre;
se ne attendono meraviglie.
Washington, 23 gennaio 1867.
Washington dopo New York mi dà l'impressione di un villag-
gio. Infatti un détto corrente sintetizza : « Boston city of science, New
York of business, Filadelfia of aristocracy, Baltilnore of beauty,
Washington of nothing».
Ma che intensità di vita, e come vi si sente pulsare il cuore della
Nazione in quel villaggio. Ad attestare che Washington è la capi-
tale degli Stati Uniti, ci sta l'imponente, maestosamente decorata,
mole del Gapitol, nel mezzo di un parco ricco di alberi, di ajuole,
di serre; ma tutt'intomo campagna ancora quasi nuda. Dalla cima
della cupola si scorge il tracciato di larghe strade, di piazze, di qua-,
drati di terreno destinati a d/iventare blocchi di case, ma per ora
nient'altro che ortaglie e pascolo di vaccine. Il Patent Office, la Posta,
il Treasury Department sono gli altri tre palazzi, che torreggiano
nella solitudine, cosparsa di casolari insignificanti. La città attuale
incomincia assai più in là; ha per arteria principale Pensilvania
Avenue e si spinge sino a George Town, sulle alture oltre il Tevere.
A ovest è limitata dal Potomac che la seiJara dal villaggio dei negri,
antico possedimento del generale Lee, e sequestrato a profìtto degli
schiavi emancipati, fì ben popolata di monumenti, di case signorili,
di uffici pubblici. Tale in iscorcio la fisonomia di Washington. In
una prossima i particolari. Questo solo voglio dirti subito: ha fatto
pena al mio sentimento europeo, devoto alle tradizioni, lo stato di
abbandono in cui è lasciato l'antico Gapitol, che udì i primi vagiti
oratori dell'Unione. Delle aule non v'ha piii traccia dopo che vi si
rinchiusero i prigionieri di guerra: i pochi resti servono di pollaio
)ier le galline.
LETTERE A MIO PAD^E DALL'AMEP.ICA 129
Washington, 26 gennaio 1867.
Sono ospite del giovine Romeo Gantagalli, incaricato daffari in
assenza del Ministro Bertinatti; egli mi introduce nel mondo della
Capitale, composto oltre che dei governanti, degli uomini politici, dei
diplomatici, dei generali, delle gentildonne ajppartenenti aìle più alte
sfere di ogni parte degli Stati. Trovo alla Legazione i due italiani,
Principe Giannettino Doria e Duca Grazioli, che fanno furori nella
ocietà americana per la distinzione dei anodi con cui portano il ti-
tolo nobiliare, che in questo paese di uguaglianza politica colpisce le
immagingLzioni; in loro compagnia visito il Treasury Department.
Cantagalli mi conduce ad assistere nel Capitol a una seduta del
Senato : vi si discuteya in tema di tasse : ogni giorno si approva
l'applicazione di una tassa nuova; è una frenesia; si fa a gara fra i
rappresentanti del paese a chi sa escogitarne di più onerose, a chi
sa meglio inasprire i dazf e rendere proibitive le imf>ortazioni. Un
Demostene parlò per mezz'ora per persuadere ad aumentare del 50
per 100 il dazio su un sale ammoniacale che si adopera in certe mani-
fatture. Finito il discorso un collega gli domanda notizie di codesto
sale e del suo uso. « Io non ho mai avuto la minima idea che diavolo
possa mai essere», risponde l'altro. E l'imposta fu. approvata.
Nella Camera dei deputati è in discussione il riordinamento de-
uii Stati, l'argomento di attualità. Perora un ra'ppresentante del-
rOhio con forza di polmoni e gesti analoghi : è considerato un ora-
tore di prim'ordine, ma i colleghi, con i piedi sui deschi, hanno l'a-
ria di non darsene per intesi. Nelle tribune, stipate, numerosi negri.
La lotta fra il Presidente Johnson e il Congresso è in una fase acuta;
gli avversari sono accanitissimi. Il Congresso lancia invettive, pro-
nuncia discorsi furibondi contro il Presidente, accumula leggi dra-
coniane contro gli ex ribelli, col pretesto della necessità di schiac-
chiare ogni velleità di riscossa; incrollabile nel volere rigida esecu-
zione delle severe condizioni imposte nei trattati. Johnson, impas-
sibile, oppone il veto presidenziale. Stamane poneva il veto al bill
che solleva al grado di Stato il territorio del Colorado, notoriamente
parteggiante per i Repubblicani. Egli ha per sé la Suprema Corte,
la quale con assidua persiistenza giudica incostituzionali gli atti degli
agenti governativi negli Stati del Sud, autorizzati dal Congresso. Ciò
che dal pubblico si implora è che questi attriti non conducano a una
nuova guerra. I diplom.atici esteri non sanno a che santo votarsi; la
scissione fra Presidente e Congresso li obbliga alla più stretta neu-
tralità, sì che cercano di aver il mteno possibile a che fare con l'uno
o con l'altro. Se un rappresentante estero si accosta al Presidente, sia
pure per affari d'ufficio, il Congresso si adombra e viceversa se tratta
con un membro del Congresso. E Seward, Segretario di Stato, ha una
polizia potentemente organizzata, sì che ogni fatto dei Ministri delle
potenze e del loro seguito, è spiato e sorvegliato.
Ho pranzato dal senatore Charles Sumner, la personalità più
spiccata del giorno, il leader incontestato degli antischiavisti; è an-
che una bella, maschia figura, che impone, mentre attrae per l'affa-
bilità dei modi. C'erano Cantagalli, Mrs. Sumner, Miss Bigellow e
Miss Felton, tre dame intellettuali. Conversazione interessante du-
rante il pranzo su ogni sorta di soggetti. Ritirate le signore, il se-
130 LETTERE A MIO P^DRE DALL'AMERICA
•
natore mi intrattenne lungamente intomo gli argomenti dell'ora pre-
sente. Si parlò dell'Italia, che ama, mentre ha seguito attentamente
le fasi del nostro risorgimento. Conobbe e ebbe frequenti convegni
con Cavour. Mi chiese notisne di Garibaldi, e se fosse vero avere egli
intenzione di organizzare una spedizione in aiuto di Creta. Si appas-
sionò a una discussione tra Cantagalli e me sulla questione romana.
Conosce a fondo la letteratura italiana e ingemma il discorso di cita-
zioni dei nostri poeti. Mi disse poi essere occupatissimo, avendo al
fuoco molte pentole; è presidente del Comitato degli affari esteri; nel
Comitato repubblicano che raccoglie materiale per giudicare se John-
son deve essere impeached, ha un lavoro enornie, che non deve tra-
sparire sino a quando non si abbiano in mano prove irrefragabili.
Può anche darsi che si chieda V impeachment .della Corte Suprema,
per le sue decisioni contro i bill del Congresso. E in mezzo a questi
e tanti altri incarichi deve dare indirizzo e norme al partito del quale
è capo. •
Al ricevimento del dòpo pranzo intervennero tutti i personaggi
repubblicani più in vista. Con uno di essi ebbi una conversazione a
proposito della simpatia dell'America per la Russia, mentre la prima
è il paese della libertà l'altra dell'assolutismo per eccellenza. « La
Russia», mi diceva il mfio interlocutore, « per la sua posizione, per
la sua vastità, per le sue. risorse, è la parte del mondo che può meglio
giovare agli interessi americani. Ora vi regna il dispotismo? Ebbene,
noi, stringendo intimi rapporti con quelle popolazioni, vi sparge-
remo i germi della libertà, il nostro contatto sarà una scuola. Il
russo, vivendo insieme con i nostri marinai, con i nostri soldati, con
i nostri operai, incomincerà coll'ammirarli, poco a poco a imitarli,
spinto dallo spirito di curiosità e di emulazione, e avremo l'onore di
portare al livello delle nazioni piiì civili la metà del vecchio conti-
nente». È un modo ingegnoso di dare carattere umanitario a una
vagheggiata alleanza politica.
Washington, 28 gennaio 1867.
Il carnevale è ed suo culmine. Le orchestre dei salotti fanno
concorrenza accanita alle concioni del Capitol, e affratellano nelle
danze il Nord e il Sud. Ho ballato nel pomeriggio con le imposte
chiuse, al lume del gaz, dal Maire di Washington, Mr. Wallak, e la
sera stessa dall'ammiraglia d'Algreen. Il dì seguente accompagnai
Mrs, d'Algreen al ricevimento alla White House. Vi andava di mala
voglia e solo ^perchè la sua posizione glielo imponeva : infatti ap-
pena presentato a Mrs. Patterson, la sorella del Presidente che fa-
ceva gli onori di casa nel salone rosso, attraversiamo il salone bleu,
poi il gran salone, poi ce la caviamo. Mi condusse però dopo da Mrs.
Dickson, moglie del senatore del Kentucki, un democratico della più
bell'acqua, dove trovai un bouquet di signore del Sud. Ma mi spiegò
Mrs. d'Algreen che la diversità di opinioni non aveva potere di rom-
pere la vecchia amicizia per Mrs. Dickson e le sue figlie.
Di giorno, quando non si balla, si passa dal salotto di Miss Ca-
roli, la professional beauty, a quello di Mrs. Ray, di Miss Godard, la
bas bleu e una delle più corteggiate, di Mrs. Card e via via. Poi una
ridda di gite, di picnic, di partite sul ghiaccio o al croquet. La notte
si danza sino al levar del sole. In uno di cotesti convegni fui presen-
LETTERE A MIO PADRE DALL'AMERICA 131
tato al generale Jackson, il quale gentilmente mi invitò al suo quar-
tiere; là mi descrisse le operazioni del Corpo d'Esercito da lui co-
mandato, e me ne donò il piano con una dedica lusing-hiera. In altra
occasione, ed essendo su terreno neutrale non ne ebbi scrupolo, mi
intrattenni a lungo con l'ammiraglio Tegetoff, che gli Americani,
malgrado la simpatia per l'Italia, ammirano entusiasti perchè ha
vinto. Subito dimenticai di avere di fronte un nemico, tanto è cor-
diale, semplice, e nello stesso tempo pieno di arguzie. È ammira-
tore dell'America, delle sue istituzioni, della sua libertà, della sua
democrazia: è il primo europeo, nuovo arrivato, che odo esprimersi
in questo senso. Si viene a parlare di Lissa : a sentirlo è per caso che
ha vinto la battaglia : chances de la guerre. Rammentò l'orribile stretta
al cuore provata vedendo inabissarsi il Re d'Italia e que' marinari
che si aggrappavano alle sartie nei loro ultimi aneliti. Toccando della
politica dei nostri due paesi conclude che abbiamo tutti bisogno di
pace. Sai che l'ammiraligo Tegetoff mi richiama lontanamente Ga-
ribaldi per la figura, la dolcezza dei modi e la simpatia che ispira?
A proposito, è vero che il principe Umberto sposa una arciduchessa
austriaca?
Washington, l» febbraio 1867.
Mrs. Sumner è la figura femminile più saliente del mondo di
Washington, la bellezza severa cui la chioma corvina dà particolare
risalto in mezzo alle sue bionde connazionali; la nobilita del porta-
mento, il riserbo del contegno, la fanno ammirare dovunque essa
appare. Condivide le idee di suo marito e lo coadiuva efficacemente,
essendo anche dotata di alte qualità intellettuali. Il suo spiritò batta-
gliero le procura avversari che non le risparmiano sarcasmi e mali-
gne insinuazioni. Miss Lansing, una democratica di Bufalo, mi di-
ceva ironicamente che il senatore aveva sposato sua moglie perchè
il colore degli occhi e dei capelli gli richiamavano i negri. É Miss
Blair, una leggiadra fanciulla del Sud, per accentuare il suo di-
sprezzo, pretende che Mrs. Suniner deve avere del sangue nero nelle
vene : e una compagna aggiunge : « del resto anche Sumner è quasi
un negro ». D'altra parte essa può contare su amici devoti. Tra que-
sti, devotissimo, il Segretario della Legazione di Prussia, Barone
d'Holstein (1), con il quale sono entrato in dimestichezza; sono un
assiduo delle sue cene, in circolo ristrettissimo, con Mrs. Sumner e
altri pochissimi eletti.
Sebbene, quando si tratta di dissidi partigiani, io mi mantenga
in attitudine di prudente riserbo, Mrs. Sumner mi accoglie cordial-
mente. L'altra sera, a pranzo da suo padre, il senatore Hooper, dove
fra gli'altri commensali v'erano Lord Bruce, Ministro Britannico, e il
celebre naturalista Agazis, di ritorno dal Rio delle Amazzoni, Mrs.
Sumner si sfogò con me contro il Presidente, tenendosi sicura di ve-
derlo irrvpeached fra breve. « Mi ha invitato a pranzo » , concluse, fa-
cendo una smorfia significativa, « ma io non ci voglio andare ».
(1) D'Holstein, divenuto poi l'austera eminenza grigia di Wilhelmstrasse.
Quando lo vidi a Berlino, 25 anni più tardi, mi accolse festosamente, tanto da
meravigliare i diplomatici, che non potevano indovinare quante care memorie
di gioventii gli rammentava la mia visita.
132 LETTERE A MIO PADRE DALL'AMERICA
Washington, 6 febbraio 1867.
Ho assistito nnercoledì al ricevimento del generale Grant. Egli ha
l'aria di un buon borghese, incapace di far male a una mosca; si dice
che si lasci menar pel naso dalla moglie, una vecchia autoritaria.
C'è voluto un'ora per entrare. Egli era là alla porta del salone, poi
veniva il generale Sheridan, iridi Mrs. Grant. Si stringe la mano
successivamente ai tre, si ondeggia per un'ora nella folla, e final-
mente dopo un'altra oretta di spintoni, si riesce all'aperto. Iivuna
specie di cantina del sottosuolo, chi ci teneva, ballava. Grant sta orga-
nizzando la spedizione contro i pelli rosse, dei quali ho conosciuto
qualche campione. Nel costume di gala sono avvolti in ampi man-
telli scarlatti, brache rosse, orecchie tinte in rosso, capelli ritti e cre-
sta nel mezzo della testa; cosi li vidi qui; in guerra indossano giusta-
cuori e brache di pelle di bufalo con frange a vari colori. Poveri in-
diani! Sono destinati a scomparire, perchè difendono le loro terre
contro i pionieri invasori. « Sono refrattari alla civilizzazione »,
spiega un ufficiale, « e non c'è altro rimiedio che ridurli con la forza ».
La spedizione farà una guerra di sterminio.
Ben più grandioso di quello di Grant fu il ricevimento di gio-
vedì alla Ga^ Bianca. Insieme con Mrs. Sprague, Mrs. Wallak, Mrs.
Card, che accompagnavo, e altre distinte signore degli Stati Uniti,
si urtavano la imoglie del ciabattino, del sarto, dei piìi umili mestie-
ranti per arrivare a stringere la mano al Presidente Johnson. Intra-
vidi nella massa persino l'uniforme grigia dei Confederati. Non si
può servirsi delle carrozze perchè i cocchieri fanno parte dei visi-
tatori; barzelletta non so se vera. Certo fa impressione questa impo-
nente dimostrazione democratica.
E come, da veri democratici, si accalorano quando si tratta di
movimenti liberali in qualsiasi parte del mondo. Il Dr. Howes, che
conobbi a Boston, il quale ha combattuto nelle prime guerre d'indi-
pendènza della Grecia, iniziò i meetings in favore degli insorti di
Creta. Il suo esempio fu imitato dagli uomini più influenti nei prin-
cipali centri del Nord e si raccolsero somime ingenti.^^Sta bene: ma
non sono meno necessari i meetings di beneficenza, pure numerosi pel
buon nome degli Yanchees, perchè' nel rapporto che ho sott'occhi,
pubblicato da un Comitato nominato per studiare le condizioni delle
classi povere in New York, leggo dettagli raccapriccianti : in cifre
da far spavento si sonumano i covi di ladri, i tuguri luridi, i bambini
morenti di fame, le miserie sotto le forme più schifose.
Washington, 12 febbraio 1867.
Il temipo orribile ha ridotto le strade in un pantano; si attraver-
sano su certe passarelle di legno tutt'altro che comode. Ho dovuto
fare uno studio topografico per arrivare alla casa del Dr. Verdi, man-
tovano, che emigrò dopo la presa di Roma nel '49, ed è il medico più
rinomato nel miglior mondo. 'Mi fece un'accoglienza cordialissima,
lieto di stringere la mano a un compaesano. Dopo la visita a Verdi,
corro a sgelarmi nel tiepido boudoir di Miss Petts, e a chiacchierare
gaiamente con Miss Hagarty, delizioso tipo bostoniano: non sj fa
scorgere di essere versata nelle dottrine astratte, nelle scienze fisiche,
nel latino, nel greco, anzi con brio, con freschezza, scherza, balla, si
I
LETTERE A MIO PADRE DALL'AMERICA 133
\
diverte. Espande Tentusiasmo ^r i nostri laghi in pretto italiano, ed
è beata del dono che le faccio di un autografo di Garibaldi. In cam-
bio non mi dà il suo ritratto; sono sempre restìe queste americane a
dare la loro imag-ine : mi ebbi quella di Mrs. Sprague, in incisione,
perchè è un'opera d'arte del Banknote Office. La sera ballo da Gover-
nor Mot-gan, dove aveva impegnato il gernian con una novella sposa
di San Francisco, Mrs. Me Creerj-, che insieme a sua sorella, moglie
a Mr. Field, giudice alla Suprema Corte, incontrerò in Italia nella
prossima estate. Qui chiamano gérman il cotillon. Sulle carte d'in-
vito è scritto « al germian » perchè occupa la maggior parte della se-
rata. Dopo un paio di danze si dà principio al german che sovente
dura sino al levar del sole : e il tempo è sempre di waltzer o di galop.
È un'usanza comoda per gli innamorati e per il flirt : ma quando non
si ha uno scopo la pare lunga il rimanere per cinque o sei ore appic-
cicati magari a una seccatrice. I buffets e le cene sontuosissimi. Da
Gerolt, ministro di Prussia, danzammo sabato solamente sino a
mezzanotte, per riguardo alla domenica, osservata con scrupolo pu-
ritano, tanto che diventa una giornata insopportabilmente noiosa.
Mrs. Sprague portava dai Morgan un diadema di perle e di diamanti,
e dav\^ero era la regina della festa. Glielo dissi. « Non si dovrebbe
permettervi di essere regina in una repubblica », ed essa di rimando :
« Né a voi di essere un mio cortigiano ».
Mrs. Sprague è figlia a Ghase, Ministro del Treasury Depart-
ment; una bionda personcina piena di grazia affascinante, di ele-
ganza squisita: con spirito indemoniato, con pronte risposte tiene a
bada la coorte degli ammiratori : i suoi ritrovi sono fra i più ricer-
cati. Il suo ballo fu il clou della season: rigida nella scelta degli in-
vitati, destò gelosie e pettegolezzi. I salotti, addobbati in impecca-
bile stile parigino, cosparsi artisticamente di una profusione di fiori,
armonizzano col carattere europeo della padrona di casa che, a com-
pletare l'illusione, si esprime in francese purissimo. Le signore, per
desiderio dell'anfitrione, accennato nelle carte d'invito, erano accon-
ciate alla marqinse poudrée: parecchie, oltre la cipria avevan bel-
letto : e molte del Far Owest, oltre il belletto, toilettes da far traseco-
lare. Io mi rifiutai perentoriamente a scegliermi una compagna, e
passai gran parte della serata accanto a Mrs. Sumner; la sua capiglia-
tura nerissima spiccava superba in mezzo a quelle teste incipriate.
Mentre Mrs. Sprague mi passava davanti al braccio di Cantagalli,
che con lei dirigeva il german, mi compiacevo di osservare il con-
trasto fra quei due generi di bellezza, severo l'uno, vivace l'altro,
rivali al primato nel campo mondano. L'amor proprio di Mrs. Spra-
gue fu poi piacevolmente solleticato dai sinceri complimenti di
noialtri Europei : fida più nel nostro giudizio in fatto di buon gusto
che in quello dei suoi ottima connazionali, i quali, forniti di qualità
solide, mancano talvolta della finitezza di cultura, indispensabile
per apprezzare le sfumature delle scene sociali.
Dopo il ballo da Miss Sand, una figuretta civettuola, assai ca-
rina, figlia del commodoro Sand, ancora un ballo da Mr. Wallak,
quindi parto in comitiva per una spedizione di caccia nella Virginia.
Luigi Adamoli.
AD TELLUREM ALENDAM
Dopo aver trasformato in concime o letame macero le immon-
dizie nello sterquàlinium chiuso secondo i precetti degli agronomi
romani, noto qualche semplificazione consigliata dall'esperienza.
Poiché le immondizie e lo stallatico si trasformano più rapida-
mente e completamente in letame stando ripairati dal sole e dalle
intemperie, quando non si hanno disponibili recinzioni murarie o
depressioni naturaci del suolo non esposte all'invasione di acque tor-
rentizie, né di troppo difficile smaltimento delle pioggie sovrabbon-
danti, é preferibile scavare nel terreno fosse profonde quasi due
metri, e capaci di contenere il letame di un'annata, tenuto presente
che l'altezza del letame macero si riduce ad un terzo appena del
cumulo d'immondizie radunate nella concimaia. Quando si dispone
di molto stallatico, contenente paglia satura di escrementi liquidi,
é di somma, importanza ohe nulla vada perduto, né del colaticcio,
ricco di nitrati, me dei gas ammoniacali svolti durante la fermen-
tazione.
La terra di -scavo, liberata dai sassi mediante semplice vaglia-
tura o rastrellatura, può servire come scarpa declive al perimetro
e come letto assorbente nel fondo deJlo sterquiliniwnv. La parte re-
sidua della terra vagliata è utilizzabile quale copertura del letame,
— spolverate di gesso o solfato di calce — perché assorba gradata-
mente l'ammoniaca, o distribuisca le acque di rifiuto che vi pos-
sono essere scaricate, Comipleta difesa contro l'eccessivo prosciuga-
mento si ottiene utilizzando coperture imipermeabili, tra le quali
molto efficace e abbastanza duratura quella di lamiere zincate.
Stratificato il letame, spolverato di gesso e ricoperto di terric-
cio 0 di vecchie lamiere, la fermentazione comincia subito, e fa salire
la temiperatura al grado dell'ebollizione; in capo a due mesi il nucleo
della massa, completamente annerito, é ancora tanto caldo da non
poterlo maneggiare, e incomodo a paleggiarsi per il denso vapore
acqueo che svolge.
Protetta da terriccio o lamiere, la massa dello sterquilimum
continua a subire l'azione del bacillìis nitrificans e degli altri mi-
crorganismi, che lo trasformano in nero concime, laetamen ad tellu-
rem alendam; in cui il calore della fermentazione ha distrutto i
semi delle male erbe, le spore delle muffe, le uova e le larve degli
insetti, disseminati a miliardi di miliardi nello stallatico e nelle im-
mondizie. La concimaia del viridarivm palatinvm funziona secondo
i precetti raccolti dagli agronomi latini alla fine della Repubblica ro-
AD TELLUREM ALENDAM
135
mana, frutto di esperienze agricola millenarie della civiltà fenicia,
condensate nei libri che Catone sottrasse alla distruzione di Carta-
g^ine e che il Senato romano fece tradurre in latino dalla lingua
punica.
Il tepore che dopo un mese di fermentazione continuava a svol-
gere la massa del laelamen, fu utilizzato nel marzo 1921 per far
germogliare i tuberi delle nuove qualità di batate dolci [convolvolus
edulis), procuratemi dal dottor Th. K. Hunt del College of Agrictti-
ture all'Università di California e le prime forcinate di concime
ben fermentato ed ancor tepido, affrettarono la germinazione di
So//a/o e//. Ctt/cf
Sezione traversale d'uno stbrqviijnivk profondo circa due metri.
questi tuberi sub-tropicali restituendo al viridarium palatinum la
funzione di un orto sperimentale destinato ad arricchire l'Italia e
l'Europa di nuove piante utili all'uomo.
Il doti. Hunt venne a Roma qual dettato all'Istituto Intemazio-
nale d'Agricoltura; prese molto a cuore il funzionamento del viri-
dario rivissuto nel Cinquecento qual giardino sperimentale negli
Horti FamesioTum, che accoglieva e propagava fino al secolo xvii
i semi e i tuberi di piante esotiche, sopratutto dell'America centrale.
e meridionale.
Tra i semi e i tuberi inviati dalla stazione sperimentale di Ber-
keley, mi piace ricordare tre varietà di granoturco [zea mays) che
ho affidato alla R. Scuola pratica di Agricoltura, sulla via Ardeatina
ed alla « Scuol*. dei giovani coltivatori » (orfani di contadini morti
in guerra) presso villa Doria-Pamphilj, ed alcune varietà di arachidi
0 nocciole americane {pea nuts) e di patate ordinarie [solanum tube-
roswin) selezionate, che servirono a controllare l'efficacia del letame
macerato negli Orti Famesiani col sistema antico romano.
Due varietà di patate ottenute dal College of Agriciilture del-
l'Università di California, superarono a meraviglia il primo esperi-
mento; la Irish Cobbler (bianca irlandese) e la Green Mountain
(rosa del Massachusetts) furon distribuite il 15 febbraio a quincunce
entro fossette scavate ai vertici di triangoli di m. 0.60 di lato, con-
tenenti il letame già fermentato, ma ancor tiepido, e le patate da
semina suddivise in pezzetti di circa 25 grammi, con una gemma
ciascuno; in guisa che per ogni metro quadrato bastasse un etto-
grammo di patata madre. Il tepore del concime ne stimolò la germi-
136 AD TELLUilEM ALENDAM
nazione, che, agevolata dalla stagione favorevole, per temperatura
€d umidità, continuò regolare, producendo fusti nnolto vigorosi, i
quali rasgi unsero il pieno sviluppo in soli tre mesi; poi lo sviluppo
c<3S9Ò, e prima ancora di fiorire come le patate cresciute in Europa,
le due nuove varietà californesi, cominciarono a disseccarsi.
Il 15 giugno, dopo 4 mesi dalla semina, le piante avevano la
fronda vizza e il fusto aninerito, e le feci togliere. Ma invece dei tu-
beri minuscoli o mediocri delle solite patate novelle precoci, ogni
gemma delle nuove patate americane aveva prodotto cinque o sei
gix)ssi tuberi, perfettamente lisci, a buccia sottile bionda, traspa
rente sulla polpa candida e rosea; e di un peso che supera molte
volte i gr. 500 p-er tubero. Ogni pianta ha fruttato in media 2 kg.
di tuberi; il doppio, cioè, delle comuni patate nostrane europeizzate.
A parte il maggior rendimento, è degno dell'attenzione degli
agricoltori italiani il fatto che queste nuove varietà di patate califor-
nesi hanno una rapidità e regolarità di 9vilupix> veramente singo-
lare, in rapporto alla breve durata della vegetazione ed all'abbon-
danza del prodotto. Per verificare come si comporteranno i nuovi
tuberi sino al febbraio venturo, li ho stratificati in cenere asciutta;
qualche tubero di minor conto servì ad esperienze di cottura, e diede
risultati paragonabili alle migliori varietà nostrane.
Altre due qualità c;alifornesi [Rwral New Yorker e Early Ohio)
vegetarono fino al quinto mese, conservando il fusto eretto e la
fronda verde scura, senza alcun indizio di malattie, quantunque la
primayera troppo mite ed incostante avesse guastato altre solanacee,
raccolsi nella seconda metà di luglio (cinque mesi dopo la semina)
i tuberi del Rvral New Yorker, magnifici, bianchi e lisci, molti dei
quii sorpassavano i 500 gr.; qualcuno mostra la tendenza alla sal-
datura del tubero maggiore con altri più piccoli. Solo il 1° agosto,
cinque mesi e mezzo dalla semina, le fronde ed i fusti della quarta
varietà di patate californesi, la Early Ohio, erano appassiti, mentn
il nome di primaticcia dato a questa varietà avrebbe dovuto corri
spondere ad una maturazione meno tardiva. Però, in compenso, i
tuberi erano pivi sviluppati t; lisci; taluni superarono in peso i
700 grammi.
Conservo questi tuberi nella cenere fino a mezzo febbraio 1922,
per distribuirli alle Scuole pratiche d'agricoltura della campagna
romana o dei Colli albani, desiderose e capaci di dedicarsi alla pro-
pagazione di un vegetale che offre in breve tempo e con minime
cure un prodotto alimentare di rendimento sup<?riore a quello di
molte altre piante coltivate in Italia.
•
Mentre i germogli delie quattro nuove varietà californesi della
patata ordinaria {solarium tuberosum), piantate a qinncimx, di
stanti 60 om. l'una dall'altra, a metà febbraio, sviluppavano le foglit
ai primi di marzo, misi a forzare in letto caldo (stallatico equino
con un palmo di terra alla superfìcie e coperto parte a vetri e parte
con tela paraffinata semi-trasparente) alcune nuove varietà di batate
dolci {corìva'viUtis eduUs), tra cui la Nancy Hall, Red Bermuda.
Red & Difi Stein Jersey, Yellow Strashurg, che germogliarono tutto.
AD TELLUREM ALENDAM
13-
IRISH
■cobbler;
grammi 5(J0
GREEN
ImountainJ
grammi 5(X)
RURAL
.NE\)i'YORKER
lÀ
grammi 600
grammi 750
grammi 200
Varietà di solanvh tvbebosvk selezionata dall'Università di Califomift
nei terreni sperimentali sul Pacifico, confrontate ai tuberi che si coltivano dal
secolo XVI in provincia di Roma.
10 Voi. CCXVI, serie VI — 16 gennaio l9tZ.
138 , AD TELLUREM ALENDAM
Nel magg-io i getti o talee di queste nuove varietà subtropicafi
americane, essendo passato il pericolo delle brine, erano già pronte
ad essere trapiantate alla distanza di 60 centimetri l'una dall'altm
in terreno sciolto, prefcribiknente huinìis l^gero ottenuto con la de-
composizione di sijxizz3.ture, ma qualcuno dei tuberi avendo tardato
a germogliare sotto vetro o germogliando da sé avendolo tenuto
a parte come esperimento, distribuii le talee ritardatane nelle stesse
buche dalle quali estraevo le patate comuni già mature alla metà
di giugno e nelle quali rimaneva un po' del letame del feb-
braio, macerato al coperto secondo i precetti di Vairone. Le talee
^<rièO
f^
\
OONVOLVVLVS BOVUS.
Nuove varietà di batate dolci del Texas, New-Mexico, Jersey ed. altri Stati
meridionali dell'Unione americana.
crebbero vigorose e raggiunsero nel luglio lo sviluppo di quelle col-
locate ai primi di miaggio e vegetarono fino al principio di novembre
quando, dopo qualche nottata fredda, cominciarono ad abbrunire.
Feci togliere i tralci, molti dei quali, toccando terra nelle inginoc-
chiature, mettevano le radici; li affidai alla R. Scuola pratica, d'Agri-
coltura perchè, disponendo d'una serra fredda, li faccia vivere uno
accanto all'altro fino al maggio 1922. Feci poi scavare i tuberi che,
■malgrado il ritardo di un niese e mezzo nel mettere a dimora le talee,
presentavano un ottimo sviluppo. Spero che l'anno venturo la R. Scuo-
AD TELLUREM ALENDAM 139
la pratica di agricoltura vorrà proseguire e controllare l'esperimento;
ma per ora e per una prova iniziale mi pare notevole il fatto che
la stessa buca di terriccio misto a letame ottenuto secondo l'uso
antico romano, abbia dato due raccolte di tuberi, una dalla metà
di febbraio alla metà di giugno con patate che sorpassarono il peso
di 700 grammi e l'altra da giugno a novembre con batate dolci che
raggiunsero i 2 chili ciascuna, sia nelle varietà gialle succolente
che ricordano l'ottima zucca barucca di Chiog^a, che in quelle color
crema, bianche e dense, che egTiagliano per aroma e pasta farinacea
zuccherina le migliori castagne o marroni da candire dell'Amiata.
*
• •
Oltre a questi tuberi, ho sperimentato nel reparto della flora del
Rinascimento alcuni tubercoli di Helianthus decapetalus^ che il di-
rettore dell'Istituto botanico di Torino mi consigliava di propagare
negli Orti Famesiani, essendo- stato introdotto a Roma dal cardinale
Odoardo Farnese verso il 1616. (0. Mattirolo, Prove di coltivazione
delVH. D. Annali della R. Acc. d'Agricoltura di Torino, 1910>. Que-
sta composita del Nord America, è, come il topinambour [H. tube-
Tosus) ed il girasole [H. annuus), assai ornamentale per la ricca fiori-
tura color giallo oro; i suoi numerosi tubercoli, sbucciati con acqua
bollente e fritti, son gustosi e nutritivi, contenendo il 18 per cento di
saccarosio, inulina e idrati di carbonio. Trattandosi di una pianta fo-
raggera-alimentare che vive in ogni terreno e resiste al gelo ed alla
siccità, ne donai i tuberi alla Direzione Generale delle ferrovie dello
Stato affinchè li coltivi per utile bellezza nelle arginature e scar-
pate della solitaria maremma.
Un inerìiorandum, pubblicato lo scorso dicembre dall'Ufficio per
i combustibili {Fuel Research Board) di Londra, descrive gli espe-
rimenti di coltivazione dell'elianto tuberoso [Jerusalem artichoké)
combinata alle fattorie e latterie cooperative ed all'allevamento di
maiali; combinato all'estrazione di alcool e cellulosa dai tuberi colti-
vabili nelle terre abbandonate, facendole produrre sostanze alimen-
tari, per ricavarne combustibile liquido, sostanze utili alle industrie
della pace, e quali solventi o materie esplosive in tempo di guerra,
fornendo il gambo degli elianti una fibra convertibile in nitro-cel-
lulosa.
Elianti, patate e batate dolci amano un terreno ricco di potassa.
I tuberi sperimentati nel 1921 sul Palatino devono in parte il loro
maggior sviluppo ai fertilizzanti potassici estratti dalla leucite per
merito del barone Alberto Blanc. Elemento necessario alla vita delle
piante, la potassa abbonda in Italia nelle roccie laviche di alcuni vul-
cani spenti. Il risultato degli sforzi combinati dalla scienza e dal-
l'industria permette di fare assegnamento su di una pratica utTliz-
zazione di tali roccie, sia come fertilizzante diretto, sia come fonte di
sali potassici solubili, preziosi oltreché all'agricoltura anche all'in-
dustria italiana, tributaria per tali materie prime all'estero.
L'avvenire economico-sociale della nostra razza domanda che in-
tensifichiamo la produzione alimentare fino a bastare ai bisogni
140 AD TELLUREM ALENDAM
dell'Italia, per liberarla dah gravoso e vergognoso tributo che è co-
stretta a pagare in oro ad altre nazioni, le quali ci somministrano uve
da mensa e farinacei, marmellate d'arancio e mosto e latte condensato.
Invece di convertire l'energia solare di cui va ricca la patria nostra
in bevande alcooliohe, le quali intorpidiscono lo stomaco e illudono
il senso di fatica, ma non sono né nutritive né ristoranti; invece di
far venire dall'estero le sostanze veramente alimentari, che non ^sap-
piamo ottenere in casa nostra, bisogna dedicare ogni cura alla sele-
zione e propagazione di piante per utilità e rendimento economico le
più adatte ai nostri terreni e ai nostri climi.
Nel restituire per qualche mese il Viridarium Palatinum dell'età
imperiale, gli Horti Famesiorum del Rinascimento, alle funzioni di
giardino sperimentale, alla coltivazione delle piante, che quanto a
bellezza e valore nutritivo sono le più utili all'uomo, ero lieto che da
questo centro d'irradiazione dell'antica civiltà latina partisse l'esem-
pio di ciò che l'Italia saprà un giorno nuovamente produrre per la
gioia e il nutrimento dei suoi figli.
GucoMo Boni.
IL MONDO DELLA FANTASIA E DELL'ARTE
DI E. T. A. HOFFMÀNN
Quando si affenna che vero e grande poeta — e diciamo poeta
nel senso letterale e più proprio della parola — è solo quello che
riesce a suscitare in noi nuove e profonde emozioni, si intende senza
dubbio dire che tale poeta, nel dare forma di espressione artistica al
suo mondo interiore, ha anche la facoltà e la potenza di riprodurre e
dar vita a una parte della misteriosa attività del nostro spirito, cioè
dello spirito universale, della quale noi possiamo talvolta avere ap-
pena avvertito l'esistenza, ma che egli riesce ad allargare, approfon-
dire e nello stesso tempo precisare, illuminandola con la sua arte, in
modo che noi sentiamo, nell'erompere delle emozioni nuove, allar-
garsi il mondo stesso della nostra vita.
Così, quando leggiamo, ad esempio, le liriche del Leopardi, i
canti della perenne malinconia e dell'infinito dolore, noi sentiamo
improvvisamente sorgere e ingigantire quel senso di nascosta, vaga
e più spcisso incompresa tristezza che pure viv^ in noi, e solo allora
e solo così comprenderemo e intenderemo appieno l'anima e l'arte
di questo grande poeta. Alla stessa maniera quando il Goethe ci sol-
leva con molte delle sue liriche in una sfera di vita serena e tran-
quilla, come una zona di silenzio e di azzurro, sentiamo come dila-
tarsi quel lembo di cielo che una serie di momenti felici lasciò illu-
minato in un angolo del nostro spirito e diventare viva e potente la
nostalgia sognatrioe verso questa piena chiarità di luce.
Questo stesso fascino e analoghe ripercussioni produce su noi
la prosa di Hoffmann, il poeta della fantasia (1). Per essa avviene
(1) Questa definizione potrà sembrare, per lo meno, una tautologia, ma
pivi facilmente si vorrà vedere in essa l'espressione d'uil concetto anacroni-
stico — in tema di estetica — , che, riesumando una terminologia ormai sor-
passata, rivela un'assoluta ignoranza di tutto il trentennale movimento filo-
sofico che fa capo al Croce, o, forse, anche un tentativo di reazione, appunto,
a uno dei caposaldi della concezione filosofica ed estetica crociana. Occorre
pertanto qualche chiarimento.
Chiamando Hoffmann il poeta della fantasia, abbiamo soltanto inteso,
qui, dare speciale rilievo alla prevalenza che l'elemento fantastico ha nella
produzione hof fmanniana ; la definizione ha, dunque, un valore tutt' altro che
assoluto. Senonchè — si domanderà — può esserci vera e propria creazione
poetica che non sia tutta e solamente creazione fantastica? Perchè, eviden-
temente, tutta, qui è la questione; ma noi non pretenderemo trattarla in una
nota e tanto meno oseremmo sperare mai di risolverla. Noi vogliamo soltanto
dire che proprio in questa domanda s'annida ancora il nostro dubbio assil-
lante, malgrado la chiara precisa affascinante risposta del Croce. Perchè, in
142 IL MONDO DELLA FANTASIA E DELL'ARTE DI E. T. A. HOFFMANN
iafatti che quella nostra attività fantastica, la quale comunemente
vive in noi limitfita, diremmo quasi disciplinata per virtù d'un na-
turale equilibrio con le altre attività d<?lla nostra vita spirituale, sia
per uno sforzo di volontà, sia per effetto di consuetudine, si sfrena
d'un tratto libera e violenta. E portati così a vivere nel mondo
straordinario che Hoffmann ci pone innanzi, ricordiamo che questo
stesso mondo abbiamo talvolta intravveduto o sentito palpitare in
noi, e verso di esso ci siamo lasciati tal'altra trascinare, come obbe-
dendo a una vaga e irresistibile attrazione, nelle nostre fantasticherie.
Ora osso ridiventa nostro.
Hoffmann mostra di trarre tutto dalla propria fantasia, dalla
quale egli « ascolta le storie capricciose e bizzarre » che narra (1). E
la fantasia — fonte precipua della -sua ispiraziome — tende ad ap-
parire quasi semipre pura, cioè libera da ogni influsso di sentimento
o di riflessione, perchè mentre quello è inavvertito, quest'ultima —
die logisierende Vemunft —, come la chiama Wagner, è del tutto
esteriore, servendo soltanto a logicamente collegare fra loro, come un
filo tenue e invisibile, le successive imagini.
Occorre peraltro notare subito che a questa pura ispirazione fan-
tastica più spesso si ajocompagnano imagini visive e auditive — co-
loristiche, musicali e anche olfattive — , le quali conupletano l'atti-
vità creatrice della fantasia e servono mirabilmente quali elementi
sussidiari dell'esppessione artistica. Soprattutto straordinaria è in
verità, come ci lascia perplessi e dubbiosi la necessità, che pur logicamente
s'impone dopo siffatte premesse teoriche, dì considerare come frammentaria
la Divina CoTìit,media, di spezzare cioè la sua unità poetica e quindi la com-
mozione ch'essa produce in noi, fondamentale e unitaria, perchè aderente al-
l'intero Poema, la quale può bensì avere momenti d'intensità profonda —
come in quasi tutta la parte episodica — o di vibrazioni appena percettibili,
altrove, ma che, pur tuttavia, non ci si rivela mai con assolute e inassociabili
soluzioni di continuità; così altrettanto perplessi e tormentati ci lascerebbe
l'analoga, perchè anch'essa logicamente inevitabile, necessità di sfrondare,
ad €«., la lirica del Leopardi di tutti gli elementi, o profondamente meditativi,
o puramente emotivi, senza i quali la commozione che suscitano i suoi canti
disperati resterebbe inesorabilmente stroncata e, comunque, div^ersa.
Noi non possiamo negare l'unità dello spirito, ma non possiamo, dunque,
negare neppure la sua complessità, donde ha origine anche l'attività estetica,
e che, pur rivelandosi ne' suoi molteplici elementi originari, tutti li mostra
atti a essere ricongiunti in una superiore perfetta armonia. E^cco perchè la de-
finizione data per Hoffmann è sì approssimativa, ma non è una tautologia,
né un'inconsiderata frase vecchio stile e tanto meno un pr^esuntuoso tentativo
di reaziono o di superamento. E^ssa racchiude soltanto un dubbio, che il cri-
tico, ponendosi a contatto con roi>era di Hoffmnnn, non ha saputo superare e
anzi ha sentito accrescersi, e che fatalmente, viene a jwrre un punto inter-
rogativo sopra un problema, cui il Croce ha enormemente allargato l'orizzonte,
ma sul quale egli stesso non ha mai preteso di aver detto l'ultima parola.
(1) Hoffmann racconta: <« Appena mi fui seduto, mi abbandonai al facile
giuoco della mia fantasia, la quale mi portava figure amiche, con cui io con-
versavo di scienza, di arte e insomma di tutto ciò che può riuscire più grade-
vole ». Bitter Gluk, Sàmtliohe Werke hrg. von E. Grisebach. voi. T, pag. 11.
In altro luogo, rivolgendosi al lettore, dice: « Chi ha scritto queste pagine...
ti prega, con il cuore oppresso dalla tristezza, di considerare con animo lieto
e magari amichevole le strane figure che il poeta deve unicamente a quello
spettro che si chiama Fantasia Klein Zaches, ed. cit., voi. V, pag. 95.
IL MONDO DELLA FANTASIA E DELL'ARTE DI E. T. A. HOFFMANN 143
Hoffmann la sensibilità musicale, la quale, oltre che nella sua note-
vole attività di compositore e di critico (i), si rivela anche qua e là
in tutti i suoi racconti e specialmente nelle Kunstrùpvelleri. Per mode
che si potrebbe affermare, senza tema di esagerazione, ohe in nes«
5uno scrittore — se se ne eccettui Wagner, del quale Hoffmann è il
più diretto e il più grande precursore (2) — l'elemento musicale
abbia avuto un influsso uguale a quello esercitato sull'ispirazione
dal nostro poeta. Il quale rivendica alla musica un carattere e una
funzione di assoluta preminenza, non soltanto nella sua, ma in tutta
l'arte romantica, la sola, la vera, la grande arte — come egli la con-
siderava. « La musica è la più romantica di tutte le arti, si potrebbe
quasi dii'e la sola genuinamente romantica, giacché l'illimitatezza
soltanto le si può rimproverare. E come la lira di Orfeo aprì le porte
dell'inferno, così la musica schiude agli uomini un regno sconosciuto;
un regno che non ha nulla di comune con il mondo esteriore dei
sensi » (3) .
È naturale, pertanto, che il mondo artistico di Hoffmann si
presenti in forma piena e complessa; si potrebbe dire come una
mirabile sinfonia di imagini, di suoni e di colori (4). «Un mondo
variopinto, pieno di visioni magiche, scintilla e fiammeggia a me
d'intorno; ho la sensazione che debba venirne fuori qualcosa di gran-
dioso, che un'opera d'arte debba sorgere prodigiosamente da questo
caos, ma non saprei certo dire se essa sarà un libro, un'opera mu-
(1) È noto come Hoffmann musicasse, fra l'altro. Des Kreuz an der Ostsee,
del Werner, Undine di La Motte Fouqué, Die lustigen Musikanten del Bren-
tano, che peraltro non ebbe succeseo. Scrisse e musicò inoltre un'opera roman-
tica: Liebe und Eifersucht, e, più tardi, un'opera romantica, ora perduta:
Die ungelandenen Gàite oder der Kanonikus von MaUand, tratta da una no-
Tella francese. La sua attività di critico musicale, dedicata specialmente «
Beethoven, contenuta nel voi. XV della citata edizione del Grisebach, meri<
terebbe uno studio a parte.
(2) La documentazione di questa affermazione potrebbe essere ricchissima,
ma essa ci porterebbe troppo lontani dallo studio che ci propioniamo di faro
sa. Hoffmann. come novelliere. Ad ogni modo, per maggiori chiarimenti V.
Hans v. Wolzogen, E. T. A. Hoffmann vnd B. Wagner. Verlag Deutsche
Bucherei, Otto Koobs^ Berlin. A noi basterà ricordare che in Hoffmami si
trova già chiaramente accennata la teoria wagneriana dei temi; essa appare
oome una naturale manifestazione della sua straordinaria sensibilità musicale
e del suo temperamento d'artista. « Una volta Fouqué stava narrando non «o
pili che cosa ; Hoffmann sedette al piano e, accompagnando il racconto dell'a-
mico, coloriva i vari punti con toni diversi, ora terribili, ora bellicosi, ora
teneri, dolci o commoventi, e tutto ciò faceva con una facilità e una preci-
sione sorprendenti ». Oehlenschaeger, Lehenserinnerungen , voi. Ili, pag. 203.
(3) Kreisleriana. Beethovens Instrumental - Musik, ed. cit., voi. I, pag. 37.
(4) Hoffmann aveva perfettamente intuito il valore della musica sinfo-
HÌca ; lo si potrebbe agevolmente dimostrare attraverso innumerevoli esempi.
Ne citeremo soltanto uno, tratto dalla descrizione di una gara dei maestri
cantori di Norimberga. « Ciascuno avieva, senza dubbio, una sua particolare
melodia ; ma come ciascuna parte d'un accordo ha un tono diverso e tuttavia
tutti i toni si accordano fra loro mirabilmente, così avveniva che anche I©
piii svariate melodie dei maestri si fondessero le une con le altre in una sola
armonia e apparissero come i raggi d'una medesima stella luminosa ». Der
Kampf der Sànger, voi. VII, pag. 27.
144 IL MONDO DELLA FANTASIA E DELL'ARTE DI E. T. A. HOFFMANN
sdcale, un quadro...» (1). E questa facoltà di raccogliere, come in
un'unica sinfonia, varie manifestazioni che la Natura può talvolta
sug'gerirgli, ma che piià spesso la sua sensibilità e la sua fantasia
creano ed elaborano quasi da sole, si rivela in un'altra confessione
del poeta: «Non tanto nel sogno, quanto in quello stato di delirio
che precede il sonno, specialmente quando ho ascoltato molta mu-
sica, mi avviene di percepire, in una i>erfetta armonia fra loro, co-
lori, toni e profumi. Mi sembra allora che essi si rivelino nella stessa
misteriosa maniera attraverso un raggio di luce, per poi ricomiporsd
in un unico maraviglioso concerto».
Veramente incomparabile è in Hoffmann la potenza della fan-
tasia, a tal punto che se talvolta gli accade di dover riassumere al-
cuni avvenimenti già noti, l'imaginazione di nuovo gli si accende;
egli non può né sa allora sottrarsi all'imperioso bisogno di abban-
donarsi ad essa liberamente e sulla vecchia storia una nuova e del
tutto diversa egli ne crea e descrive (2). Più di frequente la fantasia
lo porta tanto al di tt. del verosimile che egli perde ogni controllo
su se stesso; allora una ridda di imagini confuse, slegate fra loro
si sfrena; il poeta ne resta soggiogato e come sopraffatto senza la
possibilità né di liberarsene, né di afferrarle interamente, ordinarle,
fissarle. Una specie di delirio lo invade e lo infiamma e tutte le ima-
gini che la fantasia gli va creando, senza posa, sembrano allora rac-
cogliersi tumultuariamente, mettersi in movimento, turbinare in
modo vertiginoso. « Un calore tenue si insinuò a poco a poco nel mio
intimo; tutte le mie vene furono invase come da un formicolio strano
e cominciarono ad agitarsi e fremere. Questa sensazione presto si
trasformò in imagini e mi parve allora che il mio io si fosse spezzato
in cento parti, ognuna delle quali avesse nel suo moto particolare
una sua coscienza della vita, in modo che il capo perdette ben presto
ogni dominio sulle membra, che, come vassalli infedeli, si rifiuta-
vano di restare sotto il suo comando. Allora avvenne ohe le imagini
delle singole parti cominciarono a girare su se stesse, come punti
luminosi, sempre più veloci, sempre più veloci, sì da formare un cir-
colo di fuoco che rimpiccioliva a mano a mano che la velocità au-
mentava, finché tutto apparve come una luminosa palla immobile. Da
essa sprizzavano raggi infuocati, che alla loro volta cominciarono ad
agitarsi in un giuoco di fiamme multicolori. Allora pensai : ecco le
mie membra che ricominciano a muoversi; ora io mi sveglio» (3).
Da questi incendi, frammenti di luce e di poesia riuscì ad Hoff-
mann di raccogliere e fissare qua e là in tutti i suoi racconti, ma la
maggior parte di essi — come meglio vedremo in seguito — sfuggì
a lui interamente. A noi non è dato allora che intuire il vano sforzo
che tormentò il poeta per tradurli in parole.
(1) Lettera a Hippol del 28 febbraio 1804. V. anche Einieitung del Gri-
sebiich, pag. xrvi.
(2) Quando Medardo, messo in prigione, mol narrare quanto è avvenuto,
perchè nella verità egli trova la sicura dimostrazione della propria innocenaa,
«lice: «Lavorai oon lena fino a notte tarda, ma, scrivendo, la mia fantasia si
accendeva e tutto veniva assumendo la forma d'un racconto imaginario, finché
la mia esposizione risultò un cumulo di menzogne, con le quali speravo di na-
•oondero al giudice la verità ». Elixiere def Teufels, ed. cit., voi. II, pag, 201.
(3) Elixiere des Teufels, voi, II, pag. 165.
IL MONDO DELLA FANTASIA E DELL'ARTE DI E. T. A. HOFFMANN 145
*
• •
Il mondo fantastico, più spesso variopinto e canoro, dal quale
Hofimann trae le sue visioni vagamente indefinite, e perciò innu-
meri e rapidamente soiccedentisi le une alle altre, è il mondo del
maravigiioso. Esso è in sé e per sé, per la sua stessa natura, invisi-
bile e inaccessibile; tuttavia mette talvolta foglie e germogli che noi
possiamo per un istante intravedere e per mezzo dei quali, come per
logica e naturale concatenazione, riusciamo a intuire e anche a ima-
ginare la loro fonte di origine. Queste foglie e questi germogli, ema-
nazioni dirette del maravigiioso e di questo meno lontane e quindi
meno inaccessibili a noi, costituiscono il fantastico. « Al fantastico
{Wunderlich) appartengono tutte le manifestazioni della conoscenza
e del desiderio, che non si possono concretare e tanto meno preci-
sare con alcuna delle nostre facoltà razionali; maravigiioso [Wun-
derbar) invece si chiajna tutto ciò che è ritenuto imp>oàsibile e inaf-
ferrabile e che sembra oltrepassare ogni limite delle forze conosciute
della natura ovvero •contrastare con esse». E, precisando ancora
meglio questa sottile e pur fondamentale distinzione, Hoffmann sog-
giunge : « Certo è che il fantastico deriva dal maravigiioso, e che
spesso noi non riusciamo a vedere il tronco deir albero maravigiioso,
dal quale hanno origine i fantastici rami con le loro foglie e i loro
germogli » (i).
Evidentemente tutto ciò è solo in apparenza vero, che questo
mondo maravigiioso non sorge dal nulla: le sue lontane invisibili
origini sono pur sempre nella natura, di cui la straordinaria sensi-
bilità del poeta raccoglie le voci innumerevoli, reali o illusorie, i
singoli tenuissifmd suoni come le più ampie e complesse armonie, i
colori come i profumi. Perchè, in realtà, la relazione fra le multi-
formi manifestazioni della natura e il mondo maravùglioso che
sembra vivere autonomo nella fantasia di Hoffmann è innegabile.
Si potrebbe anzi, il più delle volte, stabilire fra essi un rapporto
di causa e di effetto. Senonchè, nel dominio dell'arte, il procedimento
appare inverso, ed in questa apparenza, che noi siamo portati a
considerare come realtà, è tutta la forza imaginativa e descrittiva di
Hoffmann. Il quale, celandoci appunto questo passaggio, ci porta
immediatamente nel suo mondo, ohe si estende al di là e al di sopra
dei fenomeni naturali e visibili : un regno isolato e infinito, nella
cui vita più vasta e più intensa della comune, riusciamo tuttavia a
riconoscere non solo le voci multanimi della Natura, bensì anche il
ritmo della nostra stessa vita come una misteriosa e potente riso-
nanza.
Qui è il segreto dell'arte di Hoffmann, qui, soprattutto, è na-
scosta la ragione del fascino che da essa emana, avvincendoci. Sco-
perto questo segreto, occorre un poco soffermarci su di esso, per
indagarne l'essenza. Come e per quale misteriosa virtù si manifesta
questa perfetta risonanza fra il mondo fantastico che larte di Hoff-
mann crea e avviva e la nostra vita interiore? Essa non deriva già
dal ricordo delle impressioni provate da fanciulli, quando i racconti
di cose incomprese e misteriose, risvegliando la nostra imagincizione,
(1) T>as ode Hans, voi. Ili, pag. 134.
146 IL MONDO DELLA FANTASIA E DELL'ARTE DI E. T. A. HOFFMANN
suscitavano in noi un tumulto di emozioni e ci lanciavano in un
regno fantastico e spesso pieno di paura, perchè «quelle storie, così
care alla nostra infanzia, non potrebbero mai svegliare echi così pro-
fondi ed eterni nelle anime nostre, se in queste non esistessero già
delle corde di risonanza» (1). Questa rispondenza innegabile e per-
fetta fra il nostro mondo interiore e quello altrettanto misterioso
che ci circonda, popolato di spiriti, e che spesso ci si rivela nelle
sue mille voci (2) e nelle sue strane visioni, ha quindi una causa ben
più lontana delle nostre reminiscenze infantili. Essa è un riflesso del-
l'infanzia dell'umanità, è ancora una scintilla di quella vita imme-
morabilmente lontana che pur non si spense mai nello spirito umano
attraverso i millenni. L'uomo non aveva ancora imparato a espri-
mersi con parole e le mille voci armoniose della Natura egli com-
prendeva allora profondamente, perchè le cose parlavano il suo
stesso lignaggio. Erano i canti della natura simili ai suoi canti; le
Urmelodien dell'universo e della vita; quando la poesia dell'uomo
e le voci della natura formavano una sola prodigiosa sinfonia. È
per virtù di questo millenario ricordo che l'uomo ancora oggi com-
prende il canto degli alberi, dei fiori, degli animali, delle roocie e
delle acque. Così, attraverso il mistero della nostra vita interiore,
Hoffmann riesce a gettare un ponte fra il suo mondo imaginoso e la
realtà che ci appare e alla quale crediamo. Analogamente, in questo
suo mondo la distanza fra le cose animate e inanimate si attenua,
talvolta scompare; le une, anzi, partecipano spesso della vita dello
altre, formando una sola armonia di vita. È questa l'incarnazione
poetica del maraviglioso, in cui creature e cose si uguagliano. E le
stelle avranno sonrisi e parole, come il sole espanderà sulla terra i
suoi raggi dalle innumeri voci carezzevoli, intrecciando colloqui
d'amore con le foglie e con le rugiade; il vento urlerà gridi di di-
sperazione, di odio o di A'endetta o bisbiglierà gentili parole d'amore;
e gli alberi, le erbe avranno anch'essi un linguaggio comprensibile
all'uomo, una voce ora lamentevole d'invocazione, ora sospirosa di
nostalgie, ora gioconda e melodiosa come il chiaro suono di cam-
pane di cristallo; e i fiori e i germogli spanderanno intorno con il
loro profumo un prodigioso canto dalle mille voci di flauto. Traspor-
tati in questo mondo dalla vita univoca ed esuberante, nessuna sor-
presa più può arrecare che il profuimo diei fiori salga dai calici in
lieivi e dolci suoni, e che questi si uniscano al mormorio di lontane
fontane, al sussurro degli arbusti e degli alberi, al gorgheggio d^li
uccelli dal color del cielo in accordi misteriosi di nostalgie profonde.
E nessuna miaraviglia neppure che una scìa d'azzurro vagante nel-
l'aria o la variopinta moltitudine di fiori e di erbe disseminati in
una camipagna solegg^iata scoprano fra le loro pieghe o nel loto
grembo multicolore il viso o la figura d'una fata buona (« Klein
Zaches »), o che cespugli, sotto la carezza del sole, si muovano e
(1) Ber unheimliche Cast, vcA. Vili, pag. 93.
(2) ScHVBERT — ricordato da Hoffmann — aveva pure parlato di questi
misteriosi Naturtòne nelle sue An^sichten der NachtseAte d-er Naturtcusenschaf-
ten. Hoffmann dice: « Queste voci della Natura, simili al suono profondamento
lamentevole di voci umane, si fa sentire ora come se giungessero aleggiando
da un'infinita lontananza, ora come se risuonassero vicinissime a noi ». Der
unheimliche Gasi, voi. Vili, pag. 94.
IL MONDO DELLA FANTASIA E DELL'ARTE DI E. T. A. HOFFMAliN 14?
aippajano come bimbi giulivi n^la luminosità d'un bosco, pieno di
canti {<i Das fremde Kind»), o che infine le figure di maravigliosi
dipinti acquistino d'un tratto gesti e parole, fino a raggiungere pie-
Dezza di vita e di espressione (« Artushof », « Meister Martin », « Eli-
xiere des Teufels », ecc.).
Abbiamo cfui unesieriorizzazione animata di imagini, di suoni,
di colori, di profumi e anche di emozioni — die leibìiaft erscheinen
— come ad es. in « Der goldne Topf » o nelle « Kimstnoveklen — :
concezione artistica fondamentalmente romantica, eminentemente
lirica, la quale peraltro tende in Hoffmann ad assumere ampiezze e
profondità sconosciute e soprattutto forme di espressione precise, di-
remmo quasi, più umane e quindi più realistiche che non nei roman-
^jci della seconda e ancor più della prima scuola. È questa, tuttavia,
la parte meno origing^e di Hoffmann, per quanto il Màrchen hoff-
manniano abbia — e lo vedremo in seguito — , in certi sviluppi di
dementi romajitici, caratteri particolarmente propri.
•
* *
Perchè, come Hoffmann con questa maravigliosa esuberanza di
fantasia sa portarci al di là dei fenomeni naturali visibili e invisi-
bili, interpretando e rivelando anche tutto ciò che in essi v'ha di
apparentemente inerte e inanimato, così egli tenta condurci in un
misterioso mondo che va oltre le facoltà percettive dei nostri sensi,
oltre La vita umana. E alla stessa maniera con cui egli si sforza di
svelare il mistero delle cose, altrettanto si mostra scrutatore attento
e profondo della nostra vita interiore, multammo e spesso nebulosa :
i desideri irrequieti e confusi, le aspirazioni ancora vaghe, quel ten-
dere incessante e ansioso verso mete infinitamente lontane e inde-
terminate, il segreto di inuprowise intime gioie o di ansie inappa-
gate e insomma, tutta, quella molteplicità di moti interiori che trava-
gliano e talvolta anche rallegrano lo spirito umano, ^li cerca inda-
gare precisare ed esprimere. Qui il pathos, che sfiora appena il
Màrchen romantico, raramente oltrepassando un tenue motivo sen-
timentale, s'accentua: abbiamo un primo accenno d'un vero e pro-
prio contrasto spirituale che preannuncia il dranraia. Osservate « Die
Bergwerke zu FaZun » : il passaggio dal Màrchen romantico al
dramma interiore si rivela, da questo racconto, immediato. Elis
Fròbom somiglia allo studente Anselmo del « Goldner To-pf ì^; ma
la sua vita si svolge in modo ben diverso. Due anime sembrano vi-
vere in lui: una, la mig-liope, scende nelle profondità della terra,
dove si sono rifugiati tutti i suoi sogni, dove è tutta una luminosa
chiarità di orizzonti e di vita, simile a quella che inonda il « Klein
Zaches»; mentre 1 altra vaga nella notte tenebrosa della vita co-
mune, nella terra piena di amarezze e di malinconie, sotto il cielo
plumbeo, piatto, pesante della realtà. Da questo contrasto il dramma
scaturisce inevitabile.
Per meglio scrutare questo mondo complesso, .mutevole e spesso
tumultuoso, Hoffmann si soccorre quasi sempre con uno stato di ap-
parente semincoscienza che in realtà nient'altro è se non un appar-
tarsi, un isolarsi dell'io dal mondo esteriore per dare ad esso mag-
giore intensità di penetrazione e di percezione, che non di rado ra^-
148 IL MONDO DELLA FANTASIA E DELL'ARTE DI E. T. A. HOFFMANN
giunge la perfetta chiaroveggenza. Tale è quel particolare stato, fra
il sonno e la v^lia, durante il quale l'uomo si abbandona a unA
specie di Tràumerei, in cui le imagini appajono più chiare, dai con-
torni più precisi; ovvero quello stato di ipersensibilità, in cui si ma-
nifestano i presentimenti — le Ahnungen — che devono servire a
rivelare infallibilmente gli avvenimenti lontani nello spazio e nel
tempo. Accanto a queste Tràunuereien spesso troviamo anche uno
stato di maggiore raccoglimento e quindi di maggiore libertà e atti-
vità dello spirito, il sogno, nel quale Hoffmann vede una continua-
zione della nostra vita interiore normale, intensificata e allargata,
però, per effetto di quel raccoglimento e di quella libertà maggiore,
e altrettanto vera quanto quella che si svolge durante la veglia. Chi
potrebbe infatti dire dove la realtà si arresta e dove comincia l'ir-
realtà della vita? Ovvero se il sogno è una realtà illusoria, chi
può affermare che anche la vita non è tale? (1). « Forse, o lettore,
sei anche tu, come me, del parere che lo spirito umano è il più
maraviglioso Màrchen che si possa imaginare », e non solo il sogno
« che noi sogniamo addormentati sotto le coltri, ma più ancora quello
che continuiamo a sognare a occhi aperti per tutta la vita » (2). Nel
sogno dunque ci si rivela una facoltà nuova, più potente e più con-
sona al nostro appagamento, una realtà più alta e più bella, che noi
ci sforziamo di raggiungei^e e di vivere {«Die Jesmtenkirche in G. »,
.< Der Sanctus »). « Soltanto durante i dolci sogni io ero felice, beato...
Giacevo in un angolo verde del bosco; magiche fragranze mi alita-
vano intorno, e le voci della natura si lasciavano udire fra il fìtto
degli alberi come un lamento melodioso... e mentre le armonie della
natura ridivenivano chiaramente percettibili, mi sembrava che un
nuovo senso si risvegliasse in me e fosse capace di comprendere,
con maravigliosa chiarezza, tutto ciò che era misteriosamente avve-
nuto » (3). La voce del Maltese non era dunque la voce del proprio de-
siderio e della propria aspirazione? Ed ecco che nel sogno questo
desiderio viene appagato: un accordo delizioso di suoni, una mira-
colosa chiarità circondano l'animo del sognatore; un mondo nuovo
gli sd rivela; sono geroglifici strani, che egli può tuttavia a poco a
poco riconoscere, decifrare, finché da essi balza fuori la visione d'una
terra soleggiata dal paesaggio incantevole — è il sogno del Lands-
cìiaftsmaler — , ovvero la figura d'una donna altrettanto maravi-
gliosa: l'ideale. È la rivelazione della sua arte (4).
Simboli dunque, che Hoffmann però considera al di là, non al-
l'infuori della realtà. La distanza che separa la vita reale dal sogno
risulta per lui annullata; e le due attività, compenetrandosi e inte-
grandosi, assumono un valore identico con la sola differenza, ap-
punto, che l'uomo nel sogno più agevolmente che nella Traumerei
e quindi più ancora che nella veglia può scrutare le misteriose pro-
fondità della propria vita interiore.
Non tutto qui però è il mondo fantastico e artistico di Hoffmann.
(1) Eludere dea Teufels, voi. II, pag. 102; Der Sandmann, voi. III.
pag. 22.
(2) V. Prinzessin Brambilla, voi. XI, pag. 54.
(3) V. Die Jesuitenkirehe v. G., voi. III, pag. 105.
(4) V. Die Jesuitenkirehe v. 0\, voi. III, pag. 106.
IL MONDO DELLA FANTASIA E DELL'ARTE DI E. T. A. HOFFMANN 149
che non soltanto lo stato di Tràumerei o di sogno è quello che alla
sua fantasia può rivelare e allargare orizzonti nuovi di vita e di arte;
li poeta, oltre che di questi stati di subcoscienza, si serve, per sco-
prire e guardare in questo mondo sconosciuto, andhe di stati pato-
logici: l'allucinazione {n Raih Krespel», u Die Brautwahl », a Der
MagnetiseuT ») e, financo, la pazzia (« Die Ràuber »), durante i quali
la sensibilità umana si acutizza, come nel sogno; ovvero di fenomeni
di telepatia, di ipnotismo, di magnetismo, di medianità («Die Aben-
teuer dar Sylvesternacht», «Der ttnheimliche Gasi», algnaz Den-
ner»), per i quali il mondo di ciò che appare si identifica per-
fettamente con la realtà obiettiva che cade sotto i nostri sensi.
Ed in tanti altri modi ancora HofTmann questa realtà riesce a
superare per portarci in un mondo di mistero, al di là della scienza
e della vita, dovunque possano esercitarsi la nostra imaginazione
e la nostra sensibilità. È vero, ad esempio, che la scienza ha inven-
tato congegni per mezzo dei quali noi riusciamo a ingrandire enor-
memente gli oggetti, a scoprire anche infinite cose invisibili e tutto
un tumulto di vita che a noi comunemente sfugge? Ebbene, perchè
non deve essere possibile inventare, per analogia, un apparecchio, il
quale permetta di penetrare il pensiero umano che si nasconde dietro
le parole? Ed eccoci al maraviglioso Augenglas, sulle cui sorpren-
denti qualità si svolge tutta la storia fantasiosa del ^Meister Floh*.
Alla stessa maniera, vi sorprende la singolare intelligenza di
qualche piccolo animale? Di solito pensate, o dite, semplicemente:
Che cara bestiola! Ma se questo fenomeno vi colpisce al punto da re-
stare assillati da mille curiosità e dal desiderio irresistibile di inda-
garne il mistero, vi domanderete: dove può arrivare l'istinto d'una
bestia e dove invece si può e si deve parlare di vera e propria intel-
ligenza? Non ha questo animale una sua coscienza? E qual'è? Imagi-
nate di essere indotti a rispondere affermativamente alla prima di
queste domande, a cercare poi di rispondere alla seconda, ed eccovi
d'un tratto nel bel mezzo della straordinaria storia del « Kater Murm.
« Mentre osservavo questo accortissimo gatto, mi sentii stringere il
cuore, pensando in quali ristretti limiti è contenuta la nostra co-
noscenza. Chi mai, infatti, potrebbe dire o anche solamente intuire a
che punto possano arrivare le facoltà spirituali delle bestie?» (1).
Hoffmann, analogamente a quanto avviene nelle manifestazioni
della natura e alla nostra misteriosa facoltà di intenderle, crede che
questa coscienza animale abbia anch'essa un'origine incommensu-
rabilmente lontana. Forse essa non è un residuo di quel medesimo
sentimento primitivo, di quéìVUrgefùhl che animava un tempo, alla
stessa maniera, gli uomini e le bestie e tutte le cose, l'umanità e il
creato, e che si rivelava in una comune divina espressione di vita,
come in una unica prodigiosa armonia di vofei e di colori? « Certo —
dice il cane Berganza — io sono un cane, ma i vostri privilegi, cioè
quelli di camminare diritti, di vestire, di chiacchierare a vostro bel-
l'agio, non possono indubbiamente avere lo stesso valore che ha in-
vece la virtù di conservare, in un lungo silenzio, il sentimento della
fedeltà, capace di intendere la natura nella sua più profonda e santa
intimità e dal quale scaturisce la più alta e la più degna poesia. In
(1) Kater Murr, voi. X, pag. 30.
I
160 IL MONDO DELLA FANTASIA E DELL'ARTE DI E. T. A. HOFFMANN
un tempo immiemorabilmente lontano, sotto quel ma^ifico cielo me-
ridionale che, illuminando dei suoi raggi l'animo delle innumeri
creature, ha la potenza di accendervi e suscitarvi maravigliosi cori
di giubilo, io ascoltavo i canti degli uomini. Ebbene, la loro poesia
non era altro che un eco dei canti della natura, che in mille modi
risuonavano in ogni creatura. Il canto dei poeti era la vita stessa del
creato... » (1).
•
• •
In sostanza ìb. fonte originaria alla quale Hoffmann attinge, i»
questa sua particolare attività cretrice, per poi lanciarsi nel campo
infinito della fantasia, è una seur^ibilità sempre vigile e singolar-
mente acuta. È difficile seguire Hoffmann in alcune singolari mani-
festazioni di questa sua attività così piena d'intuizioni vaghe e di
rivelazioni arditissime; tuttavia occorre rendersi conto anche di questi
elementi dai quali scaturi?x:'e, senza dubbio, la parte più interessante
e più originale delia sua produzione. Cercheremo di aiutarci con
qualche esempio. Vi è mai capitato, nelle notti lunari, di arrestarvi
improvvisamente dinanzi alla vostra ombra, che avete visto d'un
tratto profilarsi e agitarsi sulla via o nel folto di una siepe o lungo
un muro? V^i è mai capitato di trattenere inconsciamente il respiro •
tendere ansiosi l'orecchio per un improvviso grido nella notte silen-
ziosa 0 al sibilo del vento lungo la cappa del camino, o al rumore
indistinto di passi alla porta della vostra stanza, o al lamento strano
d'una macchinetta da thè che arda? [^tSandmann », « Das òde Haus »,
« Der unheimliche Gast »). Ebbene, quella subitanea e fuggevole sen-
sazione che vi colpì di sorpresa, provocando un arresto violento del
vostro respiro e suscitando, immediatamente dopo, in tutto il vostro
essere un brivido misterioso e così rapido che voi difficilmente po-
treste dire se esso sia stato quella stessa sensazione o se fra questa
e quella abbia avuto il tempo di insinuarsi un dubbio, fu breve,
perch'^ subito vi rendeste conto della realtà; ma imaginate di trovarvi
in uno stato d'animo tale da non potervi liberare da Cfuella sensa-
zione e da essere anzi portati a svilupparla e ingigantirla; in breve
tempo voi sarete in balìa della vostra imaginazione, entrerete in un
mondo misterioso, pauroso, la <i\\\ esistenza vi apparirà tanto più
reale quanto meno voi riuscirete a sottrarvi al dominio della vostra
fantasia e delle vostre emozioni successive.
Così avviene in Hoffmann; la realtà di questo mondo aissume più
spesso in lui aspetti tenebrosi, spettrali; egli "è allora trascinato a
scrutare le profondità abissali dell'essere, nella sua notte piena di
tenebre e di mistero, dove non giunge il più tenue raggio di sole,
rischiarata soltanto, talvolta, da un incerto chiarore lunare, sotto
il quale vivono e agisK^ono, in contatto con le potenze diaboliche, ma
senza interamente distaccarsi dalla vita comune, i fantasmi creati
dalla fantasia e dall'angoscia del poeta. {« Das Majorat», k Fràulein
von Scuderia, n Das Gelùbde ì\ «Der Vampj/r »). «Lo spaventoso è
quello che si riscontra nella vita di ogni giorno, quello che con invin-
(1) Nachricht von den neuesten Schidcsalen dei SuTides Berganza, voi. T,
pag. 90.
IL MONDO DELLA FANTASIA E DELL'ARTE DI E. T. A. HOFFMANN l5l
cibile angoscia tormenta e lacera il cuore umano. Ed è la crudeltà
degli uomini quella che genera la miseria; sono i grandi e piccoli
tiranni che senza misericordia e anzi con diabolico dileggio creano
questa miseria e insieme con essa le vere storie di spettri » (1).
Dunque, come abbiamo già accennato, più che pure fantasie,
queste visioni di Hoffmann vogliono essere anche e soptattutto ri-
velazioni profonde dei moti misteriosi del nostro spirito. Esse eser-
citano sul poeta un fascino particolare che potentemente, quasi uni-
camente, lo attrae e lo avvince. Nathan.ael, in cui Hoffmann raffigura
sé stesso, appare senza dubbio un visionario, ma la fidanzata Clara
gli spiega come il suo stesso spirito gli crei un mondo irreale pieno
di mistero. « E ti voglio subito confessare che, come io penso, lo
Sf>aventevole e il terribile, dei quali tu parli, albergano solo nel tuo
intimo e che il mondo esteriore, il solo reale, non {partecipa se non
in piccolissima parte alle tue allucinazioni » (2) . Ed aggiunge poco
dopo : « Tu dirai : — in questa fredda disposizione d'animo non pe-
netra nessun raggio del misterioso, che con invisibili braccia s{>esso
circonda la vita dell uomo; Clara vede solo la variopinta superfìcie
del mondo e di essa si rallegra come un fanciullo il quale osservi
un frutto dalla corteccia splendente cernie oro, senza avvedersi del
mortifero veleno che dentro esso cela» (3). Eid è appunto quando
Hoffmann vuole scoprire questo «mortifero veleno» che abbiamo la
rivelazione dello spettrale [Gespenstisches) , In quelle parole troviamo
pertanto la chiave dell'arte di Hoffmann nelle sue manifestazioni più
originali. Il mondo è veramente più grande di quello che ci appare;
c'è in esso un lato che noi non vediamo, né cerchiamo comunemente
di vedere : il mistero delle cose e quello ancor più complesso e enigma-
tico del nostro spirito. Silenziosi soliloqui dell'anima e della co-
scienza, dubbi, preoccupazioni, titubanze, fuggevoli presentimenti,
dolori ignoti e assillanti rimorsi, tutte, insomma, le inespresse e ine-
sprimibili voci della nostra vita interiore che formano le nostre gioie
incomprese e le più crudeli amarezze; un lato nascosto sotto la va-
riopinta superfìcie delle apparenze visibili e sensibili. Qui l'arte di
Hoffmann diventa eminentemente drammatica. Senonchè — analo-
gamente a quanto abbiamo sopra osservato per i racconti puramente
fantastici — anche auesto misterioso mondo della nostra attività spi-
rituale ha la particolare qualità di essere strettamente legato a quello
che cade sotto i nostri sensi e comune a\V Alltàglichkeit; anzi é una
continuazione di questo e come questo é altrettanto vero. « È la pro-
fonda verità dell'impenetrabile mistero che ci circonda, quella che
ci afferra con una tale veemenza, che in essa noi riconosciamo lo
spirito che ci domina e ci guida» (4). E in quanto vero e reale, ha
un'esistenza a sé, benché esso non possa essere espresso o rappre-
sentato se non come la proiezione della nostra imaginazione e della
nostra sensibilità. Per modo che, come il principio che guida l'ispi-
razione poetica è sempre fondamentalmente uguale, dal romantico
fantasioso imaginai-e del sogno o della Tràumerei al realistico spet-
(1) Serapionsbriider, voi. IX, pag. 175.
(2) Ver Sandmann, voi. Ili, pag. 15.
(3) Der Sandmann, voi. Ili, pag. 16.
(4) Dos ode Hans, voi. Ili, pag. 133. '
162 IL MONDO DELLA FANTASU E DELL'ARTE DI E. T. A. HOFFMANN
trale che determina il dramma catastrofico; così uguale è il proce-
dimento dell'espressione artistica. Il senso del misterioso vi domina
in -on trastato, assoluto; ma ciò che ci sembra necessario fissare fin
d'ora è che questo originario elemento emotivo, anche quando è evi-
dente, risulta assolutamente soverchiato dalla conseguente r <•
fino a divenire spesso irriconoscibile nel corso delle rappresi ; i
successive. Orbene, sul principio fondamentale di questa esterioriz-
zazione animata di imagini e di emozioni si svolge la svariata e fram-
mentaria produzione di Hoffmann. Tale principio è la base stessa
della sua unità.
Cosicché dal puramente fantastico al paurosamente emotivo ^li
ci incatena pur sempre nel mondo del maraviglioso, il quale, nel-
l'espressione artistica, assume ora forme liriche ora potentemente
drammatiche, a seconda che l'attività creatrice del poeta si risolve
in storie fantasiose dalla chiara luminosità meridiana ovvero in un
conflitto di nascenti passioni, in cupi e violenti drammi umani dalle
profondità spettrali, inesplorate.
Nelle une e negli altri si chiude il circolo della creazione fanta-
stica di Hoffmann; nelle une e negli altri si esaurisce la potenza della
sua arte maravigliosa. Poesia ed arte si sono in lui sciolte, distaccate
dalla realtà visibile, dalla sua vita, dalla vita comune; si sono allar-
gate ad abbracciare nuovi incomTnensurabili spazi popolati di vi-
sioni irreali e di spiriti misteriosi. Che cosa è questo mondo, ch«
cosa sono questi spiriti? È un mondo superiore al reale, infinitamente
più ricco, più vasto, ma analogo ad esso e ad esso congiunto; sono
spiriti non estranei a noi, che in noi ritornano. Una rivelazione, dun-
que, superiore alla nostra vita, nella quale il poeta cerca un appaga-
mento di desideri sopiti ma non morti o inesistenti, sforzandosi —
purtroppo senza riuscirvi — a ricomporre, in un'armonia artistica, la
spezzata armonia del suo spirito.
Rodolfo Bottacchuri.
IL VECCHIO
NOVELLA
Felicetto, quando disse alla mc^lie che avrebbe fatto venire dalU
Marche suo padre, che era vecchio e solo e non sapeva lavarsi nep-
pure un moccichino, non s'aspettava davvero che Mariuccia s'impen-
nasse, arcigna. Mariuccia era tanto arrendevole e docile che Felicetto
non aveva mai sentito il bisogno di comandare o di alzar la voce.
Non l'alzò neppure quel giorno : ma sedette a tavola, silenzioso : 6 in-
vano Mariuccia gli diceva: assaggia questo, assaggia quest'altro.
Egli ingollava im bicchiere dietro l'altro e non toccava cibo. Ma
riuccia, dolente, lo guardava; ma non ebbe il coraggio di pronun-
ciare le parole che le tentavano la gola. Avrebbe dunque torto una
moglie la quale, dopo aver tolto un uomo — il marito — dalla mi-
seria, e datogli una casa, due poderi, un uliveto e una vigna che
ci si raccoglieva il ben di Dio, avrebbe torto se questo marito la tra-
disse e tutti le ridessero dietro? Sapeva tutto, lei : ed era stufa arci-
stufa di una vita come quella! Oh, non tentasse di mentire! C'erano
persino dei testimoni : ehi l'aveva veduto il tal giorno, chi il tal'al-
tro : dove qui e dove là : alla macchia di Santa Majia o alla chiusa
del Tómbolo.
Ma Felicetto beveva, senza guardare in faccia la moglie. Pen-
sando :
— Certo, i paronti me la stanno aizzando contro : sebbene nessun
di loro possa sapere delle mie faccende con la figlia di Goio; ma la
ragione, bisogna vedere da che parte la sia, la ragione. Certo, m'ha
portato una dote, Mariuccia; ma erano campi quelli che m'ha por-
tato? Se non ci avessi badato io fin dal primo giorno, non so che
ci si poteva tirar fuori da quelle sterpale! E mio padre, non mange-
rebbe poi a ufo, mio padre; che, sebben vecchio, può lavorare: e
con me si lavora, perdio!
Scolata la bottiglia, Felicetto senza parlare la mostrò alla mo-
-ilie: la quale avrebbe voluto dire qualche cosa (Felicetto lo capì,
da una certa mossa delle dita che stringevano e lasciavano, ritmiche,
il collo della bottiglia) ma, com'era sua abitudine, obbedì, silenziosa.
Tornò dalla cantina, quasi subito, con la bottiglia piena: e poiché
Felicetto s'ebbe riempito un bicchiere, mormorò bonaria:
— Dopotutto non ti ho detto di no.
Felicetto si ripulì con il dorso della destra i baflB umidi e sorrise :
— Se tutti gli uomini mi somigliassero — esclamò — la ma-
l'emm^fcarebbe tutta un giardino.
11 Voi. CCXVI, serie VI — 16 gennaio 1922.
164 IL VECCHIO
— Questo lo so — acconsentì Mariuocia.
— E se penso di chiamare mio padre, al quale non voglio certo
il bene ohe voglio ai nostri poderi e a te, se penso di chiamare mi©
padre, la ragione c'è.
— Lo credo anch'io.
— E allora, una moglie non s'allarma a quel modo: come st
io volessi divorarti il patrimonio con la bocca di quel povero vecchi»
senza denti.
Mariuccia avrebbe voluto rispondere e spiegare: che non cob
quel vecchio lei era arrabbiata, e della decisione di chiamarlo, ma
delle voci che aveva sentito: e ohe ci fosse di vero, in quelle voci.
Ma Felioetto, quand'era mezzo brillo, parlava sempre lui : e
Mariuccia capì che se anche si fosse provata» a interrogarlo, non
avrebbe, di quella tresca che si diceva, saputo nulla dal marito. Non
era la prima volta ohe Mariuccia infiltrava tra un tema e l'altro del
discorso quel suo dubbio cocente; ma Felicetto glielo levava subito
di testa : o con una barzelletta, o con un abbraccio : o con uno scatlo
Ili rabbia:
— Per ohi mi pigli?
Felicetto, ora, parlava: della vigna, ohe ci voleva un guardiana
(lui doveva lavorare alle tine di cemento) : e del .cavallo, che biso-
gnava curarlo e condurlo al pascolo; e delle ulive che, quando è l'ora
di raccoglierle, lui non poteva star sempre lì con gli occhi sui cor-
belli.
E quando s'alzò con le gambe un po' cionche, s'appoggiò a Ma-
riuccia con entrambe le braccia: e poi le baciò con la bocca umid»
di vino prima una palma poi l'altra.
•
• •
E il vecchio, dopo pochi giorni, arrivò. Felicetto volle che anche
Mariuccia venisse a incontrarlo a Ischia di Castro, come discendeva
dall'automobile: ma che non s'aspettasse un vecchietto civile! «Ha
fatto anche lui il contadino! — spiegò. Ma laggiù nelle Marche che
c'è la mezzadria fanno il contadino fino alla morte solo quelli che
hanno figli e famiglia: mentre il mio vecchio, che ha solo me e ac-
casato lontano, viveva, si può dire, di carità».
Mariuccia, quando il vecchio discese, disse:
— Madonna! Ma è il tuo ritratto.
Il vecchio svesciò, di tra le labbra rinsecchite, un risolino: e
guardò subito il paese dov'era disceso con occhietti curiosi.
— Si deve star bene qui — pronunciò.
Felicetto gli battè una mano sulla spalla:
— Questo non è il paese nostro, babbo; ci sono sei chilometri
per il paese nostro.
— Ma un dito di vino me lo fai bere?
— Venite, venite — disse Mariuccia. Qui a due passi c'è la case
delle mie sorelle. Berrete e mangierete.
Felicetto si oppose:
— Se volete bere, vi pago mezzo litro all'osteria. Ci sono i so- i
mari pronti e partiremo subito per Pianiano. \
— Ma... — osò Mariuccia. #
IL VECCHIO 155
Felicetto, senza rispondere alla mos'Ue, si caricò sulle spalle il
sacco del padre e s'incamminò verso l'osteria :
— Tu va' pure a salutare i tuoi parenti — disse poi a Mariuccia.
Noi si beve e ti si raggiunge tra cinque minuti sotto l'arco.
Spiegò subito al padre come erano fatti i paesi e i paesani e
come ci si vivesse:
— Voi volete lavarvi la faccia? Bisogna che ci pensiate due volte;
f;ercnè l'acqua qui si misura con la foglietta. Ma se invece volete
bere, un'occhiata in giro e il vino vi cola persino dai muri.
— Questo mi garba!
— Ma, a casa mia, il vino è sotto chiave — dichiarò subito Fe-
licetto.
— Se le chiavi le hai tu! — ii?se il vecchio, dolcemente.
— Io e njia moglie.
— Fa lo stesso.
— Ma c'è anche da lavorare! — aggiunse Felicetto.
Il vecchio alzò la Icsia dal bicchiere e sospirò :
— Ho le ossa tutte rotte, lo sai? Non sono più tanto in gamba,
come l'anno che sei venuto a vedermi. Mi reggo, questo sì; ma lavori
grossi non li potrei proprio fare.
— Vostro figlio non vi farà fare lavori faticosi! — esclamò Feli-
cetto. — Che diamine! Siete il padre mio. Ma lion lavorare, chi non
lavora, non mangia.
— È giusto. -
— Ma ci starete bene a casa mia! — seguitò Felicetto. — Lo sa-
pete che siamo ricchi?
— La Provvidenza ti ha aiutato davvero.
— Dunque, ricordatevi bene. Bere, non ve ne mancherà. Ma ci
vuol discrezione. E se me mi vedeste un po' alticcio, non vi venga
la voglia di imitarmi. Io lavoro, curo il bestiame, mi rompo la
st pit^na. Lo sapete che fabbrico tine di cemento per mezza maremma?
sjueste sì, sono fatiche. E se vorrete bere, venite sempre da me. Mia
moglie non è affatto avara; ma ho amor proprio, io: e non voglio
che dica, mia moglie: tra padre e figlio, mi asciugano la cantina.
— Verrò da te, sta bene — assentì il vecchio.
— Ora incamminiamoci verso l'arco, che è tardi. E se i parenti
di Mariuccia sono lì alla finestra, levatevi U cappello con garbo. Gii
ho detto che siamo contadini; ma con educazione, contadini.
Mariuccia era sotto l'arco: che li aspettava. Ma i parenti non si
vedevano.
— Debbo cavare il cappello sì o no? — domandò il vecchio a
Felicetto. — Mi par^ che non ci sia nessuno.
Ma Felicetto, senza rispondere, sganciò la staffa dal somaro che
aveva destinato a suo padre: e lo aiutò a salire:
— Tenetevi ritto, che diamine! Sembrate di pezza e non di carne
e ossa come noi.
— Son vecchio, toh!
— Queste sono le briglie. Il sacco lo legherò sul somaro mio. Io
non ho bisogno di andare a cavallo.
Indi, frustati i tre asini, un dopo l'altro, Felicetto si avvicinò
alla moglie:
— Se quelli di casa tua — le disse sottovoce — voglion fare i
166 IL VECCHIO
morti, credi che io me la pigli? Quelle quattro stai i ferreno che
mi hai portato, la vita gliela ho data io!
Mari uccia voleva rispondere : ma Felicetto andò di co: foda
agli asdni; dove giunto, con la testa alta esclamò :
— Jja superbia vuole altre spalle, compari!
•
* •
Ma Mariuccia era cosi buona, col vecchio! Costui, i primi giorni,
non se la sentiva di lavorare : e allora Felicetto gli dette un fascio di
giunchi: che facesse canestri e corbelli. E il vecchio lavorava, fu-
mava e discorreva. Mariuccia tra una faccenda e l'altra gli buttava
una domandina: che gli sembrasse il paese; che pensasse dell'aria
(è pesa, no?) e della gente. Quei quattro gatti di Pianiano, donne e
uomini, l'avevano voluto subito conoscere, il padre di Felicetto: e
lui, il vecchio, aveva trovato per tutti una parolina. Chi gli aveva
mostrato la propria cantina, se lo vedeva ogni momento intorno:
o con la scusa di un fìamimifero, o con una domanda o con l'altra.
E accarezzava i marmocchi che giuocavano davanti alla porta: di-
cendo loro barzellette o pizzicandoli: finché il padre o la madre
s'affacciassero sull'uscio e gli dicessero : « come vi garba questo paese?
Lo gradite un gocciolino?». Egli, prima di rispondere, beveva; poi
si ripuliva con il dorso la bocca e diceva che nessun paese al mondo
gli pareva così bello e pulito. « Bello poi! », e le comari ridevano.
« Insomma, insomma! » replicava il vecchio con gli occhi lustri, non
sapendo che aggiungere.
Quanto a Mariuccia, sebbene Felicetto le avesse detto che al
vecchio gli piacevano tutti i liquidi meno quello che a Pianiano si
doveva risparmiare, e guai a insegnargli la strada della cantina! —
Mariuccia ci prese gusto a fargli vedere il bicchiere : e ogni momento
il suocero le compariva in cucina con la testa bassa e gli occhi ride-
relli. Non parlava, guardava. Mariuccia fingeva di non capire: gli
domandava che pensasse della maremma: e se gli paresse più bella
o più brutta della terra maiTohigiana.
Il vecchio ansimava un po', prima di chiamar su il fiato: poi ri-
spondeva :
— Lo sapete che dico? Questo, nuora mia, è il Paradiso.
Mariuccia allora lo minacciava col braccio alzato:
— Siete un impostore! Non avete visto che terre magre? E la
macchia laggiù, che ci si guadagna solo un po' di legna? E il terreno
marcio che fuma?
Il vecchio abbassava la testa, confuso. Ma si ripigliava presto:
— Quando c'è una goccia di vino, e il pane non manca. Dio ha
dato tutto.
E guardava la credenza, dove saipeva che Marietta nasron<i<M ,i
la carata.
*
• •
Ma il giorno ohe lo vide rotolare fuori dell'uscio, ubbriaco finito,
quel giorno Felicetto ragionò persino di trattener lui solo le chiavi
della cantina. E a Mariuccia che voleva replicare, ma non osava,
disse:
l
IL VECCHIO 157
— Se tu lo ubbriachi, non ci potremo contare neppure come
guardiano. Io non ti dico di non dargli da bere : ma quando ha la-
vorato e torna a casa, sfinito. Se non ha lavorato, porgig-li il catino
dell'acqua.
E al vecchio, come la sbornia fu smaltita, Felicetto urlò :
— Lo sapete che vi siete ubbriacato?
— Io non lo so.
— Va bene. Ma canestri, ora, ne ho a suflBcienza. Domani vi
metto aJruva e fermo là.
Il vecchio non rispose. Con le labbra stringeva la punta della
lingua, come se avesse paura che g-li cadesse :
— Ci siamo intesi? E anche i paesani ci penserò io ad avvertirli :
gira di qui, gira di là, o che siete venuto a scolare tutte le botti di
Pianiano?
— Ma se a un povero vecchio — ribattè timido il padre — gli
neg-hi un dito di vino, come potrebbe faticare un povero vecchio?
* — Io non ve lo nego, babbo — disse Felicetto, rabbonito. — A due
passi dalla vigna, ci son io che faccio le tine. E quando avete sete,
farete due passi e berrete. Ma il giusto, berrete.
— Quand'è così... Io non pretendo più del giusto!
•
• •
Ma dopo quindici giorni che era alla \'igna, il vecchio non ne
potex'a più di tornare al paese: prima di tutto perchè Felicetto gli
centellinava i bicchieri (questo è il terzo, ohe!) e poi perchè non
poteva scambiare parola con questo o con quello. Un vecchio, gli
puoi far fare quello che ti piace : è pasta molle; ma se gli impedisci
quei due o tre piaceri che lo tentano, s'affloscia, perde spirito, gli
manca persino l'appetito. E il vecchio un giorno non si levò dal gia-
ciglio : e quando Felicetto andò a scovarlo disse al figlio che la diarrea
lo ammazzava. Allora Felicetto gli portò un grappolo di sorbe che
intanto gliela fermerebbero, la diarrea; e poi gli disse di avviarsi
pian piano verso il paese, che Mariuccia gli preparerebbe un letto
a modo. Ma, giunto in paese, il vecchio non andò subito da Ma-
riuccia; e gironzò da una casa all'altra, lamentandosi della diarrea
e del figlio, che certo gli aveva mischiato al vino l'acqua cattiva di
qualche fosso. Donne e uomini gli dissero che ciò era impossibile :
ma Rosa di Toniolo, con quella faccia smagrita dalla malaria, gli
di?se in un orecchio: «se invece di essergli padre, a Felicetto, gli
foste figliolo, lo so io i regali che vi toccherebbero! ».
Il vecchio non capì : e allora Rosa lo chiamò a sé, lo stagnò su
una sedia; e, mesciutogli un bicchiere:
— Lo volete vedere il figlio del figlio vostro? No, non guardate
qui dentro. Io sono la mc^lie di mio marito; ma guardate, quando
uscite di qui, la figlia di Goio, davanti ai miei scalini. Lo vedrete se
quel biondino che sgambetta lì in terra è o no il ritratto di Feli-
cetto!...
— E Felicetto lo sa?
— Che discorsi!
— E Mariuccia anche lo sa?
158 IL VECCHIO
— Non lo sa; ma lo immag-ina. che diamine! Quattro gatti che
siamo, volete che nessuno gliel'abbia detto? Ma è cotta di lui, Ma-
riuccia; e sebbene i parenti glielo aljbiano detto e gridato (sono coma,
oh!) lei non se ne dà per inteso... Ma voi, per amor di Dio, non
glielo dite!
Rosa mesceva al vecchio un altro bicchiere :
— Che ne dite di queste robe ohe succedono nel mondo?
— E che debbo dire?
^ Felioetto è stato un uomo fortunato! — riprendevp. Rosa di
Toniolo. — Avete visto che cantina che ha? Ma sono avari. Scom-
metto che la nuora non vi ha ancora fatto assaggiare l'aleatico della
vigna del Poggio.
— Questo aleatico è bianco o rosso? — e il vecchio si leccava
le labbra.
— Rosso rubino, che diamine! E come dolce!
— No, che non me lo ha fatto assaggiare — piag-nucolò il vecchio.
Rosa di Toniolo voleva dirgli qualcos'altro; ma il vecchio pen-
sava all'aleatico roseo rubino e s'incamminava. « Ora che son malato,
Mariuccia me lo farà cissaggiare per certo! », pensava.
Rosa lo richiamò.
— Lo volete vedere il nipotino? — gli disse in un orecchio. —
Guardate quel mocciosetto lag'giù che giuoca con il maiale.
— E quello sarebbe?
— Ma siete tonto! È il figlio di Felicetto, che diamine! E della
figlia di Goio.
•
• •
Mariuccia gli preparò il letto con la bottiglia calda; ma il vecchio
piagnucolava che non aveva sonno e che per guarire quel male gli
bastava una poltrona. Mariuccia, che non c'era Felicetto, si arrabbiò,
urlò : e disse persino che era stufa di far la serva, lei che era nata
signora... Il vecchio stava ad ascoltare quello sfogo (gli occhi di Ma-
riuccia sembravano filettati di sangue) senza capire : e d'altronde lui
pensava all'aleatico che era di un rosso rubino e dolce: come per-
suadere Mariuccia a spillarne per lui almeno un bicchiere. Mariucxiia
continuava: che lei era di famiglia buonissima, gli antichi padroni
di tutta Pianiano; e se s'era decisa a sposare quel zotico, l'aveva fatto
perchè rimasta senza padre e madre, sola con i servi : (e non diceva
che Richetto le era anche piaciuto perchè bello e ballava bene); ma
i parenti glieravevano detto e ripetevano sempre che con un avvo-
cato tutto si rimediava: lui da una parte, con quel figlio che le era
nato: e lei dall'altro, coi suoi d'Ischia di Castro. Glielo dicesse, a
suo figlio : che tanto a una spiegazione un giorno o l'altro ci si sa-
rebbe venuti, e magari a una tragedia. Il vecchio ascoltava abbas-
sando la testa; tanto che Mariuccia, convinta che il vecchio le desse
ragione, non si quietò finché non gli ebbe detto tutto: e alla fine
anche la gola, rauca, non le rispondeva più.
Ma il vecchio pensava tanto all'aleatico che non aveva capito
niente: e neppure capì quand'essa alzò il braccio e gli buttò pian-
gendo le ultime parole:
IL VECCHIO 159
— Se io voglio, stasera stessa dò una voce ai parenti e ci divi-
diamo!
Con gli occhi velati, il vecchio guardava in terra e contava i
mattoni : arrabbiato che fossero tanti e lui non si raccapezzasse ben€
nella conta. Tanti; e il vino ancora non si vedeva.
Ricordò ad una ad una le parole di Rosa di Toniolo: che quel
vino era rosso: rosso rubino e dolce. E,, pensando al vino, gli si riaf-
facciò in mente anche quel bimbo : che giuocava con il maiale da-
vanti all'uscio di una casa. Che diavolo aveva quel bambino che
Rosa glielo indicava e diceva : guardalo? Che stupido! Ma era il figlio
di Felicetto, quel bimbo! Aveva ragione Mariuocia di lamentarsi!
— Sapete che mi ci vorrebbe, per guarire? — disse, il vecchio a
Mariuccia che con la testa tra le palme sussultava sul tavolino.
— Che vi ci vorrebbe?
— Dalle mie parti — riprese il vecchio — quando ci si guasta il
tamburone, si va in cantina a spillare un po' di vino dolce. Voi ce
l'avete il vino dolce?
— No — disse secca secca Mariuccia. — E poi sapete che vi dico?
Felicetto non vuole che vi dia vino, a voi.
— Felicetto non ragiona — piagnucolò il vecchio, tristemente. —
Ma voi, vi ho sentito or ora, voi, Mariuccia, ragionate. E quando
dite che Felicetto è cattivo, io anche, che sono suo padre, vi debbo
dire che è cattivo davvero.
— Sfido io! Lo dicon tutti.
— Ma se non mi date un bicchiere di quello rosso rubino, io
come guarisco?
— Non ve lo dò.
— Ma se io vi portassi qui — e il vecchio sorrideva, malizioso
— una improvvisata, che direste se vi portassi qui un'improwisataf
— Non vi capisco.
— Ma dopo, mi capirete! — riprese il vecchio, con astuzia. —
Purché, s'intende, mi contraccambiate con una bottiglia di quello
dolce. Almeno una bottiglia!
E poiché Mariuccia lo guardava, senza capire:
— Io vi dò ragione in tutto, capite. E se voi ce l'avete con Feli-
cetto, anch'io ce l'ho: che mi ha dato a bere, per avarizia, il vino
annacquato con l'acqua dei fossi.
— Felicetto?
— Lui, lui, quel figlio snaturato! E io vi dò ragione, poverina.
Ma se non portate il vino, io non ve la faccio l'improvvisata. In-
somma, la volete una prova che Felicetto vi fa le corna?
— Se me la portate, io vi conduco addirittura in cantina.
— Quand'é così, aspettatemi.
E il vecchio gpondon grondoni s'avviò.
•
• •
Quando la figlia di Goio con la gola stretta corse da Felicetto a
dirgli che Mariuccia era scappata col loro figlio in braccio a Ischia
di Castro dai parenti, Felicetto scoppiò in un urlo:
— Chi é stato?
160 IL VECCHIO
E saputo che suo padre medesimo gli aveva fatto quel giuoco,
Felicetto arrotò i denti dalla bile: e via da Pianiano, di corsa. La
figlia di Goio gli andava dietro, ma invano gli diceva, affannata,
alle orecchie:
— Va' piano: tanto quel che è successo non lo rimedierai.
Ma Felicetto voleva ammazzare il vecchio: e correva per questo.
Non lo ammazzò : che ci si misero di mezzo tutti i pianianesi.
Ma quando Mariuccia ritornò col parentado a ripigliare tutta la roba
sua e a Felicetto gli rimase solo il mulino dell'olio: «ora vi acco-
modo io — disse Felicetto a suo padre — ; e, staccato il somaro che
girava la macina, legò a quel posto il suo vecchio : il quale, non che
l'aleatico, neppure il vino bevve più : perchè, dopo il quinto o sesto
giorno, piegò sulle ginocchia, schiattato.
Mario Puccini
IL DECENTRAMELO
Uno dei problemi fondamentali riservati all'esame della presente
legislatura è senza dubbio quello che corre sotto la denominazione
di decentramento amministrativo e di autonomia comunale. Partiti,
gioi-nali, uomini politici si fanno banditori, nei programmi, nelle
polemiche, nei comizi, di questa necessità del decentramento e del-
l'autonomia locale. Le voci discordi si sperdono senza eco nel grande
coro dei partigiani delle riforme-
Ma poiché cLSsai di rado si scende a determincizioni concrete
dell'essenza e dei particolari delle richieste, molti si uniscono al
coro senza penetrare l'intima portata della riforma, la quale, sotto
la frase ellittica che ormai la identifica, si presta ad interpretazioni
profondamente divergenti. Gli stessi seguaci più risoluti del decen-
tramento non nascondono la necessità di uno studio accurato dei
termini particolari del problema, attualmente ancora vago e inde-
terminato. Ed è questo studio obbiettivo che ci proponiamo, all'in-
fuori di ogni considerazione di parte, lieti di promuovere la pub-
blica discussione sull'importante argomento intorno al quale questa
Rivista ha recentemente pubblicato un interessante e accurato stu-
dio dell'on. senatore Artom (1).
In tempi recenti il problema del decentramento fu anche oggetto
di esame nella notevole Relazione della Commissione parlamentare
di inchiesta sull'ordinamento delle Amministrazioni dello Stato e al
Congresso Nazionale del Partito Popolare Italiano.
La relazione Gassis si occupa del problema del decentramento
nella parte generale e in apposito allegato. La parola « decentra-
mento » è dalla Commissione chiarita nel suo triplice e differente si-
gnificato di autarchico, burocratico e istituzionale. Dopo un esame
dei precedenti storici della questione, la relazione, al paragrafo sulla
regione, cita e riassume gli scritti del Minghetti, del Saredo e del Ber-
tolini, e le opinioni espresse dall'on, D'Alessio alla Camera e dal de-
putato Hennessy al Parlamento francese. Il voto conclusivo della re-
lazione, dopo aver rilevato che il decentramento organico si appale-
sava oggi immaturo, propone un largo decentramento burocratico e
la semplificazione dei controlli.
Nel Congresso nazionale del P. P. I. quasi una intera giornata
è stata dedicata al tema dell'autonomia regionale. Il maggiore inte-
resse della discussione fu dato dal duello, ad armi cortesi, tra Don
Sturzo e l'on. Meda. La regione era definita dal relatore « ente elet-
tivo rappresentativo, autonomo autarchico, amministrativo, legisla-
tivo ».
(1) E. Artom, L'antico disegno delle regioni. Cavour, Farini, Minghetti,
in Nuova Antologia del 1" gennaio 1922.
162 IL lJti.i.Ai.i.\.\iLMu
La portata di tale proposta fu logicamente avvertita dall'onore-
vole Meda quando affermò che « colorendo così il concetto dell'auto-
nomia regionale, lo si precostituisce in antitesi, certo non voluta, col
concetto della compagine statale o nazionale ». Don Sturzo accettò la
sostituzione della parola leffislalivo dell'ordine del giorno con quella
di deliberativo, « per omaggio all'on. Meda e per averlo consenziente,
quantunque non entusiasta, nell'inizio della regione », ma chiara-
mente afìfermò la necessità di tenere saldo il concetto ispiratore. Nel
concetto di Don Sturzo le funzioni che dovrebbero essere riservate
alle regioni sono quelle relative ag4i interessi, circoscritti nel proprio
territorio, nel campo dei lavori pubblici, dell'agnncoltura, del com-
mercio e del lavoro, della scuola e dell'assistenza sociale, della bene-
ficenza e dell'igiene. La regione dovrebbe avere una propria finanza.
Del resto neanche nel campo popolare la questione sembra an-
cora matura, anche prescindendo dalle divergenze di opinioni rile-
vate nel congresso. Finora la discussione è limitata alle affermazioni
di principio; ma sarebbe bene che su queste, specialmente dal punto
di vista politico, i vari partiti esprimessero con chiarezza e con co-
noscenza piena dell'argomento il proprio pensiero.
Questo fatto spiega l'opinione diffusa che se i tempi sono pro-
pizi le risoluzioni non possono ritenersi certo mature. Siamo dinnanzi,
insomma, più che a una elaborazione serena e meditata di un nuovo
assetto amministrativo che corrisponda ai bisogni dei tempi, a una
vera esplosione e reazione dell'opinione pubblica, contro l'inestrica-
bile groviglio di leggi, regolamenti, normali, circolari, istruzioni,
onde lo Stato avvolge ed appesantisce l'attività degli Enti locali.
Ma poiché questa reazione sorge senza fondarsi su un'analisi com-
pleta del fenomeno, può ingenerare, nella forma superficiale ormai
assunta in prevalenza, equivoci perturbatori e dannosi. Cosi la for-
mula « la terra ai con-tadini », con la quale si volle sintetizzare il
vasto problema agrario, interpretata in modo sostanzialmente discor-
dante dalla legislazione, dai partiti politici e dai proprietari terrieri,
generò illusioni infeconde e produce tuttora controversie e lotte inter-
minabili.
Sembra quindi indagine essenziale e pregiudiziale, per una
seria discussione sulla riforma del nostro sistema amministrativo,
determinare quale significato sia stato attribuito alla formula « de-
centramento amministrativo e autonomia comunale», e cercare di
porre in chiaro, nelle discussioni politiche e nella stampa, la posi-
zione esatta ed attuale del problema, se non si vuole che il coro
di unanimi richieste cui si è accennato non si converta d'improv-
viso in un fiero contrasto.
Invero, quando si tenga presente il concetto dell'amministra-
zione propriamente detta dal ipunto di vista scientifico, con l'espres-
sione decentramento amministrativo si dovrebbe intendere il tra-
sferimento agli organi locali del Governo e agli Enti locali delle
facoltà e attribuzioni direttive, oggi rigidamente accentrate dai Mini-
steri. Su questa forma di decentramento è assai facile l'accordo fra
coloro che, respingendo il presupposto di una potenza taumaturgica
e trascendentale d^li organi centrali, scorgono tutto il gravissimo
danno che il nostro sistema acoentratore arreca alla vita delle pub-
bliche Amministrazioni.
Senonchè, questa interpretazione, forse la più corretta dal punto
di vista scientifico e storico, accolta ormai con fervore da molti
IL DECENTRAMENTO 163
g^ruppi politici medi, può dirsi tu tt' altro che coincidente con la con-
cezione seguita da altre correnti politiche e delineata nell'ultimo di-
scorso dell'on. Giolitti alla Camera.' Secondo quest'ultima tendenza,
oltre a decentrare le funzioni direttive ed esecutive dello Stato (e cioè
1© attribuzioni specifiche dell'Amministrazione propriamente detta),
si dovrebbe trasferire agli Enti antarchici locali, attualmente esistenti
e da creare (regioni), anche parte delle funzioni legislative; concetto,
questo, che evidentemente non è contenuto nella formula « decentra-
mento amministrativo».
Dal canto suo il partito socialista, alla cui politica si deve non
piccola parte dello sviluppo assunto dall'ingerenza dello Stato nella
vita pubblica locale, è stretto dalla evidente contradizione fra le
sue necessarie aspirazioni a una sconfinata libertà negli organismi
pubblici che controlla (amministrazioni provinciali, comunali, oiere
pie), e la necessità altrettanto viva di i-eclamare sempre nuovi inter-
venti dello Stato, nel reale o presunto vantaggio delle masse che
rappresenta.
Fra queste aspirazioni © tendenze, talora convergenti, tal'altra
contrastanti, compendiate nell'espressione « decentramento ammini-
strativo », l'opinione pubblica è affatto disorientata dal punto di vista
politico non meno che dal punto di vista tecnico del problema: e
1 incertezza è ag^gravata dall'efflorescenza rigogliosa di organismi
ed Enti statali creati, soppressi © ricostituiti; dalle simpatie statoìatre
di alcuni gruppi politici medi impregnati di riformismo; dall'orien-
tajnento social ist^gian te di tutti i Governi succedutisi al potere da
qualche anno. Occorre quindi che il problema sia esaminato nella
sua essenza obbiettiva e pratica, all'infuori dalle deviazioni ed esa-
gerazioni dei singoli partiti, nell'imponente complessità dei suoi
rapporti politici e tecnici, con uno spirito scevro da ogni preoccupa-
zione che non sia quella di mirare a un assetto meglio rispondente
alle superiori ed imprescindibili esigenze del Paese.
*
Quali i iprecedenti remoti e prossimi della questione ?
È noto a tutti su quali basi sìa fondato l'attuale ordinamento
della nostra Amministrazione. La medesima influenza che operò
dopo la rivoluzione francese sullo sviluppo del nostro diritto pri-
vato, penetrò nei nostri congegni amministrativi. La rigida disci-
plina napoleonica, dopo il tumulto del periodo rivoluzionario, aveva
accentrato nelle mani del governo, con la legge 22 piovoso, anno
VIIP, la somma dei poteri pubblici: codesto sistema venne quasi
interamente introdotto nello Stato «ardo, esteso poi a tutto il Reerno
con la legge 23 ottobre 1859, modificata solo, e timidamente, nel 1865
con la l^ge del 20 marzo. Fino al 1877 la direzione del Governo ita-
liano rirfiase affidata a nove Ministeri; nel 1878 i dicasteri diven-
tano 10; un altro se ne aggiunge nel 1889 e un altro ancora nel 1912.
Attualmente i Ministeri sono 15, con quattro Sottosegretariati
aventi una certa autonomia, oltre al nuovo posto di Sottosegretario
della Presidenza del Gonsiglio.
La istituzione dei nuovi Ministeri, che avrebbe dovuto effet-
tuarsi mediante una razionale riduzione dei servizi nei vecchi Dica-
164 IL DECENTRAMENTO
steri, con una maggiore specializzazione, ma anche con una più effi-
ciente e snella coordinazione delle varie funzioni, avvenne in un
modo tumultuoso, senza direttive precise, più per motivi di carat-
tere politico (prevalenza di tendenze informate al collettivismo di
Stato; necessità di guerra; ricostruzione dei territori invasi e perfino,
talora, per agevolare la formazione dei nuovi governi, con un porta-
foglio di più da distribuirei) che non per ragioni connesse e dipen-
denti dalle reali necessità dell'Amministrazione.
Caratteristica delle modificazioni apportate agli organici fu un
enorme gonfiamento dei posti direttivi: le sole direzioni generali,
da circa 60 prima della guerra, diventarono 95; aumentarono in pro-
porzione i segretariati generali, le divisioni, i posti d'ispettore, ecc.
Nel momento stesso in cui veniva pubblicata una relazione d'in-
chiesta (Villa-Ranelletti) sull'Amministrazione, che deplorava l'esu-
beranza degli ispettori generali e amministrativi, si creavano, con
decreti legislativi emanati in base alla legge dei pieni poteri, altre
fungaie d'ispettori.
Quasi tutti 1 Ministeri, mentre si studiavano e reclamavano ri-
forme per ridurre i servizi, moltiplicavano gli uffici direttivi, ' mo-
dificando gli organici con decreti-legge; e opponevano così le più
formidabili barriere ad. ogni onesto tentativo vòlto a semplificare
l'Azienda dello Stato.
Poiché, com'è ovvio, i nuovi capi di servizio, pur di dare un
contenuto al proprio ufficio, escogitarono mille nuove forme di atti-
vità da parte dello Stato; e quasi sempre con danno del Paese.
Pertanto, dati i difetti numerosi e sostanziali del sistema ìtsoì-
cese, logorato da una applicazione ohe tenne sempre così piccolo
conto delle nuove esigenze dei tempi; data la soprastruttura creata
dalla legislazione di guerra soii già pesanti e macchinosi congegni
amministrativi; era ed è evidente che una reazione dovesse sorgere
contro l'organismo burocratico, per ottenerne la smobilitazione e per
liberare l'attività degli enti locali e dei privati dal^e pastoie innu-
merevoli che rallentano e isteriliscono ogni sana iniziativa.
• •
In quest'opera, bisogna riconoscerio subito, partiti e uomini
politici, se furono consapevoli dei malanni, non ebbero una visione
chiara dei rimedi. Fu già osservato dal compianto Ghino Valenti
che « i più amano lasciare questa grande innovazione del decentra-
mento in una forma indeterminata, quasi un ideale, a cui è confor-
tante il mirare, ma che non sarà mai in pratica raggiunto, troppo
essendo le difficoltà di ogni specie ohe si oppongono alla sua attua-
zione».
Una delle poche determinazioni concrete, fatte dai sostenitori
della riforma, è il richiamo al precetto Minghetti del 1861. L'argo-
mento è stato anche toccato dall'On- Oiolitti nel suo ultimo discorso
di governo e merita di essere esaminato almeno nelle caratteristiche
salienti.
Per eseguire la ripartizione del nuovo Stato italico in circo-
scrizioni amministrativo, Fon. Minghetti presentò il io marzo 1861
IL DECENTRAMENTO 165
un progetto di legge .proponendo la suddivisione del territorio in
Regioni, Provincie, Circondari e Comuni. L'innovazione proposta
al sistema allora vigente consisteva in principal modo nella crea-
zione dell'ente regione. La ripartizione territoriale del Regno e la
formazione delle grandi arterie amministrative, entro cui avrebbe do-
vuto scorrere ordinata e rapida la vita intema dello Stato, poggiava
su questi concetti cardinali : il Comune doversi considerare come la
prima fondamentale e più intima associazdone delle famiglie; la
Provincia riguardare non già come formazione fittizia, ma « quale
associazione naturale, fondata sopra interessi comuni sopra tradi-
zioni che non si possono offendere senza pericolo» (1).
Il Circondario, invece, si dichiarava mantenuto soltanto per
considerazioni contingenti; così che nella relazione del Ministro al
rrogetto si legge: «È mia opinione che il Circondario sia destinato
a sparire in un tempo più o meno remoto; e se ovunque fossero in
Itulia vie ferrate e facilità di comunicazione, non mi sarei peritato
di pronome l'abolizione » (2).
Regolata la vita comunale; conservato il Circondario per le ra-
gioni di opportunità sopra ricordate; disciplinate le funzioni della
Provincia, cui si conferivano nuove franchigie, la costituzione della
regione si giustificava:
1) con la convenienza di provvedere in modo rapido ed effi-
cace ad alcuni servizi comuni a più provincie (istruzione superipre,
belle arti, cura delle strade, difesa dei fiumi);
2) con la necessità di creare un periodo transitorio nel quale
(unificato tutto il sostanziale, la politica, le armi, la finanza, la
legislazione), la parte amministrativa potesse durare con quella va-
rietà che armonizzi con l'indole diversa dei popoli e delle loro
usanze (3).
In altri termini si temeva che una regolamentazione unica di
tutte le regioni italiche, fino allora amministrate con regimi tanto
differenti, fosse destinata a turbare le tendenze, le abitudini, gli
interessi accentrati nelle regioni, con danno precisamente di quel-
l'unità che si voleva ad c^ni costo salvaguardare-
La regione così formata doveva essere un ente governativo, un
ente gerarchico e non una amministrazione autarchica.
La sua attività era delineata all'art. 1 del progetto nei seguenti
termini : •
« Tutte le Provincie che compongono una regione costituiscono
un consorzio obbligatorio i>er le spese relative :
1° agli Istituti d'istruzione superiore, agli archivi storici, alle
accademie di belle arti;
2° ai lavori pubblici per fiumi, torrenti, ponti, argini e strade;
quando tali spese non sono poste dalla legge a carico dei Comuni,
delle Provincie, dei Consorzi e dello Stato».
Il progetto della istituzione delle regioni, che vuoisi riassu-
messe l'antico pensiero di Cavour e di Farini, non fu accolto favo-
revolmente negli Uffici della Camera. Indarno l'on. Minghetti, nella
(1) Discorsi parlamentari di M. Minghetti, voi. I, pag. 90 e 91.
(2) Atti parlamentari - Documenti, 18^1j pag. 33.
(3) Atti parlamentari, ibidem.
166 IL DECENTllAMENTO
relazione e nei discorsi, ribadì il concetto ohe dalla nuova legge
nessun nocumento sarebbe derivato all'idea unitaria, così profon-
damente sentita da tutti negli albori del nuovo Regno.
L'on. Tecchio, relatore agli Uffici, avvertiva che «le genti sta-
vano in apprensione di qualsivoglia scompartimento che rendesse
immagine di antiche circoscrizioni politiche, felicemente abrogate.
La regione presuppone o l'idea di una unione federale o men ferm*
la fede nell'unità »•
Così il tentativo di decentramento ebbe un completo insuccesso,
spiegato essenzialmente dal timore assai diffuso negli ambienti par-
lamentari che la riforma nuocesse all'unificazione politica non ancora
del tutto cementata. Eppure non si trattava, come già si è accennato,
della istituzione di un ente amministrativo autonomo, il quale avreb-
be potuto, con fondatezza, far temere ostacoli o turbamenti nel
grandioso moto unitario che in quei tempi si andava compiendo.
La regione nel progetto Minghetti era considerata come ente gover-
nativo — non autarchico — e definita " sede di un governatore che,
come delegato del Ministro dell'Interno, provvedesse sul luogo a
molti affari senza che fossero portati alla capitale e conciliasse la
facoltà regolamentare delle varie parti d'Italia alla unità legisla-
tiva della Nazione » .
Tuttavia, nonostante la più perspicace chiarezza di propositi, il
Parlamento non concesse né meno l'onore di una discussione vera
0 propria al progetto, che fu, come ben disse il Saredo, condannato
senza esame. Così, mentre il relatore, on. Tecchio, iniziava la rela-
zione affermando «il decentramento amministrativo è teorema uni-
versalmente accolto», il disegno di legge veniva relegato agli ar-
chivi con un'opposizione tanto fiera e universale che nessuno, per
50 anni, osò più di parlarne alla Camera, e l'on. Crispi, il quale
tentò nel 1891 di riproporre la questione, dovè lasaiare il Governo in
seguito all'agitazione prodotta nel Parlamento da tale suo intento.
•
• •
All'insuccesso parlamentare — e quindi politico — della tesi
del decentramento fa riscontro lo scarsissimo interesse che la que-
sione destò, in generale, nel campo scientifico. Pochi furono gli
scrittori che si occuparono a fondo dell'argomento, talché alla riso-
luzione del problema, nel riguardo tecnico, viene oggi a mancare
anche quella completa elaborazione e preparazione dottrinale che,
se esistente, potrebbe costituire un saldo punto di partenza alle di-
scussioni e alle proposte di carattere pratico per l'attuazione della
riforma.
Tra coloro che cercarono di continuare il pensiero di L. C Fa-
rini e del Minghetti, ricorderemo il Bertolini e il Saredo, entrambi
convinti e vivaci propugnatori della istituzione della regione. Il
Bertolini pone in rilievo, nei suoi scritti (1), l'esistenza di elementi
regionali nel nostro paese; esistenza di intendimenti, rapporti, in-
teressi, solidarietà che, non trovando una regolata espansione nel-
l'oganismo amministrativo, diviene spesso una causa perturbatrice
(1) Bertolini, Saggi di scienza e diritto deW Amministrazione.
IL DICENTRAMKNTO 167
nell'indirizzo della nostra vita pubblica. L'ordinamento regionale,
secondo il Bertolini, assicurerebbe al Paese una più sollecita e op-
portuna soddisfazione dei bisogni locali: mentre offrirebbe la pos-
sibilità di « localizzare la deliberazione, l'onere e la responsabilità
di una notevole parte delle spese, che oggi incombono allo Stato»;
funzione, quest'ultima, che mal si potrebbe affidaiie a consorzi inter-
provinciali, di carattere temporaneo, privi dì autorità e del neces-
sario prestigio (1).
Giuseppe Saredo, nell'introduzione al commento della legge co-
munale e provinciale, fa una larga esposizione della teoria della
regione, ma va molto al di là del Farini e del Minghetti nel deli-
neame la costituzione e le funzioni. Dopo una critica dell'attività e
dei compiti della provincia attuale, considerata da lui quale sem-
plice espressione geografica e come organismo burocratico di assai
scarsa utilità, il Saredo accoglie la massima giobertiana : « il sistema
federale tanto giova all'amministrazione quanto nuoce nella politica »,
e accostandosi appunto ad un sistema federale amministrativo, pro-
pone una circoscrizione regionale, a base elettiva, munita di larghi
poteri, con a capo personaggi politici importanti e, perfino, nìembri
della famiglia reale (2).
Come vedremo, le idee del Saredo, tranne alcuni particolari,
sono oggi più prossime ai termini della questione attuaie di quel
che non siano le tendenze e i progetti del Farini e del Minghetti;
e le citazioni fatte del disegno di legge di Minghetti da molti che
si occupano della questione, senza conoscerne a fondo i precedenti
e i particolari, sono non di rado erronee e anacronistiche. Comun-
que sta di fatto che le obbiezioni mosse, in Parlamento e fuori, ai
propositi di un vigoroso decentramento e alla creazione della re-
gione si possono compendiare in una sola: la preoccupazione che
l'unità del Paese, faticosamente raggiunta, possa subirne pregiu-
dizio. L'obbiezione, assai seria noi tempi della formazione del Re-
gno, ha oggi perduto parte del suo valore, nonostante abbia tratto
nuovi elementi da una serie di atti inopport,uni e intemi>eranti;
dai voti della Consulta siciliana, che voleva conferito al Consi-
glio Regionale carattere di Parlamento e al Governatore preroga-
tive regali, alle isolate iniziative di deputati siciliani, sardi e meri-
dionali, che più volte si adunarono in Commissioni per esaminare
la questione, suscitando, con tali manifestazioni di carattere parti-
colaristico, in luogo dei necessari consensi, vive diflBdenze e preoc-
cupazioni.
*
• •
Non deve tacersi che il movimento' di questi ultimi tempi, che
ha portato di nuovo in discussione il decentramento, sia assai povero
di idee pratiche e manchi molto spesso di un contenuto che possa
formare serio oggetto di discussione. Anche in recenti manifesta-
zioni si è visto auspicare al decentramento e alla regione, quasi
(1) Localizzare non significa ridurre: e lo dimostrano gli enti autonomi
portuari con le enormi maggiori spese assunte in confronto con la gestione
precedente.
(2) SAREax), La legge sull'Amministrazione Comunale e Prov., voi. I, 185.
168 IL DECENTRAMENTO
<'ome all'avvento di un nuovo regime destinato a salvare il Paese
da una imminente rovina, in una forma luccicante di frasi sonore,
ma con scarsi accenni concreti alle riforme da attuare. Inoltre l'idea
del decentramento ha fatto fiorire — com'era fatale del resto che
avvenisse — nel sempre verde giardino della patria retorica, copia
abbondevole di luoghi comuni, ottimi ausili nei discorsi elettorali e
nei comizi, specialmente pel carattere di novità concettosa con cui
la tesi si può presentare agli ignari ascoltatori. Così si sono riesumate
le glorie del libero Comune italico del Medio Evo per invocare ana-
loghe libertà in favore dei Comuni attuali. Richiami e confronti sto-
rici sui quali molto vi sarebbe da dire e da obbiettare, se si volesse
ritornare anche fugacemente col pensiero alle funzioni dei Comuni
niedioevali, ai loro rapporti con l'impero, quando lo Stato moderno,
con la sua vita multiforme e complessa, non era ancora sorto.
Concludendo, la questione del decentramento, dopo circa cin-
quant'anni di silenzio quasi completo, si imjpone oggi alla discus-
sione pubblica più per l'esasperazione prodotta ai mali del nostro
sistema amministrabivo dalla legislcLzione di guerra, che per una
elaborazione meditata di un migliore ordinamento; si diffonde più
con la scintillante e verbosa vacuità delle immagini, che con pro-
positi «concreti di rinnovazione; e minaccia, purtroppo, di essere
monopolizzata dai partiti politici estremi, che cercano in un modo o
nell'altro di volgere le riforme ai loro fini particolari, quando in-
vece occorre, su tale altissimo e vitale argomento, che tutto il Paese
si accinga alle inevitabili riforme con uno spirito scevro da ogni cri-
terio partigiano.
•
• •
Se si vuole davvero prepajure le vie alle innovazioni reclamale
dai nuovi bisogni occorre proporsi, anzitutto, alcuni quesiti di or-
dine pregiudiziale alla questione del decentramento.
Sta bene concedere nuove franchigie agli enti locali, ma prima
occorre liquidare i numerosi residui di guerra che ancora oggi oppri-
mono l'economia nazionale. Tutto ciò che la guerra e, purtroppo,
anche il regime post-bellico, hanno creato e sovrapposto alle nor-
mali attività dello Stato dev'essere coraggiosamente distrutto. Lo
Stcìto moderno non può limitarsi alla funzione del gendarme; ma
non deve continuare a spingere la propria invadenza in tutti i
meandri della vita economica e sociale.
Questa è una tesi che trova tutti concordi a parole, rca che* at-
tende ancora di essere tradotta in atto-
Ned giudizio del Paese, lo Stato regolatore dei cambi e del com-
niercio internazionale, assuntore di imprese industriali e di forni-
ture alimentari, si è liquidato tra la riprovazione generale. Ma la
demolizione di tutto li mastodontico edifìcio è appena agli inizi;
mentre occorre colpire col piccone le fondamenta della torre babe-
lica della legislazione di guerra e c-ancellarne anche il ricordo.
Insieme con questa opera di necessaria demolizione bisosrna
determina.' e con preciso rigore quali debbano essere le atti /ila riser-
vate allo Stato per garantirne le fondamentali funzioni e la vita
unitaria. Così si eviterà a tempo il disorientamento degli spiriti
IL DECENTRAMENTO 169
dimostrando che — al contrario di quanto affermano alcuni — la
rinuncia da parte dello Stato a tali essenziali funzioni non avverrà
senza l'inevitabile sfaldamento della sua compagine. E invero tutte
le attività ritenute sinora esclusive dello Stato, principalmente la
legislativa e la finanziaria, sono state attaccate dalla propaganda
pel decentramento; è riihasta fuori di discussione la sola funzione di
polizia, forse perchè così si pensa che sarà piìi facile continuare a
dirne male. Non è fuor di luogo porre in rilievo il pericolo di tali
discussioni.
Lo Stato deve creare il diritto e attuarlo. La tutela, preventiva
e repressiva, del diritto- è mancata in molte, in troppe occasioni.
Non ne incolpiamo soltanto gli uomini. Forse le contingenze e i moti
storici sono stati superiori alla volontà e alle possibiltà del gover-
nanti. Ma certo, passate le crisi, bisognava correre piìi rapidamente
ai ripari. Restaurare il principio che lo Stato è l'unico e il supremo
regolatore del diritto è un compito che attende ancora chi lo assolva.
La funzione legislativa può essere compiuta da Enti diversi dallo
Stato? Questa domanda bisogna porsela risolutamente per sgombrare
il terreno da alcune affermazioni dei seguaci del decentramento a ol-
tranza. I quali, dal governatore del progetto Minghetti, sono arrivati
a propugnare l'idea di un Consiglio Regionale elettivo, munito persino
di poteri legislativi. Se il proposito fosse attuabile, risorgerebbe in
tutto il suo vigore il concetto federalista, repugnante al sentimento,
alle tradizioni, agli interessi del nostro Paese. Ma è da credere che
l'idea non ix)ssa tradursi in atto' anche per altre circostanze. Nel Me-
dioevo i nostri Comuni trassero le maggiori forze dalla disciplina in-
terna delle varie classi, inquadrate nelle corporazioni di arti e me-
stieri. Oggi il Comune e la Regione non potrebbero attingere alcuna
forza di cai'attere locale dal movimento classista. I sindacati, queste
leve formidabili e talora minacciose della società odierna, sono per la
loro intrinseca natura néizionali, non essendo riusciti finora a diven-
tare veramente intemazionali, e conducono, volta a volta, i problemi
5i carattere locale in sfere sempre piìi vaste. In altri termini il
sindacalismo è un movimento accentratore; le grandi confederazioni
del lavoro tendono a dettare leggi uniformi per tutte le regioni nel
mercato della mano d'opera e del salariato; aspirano ad elevare il
tenor di vita del contadino e dell'operaio . delle regioni povere al
livello dei lavoratori delle regioni ricche.
Ora questa tendenza, con la quale bisogna a ogni modo fare
i conti, può rappresentare un ostacolo formidabile al decentramento
locale delle funzioni legislative. E perciò è da ritenersi che gli sforzi
per la creazione dei parlamentini regionali cadranno nel vuoto. Il
sindacalismo mira invece ad assicurare a se stesso, come entità nazio-
nale e non locale, alcuni poteri legislativi; e il tenlativo si presenta
assai più serio dell'altro. Ma di certo, quando si ammette la discus-
sione sui principi, quando col decentramento si propugna lo spez-
zettamento della sovranità legislativa " dello Stato, si fornisce ali-
mento e vigore alle tendenze sindacali, le quali, una volta violato
il criterio rigido della intangibilità della funzione legislativa, hanno
copia di argomenti non meno validi e seri dei « decentratori » per
suffragare le proprie richieste di parlamenti del lavoro e della pro-
duzione. Ed è da augurarsi che tra i seguaci dei parlamenti regio-
12 Voi. OCXVI. serie VI — 16 gennaio 1922.
170 IL DECENTRAMENTO
nali e i sindacalisti non si conciludano patti di alleanza, che avreb
bero come conseguenza un attacco, a fuochi incrociati, contro l'at-
tuale sistema legislativo, altrimenti bisognerebbe provvedere a tem-
po alle necessarie difese.
Parimenti si prevede, in occasione dei propositi decentratori, u»
altro grave pericolo. Si vorrebbe ohe gli enti locali avessero la più
amipia libertà nella politica dei tributi. Anche qui il malcontento
oggi diffuso è stato alimentato da una condannevole inerzia del Par-
lamento, il quale avrebbe dovuto da molti anni sancire quelle riforme
tributarie che sono reclamate dalle mutate esigenze dei tempi. Ma
in luogo di discutere i rimedi adeguati si passa all'altro estremo:
quello defila completa libertà concessa agli enti locali in materia "di
finanza. Ognun vede dove l'applicazione di tale principio condur-
rebbe- Basti riflettere che la sola tassa di famiglia, conferita ai
Comuni senza limitazioni, sarebbe sufficiente ad attuare rapidamente
la confìsca e l'annullamento delle proprietà. Se a questo si vuol
giungere, lo si dica e discuta chiaramente; ma che si voglia gal>el-
lare per dannosa e ingiustificata l'azione rogolatrice dello Stato
nella materia dei tributi locali è un po' troppo.
Tale azione, va^senza dubbio migliorata e resa più moderna,
snella e aderente alle necessità miove. Ma non può essere abban-
donata dallo Stato, se non si vuol consacrare il principio della pre-
valenza delle opposte fazioni, ohe spesso fanno del libito licito in
loro legge; che restituirebbe agli enti locali la fisonomia dei Co-
muni medioevali, con le cacciate dei bianchi o dei rossi rese possi-
bili mediante la semplice applicazione dei tributi spogliatori.
•
• •
Quali svolgimenti delinea il problema del decentramento nei
Sguardi della scuola nazionale?
Ai tempi dell Minghetti si diceva molto semplicemente : la scuola
elementare ai Comuni, la media alle Provincie, la superiore alle
Regioni. La situazione presente attua completamente il rovescio
di tali concetti. Caduta l'idea della regione; assunta subito dallo
Stato la scuola media e, nel 1911, anche la primaria, oggi è in
vigore una specie di regime di monopolio degli studi da parte dello
Stato. Si può apportare un mutamento a codesto regime accentratore
con vantaggio della scuola?
Se i molti mali e difetti della scuola derivassero da ragioni
d'indole amministrativa, la risposta dovrebbe essere affermativa
senz'altro. Senonchè, le deficienze e insufficienze della scuola ita-
liana dipendono da cause ben diverse e più profonde, principalis-
sima quella del meschino trattamento economico fatto agli inse-
gnanti che ha allontanato dalla scuola, e non ha permesso che vi
entrassero, molto fresche e capaci schiere di giovani. È anzi da me-
ravigliarsi come, nelle attuali condizioni, si trovino ancora in copia
ottimi docenti, che profondono nell'insegnamento tesori di attività e
di sapere.
Contro un decentramento nell'amministrazione della scuola
stanno ragioni di carattere ideale e politico, e motivi di ordine pra-
tico di notevole rilievo. La grande maggioranza del paese è ancora
IL DECENTRAMENTO 171
Oggi convinta che tra le funzioni essenziali dello Stato debba pri-
meggiare quella della cultura- Quando si pone in discussione questo
principio, persino Ton. Trei^s afferma di sentirsi « un vilissimo
codino». Migliorare ordinamenti e programmi; assicurare un buon
reclutamento di personale mediante un ad^xiato trattamento eco-
nomico; preparare gli insegnanti; rinnovare gli ausili tecnici con
modernità di criterio: ecco dei compiti tanto urg^enti quanto vasti,
sui quali i consensi dovrebbero essere unanimi. Ma. il proposito di
lare della cattedra un centro irradiatore di idee 'politiche repugna
anche a molti uomini di parte, pei quali è ancor vivo l'ideale di
una scuola che attragga i giovani con l'eterna bellezza del vero e
ne maturi il pensiero in un'atmosfera alta e serena, al disopra delle
aspre contese partigiane. Le altre obbiezioni di carattere politico
al decentramento scolastico sono di così viva attualità in questi
uiorni, che è proprio superfluo ripeterle qui. Quanto ai contrasti
pratici, va rilevato il fatto che, nella enorme maggioranza, gli inse-
gnanti di ogni ordine di scuole paventano, con fondatezza, un muta-
mento di regime, e si sono già dichiarati contrari non pure all'aboli-
zione, ma anche all'indebolimento della scuola di Stato. Tale opipo-
aizione è tutt'altro the trascurabile, non soltanto per la forza che
indubbiamente hanno le grandi federazioni degli insegnanti, ma
.sopratutto perchè l'opposizione è motivata da abbondanti e seri mo-
tivi. Tutto ciò tacendo del problema finanziario, davvero imponente,
in ispecie per quanto riguarda le Regioni povere, le quali ben diflB-
cilmente riuscirebbero, coi propri mezzi soltanto, a sostenere l'onere
della scuola.
Questo rapido esame conduce a concludere che non sia possibile
diminuire i poteri dello Stato nel campo legislativo, tributario e sco-
lastico, sebbene urgano riforme radicali per int^rare il Parlamento
con organi tecnici, per dare un nuovo assetto ai tributi generali e
locali, per allargare il respiro alla scuola ed estenderne con vigore
'a provvida influenza.
Quando siano ben fermi i concetti della demolizione delle so-
prastrutture di guerra, e della integrità delle funzioni essenziali dello
Stato, con i miglioramenti imposti dalle nuove esigenze sociali, si
può affrontare con tutta tranquillità il problema della riforma delle
circoscrizioni amministrative e delle maggiori franchigie da accor-
dare agli enti locali.
Il Comune, questo organismo compatto e duraturo della vita
amministrativa, nel quale, come ben disse lo Stein, sta la radica
della nostra vera libertà politica, deve ottenere dallo Stato maggiori
e pili ampi poteri di autodeterminazione, dev'essere sciolto da alcune
superflue forme di tutela nei confronti delle quali assume l'aspetto
di un eterno minorenne. Problema di lunga lena, che va discusso
nelle linee generali e particolari con riguardo a tutti gli elementi
di natura politica, finanziaria, sociale che concorrono a formarlo:
problema che si awierà a una soluzione solo quando si uscirà dal-
l'indeterminato e dal vago per discuterlo in tutti i suoi aspetti con-
creti e pratici- Allora solo si potrà distinguere se le richieste di
autonomie feriscono il principio della sovranità dello Stato o se le
172 IL DECENTRAMENTO
riforme possano, invece, essere accolte senza annullare le attività
essenziali dello Stato. •
Sulla soppressione del circondalo l'accordo può raggiungersi
facilmente, trattandosi di organo governativo non autonomo, e forse
Tunica difficoltà sarà di carattere prettamente parlamentare, con
le proteste, i voti, le pressioni che colpiranno, dai capiluc^hi, i
rappresentanti politici, poiché, nonostante tutto il male che si dice
della burocrazia, i Comuni sono sempre d'accordo nel ritenersi di-
minuiti quando si pensa di sopprimere un solo ufficio governativo
nel territorio loro.
Ben più grave è il problema nei riguardi delle Provincie. D'ac-
cordo quando si dice che la nostra Provincia non ha una base etno-
grafica, che la circoscrizione non trova fondamento in quelle comu-
nanze di dialetto, in quelle peculiarità fisico-geografiche, le quali
contraddistinguono, invece, le varie regioni. Ma bisogna ammettere
che, in sessant'anni di vita amministrativa, questi enti hanno creato
tale un complesso imponente di rapporti, di interessi, di abitudini,
da rendere estremamente difficile pensare alla loro soppressione.
D'altra parte, accanto e in stretto legame con l'ente autarchico pro-
vinciale, esistono uffici statali che nessuno oggi può pensare di sop-
primere.
L'on. Giolitti alla Camera ha parlato di fiduzione di funzione
della Provincia. Ma se le attuali sono già, di per sé, limitatissime!
Non sarà invece necessario cercar'e di introdurre, in favore di questi
enti, il potere di ordinanza già in uso negli Stati esteri e conferire,
in tal modo, alla Provincia — nell'orbita delle leggi generali — quei
maggiori poteri e quelle più larghe iniziative che saranno ritenute
necessarie ?
•
Dopo queste premesse si può parlare ancora della creazione
delle Regioni?
È da ritenere che una discussione, in questo campo, sia pro-
fìcua soipratutto per chiarire le idee; ma allora bisogna poggiarla su
basi precise.
E prima di tutto : quali saranno o quali potranno essere le fun-
zioni della Regione? In qual modo si pensa di costituirle? Si sono
prevedute tutte le difficoltà della istituzione di un ente di così grande
rilievo, a base elettiva, e col sistema proporzionale? Come verreb-
bero regolati i rapporti tra l'ente e lo Stato; tra le varie Regioni
fra loro; tra esse, le Provincie e i Comuni ?
Non si tratta di questioni particolari e di dettaglio (e queste pur
sorgeranno numerose e gravi), bensì di argomenti capitali, che toc-
cano i principi, e ohe finora sono per lo più trascurati. Onde è
lecito di pensare ohe, prima di continuare o accodarsi a un'oi)era
di propaganda ricca di frasi, ma nebulosa nei riguardi politici e
davvero misera dal lato tecnico, occorra chiarire e discutere almeno
i principi e le linee fondamentali della grave questione; senza aprio-
rismi condannevoli, ma anche al di fuori e al disopra di ogni parti-
colare interesse di pwirtito.
Dante Petaccia.
IL CONTE GIACOMO DE MARTINO
E LA SUA OPERA IN CIRENAICA
Nel generale quasi oblioso silenzio, si è spenta a Bengasi la
operosa vita del conte Giacomo De Martino, senatore del Regno e
-ovematore della Cirenaica. I giornali hanno riportato la trisiis-
-;ma notizia e l'han fatta seguire da brevi rassegne, molto somi-
-lianti a semplici stati di servizio. Non mancavano in quei giorni
nei periodici colonne e colonne dedicate a tutti i grandi piccoli av-
venimenti di ogni giorno; mancò, non diremo lo spazio, ma la co-
noscenza dell'opera di Giacomo De Martino. Come ciò è triste! Chi
-erive queste note non sa rimediare intieramente a questo silenzio,
ma vuol ricordare, dell'Uomo insigne, la magnifica opera svolta in
Cirenaica, che è insieme, per la sua memoria, tutto un grande titolo
dia riconoscenza degli italiani.
*
Gran signore Giacomo De Martino e anche iper questo magni-
ficamente tagliato alla vita e allopera di comando nelle colonie.
Povere colonie, mal viste in Italia, in alto e in basso, tollerate pur-
•hè non se ne parli ('singolare incoraggiamento a tutti coloro che vi
iedicano una non agevole vita), purché non costino (strano concetto
er territori nei quali tutti gl'imipianti son da fare e, se non si fanno,
a colonia stenta ed è inutile alla madre patria, e, se vi si fanno,
debbono costare), purché non dieno grattacapi (e se grattacapi non
>ìànno, maggiore è la ragione del silenzio, e si può morir sulla brec-
cia, come Giacomo De Martino, senza neppure il tributo di rico-
noscenza dei concittadini) . Ma questa é una digressione : dicevo che
Giacomo De Martino, gran signore e perchè gran signore, ebbe in
è una delle alte ragioni dei suoi successi. Già, il mondo si demo-
Liatizza, l'eguaglianza è il grande principio dell'oggi e del domani;
.erissimo, ma ricordate voi l'Italia anche di trenta, quarant'anni fa,
{uando un sindaco era un piccolo despota e un senatore, e un de-
. lutato passavano entro un'aureola di grandezza, e un prefetto era
riamente e veramente il rappresentante del Re e del governo
a. provincia? e l'Italia era una scala di dignità, più alte meno
lite, ma tutte profondamente riverite? Questo, in Italia, trenta qua-
'anta anni fa. Di quante volte questo periodo è indietro una colonia
rispetto alla madre patria? Immaginate un governatore borghese-
mente schivo di pompa, uso a fare i quattro passi in città con a lato
il suo caudatario, timoroso delle fatiche degli aspri viaggi nelle
174 TL CONTE GIACOMO DE MARTINO E LA SUA OPK i\ i iiìFNATrv
zone senza strade, alieno dalla vita di tenda, nemico e pauroso del
cavallo, dimesso e quasi in disparte nelle parate, preoccupato di
darsi troppo tono, di esser troppo e indiscutibilmente il primo sem-
pre e dovunque?
Già, e vi è stato chi ha mormorato perchè Giacomo De Martino
era l'antitesi di un tal ipotetico governatore. Egli era sempre il primo
dovunque, ma cosi, naturalmente, come la sua tempra di gran si-
gnore esigeva : e veder apparire il suo corteo, nelle frequenti uscite
ufficiali, con lo stendardo tenuto dal drappelletto battistrada e ap-
presso la scorta al trotto, non appariva sfarzo, ma doveroso natu-
rale necessario appannaggio Suo e della Sua dignità: ed era, nelle
riviste militari. Egli civile e sia pure il primo di tutti, era vera-
mente il Capo delle forze di terra e di mare della colonia, era vera-
mente lo specchio, la figura, la rappresentanza del grande e lon-
tano Re. E così nei suoi ricevimenti, e così nel suo modesto palazzo,
rifacimento di una vecchia casa araba, modesto ma di grande di-
gnitìi: forse perchè riadattato e addobbato sotto la sua vigile cura,
forse perchè abitato e vivificato da Lui.
Quanta piccola gente ha mormorato delle troppe feste, e, in oc
CcLsione dei non radi festeggiamenti ufficiali di avvenimenti pur
memorabili, di soverchie spese del genere. Ma questa piccola gente
ignorava quante altre spese meno utili, meno rispettabili eran così
risparmiate; ignorava o fingeva d'ignorare quanto prestigio ne de-
rivava al nostro nome d'italiani, alla stessa piccola gente che mor-
morava, quanta maggior facilità all'opera più delicata e ardua di
governo. Perchè una cosa bisogna consacrare alla memoria di Lui,
l'autorità ohe Egli ed Egli solo poteva portare in certe circostanze,
quando in una trattativa, in una convenzione da stringere, in uno
^ svolto della storia coloniale, allorché dunque vi era un suggello da
porre, una via da tracciare, bastava il suo intervento personale per
imporre il suo punto di vista, per obbligare a seguire quella strada
che Egli voleva. Perciò l'opera di Giacomo De Martino ha tanto
rilievo in tutti gli avvenimenti della Cirenaica.
•
• •
Giunto a Bengasi il 29 luglio 1919, ebbe innanzi due grandi
problemi: la conclusione di un durevole accordo con i Senussi;
l'organizzazione civile della Cirenaica, con la simultanea applica-
zione dei principi di \lil>ertà già accordati alla Tripolitania, e da
adattare alla colonia sorella, cioè da studiare e redigere e porre ix)i
in atto.
In rapporto al primo problema. Egli trovava in Cirenaica uno
stato di fatto, in parte tale da facilitargli il compito,, in parte grave
iper noi e difficile a mutare. Poteva essergli di grande giovamento
l'esistenza in Cirenaica di una condizione di pace, per la quale, da
oltre due anni, non un colpo di fucile, si può dire, vi aveva echeg-
giato: effetto benefico e salutare di un'intesa precorsa coi Senussi,
e precisaanente col Sàied Mohàmmed Idria, capo della potente
confraternita, intesa che è nota sotto il nome di « modus vivendi » e
che di un «modus vivendi», cioè di una tregua, quasi di nn armi-
stizio, aveva e doveva avere tutti i caratteri.
IL CONTE GIACOMO DE MARTINO E LA SUA OPERA IN CIRENAICA 175
Era nato, questo « modus vivendi » , come conseguenza mediata
della rotta inflitta dagl'inglesi al predecessore di Idrìs, il lunga-
mente nostro nemico ed accanito nemico Sàied Ahmèd-es-Scerìf, e
dal conseguente passaggio dei poteri di capo della confraternita d^
quest'ultimo al cugino Idrìs. Allora due vie si aprivano alla nostra
azione cirenaica: quella di una vigorosa campagna militare, che
molti dicono, e forse è vero, ci avrebbe dato in balìa il paese stre-
mato, e date sotto il tallone le ipofpolazioni affamate, così come clas-
sicamente si immaginano dei vinti, e duramente vinti, in confronto
al vincitore trionfante. Ma sarebbe stato necessario distrarre delle
forze dal teatro europeo della guerra; ma sarebbe stato necessario
nutrire queste popolazioni affamate dopo averle sottomesse, quando
la madre patria appena appena poteva inviare in Cirenaica le der-
rate occorrenti al corpo di occupazione del tempo e alle poche mi-
gliaia di connazionali stabilite nel ipaese; ma sarebbe stato neces-
sario infine contrastare il diverso indirizzo dell'amica ed alleata
Inghilterra, che, col suo consueto empirismo, aveva subito intra-
visto, nella rotta inflitta ad Ahmèd-es-Scerìf e nel cambiamento del
cajx) della iconfratemità, la possibilità di stringere rapidamente
accordi col successore Idrìs, e di garentirsi da ogni ritorno offensivo
dal lato d'occidente, quando attacchi turchi al canale dal lato di
oriente erano ancora possibili e pericolosi.
Un complesso imponente di ragioni contro la campagna mili-
tare: ma oltre a queste e, direi, più forti di queste, altre, ben più
imponenti, che, in condizioni come quelle della Cirenaica, sconsi-
gliavano un siffatto partito. Una campagna militare, in un paese
che si vuol tenere stabilmente, o è distruzione della (popolazione
locale e allora significa distruzione di una delle ipoche ricchezze
dei^ paesi poveri, significa un enorme crimine storico ripugnante
alla nostra età e ai metodi di un esercito e di una nazione civile, o
è semplice assoggettamento e crea i risentimenti inestinguibili, de-
stinati a rinascere appena le circostanze occasionali dell'assoggetta-
mento — il cessare delle condizioni di fame, l'indebolimento delle
forze di occupazione, che non possono tenersi indefinitamente in
forte numero, per l'enormità delle spese che importano — sieno
venute meno.
Si sentiva, è vero, parlare allora di distrugger la Senussia...
Come se fosse possibile distruggere un movimento di animi, un
atteggiamento mistico, un sentimento che è fatto di religione, di
riconoscenza, di interessi creati, tutto un organismo ohe, fra ideali
celesti e terreni, irretisce l'intiera Cirenaica, e spinge valide piropag-
gini, attraverso i deserti, in Tripolitania, nel lontano sud, in Egitto,
in Hegiàz e altrove! Torniamo a quel che dicevamo: o distrugger
le popolazioni, o piegarle sì alle circostanze del momento, ma sino
al tempo della riscossa, che avrebbe trovato nella Senussia il suo
più potente lievito.
Perciò, col successore di Ahmèd-es-Scerìf si doveva, come si
fece, cercar le vie dell'amicizia : dell'amicizia che avrebbe permesso
a lui di rafforzarsi, di atteggiarsi a salvatore del paese dagli orrori
della guerra e, per le riaperte vie di Egitto e per il non molto che
l'Italia avrebbe potuto lasciar filtrare dai propri presidi, dagli or-
rori della fame; dellamicizia che avrebbe ipermesso a noi e agli
176 IL CONTE GIACOMO DE MAKTINO E LA SUA OPERA IN CIRENAICA
inglesi di non distrarre forze militari, tanto necessarie altrove, su
quei lontcìni territori, che avrebbe dato a noi ocxjasione di mostrarci
verso le popolazioni in veste di amici che sovvengono, • anziché in
quella usuale di nemici che ardono, uccidono e taglieggiano, che
ci avrebbe dato campo, nei nuovi rapporti creati, di accostare le
popolazioni e i capi riottosi e di porre i semi di un effettivo futuro
raccolto di pacificazione, che infine avrebbe dato agio di stabilire
in modo non equivoco, di fronte alle semplici popolazioni, che nes-
sun vero motivo religioso ineluttabile, incoercibile, categorico im-
pedisce l'amicizia di un grande capo di tarica islamica verso un
governo cristiano, principio positivo di compromissione della Se-
nussia con l'Italia, al quale La Senussia difficilmente potrà mai più
sottrarsi.
Così nacque il « modus vivendi » con Idrìs, che stabilì una tre-
gua dei rispettivi armati sulle rispettive posizioni e permise insieme
collaborazione, penetrazione e contatti quanto mai utili per l'av-
venire. Ma certo legalizzò anche l'esistenza dei campi senussiti,
posti sulle nostre stesse vie di comunicazione terrestre fra i van
presidi, e spingenti i loro « caracòl » (piccole guardie) talora sin
qucLsi al mare; legalizzò l'organizzazione politica, amministrativa,
giudiziaria fiorita intorno a quei campi, espressione di un vero po-
tere politico della Senussia sull'altipiano, sin presso la costa ma-
rittima.
Così sono schematicamente riassunti i presupposti favorevoli
e sfavorevoli ohe, rispetto alla Senussia, Giacomo De Martino trovò
stabiliti allorché ebbe ad assumere il Governo della Cirenaica.
•
• •
Ed ora vediamo i presupposti dell'altro problema imposto alla
sua attività di Governo, quello dell'organizzazione della colonia.
Era questa organizzazione una creazione prettamente militare, do-
vuta ai successivi comandanti il corpo di occupazione, che erano
stati rivestiti altresì della carica o delle funzioni di governatori. Con
tutto il riguardo al molto che essi avevano saputo fare, si trattava
ad ogni modo di trasformare in civile una organizzazione che aveva
carattere ben prevalentemente militare.
Ma questo appariva ancora il compito minore, di fronte alla
necessità che s'imponeva di adattare e poi estendere alla Cirenaica
la legge di libertà già elargita alla Tripolitania, quella legge fonda-
mentale, che è sostanzialmente una carta statutaria coloniale. Così,
da un'organizzazione militare, doveva passarsi ad un'organizzazione
civile, fondata su sistemi elettivi e su una larga partecipazione delle
popolazioni, per mezzo dei costituendi municipi elettivi e del costi-
tuendo Parlamento, al governo della colonia. Terribile problema,
in un paese che di queste forme di libertà non aveva tradizioni, ed
anzi, per l'organizzazione quasi 'patriarcale delle tribù, potevan tali
forme sembrare pericolose condannevoli novità.
Era stato detto che, in Tripolitania, la legge fondamentale ci era
stata estorta dalle popolazioni piuttosto che liberamente e voluta-
mente da noi elargita. Saggio era diinostrare, applicanaola anche
nella pacifì'ca Cirenaica, tutta la stortura dell'affermazione. E per-
IL CONTE GIACOMO DE MAETINO E LA SUA OPERA IN CIRENAICA 177
ante Giacomo De Martino, accogliendo di buon grado e con matu-
rata convinzione le relative istruzioni del Governo centrale, rag-
giunse la colonia e si dispose, dopo un attento studio della situazione
venerale, a preparare la legge fondamentale per la* Cirenaica, è le
rinci'pali leggi di sua applicazione, per quindi procedere, con la
prontezza di realizzazioni che lo distingueva, a tutta la preparazione
necessaria per attuarle.
Due principi fondamentali egli pese ai suoi collaboratori per
tjuesta materia: quello di mutare il meno possibile nella legge fon-
damentale della Tripolitania. anche dove vi si riconoscessero delle
mende, per non frustrare neppure nelle apparenze la eflBcacia dimo-
trativa che, dalla seconda aCT>licazione di essa, doveva scaturire;
quello di mutarvi però quel tanto che, rispondendo alla diversa
costituzione sociale della Cirenaica in confronto a quella della Tri-
politania, rappresentasse soltanto un omaggio ad una diversa realtà,
e giovasse, per il rispetto stesso assicurato a questa diversità, a ren-
dere accetta nella colonia la novella orsranizzazione.
Sbarcato come si è detto a Bengasi a fine luglio 1919, ai primi
del successivo novembre 5^gli inviava al Governo centrale io schema
di Statuto e gli schemi dellordinamento politico-amministrativo
della colonia e della legge elettorale, che dovevano poi diventare,
con poche non profonde varianti, i testi definitivi regolanti la dif-
fìcile materia.
Potranno mutare uomini e metodi, circostanze e direttive, ma
questa prima veste data alla Cirenaica sarà il tema obbligato di ogni
variazione, di ogni elucubrazione, di ogni lotta, sarà la forma ge-
nerale entro la quale dovrà aggirarsi tutta la successiva nostra opera
in quella bella colonia.
La variante, saggia e prudente, portata nella legge fondamen-
tale della Tripolitania per poterla applicare in Cirenaica, fu essen-
zialmente questa: il riconoscimento ufficiale degli aggruppamenti di
tribij, propri dei beduini, il riconoscimento ufficiale dei loro capi
tradizionali maggiori e minori, il riconoscimento ufficiale delle loro
prerogative e funzioni. La tribìi dunque, aggregato di persone, por-
tata alla dignità di organismo di governo, quasi come un surrogato
della circoscrizione territoriale, ed in qualche modo ad essa premi-
nente. Di conseguenza, nelle leggi di aipplicazione dello Statuto, te-
nuti distinti i luoghi fabbricati, destinati a diventare prima o poi
municipi, dalle altre località che diremo rurali, e quivi gl'interessi
più propriamente delle popolazioni affidati agli organismi tradi-
zionali di tribù, quelli più nettamente territoriali alle circoscrizioni
territoriali di mudirìa, con i necessari legamenti e rapporti dagli
uni alle altre, con una predisposizione non forzata, ma naturale, al
coincidere, che si avrà un giorno, fra i due ordini di organismi di
croxemo. Correlativamente, fu riconosciuta, come in Tripolitania, la
rappresentanza al Parlamento delle popolazioni dei luoghi fabbri-
cati in ragione di un rappresentante ogni tanti abitanti; mentre, per
le località rurali, ferma stando un'analoga proporzione, la rappre-
sentanza al Parlamento restò legata all'appartenenza alle tribù, così
che ogni tribù ave^e un rappresentante ogni tanti suoi componenti.
pnde nacque che le popolazioni beduine potessero conseiTare
tutta la loro tradizionale organizzazione e una notevole autonomia
178 IL CONTE GIACOMO DE MARTINO E LA SUA OPERA IN CIRENAICA
per i loro affari intemi, e acquistassero la possibilità, come reale ed
effettiva maggioranza nel paese, destinata quindi ad aver il maggior
numero di rappresentanti, di far sentire la loro voce preponderante
anche nella trattazione in Parlamento degli affari generali. Potente
leva a rendere accette tante e così profonde novità di legislazione.
•
• •
Simultaneamente Giacomo De Martino imprese l'opera dei nuovi
accordi con la Senussia. Profittando del viaggio alla Mecca del Sàied
Idrìs, riuscì a indurlo, nel ritorno, a sbarcare a Bengasi, e a porgere
per la prima volta, nel capoluogo della nostra colonia, omaggio per-
sonale di una visita ufficiale al governatore italiano. Sin da quel
primo incontro, Giacomo De Martmo, giuocando a carte scoperte e
oonsacrando sin dal principio i suoi metodi di lealtà e dii dirittura,
))ose al Sàied Idrìs i termini del futuro accordo, che già egli aveva
in sé maturato e ohe erano : amministrazione autonoma a Idrìs, col
titolo di Emìr-es-Senussi (principe senussita) delle oasi dell'interno
cirenaico; onori e appannaggi adeguati a tarle dignità; ritiro da parte
di Idrìs dei campi armati stabiliti sull'altipiano e della relativa or-
ganizzeizione politica ed amministrativa; rapporti di amicizia e di
soliciarietà da regolare per l'utilità delle due parti. Il tutto, in fun-
zione e in rapporto di quegli ordinamenti di libertà che erano in
preparazione, e che dovevano anche a Idrìs sembrare necessario e
sufficiente presupposto alla soppressione di quei campi armati che,
residuo di una linea di fuoco contro di noi, dovevano diventare senza
scopo dopo la stabilita aniicizia; né d'altronde avrebbero potuto in-
tendersi e ammettersi come strumenti di dominio senussita, su parte
di quelle stesse popolazioni, che venivan chiamate dalla legge fon-
damentale a reggersi coi loro propri organismi tradizionali e ad
aver voce nel Parlamento centrale della colonia.
La lealtà con la quale Giacomo De Martino dovette illustrare
a Idrìs tutto ciò, fu resa luminosa e potente dall'annuncio col quale
lo prevenne che, forte dell'amicizia ormai da tempo con lui esistente,
forte dell'intendimento che nutriva di rinsaldarla sulle basi già espo-
stegli e forte dei propositi liberali coi quali aveva assunto il governo
della Cirenaica, si apprestava a dar prova e di questi propositi e
della volontà di amicizia e di pace, riducendo per sua parte e di
propria deliberata iniziativa le forze militari della colonia. Mirabile,
sapiente accorgimento, che gli dette tutta insieme e. compduta la dif-
ficilmente conquistabile fiducia dell'interlocutore e poi di tutte le
popolazioni, fatte rapidamente certe che non si cercasse, con una
lustra, d'introdursi destramente nelle tribti, per aggiogarle con l'in-
i?anno al nostro carro e poi più facilmente o]Dprimerle.
E dal luglio ii)19 al gennaio 1920 le forze della colonia furono
infatti ridotte da trenta a diecimiLa uomini, documento di una vo-
lontà d'i ferro in Colui che applicava una sì radicale smobilizzazione,
documento di una visione precisa e di un precisissimo programma,
ispirato ad un tempo alle vere esigenze della colonia e a quelle della
politica generale italiana, spinta irresistibilmente alle forti economie
o alla smobilitazione generale, alle opere di pace, alle feconde in4e9e
alla vera pacificazione interna ed esterna.
IL CONTE GIACOMO DE MARTINO E LA SUA OPERA IN CIRENAICA 179
Quante mormoi*azioni allora contro la riduzione delle forme
militari della colonia; quanti interessi feriti; quanti seducenti sofismi
sulla necessità di corroborare la volontà di accordi con la minaccia
della imposizione; quante difficoltà, quante resistenze, da rompere
col sole istrumento di una lucida potente volontà! E la lucida po-
tente X- 'oi.tà di Giacomo De Martino s'impose e trionfò.
•
• •
Tutto questo che abbiamo detto è dei primi cinque mesi del
Suo governo. In ciò specialmente rifulgevano le sue capacità di go-
verno, nel muover serrate tutte le pedine del suo giuoco, e nel va-
lersi alternativamente della posizione dell'una a favore del giuoco
dell'altra, così da cor.durre in porto più azioni in una volta, per
virtù delle ripercussioni vicendevoli che Egli sapeva trame. Uomini
comuni avrebbero certamente graduato le azioni nel tempo: prima
cercar di raggiungere l'accordo definitivo con la Senussia, poi pen-
sare all'applicazione delle libertà al paese, poi ridurre le forze mi-
litari, infine avvisare -agli istituti economici vòlti a far risorgere il
paese. Egli intraprese tutto in una volta: e i propositi liberali lo
facevano popolare nelle città e presso le tribù, valevano ad appog-
giare e corroborare presso Idrìs la fiducia di pote>r concludere con
questo governatore una pace onorata e durevole; e Gli permettevano
•di esigere come un diritto delle popolazioni quella soppressione dei
campi armati senussiti e delle organizzazioni politiche e ammini-
strative fioritevi intomo, che era uno dei nostri più importanti ob-
biettivi; e la riduzione delle nostre forze militari accreditava in tutto
il 'paese la persuasione della nostra prossima stabile pace coi Senussi,
ciò che autorizzava tutti i musulmani a stringer contatti con noi,
poiché stretti contatti con noi aveva il pio e venerato capo della
tarica; ed insieme ne nasceva il sollievo delle popolazioni dalle ine-
vitabili angherie militaresche, il rilascio, a tribù e privati proprie-
tari, di terreni e di fabbrcati occupati dalle forze che si andavano
cosi riducendo e altrimenti dislocando; e ne nasceva la fede generale
del realizzare e del concludere con quest'Uomo, che rifuggiva aiper-
tanjente dagli accorgimenti soliti e quel che diceva faceva, con ra-
pidità di ritmo mai vista.
. •
• •
Dall'inizio del 1920 in poi l'azione si intensifica: i propositi
espressi e gli annunci recati si vanno via via concretando : nel giugno
è approvata e promulgata la legge fondamentale per la Cirenaica,
e il governatore, convocati i capi e i notabili della maggior parte
della colonia, ne fa dar pubblica lettura nella piazza grande di Ben-
gasi. ne Spiega il contenuto e l'importanza, circonda l'avvenimento
di una serie di solennità e di grandiosi festeggiamenti, atti a fissar
la memoria e l'attenzione di tutto il paese sul grande evento. Poco
appresso, Egli approva con proprio decreto l'odrinamento politico-
amministrativo del paese, e completa l'instaurazione del governo
civile al capoluogo e nei commissariati regionali di governo. Simul-
taneamente, pur nell'attesa della legge elettorale non ancora appro-
vata, dispone la preparazione generale delle elezioni, prima per i
municipi e per i capi delle tribiì e sotto-tribù, più avanti per i de-
putati delle città e delle località rurali. La virtù dell'azione genera
l'aziune e il successo: città e tribù prima titul)anti, incerte, sopra
tutto inerti, risentono il fenomeno del mimetismo, e, come hanno
visto le operazioni elettorali iniziarsi e avanzare e compiersi nelle
città tradizionalmente rivali o nelle tribù rivali o vicine, si accostano
ai rispettivi commissari e chiedono di poter a loro volta effettuare
le loro elezioni. Da parte della Senussia, già legata dal « modus vi-
vendi » e in attesa degli accordi definitivi, nessuna possibilità di
aperta opposizione al movimento: qualche opposizione di gregari,
prontamente rilevata, denunciata come atto poco amichevole, e, così,
presto e ufficialmente sconfessata e repressa: onde un più rapido
successo al movimento.
Fervono in pari tempo le trattative con la Senussia, intraprese
in maggio, riprese in agosto, enormemente agevolate dal successo
del movimento elettorale. Ai primi di ottobre, gli accordi sono sti-
pulati; ed il 25 di ottobre, data per semipre memorabile, sono fir-
mati a Er-Régima con solennità grandissima, fcresenti innumerevoli
capi, centinaia di cavalieri, tutto il fiore della/intiera Cirenaica, ita-
liani, arabi, israeliti, profondamente compresi dell'importanza ca-
pitale di un simile accordo fra il capo di un potentissima tanca
musulmana e un governo cristiano.
Chi scrive non può omettere un ricordo personale: la notte fra
il 24 e il 25 ottobre si trovava in viaggio fra Bengasi ed El Abiar,
e tutta la zona era inondata da una piena luce lunare, la bella lattea
argentata luce della luna di laggiù. E tutto il paesaggio era popolato
di cavalieri e pedoni in cammino per le festività deJ mattino ap-
presso : erano cavalli che s'impennavano, sotto uno o due cavalieri,
e cammelli (smisuratamente ingranditi per la prospettiva e la luce
lunaic) i più con due, taluni sin con tre cavalieri, e i candidi ba-
raccani sembravan serici manti trapunti di argento, e la torma silen-
ziosa e composta rinnovantesi continuamente dava il senso di quel
che dovette esser l'aspetto delle grandi trasmigrazioni degli antichi
popoli pastori. Nulla potrà mai cancellare un ricordo sì bello e si
suggestivo, che parve benaugurante a chi lo vide, come l'espressione
vivente di tutti i consensi cbe convenivano a Er-Régima.
•
• •
25 ottobre 1920. Quel giorno il Sàied Mohàmmed Idrìs-es-Se-
nussi fu Emiro per decreto del Re d'Italia, Emiro e capo, per delega
di Lui, deiramministrazione autonoma delle oasi di Cùfra, Giara-
bùb e Àùgila-Gialo, con capoluogo a Agedàbia. Il contenuto dell'ac-
cordo è tuttora segreto, e non si deve quindi neppure riassumerlo.
Ma è notorio che esso comporta, per il fatto stesso del conferimento
a Idrìs della dignità di Emiro, per l'attribuzione a lui di una delega
amministrativa aJ governo di certe regioni, per le nonne relative
all'uso della bandiera italiana, per il riconoscimejito della legge fon-
damentale, p6r la saneita obbligatorietà di taluni ordinamenti in
tutto il territorio della colonia comiprese le oasi, la più ampia ricon-
ferma della sovranità italiana su tutta la Cirenaica. Quel principio
IL CONTE GIACOMO DE MARTINO E LA SUA OPERA IN CIRENAICA 181
scritto nel solenne Decreto Reale 5 novembre 1911, all'indomani si
può dire del nostro sbarco su appena poche spiaggie della colonia,
quel decreto di annessione che fu allora soltanto un'animosa espres-
sione di volontà, e che andò poi concretandosi con l'opera delle suc-
cessive occuipazioni, ma non aveva mai potuto imprimersi come
realtà di fatto al di là di una fascia costiera profonda pochi chilo-
metri, quel Reale Decreto ebbe la sua consacrazione di fatto il 25
ottobre 1920, coll'accordo di Er-Règema. Mirabile risultato, pel quale
non fu da\^ero immeritato riconoscimento il conferito titolo di conte
a Giacomo De Martino.
K singolare come i più non abbiano visto questo centrale essen-
ziale punto dell'accordo di Er-Règema, di gran lunga superante in
importanza ogni altra stipulazione, e come sia corrente in Italia e
in colonia la domanda: « Noi abbiamo dato il titolo, abbiamo dato
onori e certamente anche appannaggi, abbiamo dato un'amministra-
zione autonoma, e che cosa otteniamo in cambio?».
Come se in questo dare appunto e in questo ricevere non fosse
compreso proprio il riconoscimento della sovranità italiana su tutta
la Cirenaica, fatto già da tempo acquisito internazionalmente è vero,
ma, nell'interno della colònia, potuto prima d'ora stabilire solo pe-
nosamente e soltanto intomo ai nostri presidi e con l'azione di decine
di migliaia di uomini.
Questo t il punto saliente dell'accordo di Er-Règema, di aver
tramutato in fatto pacifico, da non mantenere militarmente, accet-
tato dalle popolazioni e dalla stessa Senussia, la sovranità italiana
in Cirenaica. Due anni e mezzo di pacifico, intenso, accorto, leale
lavoro hanno cofteacrato quel che anni di guerra non avevém potuto
conseguire, perchè la guerra lavora sulla materia e la pace si ap-
prende cigli animi, questa veramente durevolmente conquistatrice,
non quella.
Qual meraviglia che da qualche parte non sien mancati sforzi,
come non mancheranno in avvenire, per impedire il raggiungimento
dellaccordo prima, per farlo naufragare e svanire dopo? Vi è sempre
una categoria di gente che delle discordie si giova, dei dissidi pro-
fitta; e vi è sempre, in un paese straniero e di diversa religione, una
corrente di odio e una corrente di fanatismo, sulle quali a tal fatta
di gente è sempre possibile far leva per i loro biechi intenti. Così
non è mancata contro gli accordi una ostile campagna preventiva,
né è mancata una serie di sforzi intesa a renderne tanto diflBcile
l'applicazione, da far apparire una delle parti inadempiente e porre
i^ primi presupposti per rinnovare i dissidi e far crollare l'edifìcio
faticosamente alzato.
A questa categoria di male opere appartengono l'azione volta a
trattenere talune poche tribù dal procedere alle elezioni statutarie
dei capi maggiori e minori e dei deputati al Parlamento, e volta
altresì a far richiedere dalle stesse popolazioni il mantenimento dei
campi armati semissiti sull'altipiano cirenaico, dei quali e della re-
lativa organizzazione politica e amministrativa l'accordo di Er-Ré-
gema aveva promesso lo scioglimento. Era pur questa una delle
più importanti clausole dell'accordo e il farla venir meno avrebbe
sicuramente dato buon giuoco ai mestatori. Ma anche a ciò l'opera
di Giacomo De Martino soccorse con alta sapienza superando in-
182 IL CONTE GIACOMO DE MARTINO E LA SUA OPERA IN «RENAICA
numerevoli difficoltà; ed è di ieri {3 novembre 1921) il suo incontro
ton rEmiro Idris a Bu-Mariam, nel quale il governatore consacrò
aW scopfi e le rag-ioni dei provvedimenti di comune accordo presi
con l'Emiro di fronte a siffatte manovre, con le seguenti parole:
« Noi veniamo a consacrare oggi il patto di Er-Régema, nei
« primi atti che ne devono assicurare in tempo breve la piena ese-
« cuzione, così ch^, sciolti ora da Vostra Altezza — secondo che
« aveva in quel patto promesso — i campi armati ed i caracòL e
« tutte lo organizzazioni che ne dipendevano, con la presente intesa
« noi veniamo insieme a garantire in modo sicuro la instaurazione
« dello Statuto e della costituzione delle tribù, secondo quanto è da
" esso stabilito,
« Le forze di polizia miste, vostre e nostre, che terremo 7>er
« breve tempo sotto la giurisdizione dei nostri Mudìr e dei due So-
< praintendenti, vostro e nostro, hanno appunto lo scopo di assi-
« curare che anche il resto del Paese non ancora organizzato, si or-
« ganizzi sotto lo Statuto, e impedire che méne di male intenzionati
«si frappongano fra il volere nostro e quello del paese...».
Parole alle quali l'Emiro Idrìs rispose con altre di pieno as-
senso e riconferma, e di omaggio al governatore e a S. M. il Re.
Il significato di tutto ciò? la prevalenza assicurata alla corrente
di pace rappresentata dall'Emiro Idrìs sulle méne e gli intrighi di
un'altra intransigente corrente; quest'ultima superataci, dall'insuc-
cesso, depressa; i campi armati sciolti e sopra tutto sciolte le orga-
nizzazioni nettamente politiche ohe vi si eran formate intomo, e che
costituivano il potere politico della Senussia suH'altipiano. Al luogo
di queste organizzazioni, i nostri muéir, che avranno a disposizione
forze di polizia per ora miste, e, nella zona, che è. quella delle poche
tribù sobillate a non far le elezioni, due sopraintendenti nominali
uno dal Governo e uno dall'Emiro Idrìs, espressione tangibile, con
le forze miste di polizia, di una cooperazione che i male intenzio-
nati sempre mirarono a romipere e, non riuscendovi, ad impedire
che le popolazioni vi credessero. '
Ora, di questa cooperazione, sono stati posti i segni palesi e
giorno verrà ohe l'opera sarà compiuta, se si saprà continuare, nello
spirito e nella sostanza, in generale e nei particolari, l'azione retti-
linea di Giacomo De Martino. Le difficoltà, se dovessero sorgerne,
non saranno figlie di quell'azione, ma dell'averne deviato, qtiod Deo
advertant.
•
* •
Abbiamo dovutff, per non trovarci a spezzare la trattazione, ram-
mentare sino agli atti di ieri l'opera di Giacomo De Martino per
l'accordo con i Senussi. Nel frattempo però quale altra vasta pode-
rosa opera in tutta la colonia! La più gran parte delle tribù orga-
nizzata ai sensi della legge fondamentale, tutti i municipi elettivi
costituiti e funzionanti, i deputati dei centri fabbricati tutti eletti
ed eletti del pari la più gran parte dei deputati delle tribù. Il Par-
lamento già convocato e funzionante nelle due sessioni primaverile
e autunnale del 1921, con prove di feconda operosità, di spirito d'or-
dine,, d'attaccamento alle novelle apprezzate istituzioni. A farne parte
IL CONTE GIACOMO DE MARTINO S LA SUA OPERA IN CIRENAICA 183
», per i voti unanimi dei colleghi, a presiederlo, chiamato uno dei
più cospicui componenti la famiglia stessa senussita, il Sàied Sàfi-
ed-Dìn, rappresentante in Parlamento delle oasi affidate all'ammi-
nistrazione autonoma dell'Emiro, unico rappresentante per ora ma
non perciò meno significativo dell'unità della intiera Cirenaica, oasi
autonome comprese, sotto un solo governo. I municipi operanti e
deliberanti e i due maggiori, quello di Bengasi e di Berna, affer-
matisi con larghe applicazioni di tasse comunali, volte a svincolare
i rispettivi bilanci dai contributi del governo e dalle maggiori in-
gerenze che questi contributi naturalmente coinvolgono, bella e pro-
mettente manifestazione di spirito e di vitiaiità municipali, in orga-
nismi appena costituiti, ma, come ciò appunto dimostra, sentiti ed
apprezzati. Tutti i commissariati civili di Governo, nelle varie cir-
coscrizioni, costituiti e, con larghi discentrati poteri, operanti al
bene delle singole regioni e al loro progresso morale e materiale.
Le comunicazioni dovunque sicure, sino a permettere la ripresa dei
movimenti commerciali coi lontani paesi del sud, dai quali già son
giunte a Bengasi per ora piccole carovane, che ne sono ripartite con
manufatti, a riattivare un commercio che può esser promettente,
ed è, ad ogni modo, manifesto segno della sicurezza ormai imperante.
Ah non solo questo limitato «programma economico si era pro-
posto Giacomo De Martino, nella sua multiforme comp'leta attività.
Bensì, attraverso una gita in Cirenaica promossa a mezzo del Tou-
ring Club, e alla quale parteciparono agricoltori, commercianti, ar-
cheologhi, capitalisti e quanti potevan riportare in Italia una parola
di verità sulla Cirenaica, e quanti potevano esaminare sul luogo le
possibilità di lavoro e. di iniziative italiane, attraverso questa gita e
gli uomini che così ebbero agio di vedere e poi tornarono, Giacomo
De Martino aveva avviato un programma di valorizzazione dell'in-
tiera colonia, mediante un costituendo Sindacato, che non certo per
colpa di Lui, o per avergli lesinato o misurato incoraggiamenti e
aiuti, ma per la sopraggiunta crisi mondiale, non potè poi formarsi
e recare i suoi benefìci alla colonia e alla madre patria.
Questo di esser superiore alla crisi che imperversa nel mondo
non era nei poteri di Lui. Ma ciò che Egli poteva fare — col gran-
dioso impulso dato alle opere pubbliche — con le assillanti solle-
citazioni volte a far intraprendere al più presto possibile i lavori
dei porti di Bengasi e di Derna, — con il trasferimento a Cirene
lefla Sopraintendenza dei monumenti e scavi e la spinta data a
uelle ricerche e a quelle di Tolemaide (Tolmetta) e Apollonia (Marsa
^usa), onde rinascono sorprendenti monumenti ed escono innumeri
fatue che son tutti capolavori — quello che Egli poteva fare stan-
ziando forti somme e spingendo le relative erogazioni p^ la riatti-
vazione degli antichissimi pozzi e cisterne, che eran le risen'^e d'ac-
qua della fiorente Cirenaica d'altra volta e son la premessa neces-
saria della fiorente Cirenaica di domani — sopratutto quello che Egli
poteva fare ^per le strade, tutto sentì, vide, provvide.
Ho già notato altrove la complessità del giuoco generale di Gia-
como De Martino, nel multiforme scacchiere di governo. Questa
delle strade fu una delle sue grandi pedine. Non erano ancora tutte
organizzate le tribù, che. proprio in mezzo ad esse, designava il
tracciato di una riuova grande via dì comunicazione, e destinava
ÌSì IL CONTE GIACOMO DE MARTINO E LA SUA OPERA IN CIRENAICA
le l/i uppd mi <tprirl<i: ì^ìlk^a; ui ihikiiìui 1 ipcicu-^iuiii, i.iirchè, al
lora che i carri'pi armati non ancora erano prossimi a venire sciolti,
la nuova via doveva svincolare le nostre comunicazioni dal controllo
di quei campi, cioè rendere liberi i nostri movimenti per otmi eve-
nienza, creare i presupposti per ogni eventuale forte d^ecisione da
prendere, che è quanto dire premere materialmente sulle popola-
zioni toccate daUa novella arteria, moralmente sui detentori della
vecchia via di comunicazione e su quanti speculavano sul rinascere
dei dissidi fra noi e i Senussi, oggi fortunatamente di nuovo scon
giurati e giova sperare per sempi-e.
Questa strada, aperta da jun anno al transito nella tratta da
Bengasi a Merg per la via di Tocra, destinata a raggiunger Cirene
e Derna attraverso la parte piìi bella e pili fertile della colonia, al
traverso quel pittoresco Dadi el Cuf ove sorgono conifere giganti ii.
un ipaesaggio schiettamente alpestre, destinata ad accorciare le co-
municazioni fra i maggiori centri della colonia di un centinaio di
chilometri, destinata all'allacciamento di già designate numero.-
strade radiali dall'altipiano alla costa; questa grande arteria desti-
nata a vivificare la colonia, a porre le premesse del suo rifiorire, a
rinsaldarvi il nostro possesso, ad assicurare i successi del presente
e a preparare l'avvenire; questa strada che Giacomo De Martino si
era proposto di veder aperta quest'anno sino a Cirene, mentre n^
preparava il proseguimento sino a Dema per l'anno venturo; questa
strada della quale innumeri volte aveva visitato il tracciato durante
i lavori, talora accam'pandosi sui suoi margini, talora -percorrendola
nei tratti già compiuti, per felicitare e spronare ufficiali e soldati
all'azione sempre più alacre, questa strada Giacomo De Martino ha
potuto in vita inaugurarla, con una di quelle sue rapidissime corse
in automobile, che lo facevano presente dovimque, e nelle quali era
di meraviglia a tutti per la resistenza fisica dei suoi settanta e più
anni e per il disprezzo di cure e di cautele e di precauzioni, col
quale diimostrava di sentirsi, come era, molto più giovane della sua
età. E, ahimè, in questa inaugurazione aippunto — era la quindi-
cesima, era la ventesima volta che traversaVa così la colonia! — in
questa inaugurazione appunto. Egli contrasse la polmonite che in
pochi giorni l'ha rapito a noi, alla colonia, all'Italia, che tanto an-
. Cora avrebbe ipotuto giovarsi della Sua opera illuminata.
A noi stringe la gola il pianto, ma non a noi soli; per Lui, ci\i
tolicò fervente, "hanno pregato gl'italiani della colonia, ma forse ar
cor più fervorosamente gli arabi nelle loro moschee, gli israeliti
nelle loro sinagoghe. Perchè era profondamente amato ed ammi-
rato: da tutti. Da tutti, e il popolo, che ha le pro(p>rie predilezioni
istintive, il popolo dei pastori, dei beduini, il popolo che vive at-
tendato nella sterminata distesa dei pascoli, e che è buono perchè
è semplice, è leale e diritto perchè non mai contaminato nor-"-
dall'embrionale perversione cittadina dei piccoli centri colo
questo popolo aveva intuito e sentito in Lui la st<^
animo, la stessa dirittura e lealtà, poste in una gr.f
lo era appropriato, con una parola semplice, denominandolo « il
nostro vecchio». Omaggio tenero e profondo, che riunisce nfr.^Hn
e devozione.
\
IL CONTE GIACOMO DE MARTINO E LA SUA OPERA IN CIRENAICA 185
• •
Ho toccato, appena toccato della Sua opera, nella quale Egli
portava un'attenzione, una vera ipassione di ogni giorno. Taccio del-
l'Uomo, nella Sua intimità bonaria ed arguta, negli affetti fami-
gliari profondamente sentiti, nella mirabile sanità e santità fami-
liare, quale può intendersi di un uomo che si era sposato a venti
anni e già aveva celebrato da qualche anno le sue nozze d'oro.
Quando ricordava i primi suoi figli, perduti giovinetti, ancoi:à. la
sua voce tremava e talora gli si velava di pianto. E quanti, quanti
dei Suoi discorsi, nei quali si animava a poco a poco, terminavano
in una consimile emozione, sentiti nelle più intime fibre da que-
st'uomo politico, che aveva conservata, attraverso la politica, attra-
verso il potere, attraverso dieci anni e più di governi coloniali, la
cristallina anima di un fanciullo, affacciantesi e bruciante nelle sue
parole, quante volte un alto ideale ipalpitava nelle perorazioni e la
celebrazione dell'oggi si riaccostava a ricordi del passato e a radiose
visioni dell'avvenire, che Egli sentiva sicuro, d'Italia!
Famiglia, ardore di vita e di opere, Italia grande, sempre più
grande, certo i suoi occhi si son chiusi su questi grandi pensieri,
che furono la sua vita, la sua fede, la sostanza della sua anima ap-
passionata e vibrante.
Ernesto Queirolo.
13 VoL CCXVI, eerie VI — 16 gennaio 1922.
UNA RELIGIOSITÀ INCONSAPEVOLE: ADRIANO TILGHER
Filosofi antichi. Todi, Atanor, 1921. — Voci del tempo. Roma, Libreria di
Scienze e Lettere, 1921. — Iai crisi mondiale. Bologna, Zanichelli, 1921.
Fra i nostri scrittori di argomenti politico-sociali e filosofico-
storici, Adriano Tilgher occupa, non da oggi, una posizione emi-
nente. La forma speciale del suo ingegno, raipido e preciso nella
intuizione, sagace nella inrformELzione erudita, ricco ognora di riso-
nanze emotive e di sùbite capacità di comprensione, lo rende ugual-
mente felice nella evocazione di una filosofia scomparsa da secoli
come nella analisi scientifica di una corrente contemiporanea di pen-
siero o di prassi politica. Sia che egli indaghi l'anima originale del
primitivo insegnamento buddista o tenti di valutare il significato e
l'efficacia del neoplatonismo morente; sia che rechi la luce della sua
sottile esplorazione su un problema arduo e complicato come quello
dei rapporti fra religioni misteriosofiohe e cristianesimo, o cerchi
di fissare la posizione di Felice Ravaisson nello sviluppo della spe-
culazione moderna; A. Tilgher segna sempre, con le sue pagine
vive e penetranti, l'orma profonda di uno spirito acuto e sugge-
stivo.
Ma un grande fatto storico, che per essere a noi tremendamente
vicino non cessa per questo di costituire un magnifico terreno spe-
rimentalte, si direbbe, per l'applicazione e il controllo delle leggi
che disciplinano lo sviluppo e le vicende dei gruppi umani asso-
ciati, la guerra europea cioè, ha esercitato con più assiduità e mag-
gior larghezza, le sue qualità rimarchevoli di osservatore e di cri-
tico. I saggi ch'egli Iha pubblicato su vari giornali sugli aspetti più
vari del formidabile cataclisma, ed ora racconti sotto un titolo unico :
la crisi mondiale, rappresentano uno sforzo imponente di dar ragione
di un fatto che peserà sulla evoluzione ulteriore della vita europea
molto più di quanto noi stessi non riusciamo oggi a capacitarci, e
di circosoriverne il significato e la portata nello sviluppo globale
della nostra civiltà. Sarebbe stato puerile pretendere ohe a tanto
esigua distanza dagli avvenimenti, uno sforzo di questo genere
potesse raggiungere adeguatamente la sua meta e portare ad una
valutazione definitiva di un evento intorno a cui si addensano tuttora
le nebbie delle nostre passioni e della nostra partigianeria. Il Tilgher
sembra, a volte, quasi oscillare fra spiegazioni contradittorie degli
avvenimenti tremendi che hanno sconvolto le nostre esperienze e
tagliato alle radici tanta parte del nostro patrimonio di aspirazioni
prebelliche. Da una parte egli sembra voler applicare alla esplora-
UNA RELIGIOSITÀ INCONSAPEVOLE: ADRIANO TILGHER 187
zione delle cause del conflitto mondiale dei criteri strettamente eco-
nomici : « la civiltà capitalistica, ^li assevera una volta, posava
su fondamenta fragili, che un giorno o l'altro dovevano venir meno.
A un certo momento, due sistemi produttori — inglese e tedesco —
nella loro caccia agli sbocchi che ne assorbissero i prodotti si sono
scontrati in un cozzo spaventoso, che ha dato fuoco al mondo»
(pag. 60). Ma dall'altra egli nega a volte perfino la possibilità astratta
che ragioni puramente economiche diano una spiegazione soddisfa-
cente delle azioni umane : « se c'è cosa che la guerra mondiale in-
segni con evidenza irresistibile è che l'uomo (individui e nazioni)
mai o quasi mai agisce per calcolo freddo e riflesso dei suoi interessi.
Se così fosse, da secoli la terra sarebbe un paradiso, perchè l'inte-
resse bene inteso di ciascuno coincidendo quasi sempre con l'inte-
resse di tutti, ciascuno vivrebbe d'accordo col prossimo, praticando
a suo riguardo giustizia e benevolenza. Infatti, la m.orale utilitaria
conclude raccomandando, non la frode e la violenza, ma l'altruismo
e il sacrificio, è ottimista ed in politica è internazionalista e pacifista.
Gli uomini agiscono il più delle volte spinti dall'impulso oscuro e
confuso, ma efficace, della passione: e chi è in preda alla passione
è sempre, in certo modo e misura, al di qua o al di là dell'interesse «
(pag. 27).
Cogliamo qui la contradizione casuale di uno scrittore vivo ed
appassionato, che esaminando a varie riprese i medésimi avvenimenti
ne prospetta sotto luci eterogenee la complessa ricchezza e il mol-
teplice contenuto, o non piìi tosto il dissidio immanente di uno spi-
rito inconsapevolmente fluttuante fra le conclusioni suggerite da una
esteriore tradizione di scuola e da un determinato metodo culturale
di valutazione dei fatti storici da una parte, e dall'altra gli intuitivi
ma indistinti bagliori che sprizzano da un temperamento essenzial-
mente lirico e drammatico? Per l'intelligenza del Tilgher, la storia
e la vita sociale rappresentano la manifestazione disciplinata di
leggi infallibili ohe l'esperienza e l'indagine critica possono scavare
sotto l'involucro massiccio dei fatti, o non più tosto, per appurare
e proclamare la razionalità e l'eticità dell'universo, non pare ad essa
ohe occorra travalicare la zona fuggevole dell'empirico e raggiun-
gere, attraverso un atto di fede, l'Assoluto e l'Eterno ?
Se attraverso la vasta produzione di questo scrittore limpido e
robusto noi andiamo a cercare le idee madri e gli orizzonti predo-
minanti, noi dovremo nettamente optare per la seconda alternativa.
C'è, in Tilgher, come una latente fede e una immatura religiosità, che
attendono di svilupparsi secondo le intime e infallibili leggi di ogni
vigorosa esperienza spirituale, per toccare le sponde kiminose e
riposanti del soprannaturale e della grazia.
Non vogliamo qui attardarci a mostrare come questo acre e
continuato dissidio fra una suiperficiale cultura razionalistica e posi-
tivistica, assuefatta per forza d'inerzia a cercare nei fatti la legge
della loro genesi e il tipo proporzionato della loro spiegazione, e la
profonda, per quanto non confessata, esigenza religiosa, che muove
faticosamente a tentoni verso il riconoscimento solenne di Dio e
della sua ineffabile orma nel mondo fisico e morale, costituisca il
motivo reale del carattere tuttora ambiguo, frammentario, incoe-
rente ed evanescente; onde sono accompagnate le idee e le valuta-
188 UNA RELIGIOSITÀ INCONSAPEVOLE: ADEUANO TILGHEfi
zioni ohe Adriano Tilgher dispensa, con (prodigalità signorile, nelle
sue analisi vibranti. Da qualche tempo a questa parte egli sembra
raccogliere le fila sparse del suo pensiero su una dicotomia fonda-
mentale, ch'eg^li pone a limite e a ripartizione della storia della
spiritualità umana, e su cui insiste con particolare predilezione.
Egli cioè contrappone la visione ciclica della storia, cara alla men-
talità classica, alla convinzione deli'indefìnnto progresso, caratte-
ristica defila mentalità moderna. Si potrebbe in realtà obbiettare
che una simile contrapposizione, oltre che essere eccessivamente
schematica e quindi artificiosa, salta a pie' pari l'azione spiegata
sulla evoluzione dellte dottrine sociali dalla esperienza cristiana,
delle cui essenziali e trascendentali speranze la fiducia nell'umano
progresso non è forse che una deformazione depauperata e una
laiciz.zazione grottesca. Ma non è, a tutt'oggi, il destino di Adriano
Tilgher quello di marciare sui margini della fede zamipillata dal
Vangelo e trasmessa nei secoli dalla Chiesa, senza addarsi della
propinquità spirituale che ve lo trascina e senza pervenire all'umile
riconoscimento della sua verità e vitalità imperitura?
È quello che mi sono spontaneamente domandato leggendo la
conclusione che egli ha posto alla sua così personale rassegna delle
Voci del leiìipo. Il problema filosofico veramente attuale, veramente
nostro, osserva il Tilgher, è il problema della storia, cioè dell'essere,
della vita dell 'umanità come storia. Il secolo xix l'ha risolto con
una empia e funesta divinizzazione dell'attività as^luta e dell'azione,
:n cui si è riflessa ideologicamente e sentimentalmete la rivoluzione
profonda che l'apparire dell'industria moderna aveva prodotto nei
rapporti fra l'uomo e la natura. Di questo pseudo-misticismo ateo
dello sforzo umano verso il miglioramento della tecnica dell'esi-
stenza, soggiacente a tutte le concezioni sociali del mondo contem-
poraneo, Adriano Tilgher fa una critica che non è meno spietata,
perchè incisiva e sintetica. Egli cioè lo prende in parola e poiché
esso si è fatto un idolo dello spirito umano, e del mondo materiale
ha fatto il presunto regno di Dio, gli dimostra che là dove non v'è
trascendenza, non v'è religione; dove non v'è sanzione e dove non
è ideale, non è né pure progresso; che là dove non è Dio, non è né
pure' azione e movimento degni di questo nome. Ma quando egli
esce dalla critica negativa per affermare una sua visione ragrionevole
e coerente, egli ripiomba miseramente in una concezione puramente
immanentistica della realtà storica, che non è specificamente diversa
da quella ch'egli stesso ha con pochi, tratti stritolato. Afferma infatti ,
che di contro all'intelligenza ed al volere del singolo la Storia (la
maiuscola è del Tilgher) è il vero trascendente; che è in piìi un tra-
scendente il quale è anche immanente, poiché la storia è fatta dagli
individui : « È fatta da questi, e, insieme, si fa da sé, seguendo una
logica intima, una ragione tutta sua, che gli individui possono bensì
riconoscere dopo che si è fatta, ma non preveder© in anticipo, per-
ché la storia li involge, li supera, li trascende da ogjii parie, ed è
di contro ad essi come il corpo di contro alle cellule, il tutto di contro
alla iparte, l'Infinito di contro al finito, l'Assoluto di contro al rela-
tivo. Dio di contro all'uomo» (pagina 210).
Dinanzi alle quali aberranti dichiarazioni vien fatto di doman-
darsi per quale fenomeno di improvvisa cecità l'intelligenza acutis-
UNA RELIGIOSITÀ INCONSAPEVOLE: ADRLANO TILGHER 189
sima del Tilgher non veda che questa sua divinizzazione della storia
è battuta in breccia dalle medesime stringenti argomentazioni che
egli accampa contro lo storicismo, di cui si è imbevuta quella col-
ira moderna ch'egli, così efficacemente, dipinge condannata aJ più
squallido dei tramonti. È duro per lui, evidentemente, recalcitrare
al pungolo che lo muove e lo sospinge invisibilmente: ma l'osser-
vatore, che ne contempla la bella attività intellettuale, non può farsi
illusione sulla natura della crisi, onde è evidentemente travagliato il
suo pensiero.
Chiudendo uno dei saggi suoi più pregni di significato, il Tilgher
dice di sé : « Io che scrivo appariertgo alla generazione dell'esodo che,
lasciato dietro a sé l'Egitto, terra di prosperità ma anche di oppres-
sione, marcia penosamente attraverso il deserto, ravvolto tutto in-
torno dal nemi)o oscuro e tonante della storia in divenire, e per
guidarsi nel tremendo cammino non ha che la colonna di fumo e
di fuoco che procede innanzi a lei, conducendola verso una ignota
terra promessa, di cui solo i suoi figli contempleranno le rive».
No: chi sa di marciare verso un lido di pace, non ha bisogno di
rimettere il raggiungimento della meta ai venturi. Nel suo cuore ha
risuoriato già la voce di un rassicurante messaggio. I suoi occhi pos-
sono dischiudersi allo spettacolo della terra promessa (1).
Il giorno in cui Adriano Tilgher si sarà reso perfettamente
conto delle conseguenze fatali, implicite nel suo» atteggiamento spi-
rituale, la rinascita religiosa, che quanti hanno anime di credenti
sentono aleggiare intomo, attraverso le fenditure di un mondo sociale
in putrefazione, avrà trovato in lui uno dei suoi interpreti più
eloquenti e più suasivi.
Ernesto Buonaiuti.
(1) In un recentissimo volumetto, apparso quando questa nota era già
redatta, die ha avuto subito un larghissimo successo, A. Tilgher, studiando le
forme più rappresentative del relativismo contemporaneo {Belativisti contem-
poranei, Roma. Libreria di Scienze e Lettere, 1921, 3* edizione), ne fissa con
acume la funzione rivoluzionaria e lascia intravedere come dalla dissoluzione
che esso effettua della storia e dei suoi miti^ il relativismo, riportando diret-
tamente all'azione e alla sua virtìi creatrice, prepara inconsapevolmente la
reviviscenza della fede e la rinascita della credenza r^igiosa.
TRA LIBRI E RIVISTE
I nostri editori : Antonio Vallardi — Elementi di noologia — Scavi in Laguna — La
questione romana — " Vittoria „ di Giorgio Mcredith — Un diario di guerra — Pisci
coltura olandese — From Waterloo to the Marne — In biblioteca — Grafistoria della
Regione Italica — Per 1 bimbi Balducei.
I nostri editori.
Antonio Vallardi.
La ditta Antonio Vallardi vanta an-
tichissime origini: nel commercio libra-
rio il nome Vallardi apparve fino dal
1750 per opera di un Francesco Val-
lardi che in Milano nell'aurea prospe-
rità di quei tempi, data dal soffio in-
novatore che spirava da regnanti come
Maria Teresa e Pietro Leopoldo di
Toscana, diede un fiorente sviluppo
alla sua bottega posta al Cantoncel-
lo, sull'angolo dell'antica contrada di
Santa Margherita (destinata a sparire
più tardi per dar luogo all'attuale via
S. Margherita ove appunto oggi am-
mirasi all'angolo del vicolo omonimo
la libreria della ditta Antonio Vallardi).
Quella bottega era il centro della
vita artistica e letteraria di Milano.
Ivi si davano convegno il Verri, il
Parini, il Volta, l'abate Oriani ed altri
sommi.
Interessante sarebbe seguire la vita
di quel focolaio di intellettualità mila-
nese attraverso gli anni perchè gran
parte della storia di Milano di quel-
l'epoca è ivi collegata, se lo spazio lo
acconsentisse. Basti dire, per lumeg-
giare l'importanza della ditta, che le
stampe del Vallardi incise in rame era-
no ovunque apprezzatissime e ricerca-
tissime, tanto che Pietro e Giuseppe
Vallardi, successi al Francesco, apri-
vano per tale commercio sul principio
del secolo xix una Filiale a Venezia
ed una a Parigi.
Questa ditta però nel 1865 cessava
per opera di Luigi Giuseppe, figlio di
Giuseppe, il quale dedito più alia let-
teratura e alla critica (sua opera nota
è la Contessa di Challant) trascurò il
commercio fiorente lasciatogli dal pa-
dre, e sarebbe certamente scomparso
allora il nome Vallardi dalla famiglia
editoriale se la solerte vedova di Pie-
tro non avesse dato impulso ad un'al-
tra ditta Vallardi dedicandosi in ispe-
cial modo alle stampe sacre e non
avesse instillato nei propri figli Fran-
cesco ed Antonio quell'amore alla no-
bile arte che più tardi fece fiorire due
delle maggiori Case editrici d' Italia :
le attuali ditte Dr Francesco Vallardi
e Antonio Vallardi.
Mentre Francesco, lasciata l'arte me-
dica (con grave scandalo dell'I. R. Go-
vernatore, il quajle n?l concedere la
licenza al neo editore lo rimproverava
di abbandonare l' arte salutare per
quella libraria), l'Antonio continuava
nel commercio della madre dandovi
nuovo impulso ed un carattere anti-
quario ed archivistico alla librerìa di
Via S. Margherita.
Formò con l'acquisto delle bibliote-
che araldiche del Tenenti, Bonacina,
e del Duca Antonio Litta Visconti
Arese quel noto Archivio Araldico Val-
lardi dal quale uscì nel 1875 per opera
del Calvi, Pullè, Meroni e Casati, la
TRA LIBRI E RIVISTE
191
famosa opera ancor oggi tanto ricor-
data: Le famiglie notabili milanesi.
Il fondatore dell'attuale ditta, dopo
una vita di austero lavoro, morì nel
1876 : gli successero i figli Pietro e
Giuseppe, per virtù dei quali l'azienda
paterna in pochi anni assurse all'at-
tuale potenza : esempio mirabile del-
l'accordo e dell'amorevole collabora-
zione, essi, consci del risveglio nella
cultura italiana e della necessità di
migliorare la Scuola, dedicarono fino
dai primi anni la loro instancabile at-
tività a tale programma.
Entrarono risolutamente nel campo
editoriale propriamente detto, iniziando
pubblicazioni scolastiche elementari ed
iniziando anche, nell'intento di rendere
indipendente dall'estero la nostra scuo-
la, la fabbricazione del materiale sco-
lastico e degli arredi didattici.
Venticinque anni or sono, sotto la
direzione di Guido Fabiani, vedeva
la luce coi tipi del Vallardi il primo
numero del Corriere delle Maestre,
giornale didattico che tanto aiuto mo-
rale e materiale portò al nostro corpo
insegnante elementare in verità allora
un po' trascurato. Cogli stessi tipi nel
1899 uscì la prima dispensa di quel-
l'opera originalissima quanto preziosa,
L'Italia nei cento anni del secolo XIX
giorno' per giorno, illustrata, che Al-
fredo Comandini con certosino amore
e indiscussa competenza ha creato e
tuttora crea (l'opera è giunta al 1861)
raccogUendo ogni minima notizia, ogni
più prezioso documento del trascorso
secolo che vide gli albori del compi-
mento delle nostre aspirazioni nazio-
nali.
Policarpo Petrocchi intraprese col
Vallardi la pubbhcazione dell'Enciclo-
pedia Thesaurus, che, se la morte pre-
coce dell'illustre filologo non l'avesse
interrotta alle prime lettere, sarebbe
siata un vero monumento della nostra
lingua.
Oltre ai libri di testo per le Scuole
elementari s'andò formando man mano
una Collana di Dizionari linguistici di
cultura, fra i quali va notato per la
sua particolare fortuna il Nuovissimo
Afelzi (il Larousse Italiano) che ha
raggiunto oggi la bellezza di 350 mila
copie.
Ma non solo l'attività editoriale della
ditta si interessò della educazione della
gioventù, per la quale creò una ricca
collana di libri di amena lettura edu-
cativa chiamando a collaborarvi i più
atti autori del tempo, ma ebbe di mira
anche l'educazione del popolo. Per
esso, sotto la guida di quella nobile
anima che fu Emilio De Marchi, il Val-
lardi iniziò l'aurea collana di opusco-
letti conosciuta sotto il titolo di Buona
Parola nella quale i più sani principi
morali ed educativi vengono impartiti
sotto forma di piccoli racconti ed epi-
sodi: più tardi iniziò \2i Biblioteca Po-
polare di Cultura che consta oggi di
quasi cento volumetti, mediante la quale
notizie tecniche, letterarie ed artistiche
sono insegnate al popolo in nitida
forma.
Alla morte del cav. Giuseppe, avve-
nuta nel 1916, le sorti dell'azienda fu-
rono affidate ai figli di questi ed al
comm. Pietro: essi, uniti in Società in
accomandita, seguendo il fulgido esem-
pio in unione dei loro Padri continuano
nella via loro magistralmente tracciata.
Dalle giovanili forze molto ci dobbia-
mo attendere in ispecie per quello che
riguarda tutto quanto occorre alla mo-
dernizzazione della Scuola, e l'attesa
non sarà certo vana se dobbiamo giu-
dicare dalla rinnovata e perfezionata
produzione della ditta in questi ultimi
anni.
Elementi di neologia.
« Più si ha spirito, ha detto Pascal,
e maggior copia di tipi umani origi-
nali si scopre. Solo gli uomini comuni
non riescono a scorgere differenze fra
gli uomini ». Ma l' individuare i mol-
teplici tipi nei quali si specifica lo spi-
rito umano, cogliere le sottilissime sfu-
mature che diversificano anima da
anima, sì da non darsi due intelligenze
identiche, come non si incontrano due
volti umani che combacino, è gravità
192
TRA LIBRI E RIVISTE
ardua e singolare. Nel cristianesimo
primitivo il discernimento degli spiriti
è considerato come un dono sopran-
naturale di Dei. Oggi, lo si vuol fare
uscire dalla tecnica di una speciale
scienza : la noologia. Di questa, Fran-
cois Mentre, in un libro che ha qual-
cosa di esoterico e di raffinato, ma che
non manca di osservazioni fini e di
erudizione filosofica ben fondata {Espè-
ces et variétés d'intelligences. Paris,
Editions Bossard, 1921), vuol tracciare
i principi generali e dettare le regole
pratiche. Noologia, egli dice, è lo stu-
dio dei vari generi di intelligenza. Essa
diflferisce tanto dalla psicologia, che è
la scienza dei fenomeni psichici e delle
loro leggi, come dalla logica, che è la
tecnica dell' intelligenza, l'arte di ra-
gionare esattamente e di dimostrare
le proprie asserzioni. In cambio essa
si ricongiunge con l'etologia o scienza
dei caratteri.
Dopo aver esposto con larghezza i
metodi di cui la noologia dispone nella
sua esplorazione, il Mentre s" inoltra
nella classificazione dei molteplici tipi
di intelligenza umana, segnalati così
attraverso l'esperienza della vita quo-
tidiana, come attraverso le conoscenze
storiche. Egli non manca di insistere
sulla pregiudiziale che non si deve
pretendere un casellario ben definito e
rigidamente chiuso nei suoi scompar-
timenti, per una realtà così complessa
e così piena di interferenze, come è
l'umana intelligenza. Ma, posta la av-
vertenza preliminare, egli crede di po-
ter ravvisare tre famiglie di spiriti o
tre grandi dinastie spirituali, che Io
sviluppo progressivo della scienza per
metterà indubbiamente di definire con
una precisione screscente : i pratici, i
contemplativi e i meditativi.
Questa divisione tripartita riassume
le tendenze direttive dell'intelligenza,
le sue modalità essenziali. Tali ten
denze stesse sono vincolate a proprietà
organiche, in virtù della solidarietà
funzionale che governa tutti gli esseri
viventi. Si potrebbero abbastanza bene
caratterizzare rispettivamente il pra
tico, il contemplativo e il meditativo,
dicendo che posseggono una intelli-
genza muscolare, una intelligenza ner-
vosa, e una intelligenza cerebrale. Per-
chè nulla mancasse alla sua esplorazione
noologica, che vuole costituire come la
tavola di fondazione di una nuova
scienza, il Mentre non manca di regi-
strare le espressioni somatiche dei tipi
di intelligenza da lui classificati, e di
chiamare a rincalzo dei suoi risultati
la chirologia (destinata a prendere il
posto della chiromanzia, come l'astro-
nomia ha soppiantato l'astrologia) e la
grafologia.
Scavi in Laguna.
Nell'articolo Lagune venete pubbli-
cato nel fascicolo 1° ottobre 1921, la
nota I a pag. 233 andava preceduta
da questi paragrafi che per errore non
furono compiuti.
L' ingegnere F. C. Rossi, capo del
Genio Civile di Venezia, poi ispettore
nel Consiglio Superiore dei lavori pub-
blici, desiderava aggiungere a questa
sua proposta di bonifica lagunare un
rilievo topografico su cui differenziare
le paludi emergenti dall'alta marea;
egli avrebbe voluto depositarvi i fan-
ghi scavati nelle vicine barene a fior
d'acqua, creando bacini profondi quanto
basta per allevare pesci e molluschi,
facendo al tempo stesso sparire le feb-
bri malariche dalla testata del ponte
della ferrovia, e triplicando il volume
e la velocità dell'acqua di mare che
entra dai porti.
Nel mio articolo: The Lagoons of
Fenice, una fotografia dall'alto della
torre di Torcello mostra il deplorevole
abbandono delle lagune circostanti, che
non ricevono più nemmeno la vente-
sima parte dell'acqua marina di cui
sarebbero capaci, perchè ostruite da
sedimenti e vegetazione salmastra.
Dopo eseguite le prime fotogramme-
trie con l'areostato militare di Monte
Mario, esortai l'unico patrono che aves-
se allora l'aviazione italiana, il capi-
tano Moris, di far fotografare a zone
TRA I iBRI E RIVISTE
193
le nostre lagune durante il flusso ed
il riflusso marino, per documentare
l'importanza relativa dei vari gruppi
di barene e paludi che la marea stenta
ora a raggiungere.
Prima che venissero demoliti i fon-
damenti della torre di S. Marco, trac-
ciai alla base dei più antichi edifici
monumentali di Venezia e delle isole
attigue, una livellazicme estesa alle
prealpi, per determinare ogni variante
nell'abbassarsi di circa nove centimetri
al secolo dei banchi argillosi, stratifi-
cati orizzontalmente di torba, sotto le
fanghiglie lagunari; banchi della po-
tenza di centinaia di metri, i quali, co-
stipandosi e restringendosi, attenuano
il danno recato dagli scoli di terra-
ferma, dalle sacche e da altre inique
concessioni a privati sfruttatori della
laguna. {g. b.).
La questione romana.
Guglielmo Quadrotta può già regi-
strare come un proprio successo di
aver contribuito in notevole misura,
col suo volume La Chiesa cattolica
nella crisi universale, con particolare
riguardo ai rapporti fra Chiesa e Stato
in Italia (Roma, Bilychnis, 1921), a
suscitare quel fervore di polemiche e
di proposte intorno alla questione ro-
mana, su pei giornali italiani ed esteri,
di cui il comm. Giannini ha testé rac-
colto l'eco migliore in un fascicolo
semiuffìcioso, edito sotto gli auspici
dell' Ufficio Stampa del Ministero degli
Esteri : Una nuova discussione sui rap-
porti tra Chiesa e Stato in Italia (Ro-
ma, Libreria di Scienze e Lettere,
1921). Evidentemente la situazione in-
ternazionale scaturita dalla guerra, l'ac-
cresciuta efiìcienza politica del ponti-
ficato romano nella diplomazia post-
bellica, in particolare la ripresa dei
rapporti regolari fra la Santa Sede e
la Repubblica francese, hanno improv-
visamente conferito all'annoso proble-
ma una subita maturità e una impro-
rogabile urgenza. Sono ancora molto
discussi in Italia e all'estero gli studi
importantissimi del sen. F. Rufiìni pub-
blicati in questa Rivista.
Il Quadrotta ha fornito, per il suo
esame oggettivo, una messe abbon-
dante di dati positivi e di principi
teorici. Dopo avere in un'ampia e ni-
tida prefazione illustrata in maniera
esauriente la posizione attuale della
Chiesa cattolica nel mondo e la neces-
sità della revisione dei suoi rapporti
con l'Italia, egli ha rievocato, con am-
pia documentazione, gli atti pubblici
più salienti compiuti dal Papato du-
rante il conflitto europeo. Il pontificato
di Benedetto XV è stato cosi studiato
helle manifestazioni più rilevanti e più
delicate della sua attività. Addentran-
dosi quindi nell'esame specifico della
situazione creata al Pontificato dalla
costituzione dell' Italia ad unità nazio-
nale, e nella valutazione della legge
delle guarentigie e della sua effettiva
praticità, il Quadrotta, che per tutto il
volume dà prova di un sereno equili-
brio di giudizi e di previsioni, con-
clude con l'afiermare esplicitamente
che « ormai, risolti i problemi di più
vivo e immediato interesse per la vita
dello Stato, anche il complesso pro-
blema dei rapporti fra Stato e Chiesa
deve essere affrontato e risolto da un
governo che voglia veramente rifare
V Italia. Forse per nessuna questione
l'Italia ha uomini più competenti e
autorevoli per la profondità degli studi
e il prestigio nazionale: probabilmente
nessun periodo storico ne offrirebbe
più eguali. Se un governo dovesse
dare l'incarico ad una commissione
nazionale tratta dal Parlamento e dalle
Università per preparare un progetto
di legge che risolvesse le due formi-
dabili questioni dei rapporti dello Stato
con la Chiesa e del riordinamento della
proprietà ecclesiastica, non si trove-
rebbe certo in imbarazzo ».
Che anche da parte ecclesiastica si
ritenga giuntò ormai il momento pro-
pizio per risolvere ed appianare con
spirito di conciliante longanimità il
194
TRA LIBRI E RIVISTE
I
vecchio dissidio, appare da mille in-
dizi. Tra questi va posto in prima
linea, a nostro parere, il saggio del
P. Nazzareno Casacca (// Papa e l'Ita-
lia. La fine del dissidio. Roma, Buf-
fetti, 1921), teste apparso in una terza
edizione, notevolmente ampliata e mi-
gliorata. L'autore di questa monogra-
fia, colto e versatile agostiniano, che
gode largo e meritato credito in Va-
ticano, non può evidentemente enun-
ciare osservazioni e azzardare ipotesi
e previsioni cui non sia stata garantita
in anticipo una certa sanzione eccle-
siastica. 11 Casacca premette in alcuni
capitoli introduttivi le nozioni indi-
spensabili sulla figura morale, teologica
e giuridica del Papato, perchè sia pos-
sibile valutare convenientemente le ri-
vendicazioni della Santa Sede, dopo
la occupazione di Roma e la legge
delle guarentigie. Quindi esamina que-
sta legge, di cui riproduce il testo, e
ne indaga l'inconciliabilità sostanziale
con quella assoluta e suprema autono-
mia e insindacabilità del potere ponti-
ficale, che rappresenta una esigenza
inalienabile della società cattolica. Ma
la parte più notevole del volume è
quella in cui il Casacca, distinto sot-
tilmente il dominio spirituale da quello
tetnporale e da quello territoriale; de-
finito quello temporale come il domi-
nio mediante il quale, con un sistema
di leggi e di regolamenti ecclesiastici
■costituenti il forum interno ed esterno
della Chiesa, il Papa guida autorevoi
mente i cristiani nella vita del tempo
e regna visibilmente su di essi in con-
formità della natura del cristianesimo
e di questa chiesa, che appunto è vi-
sibile e temporale : circoscrive senza
eufemismi « le pretese del Papa » in
fatto di rivendicazioni politiche ed enu-
mera i vantaggi che potrebbero sca-
turire dal loro leale e cordiale soddi-
sfacimento. Tali pretese, ormai netta-
mente delimitate, si riducono in fondo
a domandare che su un tratto qual-
siasi di territorio, sia pure infinitamente
esiguo, sia riconosciuta di comune ac-
cordo e sanzionata ufficialmente la
piena ed assoluta sovranità del Pon-
tefice, che lasci aperta e chiara al
cospetto del mondo la sua supernazio-
nalità. u La sovranità del Papa, conse-
guenza della sovranità papale propria-
mente detta — scrive il Casacca —
per le sue dimensioni e per la sua
natura non solo non danneggerebbe
afi"atto l'unità e l'integrità della nazione
e del popolo, ma sebbene indipendente,
concorrerebbe anzi a moralmente for-
marla. Non si tratta di distaccare una
parte di territorio da darsi ad altra
nazione, nemica, che potrebbe eventual-
mente rivolgerla contro l'Italia stessa;
ma solo di riconoscere nel Papa, nel-
l'amico, nel benefattore il suo preesi-
stente diritto di occuparne pel suo
ufficio una porzione quasi trascurabile
pel maggiore bene dell'Italia e di tutta
l'umanità ».
Quando pochi mesi or sono compa-
riva la seconda edizione del volumetto
del Casacca, qualche recensionista do-
mandava all'autore che uscisse daller
ultime genericità e dicesse, chiaro e
tondo, quali avrebbero dovuto essere
le proporzioni del territorio infinitesi-
male, su cui dovrebbe instaurarsi la
riconosciuta sovranità del Pontefice,
onde avviare la questione sul sentiero
della sua sollecita sistemazione. Il Pa
dre Casacca ha raccolto prontamente
l'invito e nel e. XIII di questa terza
edizione si sforza di uscire dalle ge-
neralità, per lasciare intendere, sempre
approssimativamente, quale potrà es-
sere l'ampiezza del territorio soggia-
cente alla sovranità papale. « Le esi-
genze del Papa in materia, egli dichiara,
saranno corrispondt:nti e proporzio-
nate al triplice titolo della sua dimora,
dei suoi uffici, del suo decoro ». Non
siamo ancora, come si vede, alla enun
dazione chiara e tonda delle rivendi-
cazioni territoriali pontificie, ma siamo
già sull.'i buona strada della ragione-
volezza e degli accomodamenti. Il re-
sto verrà in sede di trattative, le qual;
tutto considerato, potrebbero anchr
non essere eccessivamente lontane.
(e. b).
TRA LffiRI E RIVISTE
195
" Vittoria , di Giorgio Meredith.
La Nuova Antologia ha presentat*
all'Italia Giorgio Meredith pubblicando
tradotto uno dei suoi capolavori: Diana
{iP settembre 1906-1° dicembre 1906).
|J Del fascino che l'Italia per le sue
bellezze naturali e per la sua storia
esercitò sull'animo dell'insigne roman-
ziere, ha parlato in questa stessa Ri-
vista Laura Torretta in uno studio:
Giorgio Meredith e l'Italia (16 dicem-
bre 1915). Annunziamo perciò con molta
soddisfazione la traduzione di Vittoria
(Firenze, L. Battistelli editore, voi. 2")
fatta dal prof Piero Rebora, docente
di Letteratura Italiana all'Università di
Liverpool. Il traduttore ha superato le
difficoltà formidabili del testo — il
Meredith è uno scrittore cerebrale as-
sai complicato non alieno da preziosità
di gusto raffinato, vago di raffronti
inattesi e di metafore ardite — con
tatto sagace senza perdere la specifica
struttura del periodare dell'Autore, lot-
tando trionfalmente coU'originale.
Vittoria ha per isfondo la Lombar-
dia nel biennio del 1847-48, cioè la
vigilia di preparazione e il periodo di
esplosione delle energie nazionali per
l' indipendenza e la tumultuosa e sfol-
gorante vicenda delle cinque giornate.
La protagonista del romanzo, creatura
entusiasta d'istinto e d'impeto, rispec-
chia neir intendimento dell'Autore le
qualità migliori della donna italiana.
Accanto ad essa la società lombarda,
divisa da amori e da odi, ma tutta av-
volta dalla stessa atmosfera quarantot-
tistica. Le virtù dei nostri patrioti, le
rare doti della nostra stirpe non meno
dei difetti gravi, e sopra tutti l'indivi-
dualismo prepotente che fomenta le
discordie, sono riprodotti con fedeltà
<ii storico e genialità d'artista. Mazzini
appare solo al principio del romanzo
a concertare i mezzi e il momento
dell' insurrezione; ma per tutto il corso
•dell'azione si sente la sua presenza di
fatto, più che sulle edizioni tedesche,
sulle nostre: e magari sulle più pure
e antiche.
Oggi, che Giovanni Chiantore ha
pubblicato moltissimi libri col suo no-
me (e si vedano VEros del Bignome
e le riedizioni del Graf recentissime),
curati e studiati anche nei particolari
esterni da lui, questa convinzione di-
venta più fondata: e noi, poiché egli
ci promette oltre che ristampe di opere
Loescher esaurite, anche studi nuovi
di filosofia classica, di letteratura ita-
liana e straniera, di testi per le scuole,
aspettiamo con fede che la ditta'Loe-
scher, ora scomparsa, diventi del tutto
italiana nella veste esteriore e nel con-
tenuto: cosicché i due nomi, del fon-
datore e del successore, si confondano
un giorno e solo si possa dire, poiché •
questa attività si svolse del resto in
Italia, che essa è se non d'origine, al-
meno nei risultati, nostra. (/. w.).
Un diario di guerra.
Quando verrà il tempo in cui lettori
comuni e critici ricerchino, con viva
curiosità ed ammirazione, la miglior
nostra letteratura di guerra? Non pre-
sto, credo; ma vena, e si ripeterà. Ci
vorranno animi caldi, generosi e in-
sieme pacati, per rivivere e intendere
ciò che grandi avvenimenti ed arte
abbiano durevolmente costrutto. I diari
polemici dei duci, fortunati o no, da-
ranno allora forse ben poco per que-
sta letteratura, perchè essi saranno
piuttosto d'interesse storico; pochis-
simo forse teatro, novellistica, romanzo,
e memorie, sostanzialmente interes-
santi, ma artisticamente meschine. Nella
miglior letteratura di guerra pare a me
che un posto notevole debba avere un
volumetto modesto, ma bello e buono.
Modesto, sì, per varie ragioni. Eviden-
tissime: copertina con titolo soltanto,
nome d'autore, sigla della ditta edi-
trice (Zanichelli, Bologna); mole (ap-
pena 154 pp.). Modesto, perchè finora
passato quasi sotto silenzio, pur avendo
avuto l'onore del premio letterario A.
Cantoni, e pur essendo opera d'un
giovine, che compie l'ufficio di critico
con molta serietà e valentia. Ma forse
196
TRA LIBRI E RIVISTE
quest'ufficio spiega in parte il silenzio?
o una certa sazietà d'opere del gene-
re? o ritrosia pudica dell'autore a farsi
battere la gran cassa di quotidiani e
d'avvisi editoriali, che in ogni libro
annunziano per lo meno un capolavoro
non mai visto? Comunque sia, il libro
merita d' essere conosciuto; e mi piace
additarlo, nella speranza che una nu-
merosa parte dei lettori di questo au-
torevole periodico lo cerchi, lo cono-
sca bene e lo divulghi.
Il Tonelli, poco dopo iniziata la
nostra guerra, lascia scuola e studi,
per essere un comune combattente.
Tale resta, perchè vuol restare, finché
non dev'essere un ufficiale. Soldato e
ufficiale, si trova in più luoghi della
fronte, compiendo esemplarmente il
proprio dovere, tanto da meritarsi una
medaglia al valore. E' ferito; fa un po'
di vita d'ospedale, e di convalescente ;
ritorna sulle Alpi ; cade prigioniero
per il nefasto Caporetto; vive in paesi
di dura prigionia con soldati e ufficiali
come lui ; è liberato per la vittoria
nostra, dolente di non essersi trovato
tra coloro che le avevan dato ali, quali
non s'erano viste rfiai e non si ve-
dranno forse per lungo tempo tra com-
battenti a milioni. Avrebbe potuto dire
di sé, in persona prima : non ha vo-
luto, per giusti motivi : ha fatto bene,
anche per quello dell'arte. Il suo libro
è spigolatura accorta del diario sincero
d'un amico; s'apre il 24 giugno 1915.
si chiude con riflessioni amare sugli
sciagurati, che, ineducati, ingannati,
gridarono Viva l' Austria, tradendo la
Patria, avendo scontato « un momento
di cieca esasperazione » dopo due anni
e mezzo di guerra, « con una lunga
prigionia, che per tutti significò la fa-
me, la malattia, l'abbiezione più atro-
ce ». Animo virile, dopo aver combat-
tuto fermamente, schive virilmente, me-
scolando alla forza la tenerezza filiale
e l'amorosa (tra le armi il suo pensiero
e il suo cuore erano spesso richiamati
alla casa paterna, senza la madre, per-
ché morta, e a una giovane amata,
fatta poi sposa). Più che fatti numerosi
e diversi, il libro è anima in relazione
al tempo : di qui il titolo, parso forse
Cercato e inadeguato a qualcuno: L'a-
nima e il tempo (sottotitolo Stazioni
spirituali d'un combattente). Libro bello,
in ogni modo! perchè ben costrutto,
sentito, vario, umano (quanti brani di
vera poesia, qua e là, o per scene di
natura, o per ricordi domestici, o per
aneliti verso la « Piccoletta », o per
meditazioni e gagliardi incitamenti di
Italiano!); libro buono, anche! perchè
la sostanza di esso é una sola cosa
con l'arte, da cui codesta sostanza è
semplicehiente, ma pur magistralmente
foggiata. Le pagine finali sono indi-
menticabili, come certi quadri epici e
certe scene grandiose di natura; degne
lor sorelle sono quelle della rotta sul-
l'Altipiano, sulla prigionia. Esso reste-
rà. Piace intanto sperare che non tardi
ad essere largamente conosciuto ; ciò
che vorrà dire ammirato e tenuto caro
coi più cari. (G. Lesca).
Piscicultura olandese.
Oltre che dalle pesche d'alto mare,
l'Olanda trae molto profitto dalle fa-
mose aringhe e dalle acciughe che
abbondano vicino alla costa. Lo Zui-
der Zee, il Wadden Zee, lo Zeeland
e gli estuari meridionali olandesi son
tutto un vivaio di pesci, di crostacei
di molluschi, esercitati da cooperativa,
come V Ansjovisverkoopverecniging di
Amsterdam, fruttavano l'anno scorso
22 milioni di chili di pesce, 7 milioni
di chili di gamberi o d'altri crostacei,
e 51 milioni di chili di molluschi, dV-
striche e telline.
Una diga all' imbocco della Zui(i
Zee lo trasforma in laguna, dove g
si coltivano magnifiche aragoste, ac-
ciughe, anguille e grossi gamberi. N( 1
Zeeland le scuole di piscicultura hani
iniziato la coltivazione artificiale d
crostacei, e l' anno scorso produc
vano 28520 aragoste e mandavano
Germania un milione e mezzo di ci
logrammi d'aringhe affumicate.
Una specialità nel commercio olan-
TRA LIBRI E RIVISTE
197
dese del pesce sono le acciughe, che
migliorano tenendole salate in barili,
ankers, di trenta chili ciascuno. Non
meno di 190,000 barili venivano con-
sumati in un solo anno per antipasti
dalle birrerie tejdesche. Pesce mediter-
raneo, le acciughe emigrano nell'Atlan-
tico e verso l'aprile moltitudini di fem-
mine entrano nella Zutder Zee a deporre
le uova della nuova generazione che
matura durante l'estate.
La piscicultra in Olanda è affidata
ad un dipartimento speciale dal mini-
stero delle industrie con un ispettore
capo, con 27 ispettori tecnici e un mi-
lione e mezzo di franchi in oro per
sussidi e premi d' incoraggiamento ;
senza contare le scuole e le stazioni
sperimentali nella costa del Sceland, i
porti, i vivai, le riserve e i gli Aquari
scientifici od industriali di Ymuiden e
nel mare del Nord, che vivono d'al-
tri proventi.
From Waterloo to the Marne.
È questo il titolo che il libro di Pie-
tro Orsi, Gli ultimi cento anni di
storia universale, ha assunto nella tra-
duzione inglese, uscita ora in una ma-
gnifica edizione dell'editore Collins di
Londra*.
L'avere un editore inglese scelto un
libro italiano per illustrare la storia
mondiale dell'ultimo secolo è una prova
sicura delle qualità singolari del libro.
Noi ci compiacciamo di averle rilevate
fin da quando uscì il primo volume
in italiano presso lo Sten di Torino ;
noi facemmo notare allora l'abilità del-
l'Orsi nel saper scolpire con pochi
tratti di penna un personaggio storico
e nel saper condensare in un partico-
lare episodio lo spirito di un fatto ed
il carattere di un ambiente, il suo giu-
sto senso della misura che nell' im-
menso materiale dei fattigli fa sceglie-
re, coordinare ed armonizzare quelli
che sono veramente essenziali, la im-
pidità del pensiero e dello stile e l'alta
serenità colla quale parla degli uomini
e delle cose più discusse.
\[ libro dell'Orsi servirà a diffondere
presso il pubblico inglese cognizioni
esatte sopra noi ed il nostro modo di
vedere negli avvenimenti deha storia
contemporanea; e ciò co.stituisce un
grande vantaggio pel nostro paese.
In biblioteca.
Molti anni fa Cammillo Checcucci
pubblicò presso gli editori Bocca un
suo poema: Vita. Vita davvero, per-
chè in quelle pagine vibrava qualcosa
di nuovo, di originale, di ardimentoso;
e il canto pareva fiamma che investisse
e avvolgesse l'universo, la terra, l'ac-
qua, l'aria, la luce, il regno minerale
e vegetale, l'etere, la forza e la ma-
teria... Ci fu chi levò a cielo l'opera
del nuovo sconosciuto poeta, sì da
paragonarlo al Leopardi, e chi ne disse
poco bene, se non corna addirittura.
Come sempre in tutte le cose, la via
di mezzo sarebbe stata la giusta. 11
Checcucci sentiva fortemente e forte
mente significava; ma, a intermittenza.
Disuguali per altezza di concepimento
i canti, disuguali per struttura e forma
le strofe: un momento d'impeto lirico
maraviglioso, un altro fiacco e meschi-
no; una frase altamente poetica e com-
prensiva, un'altra inadeguata, sciatta,
volgare. Un miscuglio, insomma, di
vera e propria poesia e di prosa trita
e pedestre. Nell'insieme, tuttavia, co-
me abbiamo notato, un qualcosa di vi-
goroso che faceva pensare e rapiva
ed esaltava.
Non si parlò più di lui per molto
tempo, ed egli tacque per molto tempo.
Fece una breve apparizione di nuovo
nel campo letterario pochi anni fa
quando il Le Monnier ripubblicò quel
poema nella « Biblioteca Nazionale »,
in seconda edizione. Ma, ch'io sappia,
nessuno se ne accorse o mostrò di
accorgersene : forse, e soprattutto, a
cagione dei tempi assai poco propizi al-
l'arte in genere e alla poesia in ispecie.
Ora egli pubblica ancora (editore il
Cappelli) il suo poema, ma con un
titolo nuovo : // Miracolo, e con mo-
198
TRA LIBRI E RIVISTE
difìcazioni, direi quasi, radicali, con
giunte e correzioni che non possono,
paraltro, alterare il primitivo giudizio
sull'opera. E' un rifacimento che, in
parte, non elimina i difetti della prima
redazione; c'è anzi da dubitare che
li accresca, con le non poche ridon-
danze, disuguaglianze, espressioni va-
ghe, inafferrabili |e di poca consisten-
za. L'ultimo canto. Dio, a nostro av-
viso, è il più bello.
*
* *
I.
Una nuova edizione delle Odi del
Parini è dovuta alla instancabile ope-
rosità di Angelo Ottolini, il quale, non
soltanto ha arricchito di note assai
pregevoli il testo, ma lo ha fatto pre-
cedere da una assennata introduzione,
il volumetto fa parte della «Collezione
Universale », iniziata da qualche tempo
dal Caddeo di Milano con larga sim-
patia e fortuna.
E l' Ottolini ci dà anche un'ottima
scelta di liriche di Ugo Foscolo (Fi-
renze, Bemporad), uno, ben dice l'edi-
tore, dei più grandi poeti che mai
siano stati, perchè con lui la lettera-
tura si empie di contenuto civile più
pressante, più vivo, più dolorante che
non fosse nel Parini e nell'Alfieri, i
quali non si erano immersi, come lui,
nella corrente dei tempi. Tra gli stu-
diosi del Foscolo, TOttolini è uno dei
più diligenti e coscienziosi, ed è re-
cente la sua nobile fatica: Bibliografia
foscoliana. Nessuno, pertanto, meglio
ui lui poteva darci una scelta ben fatta
delle liriche del sommo poeta dei Se
polcri. La intraduzione e le note, co-
piosissime, sono quanto di meglio si
possa desiderare. Avremmo desiderato
che nel volume qualche saggio delle
Grazie non fosje mancato.
Grafistoria della Regione Italica.
Un grande storico italiano lasciò
scritto che la storia « serve come rac-
colta di sperimenti passati ad uso di
coloro che operano il presente mirando
all'avvenire della Patria ».
Vera per tutte le Nazioni, questa
tesi ha tanto maggior valore per l'Ita
lia in quanto essa sola ha attraversato
periodi secolari di disordine politico
o di dominazione straniera, causati
dalla mancanza del sentimento di unità
e di indipendenza sia- nei popoli sia
nei loro dirigenti.
Tanto più grande quindi deve essere
l'interessamento di ogni buon italiano
per conoscere il passato della sua Pa-
tria, senza indugiarsi sugli sterili vanti
di essere stati la prima potenza fra
le antiche, la prima in coltura fra le
moderne. E il freddo e virile esame
delle situazioni di decadimento che ne
metterà in luce le cause e spronerà ad
evitarle in avvenire.
Per conseguenza sono altamente be-
nemeriti i cultori delle discipline sto-
riche che colle loro opere — e ne ab-
biamo di grande valore — divulgano
la conoscenza del nostro passato e
coloro che facilitano questa conoscenza
con mezzi che solamente il grande
amore per la causa può suggerire e
concretare.
E' dell'opera di uno di questi stu-
diosi che vogliamo qui parlare, della
Grafistoria della Regione Italica di
E. Ripamonti Carpano. (A. Vallardi,
Milano).
Essa è raccolta in io grandi fogli,
ciascuno dei quali contiene grafici e
cartine, a colori smaglianti, delle an-
notazioni e dei ricordi storici.
Il grafico del primo foglio espone
la storia delle varie regioni e provin-
ce italiane (ed anche di singole città
se ebbero governo particolare) dalla
fondazione di Roma, anno 754 av. C,
al 1918.
In fogli successivi sono disegnate,
sempre a colori, le seguenti genealogie:
Re Ostrogoti e Re Longobardi —
Re d'Italia Carolingi e nazionali — Si-
gnori e Duchi di Milano — Signori e
Duchi di Modena e Ferrara — Casa
Savoia — Re di Napoli e Sicilia (dai
Normanni ai Borboni) — Duchi di Par-
ma e Piacenza — Signori, Duchi, Gran-
duchi di Toscana e Re d'Etruria —
Imperatori e Re tedeschi ed austriaci
TRA LIBRI E RIVISTE 199*
che dominarono in Italia — Marchesi Per i bimbi Balducci.
e Duchi del Monferrato — Signori,
Marchesi e Duchi di Mantova. Nel pubblicare questa nuova lista,.
Infine in altro interessantissimo gra- ripetiamo l'espressione della nostra
fico è descritta la Regione Italica du- gratitudine agli amici ed ai collabora-
rante la rivoluzione francese(i789-8i5). tori per il loro cortese concorso, ono-
Nei IO fogli sono altresì incise, a co- rati di inscrivere tra essi il nome di S..
lori, 9 caritne che in modo nitidissimo £ Ivanoe Bonomi, Presidente del Con-
rappresentano Ja situazione politica ^-^^-^ ^^. Ministri, che volle darci il
d'ItaUa negli anni noi, 1493, 1713, * u » 1
o o o 000 o suo contributo personale come antico
1789, 1803, 1810, 1848, 1870 e 1918. - , , „ , , „ ^.
Le annotaztom che si riferiscono e fedele collaboratore della nostra Ri-
alla vita ed opere dei personaggi più vista :
importanti compresi nelle genealogie, „ „ , _.
. ■ ,• ; • • * °i *• r„„ ; S. E. Ivanoe Bonomi L. S'>o
ed 1 ricorat storta, intercalati ira 1 ^ ,^^ ^. ^ „ '. ^
e • • 1- i j- Cir. Uff. Pietro Caffarel h .... ino
grafici, servono meravigliosamente di ^ ^ ... ^
.,, . • j. 11.- „„ j^i Conte Camillo Spingardì to
illustrazione e danno ali insieme del ., ., ^ v o - • • o"
lavoro il carattere di un completo sunto r>' d ^
storico pregevolissimo. ^^""^ ^1"'^' 5'-
Questa descrizione, sebbene schele- d r n ' ' ^^
trica, sarà sufficiente per dimostrare '^^°^- ^- ^albucci 50
l'utilità dell'opera: per ogni buon ita- Istituto Storico Olandese di Roma . 5.
liano desideroso di rinfrescare, facil- ^.g-na Ma>ja Hoogewerff .... ^.
mente e piacevolmente, i suoi ricordi '^^^ ^^^^,^^^ " Circolo Verde „ di
storici; per gli studenti che troveranno , ., j ai •
' ^ ° . ,. . -, rr- Jean Alaward Algeri 30
in essa un rapidissimo ed emcace au- r- 1 n n • r- » 1
. *^ . . - . Giulia Cavallari Cantalamessa . . 20
siilo per ripetere 1 corsi frequentati -, .. „• t7 1
,. ^ . ,r ,. . ^ ^ . ' Prot. Diego Valeri ao
negli anni di studio ; infine pei prò- . • /- 7
- ° . ... . ' . ,. , , Annie Celu 20
fessori stessi di 5tona,i quali malgrado 1- . • • d- r- * •
, , j ,, Fabizio e Bianca Cortesi 20
la padronanza della materia avranno ^ ^ ^, di- xt ~.
^ ... . . Contessa Olga Penlipson Numes. . 20
un mezzo tacile e pronto per rivedere t- /- <-
- . V ^ . Emma Cossu-Cosenza 15
un fatto, un episodio, una successione, „ „
una data, evitando di dover sfogliare ,," t^'
,/ ,., .... » ^ V. Pivera io
e consultare libn di testo. ,. -, • i- i- ■
T , 1- T- T-.- .• ^ Dott. Domenico Carimi 10
L opera di L. Ripamonti Carpano . , t^ _.
■^ ■:■ ,, . , Leonardo Bertossa 10
menta di essere molto conosciuta e
divulgata. N^ìn
/
LIBRI E RECENTI PUBBLICAZIONI
N. G. Barengo. Demonietto. —
, Vallardi, Milano.
A. Barbieri. Sua Maestà -Botuffo-
lino. — Vallardi. Milano.
G. Tarozzi. Note di Estetica sul
« Paradiso » di Dante. Firenze, Le
Monnier. L. 5.50.
P. Iacchia. Un figlio della terra. —
« Il Solco », Città di Castello. L. 3.60.
P. Iacchia. Il sogno di Maia. —
« Il Solco », Città di Castello. L. 3.50.
Novello Papafava. Appunti mili-
tari (1919-1921). — Taddei, Ferrara.
L. 8.
E. Raimondi Vanni. Il buio e le
stelle. Fantasie ritmiche. — Taddei,
Ferrara. L. 7.
G. Santini. Al di là della Scienza
e del Sistema. Seconda edizione. —
Firenze, <( La Voce ». L. 5.
E. Bevii^cqua. Il problema dei
componimenti scolastici. — Firenze,
« La Voce ». L. 5.
A. Graziani. Bìcardo e J. S. MiU.
— Laterza, Bari. L. 8.50.
G. Mosca. Appunti di dintto costi-
tuzionale. Terza edizione. — Socie-
tà Editrice Libraria, Roma, Milano,
Napoli. L. 16.
M. BoNTEMPELLi. Viaggi e scoperte.
Ultime avventure. — Vallecchi, Fi-
renze. L. 6.
A. ViVANTi. Gioial — Bemporad,
Firenze.
A. V. MiJLLER. Una fonte ignota
del sistema di Lutero. — Quaderni
di « Bilychnis », n. 2, 1921. L. 4.
Per intendere le teorie di Einstein.
- La relatività. Divulgazioni scienti-
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OAVET. — Paris, Plon.
Ugo Messiki, Beapon»abile
Roma — Dltt* Armati di Mario Ooorrior.
LA POLITICA ECCLESIASTICA ITALIANA
ED IL PONTIFICATO DI BENEDETTO XV
Il pontificato di Benedetto XV, di quasi quattro anni più breve
di quello dell' immediato predecessore, di tanto più corto dei lunghi
pontificati — ancora così presenti — di Pio IX e di Leone XIII, si
è svolio durante il tragico periodo della guerra europea, ed i primi
faticosi, ed in apparenza quasi sterili, tentativi di ricostruzione dopo
la guerra. Un tale papato dovette necessariamente venir considerato
soprattutto in funzione di questi eventi, al riverbero loro: tanto più
in quanto il pontefice fin dalla sua elevazione volle non rimanervi
estraneo: se non assunse su sé quel compito anacronistico ed anti-
storico, che nel fervore dei nazionalismi esacerbati gli fu rimprove-
rato di non avere assunto, il compito di giudice universale che di-
chiara la ragione ed il torto, e condanna popoli e governi, cercò in
ogni modo di non restare estraneo al volgere dei tragici eventi, e
perseguì inanemente la mira di essere mediatore di pace, e meno
inanemente l'altra più modesta mira di attenuare qualche poco gli
orrori della guerra. Non è qui il luogo di ricordare come varia-
mente, e di rado imparzialmente, fosse giudicata l'opera pontificia :
in ciascuno dei due campi, ove si era certi di combattere per la
buona causa, non ci si seppe dare pace di non sentire pronunciare
la condanna dell'avversario, si sospettò il papa di tendenze per il
nemico. A pochi anni di distanza, già la più gran parte di quelle
accuse e di quei sospetti appaiono ingiusti: ma non è ancora il
momento di una serena visione, che, congiunta ad una conoscenza
completa di documenti, consenta di dare un giudizio definitivo della
politica pontificia durante la guerra.
Più fortunata, se non nei successi ne>gli apprezzamenti che ot-
tenne, fu la cooperazione pontificia ai tentativi di ricostruzione eu-
ropea. La politica papale si svolse in un'atm.osfera di dignità severa
e di spirito cristiano, ben diversa dall'atmosfera che aveva circon-
dato molti degli atti dei suoi più prossimi predecessori : non sforzò
la mano per ottenere l'ammissione della S. Sede nella Società delle
Nazioni, non mostrò ire per l'insuccesso né risentimento verso quelli
che potevano esseme gli artefici, continuò sulla strada deirop>era pa-
storale, volta ad invocare aiuto per le popolazioni che più soffrivano.
Alcuni degli atti pontifici del dopo guerra, improntati a vera
grandezza cristiana, trovarono consenzienti uomini di ogni parte :
14 Voi. CC?XVI, serie VI — !• febbraio 1922.
202 LA POLITICA ECCLESIASTICA ITALIANA
tale rintervento presso il Governo soviettista a favor© del clero or-
todosso perseguitato, © più tardi l'iniziativa pei soccorsi al popolo
russo: tal© anche la protesta mossa pei Luoghi santi, invocazioni'
dei diritti ohe dà aJ « popolo cristiano» tutta una tradizione di gloria,
di lotte, di aspirazioni, di poesia, di leggenda, invocazione pura per
che scevra di ogni odio di razza, di ogni volontà di conculcare di-
ritti di altre razze e di altre fedi.
Fu certo papato politico: non v'ò papato religioso che abbia
storia più povera di questo: la sua storia religiosa è in breve rias-
sunta, ove si dica che perseguì le traccie del predecessore, elimi-
nando ogni fervore ed attutendo ogni asprezza dell'opera di restau-
razione religiosa. Ma se anche si voglia ammettere il giudizio degli
ortodossi del cristianesimo integrale, non potersi dare papato poli-
tico ohe non sia menomazione del papato religioso, deve però rico-
noscersi che il pontificato di Benedetto XV, non ebbe — come n'eb-
bero non di rado quelli di Pio IX e di Leon© XIII — atteggiamenti
politici contrastanti chiaramente con la tavola dei valori etici cri-
stiani : non indulse ad oppressioni né a stragi, non respinse l'invo-
cazione di aiuto che provenisse da sofferenze ingiuste.
•
• •
È agevole comprender© come di un pontificato svoltosi in mo-
menti così densi di eventi decisivi per la storia del secolo che se-
guirà, deb^no restare nell'ombra alcuni lati secondari.
A prescinder© dall'opera inerent© alla guerra, un pontificato che
ha compiuto la riconciliazione con la Francia, ohe ha visto il rista-
bilimento delle relazioni ufficiali tra Inghilterra e S. Sede, interrotte
da quattro secoli, che ha fronteggiato lo scisma czeco-slovacco ed è
riuscito a ridurlo a proporzioni minime, che ha assistito con sagace
accorgimento alla nascita dell'autonomia irlandese, senza sconten-
tare l'Irlanda cattolica né l'Inghilterra protestante, che ha superato
nel modo più felice i pericoli che potevano correr© le relazioni tra
Chiesa ed Imperi centrali nell'ora della sconfitta, che ha annodato
relazioni cordiali con tutti i nuovi Stati creati dalla guerra, cordia-
lissime con la Polonia; cih© ha ristretto, o almeno non allargato, le
breccie fatte nelle relazioni tra Chiesa e Stato dalla politica di Pio X
o dagli eventi svoltisi sotto il di lui pontificato (si considerino, ad
esempio, le relazioni tra S. Sed© e Portogallo in questi ultimi anni) :
un pontificato siffatto of^re all'osservatore troppi lati pieni d'interesse
perchè si attardi a scrutarne gli aspetti secondari.
Ma da noi italiani non può ^ssore dimenticato il lento insensi-
bile progresso fatto in questi ultimi anni da quello ch'era apparso
fin da principio ai più chiaroveggenti il fatale andare delle relazioni
fra Chiesa e Stato italiano: l'avviamento non alla conciliazione cla-
morosa (ricordi infantili delle stampe popolari bene auguranti, con
l'effigie di re Umberto e' Leone XIII sotto braccio, scortati da coraz-
zieri e guardie nobili fraternizzanti!) ma ad una intensificazione
progressiva della cordialità dei rapporti, ad un assetto normale delle
relazioni tra due poteri che hanno sul medesimo territorio la loro
ED IL PONTIFICATO DI BENEDETTO XV 203
sede, e che ài av\ edono di non aver rag-ione alcuna di contrasto che
li separi: l'avviamento alla conciliazione di fatto, che potrà avere
per sue-gelJo anciie un atto ifiuridico, l'adozione di una formula, ma
che potrà restame priva senza essere per questo meno intera.
È indiscutibile ohe in questi sette anni molto si è camminato su
tale via. Il merito, se di merito si può parlare, è soprattutto degli
eventi, della forza stessa dello cose. La guerra, se pur combattuta
in nome d'idealità e per id^lità veramente sentite, è pur sempre
una grande lezione di politica realistica: essa ha dappertutto, se
non spazzato, affievolito il culto per le formule. La questione della
conciliazione fra Stato e Chieda in Italia era stata a lungo, da uo-
mini di ogni parie, considerata soprattutto come una questione giu-
ridica: una elegante questione di diritto, risolvibile con l'adozione
di una formula perfetta. L'impercettibile ma reale evoluzione ope-
ratasi nella mente di ciascuno di noi ha fatto sì che nel problema
della conciliazione si guardi oggi soprattutto il lato intrinseco: si
senta ch'essa può dirsi avvenuta se da un lato sia scomparsa non
solo ogni antistorica speranza di ritomo al passato, ma pur ogni
postumo rancore e diffidenza verso il regno sorto dalla rivoluzione;
se dall'altro sia fatta rinuncia ad ogni sentimento antichiesastico, ad
o^ni idea di fare dell'Italia una banditrice di razionalismo nel mondo.
Queste rinuncie a ciò che vi fu di essenziale negli odi passati sono
i presupposti necessari e sufficienti alla conciliazione reale: poco
conta quello che ne sarà il suggello giiiridico: chi davvero abbia
rinunciato alle avversioni antivaticane che furono elemento sostan-
ziale (e necessario, diciamolo subito) del Risorgimento, non può al-
larmarsi alla idea di veder modificato im articolo della legge delle
guarentigie.
Ma la guerra non ha solo richiamato noi tutti ad atteggiamenti
mentali più realistici: ha anche mostrato agl'italiani come la posi-
zione mondiale del papato fosse più elevata ed augusta di quel che
si era soliti credere, come la considerazione di cui esso gode fosse
ben maggiore che tra noi comunemente non si pensasse. L'avere
visto tutti i principali Stati annodare relazioni ufficiali col Papato,
ha suscitato in Italia fautori della conciliazione, vi ha reso meno
repugnanti alcuni che vi si sentivano per l'innanzi irreducibilmente
avversi.
Agl'inizi del pontificato di Benedetto XV non sarebbe stato fa-
cile credere che in sette anni si sarebbe compiuto tanto cammino.
Moriva un pontefice, che, a ragione o a torto, aveva riscosso sim-
patie universali, tra gl'indifferenti non meno che tra i cattolici. In-
torno a quel papa — osteggiato solo dalla eletta ma esigua schiera
modernista — eransi create leggende, accettate senza controllo ed
accette ai più, del « parroco di campagna » e del buon italiano. Gli
succedeva aliar cattedra di S. Pietro l'allievo prediletto di quel car-
dinal Rampolla del Tindaro ch'era stato il più aspro nemico d'Italia,
il fautore dei sogni di Leone XIII più ostili alla stessa unità italiana.
I primi suoi atti non erano concilianti : la benedizione al popolo di
Roma, quella benedizione che ha assunto un valore convenzionale
ed un significato diverso a seconda ohe sia impartita dal loggiato
esterno o da quello interno di S. Pietro, era data nell'interno della
chiesa : non mancava, se pur scevra di ogni asprezza, la tradizio-
204 LA POLITICA ECCLESIASTICA ITALIANA
iiale protesta per la privazione della necessaria indipendenza della
S. Sede. Due anni più tardi, un atto imposto al Governo dalla opi-
nione pubblica, la presa di possesso di palazzo Venezia, dava luogo
ad una protesta pontificia. Fu solo lentamente che si scorse nel pon-
tefice la completa assenza di ogni ostilità verso l'Italia: nelle sue in-
vocazioni alle Potenze belligeranti, nelle sue relazioni con esse mai
distinzione alcuna fra quelle che erano le Potenze aventi un rego-
lare stato civile agli occhi del legittimismo, e l'Italia figlia della ri-
voluzione. E nessuna diver-sità nelle concessioni ecclesiastiche fatte
ai combattenti italiani ed a quelli di altri Paesi : quel che più monta,
nessun incoraggiamento, nessuna equivoca compiacenza, nessuna
messa in evidenza della camp«igna tempora! istica svolta in Germania
da uomini di ogni partito, campag^na di recente così bene illustrata
dal Ruffini sulla Nuova Antologia; e la dichiarazione che la S. Sede
non attendeva la sua completa indipendenza dalle armi straniere,
era la implicita ma completa sconfessione della politica di Pio IX
e di Leone XtlI, il riconoscimento della sovranità del popKìlo ita-
liano, del suo pieno diritto di risolvere ogni questione connessa col
territorio nazionale. Ma fu dopo la guerra, grazie soprattutto alla
iniziativa personale di un prelato di grande ingegno, il cardinale se-
gretario di Stato Gasparri, il canonista illustre che ha avuto tanta
pare nella compilazione del Codex, che si prospettò il problema
della conciliazione come problema di cui fosse possibile una pros-
sima soluzione. Non si può oggi dire se la morte di Benedetto XV
abbia rinviato all'infinito l'attuazione delle speranze dei concilialo-
risti: certo vi è stato un periodo in cui fu dato a tutti scorgere nella
S. Sede un desiderio non solo intenso ma non larvato di concilia-
zione con l'Italia: alcune interviste del cardinal Gasparri, come quelle
col prof. Buonajuti e col prof. Curatolo, rappresentano elementi
davvero importanti acquisiti alla storia delle relazioni fra Stato e
Chiesa, mentre costituiscono al tempo stesso una innovazione rispetto
alle tradizioni anteriori della diplomazia pontificia, ligia alle arcaiche
riserve ed alle classiche reticenze. Manifestazioni ufficiali, nello
stretto senso del termine, di questo mutato spirito del Vaticano verso
l'Italia, non si ebbero, né si potevano forse avere: ma non va di-
menticato il consenso dato dalla S. Sede a che sovrani cattolici si
recassero a Roma a visitare il re d'Italia; non va dimenticata la do-
cilità con cui l'autorità ecclesiastica seguì per quanto stava in lei il
tracciamento dei nuovi confini d'Italia, sottraendo alla dipendenza
metropolitana di Salisburgo le diocesi di Trento e di Bressanone;
non va scordato come, in opposizione a quanto seguiva negli anni
di acuto dissenso tra Chiesa e Stato, il clero italiano e quello stesso
romano potesse ricordarsi durante la g-uerra di essere parte del po-
polo d'Italia, e recentemente le camipane delle chiese di Roma suo-
nassero la gloria del milite ignoto e clero rwnano salisse a bene-
' dime la cripta su quello che vuol essere il monumento della rivolu-
zione. Non va infine obliato come nelle due elezioni del 'i9 e del '21
l'affluenza dei cattolici, cattisi in partito politico, seguisse col con-
senso pieno ed incondizionato della S. Sede, e la protesta del non
expedit fosse relegata tra i ricordi.
Ma, riconosciute lealmente le benemerenze del pontefice scom-
ED IL PONTIFICATO DI BENEDETTO XV 205
parso verso La conciliazione, non bisogna tacere quelle delle classi
dirigenti, delle classi di governo italiane.
Se la diplomazia pontificia seppe compiere lo sforzo di abban-
donare atteggiamenti e comportamenti tradizionali, lo stesso sforzo
seppero effettuare gli uomini politici italiani : anche quelli personal-
mente-ostili al cattolicesimo, anche quelli legati da vincoli settari e
non rifuggenti da settarismo nei siiigoli atti della politica minuta,
seppero con più elevata e pacata coscienza guardare al problema
delle relazioni con la S. Sede.
Dalla costituzione del Regno al 1914 molte asprezze antivaticane
erano cadute, molte avversioni si erano mitigate: gl'infatuamenti
razioniilistici che facevano guardare alle religioni tutte, al cattolice-
simo prima di ogni altra, come a detriti del passato, non sussiste-
vano più se non in qualche vecchio custode del pensiero di una ge-
nerazione discesa nel sepolcro: le vecchi© frasi rettoriche // Vati-
cano coltHlo piantatù nel cuore d'Italia od altre dello stesso conio
non trovavano da tempo indulgenza presso nessuna persona di me-
diocre gusto, a qualsiasi partito appartenesse. Ma tuttavia qualche
elemento formale si era tramandato immutato: era di stile nel lin-
guaggio ufficiale certo anticlericalismo, certa ostentazione di laicità,
certo disconoscimento della necessità di una integrazione dei compiti
etici dello Stato mediante valori religiosi. Non si deve dimenticare
che il gabinetto Salandra alla sua costituzione aveva posto nel pro-
prio programma un progetto di legge (ennesima edizione di progetto
presentato e mai approvato) sulla precedenza del matrimonio civile ;
progetto che aveva un valore puramente politico, che doveva affer-
mare la laicità del programma del Ministero, ed assicurargli l'ade-
sione dei democratici costituzionali.
Nei sette anni del pontificato di Benedetto XV i dirigenti ita-
liani seppero rinunciare a questi atteggiamenti tradizionali. Il Ga-
binetto Salandra, se volle l'inclusione nel Patto di Londra di quel-
l'articolo 15 che a molti sembrò anacronistica cautela, ebbe però
l'alta indiscutibile benemerenza di resistere a tutte le pressioni di-
rette ad ottenere una modificazione o una sospensione della legge
delle guarentigie: questa fu rispettata, per quanto spettava al Go-
verno italiano, nel modo più assoluto: i membri dell'ambasciata
austriaca e delle legazioni tedesca e bavarese presso la S. Sede, per
approfittare del treno diplomatico che riconduceva al confine il per-
sonale delle due ambasciate presso il Quirinale, dovettero pagare il
biglietto di viaggio: il Ministero degli Elsteri italiano significò che
non riconosceva la loro necessità di allontanarsi da Roma, e non
poteva considerarli se non quali viaggiatori ordinari. Per merito so-
prattutto di un alto funzionario amministrativo, che gode la piena
fiducia del Governo e godeva la simpatia completa del Pontefice, si
resero più frequenti e più intime le relazioni ofiìciose tra Governo
italiano e S. Sede, che proseguirono cordiali come non mai. Al-
l'inizio della guerra, l'istituzione di cappellani militari e di un
vescovo castrense mostrò come il Governo italiano fosse sulla via di
abbandonare ogni antico preconcetto giacobino. Durante e dopo la
guerra, in cerimonie e celebrazioni ufficiali, il Governo mostrò di
non avere discare le manifestazioni cultuali, l'unione dell'elemento
religioso a quello patriottico. In discorsi parlamentari ed extrapar-
206 LA POUTICA ECCLESIASTICA ITALIANA
lamentari membri del Governo non lesinarono lodi al contegno del
clero, ne assunsero in certo modo la difesa contro una campagna
di denigrazioni ohe si andava svolgendo tra i ceti meno colti della
borghesia. Furono risolte di mutuo accordo tra i due poteri le pic-
cole questioni presentatesi man mano: non ultima quella sui rapporti
tra il più elevato prelato palatino, il gran priore di S. Nicolò di
Bari, e l'arcivescovo della città. Nella unificazione legislativa delle
nuove Provincie, il Governo mostrò una prudenza encomiabile per
quanto concerne la legislazione ecclesiastica: fino ad oggi tutta la
legislazione austriaca è rimasta in vigore, e non è un mistero che,
almeno negl'intenti del Governo, innovazioni non debbono compiersi
se non sentiti i desiderata della S. Sede e tenutone tutto il possibile
conto. Né va dimenticato che la campagna giornalistica dell'anno
scorso per una soluzione anche formale della questione romana ebbe
un tiepido incoraggiamento dal Governo, in quanto l'ufficio stampa
del Ministero degli Esteri raccolse in un apposito volumetto quanto
era stato scritto sull'argomento. Tutto un insieme, insomma, di pic-
coli atti significativi, testé coronati dalle ma;nifestazioni uflficiali di
lutto per la morte del Pontefice.
Ma notevole soprattutto, se pur passato tra la disattenzione ge-
nerale, fu l'abbandono di un principio ch'era davvero un caposaldo
nella legislazione ecclesiastica italiana: non dovere lo Sialo sussidiare
alcun culto. Questo principio, asserito con violenza al Parlamento
subalpino subito dopo la promulgazione dello Statuto, era stato il
movente della prima legge soppressiva delle comunità religiose,
quella del 29 maggio 1855. Cavour e Rattazzi avevano risolto l'anti-
nomia del rispetto a quel principio e della impossibilità di disinte-
ressarsi delle sorti del olerò minore, con la creazione della Gassa ec-
clesiastica, foggiata sul modello del Fondo di religione austriaco;
nel '66 alla Cassa ecclesiastica era succeduto il Fondo per il culto.
Trattavasi di enti con personalità affatto distinta da quella dello
Stato: avevano un patrimonio proveniente da quello degli enti ec-
clesiastici soppressi, riscuotevano un tributo, la quota di concorso,
dagli enti ecclesiastici più ricchi : con tali cespiti avevano a provve-
dere ai supplementi di congrua ai parroci. Lo Stato non forniva
alcun aiuto. Nel 1918, di fronte al deprezzamento della moneta, alle
cattive condizioni economiche del Fondo per il culto, il Governo
sentì la necessità di abbandonare il principio che per sessanta'rè
anni aveva retto la politica economica dello Stato di fronte al clero:
prima a titolo provvisorio, poi a titolo definitivo fu stabilito il con-
corso del Tesoro dello Stato nel pagamento dei supplementi di
congrua: l'anno scorso il Governo presentava un progetto di legge,
approvato dal Senato e tuttora pendente dinanzi alla Camera, per
rendere stabile tale concorso.
Nei sette anni del pontificato di .Benedetto XV questo si scorse
nella politica del Governo italiano: il mantenimento integrale di
tutte le posizioni fondamentali aventi un valore spirituale ch'erano
state la base della nuova Italia: ma l'abbandono graduale di tutte
quelle che avevano costituito le posizioni di lotta, gli atteggiamenti
di rappresaglia, più propri ad un partito che ad un governo, le
ostentazioni giacobine: l'accettazione sincera e leale della verità che
cattolicesimo e papato rappresentano una grande forza spirituale
ED IL PONTIFICATO DI BENEDETTO XV 207
nel mondo, e che sarebbe antinomia voler perseguire fini etici, farsi
assertori d'idealità, e disconoscere o spregiare quella forza.
Questa era la posizione reciproca dello Stato italiano e della
Chiesa, allorché inopinatamente si è chiuso il pontificato di Bene-
detto XV. Il papato del successore segnerà la conclusione definitiva
dell'accordo, o una nuova tensione, un succedersi di ostilità reci-
proche? Manca ogni elemento per dirlo. Ma è bene registrare quelli
che furono in questo settennio i meriti reciproci : la S. Sede mostrò
negli ultimi anni un desiderio dell'accordo formale piìi intenso che
il Governo italiano non mostrasse : ma lo Stato non era rimasto im-
mobile nelle sue posizioni: lentamente e silenziosamente aveva ab-
battuto le soprastrutture ideologiche che si frapponevano alla con-
ciliazione.
A. G. Jemolo.
L
LA SANFELICE
POEMA TRAGICO
ATTO TERZO
Una stanza disadorna ed ignuda sotto il tetto del palazzo Sanfelice. A
destra un uscio dissimulato dalT'intonaoo della parete dà sul palco morto; a
sinistra un'altra porticina conduce per una scaletta alle stanze inferiori, in
fondo è una terrazza aperta, dinanzi la quale si rizza il Castel Nuovo, fosco e
minaccioso nell'alba. Nella stanza sono due o tre vecchie sedie, un divano
stinto, e una tavola su cui posa una sciarpa di trina. Campane lontane suo-
nano, a tratti, l'avemaria dell'alba.
SCENA I.
Gerardo, poi Luisa.
r
Gerardo
{che tenea la testa appogg^iata su le braccia alla tavola, si rizza
da sedere, e va alla terrazza).
L'alba!... Stamane le campane han voci
Moste e soavi, quasi umane. Dorme
La gran città perduta in un silenzio
Remotissimo. Io solo veglio, io solo,
E me ne viene al cuor non so che oscuro
Rimorso.
Luisa
[apparendo su la porticina di ministra)
Come? già levato?
Gerardo.
Vieni,
.Amor mio. Sì, lo so, tu m'hai da dire
Qualcosa. Attendi!... Solo un breve indugio
In quest'ora d'oblìo... Vedi tu come
Si spensero nel ciel l'ultime stelle,
Salvo una sola che fìanimeggia grande
E abbagliante? Così parmi che sia
LA SANFELICE 209
Caduta dal mio core og-ni ansia e c^ni
Memoria, tutto, fuor che quest'amore
Radiante, Luisa?
Luisa
{L'ablxraccia).
{dandogli un buffetto su le guance per chiasso)
Eh! com'è proprio
Vero che cambia il saggio — e anche il birbo!
Cosa mi c'è voluto in quell'orrenda
Nottata per persuaderti, brutto
Caparbio, a venir qui!
Gerardo.
Che vuoi?... perdono!...
Mi sembrò d'impietrare appena seppi
Che tutto era scoperto; intravedere
Credevo insidie e tradimenti ovunque;
I miei compagni, mio fratello, mio
Padre!.., Chi sa che n'era stato?... Nulla
Della lor sorte tu sapevi... Ah! quando
Nelle mie notti solitarie vedo
Colui, quel rinnegato che la nostra
Impresa rivelò...
Luisa.
Sii buono, via!
Forse è meno colpevole di auanto
Credi!
Gerardo.
Luisa!... lo conosci?... Parla!
Lo conosci?...
Luisa.
No, no! Ma che rileva
Questo oramai? Dimentica! Chi corre
Più rischio?... E io son qui, che t'amo!
Gerardo.
Ebbene :
Per te, per te, per seguir te, mia bella
Maliarda, trovai quest'inumana
Forza d'abbandonarli. Ora son salvi
Però, nevvero?
Luisa.
Sì : dentr'oggi forse
Verranno scarcerati. Il cardinale
È alle porte di Napoli con sue
Atroci masse della santa Fede;
Navi iniglesi e del re fanno crociera
210 LA SANFELICE
Minacciosa nel golfo. I patrioti
In sant'Elmo riparano, tentando
La Sdiiprema difesa. Ahimè! per sempre
Caduta è la Repubblica.
Gerardo.
Non s'ama
Fors'egli ancóra, piccola ribelle,
Sotto la monarchia?
Luisa.
Siete un cattivo,
Mio capitano, voi!... Ma quella cara
Eleonora Pimentel, l'amica
Fiera e fedele?
Gerardo.
Non angustiarti:
Il re perdonerà.
Luisa.
Credi?...
Gerardo.
Al bisogno,
Io stesso chiederei misericordia
Per lei, né me la negherebbe.
Luisa.
Come
Sei buono, o mio! mio! mio!... Vorrei che tutto
Almeno terminasse senza sangue :
Che spavento, mio Dio!... Ma bravo!... e poi
Chi sa se ancor ti piacerò con quella
Monterà bianca che md fa sembrare
Una gattina d'Angora?... Di certo
Bisognerà rimetterla, secondo
L'etichetta di prima. Ah! la regina
Se ci facesse akneno questa grazia
D'adottare la moda de' capelli
Pettinati alla Bruto!
Gerardo.
Civettuola!
Non ho bisogno della tua proterva
Zazzeretta di paggio per amarti •
Teneramente!
{L attira per baciarla).
Luisa
[sfuggendogli):
.Anch'io, con tutto il cuore!
la sanfelice 211
Gerardo.
Sapete voi, mia lodoletta bionda,
Che iersera, schizzando a un tratto via
Di qui, lasciaste nelle mie predaci
Mani un'aerea piuma delle vostre
Tiepide ali?
Luisa.
Dov'è?
Gerardo
[prendendo il velo):
Guardate!
Luisa.
Oh come
Me ne vergogno!... E ride anche, il briccone!...
No, dammi la mia sciarpa!
Gerardo.
Ah questo è quanto
Si vedrà! Non è mica ora più tua.
Luisa.
Sissignore, eh 'è mia!
Gerardo.
Ma no, ti dico!
Questa notte v'ho posto tanti baci
E tanti, che n'è colma. Or dunque prendi
La sciarpa, e damma i baci.
[La prende improvvisamente e la bacia).
Luisa.
Ah!... prepotente!
[balzando e tendendo V orecchio):
Taci!... qualcuno sale... Nella tua
Soffitta, lesto!...
[Gerardo apre l'uscio di destra, e si nasconde nel palco morto.
Entra VAltobello).
SCENA IL
t
Luisa e Z'Altobello.
L'Altobello.
Il nostro amico dorme?
Luisa.
Sì: favellate piano.
212 la sanfelice
L'Altobello.
Eh! vi dovrebbe
Attaccare un bel vóto!
Luisa.
Che c'è egli
Arijcòra?
L'Altobello.
Meno male che s'è posto
• In salvo qui, dalla liberatrice
Della patria.
Luisa.
Ma dunque?...
L'Altobello.
È un'ora appena
Che la Commissione militare
S'è rannata a giudicare i suoi
Compagni di delitto.
Luisa.
E suo fratello
Anche?... e suo padre?... Ah Dio! Dio! Dio! Dio!... Come?.
Ma come?... Se iersera si parlava
Di scarcerarli?...
L'Altobello.
La cattiva gente!
Che farci? Al mondo c'è le creature
Probe, caritatevoli, incapaci
Di far male a una mosca, come voi
E me; ma anche c'è di quei birboni
Che provano chi sa che acre gioia
Nocendo altrui. Qualche sopravanzato
Germe del tempo originario, quando
Questa leggiadra immagine di Dio
Oh'è l'uomo, si deliziava il senso
Spaccando il cranio con la clava al suo
Simile, per vederlo dai'e i tratti
Nel bel rosso del sangue.
Luisa.
, Insomma?...
L'Altobello.
Giunse
Alla Commissione esecutiva
Ieri, sul tardi, una petizione
Sottoscritta da centotrentasei
Patrioti, che vogliono il giudizio
LA SANFELICE 213
E la condanna de" cospiratori;
E quel mangiatiranni di Fernando
Ferri era il capolista.
Luisa.
Il Ferri?... Ah, dunque
Voi! foste voi! Qualcosa, sì, qui dentrr.
Me lo dice. Guardatemi...
L'Altobello.
Ma, ingrata
Amica, s'io mi fossi posto in capo
Di perdere quei giusti, è già un bel pezzo
Che avrei denunziato il nostro caro
Protetto: convenitene!
Luisa.
Suo padre!...
Il f ratei suo, ch'egli idolatra!... E poi?
E poi? Che ha fatto la Ck)minissione?...
Ah, che di^razial...
L'Altobello.
Nulla fin adesso;
Ma darà tosto la sentenza. I>ee
Sbrigursi, perchè già Fabrizio Ruffo
Attacca il ponte della Maddalena,
E Napoli domani sarà sua.
Bel fegato, però, quel cardinale
Di ventura!...
SCENA III.
Luisa, TAltobello e Bruto; -poi Fernando Ferri.
Bruto.
C'è abbasso il cittadino
Ferri e domanda di parlarvi, abate.
L'Altobello.
Vengo subito.
Lu^SA.
No: digli che salga!
Vo' sapere ogni cosa.
{Brillo esce).
L'Altobello.
Era pili saggio
Lasciar prima andar me. Se l'altro udisse?
214 la sanfelice
Luisa.
Non udrai
{Entra il Ferri).
Il Ferri.
Buone nuove, virtuoso
Cittadino, e anche voi, Clelia e Camilla
Della nostra Flepubblica!...
L'Altobello.
Badate,
Caro. Clelia e Camilla eran ragazze,
Dicono.
Luisa
{al Ferri)
Ebbene? i prig-ionieri?...
Il Ferri.
Salvo
Un vóto, a morte!
Luisa
{con abbattimento pirofondo)
Ah!...
Il Ferri.
Confessò ciascuno
Imiperterrito. L'armi, le coccarde
Rosse, i tamburi con gli emblemi regi
Un po' dovunque sequesirati, tutto
Riconobbero. Quando il generale
Presidente lodò con alte e belle
Parole, o cittadina Sanfelice,
Il magnanimo zelo che vi punse
A rivelare la congiura obliqua.
Il Baccher padre tentennò del capo
Amaramente bofonchiando: Specchio
Di pudicizia giacobina! In somma
Saranno tiutti fucilati.
Luisa.
Quando?
Il Ferri.
Alcuni tra mezz'ora, altri domani
All'alba. Gheh! v'incresce? Anche colui
Che ci sfug^, quel pazzo temerario
Che vi die il cartellino — e il padre suo
E i suoi compagni l'hanno in conto quasi
Di traditore — ebbe la pena stessa;
LA SANFELICE 215
S'intende, in contumacia. È stato dato
Ordine a trenta militi d'armarsi
E allinearsi su la piazza.
Luisa.
Quale
Piazza?
Il Ferri.
Codesta.
Luisa. ,
Questa?
Il Ferri.
Sì : saranno
Tratti fuori dal carcere co' polsi
Ledati dietro, e moschettati a due
A due sotto la torre. Eccovi dunque
Accontentato, cittadino...
{alVÀltobeUo)
... voi
Che proponeste a' giudici quel luogo
Come il più acconcio e il più sicuro.
Luisa
[air AltobeUó)
Ah Giuda!
Me lo diceva il cuore! Uscite entrambi!
Assassini! assassini!
L'Altobello.
Eh! fate bene
A questo mondo!
Il Ferri.
Cittadina! viva
La Repubblica!
[UAltobello e il Ferri escono).
SCENA IV.
Luisa sola, poi Gerardo.
Luisa
{andando su e giù per la stanza con le mani convulse fra i capelli)
E adesso?... cosa dirgli?...
Mezz'ora!... No: bisogna farlo uscire
Di qui... Ma dove? E con la piazza ingombra
Di gente!... Almeno mi venisse in capo
Una scusa... non so... Che orrore!.'.. Sotto
216 LA SANFELICE
Gli occhi suoi, là! là! là!... Ma ciò non dee,
Non può essere, no! Su! trova, trova,
{si dà de' pugni nel capo)
Ma trova'dunque!... Ah! ecco!...
{Si passa la mano su la fronte e su gli occhi, e atteggiando il
viso di letizia, apre l'uscio di destra: entra Gerardo).
Ebbene?
Salvi,
Gerardo.
Luisa.
Salvi tutti.
Gerardo.
Sì, liberi?
Luisa.
Fra poco...
Sai bene, un po' di strascico c'è sempre
In tali cose. Ho fatto dire a entrambi,
A tuo fratello e al padre tuo, che noi
Andremo ad aspettarli nella mia
.Villa d'Aoenra. Vieni!
Gerardo.
Nella tua
N'illa d'Acerra? E per che fare?
Luisa.
Vieni!...
Poi ti dirò... C'è un ordine, capisci?...
Perchè le miasse della scinta Fede
Sono alle prese già co' patrioti
Sul ponte della Maddalena.
Gerardo.
Ho inleso.
Gara! tu temi che mi batta io pure,
Nevvero? No, no, via: rimangx) presso
Alla frugola mia, va bene? Tanto,
Il cardinale non avrà bisogno
Di me per dar la sferza a questi quattro
Gatti di demagoghi.
Luisa.
Fammi dunque
La carità, Gerardo : {indiamo! Ho troppo
Sofferto qui : non voglio più vedere
Altri pianti, altre stragi! Ingrato mio!
Non ami?... Ascolta... ascolta!... È una tranquilla
LA SANFELICE 217
Dimora, e dietro ha il monte erto, e dinanzi
Cenila or sì or no la baja affaccia
Tra le selve de' lauri e degli ulivi.
Colà passai l'infanzia. Oh le farfalle
Che v'ho chiappate!... grandi, sai, di tutte
Le tinte, e come s\'^olano leggiere!
Ma correvo lor dietro, e se qualcuna
Veniva a dindellarsi su la cima
D'un fiore, io trattenea l'alito, e adagio
Adagio, mav\'ertita come un'ombra.
Protendevo le dita e... paff! l'avevo
Còlta... Oh le mie farfalle!
Gerardo.
E proprio adesso
T'è rivenuta quella voglia, mimma
Gaipricciosetta?
Luisa.
E poi, senti! Ma senti!...
Nella valle ove con prolissa chioma
I vetrici si mirano nel rio
M'è noto un antro tutt'intomo verde
Di muschio e capelvenere. Mi scoti?
II pesco v'è così soave, mentre
Arde fuor la canicola, e lontano.
Nella gran calma accidiosa s'ode
Il campano tinnir di qualche mandria...
Vieni!...
Ghiardo.
Ma qui...
Luisa.
No, non sai tutto! A una
Segreta incavatura della grotta
È sospeso un sedile, e due persone
Ci stanno appena. Vuoi? vuoi? Non son dolci
Dunque i miei baci? Che t'importa adesso
Del mondo? Vieni!
{S'ode nella piazza i tamburi sonar la sordina).
Gerardo.
E come non verrei
Se tu m'attiri con quegli occhi dove
Mi s'inabissa l'anima? Lo sai:
M'affascini!... m'affascini!... Sì: soli,
Amanti, insieme, ove vuoi tu!
{L'abbraccia).
Luisa.
T'adoro!
Vieni! ma vieni?
15 Voi. OCIVX, serie VI — 1* febbraio 1922.
218 LA SANFELICX
Funebre?
Gerardo
{sobbalzando)
CShe è questo rullo
Luisa.
Nullal... non pensare a niillal...
Vieni!... Voglio esser tua, come non sono
Mai stata. Vieni!... Il tempo fugge.
Gerardo.
Attendii:
Che è? che è?
Luisa
{avvinghiandosi al collo di Gerardo) ,
No: guardami!... Non voglio
Ohe tu mi lasci!... Son la tua Luisa,
La tua Luisa piccola, ne\^ero?
Gerardo.
Ma non ti lascio!... Attendi!... Io non capisco
Che accade mai!...
{S'affacaia alla soglia della terrazza e gitarda giù; poi si volge
con gli occhi esterrefatti).
Luisa!...
Luisa
{cade in ginocchi con la testa fra 'le mani)
Gerardo
{con singulti strazianti)
Ah! ah!
Luisa
{con vn fil di voce)
Perdóno!
Gerardo j
{tornando su la terrazza) \
Ferdinando La Rossa, il forte e onesto ;
Ferdinando, il gran cuore senza paura ^
Come senza malizia... Il f ratei suo '
Giovanni, bello, temerario e destro \
Come un conquistatore... Anche Natale ♦.
D'Angelo... Ah!... il mio Gennaro!... il mio Gennapo!... V
Fratello mio! Ì
{tornando a Litisa) |
TMsgraziata!... Dunque
Tu lo sapevi? A morte tutti?... a morte?...
I
LA SANFELICE 219
Natale D'Angelo e Giovanni La Rossa
{dalla piazza)
Viva Dio! viva il Re!
{S'ode ima scarica di moschetteria. Gerardo corre su la ter-
razza).
Gerardo
{a voce alta e vibrante)
Gennaro!... o mio
Gennaro!... aspetta! Anch'io scendo a morire
Con voi tutti, fratelli!... 0 Ferdinando
La Rossa, abbraccia il tuo Gerardo!... Io vengo!
Viva Dio! viva il Re!
{Rieintra, e si cMtìa su Luisa aggiaccata per terra)
Luisa, o triste
Mia fidanzata nella morte, un bacio!
L'ultimo!... Addio.
Luisa
{tendendo disperatamente le braccia)
No!. No!
. {Gerardo, sul punto d'uscire per la porticina di sinistra^ s'im-
batte nell'abate Altobello, che entra).
" SGENA V.
Luisa, Gerardo e '/'Altobello.
L' Altobello.
^ Bel capitano,
Buon viaggio! Vi siete messo a un malo
Sbaraglio, quando vi saltò quel grillo
Di perseguitar me, servo di Dio.
Gerardo.
Dio non può fare ch'io non muoia come
Un gentiluomo e voi non viviate
Come un ribaldo!
SCENA VL
Luisa e T Abate Altobello.
{Esce),
{Luisa si trascina in ginocchi fin su la soglia della terrazza e
s'appoggia della mano allo stipite, guatando atterrita).
220 la sanfelice
Luisa.
È là!... è lai... Gerardo!...
La sciarpa!... Bacia la mia sciarpa!... Ah, quanto
M'amava!... No!... noi... no!... Gerardo mio!
Gerardo e Gennaro
[daUa piazza)
Viva Dio! viva il Re!
[S'ode im' altra scarica di moschetteria. Luisa si copre con le
palme la faccia e s'accascia per terra).
Luisa. ^
Tutto... è finitol
[V Abate Altobello giurrda imptissibile).
Cade la tela.
G. A. Cesareo.
(Proprietà letteraria: tutti i diritti riservati).
LETTERE A MIO PADRE DALL'AMERICA
(1866-1867)
Shangai, ,14 febbraio 1867.
Siamo in mezzo ai ribelli, e abbiamo attraversato contrade dove
ebbero luogo furiose battaglie. Ieri, dopo aver danzato da Mrs. Wal-
lak sino alle sei del mattino, alle sette e mezzo abbiamo lasciato Wa-
shington, Cantagalli, Van Havre della Legazione di Olanda, il prus-
siano d'Holstein, di Bassano e Benedetti della Legcizione di Francia,
il francese Dufour ed io, equipaggiati per la caccia. Il treno ci tra-
sporta lungo la valle del Potomac, incantevole per superbi boschi di
querce, di noci, di olmi, di salici piangenti giganteschi, a traverso
campagne di granturco, difese da curiose staccionate a zig-zag.
Ma alla placida maestà della natura fanno doloroso riscontro
le testimonianze della ferocia umana : tutta la regione è seminata di
mine: a Monocarj-, dove il treno si ferma 5 minuti, caddero a mi-
gliaia i combattenti : a Harper ferry, attraversiamo il Potomac su un
ponte in ferro di insuperabile leggerezza; ma anche qui avanzi di
case bruciate o demolite dal cannone; alla stazione della ferrovia
tettoie dilaniate, qui John Brown iniziò la lotta immane che terminò
con la emancipazione di 4 milioni di schiavi. Entriamo nella vallata
del Shenandoah, che fu sistematicamente devastata dalla cavalleria
di Sheridan. I compagni di viaggio indigeni ci mostrano a ogni tratto
un rudere, a cui è attaccato un triste ricordo. In luogo delle an-
tiche masserie, meschine catapecchie. A Martinsburg ci aspetta una
folla compatta di curiosi, avvisati telegraficamente del nostro ar-
rivo. Ci fa da cerimoniere, per eccezione fra tanti sudisti, un repub-
blicano che si buscò quattro ferite, combattendo contro i Confede-
rati. Presentazioni, strette di mano senza fine, « You mus bave a title
of course ». Quella brava gente non concepisce un'Europeo di conto
senza un titolo : credo sieno rimasti un po' delusi dovendo accon-
tentarsi di chiamarmi modestamente « Captain », come loro insegna
Cantagalli, storpiando poi il mio nome nei modi più bizzarri.
Dopo un pranzo frugale, un piatto e contomo di legumi, passeg-
giamo per la cittadina di 5 mila abitanti, dalle case di legno e
dalle strade orribili. La Banca e la Corte di Giustizia sono due stam-
berghe che starebbero comodamente sotto il nostro porticato. La
chiesa cattolica e presbiteriana, ora ridonate al culto, servirono una
come stalla, l'altra come ospedale. Teatro di sanguinosi combatti-
menti, Martinsburg risente ancora dei colpi ricevuti. Un sudista
mi descrive la carica di cavalleria nelle vie, mentre egli sparava dalla
222 LETTERE A MIO PADRE DALL'AMERICA (1866-1867)
finestra. Passata la notte nell'unica locanda, stamane siamo partiti
con i nostri accompagnatori, su vecchi carri di ambulanza, offrendo
esilarante spettacolo ai biricchini che si recavano a scuola. Siamo
sballottati su una strada infame, sempre a traverso un paesaggio me-
raviglioso, fra alberi secolari dei quali molti abbattuti, imputridi-
scono, mentre fu loro levata la corteccia per la concia delle pelli;
unico indizio della esistenza di uomini, una loghtU di legnaioli
fatta di rami d'alberi impastati di fango. Felici di sgranchirci,
imprendiamo a piedi la salita delle colline, lasciando al basso la
vegetazione a foglia caduca, e penetrando nei boschi di conifere.
Passiamo a guado il ifiume Back Creek, che dà il nome anche alle
montagne, ed eccoci nello settlement del sig. Kitcher, che ci accoglie
con la proverbiale cordialità dei Sud Americani, nell'abitazione im-
provvisata, in cui servizi e comodità sono ancora in istato embrio-
nale. Il nostro ospite è membro del Congresso; è padrone di 700 acri
di terreno, che lo facevano vivere agiatamente; la guerra spazzò via
villa, cascinali, bestiame, coltivatori. Bisogna da capo dissodare, edi-
ficare, popolare; egli vi si è accinto serenamente, con pacata energia;
incontriamo un suo figliuolo che riconduce un carico di legna; altri
lavorano nei campi. Nel fango sino ai ginocchi, visitiamo stalle, fie-
nili, colombai, imbastiti alla diavola, con tronchi mal connessi, in
attesa di miglior vita. Da tenace Yankee sarebbe pronto a subire le
conseguenze di un'altra guerra anziché rinunciare al completo trionfo
dei suoi principii.
Per non far torto a nessuno, andiamo a cenare da un vicino, que-
sto democratico. Al sig. Granton appartengono 800 acri, coltivati
a grano, mais, avena, su cui pascolavano non so quanti capi di ca-
valli, buoi pecore, polli; possedeva 20 famiglie di negri, e smaltiva
i prodotti sul mercato di Richmond. Anche qui la guerra fece tabula
rasa. Ora tiene a coadiuvarlo 8 famiglie di salariati, che, a sua con-
fessione, gli fanno un lavoro assai più redditivo di quello dei nume-
rosi schiavi. Buona la cena al lume di una candela di sego, imban-
dita dai figli e dalle figlie. Il sig. Granton è favorevole alla politica
di Johnson, ma non ha simpatia per la sua persona: discutendo con
molta calma, disapprova il modo violento con cui fu abolita la schia-
vitìi, mentre i negri non erano preparati alla libertà; non sanno va-
lersene, e fu crudeltà l'averli abbandonati a loro stessi; conveniva
lasciar agire il tempo: così la pensano, dice, tutti i suoi conterranei.
Le ambulanze ci riportano a dormire dal sig. Kitchne, Io ti scrivo,
poco edificato sui progetti di caccia di domani. Basta, vedremo. In-
tanto piove a rovesci.
Washington, 17 febbraio 1867.
Che fiasco la caccia; ma come interessante la spedizione. Il sig.
Pendleton, del quale ci avevano vantate le qualità venatorie, o non
le ha mai avute, o le ha dimenticate : una vera mistificazione: cosa
del resto non rara in America, dove è savio consiglio non contare su-
gli altri: ognuno provveda da se ai casi propri. Non cani, non batti-
tori, punto provisioni; tre pretesi cacciatori, mal in arnese, non sanno
dove guidarci : rimangono intontiti, a bocca aperta, vedendo cadere
un fagiano, colpito a volo. Il fatto è ohe nessuno qui trova il tempo
I
LETTERE A MIO PADRE DALL'AMERICA (1866-1867) 22S
per cacciare, neppure per diporto. Facciamo di necessità virtù, pi-
gliamo con noi dei cagnetti da pagliaio e ci addentriamo nella selva,
malgrado la pioggia. Che incanto di paese; quei macchioni di larici,
dal verde tenero, sono una bellezza : in poche ore, percorrendo forse
due miglia, abbiamo scovato un cervo, caprioli, dindi, volpi e fagiani
a bizzeffe; è la terra promessa dei cacciatori. Ma l'acqua cade a tor-
renti; è inutile insistere; ripariamo in una loghut in attesa di uno
squarcio di sereno. Si accendono le pipe, si svitano i coperchi delle
fiasche di Wisky^ ci asciughiamo alla meglio gli abiti inzuppati; si
pigliano in giro i compagni che sballano racconti di avventure favo-
lose fra i Sioux, nelle prairies dell'Ovest, alla caccia del bufalo. En-
trano a ricoverarsi alcuni paesani con pastrani grigi, capelli e barbe
prolisse, con certe canne di revolver nella cintura e certe vecchie ca-
rabine che mi puzzano d'aver buttato giù più d'un Yankee: hanno
tutta l'apparenza di superstiti dei guerillas di Mosby, che scorazza-
rono in questi paraggi. Li invitiamo a bere, e scambiamo cortesie.
Continuando il diluvio, ci avviamo alla masseria, ripromettendoci la
rivincita il giorno dopo.
Quale amaro disinganno. I cavalli sono attaccati e se non par-
tiamo immantinenti, si arrischia di non poter più attraversare il Bak
Creek, già gonfiato, e di rimanere bloccati a Shangai, Dio sa sino
a quando. Strette di mano frettolose, assalto ai furgoni e via. Nel Bak
Creek i cavalli hanno l'acqua sopra la pancia. Arriviamo dopo quat-
tro ore, indolenziti, fradici, affamati, alla locanda di Martinsburg
dove, dopo una cena succulenta, seduti intomo a un buon fuoco, non
invidiamo il comfort del Grand Hotel. Giunti qui jersera, sgattaio-
liamo mogi, a orecchie basse, ognuno al suo alloggio, in attesa delle
canzonature che ci aspettano dopo le smargiassate con cui preconiz-
zavano nei salotti un ritomo con la pelle dell'orso.
Io però sono contento della gita: mi diede occasione di vedere
paesi e costumi all'infuori dei consorzi cittadini, di apprezzau^, in
una delle forme più impressionanti, la ferrea volontà della razza. Il
ricordo di Shangai rimeirrà vivo nella mia mente quanto quello dei
centri popolosi. Non novera che una trentina di settlement^ con tre-
cento abitanti al più; ma cpiale mirabile esempio ci danno quei forti
che, sprezzanti degli agi, con attività instancabile, si affidano alla
terra per il ripristino delle fortune distrutte, per il progressivo incre-
mento della loro sorte. Nello stesso tempo la scuola raccoglie una
quarantina di ragazzi, e un d'essi, che interrogai, mi raccontò che vi
si insegna grammatica, storia, geografia, aritmetica. E tutti leggono
giornali, e stupii di sentire codesti rudi settlers più informati di me
degli affari del mio paese. Volessero solamente avere un concetto più
esatto di quanto promettono : secondo le lettere, che lessi, dovevamo
aspettarci di trovare preparativi grandiosi : e non avevano nemmeno
l'idea dell'arte venatoria.
Richmond, 20 febbraio 1867.
Questa sgraziata Vig^nia in che stato è ridotta : dal treno scorgo
alberi abbattuti, barriere frantumate, blookhouse abbandonati, avanzi
di trincee. Richmond, capitale dei Secessionisti durante la guerra, è
arsa a metà. I Confederati, quando furono costretti ad abbandonarla.
224 LETTERE A MIO PADRE DALL'AMERICA (1866-1867)
vi appiccarono il fuoco. I Federali, entrando, salvarono quanto me-
glio poterono dalle fìanune. Da ciò che rimane, dai monumenti in-
tatti, si capisce come fosse considerata una delle città più importanti
dell'Unione. Intanto, malgrado la sconfìtta, mantiene il carattere ri-
belle. I ritratti di Davis e di Lee, il presidente e il generale in capo
dtei Confederati, tengono nelle vetrine e per ogni dove, il posto occu-
pato dai ritratti di Lincoln e di Grant nelle città del Nord. Le signore
per le strade in gramaglie. Apro un giornale, è pieno di improperie
contro Sumner, e di insinuazioni contro Mrs. Sumner, per le sue
soirées frequentate dai bei giovani delle legazioni europee. Passa un
battaglione di uomini di colore e i bianchi scantonano e volgono il
viso, mentre i negri accorrono ad ammirarlo. Non v'ha modesto spet-
tacolo a cui non si affollino negri, ebri d'indipendenza; passo davanti
a una scuola di ragazze negre, recentemente istituita, e che urta ma-
ledettamente i nervi alla popolazione bianca. Ho lettere pel coman-
dante militare, un Federale, e per John Grining, un Sudista : natural-
mente mi affretto a presentarmi a quest'ultimo; in paese ribelle pre-
ferisco stare con i ribelli.
Mr. Grining mi conduce al cimitero, dove sono sepolti 20 mila
soldati confederati. Il vasto giardino, che lo fiancheggia, era il con-
vegno della società brillante di Richmond; eleganti carrozze vi por-
tavano cavalieri e dame che scendevano a passeggiarvi. Ora è de-
serto; mi mostrò la casa di Davis, e il quartiere generale di Lee, nella
parte eminente della città. Mi narrò particolari dell'assedio, quando
un bicchierino di wisky si pagava 7 dòllari, e come i Confederati,
stremati di gente, mandassero pattuglie per le strade a raccattare
vecchi e fanciulli, che vestivano e armavano e inviavano a riempire
gli enormi vuoti dei reggimenti che occupavano le tre cerchie di forti,
a 3, a 5, a 7 miglia dall'abitato. Ora il comandante Federale funge da
Governatore con poteri illimitati, e sebbene non sia proclamato lo
stato d'assedio, né la legge marziale, sebbene vi sia libertà di stampa,
l'autorità militare interviene e mette l'alto là quando le pare. Il mio
Cicerone loda però molto lo slancio umanitario con cui i Federali si
adoperarono a segnere gli incendi, accesi per cieca rabbia dai Con-
federati in fuga; grazie a tale pronto intervento, furono sottratti alla
distruzione interi quartieri.
Memphis, 23 febbraio 1867.
Un bello spirito, salutandomi a Washington, mi diceva : « An-
date incontro a uno dei più grandi pericoli del mondo; quattro giorni
di ferrovia americana». Non immaginavo che ciò fosse tanto giu-
sto : si cammina su rotaie messe giù alla meglio, malamente inchio-
date sulle traversine, poggiate sul terreno vergine, ora sassoso, ora
fangoso; non ombra di ballast. Si passano passerelle di legno che
sembra non possano sopportare il peso del convoglio, e quando meno
te lo aspetti ecco un ponte in ferro, solido e ben costrutto ; così quello
sul fiume Kanaliwa. Ben inteso si va adagio su un tale armamento.
Le carrozze però sono comode, e la notte non mancano mai gli slee-
ping con buoni letti. Dalla piattaforma del vagone di coda si gode a
bell'agio dello spettacolo del paesaggio e delle ondulazioni dei Monti
Allegany; delle colline e delle vallette sono molli e aggraziate; nu-
LETTERE A MIO PADRE DALL'AMERICA (1866-1867) 225
merosi i corsi d'acqua; boschi stupendi; c^mpa^e di mais e di avena
a perdita d'occhio. Una selva di aceri zuccariferi ferma la mia atten-
zione; a ogni fusto, all'altezza di un metro dal suolo, sono praticate
due incisioni : vi sono introdotte due cannule, e da quelle cola, nel
sottoposto bacino di legno, un umore dolcissimo, usato in luogo di
zucchero. Non so perchè non si importino in Italia, mentre attec-
chirebbero benissimo anche da noi.
Rovescio della medaglia: la malinconia delle macerie e delle
brutte catapecchie improvvisate; i milioni di metri cubi di legname
sciupati, abbandonati a terra a imputridire; la stancante monotonia
del panorama, per quanto ridente; quelle quercie colossali, quei ver-
deggianti pascoli sempre gli stessi; quelle eterne barriere a zigzag,
stancano gli occhi; quell'incessante muggito delle locomotive strazia
gli orecchi. Gossl mai si darebbe per un po' di varietà! Poi la valanga
di interrogazioni con cui ti assale chiunque salga sul treno appena
abbia fiutato l'europeo.
Scendo a Bristol, un villaggio, sebbene conti 15 mila abitanti,
per metà in Virginia, per metà nel Tenessee: la notte non una sola
lampada accesa, cosicché si arrischia di impigliarsi, senza speranza
di cavarsela, nella melma glutinosa. L'albergatore, un giovialone,
con un diluvio di chiacchiere contro gli Yankees, mi porge dei sigari
pessimi, e dichiara di non tenerne di buoni per pagar minor tributo
all'odiato Governo di Washington.
Me ne vengo giù a traverso gli Stati del Tenessee, della Georgia.
dell'Alabama, del Mississipì, toccando Knoxville, Cleveland, Ghat-
tanoga, immortalata dalle vittorie di Sheridan, Atene Corinto e altri
embrioni di borgate, decorati dì nomi pomposi. Finalmente ville e
giardini, in cui abbondano le magnolie, annunciano la vicinanza di
Memphis. Dopo tante solitudini, dopo quei luoghi di mediocre im-
portanza e poco seducenti, allarga il cuore il giungere in un centro
pieno di animazione, magnificamente situato sulle rive del Mississipì,
quale è Memphis.
Dalla finestra del Gayoso House, quasi interamente ristaurato,
ho la vista stupenda del fiume maestoso, degli immensi steamboats
che Jo solcano; su l'un d'essi un organo suona per forza di vapore,
onde stimulare i facchini che lo stanno caricando, e mette allegria.
Sul vasto piazzale del qtuii si accumulano merci di ogni sorta, sacchi
di grano, balle di cotone, attrezzi rurali, e brulica una folla di negri,
di gente d'ogni colore, di carri e di carriole. Tntt'intomo magazzini di
tutte le dimensioni. Uno dei più grandi è ridotto a caserma; le senti-
nelle, dal largo cappello piumato, rammentano ai vinti la sconfìtta : e
non sanno darsene pace. All'apparenza, contemplando l'attività che
regna al porto, non si direbbe che una guerra disastrosa abbia pas-
sato su questa contrada; eppure si asseriva che prima il commercio
fosse enormemente più intenso. Ma la posizione di Memphis è tede,
che è questione di pochi anni, forse di pochi mesi il ritornare all'an-
tica floridezza.
Sono andato al teatro; lo spettacolo era discreto, ma insopporta-
bili i fischi assordanti con cui il pubblico irrequieto esprime la sua
ammirazione. Le toilettes delle signore un po' troppo chiassose. Non
posso assistere al ballo che il proprietario dell'albergo dà ai suoi
226 LETTERE A MIO PADRE DALL'AMERICA (1866-1867)
ospiti; mi mostra i preparativi sfarzosi. Peccato! avrei tanto amato
assistere a un ballo di ribelli, dopo averne frequentati tanti dei trion-
fatori.
A bordo deAV Arthur sai MiaaiflBipi
27 febbraio 1867.
Ripiglio a bordo il filo delle chiacchiere interrogo a Memphis,
mentre stavo per salire in ferrovia. A mano a mano che il treno pro-
cede il clima si fa mite, sui rami germogliano le foglie, incominciano
i campi di cotóne. Faccio sosta a Jackson dove, fra le catapecchie di
legno, il Gapitol e la State House, in completo abbandono, attestano
soli che essS, fu la capitale dello Stato del Mississipì. Tentai l'ascen-
sione della cupola, ma c'era da romx)ersi l'osso del collo. Qui Sheri-
dan battè Jaw Johnson. Tutt'intomo il terreno è ancora seminato di
ossami, di scheletri, di cavalli, di schegge di bombe, di frantumi di
armi, di stracci; nel fondo della scena lugubre, in una trincea, giace
un'enorme cannone mezzo sepolto nel fango, a cui dei teschi fanno
orrenda corona. L'Hotel dove pransw, assai male, era il quartier ge-
nerale dei Confederati; fu arsa e si sta ricostruendo. L'oste, accerta-
tosi che io ero forastiero, si diffonde nei particolari dell'eccidio, nella
miseria della città che contava 4 mila abitanti, ora solo 2 mila e po-
veri. Mi attento di confortarlo, con l'argomento che in questi paesi
si fa presto a riaversi; egli crolla il capo, impreca agli Yankee, di-
spera di vedere rifiorire la sua Jackson, almeno per una generazione;
rimpiange il passato, quando col lavoro degli schiavi si raccoglieva
cotone a josa.
Impieghiamo 4 ore a percorrere le 45 miglia che ci separano da
Vicksburg, in un treno che fa balzi di caprioli, passando viadotti su
cavalietti, che mettono raccapriccio a guardarli. In fondo però co-
desti Americani, col loro sistema di andare alla spiccia, allacciano
con ferrovie gli angoli più reconditi del vasto territorio, né perciò
contano molti più disastri che da noi in Europa.
Il treno si ferma sulla sponda del Mississipì, di cui non si finisce
mai di amanirare l'impónente grandiosità. VicksbuiTg è una graziosa
cittadina, che ha già il fare del Sud; pare di essere in Sicilia, respi-
rando quest'aria balsamica. Le villette dei dintorni sorgono su mon-
ticelli e sono circondate di giardini, in cui predomina il lauro; il
tutto di assai vago aspetto. Fu assediata dalle truppe del generale
Grant. Un invalidò, ex Confederato, che incontro a caso, mi indica
le trincee che costarono più sangue, il punto dove Grant diede l'as-
salto finale, la lapide commemorativa che segna il posto dove Grant
accettò la resa del generale Pemberton. Mi mostra le tracce del ca-
nale iniziato da Grant per deviare il fiume, che fa un gomito intomo
a Vicksburg, onde obbligare la piazza a cedere, sull'esempio di Ciro
a Babilonia. Ma neppure la caparbietà dell'Yankee riuscì a superare
la spropositata difficoltà dell'impresa, e ei dovette accontentarsi di
attaccare i fortilizi con i mezzi usaìi dal comune dei mortali. Ac-
canto al luridume dei ricordi, l'accampamento dei Federali, con pu-
lite baracche, disposte in bell'ordine, orticelli curati amorosamente
dai soldati, e sulla fronte due cannoni moderni, montati su lucenti
affusti d'acciaio. Le sentinelle mi vietano l'entrata.
LETTERE A MIO PADRE DALL'AMERICA (1866-1867) 227
La più bella veduta di Viksburg la ho all'ultimo momento,
quando si salpa, dal ponte dello steamboat sul quale sono imbarcato.
È un paese galleggiante codesto mastodontico naviglio : vi sono am-
massati branchi di pecore, di maiali, di cavalli, di mule (ve ne sono
di bellissime;; balle di cotone, barili di wisky^ qucurti di lardo. Nella
prima classe, al piemo superiore, 104 letti nelle cabine collocate in-
torno al lussuoso salone, lungo 90 dei miei passi e largo 8, in cui,
all'occorrenza, si possono accomodare 100 altre cuccette. Lia parte
meglio addobbata è riservata esclusivamente al sesso gentile; ana-
tema al reprobo che non rispetta la clausura.
Per lungo tratto a valle, il re dei fiumi dell'America scorre fra
rive selvagge, coperte di fitte foreste, fra le quali appare raramente
una capanna da boscaioli. Si direbbe che unicamente gli steamboats
sieno degni di solcare le sue torbide acque : ne incontriamo a lunghi
intervalli; la notte, illuminati, sono di un'effetto fantastico; all'infuori
di essi mai vidi una sola barca: migliaia di anitre selvatiche si le-
vano quasi sotto le ruote per perdersi fra i giunchi e il folto, e danno
un po' di vita alla impressionante solitudine. A Grand Gulf un testi-
monio dell'azione, mi addita le alture donde i Confederati cannoneg-
giarono 15 cannoniere dell'ammiraglio Ferragut. Allo scalo di Nat-
chez, fra le tenebre, tizzoni resinosi accesi vestono di bagliori le teste
tignose, le membra di pece di diavoli che, al cenno imperioso di un
Belzebù bianco, a furia di schiamazzi, spingono a terra anime di
dannati incarnate nei corpi di montoni e di porci.
Guardando questa bolgia Dantesca, il pensiero corse a ricordare
con emozione gli eroi, che per fede ai principi, con ineffabile carità
cristiana, con sublime abnegazione, versarono fiumi di sangue, pro-
fusero sostanze, per emancipare simili esseri, abbrutiti non so se più
dallo staffile o dall'essere di razza inferiore. Mi domfindo se tali esseri
meritavano l'enorme sacrifizio. Mi domando se mai si riescirà a di-
rozzarli, a farne dei membri coscenti dei diritti e dei doveri dell'uomo
libero, come l'intendono i miei amici filantropi del Nord; se mai si
completerà l'opera di redenzione da loro intrapresa con imperturba-
bile fiducia. Bah! Mentre per poco non mi intenerisco, buttando giù
queste impressioni, quella brutta faccia di negro, che fa il servizio
della cabina, entra gesticolando da energumeno, mi si pianta din-
nanzi, e apre la bocca, con que' denti di morto, a un sorriso idiota,
interminabile, che mi invoglia a pigliarlo a pugni, e finisce col far
ridere fino alle lagrime anche me.
Ci accostiamo a una riva deserta a far legna; tanto i vapori sui
fiumi quanto le lecomotive in terra, si fermano a rifornirsi di com-
bustibile dalle cataste preparate in piena foresta; è meno costoso del
rifornimento nelle stazioni. A Bayon Sara si sbarcano le mule che ci
danno il divertimento di una corsa pazza giù per le praterie. Oltre
Baton Rouge, anticamente capitale della Luisiana, che già presenta
abitazioni dall'aspetto civilizzato, aggruppate intomo a un Gapitol
di. bizzarra architettura tutta a torrette, il paese assume poco a poco
carattere meridionale: le pianticelle di cotone si alternano con le
canne da zuccaro: appaiono palmeti e muse, e aranci e agrumi d'osmi
specie, in fiore: collages civettuoli con le verande; fattorie nascoste
fra il verde. Eccoci finalmente a Nuova Orleans.
228 LETTERE A MIO PADRE DALL'AMERICA (1866-1867)
Nuora Orleans, !<> marzo 1867.
Godo tanto il buon caldo, la vegetazione semitropicale, la gaiezza
degli abiti prima verili, la dolce sorpresa di assidermi al caffè in fac-
cia a un'aranciata, invece di ingoiare un cocktail, in piedi nel bar; di
guardare le signore in grande decolleté, da Bellànger, la Gonfisene
alla moda, in Ganal Street, prendere il gelato quando escono dal
teatro. Ma più di tutto godo mescolarmi alla folla giuliva, che san-
tifica la festa riversandosi per i giardini, per i resturants della città e
dei sobborghi, e eino a notte inoltrata fa il chiasso dai confettieri e
si diverte nei teatri. Ricordando la musoneria delle domeniche pro-
testanti, mi inchino a questi padri Gesuiti, che governano le coscenze
della massa cattolica, certo con sistemi non di nostro genio, ma le
permettono, dopo gli uffici nella chiesa sfarzosa, di sollevare aperta-
mente anima e corpo dalle fatiche della settimana. Questa è l'affer-
mazione più convincente della latinità della metropoli della Luisiana.
Venendo da quei centri annebbiati del Nord, Nuova Orleans, lumi-
nosa, festosa, arieggiata, mi fa l'impressione della più bella città che
abbia vista dacché toccai gli Stati. E ha di belle costruzioni : case in
pietra o in mattoni, con verande in ferro ben lavorate, sebbene un
po' pesanti, contrade ben lastricate, solcate da una rete di rotaie, su
cui scorrono carrozzoni dipinti con arabeschi all'uso dei veicoli del
secolo passato, tirati da un mulo. Una profusione di luce nelle strade,
nelle ampie e ricche botteghe, nelle spaziose pasticcerie che tengono
luogo dei nostri caffè.
Ganal Street, l'arteria principale, sta alla pari dei Gorsi più rino-
mati di molte capitali : nel mfezzo, da un capo all'altro, si stende un
vago tappeto erboso, adomo di piante variate; i marciapiedi sono po-
polati giorno e sera da moltitudine variopinta, allegra, che allarga il
cuore a guardarla. Jackson Square, pieno di aranci, di nespole del
Giappone, di muse, con fiori e frutti, ha nel mezzo la copia della
statua dfel generale Jackson esistente a Washington : è in atto di sa-
lutare i cittadini che lo ricevono festanti per la vittoria contro gli In-
glesi alla foce del Mississipì. La chiesa dei Gesuiti, su disegno di uno
dei Padri, vale poco. in fatto di architettura; il Gollegio che le sta ac-
canto è in stile moresco. Di architettura moresca è anche il Moresque
building, tutto in ferro, che occupa un'intero block, e fu costruito
da un'italiano, che fallì a metà dell'impresa. Vi si tiene oggi un ba-
zar di beneficenza a profìtto dei soldati ex Gonfederati. Le sigmore
venditrici, in generale nere di occhi e di capelli, molto eleganti, sono
coadiuvate da ex ufficiali, tra i quali distinguo il generale Hood, che
cammina con le grucce, per ferite riportate nel Tenessee, alla testa
del suo corpo d'esercito sudista. Vi vedo un buggy destinato ai figli
di Jefferson Davis, l'ex presidente dei ribelli. La Ristori vi declama
dei versi. Non conoscendo ancora nessuno, risjmrmio di essere prelato.
L'Hotel St. Charles, monumentale, è il ritrovo degli uomini di
affari e dei cavalieri d'industria del Sud. Il suo peristilio è una borsa,
e all'occasione vi si scambiano colpi di revolver. Non c'è da scher-
zare col sangue latino; permane la consuetudine del duello; gli scon-
tri hanno luogo alla spada, al fucile a due canne, e persino al col-
tello, e di solito a morte. Tre giorni or sono un marito sfidò un tale
che aveva insultato sua moglie; si batterono al fucile, spararono nello
LETTERE A MIO PADRE DALL'AMERICA (1866-1867) 229
stesso istante e caddero morti tutt'e due. Però ora si vanno calmando
i bollenti spiriti, forse per influenza degli Yankee, i quali tutfal più
si pic-chiano alla box. Io, per consiglio di conoscenti, discesi al tran-
quillo St. Louis Hotel.
Ritomai a rivedere il Mississipì, in compagnia di un compia-
cente Orleanese, per avere un po' contezza esatta dei siti, appena in-
travisti sbarcando. Egli mi spiegò che il suolo della città è in gran
parte sotto il livello del fiume, ciò che obbliga a scaricare le acque
delle fogne nel Icigo Pontchartrain, dall'altra parte della penisola, e
che si riversa nel mare! Quando il fiume si gonfia, malgrado i prov-
vedimenti precauzionali, i condotti alle volte si ostruiscono, e si
hanno parziali inondazioni. Il terreno poi in questi paraggi non è
solido; prova ne sia l'edificio della Dogana, fatto erigere dal generale
Beauregard, ostinato nella persuasione del contrario, il quale già si
affondò di 3 piedi.
Ricondottomi sulla spianata degli approdi, formata in parte di
terra riportata, in parte di assiti poggiati su piloni di legno, veden-
domi estatico dinanzi al mera\'iglioso spettacolo dell'immenso traf-
fico e degli innumerevoli steaniboats e steamer d'alto mare, allineati
ai guai, la mia guida assevera che il movimento attuale non dà che
una pallida idea di quello che era prima della guerra. Qui si accu-
mulano i prodotti principali del paese, cotone e zuccaro. La coltiva-
zione del cotone è per ora limitata alle fattorie dell'alta Luisiana,
mentre nella bassa si dovette rinunciarvi e accontentarsi della canna
da zuccaro, in causa di un bruco, che favorito dalla temperatura della
regione, infestava le piantagioni, penetrava nelle capsule, e distrug-
geva senza remissione l'intero raccolto. Il commercio perduto è
quello del tabacco. Tutti i noti tabacchi del Kentucky, scendevano a
a questo scalo, donde si distribuivano nel mondo intero. Gol blocco
del fiume gli e^xwrtatori in\'iarono i loro prodotti per ferrovia a New
York. Ancora sono legati ai capitalisti di quella metropoli per le
grosse somme loro avanzate, ma non v'ha dubbio che, superata la
crisi, il commercio del tabacco abbia a riprendere la via più eco-
nomica.
Nuova Orleans, 2 marzo 1867.
Canal Street divide la città in due parti distinte; all'Ovest i quar-
tieri degli Americani, laboriosi, dediti agli affari e ai traffici, hanno
già rifatto e disfatto fortune, hanno già riparato ai danni della guerra.
Dall'altro lato la famosa società creola, di origine francese, aristocra-
tica, orgogliosa dei suoi immensi latifondi, sui quali manteneva eser-
citi di schiavi, e menava vita da Sardanapali. La sua opulenza fu
terribilmente scossa per la emancipazione dei negri che lasciarono
le terre incolte. Possedendo essa il suolo, risorgerà, quando il lavoro
libero sarà assettato e darà anzi migliori frutti. Ma la concorrenza
degli Americani è ora formidabile, e diflBcilmente i creoli riprende-
ranno la primiera incontestata supranazia sociale. In seguito alla
vittoria del Nord i negri disertarono le piantagioni o ne furono tolti
a forza; ma la loro illusione di poter vivere senza faticare fu di corta
durata, e ritornano alle fattorie per naturale riflusso, indipendente-
mente da ogni ingerenza estranea.
230 LETTERE A MIO PADRE DALL'AMERICA (1866-1867)
Zelanti riformatori del Nord, co^ lodevole proposito di tutelare i
nuovi emancipati nei loro rapporti con gli antichi padroni, istitui-
rono il Freemens bureau. I negri dovevano iscriversi al bureau, dov©
il piantatore si sarebbe presentato a chiedere i lavoratori che gli oc-
correvano; il bureau glie ne forniva quanti ne voleva, riscuoteva le
paghe che versava al negro, vegliava all'esecuzione dei contratti.
Doveva poi soccorrere e curare i negri non ancora occupati, procu-
rare loro il modo di imparare le nozioni indispensabili per esercitare
scientemente il diritto di voto. Bellissimo prowedimehto in teoria;
nella pratica fallì. Impiegati rapaci intascavano i salari, lasciando
morire di fame i loro amiministrati, li facevano lavorare per proprio
conto senza compensarli; pigliavano regali dai padroni; tanto che il
FreemerCs bureau mette ancora spavento ai poveri negri al solo no-
minarlo. Né c'è da stupirsi, perchè anche i funzionari dello Stato,
magari nelle alte sfere della gerarchia, rubano e si fanno ricchi ves-
sando i contribuenti con sorprusi e angherie. Questo discorso mi te-
neva un socio al Club e te lo trascrivo non garantendo che non con-
tenga esagerazioni.
Io seguo il consiglio datomi da un'illustre scienziato : quando si
osserva un fenomeno notare i minimi particolari, aprendo occhi e
orecchi; non soffermarsi a formfulare giudizi e critiche; le deduzioni
si fanno dopo, ragionando nella calma del proprio gabinetto. E il
fenomeno che sto osservante sono gli Stati Uniti.
Debbo però dire, a onor del vero, che il mio informatore concluse
ammettendo che vi sono apostoli sinceri, degni del maggior rispetto,
che vengono dal Nord a impiantare scuole per la gente di colore con
buoni maestri, a predicare la buona novella con pazienza evangelica.
Raguagli precisi, perchè basati su esperienza personale, mi sono
fomiti dal sig. Forstall, il gran finanziere, che mi accoglie sempre
cordialmente nella sua splendida residenza. Il sig. Forstall, malgrado
i suoi 70 anni, conserva un'attività invidiabile, e una lucidità di spi
riti, che, data la profonda conoscenza delle condizioni del paese, pas-
sate e presenti, gli permette di argomentare sulle future. Prima della
guerra i suoi numerosi schiavi vivevano sotto un regime patriarcale;
ei provvedeva largamente al loro sostentamento, si occupava del loro
benessere; formavano una famiglia. In seguito all'invasione, i soldati
federali strapparono i negri dalle piantagioni per rompere le abitu^
dini dolla servitù, sì che molti di quei poveri diavoli, non usi alla
libertà, incapaci di sopperire ai bisogni della vita, morirono di stenti
e di malattie. Mi diede a leggere, a questo proposito, una lettera cu-
riosissima inviata da lui a Londra all'epoca della occupazione del ge-
nerale Buttler, in cui appunto descriveva le dure prove a cui era sot-
toposta la Luisiana. Ora quasi tutti i suoi vecchi servitori sono di
nuovo sulla piantagione, come liberi lavoratori. Per nulla al mondo
ritornerebbe al primiero sistema, mentre il capitale impiegato in
schiavi era enorme, sempre soggetto a deperimento, e il manteni-
mento di tutta quella gente richiedeva spese fortissime, e infinito tra-
vaglio. Ora paga i lavoranti un dollaro al giorno sotto forma di boni,
con i quali possono comperare cibo e vestiti nei magazzeni impian-
tati sulla piantagione. Alla fine della settimana saldano i conti. Non
trova gran differenza fra la quantità di lavoro prodotta dal negro e
LETTERE A MIO PADRE DALL'AMERICA (1866-1867) 231
quella di un bianco. Anche fra i negri si incontrano quelli che spen-
dono quanto guadagnano e quelli che mettono da parte : ma lo stesso
avveniva quando erano schiavi. Il sig. Forstall insiste poi cortese-
mente perchè, io lo segna a vedere le sue culture, il funzionamento
delle macchine, l'impianto modernissimo per la raffinazione dello
zuccaro nella sua tenuta, ben nota per essere una delle più estese
della Luisiana, e per la larga ospitalità che vi si offre.
Con la parola misurata del sig. Forstall, fa singolare contrasto la
foga passionale dei g-iovani, che prorompe impetuosa appena si toc-
chi il tasto della politica, dovunque io mi incontri, al Club, nei caffè,
nei convegni mondani. Alla serata di Madame Segnin, figlia del
sig. Peychot, mi si raccolse intomo un gruppo di uomini ai quali non
pareva vero di versare in seno a un Europeo la piena del risentimento
che ribolle nei petti dei sudisti.
Ci siamo sottomessi in buona fede, abbiamo accettato la condi-
zione di vinti, e non ci ribelleremo più; malgrado gli insulti continui,
dopo la sottomissione non s'ebbe mai l'ombra di un tentativo di ri-
prendere la guerra, né ne avremmo i mezzi dacché ci hanno tolte le
armi e hanno devastato le nostre campagne. La schiavitù è caduta;
più tra noi nessuno la vorrebbe rialzata. La crisi è stata violenta, ma
ora che l'amputazione è fatta ce ne troviamo bene, e apprezziamo i
vantaggi del lavoro libero. Ora abbiamo bisogno di pace, di indip)en-
denza per risorgere, far rifiorire il pciese a profìtto, non solo nostro,
ma dell'Unione intera. E invece con ogni sorta di angherie ci impe-
discono di ricostituirci; con odiosi balzelli opprimono il commercio
che tenta di riavviarsi. Ci tengono sul collo generali e giudici, dai po-
teri indefiniti, superiori alle leggi, che senza un'avviso, senza pro-
cessi, ci tolgono le sostanze o ci cacciano in prigione. Con qual cuore
possiamo accingerci a coltivare il nostro suolo, quando l'autorità di
un soldato può sequestrarcelo, sotto pretesto di farci scontare una
colpa, spesso immaginaria, cormnessa anni sono contro la Maestà del-
lUnione? Vogliono una garanzia sicura della nostra tranquillità,
prima di sollevarci dall'incubo di questo stato insopportabile, ma
quale maggior garanzia della nostra deboleziza e dell'abolizione della
schiavitù? L'unica cosa alla quale non ci sottometteremo mai e p)0i
mai, è di avere equiparati a noi i negri nel diritto al voto. Ci vogliono
imporre 4 milioni di elettori, esseri inferiori, che in certe località
sono in una maggioranza schiacciante, nostri nemici, che si distri-
buiscono le cariche al solo scopo di vendicarsi, senza capacità di
sorta. Vengano codesti signori Yankee a vedere quale razza di idioti
ci vogliono dare a compagni nel reggere i nostri destini. Sieno istruiti,
fatti degni della cittadinanza americana, e li accetteremo; ora sarebbe
un abbrutirci il mischiarsi con loro. E per questa loro pretesa assurda
hanno sospeso il diritto di voto a noi, vogliono ridurci a territorio;
per questo ci mantengono sotto legge più barbara che quella della
Russia, la legge dell'arbitrio. La Legislatura dello Stato siede, deli-
bera, ma il generale Sheridan, comandante militare in Luisiana, con
un cenno, quando gli pare, sospende l'esecuzione dei decreti e delle
leggi da essa emanate.
Né le queremonie di questi signori mancano di fondamento, La
Tribune, il giornale radicale di New Orleans, gongola perchè nelle
232 LETTERE A MIO PADRE DALL'AMERICA (1866-1867)
due Camere a Washington, è stato approvato a grande maggioranza,
malgrado l'opposizione del Presidente, un bill proposto da Sherman,
di cui ho sottocchio il testo, Ck)n esso si dà ai Ck)mandanti militari,
negli Stati ex ribelli, diritto di vita e di morte sulle persone, di se-
questro dei beni, a discrezione del loro criterio; facoltà di nominare
e di cassare magistrati, incarico di costituire le Commissioni che do-
vranno compilare le liste elettorali sul programma del voto uni-
versale senza riguardo a colore. Le elezioni avranno luogo proba-
bilmente fra poche settimane; vi sarà scam^bio di revolverate fra bian-
chi e neri, un po' di massacro, come se ne ebbe l'esempio il 30 luglio
scorso di infausta memoria. Et voila!
Nuora Orleans, 3 marso 1867.
Mi sono alzato alle 5 per andare al mercato sulle sponde del Mis-
sissipì, dalla parte francese. Sotto enormi tettoie sono messi in ven-
dita grappoloni di bananes, aranci e castagne provenienti dall'Italia,
nespole del Giappone, ananas, cocco, erbaggi, fiori, carni, pesci. Fa-
miglie di indiani Chacas, venuti dalle rive del lago Poutchartrain,
accoccolati, indolenti, luridi, vendono erbe, polvere verde, che non
so cosa sia, canestri di loro fabbricazione; in mezzo a tanto ben di
Dio, pa-ssano le cuoche negre, la testa avvolta in fazzoletti sgargianti;
è una ridda di colori, un caleidoscopio dei più divertenti.
Pigliai poi il car senza stella (il car contradistinto della stella è
per i negri) e feci una giratina nel 4° Distretto, fra i collages e gli
ameni giardini, dove i ricchi americani godono gli agi domestici,
dopo aver sbrigato gli affari in Carondelet Street. Arrivo quindi al-
l'appuntamento con il nostro Console Samminiatelli, che mi portava
al Gockpit a vedere i combattimenti dei galli. Assistemmo a 3 scontri;
due campioni rimasero sul terreno; un terzo fu ritirato moribondo.
Sotto una tettoia, intorno al piccolo circo, prendono posto gli spet-
tatori, seduti su gradini a anfiteatro. I galli vengono pesati, indi pre-
sentati al pubblico dai due iraineurs, e appena sono messi di fronte,
incominciano le scommesse, che si incrociano in francese, in spa-
gnolo, fra grida e incitamenti e bravo sino quasi alla fine della lotta,
quando si propone 20 a i; si vide in fatti il caso di galli, che nell'a-
gonia, diedero un colpo di sprone al, cuore dell'avversario, sicuro
della vittoria, e lo stesero morto. Quelle ardite bestiole si azzuffano
con accanimento, ma nello stesso tempo con maestria; si osservano,
si inseguono, si evitano, si attaccano col becco alla cresta del rivale,
e ritti sulle zampe gli ficcano lo sprone nel petto e nel collo. Negli
intermezzi fra gli attacchi i iraineurs spruzzano d'acqua le ferite,
asciugano il sangue, li accarezzano : il combattimento finisce quando
uno dei campioni rimane ucciso o colle zampe all'aria. Dietro le gra-
dinate vi è un po' di rouletle, un po' di dadi, tanto per far passare
il tempo fra un duello e l'altro. Il sito è bem pieno di canaglia. Non vi
erano inglesi perchè domenica.
Saliamo uscendo dal pit, sulla ferrovia che ci porta sulla riva
del lago Pontchartrain, a traverso una palude, ingombra di latanie e
di piante acxfuatiche; nelle sue acque pullulano ogni sorta di animali
curiosi, bull frog ossia rane enormi, allicratori : di questo ho la prova
perchè il signor Rieu mi procurò delle pelli; un pesce, il grognard,
LETTERE A MIO PADRE DALL'AMERIC\ (1866-1867) 233
mette il muso a galla e manda un grugnito; ne assaggiai le carni
al Restaurant, come dicono qui, di Bondro, ma non udii il grugnito.
Sulla riva opposta, in mezzo a una folta boscaglia, mi si addita la
casa di un tale Rocchi di Saronno, che ha fatto moneta, e che poi in-
contrai con un altro dei nostri, pur in \'ia di far quattrini, un Campi-
glio di Comabbio. Nei creek del lago si raccolgono le migliaia di
piedi cubi di conchigliette, che rimpiazzano vantaggiosamente la
ghiaia per le strade, per il macadarn, per i \*iali pubblici e dei giar-
dini, giacché non si trova un solo sassolino nei dintorni di Nuova
Orleans. Le conchiglie più grosse si cuociono nei forni per calce. Le
pietre per costruzione e pel lastrico vengono per acqua da lontano.
Finiamo a pranzare da Victor, uno dei tanti Restaurant francesi,
che con Moreau, il St. Charles, il Cosmpolitan, il Pélérin, si dispu-
tano la clientela dei ghiottoni : vi si gustano squisiti pesci del Missis-
sipì, il sheephead^ in francese cassecurbot, il pesce rosso, e il preli-
bato pmnbalot, raro in questa stagione. Non troviamo più posto al
St. Charles Theatre dove si dava il Faust, essendo domenica, e dopo
avere discusso, filando pel Corso, e titubato fra le farse dell'Olimpie
Music Hall, il Rip Van Winkle al Variety, VOrphée aitx Enfers in te-
desco al National Theatre, concludiamo con l'adagiarci pigramente a
un tavolino da Bellanger ad adocchiare le belle creole.
E per chiudere allegramente, ti racconto il casetto umoristico
che m'è capitato. Mi ero accorto che signore e ragazze volgevano mar-
catamente la faccia se appena le guardavo, e nei car mi volgevano
addirittura le spalle con aria di sprezzo; mentre in generale le Ame-
ricane non sdegnano di essere ammirate. Ebbi la spiegazione dell'e-
nigma, che avevo tentato invano di sciogliere e che mi seccava, da
un conoscente al quale amiche sue chiesero se ero un ufficiale fede-
rale, perchè indossavo un completo bleu scuro. Mi affrettai a mutare
d'abito, e fui immantinente ricomfpensato con occhiate meno ostili.
Nuova Orleans, 5 marzo 1867.
La corporazione dei pompieri è tutto ciò che v'ha di più popo-
lare nella Luisiana. Vive di volontari da ogni ceto di cittadini. I gio-
vani delle famiglie più distinte si inscrivono in una delle compagnie,
e prestano servizio attivo, almeno per qualche anno, rimanendo poi
soci onorari; vi si preparano sino da ragazzi giocando al pompiere,
come da noi si gioca al soldato. Si insinua che vi sia chi fa il pom-
piere per schivare di andare giurato, pagando la multa quando man-
chi all'appello per accorrere al fuoco; tutto il mondo è paese. Ieri,
4 marzo, si solennizzò con gran pompa l'anniversario della costitu-
zione del Corpo, considerato festa nazionale.
Già di buon mattino le vie per cui deve passare la processione
sono zeppe di gente; le verande sono gremite di brillanti signore. La
colonna si formò in Canal Street e si mise in marcia verso le li. Alla
testa il Gran Marshal con i suoi aiutanti, a cavallo, in abito borghese,
cinti di sciarpe azzurre. S^uivano le 24 compagnie, precedute
c^Tiuna dal Ghief Engineer a cavallo, dal banderiale con lo sten-
dardo e da una banda musicale; i pompieri attaccati a una corda trai-
navano la caldaia, la scala e la pompa; il costume semplice; panta-
loni neri, camicie di lana rossa, o bianca o bleu ricamata, larga cin-
Ig Voi. OCSVI, serie VI — 1* febbraio 1922.
*234 LETTERE A MIO PADRE DALL'AMERICA (1866-1867)
tura di cuoio, elmo di corame nero, e scudi e numeri e motti che di-
stinguono le Compagnie. I foreìrien, o sergenti, in elmo bianco, I ca-
valli, bellissime bestie del Kentucky, camminano liberi a fianco dei
pompieri, che hanno una speciale predilezione per questi loro com»-
pagni di fatiche. Le macchine, un prodigio di perfezione, di solidità
e di leggerezza. Durante il tragitto fu segnalato un incendio nel 3**
Distretto; la colonna si fermò; la Ciompagnia cui incombeva l'accor-
rere, in un lampo si staccava dalle file, e arrivava sul posto. Spento
in pochi minuti il focherello, rientrava nei ranghi, e riprendeva la
marcia. Alle tre la funzione era finita; e i pompieri, riposti arnesi e
cavalli, si riunivano a fraterno banchetto con i rappresentanti delle
Corporazioni di Mobile e d'altre città del Sud, recatesi alla Metro-
poli per l'occasione.
Essendo oggi martedì grasso, gran baraonda di mascherotti per-
corrono le vie. Solo la mascherata di questa sera è decorosa e comr
binata con humour: il «Trionfo di Epicuro», rappresentato 'da un
corteo di vivande che, in proporzioni colossali, imitavano artistica-
mente le portate usuali.
Ti cito questa nmscherata, che non ha in sé nulla di particolare,
per venire ai membri che si nascondono sotto. Nessuno sa chi siano:
appartengono alla Mistic Crew, una società misteriosa, di cui l'esi-
stenza si manifesta con questi trattenimenti popolari, e con le feste
da ballo pel mondo elegante, che sono il gran successo della sta-
gione. Gli inviti sono diramati dalla Mistic Crew senz'altra firma, e
sono ambiti dalle più nobili gentildonne. Sotto la stessa forma ano-
nima, venti cavalieri sono pregati, e se ne vantano, di fare gli onori
nel ritrovo prescelto, dalle sale addobbate con sfarzo principesco,
e dove è imbandita una cena squisita. Posso far fede della segretezza
assoluta della provenienza dei biglietti, pel fatto, e me ne dispiacque
tanto, che personaggi influenti invano tentarono di farmi ottenere
una carta d'entrata al ballo di stasera della Mistic Crew nel Variety
Theatre; a quanti si indirizzarono tutti protestarono di non saperne
nulla, A dir vero codesta manìa del mistero mi ha un'aria un po' fan-
ciullesca. Si può scusare con la non infondata supposizione che scopo
del Sodalizio sia la beneficenza, e che le persone che lo compongono,
indubbiamente facoltose, amino distribuire i soccorsi sotto il velo del
più stretto incognito.
8 marzo.
Il tempo ha voluto mostrarmi di avere anche qui i suoi momenti
di cattivo umore; da tre giorni piove e fa freddo. Domani il Mari-
posa, la farfalla, mi porterà sulle sue ali a Cuba, la perla delle An-
tille, al palse del sole, fra le foreste imbalsamate, e dove la schia
vitù è ancx)ra in fiore,
Giulio Adamou.
IL VILLAGGIO DEL PARIMI
E IL POETA ALESSANDRO ARNABOLDI
Lucido, ceruleo lago quello di Pusiano nella Brianza, la dolce
regione un giorno di moda nel bel mondo milanese. È il «vago
Èupili mio » del Panni. Chiuso « in sì breve sponda » ci raccoglie a
meditazione tranquilla. Oltre il grande poeta del Giorno, altri poeti
lombardi lo cantarono: Giulio Carcano, Samuele Biava, Alessandro
Ameboidi.
Nel Journal d'Italie (ripubblicato nel 1911 con pagine inedite)
lo Stendhal sogna di vivere sul lago di Pusiano. Censura la villa
che il generale napoleonico Pino s'era ivi costrutta, e parla di vol-
gari avventure e gite lacustri in barca.
Un lembo dei monti della Valsassina, donde originò la famiglia
feudataria del Manzoni, incornicia da un lato il lago: dagli altri,
« colli beati e placidi » la cingono con « dolcissimo, insensibil pen-
dio». I versi del Parini, che, nato sulla verde collina di Bosisio,
t-agnato dall'Èupili, bramava di finire in Bosisio natia, le ultime
«ore fugaci e meste» ci spuntano sulle labbra a ogni passo, e illu-
strano il paesaggio ridente e gentile. A ogni passo è un quadro. Si
direbbe, quasi, che qui sarebbe dovuto nascere un poeta mite e cam-
pestre, persino un arcade, non quel terribile censore di costumi.
Sul lago, sembra aleggiare una melodia di pace; dal rustico abituro
(oggi monumento nazionale) dove nacque all'immortalità Giuseppe
Parini, sembra raggiare una luce di gloria.
La camera dove si dice egli sia nato, è ampia, ha tarlati travi-
celli, consunto impiantito, e una sola finestra, piccola, verso una
scena lieta di verzura. Le nude pareti, colorite, non certo da molti
anni, in una tinta caffè e latte, recano i nomi di numerosi visi-
tatori e visitatrici: e qualche pensiero volgare e qualche altro che
vorrebbe essere profondo perchè è oscuro. Un letto di ferro indica
che la camera è abitata. Da chi?... Da contadine di Bosisio.
La prima volta che visitai la casa del poeta, cadeva la sera. Sul
cieio d'ottobre nuvole fantastiche ardevano agli ultimi bagliori del
tramonto. Le qu^^oie secolari fremevaiK) e il lago rabbrividiva al-
l'aura pungente. Campane vicine e campane lontane suonavan VAve
[Maria, che, su altri coli, sugli Euganei, aveva un giorno commossa
l'intorbidata anima d'un bardo peccatore: lord Byron. Nella casa
del Parini, si v'edeva oscillarle qualche lume. E un bambino saliva
quella rustica scala donde il Parini, fanciullo, scendeva per guidare
forse qualche armento del i>adre.
236 IL VILLAGGIO DEL PARINI E IL POETA ALESSANDRO ABNABOLDI
Francesco Reina, nella nota biografica che comjpose al domani
della morte del suo celebre amico-poeta, lo dice nato da genitori
civili. Alessandono Amaboldi (del quale ora intendo parlare) in \ina
lettera, tuttora inedita, died 1879, a Bernardino Zendrini, che lo ri-
chiedva di notizie sul villaggio e sui parenti del cantore del Giorno,
porg«iva invece notizia opposta; notizia attinta appunto là, a Bo-
sisdo, dov'egli, l'austero, nobile poeta milanese dimorava più mesi
dell'anno, accanto appunto a quella casa, a quel rustico santuario,
ch'egli adorava. '
È un brano di lettera che non manca di qualche comicità :
« Quantunque il Parini, nell'atto di nascita, appaja figlio d'uir
ìnesser Prancesco e d'una signora Angiola, padre e madre erano con-
tadini: un po' più civili degli altri, ma contadini. Anzi, un vecchietto
mi diceva, molti anni or sono, ohe da quanto gli era stato detto da
un suo parente assai più anziano di lui, il Parini fanciullo avrebbe
condotta al pascolo la vaccherella, al pari degli altri contadinelli.
« Quegli, ohe abita ora la casetta deil Parini, qui, a Bosisio, e
ne è anche il proprietario, faceva il sarto; ma adesso, avendo toccati
gli ottant'anni, e trovandosi indebolito nella vista, si è messo a ven-
dere pane e acquavite. Fu mio collega nella Giimta municipale di
qui, e chiamasi Gerolamo Appiani; ma non è parente del jnitore
delle Grazie, che nacque a Milano: la famiglia di Andrea Appiani
era però anch'essa di BoeàLsio.
« Chi domandasse all'ex sarto, ed ora panivendolo ed acquavi-
taio, ohe cosa abbia fatto il Parini di bello, non avrebbe altra ri-
sposta se non che il Parini era una gran crappa (testa). A malgrado
di ciò, l'Appiani prova una certa soddisfazione, quasi un senso di
vanità, neH"abitame la casa, ed ha piacere che alcuno venga a vi-
sitarla.
« Dalla casuccia d'ondfe il Parini usciva per recarsi a Milano
a^gli studii e alla gloria, esce adèsso, nei giorni di festa, qualche vil-
lanzone, oc^li occhi imbambolati, •colle gambe malferme e col cer-
vello pieno dei fumi della grappa del signor Appiani, a vociare per
le vie, ed anche a regalare gli amici di qualche colpo di falcetto.
« Sopra l'uscio d'ingresso della casupola v'ha una piccola lapide
nera, mezzo nascosta adesso da due file di vite, sulla quale l^geei :
Giuseppe Parini
nacque in questa casa
IL 23 MAGGIO 1729
« Venne posta dalla Gommisione che curò, nel 1847, l'erezione
del modesto monumento che si vede all'ingresso dèi paese arrivando
da Lecco. L'Appiani non voleva dapprima ohe fosse infissa nel muro :
temeva ohe alla sua casa s'imponesse una servitù, e s'era offerto,
quando la lapide fosse stata affkiata a lui, di calarla con una cordi-
cella da un loggiatello soprastante aU\iscio, ogni qualvolta che ne
fosse richiesto dalla Commissione o dall'ammiimstTazione comunale.
La cosa era un po' buìÌTa, e ci volle non piccolo spondio d'eloquenza
per indurre il buon uomo a migliore consiglio » .
« Se in qualche biografia. Ella leggesse che il Parini nacque
il 22 magg'io, l'indicazione è inesatta. Credo di farle cosa grata
IL VILLAGGIO DEL PARINI E IL POETA ALESSANDRO ARNABOLDI 237
mandandole copia dell'atto di nascita, del Panni, tratto dai registri
della parrocchia. L'ho copiato con tutti gii errori di scritturazione
perchè serbi il carattere dell'originale».
Ben altra liscrizione che magnanimi lombardi, preparatoli delle
Cinque Giornate, avevano scelta i>er Giusetppe Parini, nel 1847,
quando si recarono a Bosisio per inaugurarvi quel monumentino
al poeta, che ai loro cuori frementi, in quella vigilia di magnifiche
audacie, sembrava il poeta delle loro ribellioni, il loro nume fami-
gliare! Essi intrec^^iarono, dinanzi all'abituro del Parini, mazzolini
di fiori tricolori; pronunciarono discorsi, che non velavano la fìamjma
dei cuori presaghi del domani. E un giovane ventenne, Alessandro
Arnaboldi, recitava suoi versi, applauditi in quel mc«n©nto, che, au-
spice il cantore del Giorno, sembrava aprire un'era nuova di di-
gnità civile.
I versi andarono smarriti : non li trovo fra le molte carte lasciate
dall'Amaboldi; ma la bell'epigrafe fu conservata:
A Giti SEPPE Parini — gloria dell'ingegno lombardo — che nuovi sentieri
aprì all'italica poesia — e la fé' potente interprete — d'alti pensieri e di sde-
gni magnanimi — 'derisor sublime dei fiacchi costumi — banditor sincero delle
verità più utili — maestro d'uno stile pellegrino temprato — che obbedisce
al concetto e gli cresce energia — alcuni estimatori — perchè qpi dove povera-
mente nacque — e primo s'L^rò al riso — di ciek> m lieto — abbia il nome
di lui perenne ossequio — P. nel mdcccxlvii.
L'epigrafe era dettata da Achille Mauri, l'educatore lombardo,
patriota della vigilia, unito a Cesare Correnti, a Giulio Carcano, a
Carlo Tenca, a Cesare Giulini, e s^retario del Governo provvisorio
nel '48, morto senatore del regno a Pisa nel 1883.
Achille Mauri si strinse da quel giorno memorabile in calda
amicizia con Alessandro Arnaboldi.
*
II giovane ventenne, ohe nel 1847 leggeva quei versi in omaggio
al Parini, si serbò per tutta la vita devoto al culto del suo poeta.
L'abitare così di frequente sul lago caro al Parini e proprio accanto
alla casa nativa di lui; il calcare di continuo quei colli vitiferi, se
non la « bella innocenza » che « di fior singhirlanda il crin » alimen-
tarono, anch'essi, quel profondo sentimento che divenne religione in
Alessandro Arnaboldi. Questi fu uno degli uomini più dotati di
tempra religiosa ch'io abbia conosciuto: non parlo di religione cat-
tolica o cristiana propriamente detta; parlo della reverenza profonda
ch'egli sentiva per ogni antichità, per l'arte, per ogni bellezza della
Natura © del Genio, per ogni grandiosa austera memoria dell'uma-
nità.
Quando ritornava al suo Bosisio da Milano (dove per volere del
padre era segretario al municipio) egli col suo passo grave e lento,
andava ad abbracciare subito antichissime querele, come ossequioso
nipote corre ad abbracciare gli avi venerandi che lo aspettano. La
sua stessa poesia ritiene di quel suo gesto, quasi direi, sacerdotale:
sono un tempio, per lui, la Natura, il mondo; è altare la vita. In
fondo, egli è un panteista, e, per questo, egli prediligeva, sopratutti
238 IL VILLAGGIO DEL PARINI E IL POETA ALESSANDRO ARNABOLDI
i poeti, gli antichi e il Goethe, che animia veramente tutta la Natura^
e grida : Vieni, o anima universale; ci comtpenetra!
Koman, Weltseele, ims zu durchdnngenj
A Voi fango Goethe, rAmaboldi consacrò un carme reverente :
...., La Natura e l'Arte
Gii eran numi supremi ; e, quante volte
In dilette persone il percotea
Irreparabil la sventura, un novo
Da que' suoi numi egli attingea vigore
Onde il turbato cor non si tradisse
Nel cospetto del mondo, e al par di prima
Fattio tranquillo assecondasse i voli
Luminosi del genio. Insigne ei quindi
Fra le genti apparia dell'infinita
Serenità, che riposava in fronte
All'olimpico Giove...
Il quale non si consumava, sublime meteora, per illuminare gli
altri; consumava gli altri, le anime femminili che lo amavano, per
illoiminare se stesso. Federica Brion, rinnamonata giovanetta, subì
anch'essa in lagrime il suo abbandono, e perdonò. L'Arnaboldi è
mirabile quando, nel carme, parla di Federica, di quell'amore e di
quell'abbandono.
Volfango Goethe conta, per la tecnica, fra i più notevoli versa
di Alessandtro Arnaboldi. E Versi s'intitola apimnto il volume che
gli diiè fama, nel 1872, e per il quale Francesco Dall'Ongaro, che
avea arriso a Giovanni Verga, giovane autore della patetica Storia
d'una capinera, prodigò pronti elogi. E, con lui, altri poeti non in-
vidi, e critici non di bassa corte, specialmente lombardi, salutarono
in Alessandro Arnaboldi «e un nuovo poeta » fedele alle tradizioni
claissiche, ma ardito nello sc^liere temi moderni, che non si sareb-
bero detti fecondi di poesia. Tra questi : Le banche popolari,, di cui
tanto si parlava prima dei '70 mei^cè l'apostolato dello Schulze-Delitz,
propagato dalla fervida parola di Luigi Lurzatti fra noi. Epqpure,
r Arnaboldi, fa scattar dalla selce la scintilla. Eigli penetra, in quel
canto, nelle ombre della vita operaia più dura, e intravede la ri-
scossa dei lavoratori, il conflitto civile, le barricate, il sangue fra-
temo:
Ma... delirio! Ogni via già s'asserraglia!
Già nerbo a rei furori
Ahi! ministran le picche ed i fucili.
Siccome urlìo di demoniaci cori,
! Già ^'ode imperversar dai campanili
|La scellerata social battaglia!
Sono imbelli preghiere
Gementi all'ombra di riposte stanee
E fumea di cai-tucce, è tuono, è schianto,
£) sparpagliato tempestar di paglia!
Son bramiti di fiere!...
IL VILLAGGIO DEL PARINI E IL POETA ALESSANDRO ARNABOLDI 2B9
L#a canzone è del 1865, si noti. Il Comunismo dell' Aleardi è
del 1859. Ricordiamo queste date per la storia della poesia sovver-
siva che non è scritta ancora.
E ricordiamo anche La filandaia dello stesso Amaboldi, che data
dal 1873; pietosa elegia per ima operaia giovinetta consunta dal tra-
vag^lio patito in un setificio:
Innanzi l'alba.
Si lasciava lontan già molta tratta
Il paterno tugurio, e non redìa
Che al freddo raggio de le stelle. Poco
Rame era il prezzo de la sua fatica.
State e inverno ogni dì per sette e sette
Ore durata. Tra gli estivi ardori
Ne' suoi caldi vapor la rawolgea
La bacinella. Quando cielo e terra
Distinguer le impedia nebbia profonda,
Per lo tristo cammin l'aura notturna
L'alito le mozzava e a lunghe coree
La sospingea. Misero il cibo e scarsa
La misura del sonno.
E tutto il resto è pure commovente. Si pensa a Silvia del Leo-
pardi, Ma la cara fanciulla di Recanati che « all'opre femminili in-
tenta » faceva risonare « le vie d'intorno » al suo « perpetuo canto »
cade spenta dalla crudeltà della Natura; la filandaia del poeta lom-
bardo cade spenta dalla crudeltà degli uomini.
A la durezza umana^
Che da le rócche edgnorili è scesa *
Tra le ruote e il fragor de l'opificio.
Se pietà non ha voce, almen contrasti
Sapienza, che vede il repentino
Intristirsi dei sangui . . ,
E il poeta si domanda:
Dove sono omai
Le colligiano di che il mio Parini
Cantava i fianchi baldanzosi e il volto
Tra il bruno e il rubico^ndo? Ove vi è dato
La bellezza mirar casta e serena
D'una Lucìa?
Ben altra era la setajuola Maddalena, che lo Stendhal del Jour-
nal (Tltalie trovò sulle vìxe del lago di Pusiano!
A Pusiano, sulla riva settentrionale del lago, un palazzo ap-
parteneva al libertino e mercante di granaglie arciduca Ferdinando
d'Austria, figlio di Maria Teresa; e quel palazzo fu poi tramutato
in filanda. Ma altre filande s'incontrano nei dintorni. L' Amaboldi
non poetava quindi di maniera; poetava dal vero, come quel Tom-
maso Hood, il cui Canto della carmcia commossie a' suoi giorni l'In-
240 IL VILLAGGIO DEL PARINI E IL POETA ALESSANDRO ARNABOLDI
ghilterra e fece aumentare la miseranda mercede delle povere cuci-
trici. L'Amaboldi tradusse, da. Roberto Browning, dal Goldierige, dal
Keats, e da altri poeti inglesi : e si provò a volgere in italiano anche
quel canto di rivendicazione della camicia.
•
Sempre elevati il pensiero, il sentimento e il discorso poetico
dell' Arnaboldi. L'erudizione s'insimia sin troppo nella lirica, che
manca di slancio, d'impeto, talvolta dii apparente calore; ma sempre
s'aggira in una sfera eletta.
Un amore delicatissimo, occulto per utkl dama che ancor vive,
amore soffocato per la tema d'essere respinto, ispira al solitario poeta
le Memorie, donde emana un profumo di gentilezza suprema. Ma
quando la frase può essere non squisita se il sentimento è squisito?
Una reliquia di Molière (un osso del grandissimo commedio-
grafo conservato nel museo di Cluny a Parigi) si collega, con un filo
psicologico, alle Memorie. Anche il Molière amò 'invano; amò Ar-
manda Béjart; ed è verosimile che, senza quell'amore infelice, non
avremo Le Misanthrope.
Nella accarezzata ode saffica alla Musa, che chiude il volume
dei Versi, il poeta ramamenta:
Molto scoprii della beltà pensosa
Negli sguardi cileetri e nel cinabro
Che natio sulla morbida si posa
Linea d'un labro.
Ma noi non vediamo di codeste intime scoperte le traccie, nem-
men nel seoond£> volume, Nuovi versi, apparso anch'esso a Milano,
ma sedici anni dopo del primo. Troppo gelosa e pudica quell'indole
per dire tutto; proprio al rovescio di tanti poeti, che dicono troppo. Ma
c'est ton mética-, misérable pòete,
deplora Alfredo de Musset,
c'est ton métier de faire de ton àme
Une prostituée....
Tout demande sans cesse à sortir de ton coeur!
Ah, non tutti dicono come il Verdi : « Le miie gioie e i miei dolori
me li sono sempre tenuti per me ».
•
• •
L'Amaboldi, quando Lasciò per sempre il posto di segretario nel
Municipio di Milano, dove componeva per il sindaco Giulio Bellin-
zaghi, forte banchiere, ma non forte letterato... quei discorsi ufficiali
per solenni occasioni civili, che restano modelli del genere, diede la
più bella rifiatata. Addio per sempre o protocollate posizioni! o
emarginale note! o atti evasi! o incartamenti sospesi! o vidimazioni!...
L'Amaboldi sd rifugiò a Bosisio, e là distribuiva ogni mese tutta la
propria pensione ai contadini più bisognosi, «con quel tacere pu-
dico » che anco le rustiche nature possono apprezzare... qualche volta.»
k
IL VILLAGGIO DEL PARINI E IL POETA ALESSANDRO ARNABOLDI 241
E, assetato, sempre assetato di grandiose memorie classiche, im-
prese solo soletto un lungo viaggio nella Magna Grecia e nella Si-
cilia; e cantò Pompei e La Favorita di Palermo, La Sibilla Cumea e
Galatea, Pitagora ed Empedocle, Pesto e l'Etna, Lucio Licinio Lu-
oullo e Vincenzo Bellini, la grotta azzurra di Capri e il Mar Jonio...
Fu un beato immergersi del pensoso suo spirito in un oceano di
luce; fu una risurrezione delle radiose visioni e leggende, nelle stesse
splendide ri\'e, nelle stesse terre, dove nacquero un dì. I versi al-
l'Jonio non pareggiano, peraltro, quelli deireffervescente Nicola Sole,
tanto amato da Giuseppe Verdi; di Nicola Sole, il poeta di Basilicata,
che dona alla Magna Grecia e all'ionio un inno ch'è tutto una
musica :
Oh, quante ville,
Quante città per quel tacito lido!
Quanta gagliarda gioventù, qual forte
Popol vi stette, splendidio, gigante
Immaginar! Eran per lui le nubi
Popolate d'eterni alberi, laghi,
Fiumi, boschi, dirupi eran di arcane
IntelUgenze alberghi. Armoniose
Nereidi quest'acqua ivan fendendo.
Fuor de l'intime selve uscian le ninfe
Al niveo lume, onde ridea Diana.
E via via... Chi non pemsa agli squarci più smaglianti delle di-
sine Grazie del Foscolo?... Le altre liriche di quel ciclo dell' Arnaboldi
risentono dell'emozione: perch'egli si ferma all'emozione, non ar-
riva alla passione.
Ma Bosisio, ancora, il villaggio del Parini era quello che lo ri-
chiamava alle contemplazioni tranquille. A Milano, egli abitava, in
via Brera, nella casa stessa dove aveva dimorato Alessandro Volta,
il cui pio fantasma chi sa quante volte egli avrà con la mente as-
sorta visto errare nei silenzii della notte in quelle stanze, oggi ab-
battute e trasformate per obbedire ai gusti moderni!
A Bosisio, si estendono vaste torbiere, e Un fumo di torba è
appunto una lirica in tornite ottave; metro che l'Àrnaboldi sapeva
maneggiare con tocco delicato, anzi amorosamente niellare come una
coppa signorile; e quale coppa più signorilmente italiana dell'ottava?
Sono voluminosi i fasci di versi inediti lasciati dal poeta: la ver-
sione del primo canto ù&WEneide, un dramima storico, Liàsa Strozzi,
un altro, Il conte Caracciolo, un altro ancora, Waltheo, Vidtimo dei
capi sassoni, e un poema Gli aranci, e un melodramma / martiri,
con Nerone. Numerosi spuntano i ricordi di Bosisio nelle lettere,
anch'esse accurate, che il poeta scriveva a pochi amici italiani, te-
deschi, inglesi; traduttori quest'ultimi delle sue liriche più concet-
tose e più belle come Eugenio Lee Hamilton, fratello di Vemon Lee,
benemerita degli studii del nostro Settecento, e che anch'essa corri-
spondeva, in buon italiano, da Firenze, col poeta lombardo, lusin-
gato di quella corrispondenza.
L'amicizia era, per l'Àrnaboldi, un sentimento sacro, geloso;
nulla poteva illanguidirlo. Egli fu amico del coltissimo colonnello
242 IL VILLAGGIO DEL PARINI E IL POETA ALESSANDRO ARNABOLDI
Cesare Airag-hi, travolto fra le orde abissine di Adua in quel 1" marzo
nefasto che vorremimo dimenticare. « II povero colonnello Airaghi!
(scriveva l'AmaboIdi a un amico). Ho parlato a lungo di lui con un
amico mio, già intimdssiino suo, e per mozzo del quale avevo fatto
akund anni sono la conoscenza di quell'uomo impareggiabile. Fu
visto cadere... I giornali narrano meraviglie del modo con cui, pre-
cedendo a cavallo il suo r^gimento lo trascinava alla pugna, strap-
pando ned soldati entusiastici applausi. Doveva essere nominato
membro d'oiìóre della Socdetà geografica kediviale, residente al
Cairo, ,per un imiportanfce lavoro sul Bembelus da lui per il primo
scientificamente esplorato ».
•
Gli ultimi anni del nobile poeta furono infelicissimi. Egli era
tormentato da atroci dolori agli arti, iinceppato nel camminare; non
ci vedeva quasi piìi. Strane smanie s'impossessarono dello sventurato.
Lo si vedeva per via impartire con gesto solenne benedizioni alla
folla, che lo guardava con curiosità e pietà. Quell'alta persona, quel
signore austero, ohe aveva l'aria d'un filosofo teutonico, andava bran-
colando.
Il 18 settembre del 1896 la morte lo colse a Milano, dov'era nato
il 19 dicembre 1827. Morì in quel mite mese pittoresco che di con-
sueto egli passava nel suo Bosisio fra gli ultimi sorrisi della bella
srtagione e fra i suoi cari.
Nel lago di Pusiano, sorge unta poetica isoletta di antichi cipressi
e di pioppi : appunto Visola dei cipressi. Romantici poeti sospirosi
narrarono storie d'amori infelici, svoltesi all'ombra di quegli alberi;
e là, io sognavo che avrebbe dovuto riposare, per sempre, alla vista
dell'amato villaggio pariniano, il poeta contemplativo, così dimenti-
cato dagli storici della letteratura, dai critici; non da' suoi superstiti
amici, che serbano di lui la candida memoria dovuta agli spiriti pura.
Raffaello Barbiera.
WILLIAM ERNEST HENLEY
Out of sorrow have the
worids been buiit.
O. WiLDE.
La storia dtìlla letteratura inglese, come ogni altra, si divide-
in aggruippamenti, o periodi, rispondenti a un peculiare movimento
spirituale; è oatvìo però che nulla di nettamente distinto ipossa esservi
nel dominio del pensiero, dove la fitta rete delle idee s'interseca, si
aggroviglia, si fonde, si snoda, come il nastro serpeggiante di un
sentiero alpino- Con la morte del Tennyson e del Meredith (rispetti-
vamente 1892, 1909) si considera chiuso il periodo vittoriano; ma
le energie latenti avevano già sprigionato scintille nuove, e la trasfor-
mazione dell'ideale poetico aveva subito già quei grandi mutamenti,
cosi palesi nella letteratura dell'Inghilterra d'oggi e di ieri, I pre-
raffaelliti, perseguendo il mito, la leggenda, il sogno, avevano tro-
vato il simbolo. Oscar 0' Flahertie Wills Wilde va più lontano de'
suoi maestri, il Ruskin e il Pater, e crea un'arte fuori deHa vita.
Ma poiché la vita, presto o tardi, ci riprende nelle sue spire ed è
impossibile, quasi, ohe il grido di questa nostra imianità dolorosa
non presti al poeta qualcuna delle sue note, e poiché è inconcepi-
bile che l'artista vero non veda « the worm that dieth not » , così
lo stesso Wilde, dopo la tragedia che ne turbò l'esistenza, scrive:
« lo vedo adesso che il dolore^ essendo la suprema eiìiozione della
quale Vuomo è capace, è, a un tempo, il tipo e la prova di ogni
grande arte » (1). E ancora, là dove ragiona della verità nell'arte,
aggiunge : « Il vero in arte è lumone di una cosa con sé medesima:
l'esterno divenufy espressione delV interno: Vamma incarnata, il corpo
permeato di spirito. Per questa ragione non vi è verità paragonabile
al dolore» (2).
Oscar Wilde è fra le figure piìi importanti del crepuscolo vitto-
riano, quel crepuscolo che s'indugia fino a parere l'alba, ma che
s'illumina dei colori del tramonto, malgrado lo informi l'anima
del genio. Wilde fu, in certo qual modo, il trasformatore di queste
energie latenti, ma, insieme ai criteri estetici da lui divulgati, ab-
NoTA DELLA REDAZIONE. — Questo articolo non fa cenno del magistrale
studio di John Drinkwater sopra W. E. Henley, perchè già composto quando*
comparve il numero di gennaio della Quarterly Bevieir.
(1) O. Wilde, De Profundis. Tauchnitz ed., pag. 53.
(2) Id., op. cit., pag. 54.
^44 WILUAM ERNEST HENLEY
biamo altri elementi di ricostruzione e trasformazione, fra i quali
la «Celtic Renascence», impersonata dall'irlandese W. B. Yeats,
la caratteristica ribellione (ohiamamola così) di Max Beerbohm, che
si riflette nella pubblicazione del « Yellow Hook » 1894-1897) e del
« Savoy » (1896), e infine l'azione nobile, virile di William Ernest
Henley (1849-1903).
Non molti, in Italia, conoscono l'Henley, né questo può mara-
vigliare perchè, anche in Inghilterra, il vivace critico, poeta e gior-
nalista non ebbe, fino ad ora, quel plauso che gli amici gli hanno
da tempo tributato.
L'Henley, minato dalla tubercolosi ossea, conobbe perfettamente
il destino terribile che gli sovrastava, ma pure 9epi>e levarsi al di-
sopra della sua duplice sofferenza — vincere quell'egoismo insana-
bile* che sembra pesare sugl'infermi; ed egli, il grande invalido, in-
segnò l'azione, sorgente di serenità e di gioia — disse l'indulgenza
per gli umili — inneggiò al trionfo della volontà : « lo sono il pa-
drone del mio destino — io sono il duce della mia anima »; levò
il canto alla patria, con accento di figlio — narrò la dolcezza degli
affetti famigliari e vide, con occhi d'amore, la proifonda bellezza
di Londra, la città popolosa, alveare di uomini.
La persona dell' Henley ne rispecchiava l'arditezza del carattere,
^ l'Qgborn così lo descrive (1): « Egli aveva il torso di un lottatore
nato, le spalle piramidali e lunghe, reni agili e sciolte — e la ferma
volontà di vincere di un Fitzsimimons (2) brillava nel suo occhio
irrequieto» Si annuncia una biografia, ad opera di Mr. Charles
\Vihibley; e intanto l'editore Macmillan ha riunito gli scritti di lui
in cinque volumi, dei quali il primo contiene i poemi, il secondo e
il quarto i saggi critici, già pubblicati su giornali e riviste, il terzo i
drammi, scritti in collaborazione con Roberto Luigi Stevenson, e
finalmente il quinto, Lt/ra Heroica, raccolta di versi dedicati ai ra-
gazzi, e desunta dal primo volume. Il già citato Mr. E. B. Osbom,
in due saggi interessantissimi, pubblicati nell'aprile scorso sull'Oft-
server, afferma, con affettuoso coraggio, che la moderna generazione
di scrittori inglesi deve più all'Henley di quanto non debba al Dr.
R. Bridges, il poeta laureato, grecista imipeocabile, o a Thomas
Hardy, poeta e prosatore arguto e forbito. Anzi, a questo propo-
sito, il medesimo Mr. Osborn aggiunge: se avessero senso di gnu-
stizia poetica, i giovani dovrebbero consacrarsi alVombra potente
di lui (dell'Henley), così come si dedicano ai due vivi.
Pur concedendo all'opera, di William Ernest Henley il giusto
valore, bisogna riconoscere che egli, come un altro illustre suo pre-
decessore, il Ck>leridge, fu più grande del proprio pensiero rivelato,
poiché fu la coscienza che illumina, il cuore che pulsa, il maestro
vero che accende la lampada per rischiarare la via ai giovani. In-
torno all'Henley, per affettuoso consentimento, e per devota ammira-
zione, si strinseiro taluni fra i più notevoli araldi del pensiero con-
temporaneo: Roberto Luigi Stevenson, Andrea Lang, Tommaso
Hardy, Carlo Wells, Rudyard Kipling.
(1) Observer, Aprii 17th 1921.
(2) Famoso lottatore.
WILLIAM ERNEST HENLEY 245
*
Guglielmo Emesto Henley, nato nel 1849 e morto nel 1903, fu
educato alla Crjpt Grammar School di Gloucester. Se noi conside-
riamo l'infanzia dolorosa di lui, l'adolescenza turbata da attacchi di
tubercolosi ossea, onde più tardi si rese necessaria l'amputazione di
un piede, sentiremo raddoppiato il senso di reverenza che l'Henley
c'ispira; se non che la robustezza dei concetti e l'indipendenza ar-
dita dell'autore ci avvisano che, non al lume della pietà umana si
giudicano gli artisti, ma francamente, cuore a cuore, intelletto a in-
telletto.
Esamineremo sopra tutto il volume delle poesie (1), nel quale il
pensiero dell'Henley si rivela nella sua schietta originalità e nel tem-
perato ardimento del verso. La dedica alla moglie offre una visione
chiara dell'animo del poeta. Prendi, cara, questo fascio di canti —
perchè, vecchi o nuovi che sieno — quanto havvi di buono in essi
appartiene — soltanto a te; — e, ricantando come qiumdo tutto era
griovane — essi richiameranno — quegli, altri, vissuti, ma "non can-
tati — i migliori fra tutti. Aprile 1 888-Settembre 1897.
Le poesie che aprono il volume, e intitolate In Hospital, (pubbli-
cate dapprima nel 1888) sembrano, nella rude efficacia dei tratti, sboz-
zate nel granito, un granito che, per miracolo soprannaturale, tra-
sudi qua e là, dove il solco è più profondo, delle goocie di sangue :
sono versi umani, \e>TÌ come la vita, forti come il dolore, nei quali
voi cogliete il senso delle cose non dette, nell'accurata minuziosità
del particolare. Questi versi furono scritti fra il 1873 e il 1875, quando
l'autore dovette entrare nella vecchia Infermeria di Eldimbui^go, per
subire l'amputazione di un piede. L'Enter Palient apre la serie con
un quadro sobrio della prima ammissione del paziente nell'ospedale.
Le nebbie mattutine visitano ancora la pietrosa vifi — la nordiea aria
estiva è frizzante e fredda; — ecco l'Ospedale, grigio, quieto, vec-
chio, — dove la Vita e la Aforte s incontrano come mercatanti anvici.
— A traverso il sonoro spazio e la ventilata penombra — un'esile
bimba ignota — così vecchia e pur tanto giovane! — col picciol
braccio ingessato appeso al collo ^ — mi precede gravemente nella
sala d'aspetto. — lo le zoppico dietro, scoraggilo. — // grigio, vecchio
soldato-portiere mi fa cenno di proseguire — e avanti io mi trascino,
— e sempre più, mi vien meno il coraggio, tanto — una tragica mi-
seria sembra avvolgere queste scale e i cagrrùdoi di pietra e di ferro, -
— freddi, squallidi, puliti — mezzo Ospizio e mezzo Penitenziario.
La vita, dirò meglio, l'anima dell'ospedale si delinea man mano
nelle poesie che s^nono, in tratti rapidi, vivi, senza crudezza però,
né particolari disgrustosi. Abbiamo l'ansia inconfessata che turba
anche il forte, la vigilia di dolore che precede l'operazione, la descri-
zione, per brevi ed efiBoaci linee, dei pazienti, delle infermiere (vec-
chio e nuovo stile), dei visitatori, della primavera che sveglia le corsie
col canto del merlo giù nella siepe, mentre la musica dei ricordi
trilla nella canzone di un passante. Uno di questi componimenti.
La visita del clinico, grave, impressionante nella scultorea sobrietà
del verso, di struttura ine^ale, ma così unito dal pensiero, onde le
(1) W. E. Henley, Poenus. Macmillan, Londra, 1921.
tì46 WILLIAM ERNEST HENLEY
pause appaiono le 'naturali interruzioni di ohi vede tutto un mondo
di dolore, e tenta rivelarlo con una parola, è fra i più caratteristici.
St! — a traverso gli echi ddl corridoi, più forte e più vicirto — viene
un gran scalpifcìo. ■ — Svelti! — accomodate le coltri, e state com-
posti! — Ecco il Professore! — Egli entra primo — con Vaspetto vi-
vace che gli corbosciarrito; — da sotto 'le larghe, bianche sopracciglia
gli occhi benevoliìi — vi acqitetano e v'incoraggiano. — Vinferm^ra
dalla bianca cuffia \fi dal bianco grembiale — lo segue da vicino —
vn asciugamano stU braccio — e in mano il calamaio, i^to di penne
d'oca.
Segue la descrizione degli studenti che muovono in massa, e fan
circolo intorno al primo letto della corsia, sopra del (juale il profes-
sore già s'incurva, aiutato dagli assistenti: il cerchio degli astanti,
veduto per di dietro, ricorda al poeta l'addensarsi della folla intorno
a un giocoliere, sulla pubblica via : « spalle alte, basse, larghe, strette,
— rotonde, quadrate^ aguzze, incurvate, e, dal mezzo una voce —
grave e fluidamerUe scandente — risuona; poi cessa: e, improvvisa-
mente, — {osservate lo sforzo delle spalle) — fuor dal tremitio si-
lenzio — soffra il s^ibilo nelVaria -^ viene nin lamento roco, e il suono
— di un respiro trattenuto fra i denti — serrati in volontaria stretta.
— // Maestro — rompe la folla e s'avvia, — asciugandxìsi le mani,
— verso il letto vicino. — Gli scolari sciam/ino, susurrando, dietro di
lui. • — Ora possiamo vedere. — Il paziente 'numero Uno, — siede
piuttosto pallido — con le coltri tirate in su, mostrando il piede —
{Afvimè, povera imtmagine divina) — ravvolto in umide, bianche
bende — brillarUemente orride per rosso».
In Apparition abbiamo il ritratto dell'amico Stevenson, allora
trentottenne. Si è detto ohe nessun pittore ha mai riprodotto con ef-
ficacia maggiore la figura del grande scrittore: l'Henley ne traccia
l'aspetto esterno, leggendo l'anima a traverso l' involucro.
« Dalle gambe e il petto stretto, indicibilmente sottile, — dal
piede snello e dalle dita deboli: nel viso di lui — magro, ossitto, di
becco aquilino, [con segni di razza, — labbra Ordite, accese, mutabili
come il Trmre, ■ — i brunii ^cchà, radianti di vivacità — in essi splende
una brillante romantica grazia, — uno spirito intenso e raro, con
tracce su tracce — di passione, audacia ed energia — valoroso nella
buona, e noncurante iveltavversa fortuna, — vanitosissimo, somma-
mente gene\roso, austeramente critico, — buffone e poeta, amante e
sensuale — parecchio di Ariel, un po' di Puck, — 7nolto di Antonio,
e, più di tutto, di] Amleto, e qualche cosa del catechista».
In Ave Caesar! è salutata la Morte, madre di Vita, motivo domi-
nante nella poesia dell'Henley, onde dolore e gioia sono una cosa,
nei rapporti dell'eternità imperscrutabile. Abbiamo detto che la vita
dell'ospedale è tutta rappresentata in questi suoi componimenti (ven-
totto in mimerò), e che i diversi tipi che si possono incontrare in. un
luogo del genere, sono descritti con caratteristica efficacia. La serie
si chiude con Discharged (licenziato), così viva d'impressioni, e mi-
rabile per la visione ottimistica delle cose, tanto naturale in chi ha
creduto di non rivedere più le vie consuete, e al quale il mondo ap-
pare in tutta la sua onesta bellezza.
Portatemi fuori > — nel vento e nella luce del sole, — nel bellis-
simo morulo. — Oh! la meraviglia, Vincanto delle strade! — Valtezza
WILLUM ERNEST HENLEY 2:17
e la forza dei cavalli, — il fruscio e Veco dei passi, — il rumore smor-
zato e il rotolar delle ruote! — Rapido, un tram fluttua, enorme,
verso di noi. — ... è un sogno? — l odore del fango nelle mie narici
— soffia ardito come il respiro del mare! — Come in passato, — on-
deggianti gonne — vagamente e stranamente provocanti ■ — s'agitano
e accennano. — Oh, laggiù! — È vero? — Il lampeggiar d'una calza!
— Improvvisa, una guglia fora la nebbia! < — Oh, le case; • — la lunga
fila di alte case grigie, — attraversate di luce e di ombra! — Queste
sono le strade!... ognuna di esse e un viale che mi conduce — do-
vunque do voglia! — Libero!... — la testa in fìamane, nervoso, de-
bole, — io seggo, e la carrozza rotola innanzi con me — nel maravi-
glioso moTìdo!
Negli Echi, abbiamo, nel mutevole ritmo, l'ondeg-gicire del pen-
siero del poeta, quando l'anima rivive la spensieratezza delle ore di
gioia e l'ansia dei giorni amari. Abbi^amo il palpito improvviso, nato
dalla speranza, che s'innesta sulla disperazione, come fiore purpureo
sul verde bruno di un rovo; l'amore che è follia, amore che è seig-
gezza., canti goliardici, note di tristezza amara, dolore rass^nato,
morte che è sogno e risveglio di vita, — tutto passa in questa rac-
colta di versi, raramente contradistinti da un titolo, che s'affollano
come echi della montagna, destati da cause ignote. Ci sono dei gioielli
fra gli Echi, come Mairi DUectissimae, Priends, old friends, ed altri.
Citeremo solo, perchè rispecchiano uno dei motivi dominanti nella
poesia dell'Henley, i versi che cominciano : / am the Reaper.
Io sono il Mietitore, — Le cose tutte, con attento raffio — silen-
ziosamente raccolgo. — Pallide rose, toccate dalla Prinutvetra, — alte
spighe in estate, — frutti rifchi delVautunru), e fragili infiorescenze
invernali — mietendo e ancora mietendo — ie cose tutte, con attento
raffio — a tempo raccolgo. — Io sono il Semifiatore. — Tutta la vita
che ancora non ha presio forma — corre a traverso il mio» grembiale
da semi. — Atomo con atomo congivngo, — ognuno di essi, affret-
tando Valtro, — cade !« traverso le mie moTd, — ognora mutando,
eppure immutalo. — Incessanterrhente io semino. — Vita, incorrut-
tibile Vita, ' — • scorre dal mio grembiale da semi. — la creo, io spezzo.
— Son la marea e il flutto, ■ — qui e al di là. ■ — Affrettato a traverso
il groviglio e ile sinuosità — della natura infinita, — cieco e silen-
zioso, io foggio ogni essere. — Io prendo, io do. — Son la Matrice
e la Tomba. — V Adesso e il Sempre.
In Rhymes and Rhythms abbiamo ancora la marea della vita,
col flusso e il riflusso degli avvenimenti, ora tristi ed ora gai. La
versificazione appare qua e là meno accurata, e meno grave è il tono,
piuttosto pungente e amaro, a volte; così come in Hawthom and
Lavender la vena dell'autore sembra sovente inaridire, e la fretta
del giornalista turbare la concezione del poeta. C'è meno anima e
meno saggezza, come se il fiume della vita avesse, a un tratto, unito
il suo corso con qualche corrente limacciosa, e ne rimanesse turbato.
Dove l'Henlìey ritoma pieno ed intero, pittore appassionato e psi-
cologo profondo, è in London Voluntaries. È Londra, bella del suo
sole stanco, del suo fiume maestoso, delle albe roride, del verde dei
parchi, delle vie rigurgitanti, dei tramonti miti e deliziosi, — mentre,
sovrano e forte, il cuore della metropoli immensa pulsa del ritmo
medesimo che muove il lavoro de' suoi fitgli. Seguono London Types^
248 WILLIAM ERNEST HENLEY
dove sono desoritti i tipi più eccentrici della vita londinese, figure
care e ben note a coloro che conoscono la capitale britanna : il con-
duttore di omnibus, i guardiani della Torre di Londra, ombre visi-
bili di un passato che sembra rivivere in ogni angolo o cella della
fortezza cupa, gli allievi del Christ Hospital, che portano ancora il
costume rie' tempi di Edoardo VI, il giornalaio, il policeman, la fio-
raia, tutti i tipi speciali e caratteristici della Londira di oggi e di ieri.
For En^taruTs sake (1900) è la nobilissima contribuzione del-
l'Henley alla poesia patriottica del periodo della guerra boera, poesia
che, aiutata dall'opera dell'amico Kipling, contribuì a formare lo
spirito animatore dell'Inghilterra moderna. Il cuore del poeta batte
col cuore stesso della nazione.
I saggi critici sono raccolti, come già abbiamo detto, nei voliuni
che s'intitolano Essays, l'uno, Views and Reviews, l'altro. Molta del-
l'attività di critico dell'Henley è qui radunata. È impossibile entrare,
utilmente, in questo campo dove, da Fielding e Smollett, passiamo a
una rassegna del mondo byroniano, a Balzac, a Victor Hugo; da
Burns all'Hazlitt, e da Talma e M.lle Mars a Spontini e Lesueur e
al Cherubini. Giudizi interessanti e vedute originali sprizzano ad
ogni riga della prosa agile e snella dell'Henley. Caratteristiche le
idee sul ramantìcismo, che il Nostro chiama « un ritomo a più che
umana natura » , e originale il concetto che Napoleone sia stato la
prima c^usa del romanticismo in Francia, che — scrive l'Henley —
n essendo egU italiano era anche ^ alla propria maniera^ un artista ».
Un esame piìi minuto e accurato dell'opera di questo scrittore
(pur trascurando di notare la varia fortuna dei drammi scritti in col-
laborazione con lo Stevenson), ci conduce alla conclusione che l'Hen-
ley è una forza viva, creatrice di caratteri, essendo egli stesso un
carattere; e troviamo in lui l'uomo che il Carlyle vuole riconoscere
dietro ogni^ libro, come forza informativa. Epperò la nostra ammira-
zione per l'Henley, uomo, non ci porta a un giudizio errato, o sover-
chiamente indulgente, per la sua opperà d'arte. L'anima dominatrice
di im poeta non può menomare il valore intrinseco della sua opera
d'arte, quando la forza di lui è forza di azione, impulso di vita,
sana e feconda. Questo è il caso di Guglielmo Ernesto Henley.
Anna Benedetti.
LUCI E SPECCHI
(RACCONTO A DRITTO FILO DI UN FILOSOFO GALANTUOMO)
Domenica scorsa è accaduta fra me e mia moglie una scena
piuttosto complicata: un temporale con tutto il necessario: lampi,
tuoni, fulmini, saette, il finimondo; ma, come succede, l'aria è di-
\ entata dopo più respirabile e credevo che si fosse stabilmente messo
a sereno, quando ieri mi sono nsto consegnare una specie di mano-
scritto, un mezzo zibaldone, sia detto coi dovuti riguardi alla laurea
della mia signora.
— Cos'è? — le ho chiesto — una novella, un atto unico? Tu sai
che non è il mio genere.
Ella mi ha risposto di no; che si trattava di alcuni appunti auto-
biografici e che per lei era una cosa essenziale che io glie li avessi
letti.
Pazienza! Quella povera Delia ha i r^rvi scossi, non volevo con-
traddirla, senza contare che una donna sapiente è meglio pesiarìe
un piede che non prenderle sul serio i prodotti della sua intellettua-
lità! Manoscritto più, manoscritto meno... Ne leggo tanti su -argo-
menti filosofici per la mia rivista che potevo, dopo tutto, sacrificare
un'ora alle divagazioni psicologiche di una giovane bibliotecaria.
Così, pazientemente, diligentemente, ho sfogliato quelle trenta-
cinque cartelline ricoperte di una scrittura minuta, a zampe di mosca,
dalle lettere martoriate come i pensieri, dai periodi l'uno dietro l'al-
tro, come le carte da giuoco, quando si piegano e si mettono diritte,
per farle fare i soldatini, che un buffetto dato sull'ultima le fa ca-
scare tutte in una volta.
Ma, corpo di bacco, quale sapienza nel torturarsi, quale inesau-
ribile voluttà nel prendere le circostanze, anunucchiarsele intomo e
fabbricarsene altrettanti aculei per il proprio tormento. Tutto inven-
tato quello che Delia racconta? Tutte fìsime? No, no, siamo leali.
Quella ragazzaccia di Lena — un tipo terribile, un tipo da film
americana — mi si era aggrovigliata, ed io me ne sentivo contami-
nato, sentivo che l'aria, la buona aria sana entro cui ho bisogno di
spaziare, mi diventava greve. In altri termini, sì, ero preso dal mal
d'amore, malattia alla quale il mio organismo è refrattario, rifug-
gendo io, per temperamento, dalle complicazioni di qualsiasi sorta,
sopratutto sentimentali.
La situazione pericolosa dunque esisteva, questo è vero, ma, in
fondo, ero tranquillo, sapendo che la mia coscienza, robusta comare
Nota. — Vedi Nuova Antologia, fascicolo 1° novembre 1921.
17 VoL CCXVI. serie VI — 1' febbraio 1922.
2oO LUa E SPECCHI
senza educazione, sarebbe sopraggiunta nel momento critico a ribut-
tarmi indietro con vigorose spinte e un suo vociare popolaresco.
Se ne è incaricata mia suocera? Tanto meglio. Trovarsi a tu per
tu con la propria coscienza è sempre un alTaraccio, perchè, anche
vincendo, rimane imipermalita e si stenta non poco a rifar le paci.
Non si deve esagerare peraìtro, guardiamo le cose nella loro
cruda realtà e giacché mia moglie ed io, si vive, io per forza, lei per
amore, pel regno dell'inchiostro, metterò anch'io un po' di nero sul
bianco, dopo di che mia moglie strapperà il mio manoscritto, io
strapperò il suo, le patrie lettere non si vestiranno in gramaglie, e
IO tornerò alla mia pace, al mio onesto lavoro, alla metodicità delle
mie occupazioni, a decidere se i pensieri dell'altrui pensiero valgono
le spese, carta, stampa, onorari, di un'accreditata rivista bimensile,
la quale naviga a vele abbastanza gonfie nel nw-rc nmgnum delle
filosofiche dissertazioni.
Io mi sono ammogliato per amore dell'acqua corrente. L'acqua,
per me, è l'elemento degli elementi e trovo che perfino gli osti hanno
ragione quando ne allungano il vino: l'acqua sta bene dovunque e
fa bene sempre : mi piace se cade dal cielo o da un picco, pioggia o
torrente; mi piace nelle bacinelle quando ci tuffo la testa d'estate e
d'inverno; mi piace, in piccolo, nei bicchieri e sui petali dei fiori;
mi piace in grande nei laghi, immensa uel mare. Se vivessimo nei
tempi beati della mitologia e una divinità qualsiasi mi volesse tra-
sformare in qualchecosa, domanderei di poter diventare un fiume,
un pingue fiume, barbuto di alghe, con folti canneti sulle mie rive;
tra il verde delle canne uno zufolare di agricoltori in riposo e, nei
momenti di spleen, potermi gonfiare, distendermi, farmi letto delle
pianure e poi, rabbonito, restringermi, per riprendere del mio solito
passo la strada verso il mare.
Adesso purtroppo queste belle metamorfosi non sono più di
moda; si è costretti a morire con le medesime spoglie sotto cui si è
nati e, volendo cambiare ad ogni costo, bisogna contentarsi a disdire
oggi quanto si affermò ieri. Eki anche qui ci sarebbe da confutare,
perchè, aguzzando l'occhio, si scoprirebbe che dire e disdire vanno
più d'accordo che non paia.
Comunque io possedevo un compagno, un eccellente compagno
di università — oggi rompe il pane della mal sopportata scienza ita-
liana nelle scuole di una colonia francese — il quale era inarrivabile
nel trovare' camere ammobigliate per i suoi amici e per sé. Io lo
avevo pregato di scovarmene una, magari spoglia e ad alto prezzo,
con le finestre a piomibo sul Tevere.
— Vedi quella signorina? — mi disse un giorno nell'atrio del
l'Università. — Non quella pitturata che si dimena e gesticola; quel-
l'altra, piccolina, ricciolina, che sorride appena non si capisce a chi,
perchè, quantunque abbia gli occhi a fanali, non guarda in viso
nessuno.
— Sì, la vedo! Un po' scarna e palliduccia; carina peraltro. Ma
io che c'entro?
— Le finestre della sua casa danno tutte sul Tevere.
— Beala lei! E tiene pensionanti nella sua casa?
— Non credo.
LUCI E SPECCHI 251
— Allora?
La signorina ci passava accanto, a\^'iata ad uscire; il mio amico
la fermò.
— A quando la discussione della tesi di laurea, signorina?
— A giorni.
— Si stava parlando di lei — e mi presentò. — Il signor Tal dei
Tali, Laureato in filosofia e nonpertanto infelice.
— Innamorato? — chiese la signorina, ridendo e chiudendo nel
ridere le palpebre dai lunghi cigli; il che dava alla pallida e alquanto
triste fìsonomia una espressione inaspettata di maliziosità.
— No, signorina, io ho definito l'amore una menzogna conven-
zionale. Dunque, capirà... — tenevo le mani nelle tasche dei panta-
loni, le spalle alzate a rannicchiarvi il collo e battevo forte un piede
dopo l'altro, come faccio se mi capita d'inciampare in una conversa-
zione fuori programma.
Il mio amico — io sbaglio o aveva un debole per Delia e gli fa-
ceva comodo di trattenerla — intervenne perchè la conversazione
non cadesse,
— Ck>sa \a parlando del sole ai ciechi, signorina? L'amore non
ha frecce per il cuore atrofizzato di questo semovente! Si trattasse
di me... non dico...
— Anche lei infelice?
— Io? In c[uesto momento? Lascianio andare, signorina... L'essere
comune che ho avuto l'onore di presentarle, è tormentato anche lui
da un ideale. Anela, e senza riuscirv-i, a prendere in afl&tto una ca-
mera da letto con le finestre sul Tevere. Ecco perchè, vedendola pas-
sare, il discorso è caduto sopra di lei.
Delia mi guardò in aria dubitativa, ed io la fissai sprofondando
di più le mani nelle tasche, assumendo una fisonomia di canzona-
tura, per prevenirla nel caso ch'ella avesse l'intenzione di canzo-
narmi.
Mi confessò, appena fidanzati, che la mia persona solida, la mia
faccia schietta, l'arco ampio delle sopracciglia, perfino il mio sopra-
bito color nocciuola di una eleganza assai discutibile, le produssero
in quel primo incontro un effetto fascinatore, che io ero lontanissimo
dal sospettare; anzi mi pareva di rappresentare fra quei due la parte
del terzo.
— Già, il fiume, il Tevere e una finestra che lo domina. Come
chi dicesse un'idea da uno spiraglio sulla vita che fugge.
Ero stupido, lo sentivo, no per soggezione, non ci pensavo af-
fatto; ma perchè il trovarmi preso in una conversazione oziosa, ob-
bligato ad una ginnastica intellettuale di cui non vedo lo scopo, mi
dà sempre nei movimenti delle idee la goffaggine melanconica di
chi si eserciti sul trapezio per ammazzare il tempo.
— Ce lo conduca uno di questi giorni, dopo colazione, a pren-
dere il caffè — disse Delia al mio amico, e parlando, sporgeva un
poco il labbro inferiore.
— La presenterò a mia madre e mia sorella, si affaccerà sul Te-
vere... Insomma, venendo mi farà piacere.
Nel corso della settimana io andai in compagnia del mio amico,
poi ci tornai solo, seguitai a tornarci, finché divenne per me una
gradevole abitudine uscire dalla trattoria, attraversare piazza Navona,
262 LUCI E SPECCHI
camminare adagio per il corso Vittorio Emanuele, col sigaro acceso
e la testa ad un libro ohe aveva letto o ad un articolo da scrivere, e,
così almanaccando, passare senza prestarvi attenzione, dal rumore
dal corso popoloso al silenzio della via deserta, infilare la scala di
marmo e, dopo aver suonato alla porta del secondo piano, attendere,
col pensiero svagato, che la domestica venisse ad aprire, pacifica-
mente tarda.
Pareva che il metodo — questo eccellente signore dalla papalina
di velluto e le pantofole ricamate in punto a croce — fosse il pro-
prietario dell'appartamentino e solo neiravvertirne la vigile presenza,
io gustavo il benessere che si prova accettando l'invito a pranzo di
uno zio autorevole, rispettabile, dalla credenza ben provvista, dal-
l'eloquio ponderato e savio. Insomma ero nel mio ambiente.
La signora, energica, poco discorsiva, si alTaccendava tenendo
le mani in moto, lo sguardo in giro; ma senza affanno o rumore;
Delia, seduta al suo tavolo, gli occhi imbambolati per il troppo leg-
gere, le dita fragili macchiate d'inchiostro; la sorella minore o era
uscita, o stava per uscire e la vedevo di rado, alla sfuggita, tipo
strano, mutevole, ohe variava con un oscillare del capo e un ondulare
delle reni.
Una volta, io me ne andavo e lei rincasava, me la vidi cammi-
nare incontro a passi di fomiica, svelti, fitti e la punta di un piede
riusciva appena ad avanzare sull'altra tanto il fondo della gonna
strettissima la stringeva ai malleoli.
— Come fa a camminare così legata? Non ha paura di cascare
in avanti tutta di un pez>zo?
— Lei si sbaglia. Io così ci cammino benissimo, perchè è di
moda — e, impalata, coi gomiti stretti all'indietro scomparvero lei
e il saio cappello senza fine, lasciandomi esterefatto. Una profonda
stui>efazione : ecco il senso che mi produceva quella ragazza! Mentre
in Delia, che pure conduceva una vita di cerebralità irrazionale, ogni
atto mi pareva logico — oh! Dio! sì, via banaluocio! — in Lena, che
conduceva la vita normalissima delle signorine in maggioranza, tutto
mi pareva straordinario, fuc«n del comune, di un esotismo d'oltre
oceano. Mossette, attucci, languori di piccola musmè e, al tempo
stesso, a scatti, rudezza maschile di emancipata fanciulla anglosas-
sone. D'altronde me ne rendo conto adesso; allora non ci badavo.
Sorridevo nel vederla, ridevo nell 'ascoltarla e mi sorprendevo a di-
videre le sue idee, anche quando, a lume di raziocinio, dovevo rico-
noscerne il bislacco e la vuotaggine.
Non mi era mai saltato in mente che le mie assiduità, oramai
cotidiane, in quella casa potes^ro portarmi delle conseguenze. Ci
andavo volentieri, mi ci trovavo a meraviglia e non supponevo che
potesse trattarsi di pensare ad altro. Ma avvenne un episodio de-
cisivo.
Maturavo il progetto di fondare una rivista di pensiero e dovetti
recarmi prima a Firenze, poi a Milano per un paio di settimane.
Una persona educata o appena riflessiva, ne avrebbe avvertite le
signore, avrebbe scritto, si sarebbe in qualche modo fatta viva! Io
peraltro non sono educato, non sono neppure maleducato o, quanto
meno, non ho nessuna intenzione di esserlo; ma, non esigendo nulla
dagli altri in fatto di convenzionalità, non mi sento tenuto a niente.
Lua E SPECCHI 253
e circa la riflessività, io a forza di riflettere sulle cose dimentico di
eseguirle.
Il giorno stesso del mio ritorno a Roma peraltro non mancai
all'ora solita di recarmi a visitare le sigiiore.
Appena ebbi suonato, udii lo squillo violento di un campanello
interno e la domestica venne ad aprirmi con precipitazione.
Delia, presso la soglia del salotto, aveva i riccioli scomposti, le
gote in fiamme.
— È lei, professore?
— Precisamente, signorina. Come sta?
— Io? Per carità, non me ne parli! Come vuole che stia dopo
i^lue settimane di ansia? Lei piuttosto. Cosa le è successo?
— Successo? A me? Che idee!
— Ma dove è stato? Che ha fatto?
— In viaggio per i miei affari ed ho concluso parecchie cosette!
— E noi? Ed io? Sa che ho immaginato perfino che fosse morto?
— Non esageri, signorina, alla mia età generalmente la pelle
è dura...
— Allora è peggio! Allora si prende giuoco di me! — e Delia
cominciò a singhiozzare, nascondendo il viso nel fazzoletto.
Rimanevo stordito, mortificato. Povera ragazza! In quello stato
di eccitazione e in lacrime per causa mia!
— Vuole che chiami sua madre? — domandai tanto per rivol-
gerle una cfualsiasi espressione gentile.
Delia mi fissò trepidante coi grandi occhi bagnati.
— Mia madre? Lei xuoì parlare con mia madre?
— Io, no! Dicevo per lei!
Di nuovo si nascose il volto, di nuovo si mise a singhiozzare.
— Povera me! Doveva proprio toccarmi un simile martirio.
— Quale martirio, signorina Delia?
— Questo! Lei non capisce, non potrà mai capire!
Invece capivo, vedevo con la massima chiarezza.
L'eterna storia della paglia accanto al fuoco. La paglia era lei,
il fuoco ero io. Pare ciie io produca effetto sulle ragazze. Non le col-
tivo, non sono azzimato, non ho niente del don Giovanni, le donne
esistono, so bene che bisc^na fare i conti con loro in taluni momenti
tipici, ma, non perciò debbono arrogarsi nella mia vita una parte
preponderante; eppure devo riconoscere che mi svolazzano in tomo
come uccelletti affascinati, il che quasi m'umilia, certo mi indispet-
tisce, essendo, a mio giudizio, il ruolo di uomo fatale, un ruolo da
imbecille.
Si aggiunga, per mia disdetta, che le pene degli altri, specie
degli esseri deboli, esercitano sul mio temperamento l'effetto del-
l'aspirina; mi deprimono, mi stordiscono, mi pongono, spiritual-
mente parlando, in uno stato sudaticcio di apatico dormiveglia.
— Signorina, glielo chiedo per piacere, non pianga. Vederla
soffrii'e mi tormenta; sono capace di averne il mal di testa, molto
più che ho perduta la notte in treno.
— Sì, ha ragione, ma io non riesco a vincermi. Oltre tutto, io
le ho rivelato il mio secreto; le ho mostrato a nudo la mia anima!
È atroce! È orribile! — e seduta davanti al tavolo, con la fronte ap-
poggiata sopra un lessico rilegato in pergamena, sembrava volesse
254 Lua E SPECCHI
sprofondarvisi per sottrarsi alla mia vista. Infatti, povera ragazza,
quale situazione sarebbe stata la sua dopo una scena simile!
E anch'io, quale situazione! D'interrompere le mie visdtie non me
la sentivo; oramai quelle due ore del pomeriggio, sopprimendole,
avrebbero scavato un buco nelle mie giornate; un buco oscuro da
cui mi sarebbero arrivati buffi d'aria gelida a darmi fastidio.
Stavo irresoluto, non sapendo se andarmene o mettermi a se-
dere, quando ecco che torna la madre dall'aver fatto le sue devo-
zioni nella chiesa vicina. Era vestita di grigio e teneva nelle mani
guantate un grosso libro di preghiera.
La salutai con evidente imbarazzo:
— Ben tornata, signora; lei prega spesso e fa bene.
— Non c'è altro nella vita, caro professore. E si convinca che la
filosofìa non esclude la religione.
— Anzi, il contrario. Basterebbe san Tommaso a provarlo.
— Sicuro, e anche sant'Agostino; ma tu. Delia, perchè piangi?
Cos'è avvenuto tra di voi? — e si rivolse a me, sollevando la veletta
sulla faccia bianca ed energica.
— Niente, mamma, lui non ha nessuna colpa. Sono io la sciocca.
— Sa — mi disse la signora con alterezza triste — se la mia po-
vera figliuola è infelice per causa sua, lei, professore, non creda per
questo di essere legato da nessun vincolo.
— Ci mancherebbe altro! — Delia esclamò, alzandosi e buttan-
dosi indietro i riccioli scapigliati.
— Libero come l'aria e non si prenda soggezione di tornare. Io
le garantisco che, in presenza sua, non piangerò mai più.
— Delia ha trovato la nota giusta. Lei può tornare, anzi mi farà
piacere; ma adesso, in un tal© momento di trambusto, mi parrebbe
che lei potesse andarsene...
Andarmente? Era una parola. Intanto so trattava di recare di-
sturbo alle due signore, le quali si erano messe a sedere accanto e
con le seggiole mi ostruivano il passaggio fra il tavolo e il muro per
arrivare all'uscio; poi bisognava licenziarsi, esprimersi in qualche
modo, consolare la figlia, scusarsi con la madre, saper trovare una
di quelle espressioni felici, che mi tradiscono inevitabilmente quando
più dovrebbero aiutarmi.
Mi avvicinai alla finestra che era spalancata, e mi posi a guar-
dane il fiume, sentendomi la testa così vuota che non sarei riuscito a
pescarci un'idea, neppure per salvarmi la vita.
Regnava nella stanza il più assoluto silenzio, ed io capivo che
toccava a me parlare, che esse non avevano altro da aggiungere, che
se non avessi parlato io, il silenzio avrebbe potuto prolungiar?.i .il-
l'infinito.
— I>el resto — dissi voltandomi e mettendomi le mani in i<i>ra
— del resto non bisogna esagerare; ogni guaio ha il suo rimedio.
Giacché la signorina Delia ha avuto la disgrazia di prendermi sul
serio, io sono qua, io non fuggo...
Delia di nuovo balzò in piedi, palpitante, col petto ad onde, tal-
mente e meravigliosamente sincera che ne rimasi commosso e ri-
scaldato.
— Sicuro, contenti noi, contenti tutti. Lavorerò io, lavorerà anche
h
LUCI E SPECCHI 255
lei, se vuole. Qualcosellina, io ce l'ho e il diavolo, in genere, non è
tanto brutto come si dipinge.
Il diavolo non c'entrava, ma nessuno ci badò. La signora si tolse
i guanti, si tolse il cappello e mi strinse una mano nelle sue con
effusione; Delia, appesa al mio braccio, tremava più di una foglia,
batteva i denti, ripetendo fra sé :
— È un sogno! Pare una favola! Purché sia vero!
Uscendo un'ora dopo, ufficialmente fidanzato e con la data del
matrimonio già stabilita, perché io detesto le circostanze in bilico e
una cosa quando è fissata vai meglio liquidarla il più presto che si
può, mi ricordai all'improvviso di quell'altra, della sorellina più
piccola. Oh! cosa ne penserà? E io cosa ne pensavo? Se fosse stata
anche lei presente, forse non mi sarei impegnato. Dovevo vederla a
pranzo e a cena; con molta probabilità l'avrei di faccia perchè io,
naturalmente, starei fra mia suocera e mia moglie. Purché non af-
fetti l'inappetenza; purché non si cibi a dosi omeopatiche; io ho uno
stomaco divoratore; mangio di gusto e mi piace di veder mangiare.
La gente che ingoia la minestra con le labbra disgustate di chi in-
goia olio di ricino, mi toglie il buon umore ed a me, prendendo i
pasti, piace di essere gioviale. Frizzi, sche>rzi, risate, parole amene
mi fioriscono dalla tovaglia come immagini ad un poeta dal chiaro
di luna. Lena diafana, anzi incorporea, doveva specchiarsi nel fondo
dei piatti, mentre i piatti io li voglio ben colmi e ripetutamente se
occorre. Quale antitesi a mio scapito! Timori ihfondcU/i! me ne con-
vinsi, tornato dal viaggio di nozze, la prima sera che ci trovammo
raccolti in quattro intomo al desco famigliare.
— Sai, non ti scandalizzare, io mangio sul serio — disse quella
ragazza con voce ardita, rompendo in due, con gesto deciso, un fi-
loncino di pane. — Forse ho il verme solitario, non mi sazio mai —
e tutti i lineamenti all'insù, mento, Icibbro superiore, zigomi, soprac-
ciglia, meno il naso che ne scendeva diritto, regolare nella bizzarria
dell'insieme, si arricciarono in una smorfìetta canzonatoria al mio
indirizzo. Il fatto che io avevo sposato sua sorella evidentemente le
dava di me un concetto assai meschino.
— Ah! tu mangi sul serio? Io invece mangio per chiasso; vedrai!
Dovette ammirarmi; lo confessò e, vedendo una superstite fetta
di carne nel piatto dd mezzo, si affrettò con precipitazione ad im-
mergervi la forchetta, mentre io, svelto, facevo altrettanto.
— Se tu sei un gentiluomo, non insistere, Urbano. Io ho ancora
appetito.
— Ho ancora appetito anch'io e non ci tengo ad essere un gen-
tiluomo.
Mia suocera con un colpo di coltello divise in due la porzione
contesa e la disputa ebbe fine.
Diventammo subito amici; due amici burloni, sempre lì a bistic-
ciarsi, a cercare vicendevoli difetti per metterli in evidenza, a indi-
carci coll'occhio il boccone più scelto per gareg^are di astuzia a
portarcelo via. Sx)essis9Ìmo, dopo il pranzo, Lena prendeva il \'io-
lino, io sedevo al pianoforte ed allora, guardandola di sfuggita,
eretta, fiera, i capelli rossigni come sparpagliati nell'aria, non riu-
scivo a capacitarmi che quel viso assorto, aggrondato, fosse il viso
di DOGO fa.
2Ùtj LLLl t bPELLllI
E mia moglie? Era stata nominata bibliotecaria con destinazione
alla biblioteca Angelica, dimodoché rimaneva assente mota della
giornata e anche quando si trovava in casa pareva assente più ohe
mai, assorbita, narcotizzata dal troppo leggere e il troppo pensare.
Prima di sposarla non avrei supposto chs un esile corpo femminile
potesse portarsi in giro un così smisurato carico di sapienza! Io ne
rimanevo disorientato, agghiacciato, ne provavo un gelo e nel vibrare
de' suoi nervi sentivo il riflesso di vibrazioni estranee. Lei, poverina,
faceva il possibile e l'impossibile per nascondere una tale deformità;
rivolgeva parole irriverenti a poeti e prosatori, affettava scetticismo
sul conto dei piìi accreditati avvenimenti storici, sosteneva teorie di
anarchia intellettuale e tutto ciò aumentava il suo disagio; contri-
buiva a vincolarla di più in ogni sua manifestazione.
.Altra aggravante: fra lei e sua madre si erano date la missione
infausta di portare il lutto, vita naturai durante, per una grave sven-
tura accaduta in famiglia tanti anni prima.
All'indomani del fidanzamento la signora mi aveva chiesto con
solennità un colloquio riservatissimo e si era creduta in dovere di
narrarmi ne' più minuti particolari, la tragedia della sua giovinezza.
II marito, un gaudente senza Dio, né legge, un avventuriero del pia-
cere stile 1830, dopo averne fatto di tutti i colori, s'innamorò e in-
namorò fino al delirio una giovinetta di buona famiglia, la portò via
dal nido al rombo di una macchia e sul più bello delle ebbrezze,
sentendosi alle calcag'na i genitori e i questurini, freddò la ragazza,
si freddò e i due cadaveri furono trovati sotto una coperta di da-
masco in un grande letto di un albergo, a Siena.
— Da quell'era — mia suocera aveva conclixso — mi sono im-
posta e ho imposto alle mie figliuole un'esistenza di austerità.
— E perché, cara signora? Che c'entra qui l'austerità sua e delle
figliuole?
— Nei solchi scavati dal dolor© non fioriscono rose — aveva ella
insistito, stringendo forte le dita intrecciate e le mascelle.
— Lasci andare il dolore e lasci andare le rose; dopo quindici
anni mi pare che sia il caso di rassegnarsi.
— Il guiaio é, figliuolo, eh© io non riesco a perdonar©; io sono
ancora avvelenata di odio contro quell'uomo che fu mio marito e
contro quella donna che fu la nostra rovina.
— Lasci correre, lasci correre... Se la vita futura esiste — e io
ci credo — quei due disgraziati avranno abbastanza gatte da pelare
all'altro mondo senza che lei aggravi col suo rancore la loro con-
dizione.
Si era alzata quasi offesa ed io avevo capito che avrebbe deside-
rato alquanto più di pathos nel mio contegno.
Questo brutto avvenimento lontano ogni tanto ricompariva per
un verso o per un altro; ogni tanto sentivo mia suocera sospirare.
Delia farle eco ed insieme ripetere a mezza voce: « È imitile, si ha
bel fare, certe ferite non si rimarginano».
Una mattina vidi Lena uscire dalla sua stanza scarmigliata, ge-
sticolante, una vera furia.
- Tutte le ragazze si vestono di rosso, di giallo, di verde, d-
qualsiasi tinta! 'E io, perchè no? Io perchè di grigio, di marrone, di
Lua E SPECCHI 257
nero, di tetraggine? Il verde pisello è di moda e io metterò il mio
vestito verde pisello, dovesse cascare il mondo.
Entrò a precipizio nel mio studio, dove io mi ero ritirato in
fretta, per non immischiarmi in affari che non mi riguardavano,
chiuse la porta con violenza e si abbandonò a uno sfogo di parole
arruffate.
— Mio padre può aver avuto torto o ragione, io non c'entro. Avevo
quattro anni allora. Intanto però trovo sconveniente questo biasimo
che non finisce mai. E dopo tutto cosa pretendono? Si è punito da sé,
è morto; cosa poteva fare di più? Io lo amo e lo rimpiango. Doveva
essere allegro, sono sicura che sarei stata la sua beniamina e mi
avrebbe fatto vestire a gusto mio. Lo lascino dunque in pace e lascino
in pace anche me.
Aveva mille ragioni; non glielo dissi, ma in cuor mio le detti
mille ragioni. Il color verde pisello poi doveva andarle assai bene
così fulva e incarnata, con quegli occhi cangianti e il viso di una ca-
pricciosità crudele.
Fece presto a calmarsi, capì che io stavo dalla sua parte, mi sor-
rise, mi tolse dalle mani il libro che stavo leggendo, si strinse nelle
spalle, vedendone il titolo astruso, e si affacciò alla finestra piena di
sole. Nel mirarla curva, fluida, con una specie di tunica lieve sulle
forme evanescenti, le gambe snelle come nude sotto la trasparenza
della stoffa leggera, le braccia penzoloni fuori del davanzale, provai
un senso improvviso di tristezza. La coscienza mi s'intorbidava, la
vista anche. Mi pareva che la strana creatura fosse emersa dalle acque
del fiume per la mia dannazione e che nel fiume dovessimo scompa
rire insiem.e.
Mia suocera aprì la porta ed entrò, girando uno sguardo scruta-
tore, (juasi grifagno. Lena stava alla finestra per conto sub; io sfo-
gliavo un libro per conto mio; cosa c'era di allarmante- Eppure...
Eppure...
Da quella mattina, Lena tenne verso di me il contegno di una
complice. Non c'era nulla, il gran nulla, e non pertanto si compor-
tava come se fra noi ci fosse qualche cosa.
Parlava meno, non mi rivolgeva più né frizzi, né dispetti; nel
suo ridere avvertivo un gorgheggiare, un picchettare; nella sua voce
cadenze e soste; nelle parole un doppio fondo e avevo l'impressione
fastidiosa che Lena mi girasse intomo svolgendo filo da un gomitolo.
Me ne sentivo legato, invischiato, anch'io parlando poco, evitando
confidenzialità e una volta che nel passarmi vicino mi dette forte di
gomito come per distrazione, io mi allontanai di un passo e brusca-
mente le dissi :
— Non potresti deciderti a lasciarmi tranquillo?
Fu appunto in seguito a tale episodio che si svolse fra noi una
scena preoccupante nella sua schematica semplicità :
Stavo nel mio studio a redigere stentamente un articolo edito-
riale per la mia rivista e polemizzavo, sen2:a il mio abituale umo-
rismo, con una rivista di studi religiosi a proposito della scolastica,
quando un profumo, un fruscio, mi fecero alzare la testa e vidi Lena
accanto al mio tavolo, in aria dispettosa ed altera:
— Cosa vuoi? — e se.guitai a scrivere, o mesrlio a farne le viste.
258 Lua E SPECCHI
— Niente, volevo dirti che siamo soli in casa. Mia madre non
supponeva forse che io rincasassi presto, ed è uscita.-
— Ebbene? Se tua madre è uscita, tornerà. È una notizia banale.
— Credi? Allora perchè tremi? — Rise buttando indietro il capo
e, dopo una pausa soggiunse : — Tu questa mattina mi hai detto di
lasciarti tranquillo. Io sono qui adesso per risponderti che tranquillo
non ti voglio lasciare. Intanto sappi che, fino ad oggi, tu sei l'unico
individuo dell'altro sesso che mi sembri degno di considerazione, e
non importa ohe tu sia il marito di mia sorella. Nel linguaggio cor-
rente questo si chiama cinismo, non è vero? Ebbene chiamalo come
ti pare, io sento così.
Era pazza, evidentemente, ma, purtroppo, di una pazzia conta-
giosa. Non pertanto le dissi, irritato:
— Sei una inconsciente perfetta.
— E tu sei livido. Perchè?
— Dovrebbero chiuderti al manicomio.
— E tu? Hai lo sguardo smarrito; lo sguardo di un pazzo .uirnt
tu. Perchè?
— Vattene.
— Cosa ti fa che io vada? A ogni modo mi hai vicina, sempre,
vedendomi o no.
— È una farsa che deve finire. Parlerò a tua madre.
— Ecco! Ecco! Se lo farai, ti stimerò! Penserò che hai coraggio
da vendere; ma non lo farai. Solo guardandoti in faccia capisco che
non lo farai!
Non lo feci; non ci pensai neppure! L'indomani, a tavola, ebbe
l'audacia di sfidarmi, di chiedermi in presenza di mia suocera e di
mia moglie :
— Volevi parlare alla mamma di quella cosa? Perchè non lo hai
fatto?
— Parlarmi di che? — mia .suocera domandò.
— Le solite sciocchezze di Lena — io risposi evasivo, mentre il
viso affilato di Delia si abbandonava sul petto, come sopraffatto dal
peso di una vergogna non sua, eppure insostenibile. C'era tanta bontà
nobile e mansueta in quel gesto che ne rimasi umiliato e anche in-
disposto.
Che ambiente, benedetto Iddio! Saturo di passione, tutti noi sotto
la minaccia permianente di un corto circuito, senza che nessuno tro-
vasse la forza di scappare e trascinare gli altri fuori della cerchia
pericolosa. Doveva proprio toccare a me capitarci dentro! A me, ne-
mico giurato degl'intrighi, specie amorosi, nato e creato per il piano,
l'aperto, il sereno, che fra tutte le ambite e illustranti qualifiche,
l'unica a cui aspirassi, a cui tenessi, era la qualifica di galantuomo!
Sentirmi oscillare e mancare sotto i piedi il terreno, sempre così ben
battuto, della mia rettitudine, mi rendeva taciturno, burbero, con
mia suocera, ingiusto verso mia moglie. Quanto a Lena, potendo,
l'avrei con piacere sequestrata nel fondo di una torre, dove peraltro
mi fosse possibile andarla a vedere qualche volta, magari da un fine-
strino.
Per colmo di complicazione mia moglie cadde ammalata e con
un'ammalata grave da assistere in comune, l'intimità fra me e Lena
s'intensificò!
LTJa E SPECCHI 259
Ci davamo il cambio — infermiere Delia non ne voleva — ma.
io sono goffo, inadatto ai mo\imenti delicati del termometro quando
si osserva, del g-ontagocce, del cucchiaio da empire. Urto, mi di-
straggo, rovescio e, cercando con le grosse dita fra i medicinali, o
sbaglio o fracasso; sicché, mentre io assistevo l'ammalata, mia suo-
cera e Lena dovevano assistere me. Ora è finito, ben finito, definiti-
vamente finito; si vede che dovevo subire anch'io la crisi della denti-
zione e della scarlattina sentimentale e, pazienza, se le circostanze
me l'hanno fatta subire nelle peggiori condizioni. Ora sono immuniz-
zato e posso sfidare qualsiasi contagio, ma, certo, ripensando a quei
mesi, mi pare impossibile di averla scampata.
Nel contegno di Lena c'erano intanto talune mosse di una tale
impreveduta arditezza che, all'urto, io dovevo inevitabilmente oscil-
lare, non foss'altro per la sorpresa. Passavano giorni, magari una o
due settimane, che di me non si occupava né in male, né in bene.
Suonava, trascorreva le intiere serate al letto di sua sorella ad aguc-
chiare, ovvero a chiacchierare del piiì e del meno con brio, magari con
assennatezza, e mi faceva trovare sul tavolo lunghe strisce di bozze
rivedute meticolosamente.
— Tanto m^lio, tanto meglio. — dicevo a me stesso, sciupando
intere mezz'ore affacciato alla finestra, fumando, guardando il giallo
dell'acqua in corsa. Quante cose instabili nella vita! Ma nulla è più
instabile del pensiero e nessun pensiero é più instabile di quello che
svapora da un cervello femminile. Chi mai potrà vantarsi di capirci
qualche cosa? Nemmeno il signore Iddio che l'ha creato. Mi allon-
tanavo dalla finestra coi gomiti indolenziti e la bocca amara a forza
di masticare l'erba del voglio e non voglio. Per esser franco l'asso-
luta indifferenza di Lena mi scavava in mezzo allo stomaco una buca
che il cibo non riusciva a colmare.
Le cose stavano così, quando una notte a mezzanotte — come nei
racconti fantastici ed invece era tutta realtà — Delia, dopo una inie-
zione calmante riposava tranquilla e mia suocera, stracca morta,
l'avevamo mandata a letto; era la mia notte di turno per la veglia e,
giacché le comodità non mi dispiacciono e qualunque sia il mio stato
d'animo il benessere materiale non ne ha la colpa, né deve scapitarci,
avevo collocato urla poltrona a sdraio nel salottino attiguo alla stanza
di mia moglie, avevo infilate le pantofole, mi ero avvoltolato morbi-
damente dentro le pieghe di un plaid e mi ero tirato sugli occhi la vi-
siera di un berretto da viaggio di seta grigia non troppo poetico, ma
abbastanza elegante e assai confortevole. Mi trovavo come in uno
scompartimento di prima classe e Lena, che avrebbe dovuto andarsi
a coricare, rimaneva immobile, seduta a poca distanza, sopra l'an-
golo di un divano, assorbita nella lettura di un picx^olo volume mezzo
sfogliato. Il sonno mi scendeva adagio sulle palpebre e il rumore del
vento sul fiume, simulando il rumore di un treno in marcia, mi dava
l'impressione di viaggiare. Sentii che Lena si alzava, camminando
sulla punta dei piedi, la sentii uscire, rientrare, riprendere il suo
posto e dire, quasi in un bisbiglio :
— Meno male che sta quieta. Dorme.
Io mi scossi.
— Chi é che dorme?
260 LUa E SPECCHI
— Delia.
— È buon segno. E tu perchè non vai a dormire?
— Non ho sonno. Ho letto questo libro che mi ha impressionata.
Mi tolsi il berretto, mi svincolai dal plaid.
— Sono in pantofole, ti chiedo scusa.
Lena, insolitamente pensosa, lanciò un'occhiata alle mie calze,
poi distratta mi disse:
— Porti delle calze di uno chic... Mi sono già accorta che sei
trasandato solo nell'apparenza...
Io la interruppi per domandarle cosa c'era d'impressionante nel
libro che andava leggendo.
— È una commedia di Ibsen Gli spettri. L'hai letta?
— Mi pare di si, molto tempo fa.
— Ti piace?
— È tetra.
— È vera, di una verità spaventevole. Quel padre morto che ri-
vive nel figlio coi suoi vizi e le sue colpe, scusa molte cose nella vita.
Non sei di questa opinione?
— No. I morti sono ì morti, noi siamo vivi e dobbiamo sceglierci
la nostra sorte.
— Dici così per non darmi ragione; eppure io sento che Ibsen
ha messo il dito in una piaga. Credi tu che io non sarei pronta, in
questo minuto, a commettere una pazzia, la peggiore delle pazzie, per
soddisfare me stessa? E mi fa piacere sentirmi sentenziare da un
grande scrittore, nobile, che non sono io la malvagia; che in me agisce
la malvagità di uno scomparso. /Mlora io sono irresponsabile; posso
commettere ogni sorta di cattive azioni senza meritare rimproveri e
torturarmi coi rimorsi.
Parlava quieta e convinta, il viso serio, intento, sollevato verso
di me, le ginocchia strette nelle mani allacciate, in una posa di lan-
guore dolce, di stanchezza abbandonata.
Io sentivo una vampa salirmi dai calcagni alla nuca, lambirmi
le tempie e nel mio sang-ue si scatenava una bufera.
— Perchè non mi rispondi? Perchè mi calpesti il cuore? — Lena
domandò umilmente. — Se tu volessi noi si fuggirebbe insieme, non
per morire, come lui, il mio spettro, per vivere felici. Sappiamo es-
sere eroici; spezziamo tutti questi nodi.
— Stai zitta, non farneticare — io dissi, alzandomi e non ricono-
scevo la mia voce — l'eroismo vero consiste nel restare al proprio
posto! Certi nodi spezzarli è viltà; lasciarsene stringere, forza, unica
forza.
Non si ribellò, non protestò; nemmeno una sillaba le uscì dal
labbro; ma in quel suo silenzio io sentivo un tumultuare di voci di-
scordi e, alto più di ogni voce, un ridere secco di scherno.
Trascorremmo il restante della notte nella camera di Delia, io
da una parte del letto. Lena dall'altra e, fra noi, la povera ammalata
giacente nel suo dolore.
Appena mia moglie fu entrata in convalescenza, la terribile ra-
gazza partì in escursione e così ebbi alcune settimane di respiro per
rimettermi in equilibrio.
Mia moglie mi fu d'immenso aiuto. Io la vedevo rifiorire nel corpo
che riprendeva vigore, e nell'anima in cui germodiavano le sensa-
LUa £ Sx^ECCHl -^bi
zioni a sostituire le idee. Mi seguiva fedele, paziente, con una inter-
rogazione ansiosa nei larghi occhi sem'pre attoniti, e coll'aria di chi
aspetti... Mi sentiva lontano, aspettava che io arrivassi e, forse, a
poco a poco, di passo tardo, ma fermo, un giorno o l'altro avrei finito
col superare spontaneamente lo spazio che ci divideva, se, al ri tomo
di Lena, non avessi sentito gravarmi addosso il sospetto di mia suo-
cera, la quale mi faceva oggetto di vigilanza umiliante e snervante.
Un sogguardarmi di sfuggita durante i pasti, una sospensione
attenta del viso ad ogni mia parola; già pronta per uscire, un osten-
tato indugiare finché Lena o io non l'avessimo preceduta, e allusioni
al duro destino della sua vita; e quei due morti di quindici anni fa,
che nei ricordi sospirosi, rigalleggiavano a farmi uscire di casa e
spesso anche dai gangheri, ^
Avrei voluto farla finita, prendermi Delia ed andarmene; ma
sarebbe stato necessario spiegarsi e io so che le parole, in alcune si-
tuazioni, somigliano a colpi di martello sopra l'involucro di un alto
esplosivo. Si corre rischio di far tutto saltare in aria. E poi quali pa-
role? Cosa potevo dire? Che una ragazza pazza e bella, i>er puro spi-
rito di contraddizione, aveva preso a perseguitarmi e che io, quan-
tunque sia uomo, fornito degli occhi e del resto, una brutta notte le
avevo quasi lasciato nelle mani il plaid che mi fungeva da mantello?
Avrei fatto ridere perfino mia suocera, che è tutto dire. Di fronte ad
una donna giovane, seducente, ansiosa, un uomo può anche riuscire,
con molta buona volontà, a mantenersi un galantuomo, a patto pe-
raltro che non lo racconti, che non se i^ vanti. La vita sociale è un
tessuto di stramberie! Certe canag^liate abbassano e nello stesso tempo
danno prestigio; certe nobili azioni, sopratutto certe coraggiose ri-
nuncie, c'innalzano eppure ci coprono di ridicolo.
Io mi trovavo, dunque, a dar di cozzo col capo nel fondo di un
vicolo cieco, quando — il come ed il perchè l'ho dedotto di tra l'arruf-
fata narrazione di Delia — mia suocera e mia cognata, in fretta e
furia, dall'oggi al domani, hanno fatto fagotto ed hanno preso il volo
definitivo.
Provai uno strappo, non nego. Un dente, se duole, a farselo estir-
pare, lì per lì, il dolore aumenta, la piccola fossa dà sangue, e ne ri-
mane al capo un tal quale stordimento; ma, poco dopo, quale sol-
lievo! Il piccolo osso cariato è rimasto dal dentista e noi, liberati, non
ci si pensa più! Basta un poco di pazienza, basta non irritare la fe-
rita, stuzzicandola.
Invece Delia pretendeva che io cominciassi subito a masticare le
dolcezze della nostra solitudine. Mi ronzava intomo, aveva una sma-
nia assillante di farmi capire che mi aveva perdonato, che il passato
era come se non fosse esistito mai.
Ed appunto questo non volevo. Inginocchiarmi al tribunale della
penitenza e farmi assolvere di peccati non commessi, sarebbe stato il
superlativo del grottesco.
Così, domenica, perdetti la pazienza e, presa piìi o meno delica-
tamente mia moglie per un braccio, la misi fuori dell'uscio. Per que-
sto atto, in verità di una mediocre cortesia, ho corso, nient'altro, il
pericolo che Delia si gettasse dalla finestra nel Tevere. Mi sento ge-
lare a ripensarci : francamente, prendere moglie sopratutto per la
soddisfazione di potersi affacciare sopra un fiume e che poi il fiume
262 LUa E SPECCHI
s'inghiottisse mia moglie e la mia pace, in eterno, sarebbe stata troppo
grossa.
Grazie a Dio, tutto è bene quello che finisce bene ed eccoci qua
ancora un po' stroncati, ma vicendevolmente fiduciosi e cogli animi
abbastanza sereni.
Mia moglie conclude i suoi sfoghi lirici — degni del massimo
rispetto peraltro in grazia della loro assoluta sincerità — coll'asserire
che è oramai sicura di tenermi avvinto, poiché ha finalmente impa-
rato cosa bisogna fare, come bisogna fare
È una cosa che la riguarda, io non c'entro. Ti avviso, ad ogni
modo, cara Delia, che il matrimonio è un viaggio da percorrersi in
due e che Jura — in Italia finora non c'è divorzio — dal municipio
e dalla chiesa fino a quel luogo ameno dell'ultima dimora. Un viag-
gio assai lungo — devi convenirne — e inevitabilmente disagiato in
taluni passaggi, molto più che ciascuno di noi si trascina dietro un
bagaglio, il quale aumenta di volume non che di peso coll'aumentare
delle nostre esigenze miateriali e spirituali. Io ti aiuterò a portare il
tuo, zeppo in gran parte di nuvole e di mosche, roba che pesa, quan-
tunque inconsistente. Io ti aiuterò, non dubitare, senza sfacchinarmi,
senza sprofondarmi in salamelecchi, da guida premurosa, da buon
camerata affezionatissimo; sì ora che mi pare di conoscerti, m'ispiri
una sincera affezione. Dunque, siamo intesi. Puoi contare su di me,
e non esigo affatto che tu, in compenso, mi dia una mano nelle salite
scabrose o che mi aiuti, se il mio carico mi schianta il braccio. Ti
chiedo solo di non essermi d'impaccio, di non vincolarmi nella li-
bertà delle mie mosse o, per lo meno, giacché sei diventata tanto
esperta, di vincolarmi con sapienza, sia pure con astuzia, in modo
che io non me ne avveda, anzi nemmeno lo sospetti.
Clarice Tartufar!.
IL NATURALISMO UMANISTICO DI ROBERTO ARDIGO'
I.
A due titoli si lega specialmente il nome insigne di R. Ardigò,
e sono : 1° un senso altissimo del valore delle idee come forze sublimi
del carattere, per il quale si svolse il dramma purissimo della sua
conversione; 2° l'ispirazione uméinistica del suo Positivismo che, per
la sostanza, meglio si direbbe Xatztratlsnw itmamstico. È avvenuto
però e a\^iene spesso che, o per incultura o per passione di parte,
la sua dottrina sia male intesa e deformata, e che se ne deprezzi lo
spirito negandone anzitutto l'originalità; ma se in essa penetrando
ia si ricostruisca fedelmente, nel suo intimo tessuto ideaUvo e nelle
finalità che la pervadono, si dovrà riconoscere che si distingue net-
tamente da altre dottrine pur dette positivistiche, e che mentre con-
tinua la gloriosa tradizione naturalistica ed umanistica del nostro
Rinascimento filosofico, contiene in sé medesima un potere germina-
tivo perenne. A tale compito io mi sono proposto di soddisfare con
l'opera, che vedrà prossimamente la luce, Roberto Ardigò: L'Uomo e
VL'manista (Bologna, Zanichelli), assolvendo a un* debito che dirò
di lealtà storica e critica. Qui intanto stimo opportuno presentare
della filosofia ardighiana, in iscorcio, i tratti essenziali, toccando
anche delle ragioni sue più importanti e meno avvertite.
IL
Ardigò ha riallacciato la filosofia alla scienza meglio che non si
fosse fatto prima di lui in Francia e in Inghilterra. Non le spetta
infatti il puro uflBcio di sistemare o unificare i risultati delle ricerche
scientifiche, ma con la funzione di sintesi ideale — che nulla vieta
sia anche sintesi creativa — le compete pur quella, come Ardigò si
esprime, di matrice delle scienze, simile alla natura matrice delle
proprie formazioni. Ardigò rivendicava in tal maniera, in difesa
della filosofia, un suo diritto storico.
Le induzioni che seguendo questo indirizzo propulsivo la filo-
sofia potrà formulare saranno necessariamente ipotetiche, e desti-
nate quindi ad essere, per le nuove indagini delle scienze, convali-
date, modificate, o respinte; e un valore ipotetico Ardigò attribuì
infatti come al principio dell'evoluzione così a quello suo dell'intf/-
stinto che varrebbe a sostituirlo. Ma è dunque la filosofia condan-
nata a non superare mai il dato problematico? Non perde essa con
264 IL NATUHALIS&10 UMANISTICO DI HOBEsiTO ABDICÒ
ciò la sua principale ragione d'essere, lasciando insoddisfatto il bi-
iogno pili tormentoso del nostro spirito? Qui,- o in questo atteggia-
mento deil'Ardigò innanzi al valore del sapere filosofico, è la prima
caratteristica della sua dottrina.
È vana, egli pensava, la pretesa della filosofia di dominare la
realtà mediante un secondo sguardo che ne scopra definitivamente
Tultinio significato ideale, indipendente dalla scienza. Per quale ra-
gione mai la filosofia jdovrebbe arrogarsi la prerogativa di creare di-
rettamente verità assolute, obbiettive, universali, seguendo un me-
todo affatto contrario a quello onde si costruisce, briciolo per bri-
ciolo, il sapere scientifico? Quale fondamento di verità si può attri-
buire all'assolutismo metafisico se mentre la verità è una, i siatemi
metafisici sono molti ed effìmeri e si sostituiscono l'un l'altro?
Le induzioni della filosofia positiva sono ipotetiche; ma tali sono,
vale a dire emendabili, in quanto .umane, tutte le teorie. V'è però nel-
1 ordine del nostro sapere un qualche cosa che parve all'A^igò più
che umano, divino, vale a dire non emendabile; ed è il fatto. Solo
quelle teorie che nel fatto hanno radici e sostegno danno quindi, pur
nel loro progressivo integrarsi e svolgersi, un affidamento concreto
di verità; e nulla più di tanto noi possiamo chiedere, nel rispetto
intellettuale, alla filosofia. Sono ipotetiche le induzioni della filosofia
scientifica, perchè il progresso incessante e imprevedibile della scienza
impone sempre nella visione sintetica della realtà qualche riserva;
ma se attingono i loro elementi dal divino dominio del fatto, esse
conservano pur sempre, nel loro fondamento, il vigore della certezza
scientifica. Non dunque da un preconcetto arbitrario derivava l'Ar-
digò la propria ostilità contro la Metafisica, ma quasi direi dal suo
stesso istinto del Vero, in quanto non seppe persuadersi che in altre
sfere di conoscenza reale la mente umana potesse aleggiare e risto-
rarsi fuori di quella che emerge dall'esperienza organizzata dallo
spirito scientifico. L'impazienza del metafisico gli ripugnava, e solo
nella calma dell'indagine tenace egli collocò il spreto della verità
filosofica.
Così .'Xrdigò intese la filosofia, il cui ufficio rimane pertanto es-
senzialmente teorico. Non per questo devesi credere che i fini pratici
onde, in ultima analisi, si genera l'assolutismo metafisico, rimangano
nella sua filosofia positiva in alcun modo menomati o compromessi.
All'incontro, purificati da preconcetti aprioristici e afTettivi, essi gi-
ganteggiano nella sua dottrina con la loro sostanza viva di bisogni
incancellabili della nostra stessa profonda natura, più i-eali e più veri.
E perchè mai dovremmo preventivamente temere che la verità, e sia
pur quella che giunge all'intelletto per le vie del cuore, non trovi
conferma, se è verità, nell'uso del metodo positivo?
Ardigò non avversava l'assolutismo metafisico perchè ripudiasse
a priori determinate credenze, ma perchè era convmto che il dogma-
tismo, qualunque forma rivesta, apre fatalmente la via allo scetti-
cismo: lo ripudiava insomma, perchè riteneva che la Metafisica, in
quanto è dogmatica, fosse sostanzialipcnte una filosofia negativa. E
tuttavia egli non fu, come ti potrebbe sospettare, così alieno dal-
l'abito comune del nostro spirito da non riconoscere come legittimo,
in un suo peculiare aspetto, quello che si suole chiamare il bisogno
metafiHco. Non consiste di fatto questo bisogno umano iinir<inioiito
IL NATURALISMO UMANISTICO DI ROBERTO ARDIGÒ 265
nel premito romantico che si risolve nell'improvviso balzare di un'in-
tuizione trascendentale della realtà, per quello stato di rapimento
onde ha libero corso l'immaginazione creatrice, ossia l'istinto della
speculazione poetica. Consiste bensì anche e sopratutto, se lo riguar-
diamo nella sua essenza psicologica fondamentale, nella brama che
ci spinge verso le più alte sintesi della filosofia. Si appaga esso nella
Metafisica, ma non è vero che inesorabilmente la scienza l'arresti o
le spenga costringendoci nel duro carcere delle vedute anguste e de-
solanti. È per contro innegabile che se le sintesi metafìsiche possono
avere le parvenze logiche più seducenti, non reggono tuttavia, per la
solidità costruttiva, al confronto con quelle che la scienza stessa può
suggerire e disciplinare; e che pur la visione scientifica della realtà,
quando raggiunga per la via diretta le vette della filosofia, possiede
quella virtù catartica che spetta a ogni alta concezione filosofica.
Non è segno di spirituale fortezza fingere d'ignorare i problemi
massimi quali quelli che toccano l'intimo essere del nostro io e il
nostro destino, e ripudiare per la scienza la filosofia. Perchè, si chie-
deva Ippolito Taine, vive una Nazione o un secolo se non per formare
le grandi idee filosofiche? Non si è intieramente uomini se non per
questo. Se un abitante di altro pianeta scendesse a chiederci dov'è
la nostra specie, dovremmo indicargli . le cinque o sei grandi idee
che possediamo circa lo spirito e il mondo. Solo così egli avrà la
misura della nostra intelligenza.
Né mai invero dovrebbe atterrirci la grandiosità di un'idea filo-
sofica anche se, in relazione a determinate pretese, eventualmente
apparisse negativa. In realtà le grsindi idee della filosofia non sono
mai negative assolutamente, poiché vi hanno il loro palpito perpetuo
i nostri supremi interessi spirituali, che non potremmo rinnegare
senza annullare in noi medesimi la nostra stessa umanità. È assurdo
attribuire all'ufiìcio della filosofia il disinteresse caratteristico d'una
determinata scienza.
Le visioni metafisiche andando al di là della scienza ci traspor-
tano, non altrimenti che le visioni estetiche, oltre i confini del vero
e del falso, e appagano quindi quel senso mistico dei valori ideali
ch'è proprio dei temperamenti romantici. Ma perchè dovremmo di-
sperare che per i temperamenti non romantici la filosofia, rimanendo
nell'ambito del vero positivo, molto più fecondo di visioni filosofiche
di quanto comunemente si crede, non riesca ad appagare nelle sue
pretese più semplici e umane il bisogno metafisico, e a documentare
pur essa solidamente i valori dello spirito?
Disse Hegel — e ripeterono tutti gl'idealisti di destra e di si-
nistra — che noi dobbiamo oltrepassare nella filosofia il metodo scien-
tifico perchè incapace di soddisfare definitivamente l'intelligenza.
Ma forse questa si appaga meglio neW apriorismo con cui tenta sot-
trarsi pavida al rigoroso controllo dell'esperienza? E sono poi intel-
lettuali le esigenze che il metodo scientifico non riuscirebbe a soddi-
sfare, o non accade invece che invadano l'intelligenza altre più se-
grete pressioni, quelle cioè del misticismo formulato dal classico
«Credo ut intelligam».
L'intelligenza non si acqueta ai fenomeni e alle loro leggi, né
resiste, senza angoscia a risalire di causa in causa indefinitamente.
Tende essa bensì all'Assoluto come ultimo perchè dell'essere e del-
18 Voi. CCXVI, serie VI — !• febbraio 1922.
266 IL NATURALISMO UMANISTICO DI ROBERTO ARDIGÒ
l'tiocadere. Non è questo un diritto in cui si manifesta la sua libertà?
E 96 spetta alla filosofìa di reinterpretare la scienza, non è d'uopo
che 1 oltrepassi? Al di sopra del cieco turbinare degli eventi che la
scienza freddamente rispecchia, solo la filosofia — si dice — che sa
svincolarsene spaziando nell'Olimpo delle idee pure e dei fini assoluti
può rispondere in maniera esauriente agli incalzanti problemi che
tanto affannano il nostro spirito. Tale è la fede di molti; ma perchè
escludere che nelle menti temprate al dubbio metodico, anima del
vero sapere (ben distinto dal puro credere), le ampie e libere vedute
della filosofia positiva possano indurre la quiete, se di quiete solenne
o, per usare le sue parole, « della tranquillità più sicura e confor-
tante » fu esempio tipico non dubbio lo stesso Ardigò?
Tenendo egli la mente aperta a tutte le investigazioni e ad ogni
specie di verità, vi accolse pur quanto la Metafisica contiene di con-
forme alla realtà. Essendo pur essa un modo della vita interiore, e
vincolata suo malgrado all'esperienza, egli ne rintracciava il fondo
positivo innegabile, e lo faceva proprio della sua stessa dottrina,
mantenendo persino della Metafìsica i termini più caratteristici.
Aderì infatti anche all'idea dell'Assoluto. Devo però subito soggiun-
gere che non era questo per Ardigò Ven^te in sé, trascendentale,
dei Metafisici, bensì quel focolaio inesauribile d'ogni cosa od evento
che diciamo Natura.
Nell'Assoluto della Natura noi siamo e viviamo. Assoluto è na-
turalisticamente il nostro essere, assoluto il nostro fare. Ha dunque
l'Ardigò divinizzata la natura alla maniera spinoziana? E sia; ma
nulla c'è veramente, nell'intimo tessuto di questa dottrina, che figuri
come una nuova Metafisica, poiché l'Assoluto dell'Ardigò è, in ultima
analisi, un'induzione dell'esperienza. Ha poi nel vasto sistema, ch'io
posso qui soltanto sfiorare, della sua filosofia, un'immensa impor-
tanza e fecondità, poiché anzitutto nell'assoluto della Natura Ardigò
fondava quel valore della conoscenza umana di cui è poir giusto che
andiamo superbi.
ni.
I due problemi dell'essere e del conoscere che comunemente si
distaccano, diventano per Ardigò un problema unico fondamentale;
e la ragione è questa: l'essere e il conoscere nell'esperienza coinci-
dono. Si raccolgono entrambi — per dire altrimenti — nel fatto della
coscienza che s'inizia con la sensazione. Per effetto di tale unità, o
per il coincidere iniziale dello stimolo col fatto sensibile, questo
acquista — si noti bene — il carattere della certezza assoluta.
I metafisici dopo aver separato il conoscere dall'essere concreto
in maniera da sbarrarsi la via a quel loro accostamento che poi s'in-
dustriano di raggiungere, sono indotti a cercare la certezza nell'idea
indipendente dal fatto. Rimangono essi fermi nel convincimento che
il fatto per sé non possa essere ritenuto certo, e che la certezza pre-
supponga la propria teoria, di cui è fabbro il conoscere puro; ma
essi — obbiettava Ardigò — ragionano come quel fisico che non am-
mettesse come certo un dato qualsiasi dell'esperienza sensibile, per
e-s., la luce, prima di aver scoperto che cos'è la certezza metafìsica.
IL NATURALISMO UMANISTICO DI ROBERTO ARDIGÒ 267
E se un simile bisogno non è per nulla sentito dallo scienziato, i)erchè
dovrebbe sentirlo il filosofo, posto che la certezza, quando sia tale,
è identica nell'uno e nelValtro? A tale stregua la conoscenza propria
della filosofia dovrebbe differire per sua natura da quella della
scienza; ma è evidente che nessun altro tipo di conoscenza è pensa-
bile che non sia quello per cui pensiamo. Pensare l'impensabile è
un'arte, dirò cosà, cabalistica, riservata al prestigio di qualche idea-
lista.
Ed ecco fissato il nucleo della filosofia ardighiana. Verum ipsum
factum. Criterio della verità è il fatto; il fatto della coscienza o psico-
fisico. Il Vero non è un influsso mistico che c'investa come un'armo-
nia divina, o che esca dall'intelletto come la farfalla aurata esce
dalla corolla del fiore in cui si teneva nascosta. Il Vero che il Meta-
fisico concepisce come trascendentale non è effettivamente che lo
;%:-so vero, per (juanto trasformato, dell'uomo comune, essendo una
: --è inesorabile della nostra stessa natura che mai noi possiamo
liberarci dalle sode ritorte dell'esperienza sensibile.
Prima del Positivismo filosofico il cielo della psiche illudeva
come il cielo astronomico dalla luna in su anteriormente al Positi-
vismo naturalistico. L'illusione si dileguò quando si giunse a sco-
prire, in quel fatto della coscienza che è la sensazione, il primo e
fondamentale elemento d'ogni nostra conoscenza, in quanto è anche
jil dato essenziale o la rivelazione immediata della realtà oggettiva.
[a cfui appunto la controversia si accentua, poiché non il senso — si
)bbietta — ma l'intelletto è nell'uomo la facoltà per cui egli com-
)rende, conosce, ragiona; e sono noti gli argomenti addotti a difesa
questa tesi. Senonchè Ardigò, che non dimenticava le possibili
fallacie del senso (riparabili tuttavia sempre in virtù di nuove espe-
ienze), intese la sensazione in maniera diversa dai sensisti puri, e
tal modo che la sua filosofia dell'essere e del conoscere potrebbe
chiamarsi propriamente una filosofia della sensazione. Infatti egli at-
ribuì alla sensazione quell'universalità che l'idealismo riserva al-
l'intelletto puro e all'idea. -Voleva egli significare che se una sensa-
ione specifica si conforma necessariamente a qu^li stimoli parti-
>lari onde sorge, è però anche la virtualità naturale o il rispecchia-
mto generico di tutti gl'infiniti stimoli analoghi. E non è di fatto
ìT questa universalità im.plicitamente attestata dalle sensazioni sin-
gole che noi viviamo tutti entro di noi il medesimo mondo? Non è
che ci fornisce i criteri sicuri, costanti, universali, dell'attività
>ratica? Il processo conoscitivo s'inizia dunque bensì, secondo Ar-
ligò, con la sensazione, ma non in quanto è un'unità chiusa in sé
ledesima, bensì per cfuelluniversalità di cui è una specificazione
concreta, essendone preceduta e generata come l'individuo è prece-
|duto e generato dalla sua specie.
La sensazione è il palpito umano dell'universa natura, alla quale
[corrisponde come nel barometro l'altezza della colonna del mer-
curio: è un dato cosmico universale e necessario. Traduce in sé, e
[quindi «rappresenta», la natura, imprescindibilmente, come un
)rodotto traduce i suoi fattori; ed ecco perchè nel monismo psico-
[fisico dell'Ardigò non l'intelligenza prescrive propriamente — come
roleva il Kant — le proprie leggi alla natura, ma la natura le pre-
Jrive all'intelligenza.
268 IL NATURALISMO UMANISTICO DI ROBERTO ARDIGÒ
La sensazione partecipa ali unità cosmica, e da ciò il conoscere,
che ne emerge, acquista un valore assoluto. Nulla è tanto un tutto
che non sia una parte verso un tutto maggiore, cui si collega intima-
mente. La sentenza eraclitea « Dal Tutto l'Uno, e dall'Uno il Tutto »
è dalla scienza moderna pienamente confermata. L'Universo è uno
m ogni suo aspetto e momento : nello scintillare degli astri come nel
tremito d'una foglia scossa dal vento; nella vita effìmera d'un infu-
sorio e in quella dell'uomo e dell'umanità tutta quanta. E a questa
solidarietà partecipa, come suo riflesso e prodotto, la nostra mente,
con le sue cognizioni positive anche le più astratte. Nel nostro pen-
siero, eco dell'infinito, l'assoluto della natura iscrive i caratteri ge-
nuini della verità; e cade con ciò l'antinomia di essere e conoscere,
cosa e pensiero, che tanto tormento indusse di elucubrazioni geniali
sì ma caduche.
IV.
A questo punto si potrebbe supporre che la realtà non sia per
Ardigò che il mondo delle sensazioni, e che quindi il suo Positivismo
si converta in assoluto Idealismo. Ora se la sensazione, come fatto
di coscienza, non si supera, ha però, riguardata nell integrità dei
suoi dati, dirò così, una eloquenza realistica, perchè mentre pone
sé medesima, pone altresì la propria canèa come qualche cosa a cui
non si può ridurre : pone insomma imperativamente anche la realtà
fisica o il mondo estemo.
Nella filosofìa classica i due termini tanto inquietanti, pensiero
e cosa, si sottraggono a ogni tentativo di conciliazione perchè si vuol
conciliarli, per una stranezza non nuova nella filosofìa, dopo averli
concepiti come inconciliabili. Il soggetto, si osserva, non può uscire
da sé medesimo, e la cosa gli è affatto straniera: come può dunque
penetrarla? Ecco il problema, già pregiudicato dal modo stesso di
formularlo. A così mal partito è ridotta la speculazione filosofica,
secondo Ardigò, da un suo vizio radicale, che consiste nell'assumere
i due termini — pensiero e cosa, soggetto e oggetto — nello stadio
della loro maturità, anziché perseguirli nel momento anteriore alla
loro distinzione precisa. Ardigò denunciava tale vizio e lo correggeva,
seguendo nella sua indagine quel criterio analitico onde ogni scienza
indaga il proprio oggetto; e solo per questa via egli potè — contrap-
ponendosi al Kant — evitare l'idealismo trascendentale, dichiarando
privo di senso lo sforzo onde il soggetto pretende uscire di sé per
penetrare la realtà esteriore.
Noi dobbiamo ammettere — secondo i filosofi h^eliani — che
nella natura parli e viva un'intelligenza perchè, essi dicono, rome
potrebbe l'intelligenza nostra afferrare l'oggetto se le fosse assoluta-
mente estraneo? Così per loro il mondo diventa la prima vita dello
spirito, che tutto lo invade e di sé lo nutre nel trionfo della propria
libertà. Superavano in tal maniera, quei filosofi, l'antinomia di cosa
e pensiero, natura e spirito; ma può dirsi questa una vera supera-
zione se in realtà si assorbiva un termine nell'altro, ossia la cosa nel
pensiero, la natura nello spirito? Più cauto è l'atteggiamento delI'Ar-
digò, il quale riconobbe che codesta antinomia veramente nella na-
IL NATURALISMO UMANISTICO DI ROBERTO ARDIGÒ 269
lura non sussiste, poiché i due termini che nel nostro pensiero ri-
flesso e maturo si contrappongono, nella realtà loro originaria coe-
sistono fusi in uno stadio formativo tuttora indistinto. Si compiono
bensì poscia nel nostro pensiero le due sintesi. Me e non -Me, ma le
sensazioni che concorrono a questa sintesi in origine ed essenzial-
mente non sono né soggettive né oggettive, potendo d'altronde parte-
cipare poi indifferentemente all'uno e all'altro dei due distinti.
Audace, si dirà, è questo realismo che annienta dalle radici l'an-
tinomia di soggetto e oggetto; ma io credo che il più grave ostacolo
ad aderirvi consista nell'abitudine mentale onde noi, nel proposito di
ricostruirci, "muoviamo dalla totalità perfetta del nostro Io, non po-
tendo riuscire a depotenziarci. Per usare i termini del senso comune,
in cui opino che si possa tradurre senza profanazione anche il pen-
siero filosofico, noi per rifarci dovremmo prima distruggerci; ma
l'Io non si lascia distruggere, ond'esso protesta di essere altro dalla
sua genesi empirica, di essere insomma, come vogliono gli spiritua-
listi, una sostanza inmiutabile. Ardigò, ribelle alle ipostasi per le
quali, contro la norma di ogni buona filosofìa, si moltiplicano gli
enti senza necessità, parve un demolitore sacrilego dell'Io, ma in
realtà intese a ricostruirlo con l'estrema sagacia che gli era abituale.
Come dunque possiamo spiegare lorigine del pensiero dalla ma-
teria? Il fatto, disse lo stesso Spencer, che una forza la quale esiste
sotto forma di movimento, di Cadore, di luce, possa divenire un modo
della coscienza, è un mistero inesplorabile. Congiungendo però ma-
teria e spirito nell'abisso dell'Inconoscibile, ricettacolo d'ogni arbitrio,
egli anziché risolvere il mistero lo rendeva pili tenebroso.
Ardigò dichiarava errato questo modo di definire il problema, e
lo ricostituì rilevando che nell'effettiva, nostra esperienza la presunta
contrapposizione dei due termini «materia» e «spirito», poiché si
pongono in noi egualmente come termini mentali, è in realtà con-
trapposizione di pensiero a pensiero, ossia la reciproca trascendenza
0 irriducibilità dei sensibili corrispondenti; epperò il problema del-
l'orignarsi del pensiero dalla materia perde ogni consistenza posi-
tiva. E infatti la materia è, e non può per noi non essere, realtà
jusibile. Pensarla come esistente in sé é, evidentemente, una con-
radictio in adiecto, o una finzione irrazionale; onde il materialismo
che oggetti vizza la materia come essenza ultima del reale, e la con-
idera per sé stante, si dissolve miseramente sulle sue stesse basi.
V.
Invano però noi ci dissimuleremmo l'idea d'una « cosa in sé »
he preme ossessivamente sul nostro pensiero travalicando ogni espe-
rienza : ma essa non é, secondo la robusta critica dell'Ardigò, fuorché
un idolo dell'immaginazione. Constatiamo nella nostra mente questo
residuo critico; ma lungi dal trascendere l'esperienza la famigerata
" cosa in sé » n'é un travestimento. Consiste, secondo Ardigò, nell'in-
distinto onnigeno della natura, ossia nell'essere imprecisabile onde
tutto emerge. È un ignoto? Sì, in quanto, essendo l'ultimo rifugio
del nostro pensiero ricostruttivo, non possiamo subordinarlo a un in-
distinto precedente; ma non un ignoto assoluto o un'incognita miste-
fr
270 IL NATURALISMO UMANISTICO DI ROBERTO ARDIGÒ
riosa, se lo concepiamo con il carattere positivo di indistinto cau-
sante, e come ragion© concreta d'ogni singolo fatto; e se infine ci
s'impone come il prodotto logico di un'induzione scientifica. Ad esso
il processo regressivo della nostra mente si arresta; e non appagan-
docene, potrenmio ricercare un ulteriore perchè; ma tanto varrebbe
ricercare l'ultimo perchè della natura, questione classificata dall'Ar-
digò fra quelle oziose e chimeriche della Metafisica.
Come l'astronomo, mediante l'attrazione universale, spiega posi-
tivamente i movimenti dei corpi celesti, sebbene nulla egli sappia
intomo all'essenza o alla maniera di operare di questa attrazione,
così noi spieghiamo, con la virtualità dinamica della realtà psico-
fìsica indistinta, il divenir© successivo, quantunque non conosciamo
del detto indistinto piìi di quanto esso comporta. Né scompare in
esso soltanto l'ajitinomia di pensiero e cosa, soggetto e oggetto, spi-
rito e materia, ma ogni altra antinomia cosmologica, creata dalla
Metafisica, e pur quella, ad esempio, di Uno e Molteplice.
L'Uno della filosofia i)ositiva non è il semplice che il Metafisico
contrappone al Molteplic© fenom©nico, e di cui si comporrebbe l'Uni-
verso o la nostra anima; ma è esso pure un molteplice, i cui ele-
menti non ancora si sono distinti; ed è poi uno lo stesso molteplice,
quello p©r es. della nostra anima, i>er la solidarietà organica degli
elementi stossi onde risulta. Tutto dunque è in pari tempo molte-
plice ed uno; e quest'unità si delinea dovunque nella legge del ritmo,
eh© nella dottrina ardighiana ha una funzione suprema, anche perchè
superava per essa le antinomie,
È essenzialmente ritmica ogni formazione naturale, andando
alla pari, per questo rispetto, il macrocosmo o l'universo, e il mi-
crocosmo o il nostro Io; sono un ritmo una goccia d'acqua sperduta
nell'oceano, e quella medusa fosforescente nell'oceano dell'anima
che è l'idea; la rivoluzione di un astro e il battito del cuore; la rivo-
luzione del Sole e quella di una molecola. Ciò che è, è un ritmo
che continua; ciò che diventa è un ritmo che si va formando. Sono
ritmi mentali il tipo e la legge onde si hanno le scienze descrittive
e dinaniiche. Un ritmo è ogni pensiero sia per sé, sia in quanto è
ritmico il dinamismo cerebrale che in esso echeggia. I concetti d'in-
finito, dell'universale, di sostanza, di causa, e la stessa ragione si
risolvono per Ardigò in processi ritmici dell'esperienza sensibile.
Nel ritmo infine risiede l'ordine nel quale si compone la varietà, e
che regna dovunque, nel mondo psichico e sociale non meno che in
quello fisico.
Campeggiano nella psiche umtana delle formazioni stabili come
nella natura estema 1© masse cosmiche che gravitano insieme nelle
loro orbite: vi pullulano delle formazioni logiche distinte, come nella
natura estema le specie delle piante e degli animali; vi turbinano
delle correnti fantastiche, come nella natura estema le tempeste del-
l'atmosfera. Variano di continuo le eccitazioni cerebrali provenienti
dal mondo di fuori e dall organismo; e unitamente alle isteresi, ossia
ai residui dello operazioni mentali passate, esse concorrono a gene-
rare gli ordini o i ritmi infiniti del pensiero umano, come nella
chioma alta, voluminosa e folta di un grande piopjx) le foglie mo-
bilissime si scuotono e tremano e ronzano tutte, dove più dove meno,
IL NATURALISMO UMANISTICO DI ROBERTO ARDIGÒ 271
col variare deìrintensiià, del ritmo e della direzione dell'aria cho
le muove.
Sono ritmiche nel loro ordine necessario anche le idealità che
reggono il mondo sociale e storico. Simili a ogni altra formazione
naturale, esse pure nascono, vivono e muoiono, i>er riapparire in
altra forma, come dal seme la nuova pianta: principio questo che
si può considerare il cardine di un intiero sistema di Etica e di So-
ciologia, com'è la base sicura della nostra miglior fede nell'avvenire
sociale.
Nessun archetipo governa, come pensano i finalisti, il mondo
dei fatti naturali e storici, non essendo quest'idea, antropomorfica
ed estetica, più scientifica che quella del caos. L'ordine si spiega da
sé, per la naturalità propria d'ogni possibile evento; ed è nell'intel-
ligenza perchè è nell'universo, improntandosi 1 intelligenza nostra
nell'ordine naturale come la sensazione e lidea s'improntano nello
stimolo e nella realtà, a guisa della cera che s'impronta dall'incavo
onde s'imprime il suggello. E nell'ordine coesistono senza contradi-
zione, con la causalità naturale e la varietà, la necessità e il caso
che vi corrispondono; la Necessità come equazione del determinato^
per i rapporti causativi nei quali ogni fatto si fissa e si proporziona:
il Caso per T imprevedibilità degli ordini specifici che volta a volta
l'immenso variare del Divenire comporta per sé medesimo. Il Gaso
è dunque Vequazione razionale à&W infinito.
Non si rispecchia di fatto così nella nostra mente la realtà uni-
\ersale? Gontradizione c'è fra Necessità e Caso se si riguardino nella
loro definizione logica astratta, non se consideriamo la fenomeno-
logia della natura qual'è veramente, ossia come fenomenologia del
pensiero, dove il vario comprende l'imprevedibile senza escludere il
necessario. Ed ecco vinta, dal punto di vista ardighiano, la più an-
tica delle antinomie.
VI.
Ho cercato di abbracciare con questo rapido sguardo quella che
si potrebbe chiamare la filosofia teoretica di Roberto Ardigò, ab-
bozzandone la ragione critica. Comunque si valuti l'arduo cimento
sostenuto dal suo genio speculativo, certo è che lo domina l'inten-
dimento di riscattare da un falso paludoso Positivismo il valore intel-
lettivo dell'uomo; né una diversa finalità presiedeva, per le sorti del
nostro valore morale, alla sua filosofia pratica. Anche in questa sfa-
villa 1 idea dell'Assoluto; e valori assoluti sono le idee che lumeg-
giano e reggono la nostra vita d'individui sociali.
Nel vortice del tempo che affatica le cose e sembra disperdere
e cancellare con dispetto ogni reliquia della terra e del cielo, la no-
stra stessa esistenza d'individui è un'ombra fuggitiva, e nel tempo
senza confini svanisce quasi pur la durata della specie umana. Ma
non è un sogno evanescente la potenza del nostro pensiero, sia scien-
tifico od etico. Vi concorrono innumerevoli accidentalità, ond'esso
muta non altrimenti dell'esile nuvoletta d'oro bizzarramente dise-
gnantesi nel cielo; ma la logica che lo governa, come la gravitazione
i corpi celesti, è un ordine indistruttibile e una potenza infrenabile;
272 IL NATURALISMO UMANISTICO DI ROBERTO ARDIGÒ
e forze assidue mirabilissime sono nell'uomo virtuoso e nella storia
le idealità della convivenza. Sono anch'esse formazioni naturali, ma
nella loro irresistibile impulsività antiegoistica concentrano in sé
medesime e rappresentano il più alto grado del valore umano.
Pulsa in ogni cosa la m^esima virtualità della natura; ma dai
movimenti vibratori dei corpi fisici si sale per variazioni infinite-
sime continue a forme gradualmente più elevate e complesse. Ascende
il reale di ritmo in ritmo per la sua stessa originaria potenza, sia
nel rispetto statico, sia in quello dinamico. Risplende la medesima
virtù onnigena in una ^rte più e meno altrove, ma nell'uomo prende
la sua maggior luce. Si attua infine così l'esito ultimo della effusione
immensa delle forze naturali, Vhomo sapiens, ossia un essere santo
che compie il bene non per la speranza di un premio qualsiasi, ma
perchè nel bene come valore assoluto arde tutto il suo spirito. Nella
virtù disinteressata del saggio e nella giustizia progressiva dei po-
poli la nostra natura si afferma sublimandosi così che l'uomo può
ben dirsi senza vana enfasi una creatura divina.
Questa autonomia dell'uomo, vergine d'infatuazioni mistiche e di
servilismo dogmatico, brillante di chiarezza classica, è il risultalo più
lieto di fede e di scienza a cui giunge il Positivismo ardighiano. Essa
è libertà o impero sovrano dello spirito, impeto di ardimenti retti e
generosi, volontà antiegoistica radicale, impulso schietto d'idealità
umane che nella successione storica diventa irresistibile come un de-
stino. Ed è poi nel suo rifiorimento magnifico una continua pro-
gressiva conquista; nell'individuo, per l'arte edificante dell'educa-
zione; nell'umanità, per la lotta che l'agita in un perpetuo conato di
rmnovamento.
Si esplica in questa storia della libertà umana la stessa necessità
insita nelle leggi della nostra natura; ed è questo un concetto fon-
damentale onde Ardigò abbatteva, nell'ordine pratico, la più esaspe-
rante delle antinomie, quella di necessità e libertà.
Non m'indugierò sui paralogismi del Kant che pretese salvare
la libertà morale scindendo l'uomo in due uomini, l'uno libero l'altro
determinato. L'arbitrio era manifesto, né Ardigò, più severo del
Kant, poteva aderirvi.
Il Kant cedeva forse a un motivo scettico circa la sua stessa dot-
trina quando concludendo ammoniva che noi possiamo sentire come
se fossimo liberi; ma che vale questa finzione se nel come se non
scorgiamo un fondamento positivo di verità? Questo fondamento
esiste nella causalità superiore e irriducibile della nostra natura
spirituale. Ogni forza che agisce sopra un essere subisce da questo
una corrispondente trasformazione. Alle cause pertanto che operar-
su noi, come esseri spirituali, noi imprimiamo una direzione nuova»
quella delle idealità o dei fini imperanti nella nostra coscienza. As-
soluta è quest'azione, assoluta quindi è la legge morale; di un'asso-
lutezza però non formale e quindi sterile come nella dottrina kan-
tiana, ma psicologica e perciò ricca d'una causalità sua propria.
E se cosi è, come si può insistere onestamente nell'asserire che il
Positivismo aduggia per sé la vita morale in un relativismo morti-
fero, onde si smarrisce ogni criterio obbiettivo di valutazione e di
condotta? L'Assoluto etico dell' Ardigò è psicologico e storico, mentre
l'uomo suole appuntare l'ansia del suo intelletto e del suo cuore oltre
IL NATURALISMO UMANISTICO DI ROBERTO ARDIGÒ 273
il soggetto empirico e la storicità, sollevandosi nel mondo trascen-
dente della religione e della Metafisica. Ma perchè — pensava Ar-
digò — dovremmo relegare i valori umani oltre i confini dell'espe-
rienza se soltanto in questa ritrovano, comunque pensati, le loro
vere basi e pronunciano la loro eflBcienza reale? Sono bisogni assoluti
della nostra natura, questi valori, anche se si volatilizzino in una od
aitra specie di platonismo. Un bisogno assoluto è per es. la Giu-
stizia, come « forza specifica dell organismo sociale » pur mutando
infinitamente le forme della sua esplicazione. E perchè dunque an-
dare in cerca d'una permanenza fantastica dei valori umani, se
quella che importa e preme veramente è la loro permanenza di fatto?
Persistono nella loro cissolutezza di bisogni naturali come nel tra-
gico movimento della storia così nella nostra anima, contrapponendo
senza posa alle iniquità d'ogni genere, e alle nostre imperfezioni e
colpe, la propria impera ti vita categorica. Non è in questa loro fun-
zione redentrice pur la loro persistenza più verace e salutare?
Tale è l'ultimo significato dell'Etica realistica di R. Ardigò, da
lui stesso designata come « un idealismo scientificamente assicu-
rato», e che, come già notavo, si può, al pari di tutta la sua dot-
trina, definire una nuova forma di Naturalis7no umanistico.
VII.
Rivisse egli questa filosofia con tutta la sua personalità, essendo
la sua stessa lunga vita un'esaltazione pratica indefessa delle più
alte idealità dello spirito. Primeggiò in lui l'ansia della conquista
e della celebrazione del Vero e del Bene come fulcri della nostra
umanità; e il lavoro intellettuale diretto a cfuesto fine fu di fatto
per Ardigò non pure un programma inderogabile, ina una condizione
che dirò perentoria della sua stessa esistenza. E in vero quando il
lutto della patria, per il disastro di Caporetto, da prima, e poi la
tortura delle sofferenze fisiche che nessun'arte riusciva a sedare,
stroncarono in lui non le energie del pensiero rimasto sempre vi-
gile, ma quelle dell'uomo che ad ogni nuovo scritto messo alla luce
sapeva di svolgere, quasi per una consegna inviolabile, una missione
santa, egli sentì la morte precorrere il proprio avvento occupando
tutto il suo essere; e alla volontà di morire Roberto Ardigò alla fine
cedette vinto da un solo rimorso, di dover subire nell'estrema vec-
chiaia la condanna insopportabile d'una sterile inerzia.
Non egli dunque negava allora il valore della vita ma lo solen-
nizzava, riaffermando con un esempio che può dirsi nuovo nella
storia delle tragedie umane l'austerità passionale del carattere, onde
Tozio dello spirito divenne in lui l'incubo dell'ignavia. Invocò la
morte chiedendo a che cosa gii poteva più servire la vita; e in questo
disperato interrogativo scorse taJuno l'uomo che insensibile alle sug-
gestioni del sentimento visse soltanto d'idee. Furono — si soggiunse
— queste le prime parole umane del maestro orgoglioso che nulla
volle chiedere né a Dio né agli uomini! Ma se è onesto che ogni velo
di menzogna cada innanzi all'anima candida di R. Ardigò, furono
— io dirò — quelle parole non l'eco dama dolorante resipiscenza,
ma l'epilogo drammatico della sua forte volontà nobilissima. A nulla
274 IL NATURALISMO UMANISTICO DI ROBERTO ARDIGÒ
più serviva la vita dopo che, venute meno le forze dell'apostolato,
divenne in lui tormentosissima, perchè vana, la volontà di prose-
guirlo.
Ardigò ha amato la vita quanto si può amare, risentendone con
intensità voluttuosa le gioie più ineffabili, quelle, voglio dire, della
meditazione, e ripudiava certamente in cuor suo ogni imbelle ri-
nunzia. L'amò finché poteva significare lavoro e missione; la ripudiò,
perchè indegna d'essere vissuta, quando divenne assoluta impoten2ia.
Quale altro valore può infatti conservare la vita se quelle idealità
ond'essa assume esclusivamente il proprio destino urgono sullo spi-
rito avido d'azione come visioni tragicamente infeconde? Ecco il
vero strazio di quell'interrogativo: ecco la sintesi perfetta della
vita e djcUa dottrina allora e sempre profondamente umana di Ro-
berto Ardigò.
Vili.
Si dirà, questa dell'Ardigò, una filosofia negativa? Sì, in quanto
ripudia quella forma retorica di cui avviene che, come disse il Fio-
rentino, la filosofia si rivesta per fare più degna e venerabile mostra
di sé; ma è poi tanto positiva nella sostanza quanto nel metodo.
Nega essa i valori trascendentali, ma per reintegrarli nella loro vera
natura. « Per l'insegnamento — egli scriveva recentemente — del
Positivismo, 1 uomo, libero da vani timori e dalle penose ansietà
in vista di beni immaginabili, e distratto per questo dal suo compito
vero e così doppiamente infelice, si avvantaggia tranquillo di quanto
realmente la vita, soprattutto dello spirito, gli concede».
Il dover essere emerge per Ardigò dalla stessa realtà, perchè
ogni ideale è sincero e attivo solo allor<juando rivela e traduce un
nostro naturale bisogno. Strappato dalla nostra intima natura d'uo-
mini, biologica e psichica, che altro infatti può essere se non una
larva della fantasia, e l'ombra di un fine aniabile, se si vuole, ma
inaccessibile?
Ben so che nel regno dei fini trascendenti un'anima mistica si
asside a suo agio, e che l'irrazionale attrae e seduce alcune tempre
di spirito molto più che la visione realistica, apparentemente gelida,
della vita; ma se è un diritto imprescrittibile che nelle cose spiri-
tuali ciascuno prescelga quel punto di vista a cui meglio si acconcia
il suo genio, è ovvio che non vien meno per questo il valore scienti-
fico ed etico del Realismo ardighiano.
Ardigò vide l'ideale balenare e vibrare nella realtà, ond'egli
diede un'interpretazione positiva e gagliarda anche del diritto natu-
rale; e non respinse infine ma allargò e poderosamente illustrò,
compensando ogni sudditanza straniera, il patrimonio spirituale della
nostra stirpe. Nessuno — egli esclamava — se la storia non mente,
ha mostrato di possedere come l'Italiano il senso giusto di quella
scienza il cui pregio principale dev'essere il possesso sicuro della
certezza scientifica, prodotto della ragione libera. Di questa ragione
che, disposata alla scienza, tutte in sé riallaccia e vivifica le esigenze
della nostra anima, Roberto Ardigò è un simbolo immortale. Né si
può mettere in dubbio che il suo pensiero, lungi dal decadere, per
IL NATURALISMO UMANISTICO DI ROBERTO ARDIGÒ
276
l'incalzare di nuove visioni, soprawiverà, comunque emendato, a
imprimere non solo alle meditazioni dei filosofi, ma al risveglio
umanistico della comune coscienza impulsi fecondi.
È stato detto che la filosofia di Roberto Ardigò si riassume così :
<- L'Universo è un meccanismo governato dal Caso verso il meglio»;
ma è una formula che non rende affatto il pensiero del nostro sommo
pensatore, poiché la sua concezione dell'Universo è non meccanica
ma dinamica, e il Caso sta in essa non a governare ma soltanto a
legittimare la fede nell'attuabilità indefinita dei nostri ideali. Né
questi sono per Ardigò parvenze fatue, ma diventano strumenti reali
d'azione efficace a patto che si ritemprino nell'effettiva possanza e
virtualità delle cose e dello spirito. Così egli conciliava quelle due
tendenze, obbiettiva e subbiettivistica, nel cui contrasto tanto si di-
batte la filosofia moderna.
Il pensiero è luce ma è anche dolore, poiché il determinismo del
progresso storico importandone la continuità che lo rende lento e
graduale, ne mortifica sovente gli slanci più generosi; ma come nes-
suna forza del mondo fisico, così nessuna idea mai andrà perduta
che non sia uno spasimo romantico ma un'espressione realistica della
nostra umanità.
Tale é l'ultima scintilla che scatta dal Positivismo ardighiano,
destinato, io p)enso, a intrecciarsi gloriosamente, con influsso deci-
sivo, nella trama laboriosa della nostra restaurazione civile e filo-
sofica.
Giovanni Marchesini.
LA SITUAZIONE DELL'UNGHERIA
Gol gentile permesso dell'illustre Direttore della Nuova Antologia
vorrei tentare di esporre la vera situazione dell'Ungheria dopo la
pace di Trianon, le probabili conseguenze di questa pace, la verità
circa la conservazione, gli sforzi, le speranze e le immense diflBcoltà
di questo sfortunato paese, una volta poderoso baluardo del cristia-
nesimo e della civiltà europea, ora tronco senza vitalità, in completa
balia della politica e dell'arbitrio dei suoi vicini.
Mi rivolgo con questo studio al pubblico della più rinomata ri-
vista italiana per tre motivi. Il primo è la convinzione quasi istin-
tiva, ma convalidata anche da mie impressioni ed esperienze recenti,
che l'Italia è, fra tutti i paesi europei finora nemici, il paese meno
penetrato di quei sentimenti di odio e di volontà di vendetta che
rendono impossibile un giudizio obbiettivo e impiarziale. E ciò spe-
cialmente in quanto riguarda l'Ungheria è anche naturale. Le na-
zioni italiana ed ungherese furono sempre amiche, congiunte sovente
nelle loro lotte per la libertà; sui campi di battaglia del risorgimento
italiano versarono anche gli ungheresi il loro sangue. Quando scoppiò
la guerra, oso dire che non c'era un solo ungherese che avesse pen-
sato che l'Ungheria avrebbe rivolto le armi contro l'Italia; al con-
trario, nei primi giorni della guerra, a Budapest nelle vetrine dei
negozi dappertutto era visibile il ritratto del Re Vittorio Emanuele,
del terzo alleato, accanto ai ritratti degli imperatori Francesco Giu-
seppe e Guglielmo. Quando poi l'Italia dichiarò la sua neutralità,
nessun uomo politico serio in Ungheria gliene fece rimprovero; bi-
sognava riconoscere, che data la sua configurazione geografica, l'Italia
avrebbe troppo rischiato sfidando le potenze occidentali. Speravamo
invece, ohe limitandosi ad una strettissima neutralità, l'Italia sarebbe
divenuta un giorno la più atta mediatrice d'una pace giusta e stabile.
Quando l'attitudine dell'Italia si fece sem.pre più ostile, gli uo-
mini politici ungheresi — d'accordo con quelli tedeschi — sd mostra-
rono favorevoli all'adempimento dei desideri dell'Italia, tendenti ad
ottenere concessioni territoriali. Essi comibatberono le opposizioni,
che sorsero da alcune parti dell'Austria, e la Camera ungherese ap-
provò unanimemente le proposte fatte al governo italiano. Quando
poi la guerra mise sfortunatamente l'una di fronte all'altra anche
le nostre nazioni, le situazione per noi era già immutabile; noi di-
fendevamo la nostra esistenza su tutte le fronti, sull'Isonzo, come in
Wolhyiiia, in Fiandra come nei Balcani; abbandonare l'una fronte
significava abbandonarle tutte. Noi ci siamo combattuti come avver-
sari moralmente equivalenti che si combattono ma si rispettano; né
più né meno come i Jugoslavi che si sono battuti valorosamente
LA SITUAZIONE DELL' UNGHEMA 277
cogli Italiani all'Isonzo, e non pertanto sono divenuti più tardi amici
d^li stessi Italiani.
Il mio secondo motivo è basato sull'alta missione culturale del-
l'Italia. Creatrice della civiltà europea moderna, essa ha anche la
missione di curare che questa civiltà non rischi di andar in rovina.
Ed io mi propongo di mostrare nel corso di questo saggio, come lo
smembramento dell'Ungheria, conseguenza della paoe impostale, sia
nelle sue conseguenze sinonimo di una deplorabile decadenza della
cultura finora fiorente sul territorio della corona ungherese.
Finalmente il terzo motivo mi è suggerito da importanti consi-
derazioni sull'interesse politico dell'Italia stessa che esige — come
tenterò di provare — l'esistenza d'un'Ungheria salda e forte, e che sa-
rebbe gravemente minacciata dalla decadenza totale di questo regno,
o dalla trasformazione dell'Europa orientale che ne risulterebbe. -
Quando io suppongo l'opinione pubblica dell'Italia atta e disposta
ad accettare le spiegazioni e le dimostrazioni di fatti e circostanze
finora forse sconosciute e di verità talvolta differenti da quelle che
finora corsero come tali, io mi baso sul fatto incontestabile che l'in-
tero estero fu sempre poco o male informato circa le cose dell'Un-
gheria e mai peggio che nell'ora presente. La scarsa diffusione al-
l'estero della nostra lingua della nostra letteratura e della nostra
stampa, rende impossibile una vera reciprocità nella conoscenza della
nostra vita spirituale e di quella delle nazioni dell'Europa centrale
e occidentale. L'Ungheria, consapevole del suo buon diritto e del-
l'onestà delle sue tendenze, commise sempre in politica l'errore di
trascurare le informazioni all'estero. Talvolta stranieri che ci visi-
tarono espressero la loro gradita sorpresa per le impressioni favore-
voli riportate, ma tali impressioni furono altrettante volte dimenti-
cate. La stampa austriaca che si fece informatrice delle cose unghe-
resi, si è senz'altro adoperata anche da parte sua a diffondere quei
malintesi, quelle esagerazioni, anzi quelle calunnie che i nostri ne-
mici per ragioni eeoistiche misero in circolazione, e la nostra diplo-
mazia, comune coli' Austria, ha sovente negletto di operare in con-
trario, quando si trattava solamente dell'interesse ungherese.
Venne poi la guerra che diede libero corso alla propaganda dei
nostri nemici e ci tolse interamente ogni contatto intellettuale col-
l'estero; e quando le armi furono finalmente deposte, nuovi ostacoli
si opposero alla reciproca intesa. Da una parte senza dubbio anche
la censura, che per ragioni di politica intema non poteva essere eli-
minata in Ungheria, rese la nostra stampa sospetta dinanzi all'estero;
da un'altra parte si stabiliva a Vienna, sotto la protezione degli Stati
austriaco, cecoslovacco e jugoslavo, una stampa cosidetta ungherese,
diretta dai capi fuorusciti del caduto bolscevismo ungherese, uomini
ohe sono sfuggiti alla sanzione delle loro scelleratezze e che si ado-
perano ora coll'aiuto dell'estero per rovesciare il governo attuale
dell'Ungheria, e trovano colle loro comunicazioni assolutamente in-
gannatrici purtroppo credenza, spesso anche nell'opinione pubblica
dell'Italia. Le missioni delle potenze, residenti in Ungheria, pote-
vano di certo convincersi del vero stato delle cose; ma pare che i
loro rapxx)rti fossero tardivi per cambiare opinioni già fatte ed in
nessun modo sono penetrati nell'opinione pubblica dei loro paesi.
Soltanto tali circostanze spiegano come la pace di Trianon potè
278 LA SITUAZIONE DELL'UNGHERIA
esser conchiusa nella fomia nella quade essa ora ci s'impone. Nei
così detti trattati di pace, i più illuminati statisti dell'Intesa mani-
festarono un'ig^noraiiìia circa la situazione e le condizioni dell'Un-
gheria, che se si fosse trattato dei botocudi o dei papuani, sarebbe
stata considerata di certo come una mancanza inammissibile di in-
formaizionj, ma che fu ammessa con una incredibile leggerezza,
dacché si trattava solamente dell'Ungheria.
La pace di Trianon si basa su tre presupposti essenziali : 1" che
l'Ungheria sia colpevole dello scoppio della guerra, e poicJiè essa fu
trattata nel modo più crudele fra tutti i paesi vinti, dobbiamo sup-
porre che essa fu considerata la più colpevole di tutti; 2" che l'Un-
gheria ha oppresso le nazioni non magiare e perciò è giusto e con-
forme all'interesse e al desiderio loro di esserle sottratte; 3° che con
la fonnazione dei nuovi « Stati successori », alla quale provvedono i
trattati di Versailles, di Saint-Germain e di Trianon, la p«ice e il
consolidamento dell'Europa orientale, come pure la libertà e la pro-
sperità di tutte le nazioni interessate, sono per sempre ed in ottimo
modo assicurate. •
Il mio sco^vo è di dimostrare, che tutti e tre questi presupposti
sono erronei e derivano da una fatale concezione infondata, del pas-
sato, dei fatti e delle condizioni esistenti, come pure dell'inevitabile
svolgersi dei fatti futuri. Del resto queste tesi furono innumerevoli
volte ripetute e si ripetono ancora oggi nelle forme più autorevoli,
senza che il loro fondamento mai sia stato provato, sicché è ammis-
sibile il supporre, che esse non provengano da un concetto proprio
dei dirigenti la politica dell'Intesa, ma soltanto dalle esigenze esa-
gerate delle nazioni che ora profittano della guerra; esigenze, che
vennero avanzate, e il cui adempimento fu promesso senza esami-
narle con cura, quando la vittoria era ancora dubbia, e che ora, a
causa della vittoria inaspettatamente completa, fanno le potenze vin-
citrici, forse contro la loro stessa convinzione, prigioniere della pa-
rola data.
Per quanto riguarda la colpabilità dell'Ungheria nello scoppio
della guerra, bisogna anzitutto tener conto del fatto, che nessun in-
teresse dell'Ungheria esigeva una guerra. Eissa era molto più pro-
pensa a mantenere la pace ed a lavorare per la sua consolidazione
interna; la sua struttura, la sua indole escludevano tendenze con-
quistatrici. La sua debolezza derivava dalla diversità di lingua e di
razza della sua popolazione; dal pericolo di tendenze cetrifughe che
potevano sorgere fra le popolazioni non magiare. Ora, essendo tutti
i paesi vicini abitati da popolazioni non magiare, ogni conquista,
ogni ingrandimento del territorio ungherese avrebbe soltanto au-
mentato questa debolezza e questo pericolo; perciò anche nei mo-
menti delle più decisive vittorie contro i serbi e contro i rumeni,
l'Ungheria pensò soltanto a piccole correzioni di frontiera per una
più sicura difesa del suo possesso millenario. È provato da pubbli-
cazioni ufficiali del governo austriaco — non ungherese — che il
Presidente del Ck>nsiglio ungherese, conte Tisza, desiderava tentare
tutti i modi d'una soluzione pacifica del conflitto con la Serbia, e
che dietro sua proposta il Consiglio comune dei ministri della mo-
narchia decretò al principio della guerra di escludere ogni tendenza
di conquista.
LA SITUAZIONE DELL'UNGHERU 279
D'altra, parte sarebbe inutile n^are, ohe 1© nazioni, le quali
sotto la protezione deirintesa misero in brandelli l'antica monarchia
Austro- Ungherese, sognavano già da molti anni un accrescimento
della loro potenza, facendo una propaganda conseguente per gua-
dagnare a questo scopo anche l'appoggio delle potenze occidentali,
come già prima godevano dell'aiuto più o meno celato della Russia.
lllorum res mine agitur! Era il loro interesse di forzarci a dichia-
rane la guerra. Se il famoso ultimatuìn mandato a Belgrado in se-
guito alla provata colpabilità del governo serbo circa l'attentato di
Serajevo avesse avuto un tono più mite, il conflitto sarebbe stato
forse differito, come era avvenuto già tante altre volte, ma non
evitato.
Per dir la verità: parecchi fatti militari e politici della Ger-
mania non trovarono l'approvazione dell'opinione pubblica in Un-
gheria, ma sappiamo, che durante una guerra, né la stampa può
godere della sua solita libertà, né il Parlamento pronunciarsi senza
certe riserve: voglio allud€»re all'aggressione del Belgio, alla guerra
spietata dei sottomarini, e finalmente alla conclusione forzata della
pace di Brest-Litowsk. Ma vorrei porre la questione: perchè dob-
biamo esser responsabili dello scoppio e della condotta di questa
guerra solo noi ungheresi fra tutte le nazioni che formavano la mo-
narchia? La Boemia (eccetto quei reggimenti che si arresero e pas-
sarono al nemico), i polacchi di Galizia, i ruteni, i croati e gli slo-
veni presero parte alle azioni militari della monarchia come noi,
perchè noi soli dobbiamo essere puniti? Una gran parte dei generali
più rinomati dell'esercito austriaco erano slavi; ed ora vediamo, che
la Boemia, la Polonia, la Jugoslavia sono considerate come alleate
delle potenze nemiche e tutti i fatti della guerra a cui esse presero
parte, sono dichiarati crimini esclusivi dei tedeschi e degli ungheresi.
Passo all'accusa dell'oppressione delle popolazioni non magiare
in Ungheria. Bisogna anzitutto tener presente, che i magiari forma-
vano già da lungo tempo la maggioranza della popolazione e che
il loro numero — secondo dati statistici incontestabili — aumentò
principalmente per la maggiore facoltà generativa della razza. Come
mostrano i quadri di natalità, nelle città si ebbe un accrescimento
a spese delle altre nazionalità, per la forza naturale della cul-
tura superiore, ma nella campagna le proporzioni rimasero nel
corso dei secoli presso a poco inalterate. Se noi ci fossimo serviti
durante mille anni dei mezzi che le nazioni occupatrici da tre anni
a questa parte applicano contro i tre milioni e mezzo di ungheresi
caduti sotto il loro dominio, delle espulsioni, delle trasmutazioni
forzate di scuole, delle confische, delle espropriazioni, degli incar-
ceramenti e delle correzioni arbitrarie dei censimenti, di certo i
nostri nemici non avrebbero trovato sul nostro suolo tal numero di
loro connazionali, intatti nella loro indole nazionale e in una pro-
sperità economica uguale a cjuella degli ungheresi. Nessun conosci-
tore del passato e delle condizioni presenti dell'Ungheria potrà ne-
gare che dagli inizi, si può dire, della civiltà umana nessun popolo
in Ungheria fu oppresso in tal modo nella sua libertà, ed offeso
nella sua lingua e nella sua dignità di nazione, come, durante l'oc-
cupazione, i nostri connazionali sono stati, e spesso anche ora sono
oppressi ed offesi da parte dei nuovi padroni.
280 LA SITUAZIONE DELL' UMGU£BIA
Si dice che le nazioni non magiare, che formano la maggio-
ranza nelle i-egioni staccate, si sono sottomesse volentieri al nuovo
dominio. Questa è un'affermazione a cui si può giustamente appli-
care il motto francese : « il n'y a rien de plus dangereux, qu'un
mensonge qui ressemble à la vérité ». Bisogna ricordare brevemente
1 fatti dell'occupazione dell'Ungheria dopo l'armistizio di Belgrado e ^
mettere in evidenza il terribile inganno di cui siamo divenuti vit-
time, se per colpa del governo ungherese d'allora o no, non voglio
ora. esaminare, benché l'opinione pubblica in Ungheria consideri
con la più grande certezza il conte Michele Kàrolyi come traditore
della patria.
Il contratto dell'armistizio di Belgrado stipulava la consegna
del nostro armamento e ci obbligava alla smobilitazione, permetten-
doci di tenere sotto le armi solamente sei divisioni per il manteni-
mento dell'ordine interno; fissava la linea di demarcazione per l'oc-
cupazione da parte delle truppe nemiche e riconosceva a queste
anche il diritto di poter prender possesso di alcuni luoghi impor-
tanti dal punto di vista strategico. Il territorio da occuparsi si esten-
deva lungo la frontiera della Transilvania e dell'Ungheria meridio-
nale. E fu espressamente garantito che le potenze nemiche e i loro
eserciti non si immischierebbero in nessun modo negli affari interni
del paese e che l'amministrazione anche dei territori occupati rimar-
rebbe nelle mani dei magistrati ungheresi. La popolazione non potè
dunque considerare questa occupazione che come un provvedimento
provvisorio e pacifico, e poiché allora le nostre truppe non erano
ancora ritornate dalla fronte alle loro guarnigioni, e siccome dopo
la rivolta di Budapest nell'ottobre 1918 in molti luoghi abitati da
popolazioni schiettamente magiare si erano verificati torbidi di ca
ratiere sociale, le truppe straniere, come la sola forza armata dispo-
nibile, furono sovente salutate come l'unica garanzia della pace e
dell'ordine pubblico.
L'Ungheria eseguì la smobilitazione con una premura quasi esa-
'gerata. Ma dacché ella fu difatto disarmata, cominciò una continua
serie di violazioni delle condizioni stipulate, alle quali fece seguito
una serie di aggiunte posteriori che subito cambiarono l'occupazione
limitata, provvisoria e pacifica in ima occupazione molto più estesa,
definitiva e «ostile.
I serbi e i rumeni non si curavano assolutamente in alcun modo
della linea di demarcazione, avanzavano a loro piacere e secondo il
loro interesse di conquistatori; nell'Ungheria alta, invece, dove non
si era mai provveduto ad una linea di demarcazione, irruppero i
cechi, respingendo i pochi resti di truppe che potevano opporsi;
poco dopo irruppero anciie i polacchi ed i ruteni, occupando quanto
potevano, sicché l'Ungheria parve esser divenuta letteralmente una
res nulliuSy preda di ciascun invasore. Quando la popolazione, strap-
pata alla sua antica patria e disarmata, ebbe la coscienza della sua
terribile situazione, gli invasori già avevano preso possesso del ter-
ritorio e avevano soffocato senza pietà ogni rivolta, ogni protesta ed
ogni opposizione. In tal modo furono « liberate » le nazioni finora
oppresse in Ungheria!
Per mostrare anche meglio in che consistesse questa «oppres-
sione », vorrei ancora aggiungere alcimi dati desunti dalla mia per-
LA SITUAZIONE DELL' UNGHERLA '281
sonale esperienza. Nel contado nel quale è domiciliata la mia fami-
glia, che è proprietaria di terre, la popolazione contadina è slava;
noi proprietari, della nobiltà magiara, parliamo tutti la lingua slava,
mentre i contadini — tranne poche eccezioni — non parlano la nostra
lingua. In Transilvania io conosco villciggi la cui popolazione è per
metà magiara, per metà rumena; tutti gli ungheresi parlano rumeno,
mentre i rumeni si servono soltanto nel caso d'estrema necessità e
male della lingua ungherese. Mai sotto il regime ungherese sulle
porte degli uffici era scritto che si dovesse parlare magiaro; ogni
cittadino del paese poteva sei-virsi della sua lingua materna, ohe
era compresa quasi senza eccezione perfino nelle regioni di lingua
mista, anche dai più alti impiegati dei municipi. Ora le porte degli
uffici portano dappertutto l'avviso di parlare la lingua dello Stato,
ed i contravw^entori rischiano di essere respinti inascoltati.
Nell'alta Ungheria si trovano famiglie di contadini slavi che
portano ancora antichi nomi ungheresi; e in pari modo ci sono campi
che sono designati con nomi ungheresi, mentre gli abitanti del con-
tado non parlano più magiaro. Segno questo che in quelle regioni
— malgrado la così detta oppressione ungherese — i magiari furono
snazionalizzati e divennero slavi. Un altro esempio: nel contado già
prima menzionato, ancora al tempo della mia fanciullezza c'erano
dodici proprietari di nobile famiglia magiara; ora siamo rimasti
tre, e le proprietà di nove famiglie nobili magiare sono passate nelle
mani di contadini slavi : uno sviluppo democratico ohe davvero po-
trebbe soddisfare i nuovi occupatori che già finora riuscirono — ^
principalmente nei territori rumeni e jugoslavi — a spodestare quasi
interamente i proprietari magiari! Ecco in che modo lo nazioni non
magiare furono oppresse dagli ungheresi!
Esaminiamo, ora, se questo riordinamento del territorio della
monarchia Austro- Ungherese effettuato dagli Stati vincitori, sia real-
mente così salutare alla pace europea e alla prosjjerità delle nazioni
interessate, che per realizzarlo fosse necessaria la distruzione com-
pleta d'un paese millenario, tutto inteso ora, dopo eroiche lotte nel
passato, al suo sviluppo economico e spirituale.
Fu detto ohe l'Ungheria deve essere smembrata perchè è un in-
naturale agglomeramento di nazionalità diverse, che vogliono essere
riunite ai loro principali nuclei, e che in tal modo si debbano creare
degli Stati nazionali, saldi già per la coerenza naturale della razza
e della lingua comune. Vediamo dunque in qual modo la pace di
Trianon ha effettuato questo compito.
Essa strappa anzitutto tre milioni e mezzo di ungheresi all'an-
tica patria, per la più gran parte abitanti in territori limitrofi, alle
grandi masse della popolazione magiara dell'Ungheria. Si fece dono
di questi territori agli Stati nuovamente creati o ingranditi, per
favorirli o con confini più vantaggiosi o con centri preziosi d'indu-
stria, d'agricoltura e commercio, sempre e dappertutto a spese del-
l'Ungheria. Gli Stati « nazionali », che nei territori strappatici sono
divenuti successori dell'Ungheria, composta di nazioni diverse, e che
perciò dovrebbero rappresentare una più pura e una più netta unità
nazionale, mostrano ora nei loro territori nuovamente acauistati le
proporzioni seguenti : sul territorio preso dai Rumeni i loro conna-
zionali contano solo 2,900,000 abitanti accanto a 3,900,000 di un^he-
19 Voi. CCXVI, serie VI — !• febbraio 1922.
282 LA SITUAZIONE DELL'UNGHERIA
resi e tedeschi; essi possiedono ora la città di Nagyvàrad, con 52,421
abitanti ungheresi e 3604 rumeni; Szathmàr-Németi con 33,094 abi-
tanti ungheresi e 986 rumeni; Arad con 46,085 abitanti ungheresi e
10,279 rumeni; Kodozsvàr con 50,204 ungheresi e 7562 rumeni.
I Jugoslavi hanno ricevuto un territorio con 1,116,000 abitanti,
fra cui si contano solamente 274,208 serbi e croati. Gli Czechi hanno
occupato per esempio la città di Komàroms nella quale si trovano
364 slovacchi e 19,924 ungheresi; Kassa, che conta 33,350 abitanti
ungheresi e solo 6547 slovacchi; Pozsony, dove 11,673 slovacchi stanno
dirimpetto a 64,495 ungheresi e tedeschi. Questa sproporzione era
troppo evidente e perciò il nuovo regime si affrettò a correggerla
artificialmente. A ciò servirono le espulsioni in massa degli unghe-
resi e i recenti censimenti, pei quali intere schiere di impiegati e
soldati furono mandati nelle città nuovamente acquistate, e le indi-
cazioni degli abitanti dichiarantisi ungheresi, furono cambiate arbi-
trariamente. In tal modo gli Stati successori riuscirono ad alterare
alquanto i dati statistici delle singole nazionalità in loro favore: un
procedere che merita il commento del motto latino: ignotos fallii,
notis est derisui! ,
La mancanza d'unità nazionale dei nuovi Stati «« nazionali » non
proviene soltanto dal troppo grande numero di ungheresi e tedeschi
incorporati, ma più ancora dalle disparità degli slavi stessi apparte-
nenti alla Gzecho-Slovacchia e alla Jugoslavia. Ai ruteni dei comi-
tati ungheresi di nord-est fu promessa un'assoluta autonomia, invece
poi essi furono incorporati nella Gzecho-Slovacchia e dichiarati, nei
contadi limitrofi agli slovacchi, semplicemente slovacchi. Ognuno sa,
che questi slovacchi dell'alta Ungheria parlano una lingua molto dif-
ferente dalla czieca e non capiscono i decreti czechi. Nello stesso
modo i croati, gli sloveni sono per la loro grafia non Girillica e per
la loro religione, differenti dai serbi e vedono nel reame S.H.S. spa-
rire anche quella autonomia che essi possedevano nell'antica mo-
narchia. È noto, che dove i dati statistici non convengano, si chiede
soccorso agli argomenti storici. Ma far valere argomenti storici
contro uno Stato che esiste da mille anni con i medesimi confini,
nella medesima consistenza, è in sé stesso quasi ridicolo e non meno
ridicolo è parlare della « rioccupazione » dd territori, che da più di
mille anni appartennero ad uno Stato.
Mentre né la statistica né la storia poligono argomenti seri in
appoggio al riordinamento fatto dai trattati di pace, l'interesse eco-
nomico delle popolazioni è addirittura in contrasto stridente con lo
stato presente. Basta gettare uno sguardo sulla carta dell'antica Un-
giheria, per convincersi che, fra tutti i, paesi continentali, forse non
ne esiste un altro, che sia in tal modo predestinato a formare nei
suoi confini naturali uno Stato unico e coerente. La linea di confine
recentemente fissata è innaturale, imposta con la forza e sarà causa
e pretesto di contese. Il corso del Danubio, la confluenza degli altri
fiumi, la formazione orografica, il sistema delle linee di comunica-
zione, formate da una convivenza di molti secoli, la distribuzione
dei tesori della natura: tutto a\Tebbe consigliato il mantenimento
dell'unità politica ed economica dell'Ungheria, nel centro antico; e
la violazione di questa unità, lo smembramento e il riordinamento
arbitrario nuoce alla prosperità economica di tutte le parti. È as-
LA SITUAZIONE DELL'UNGHERL\ 283
surdo, per esempio, esigere che la vita economica dell'Ungheria di
nord-est graviti su Praga, quella di Temesvàr, Kolozsvàr su Buca-
rest, quella della Dalmazia, del Montenegro, dalla Kraina e Garinzia
su Belgrado!
La questione dell'Ungheria occidentale prova nella maniera più
evidente quanto il giudizio dei capi dell'Intesa fosse offuscato dalle
preoccupazioni provenienti dalla guerra. Da parte dell'Austria la do-
manda di acquistare queste regioni non fu mai posta con molta in-
sistenza; si parlava d'un plebiscito, ma l'Austria stessa sapeva bene
che questo acquisto non le avrebbe giovato economicamente, es-
sendo questo territorio passivo nella produzione di grano e per ciò
più un peso che un aiuto per l'acquirente. Però queste regioni furono
aggiudicate senza plebiscito all'Austria, soltanto per smembrare an-
cora più l'Ungheria e per creare una causa di discordia fra i due
Stati già congiunti dalla comunità della dinastia. Ma nell'ora pre-
sente già si mostrano i lati deboli di questo calcolo così raffinato.
È fuor di dubbio che l'Austria, malgrado tutti gli aiuti promessi
dall'Intesa, non potrà esàstere economicamente come Stato indipen-
dente; essa passerà alla Germania tosto o tardi, non ostante le pro-
teste e le minacele della Francia, che fra poco rimarrà sola nella
sua parte di polizia armata dell'Europei, che vuole in eterno impe-
dire ad una nazione di settanta milioni di sortire la sua volontà.
Le altre potenze non avranno nessuna ragione per impedire la riu-
nione dell'Austria colla Germania, poiché questo sarebbe il modo
più sicuro per eliminare una restaurazione degli Absburgo a Vienna.
Se questo accadrà, ciò che è molto probabile, la Francia si troverà
ad aver contribuito con la sua politica intomo alla questione del-
l'Ungheria occidentale ad un ingrandimento della Germania a danno
dell'Ungheria. Ed è merito dell'Italia sola, se col trattato di Venezia
le ingiustizie circa la sistemazione del cosidetto Burgeland furono
alquanto mitigate a favore dell'Ungheria.
Passo ora a quella decadenza culturale, risultante dal riordina-
mento del territorio già ungherese, alla qu€Lle io accennava nel
proemio di questo articolo.
La perdita dell'Ungheria nei riguardi della cultura è equivalente
a quella dei mezzi materiali. Noi abbicuno perduto una università
fiorente, rinomata, munita di tutti i mezzi sussidiarii per l'insegna-
mento e per il lavoro scientifico, bene frequentata, e un'altra recen-
temente istituita, ma già bene avviata; perdiamo quattro accademie
di giurisprudenza, una di scienze minerarie, una di scienze forestali
e un'ac<;ademia d'agricoltura. Perdiamo numerose scuole speciali,
scuole preparatorie per maestri, scuole medie ed inmmierevoli scuole
elementari. Perdiamo musei, biblioteche, sparse su tutto il terri-
torio dell'antico paese, ed arricchite, sviluppate finora con premura
dallo Stato ungherese. Si potrebbe replicare che tutte queste perdite
colpiscono soltanto la cultura nazionale ungherese, ma che quelle
scuole e quegli istituti serviranno d'ora innanzi per un'altra cultura
nazionale. Questo è però un grande errore. In seguito al cambia-
mento politico molte scuole vennero in effetto chiuse o impiegate ad
altri scopi; ma più della perdita quantitativa è deplorevole la per-
dita qualitativa. Io non voglio far poco conto della cultura . degli
cizechi, che è senza dubbio svilupi^ta, ma anche gli czechi e moravi
284 LA SITUAZIONE DELL'UNGHERIA
non dispongono di forae intellettuali bastanti per penetrare un ter-
ritorio molto più grande del loro ed abitato da una popolazione di
linigua del tutto differente. E che dire dei rumeni, dei jugoslavi
che rappresentano una cultura, che nella sua estensione e nella sua
intensità è molto inferiore all'ungherese? Basta accennare che in rap-
porto al numero degli analfabeti quello deg-li uomini colti è fra gli
stessi rumeni e serbi dell'Ungheria assai più considerevole che fra
i rumeni e serbi dell'antico reame. Tutti i vicini conquistatori si
sono affrettati a scaceiare i professori e gli ins^nanti ungheresi;
sin dal tempo della presa di Bisanzio in Europa una simile migra-
zione di eruditi non si è vista che dopo lo stabilimento del dominio
czeco, rumeno e serbo nelle regioni strappate all'Ungheria. E si
può immaginare quali elementi presero il posto di questi scacciati!
La fiorente, rinomata, ben provvista università di Kolozsvàr, dove in-
segnavano professori come quell'Apàthy — ben conosciuto anche in
Italia, principalmente a Napoli — il cui laboratorio zoologico atti-
rava studiosi da tutti i paesi civilizzati, fu trasmutata, in 48 ore, in
una università rumena; e per poter provvedere alle cattedre dive-
nute vacanti, maestri elementari furono chiamati ad un corso pre-
paratorio di tre mesi; e per provvedere anche all'uditorio neces-
sario fu concesso d'immatricolare studiosi senza certificato di matiu-
rità. I teatri, che prima con, le loro rappresentazioni in ungherese
attiravano un pubblico numeroso, attento ed intelligente, ora con le
loro rappresentazioni forzate nella lingua dei nuovi padroni, o ri-
mangono vuoti o sono occupati da un pubblico invitato gratuita-
mente, obbligato ad intervenire, formato per la più gran parte dagli
invasori civili e militari.
Tutto questo prova abbastanza che con lo smembramento del-
l'Ungheria fu interrotto biiiscamente un lavoro culturale intenso,
che durava continuo e profìcuo da secoli, e che una decadenza che
distruggerà l'opera di generazioni, è inevitabile. Bisogna poi anche
considerare gli indirizzi a cui si ispirarono nel trattamento della
popolazione ungherese, circa i suoi bisogni intellettuali, i governi
nuovamente stabiliti. Non soltanto le impediscono d'educare i suoi
fanciulli nella loro lingua nazionale, ma è oltre a ciò completa-
mente privata di ogni comunicazione intellettuale coi connazionali
dell'antica patria; libri, stampe recenti non possono importarsi; in-
vece la stampa ungherese bolscevica di Vienna, già menzionata, trova
libera entrata e viene diffusa ad arte fra gli ungheresi dei territori
perduti, come un mezzo per snazionalizzarli e per accendere in loro
l'odio contro il regime presente dell'Ungheria. I monumenti dell'an-
tica grandezza e della gloria d'Ungheria, i monumenti degli eroi e
dei ]X)eti nazionali, perfino quelli eretti in memoria della lotta per
la libertà degli anni 1848-1849 — ricordi dunque cari anche agli
Italiani! — vengono distrutti o mutilati, o profanati dappertutto dove
il dominio ungherese dovette cedere il posto ad un altro.
Si vede già che le disposizioni della pace di Trianon cadono
come un colpo mortale sull'Ungheria; e ciò non basta: anche dopo
la pace, e oltre alle sue disposizioni, si presero e si prendono misure
che paiono addirittura voler togliere a cjuesto paese sfortunato anche
quel poco che il trattato gli lasciava. Le potenze tollerarono per
quattro mesi l'occupazione rumena, che spogliò l'Ungheria molto più
LA SITUAZIONE DELL'UNGHERIA 286
di quel che avesse fatto la guerra in quattro anni; esse tollerarono
fino all'estate passata l'occupazione della Baranya da parte dei Ju-
goslavi, ciò che era un'evidente infrazione del trattato di pace; esse
tollerano che gli « Stati successori » violino in ogni momento i di-
ritti delle minorità nazionali, e se ce ne lagniamo, il presidente del
Consiglio francese ci ris{X)nde, che le potenze non possono dimi-
nuire la sovranità degli Stati creati col loro aiuto, e che le nazioni
« amiche » sono più vicine a loro che le nazioni vinte. Benissimo!
Dal punto di vista dell'amicizia si possono davvero fare distinzioni
fra le nazioni; ma se vogliamo finalmente arrivare ad una situa-
zione nella quale non regni più la pura forza e il puro arbitrio, bi-
sogna trovare qualche cosa che valga ugualmente per tutti, senza
eccezioni e senza distinzioni, cioè l'onestà pubblica e la buona fede
nell'accettazione e nel mantenimento dei patti. La nazione che « cam-
mina alla testa della civiltà » non vorrà far ritornare i tempi della
schiavitù e dei paria. Anche le nazioni amiche della Francia potreb-
bero ricordarsi della sentenza : de anùcis tantum justa sunt petenda.
La <f Piccola Intesa», che si formò contro l'Ungheria e che pa-
reva dovesse mettersi sotto l'egida dell'Italia, ha — come si dice —
lo scopo di garantire il mantenimento della pace di St. Germain e
di Trianon, naturalmente soltanto in quanto le loro disposizioni
sono dirette contro l'Ungheria, uno scopo che esige pochissimo di-
spendio di forze, essendo il nostro paese ridotto a tale esiguità di
forze armate che non potrebbe sostenere assalti su quattro fronti,
e trovandoci oltre a ciò fra confini che assolutamente non possono
esser difesi. Ma questa nuova alleanza, formata nonostante che la
Lega della nazioni, creata dalle ix)tenze vincitrici, vieti ogni alleanza
particolare, pare voglia occuparsi sempre più da vicino delle cose
nostre, immischiandosi nella politica intema del paese e cercando
premurosamente pretesti per assalire anche questo tronco muti-
lato che è ora l'Ungheria, o per continuare il lavoro di spogliazione
dell'occupazione rumena, oppure — chi lo sa? — per annettere an-
cora dei territori, o per acconciare un corridoio per le comunicazioni
degli « alleati » . ,
E prima di terminare, voglio accennare all'interesse dell'Italia,
minacciata, secondo la mia convinzione, dalla politica slavofila dei
governi italiani, del passato recente.
Uno dei risultati più importanti, ottenuti dall'Italia a costo
d'immensi sforzi e di sangue profuso, è, senza dubbio, la sua si-
gnorìa incontestata sull'Adriatico. Da parte dell'Austria, che nel
senso antico non esiste più, essa non può esser più minacciata; tanto
meno dall'Ungheria, rimota già dal mare. La Jugoslavia sola, posta
fra la Turchia, la Grecia, la Bulgaria, l'Ungheria e la Rumenia, ma-
rittimamente poco sviluppata e costretta a dividere coU'Italia il pos-
sesso della costa orientale, è di certo una concorrente, sebbene una
concorrente forse troppo inferiore per essere pericolosa. Ma bisogna
tener conto delle possibilità del futuro. La Russia, in preda alle
sue convulsioni inteme, pare di non contare i>er ora, ma essa rap-
presenta una sfinge, che non ha ancora svelato i suoi futuri disegni;
essa rimane in ogni caso un misterioso pericolo per l'Europa. In
un'epoca nella quale piccole nazioni si lasciano trascinare alle im-
286 LA SITUAZIONE DELL'UNGHERIA
prese più ardite dalla febbre dell' imperialismo, una nazione di 100 mi-
lioni non può esaurirsi in etemo in lotte e moti interni e nella esal-
tata propaganda d'una rivoluzione sociale. Tosto o tardi, come re-
pubblica o come impero, essa ritornerà sul cammino dell'espansione
nazionale e diverrà di nuovo la conduttrice e il capo naturale di
tutte le nazioni slave, l'esponente dell'impulso slavo verso l'occi-
dente e verso il mezzodì.
Nessuna nazione slava potrà sottrarsi a questa influenza della
Russia: non la Polonia ohe non può rompere i leg-ami economici sta-
biliti fra essa e la Russia negli ultimi secoli e che ha bisogno del-
l'appoggio della Russia contro la Germania anelante a ricuperare i
suoi territori; non l'Ucraina, la cui indipendenza e separazione sono
ahcora troppo chimeriche; non la Czeco- Slovacchia, dove esiste an-
cora saldo il partito dei russofìli e dove le difficoltà del manteni-
mento della conquista condurranno sempre alla ricerca di protettori
potenti; non la Jugoslavia, che, come prima della guerra, anche per
l'avvenire non sarà capace di serbare l'acquistato e realizzare le sue
brame cresciute pel successo, che coll'aiuto del gigante nordico. La
« Piccola Intesa » cercava e cerca di stabilire un corridoio, che renda
possibile il contatto effettivo degli alleati slavi del nord e del sud;
ma chi potrebbe dubitare che un tal corridoio, una volta fatto, non
rimarrà aperto anche all'avanziata russa e servirà anche a demolire
la barriera che separa gli slavi del nord e gli slavi del sud, barriera
già fatalmente indebolita dallo smemibramento dedl'Ungheria. Se
questa barriera, che si estende dal Mar. Nero verso l'Europa cen-
trale e che è formata dalla Rumenia, dall'Ungheria e dall'Austria te-
desca, sarà una volta rovesciata, là, dove essa è più tenue, nel-
l'Ungheria, chi impedirà al colosso slavo che si estende dal mare
polare fino a Salonicco di avanzare anche verso l'Adriatico e con-
tendere il suo possesso all'Italia?
Perciò, come io sono convinto che questa necessità europea d'una
barriera fra gli slavi nordici e meridionali riunirà, malgrado i dis-
sensi presenti, fra poco la Rumenia, l'Ungheria, l'Austria e anche
la Germania nella loro politica estera, così io considero come un in-
teresse vitale dell'Italia stessa, che l'Ungheria resti salda e forte; con-
sidero lo smembramento del nostro paese come un danno fatto anche
all'Italia e trovo o non sincera o cieca quella politica italiana —
forse già superata — che faceva il giuoco di coloro il cui interesse
è l'indebolimento, oppure lo spartimento totale dell'Ungheria. L'at-
titudine recente dell'Italia nella questione dell'Ungheria occidentale,
pare di provare che queste verità sono riconosciute già anche alla
Consulta.
Forse non m'inganno se io riconduco le cause della politica che
mise l'Italia, per un momento, quasi alla testa della « Piccola In-
tesa», oltreché a motivi di opportunità momentanea, a quell'odio
tradizionale contro gli Absburgo e alla paura o piuttosto al sospetto
che l'Ungheria diveng-a il sostegno d'un nuovo impero degli Absbur-
go, ostile — per tradizione — all'Italia.
Questa causa pare ora — dagli avvenimenti recentissima — eli-
minata. Nulla impedisce che la costituzione provvisoria del 1920,
che, monarchica nella sua forma, depone — come in casi precedenti
della nostra storia — le potestà del sovrano, fra certi limiti nelle
LA SITUAZIONE DELL'UNGHERIA 287
mani d'un governatore eletto, duri anche alcuni anni. Nel frattempo
la situazione del paese si chiarirà, gli odi e le invidie fra noi ed i
nostri vicini potranno sparire e sarà possibile di risolvere, sine ira
et studio, anche le questioni che oggi ci separano. Ma che final-
mente si conceda da tutte le parti un poco di riposo a questo scia-
gurato paese, che non lo si spinga a passi disperati, e che esso non
sia esposto — disarmato com'è — alla mercè dei suoi violenti vicini.
Bisognerebbe anzitutto cancellare la vana p)aura d'un irreden-
tismo aggressivo da parte dell'Ungheria. Noi sappiamo che ogni ten-
tativo in questo senso è sinonimo di catastrofe pel nostro paese.
Noi ripetiamo, e ripeteremo instancabilmente, che siamo stati
puniti ingiustamente, smembrati crudelmente, sacrificati a pretese
esagerate, irragionevoli, in parte assurde, il cui adempimento di-
strugge noi senza portar salute ai nostri nemici. Noi ripetiamo, che
il riordinamento presente non assicurerà mai la consolidazione di
questa parte dell'Europa, invece esso avrà per seguito convulsioni e
cambiamenti perpetui, non a causa delle nostre tendenze aggressive,
ma a causa dei germi di dissoluzione che esso conduce seco, ed i cui
effetti già ora si palesano quasi dappertutto.
Noi speriamo un cambiamento nel futuro, che renderà l'Un-
gheria piti grande della presente, rispettata come prima, salda, forte
e prospera. Noi non godiamo di alleanze armate come i nostri av-
versari; abbiamo però due alleati, invisibili e muti, ma, per il loro
lavoro continuo e irresistibile, più vigorosi di tutti: il tempo e la
giustizia.
n tempo, che sana le piaghe del passato e fa ritornare lenta-
mente le forze antiche; che calma le passioni sfrenate, intiepidisce
gli odi iniqui e le simpatie deluse, che rischiara gli sguardi offuscati
e rende alla ragione il suo dominio; il tempo che sull'albero della
vita dell'umanità matura i frutti sani e fa cadere i frutti malati.
E la giustizia, che lavora adagio ma sicuramente, che indebo-
lisca impercettibilmente il forte che le si oppone e conforta mira-
bilmente il debole che a lei si affida; che innalza l'umiliato e umilia
il superbo; la giustizia, una volta trionfante, abolirà anche le ini-
quità imposte alla nostra patria. Forge noi vecchi non vedremo più
questo trionfo e questo risorgimento; nondimeno noi uniremo fino-
all'ultimo fiato la nostra fede e il nostro lavoro a quello dei nostri
figli e nipoti, destinati a vedere un avvenire migliore.
Alberto Berzeviczy.
Nota. — Abbiamo di buon grado accolto il cortese invito del nostro illustre-
amico e collaboratore, l'on. Alberto Berzeviczy. fervido studioso delle cose ita-
liane, che in Ungheria fu già Ministro della Pubblica Istruzione, Presidente
della Camera dei Deputati e Presidente dell'Accademia delle Scienze. Noi siamo
ben lieti di conoscere, dalle sne pagine, il punto di vista dell'Ungheria; ma, senza
recriminare sul passato, ci sia consentito ricordare che il trattato della TripHoe
Alleanza era puramente difensivo: che Germania ed Austria si decisero ad una
guerra offensiva senza alcuna intesa preventiva coli' Italia che veniva perciò a
riacquistare la sua piena libertà d'azione. Ma oggidì formuliamo anche noi,
col nostro eminente amico, l'augurio cordiale di migliori rapporti fra l'Italia
e l'Ungheria per il bene reciproco e nell'interesse della pace mondiale.
.V. .4.
TRA LIBRI E RIVISTE
I nostri editori. Loescher-Chiantore — Un libro fortunato — Onoranze a Sir James Fra-
zer investigatore dei riti prisco-Italici — I consigli di un giornalista — Il teatro e i
fanciulli — Caserme tedesche — Per la cultura nazionale — Usanze della società italina
nel Seicento — Amburgo.
I nostri editori.
Loescher-Chiantore.
C'è stato un periodo, nella storia
della nostra editoria, non saprei se
dovuto a mancanza di iniziativa negli
italiani o piuttosto a ragioni politiche,
nel quale alcuni stranieri di mente
agile, e nelle loro azioni, spicci e sbri-
gativi, entrano in Italia, vi piantano
risolutamente tenda e famiglia e ben
presto raggiungono — attivi e lavora-
tori — il benessere e la fama.
Quando Ermanno Loescher nel 1855
acquistava a Torino il negozio del suo
connazionale Gustavo Hahman, egli
probabilmente non immaginava che
Torino sarebbe stato per lui un centro
di attività straordinaria e la sede della
sua fortuna.
Ermanno Loescher è certo un tede-
sco: e di quelli di stampo antico, ar-
cigni e duri: e pur tuttavia sente su-
bito che Torino non è Lipsia e che
egli potrà bensì giovarsi dei metodi
commerciali della sua razza, ma con
discrezione e con calcolo : che si in-
travvedano, ma non si vedano, che si
sentano presenti, ma non pesino.
E poiché è un uomo di senno e d'in-
gegno, ci riesce. Comincia con l'intro-
durre libri tedeschi e fa tradurre gram-
matiche latine e greche di tedeschi.
Sulle prime, resta libraio: e poiché
vede che una sola libreria non gli ba-
sta, crea succursali a Roma e a Fi-
renze, attivando un commercio labo-
rioso e attento, del quale in Itaha fin
allora mancavano esempi.
Poi, come ho detto, venne la Casa
Editrice. 11 Loescher non la fonda su-
bito naturalmente. E' tedesco : cioè
oculato e non precipitoso. La crea nel
'67 quando l'esperienza fatta come
libraio nel nostro paese, gli dà fidanza
che non perderà tempo: e che anzi
aumenterà intorno a sé l'attenzione dei
dotti e gioverà sul serio agli studi
italiani.
Certo i suoi primi passi — ed era
naturale che così fosse — furono verso
una produzione scolastica e cioè red-
ditizia. Ma saremo tutti d'accordo nel-
l'elogiarlo, poiché egli è il primo in
Italia che offre alle scuole una « Bi-
blioteca classica » di autori greci e la-
tini affidati alle cure dei più valenti
filologi nostri: la quale rappresentò il
primo tentativo (più tardi imitato con
successo dal Giusti, dall'Albrighi Se-
gati, dal Paravia, ecc.) di emancipa-
zione dalla Germania, dalla quale ve-
nivano, come è noto, i libri di testo
più accreditati.
Ma egli non doveva fermarsi a que-
sta prima prova: e, dopo la pubblica-
zione di varie grammatiche e dizionari
(sono ancora adottati i suoi Curtius e
Schultz), egli, che amava la cultura
con passione di umanista e che, come
dicemmo, non agiva a solo scopo di
lucro, aiutò disinteressatamente l'opera
dei nostri studiosi più zelanti e capaci,
iniziando quelle pubbhcazioni di alta
TRA LIBRI E RIVISTE
289
cultura che gli dettero una fama mon-
diale. Basti ricordare le Origini del
teatro ttaiiano del D'Ancona, capola-
voro di esegesi storica e di sintesi
critica e insieme linda ed accurata fa-
tica tipografica personalmente guidata
e seguita dal Loescher. E la Vita del
Tasso del Solerti, in tre grossi volumi
e poderosi, con cliché, note, appendici:
uno più massiccio, gli altri due più
snelli, ma di un insieme armonico e
tipograficamente perfetto. E le storie
delle letterature del Finzi e del Ga-
spàry, i testi degli studi mediovali
della filologia romanza, le opere criti-
che del Bertana sull'Alfieri, e del Re-
nier e di altri sui temi più vivi della
nostra letteratura. Anche Tommaseo,
che è pure agli ultimi anni della sua
vita, entra in casa Loescher: e quel
volume, per quanto oggi odori di an-
tico, vedi come il Loescher lo abbia
curato e vezzeggiato, sebbene sia uno
dei primi da lui editi.
Opere varie e curiose nascono di
continuo per i tipi della Casa. Appas-
sionato delle imprese ardue e di lunga
durata, egli accoglieva molte proposte
che altri editori avevano respinto senza
esitazione. La Rivista di Filologia
classica, L'Archivio glottologico. Il
Giornale storico della letteratura ita-
liana, Les Archives italiennes de bio-
logie sono tante tappe del suo cam-
mino: e se anche accolte favorevol-
mente dagli studiosi di tutto il mondo,
non redditizie.
Mortigli i figli, egli continuò tenace
il suo lavoro : accrescendo di continuo,
ma senza fretta, ed anzi con molta
oculatezza e calma, il suo già impor-
tante catalogo: finche la morte, dopo
una malattia non lunga, lo strappò al
lavoro il 22 novembre del 1892.
Gli successe la moglie Sofia Ran-
chenegger, la quale, sebbene nuova al
commercio, seppe subito, con l'appog-
gio della propria cultura e aiutata da
un intelletto acuto e duttile, prendere
posto nella azienda e, anziché disper-
dere, accrescere il patrimonio spiri-
tuale che il marito le lasciava. Erman-
no Loescher era tedesco: ed ella era
anche tedesca : ma, come Ermanno
s'era fatto italiano fino a diventare uno
degli editori nostri più eletti e a pro-
pugnare persino la fondazione di un
istituto che unisse gli sforzi editoriali
di tutta Italia, l'Associazione Tipo-
grafica Libraria, ed a fondare la Bi-
bliografia italiana, così ella, la vedova,
sa conservare il tipo alle edizioni della
Casa con fedeltà : arrricchendo, oltre
il ramo scolastico, gli altri rami più
onorevoli senza dubbio, ma quasi pas-
sivi, della Casa.
Vendette bensì i negozi, perchè il
commercio spicciolo non le piaceva;
ma alla Casa Editrice si dedicò con
passione e con zelo, fino a studiare
scrupolosamente anche l'estetica este-
riore delle opere che pubblicava: nella
quale fatica, già le giovava il consiglio,
l'aiuto e l'intelligenza di Giovanni
Chiantore.
Da trent'anni e più il Chiantore vi-
veva in quella atmosfera di lavoro:
prima procuratore di Loescher, poi,
più tardi con la vedova, direttore del
ramo editoriale : e vi viveva, diciamolo
subito, con tutte le sue energie, pas-
sionalmente. La vedova, morendo, legò
a lui per testamento, con munifica ge-
nerosità, la sua Casa Editrice. Durante
la guerra, e negli anni immediatamente
succeduti alla conflagrazione, Giovanni
Chiantore dimostrò subito nelle inten-
zioni e nei primi passi la propria ge-
nialità ed anche il proprio ardimento.
Del resto, anche negli ultimi anni della
gestione della vedova, si può vedere
nelle edizioni Loescher, non direi un
ringiovanimento, ma certo una mag-
giore modernità nei tipi ; un gusto
d'impaginazione, insolito nel libro Loe-
scher, che è sempre stato un po' ar-
cigno e, direi, freddo ; e infine una
maggiore agilità nella scelta delle opere
e dei nomi. Ci sentivi, insomma, là
dietro, la mano di un uomo affezio-
nato alla tradizione nostrana: che s'era
fatto, più che sulle edizioni tedesche,
sulle nostre : e magari sulle più pure
e antiche.
290
TRA LIBRI E RIVISTE
Oggi, che Giovanni Chiantore ha
pubblicato moltissimi libri col suo no-
me (e si vedano VEros del Bignome
e le riedizioni del Graf recentissime),
curati e studiati anche nei particolari
esterni da lui, questa convizione di-
venta più fondata : e noi, poiché egli
ci promette oltre che ristampe di opere
Loescher esaurite, anche studi nuovi
di filosofia classica, di letteratura ita-
liana e straniera, di testi per le scuole,
aspettiamo con fede che la ditta Loe-
scher, ora scomparsa, diventi del tutto
italiana nella veste esteriore e nel con-
tenuto : cosicché i due nomi, del fon-
datore e del successore, si confondano
un giorno e solo si possa dire, poiché
questa attività si svolse del resto in
Italia, che essa è se non d'origine, al-
meno nei risultati, nostra.
Un libro fortunato.
E uscita una nuova edizione — e
non una nuova ristampa — del Ma-
nuale delle Scienze delle Finanze di
Federico Flora, libro meritatamente
fortunato. Nato nel 1893, ebbe dopo
dieci anni la seconda edizione: e as-
sicurò un successo che lo spinse a più
frequenti edizioni. La sesta segue a
due anni la quinta, che era molto am-
pliata, e non farà tardare molto la set
tima, perché il libro fu organicamente
concepito, logicamente diviso, chiara-
mente scritto, dottamente illustrato,
praticamente svolto.
La scienza pura dà la base; le ne-
cessità della vita, e la legislazione po-
sitiva gli sviluppi, ora rispondenti alle
leggi severe delle scienze, ora da essa
divergenti, per poi dover ritornare
— provando e riprovando — alle fonti
salubri. La lunga guerra, e la finanza
dura (che con rapida cresciuta e con
adattamenti e spedienti, accettati e
spesso non discussi dai parlamenti)
dalla guerra immane e costosa ebbe
origine e svolgimento, fece ricercare
tutti i mezzi per alimentare il Tesoro,
colpì ogni cespite e impose, e sovrim-
pose in ogni maniera; e trovò nelle
ricchezze e nei profitti, spesso ecces-
sivi, della guerra, base e occasione a
nuove tassazioni. Le spese di Stato
cresciute a miliardi, imposero la ne-
cessità di entrate a miliardi, il bisogno
urgente di prestiti, e l'aumento degli
interessi e l'emissione a getto continuo
dei buoni del tesoro. L'economia eu-
ropea fu sconvolta, e la finanza fu con
essa sconvolta: New York diventò la
capitale finanziaria del mondo agitato,
gli Stati Uniti creditori e padroni, la
pace sospirata (« la da molti anni so-
spirata pace » di Dante) finalmente con-
clusa, non fece cessare la guerra ; le
tariffe doganali furono rivedute, il pro-
tezionismo fece nuove conquiste. Ven-
nero, con la pace le difficili liquida-
zioni con altre lotte internazionali, e
le nuove categorie di spese ingenti,
gli interessi passivi, gli aiuti ai muti-
lati e agli orfani, le ricostituzioni eco-
nomiche delle Provincie invase, i ri-
medi empirici alla disoccupazione, in-
fine le pensioni di guerra, problema
grave codesto che le altre guerre non
avevano avuto e che questa guerra
impose, e impone, a tutti gli Stati e
con gravame non prima ben calcolato,
ed ogni anno crescente.
La situazione finanziaria dell' ItaHa
— uscente vittoriosa dalla guerra, e
di più riuscita a compiere la sua uni-
tà — fu ed é grave, e va curata. Ha
spesi 118 miliardi cioè tutta la sua
ricchezza, e deve ricostituirla.
La sua situazione finanziaria fu la
più aspra tra tutte quelle delle nazioni
civili; i suoi sacrifizi enormi; ma lo
spirito patriottico si serba alto e di-
sposto a tutto per la salvezza della
patria, a condizione di colpire giusto
e di non disperdere in vane erogazioni
i milioni faticosamente raccolti.
Il libro del Flora dà la scienza e la
pratica : e tutto questo stato di cose
illumina: studia le leggi nuove estere
e le nostre : le controlla con l'esame
critico, le spiega con le necessità pra-
tiche ; le collega con la fiducia nell'av-
venire.
La sesta edizione (che chiude col-
TRA LIBRI E RIVISTE
291
capitolo sulle finanze locali, e sente il
peso di questo nuovo ed urgente pro-
blema) è libro degno di lode, è utile
a tutti, studiosi e uomini politici, mae-
stri e scolari, giornalisti ed economisti,
perchè dà le notizie delle leggi posi-
tive, i dati raccolti dai documenti par-
lamentari stranieri e nostrani, la sin-
tesi delle vicende passate; e ben porta
in testa, e bene illustra, la grave sen-
tenza di Tacito : « Ncque quies sine
armis, neque arma sine stipendts, ne-
que stipendia sine tributis haberi sue
sunt r>. {L. Rava).
Onoranze a Sir James Frazer
investigatore dei riti prisco-italicl.
Nel grande anfiteatro della Sorbonne,
dinanzi a migliaia di dottori, studenti
e professori delle varie Facoltà, il Pre-
sidente della Repubblica francese Mil-
lerand, il Ministro dell'Istruzione Leon
Bérard e il venerando rettore Appel,
conferivano il dottorato Honoris causa
a Sir James Frazer, fellow dell' Uni-
versità di Cambridge e professore di
antropologia a Liverpool ; illustratore
di Pausania (la guida Baedecker del
mondo antico) ed autore di Golden
Boughe, opera in 20 volumi che rias-
sume ed illustra e documenta, qual
miniera inesauribile di raffronti mo-
derni, tutte le credenze superstiziose
e gli errori degli antichi trasmessi in
retaggio ad una umanità che tenta li-
berarsi dalle tenebre per guardare in
faccia al vero.
La mirabile opera di Sir James Fra-
zer ha inizio tra i Colli albani, dove
all'ombra misteriosa delle querele ri-
flesse nel lago di Nemi, vigila il Rex
Nemorensis aspettando la morte dal
suo successore.
Se nel medio evo un grande poeta
italiano, onorato dalla Facoltà di Pa-
rigi, sognò indarno di cingere una
corona di lauro nella sua patria in-
grata ; non crediamo necessario che
la ingratitudine o la ignoranza degli
Atenei moderni trascuri chi rischia-
rava con la luce della scienza il nostro
passato più remoto e ne traeva am-
maestramenti utili all'umanità dell'av-
venire.
I consigli di un giornalista.
Nel Newspaper World del 21 otto-
bre scorso si leggeva l'avviso dato
da un giornalista al pubblico, in gene-
rale, e ai colleghi in particolare : « Vo-
lete passare utilmente le lunghe serate
invernali ? Studiate la grammatica ! »..
La lingua si corrompe. E questo il
grido d'allarme che si parte da scuole
e università, in Inghilterra.
Gli studiosi vedono con dolore le
infiltrazioni del linguaggio commer-
ciale nella lingua scritta, e leggono
con rammarico i giornali quotidiani
che si abbellano di fioriture linguisti-
che eccezionali.
È nato di recente « The English lan-
guage Club », (per opera, fra gli al-
tri, anche di Lord Bryce) ritrovo di
elezione, dove è solo permesso di par-
lare la lingua inglese più pura, leggere
i libri meglio scritti e ascoltare (le
conferenze sono pubbliche) letture di
passi scelti, fatte da insegnanti di elo-
cuzione, o esposizioni, su argomenti
letterari; sempre afladate a persone
dalla dizione perfetta. Parlare e scri-
vere bene la propria lingua non è
davvero di tutti. Un eccellente scrittore
americano, ascoltava un giorno le ac-
cuse che un italiano moveva alla po-
litica del Presidente Wilson ; a un certo^
punto l'americano interrompe il di-
scorso esclamando : « Avete piena-
mente ragione, ma Wilson scrive un
così buon inglese che mi duole molto
abbia dei torti verso l'Italia! )•
Il teatro e i fanciulli.
The Chiswich Education Comntitiee,.
qualche cosa come un comitato per
l'educazione popolare, ha inaugurato,,
in Londra, una serie di spettacoli
diurni per la gioventù. Si recitano l
drammi dello Shakespeare, commedie
292
IRA LIBRI E HIVISIE
di buoni autori del tempo di Elisa-
betta, tragedie classiche. Di tanto in
tanto vi si tengono anche delle letture,
illustrate da proiezioni, sopra vari ar-
gomenti di cultura.
I posti costano appena'sessanta cen-
tesimi e, solo i ragazzi, vi sono am-
messi. Il sistema è stato criticato dal
punto di vista speciale del non essere
necessario d'invogliare la gioventù al
divertimento. Ma in opposizione a que-
sta unica nota di biasimo si levano a
coro di lode le voci degli educatori.
I giovani, educati al bello dell'arte,
rifuggono da quelle rappresentazioni
nelle quali ogni forma di bellezza esula
per lasciare il posto a sciocchezze più
o meno sconce.
II vantaggio morale si aggiunge a quel-
lo inarrivabile di piegare l'anima e l'in-
telletto della gioventù alla compren-
sione del bello nelle sue forme più
elette, recando così, anche nella vita
degli umili, un elemento vero di gioia
sana e feconda.
Caserme tedesche.
Poiché il Landtag prussiano chiede
due miliardi di marchi per l'arruola-
mento e l'armamento della polizia re-
pubblicana, i deputati di opposizione
notano che il Governo non fa econo-
mie ma ricostruisce pian piano un se-
condo esercito mediante il quale la
Germania spera cancellare d'un colpo
i suoi debiti.
Le Commissioni di controllo vanno
persuadendosi del grave errore di non
far nulla per sanare il popolo tedesco
dalla infatuazione militarista, facendo
servire a indennità di guerra i mate-
riali degli edifici dove si preparava la
realizzazione di un sogno di egemonia
e dove ancora oggi si tenta di orga-
nizzare quello che sarà tra vent'anmi
l'esercito della rivincita, armato di stru-
menti scientifici ben più formidabili
dei 420, delle Berte che colpiscono a
120 chilometri, dei sottomarini più ve-
loci dei tonni e dei Fokker da bom-
bardamento più svelti delle rondini.
La Germania dichiara di non saper
come pagare le indennità di guerra;
ma poiché il suo esercito è diminuito
da 5,000,000 a soli 100,000 uomini (vale
a dire ai due per cento), il Governo
tedesco può far servire alla ricostru-
zione delle città devastate dalle arti-
glierie e dalle truppe germaniche, i
materiali e l'arredamento degli enormi
fabbricati che servivano da alloggio
e da scuole o magazzini agli eserciti
imperiali.
Oltre a pagare in natura una parte
delle indennità, la Repubblica tedesca
non dovrebbe mantenere centinaia di
edifici colossali e libererebbe il buon
popolo tedesco dalla malefica sugge-
stione inumana delle caserme che lo
avevano pervertito.
Qualche miliardo in oro è rappre-
sentato dal solo costo delle tegole e
lamiere di copertura; dai tubi e con-
dotti di rame e di piombo; dagli im-
pianti elettrici e di riscaldamento ; dai
mobili e da più di cinque milioni di
letti e brande militari, con materassi
o imbottite di lana ; dalle porte e fine-
stre vetrate; dai pavimenti e ferramenta
e cancelli, ancor nuovi e intatti, negli
edifici dei quali la Germania non ha
più bisogno, e cioè le caserme, i co-
mandi, le intendenze generali, gli uffici
dei presidi, le accademie militari e
scuole di guerra, le fabbriche d'armi,
le fonderie, i laboratori di artiglieria,
le palestre militari, i tiri a segno, i
magazzini militari, le polveriere ed i
depositi di vestiario e di proviande, gli
ospedali e carceri militari.
La Germania potrebbe anche cedere
in conto dei suoi debiti di guerra il
materiale di ripristino delle sue ferro-
vie strategiche, a cinque coppie di
binari, collocate l'anno prima del 1914
in direzione del Belgio, e logorate
giorno e notte dai convogli di truppe
e munizioni del « pacifico » esercito
invasore, che tornavano carichi di roba
tolta a cento antiche città devastate.
TRA J TBRI E RIVISTE
293
Per la cultura nazionale.
È uscita la seconda edizione della
Dissertazione Pedagogica, bel volume
di oltre 400 pagine, che è un'altra delle
opere educative che Eduardo Taglia-
rtela dedica alla cultura nazionale.
Fonte d'idee, suggestiva, semplice, or-
dinata, ha la vigoria sapiente della
guida al pensiero e alla riflessione e
la volontà riflessa di chi presenta pro-
blemi da risolvere, mettendo sulla buona
strada i giovani, e forse anche gl'in-
segnanti. E' quasi una psicologia in
azione, le cui funzioni suscitano le
forze mentali e le dirigono gradata-
mente a dissertare sopra argomenti la
cui trama risolutiva è lieve ed elegante
e serve perciò a intensificare lo svi-
luppo ideale e formale di temi che
nella mente dell'Autore hanno già quel
segreto svolgimento, il quale dev'es-
sere in qualche modo divinato, trovato
e rivelato dal giovane. Chi ben guardi
l'antologia dei problemi nasconde il
trattato teorico; il buon senso del te-
ma cela la filosofia dei principi ; l'or-
ditura della dissertazione offre qua e
là manchevolezze e vuoti che l'allievo
osserverà e colmerà con gioia e sod-
disfazione. E in queste occulte prepa-
razioni il Taglialatela è stato grande
maestro, perchè mentre sembra spia-
nar le asperità del sentiero, esige che
del sentiero e del paesaggio e sin del
sottosuolo, a dir così, nulla si trascuri
o s'ignori. Metodi, questi, nuovissimi
per noi, che pur abbiamo eminenti pe-
dagogisti, e ben accolti all'estero, dove
la disciplina ha assunto importanza
scientifica di prim'ordine. Importanza
che appunto il Taglialatela ha sentito
e fa sentire nei duecentododici temi,
tutti interessanti, curiosi, divertenti,
riflessivi, tutti atti ad esercitar concor-
demente le facoltà mentali e a tener
vive tradizioni patrie, entusiasmi pel
bene, volontà di fermi propositi, amore
per ogni sentimento umano, e per ogni
cosa bella, ansia di salire verso le mi-
steriose anime dei bimbi per recarvi
luce di fede, di affetti, di patria, di
scienza. Il libro, che ha pagine scelte
da grandi scrittori, ha pur quelle ano-
nime dell'Autore, non meno belle; e
si leggono lietamente con profitto, an-
che da noi grandi; i quali, se avremo
per poco il desiderio di metterci al
posto dei giovani e di svolgere meglio
o più ampiamente quegli argomenti, ci
accorgeremo con quanta arguta finezza
questo maestro dei maestri ha saputo
scegliere appunto quelle pagine per
condurre i discepoli a gustare, a in-
terpretare, a completare, e in fine, a
tentar di eguagliare i vecchi. Libro
dunque che fa e rifa la gente, anzi,,
se vi piace, la gente per bene.
Usanze della società italiana
nel Seicento.
La Cornell University di New Haven
(America) pubblica ancor uno degli in-
teressanti e bei volumi che formano
la delizia dello studioso, e, questa volta,
la materia trattata è italiana (Thomas
Frederick Crane, Italian Social Cu-
stoms of the Sixteenth Century. Yale
University Press. New Haven).
11 titolo: Italian Social Custotns of
the Sixteenth Century non direbbe tutta
l'importanza del lavoro del prof. Crane
se l'aggiunta and their influence on the
Itteratures 0/ Europe, non ne specifi-
casse la particolare direttiva.
La società (nel senso da noi dato
alla parola quando ci si riferisce alle
relazioni che corrono fra persone aventi
in comune tendenze, gusti, usanze) era,^
pressoché, ignota agli antichi, e si con-
nette al mondo della Cavalleria e ai
costumi feudali. Il prof. Crane, nel suo
ricco e documentato studio, si propone
di dimostrare come queste medesime
costumanze, venute dal Settentrione e
dalla Provenza, che l'Italia vede fio-
rire man mano alle Corti di questo o
di quel Principe, da Federico li a Ro-
berto di Napoli, a Lorenzo il Magni-
fico, e continuate nelle minori Corti dei
nobili signori di questa o di quella
contrada, subirono in Italia stessa tali
e così essenziali modificazioni, da es-
294
TRA LIBBI E RIVISTE
sere considerate unicamente come im-
portazione italiana, quando questi me-
desimi costumi ritroviamo adottati in
Francia, Inghilterra, Germania e Spa-
gna, o se prendiamo a studiare la let-
teratura che ne è derivata.
L'Autore, dopo essersi indugiato a
considerare le cause per le quali la
Provenza può ritenersi la culla dei
joce-partitz, dei tornei poetici e dei
dibattiti sopra argomenti d'amore, ci
conduce in Sicilia ove, alla Corte di
Federico II, fiorì la dilettosa tenzone,
e dove si abbeUì della grazia d'un lin-
guaggio nuovo.
Dalla Corte di re Federico, l'Autore
passa a quella di re Roberto di Na-
poli ed entra, di conseguenza, a par-
lare del Boccaccio e del Filocolo del
quale tratta ampiamente. Numerose
sono le propaggini di questo singolare
componimento del Certaldese, e il Crane
ne fa una rassegna importante, docu-
mentata e corredata da una ricca bi-
bliografia. Le sottili questioni propo-
ste nel Filocolo da cavalieri e dame,
divengono il perno intorno al quale si
sbizzarriscono le menti. Le riunioni
del tempo si animano di discussioni
gaie, di agili ragionamenti e più ardue
meditazioni, a seconda della diversa
inclinazione di questa o di quella adu-
nanza, di questo o di quel paese e
dell'umore delle differenti persone, poi-
ché è ben chiaro come ogni naturale
tendenza modifichi, nel senso che le è
proprio, questo o quel ragionamento.
E' la teoria degli umori che Ben Jon-
son analizza così sottilmente nella pre-
fazione alla prima edizione della sua
commedia Every Man ont of his hu-
mour.
11 Crane considera il Paradiso degli
Alberti di Giovanni Gherardo da Prato
siccome l'anello di congiunzione fra le
vivaci questioni d'amore che si svol-
gono nel Ftlocolo e le discussioni filo-
sofiche sull'Amor platonico, fiorite nella
società fiorentina del Seicento, accanto
agli studi più severi dell'Accademia.
La produzione letteraria del periodo,
avente per oggetto usi, costumi, gio-
chi, veglie, trattenimenti, vien passata
in rassegna dall'Autore il quale sce-
vera a mano a mano gli argomenti, li
sviluppa, li riassocia, U snoda e di-
stende finche dichiara nettamente come
debba considerarsi italiano lo spirito
che permea a traverso le pubblicazioni
letterarie europee aventi per soggetto
gli usi e le costumanze di società,
quegli usi che dettero origine a mani-
festazioni simili in altri paesi d' Euro-
pa, e più specialmente in Inghilterra
ove tanto lustro ne derivò alla Corte
dei Tudor — in Francia, ond'ebbero
origine le fastose riunioni e le gare di
spirito all' Hotel de Rambouillet — in
Germania, dalla Fruchtbringende Ge-
sellschaft di Nuremberg, al prezioso
studio dell' Harsdòrfer — fino alle imi-
tazioni spagnole dei costumi d' Italia,
o alla vivace letteratura che ne venne
di conseguenza. Ci meraviglia solo che,
in mezzo a tanta dovizia di ricerche
su quanto concerne veglie, tratteni-
menti, giochi, libri di ventura, indovi-
nelli e simili, sia sfuggita all'Autore
l'azione esercitata dall'opera di Andrea
Aleiato. Non intendo accennare al De
Singulari Certamtne, poiché il Crane
non tratta di tenzoni cruente, ma al-
ludo bensì al volume del' 'Aleiato nel
quale si parla delle quattro fonti degli
emblemi (pubblicato a Milano nel 1522,
Asburgo 1531, Parigi 1534, Venezia
1544) che può considerarsi come il
progenitore di tutti gli Etnblem books,
(a cominciare ósiìV Emblentata, 1565,
dell'olandese Adriano Junius), donde
derivarono, in gran parte, quelle rap-
presentazioni allegoriche, sciarade e
simili che si usavano nelle liete adu-
nanze e nei ricevimenti (J. K. Floyer,
Some Emblem books and their writers,
London).
Anche la parte che riguarda lo nu-
merose accademie del mezzogiorno
d'Italia, e principalmente della Sicilia,
non é che fugacemente trattata.
La materia ricercata dal Crane con
tanto amore, e svolta con singolare
dottrina, riesce altamente interessante
se consideriamo, com'egli del resto ci
TRA LIBEU E RIVISTE
295
avverte, che, di salotto in salotto, di
Corte in Corte, di Accademia in Ac-
cademia, il pensiero italiano è pene-
trato dovunque e che questa azione
del pensiero sul pensiero ha vivificato
gran parte della letteratura europea,
{Anna Benedetti).
Amburgo.
II più grande porto della Germania,
centro alle grandi linee di navigazione
che riunivano l' impero tedesco alle
sue colonie, ed a tutte ie terre abi-
tate dell'estremo Oriente e dell'estremo
Occidente, alle coste d'Africa ed a
quelle del Nord e Sud America, del-
l'Australia, della Nuova Zelanda e delle
isole del Pacifico, era ridotto durante
la guerra in silenzioso abbandono.
L'erba cresceva nelle strade, la rug-
gine copriva le rotaie sulle banchine
del porto deserto, e vecchi facchini
non chiamati sotto le armi, sedevano
oziosi o camminavano malinconici e
pallidi, stanchi di oziare.
Oggi, dopo un anno, tutto è cam-
biato nel porto di Amburgo, ridesta-
tosi a nuova vita ; ogni cosa è in mo-
vimento, con macchinari nuovi ; una
ventina di grue a vapore funzionano
con l'elettricità, i moli vengono prolun-
gati; gli scaricatori non fanno obiezione
a tre mute di otto ore ciascuna, per
non interrompere l' attività portuale
durante la notte.
Il rappresentante di una grande com-
pagnia di navigazione inglese, mi fa-
ceva notare che tutto questo fervore
di lavoro ha per risultato la rapidità
con cui le navi transatlantiche vengono
scaricate e ricaricate e m'indicava un
grande piroscafo vuotato in soli tre
giorni, operazione che avrebbe richie-
sto non meno di dieci giornate nel
porto di Londra, purché non piovesse.
Gli scaricatori tedeschi continuarono
invece a lavorare sotto la pioggia fino
a lavoro compiuto. Tanta speditezza
vuol dire molto per l'armatore obbli-
gato a tenere le navi a fuochi spenti.
Ed è naturale ch'egli prediliga il porto
d'Amburgo; quand'anche il marco fosse
meno deprezzato, nessuno dei porti d'In-
ghilterra potrà competere con quello
germanico, a menochè gli operai in-
glesi non si scuotano d'attorno l'indo-
lenza ch'è divenuta una delle loro ca-
ratteristiche peggiori, e che si è aggra-
vata da quando riscuotendo grosse
mercedi, le consumano nelle public
houses avvelenandosi di whisky e di
cocktails.
Nbmi.
LIBRI E RECENTI PUBBLICAZIONI
V. Cannaviello. Nel primo cente-
nario dei moti costituzionali del 1820.
Discorso commemorativo. — Avelli-
no, 1921.
Gianna Vita. Il fattore economico
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UQO Mrssiki, RftponitabiU
Roma — Dltt* Armanl dt Mario Oovrrtar.
IL CENTENARIO DELLE GASSE DI RISPARMIO VENETE
L'Italia inizia oggi la celebrazione del centenario consacrato alle
sue Casse di Rispamniio colla solennità che illustra le due forti isti-
tuzioni di Venezia, di Padova e quella pur fiorente di Castelfranco.
È consolante lo spettacolo di queste modeste attestazioni; per esse
il culto della previdenza libera, spontanea si collega col ricordo di
uomini probi e sagaci, i quali, col massimo disinteresse, senza nes-
sun benefìcio materiale, persino senza riconoscenza, senza gloria
(perchè queste nostre istituzioni, come i germi sani affidati al suolo
della Patria fiorirono oscure), hanno creato le scuole elementari della
previdenza popolare. Quando sorsero, i Governi che le suggerirono, i
fondatori che le amm-inistrarono, non sosi)ettavano di creare una
nuova forma di credito economico; obbedivano al pensiero, più pio
che sagace, di accrescere i n>ezzi dei Monti di Pietà. Solo piìi tardi
quando si pensò a spezzare questo vincolo che le opprimeva, le no-
stre Casse poterono pigliare il libero volo, gareggiando colle migliori
del mondo civile. E invero due grandi correnti si determinarono nei
principali popoli, l'inglese e la francese, rappresentante Stati diversi
nei metodi di finanza e di economia, ma uguali nella gestione delle
Casse di Risparmio. I denari affidati ad esse non si impiegavano in
operazioni libere di credito, ma in titoli di Stato, e in Inghilterra si
volsero con felici ordinamenti, all'cimmortizzazione del debito pub-
blico. L'altro metodo, che per la felicità della sua riuscita, quantunque
seguito in altri paesi, potrenrmio dire italiano, pur collocando con spon-
tanea scelta in titoli di Stato una quota dei risparmi, la maggior parte
ne riversa, come una benefica rugiada, in fidi opportuni sui campi,
sui traffici, curando con somma prudenza la colleganza delle scadenze
dei depositi con quelle degli affari. Insigni economisti francesi, alla
testa dei quali era Leon Say, degno erede del nome di uno dei fon-
datori dell'economia politica, dopo una lunga corrispondenza con
me tenuta, che si pubblicherà fra breve, vennero in Italia, studia-
rono le nostre istituzioni, segnatamente le Casse di Risparmio e le
Banche Popolari dell'Emilia, della Lombardia, del Veneto e, tornati
m Francia, promossero quelle sane iniziative tradotte in legge, le
quali permettono alle Casse di Risparmio di aflBdare una parte (an-
cor troppa piccola!) dei loro depositi a Consorzi Agrari, a Soda-
lizi di Case Popolari e a somiglianti imprese di utilità sociale.
Leon Say ha riassunto in un magnifico opuscolo, pubblicato nel 1883
20 Voi. CCXyi. serie VI — 16 febbraio 1922.
298 11. CEMENAHIC) delia: CAsSt DI ...ol A....Ì lu VhNKlfc
col titolo: « Dix jouis dans la Haute Italie», i risultati di questa
feconda missione, ma poiché non si trattava di un romanzo sensar
zionale, non ebbe ancora la fortuna di una traduzione, che si at-
tende e onorerebbe l'Italia. OggkW si custodiscono quasi otto miliardi
n'elle nostre Casse di Risparmio lil>ere, ordinarie, che avevano sol-
tanto due miliardi e ottocento milioni al 30 g-iugno 1914, il mese
prima che scoppiasse la terril>ile guerra, E siamo testimoni ed asser-
tori noi Veneti che la crisi cagionata dalla cadutii di una Banca, i
giusti sospetti suscitati cTalle temerità di Enti sorti airimprowiso
con nonni non meritati, hanno, come in altre simili contingenze, rin-
novata la fiducia incrollabile delle popolazioni nei nostri magnifici
salvadanai fruttiferi. Oh! se i nostri risparmiatori non attendessero
per dimostrar siffatta fiducia le rapine dei depositi! Hanno sul luogo
dove lavorano, traffìca,no, costruiscono, gnadignano, soffrono e sperano
gli Istituti offrenti la fida ospitalità ai loro risparmi, ne conoscono gli
amministratori e le operazioni : le Gasse antiche di Venezia, di Pa-
dova e altrettali, che con fiorente giovinezza sostengono i loro cento
anni, la Banca Popolare un po' meno vecchia, ma non meno salda;
perchè, perchè si lasciano strappare i sudati frutti del loro lavoro da
Banche lontane, che col rumore delle lodi, spesso non sincere, pren-
dono il loro denaro e lo impiegano in complicate operaz.ioni, talora
miserabilmente finite nelle voragini della Borsa? Come non intendono
questi incauti che l'uno o il due per cento di maggiori interessi dovreb-
bero bastare per destar i loro legittimi sospetti, per contentarsi del
fido ostello natio, promettente con prudenza e rimborsanite con fedeltà?
Né ci si dica che queste istituzioni rendono servigi che le altre non
compiono, come quelli degli assegmi circolari^ dei comodati, cosi in-
felici nella loro nascita, ecc. ecc. Perchè non sentirsi delle Banche
di emissione per gli assegni? E io dico qui non in tono di rimpro-
vero, mia con dolcezza di eccitazione, perché le Gasse di Rispamtio
e le Banche Popolari migliori non si uniscono, gelosamente serbando
illesa la loro autonomia, per siffatte operazioni?
Questo grido io alzo da Venezia, anche in nome di Padova, la
mia seconda patria, nel giorno solenne, festeggiante il centenario del
risparmio veneto. E traverso voi, alti e puri amministratori della
Gassa di Risparmio di Venezia, di Padova, di Castelfranco ''il piccolo
kiogo dove la Cassa di Risparmio supera i 14 milioni), di Verona,
di Udine, di Treviso, di Rovigo e di altri luoghi, lo invio ai miei
amici risparmiatori di Lombardia, del Piemonte, dell'Emilia per
l'iniziatnva di questo accordo sicuro e nazionale nelle diverse opera-
zioni della trasmissione del danaro. Assumo l'imipegno per conto
delle Banche Popolari; lo assume per conto delle Gasse di Risparmio
italiane, il mio amico, senatore Ferrerò di Cambiano, uno dei « Santi
laici » della previdenza nazionale ? Se dai dolorosi casi che si tra-
versano non si dovessero trarre i grandi, i nobili, gli splendidi espe-
rimenti riparatori, noi non saremmo degni di rappresentare i mag-
giori nostri che fondarono e ci consegnarono illesi i gloriosi ostelli
del risparmio italiano. Sento che essi sono contenti di noi e nelle
mistiche corrispondenze fra il Cielo e la terra, alle quali credo ogni
dì più, quanto si fa sempre maggiore la mai incredulità negli uomini
politici, so che qui aleggia il loro spirito e ci benedicono quando
si conaacrajio i risparmi a sostenere il credito della Patria, a promuo-
IL CENTENARIO DELLE CASSE DI RISPARMIO VENETE 299
vere e a costiniire le Case Popolai'i, i Sindacati agrari, i sani Consorzi
cooperativi, quando, coirne pur ieri deliberava questa Cassa di Ri-
sparmio di Venezia, gloriosa nei suoi pudichi silenzi, di concedere
ai pro\"vido Ente che qui si erge per combattere la malaria, ultima,
malvagia eredità dell'invasione straniera, la prima offerta di cento-
mila lire e, fra le altre beneficenze, di donare cospicui assegni per
gli istituti confortatori dei piccoli fanciulli, invitandoli colle parole
di Gesù piene di immortale dolcezza! Meglio delle leggi, sf)esso er-
rate, meglio delle ispezioni burocratiche, spesso incompetenti o p^-
gio, a combattere gli Enti avventurosi, affamati dall'ansia degli acri
guadagni, varranno questi accordi degli istituti sani, i quali devono
scrivere sui loro frontoni la massima che dettai per loro : « Banche
« che perdano, banche che guadagnano troppo, paiono egualmente
« sospettabili; degne di fiducia sono quelle che con temperata cau-
« tela raccolgono i benefizi continui, figli della prudenza e non del-
« l'avventura ».
Indipendenti sempre, isolate mai; questo è l'altro consig-lio che
io volgo alle nostre beneiììche fondazioni.
Quando il Veneto sofferse il massimo oltraggio dell'invasione
straniera, noi con pia cura raccogliemmo i profughi e gli Istituti
economici, chiedenti una fida ospitalità alle altre piarti della cara Pa-
tria. E dopo la mirabile liberazione, le restituimmo illese, persino
migliorate, al loro nido natio. Allora una schiera di uomini d'affari
(e in alcuni la cura del guadagno pigliava a prestito il patriottismo)
domandavano al Governo e a me aiuti e concorsi per fondar banche
nelle terre liberate. Quale Presidente del Comitato Parlamentare
Veneto fieramente mi accampai contro questi apostoli del proprio
interesse, troppo addolorati dalle venete sventure e, aiutato da amici
e da colleghi eletti, immaginai, propx)si e volli che si fondasse col-
Talleanza delle Casse di Risparmio e delle migliori Banche popolari
l'Istituto Federale di Credito j^r il risorgimento delle Venezie.
onore, gloria della nostra regione. Esso ora stende le sue ali pro-
tettrici anche sulla Venezia Giulia e Tridentina. È l'ultimo trionfo
della nostra previdenza; questo istituto deve sopra\"vivere alle ripa-
razioni, che si compiranno nel 1923. So che si vuole riprodurne il
tipo in altre parti d'Italia, a mo' di esempio nel Mezzodì, dove Max
Ravà e i suoi colleghi hanno promesso il loro concorso. Questo Isti-
tuto senza cercar i gìjadagni, non solo è in pareggio ma in avanzo
morale e finanziario, poiché l'esperienza insegna che la cura del pub-
blico bene si collega con quella degli utili onesti; le buone azioni
lumeggiano i buoni affari.
Gloria alle Casse più antiche qui circondate dalla riverenza delle
meno vecchie e, senza obliare nessuno dei benemeriti, gloria a quedi
uomini insigni che non la cercano, si confondono nei modesti si-
lenzi, non ma sapranno grado di additarli agli spontanei applausi :
e nei vostri cuon e sulle vostre labbra il nome di Max Ravà di An-
gelo Pancino, di Miari, di Dandolo, di Venezze, di Favero
Le nostre libere Casse vissero senz altra onesta concorrenza,
tranne^queUa delle Banche Popolari, sino al 1874, quando sorsero le
basse di Risparmio postali. Fu allora grande la trepidanza per questa
300 IL CENTENARIO DELLE CASSE DI RISPARMIO VENETE
formidabile e non attesa apparizione, che segnatamente alle piccole
istituzioni pareva soffocatrice. Paolo Boselli ed io, collaboratori di
Quintino Sella, ohe dopo alti colloqui col sommo Gladstone, il crea-
tore in Inghilterra di questo tipo di previdenza statale, volle ripro-
durla in Italia, ci adoperammo a dissipare il non ingiusto timore.
Le Casse di Risparmio postali dovevano integrare e non sostituire
l'opera di quelle libere, cercando di svegliare la previdenza in tutti
i piccoli luoghi, dove TUfiBcio postale sorge, ma non vi sarebbe
pc«to né per una Cassa autonoma, né per una sua agenzia. Ho
narrato altrove (1) la controversia che, con la riverenza di disce-
polo a maestro, ai ^accese fra Quintino Sella e il suo devoto col-
laboratore. Alcuni economisti intransigenti (e nomino il sommo,
Francesco Ferrara) combatterono la costituzione delle Casse di Ri-
sparmio di Stato. Io le difesi. Sono avversario risoluto di ogni mo-
nopolio in nome del bene pubblico usurpato dai poteri statali nel
risparmio, nelle assicurazioni e in altre forme di attività eco-
nomica; ma fui sempre favorevole alle concorrenze fra Stato e
libere iniziative, quando lo Stato, come avvenne finora nelle due
grandi sue manifestazioni bancarie, quella della Cassa di Depositi e
Prestiti, uno dei più grandi e benefìci distributori di credito nel
inondo civile, e le Casse postali di Risparmio, senta la sua missione
di integrare e non di sostituire, di aggiungere forze nuove e nuove
ricchezze alla Patria e non di estinguerne. Ora Quintino Sella, inna-
morato della sua creazione, desiderava allargare troppo i limiti nei
versamenti dei risparmi agli uffici postali, segnatamente alzando la
ragione dell'interesse. È inutile dire che iper la loro naturale ten-
denza all'assorbimento, gli amministratori delle Poste, che per fro-
tuna del loro servizio non costituivano ancora un grande Ministero,
miravano, come mirano oggi cogli assegni postali, ad allargare le
funzioni di risparmio, esagerando le proposte di Quintino Sella e
servendosene ai loro fini nobili, ma accentratori. Lasciatemi dir qui,
giunto a quell'età della vita, quando nulla si teme e nulla si spera
dalla politica e dalla ombra vana delle piccole lusinghe, lasciatemelo
dire nell'interesse delle Casse di Risparmio libere, pel presente e pel
futuro, che nella controversia Quintino Sella, il quale aveva cono-
sciute ben altre vittorie, debellando il disavanzo, rappresentando al
Governo il Ministro che volle nel '70 l'acquisto di Roma, e fu il coo-
peratore massimo nell'applicazione della scienza alla prosperità del-
l'economia nazionale. Quintino Sella non si sentì un vinto accostan-
dosi al mio pensiero. Erano quegli uomini di Stato i veri eredi di
Cavour; servivano e non sfruttavano la Patria, soffrivano e non go-
devano il potere. Così avvenne che per una tradizione costante, da
me inflessibilmente difesa passando al Tesoro e alla Camera, gli
interessi dati dalle Casse di Risparmio postali si tennero sotto quelli
offerti dalle Casse libere. Grande, nobile ammonimento a tutti i
veri, sani e savi Istituti di Credito, i quali devono sottrarsi alle
tentazioni di un'avida concorrenza fatta a colpi di alti interessi
sui depositi. Per queste vie tortuose e fatali le Banche senza scru-
poli offrono in secreti negoeiati interessi del 6 e del 7 % ai deposi-
(1) Vedi Scimza e Patria, "Editore Quattrini. Firem», pagg. 136-249.
IL CENTENARIO DELLE CASSE DI RISPARMIO VENETE 301
tanti, che insieme agli equivoci dei comodati sui titoli pubblici, co-
stituiscono uno deg-li odierni pericoli della economia italiana. Quindi
voi qui rappresentanti del risparmio libero, voi che lo ammini-
strate come una sacra missione e non come un affare, che non te-
mete la concorrenza del bene esercitata con armi leali, associatevi
a me, mandando per tutta l'Italia, segnatamente a Biella, ch'Ei tanto
amò, un alto, un pio, un nazionale saluto alla memoria di Quintino
Sella, anche e jjerchè fondatore delle Casse di Risparmio postali. La
via di tutte le vittorie della previdenza italiana è da voi segnata, o
amministratori puri delle nostre istituzioni. Io ammiro, ho difeso,
quando non le mancarono gli assalti, la magnifica Cassa di Rispar-
mio di Lombardia, la più grande del mondo, che da sola prende
quasi un quarto del risparmio italiano; essa annovera con le opere
buone, con l'aiuto alle più utili iniaative morali, scientifiche, igie-
niche, sociali i giorni della sua vita incominciata un anno ipiù tardi
della vostra. Ma, senza soverchie sbocconcellature usate altrove, pre-
ferisco il metodo veneto di istituzioni provinciali, che come lo attesta
l'esempio del Credito Fondiario e dell'Istituto Federale, si danno il
fraterno abbracciamento per opere comuni, redentrici in tanti dolori,
esplicatrici di nuove riccheza»,
E in queste giornate, nelle quali errori e traviamenti appannano,
per brevi istanti il buon nome del nostro credito, rivendichiamo noi
che ne abbiamo il diritto le storiche tradizioni dei Banchi di Rialto
e di San Giorgio; (juei Banchi, fra le oscurità del Medio Evo e i primi
bagliori del Rinascimento, insegnarono al mondo le salde leggi del
credito significando che la probità è la miglior sagacia. Qui a Vene-
zia tutti i popoli traflBcanti, tutte le innumerevoli monete di vario
conio, si inscriveranno in un libro che trasformava quei valori in
TYionete di conto, creando o preparando quella unità economica che
i nostri moltiplicati Congressi internazionali non sanno tentare og-
gidì per la pace del mondo.
Colla invocazione di queste eccelse grandezze domestiche, au-
guro alle nostre istituzioni di salire sempre più in alto ritempran-
dosi nei ricordi della storia gloriosa dell'immortale Città, che oggi
ci ospita.
Luigi Luzzatti.
Discorso inaugurale, tenuto a Venezia, pel cetitenario delle prime Casse di ri-
sparmio venete fondate il 12 fdibraio 1822.
LA SANFELICE
POEMA TRAGICO
ATTO QUARTO
Tj notte alta. In un'insenatura deserta del molo di Palermo si leva un bri-
gantino leggiero a tre alberi con le vele spiegate e congiunto alla riva per un
ponticello volante. Un bastimento più grande con un fanale rosso acceao a prua
e uno bianco su l'albero di trinchetto, s'intravede a distanza, verso la diritta,
sui mare. Nei cielo caliginoso ammicca qua e là qualche stella. Anche su la
diritta, un lampioncino tremolante fuor d'una porta annunzia una taverna
da marinai. Dinanzi alla porta è un tavolino con due bottiglie e tre o quat-
tro bicchieri, e intorno si rizzano aJcune seggiole.
A sinistra poche case, e la via che si sprofonda nell'ombra lungo la spiag-
gia del mare.
SGENA I.
// capitano Bitrgio, Lao e il Monrealese, marinni, ^uu ^eduit
intomo la tavola.
BURGIO.
Maledetto scirocco! In questo mese
Non si rifiata più : l'aria è una vampa
Di fuoco: anche la notte.
Lag.
E son tre giorni
Che sta saldo così. Si parte presto,
Capitano?
BURGIO.
Silenzio! 0 son domande
Da farsi, quello? Basta che vi corra
La pag-a a voi, poltroni!
Il Monrealese.
Giusto dice
Il capitano. Quando c'è chi mette
Fuori i quattrini, per il resto poi
LA SANFEUCE
Chi se ninfischia? Io ho paura solo
Che la non duri : Michelaccio al mondo
Ce ne fu uno. Dammi l'esca., Lao,
Per favore.
{Accende la pipa).
Lag.
Ma questa è nuova! Quasi
Due settimane ornai che si randeggia
Da ca.po Gallo a capo ZafTerano
Il giorno, e che s'aspetta in questa cala
La notte: chi?
BURGIO.
Monrealese, e poi
Si dice delle femmine! Ma questo
Scannapane di Cristo è più seccante
D'una badessa. E tira avanti, pacchia,
Bevi, scialacqua, e non ti dar affanno
D'altro, tinca che sei!
Lag.
Capitan Burgio,
Scusate! Io dico come quello: chi
Non vede il fondo, non passa l'acqua. Ora
Se ci s'ha da rimettere la' pelle,
Son qua; ma prima...
^"^ Il Monrealese
(^porgendo il bicchiere)
Versa un altro goccio,
E sta' zitto, se puoi. Non lo sapevi
Da un pezzo ch'è il mestier nostro, ragazzo,
Di farla in barba alla morte?
BURGIO.
L'amico
Ha lo spago nel vino. Va', va' a cuccia,
Cagnòlo!
Lag.
A me, capitan Burgio? 0 l'altro
Mese, che scaricammo a Portofino
Il contrabbando della Barberia,
Chi tenne testa, se vi rammentate,
Alla guardia?
BURGIO.
Lo so! Vedi che dunque
Ho ragione: va' a cuccia.
303
304 la san felice
Lao.
A me, vigliacco?
A Lao GLammara?
Il Monrealese.
E finiscila, santo
Diavolo!
Lao.
No, ma una ragione è sempre
Una ragione. E io potrò sbagliarmi
Perchè sono una bestia, grazie a Dio;
Ma quello non mi va, quel coso lungo
E allampanato, che vien qui di notte
In gran mistero, come un'ombra, dice
Quattro parole, e se ne va.
BURGIO.
Ma lui
Ha i ducati, fratellol
Lag.
È un jettatore,
Vi dico; quant'è vero Dio! Quegli occhi
Sbianciti e tondi,, come d'un bestino,
Glieli avete guardati? E il nome suo
C'è alcuno che lo sappia?
BURGIO.
fi deeso: zitto!
SCENA II.
L'Abate Altobello e i precedenti.
L'Altobello.
Capitan Burgio, a voi non si domanda
Se siete pronto a salpare.
BURGIO.
Elccellenza,
Da dieci giorni son pronto. Sapete
La mia devozione.
L'Altobello.
Ohi non ne posso
Dubitare! Ma forse avrà bisogno
D'olio, per non ispegnersi, la vostra
Devozione.
LA SANFELir.E 3(fe
BURGIO.
Che dite?
L'Altobello.
Vi prego,
Son cinquanta ducati.
[Oli porge la borsa).
Eh, caro niio,
Se aggiungevate alla devozione
Anche il disinteresse, mi sarei
Messo in afTanno per voi : bisognava
Farvi osservare a un medico.
BURGIO.
Vi piace
Di scherzare, Eccellenza!
L'ALTwRZLLO.
In fatti, sono
D'umore sollazzevole stanotte.
E, dite un po', non è venuto alcuno
A cercare di me?
BURGIO.
Quando?
L'Altobello.
Mah!... ora.
Un mio lacchè, buon uomo, benché forse
Un po' tarpano...
BURGIO.
Io non l'ho punto visto,
EJcoellenza.
L'Altobello.
Fa niente.
{Va a guardar su la strada).
Il tempo è bello.
Vi pare?
BURGIO.
Vento di scirocco: quando
Cade, avremo acqua a secchi.
L'Altobello.
E quante mig-lia
All'ora, filerebbe il vostro legrno
Con questo vento in poppa?
306 LA SANFELICE
BURGIO.
Doman l'altro
Poco dopo il tramonto avvisteremmo
La Corsica, Eccellenza. Il « Rondonaccio »
È un buon veliero.
L'Altobello.
Meglio degl'inglesi
Di Nelson?
BURGIO.
Poh! Darebbe dieci nodi
Alla " Vanguardia » !
L'Altobello.
Ah ahi Vedremol
BURGIO.
Dite,
Ek^cellenaa, c'è egli da temere
Che saremo inseguiti?
L'Altobello
{piano, ambiguamente)
Eh! come ferve
A un soffio di battaglia il vostro vecchio
Sangue corsaro!
BURGIO.
Che vi salta in capo.
Vostra Eccellenza?
L'Altobello
[txyma a guardar su la strada. Il capitan Biirgio lo segue).
E non si vede ancora!
{pi/tn/} al Burgió)
Avete sempre su la spalla manca.
Il tatuaggio d'una nave a rosse
Vele spiegate con quel motto : « Sangue
Per sangue »?
BURGIO
[cavando rapidamente un colteUo):
Cristo!
L'.Xltobello
(gli serra il polso con la mano robusta, e lo costringe a lasciare
il coltello, poi freddamente susurra):
E i vostri uomini, dunque,
Che guardano!
LA SAN FELICE 307
BURGIO.
Eccellenza! voi chi siete?
Il demonio?
L'Altobello.
No, no, purtroppo!... Egli era
Ufi forte e ardimentoso uomo quel Gricco
Pirata, e in fede mia diede del filo
Da torcere alle navi cristiane
Ck)me alle barbaresche. S'ei vivesse,
Avrebbe l'età vostra press'a poco,
Capitan Burgio.
BURGIO
[cupamente):
Se volete farani
Arrestare, sbrigatevi. Già, quando
Il becco è vecchio, lo cozzano tutte
Le capre.
L'Altobello.
Date gli ordini : fra un'ora
Si parte. Solo, abbiate a mente ch'io
Un gran conto non fo delle persone
Virtuose...
BURGIO
{gli prende la mano per baciargliela):
Ek^cellenza!...
L'Altobello.
E preferisco
Quell'altre : almeno son .sincere.
BURGIO.
Vostro
Per la vita e la morte.
L'Altobello
{vedendo giungere il Ferri)
Ah, finalmente!
SGENA III.'
Fernando Ferri travestito da lacchè, rALTOBELLO,
il capitan Burgio e i due marinai.
Il Ferri.
Eccomi qua.
308 la sanfei,1ce
L'Altobelu)
{al Burgio):
Tornate su la nave,
Capitan Burgio, e siamo intesi!
Burgio.
Quello
Non ebbe mai che una parola, unal
Eccellenza.
L'Altobello.
Sta bene.
Burgio
(flz due marinai):
A bordo, voi!
{Il capUan Burgio e i due rruirinai salgoru) sul brigantino).
SGENA IV.
L'Altobello e il Ferri.
L'Altobello.
Che avete fatto? Dite presto!
Il Ferri.
Il bieco
Tiranno! Irremovibile!
L'Altobello.
La grazia?
Il Ferri.
L'ha negata.
L'Altobello.
Negata? A sua figlia? anche
Alla soave sua partoriente.
Alla sposa del suo nato, del figlio
Suo prediletto?
Il Ferri.
È per l'appunto ciò
C5he m'ha narrato il buon padre Ix>renzo
Con le lagrime agli occhi. Ieri, la mite
Principessa, sentendo ornai vicina
L'ora della maternità, lo fece
Chieunare e volle confessarsi. Il bravo
Padre si rammentò d'aver promesso
A voi la ^azia della Sanfelice,
E si rivolse implorando al bel cuore
LA SANFEUCE 309
Di Maria Clementina. I fieri casi
Narrò di quella sventurata: prima
Il ribrezzo di lei per limminente
Strade, rinooi^apevole denunzia.
La passioiie sua troppo tardiva
E inutile, nutrita di dolore
É di rimorso, per il capitano
Baccher; e poi l'amante sotto gli oc-chi
Esterrefatti di lei senza indugio
Fucilato, e la plebe minacciosa
Nel suo palazzo, e la carcere buia,
E la condanna ad aver mozzo il capo.
E poi le disse della gravidanza
Non sospettata pria, delia giustizia
Non rimossa, sospesa, e di quest'ansia
Fra vita e morte, soffocante, atroce.
Senza esempio, che dura già da otto
Lunghi mesi oramai... La principessa
S'intenerì, pianse, fé' voto a Dio
Che se il suo parto riuscisse a bene,
Anche quell'altra derelitta madre
Avrebbe avuto la grazia.
L'Altobello.
Oh! oh! egli
Non l'ha veduta!
Il Ferri.
Alle sei di stamane
Il re sinistro visitò la dolc«
Puerpera. Disciolta ella giacea
Nel talamo: era alquanto lassa, alquanto
Bianca. Sorrise, si rizzò con qualche
Stento, gli porse nelle stesse sue
Mani il dormente pargolo fra i veli,
E attese. ^ Bello peccerillo! — disse
La belva. — Chiedi qualche grazia! — Allora
La principessa, piìi che con lo sguardo.
Con l'anima, indicò mezzo riposto
Nel seno della sua creaturina
Appena nata, un foglio. Il re lo prende.
Lo scorre un tratto, poi, torvo n^li occhi.
Butta l'infante sul talamo, e via,
S0nza profferir motto. Era la grazia
Di Luisa.
L'Altobello. •
S'intende! È il forte, lui,
Ora!... E così?
310 '-^ SAN FKMl.l::
Il Ferri.
DojK) un par d'ore, uiiinse
Al direttore della Vicaria
Ordine, che Luisa Sanfelice
Sia ricondotta questa stessa notte
A Napoli, sul «Tartaro», quel grande
Bastimento laggiù con dm fancde
Bianco e uno rosso.
L'Altobello,
A meraviglia! Quasi
Me l'aspettavo. Ah ah ah ah! Bist^na
Che l'anima ci sia, proprio! La mia
Mi parla a volte astuta e aguzza meglio
D'una vecchia baldracca!... 0 re caprone,
Ora a noi due!
{Al Ferri)
Compare, avete gusto
Di minare le mani?
Il Ferri.
Abate, voi
Mi scampaste da morte!
L'Altobello.
E non v'è ancora
Caduto della mente? È questa damque
La notte de' prodigi? Il beneficio
Non vi pesa già troppo? Io ve l'avrei
Pagato con l'insidiia il giorno appresso.
Il Ferri.
Disponete, su via! siete mien tristo
Forse di quello che non vi vogliate
Fax credere.
L'Altobello.
Potenzi n terra! Bianco
Da far <istio a un capretto! Ehi, patron Burgio!
BURGIO
[dalla nave'
Vengo, Eccellenza!
(Discende).
SCENA V.'
L'Altobello, il Ferri e il Burgio.
BURGIO.
Comandate!
la sanfelice 311
L'Altobello.
Quando
Alcuno avesse detto a quel valente
Gricco pirata, ch'era buona cosa
Levar di mano una misera donna
A pochi birri per via...
BURGIO.
Dove?
L'Altobello.
Dietro
Il molo, qui, tra un quarto d'ora. Dee '
f Venir tratta sul « Tartaro » .
5 BURGIO.
t L'affare
1- È delicato assai.
v L'Altobello.
'^ Perchè?
l BURGIO.
,1 Bisogna
l- Che niun metta un grido. I birri, noi,
:^' La donna, muti come pesci. Al primo '
J Allarme, salterebbe in mezzo al bailo
Tutta la guardia della Vicaria.
'</
^ L'Altobello.
i Fate voi, caro amico! Ho mille scudi
l Da buttar via.
fc BURGIO.
:,; Bacio le mani!
{Il B^irgio tOTpa a bordo. Poco dopo si vedono otto marÌTiai
scivolar cautamente dal legno e a randa a ìranda dileguare nel-
^ V ombra) ,
I SCENA VL
? L'Altobello e il Ferri.
• Il Ferri
[abbracciando VAltobello)
0 egregio
Cittadino! Che gioia per i nostri
Morti, se vi vedessero! Quel grande
Conte di Ruvo che salì sul palco
Fissando il boja senza batter ciglio;
Quel Manthoné saldo e severo; il dolce
Poeta Ignazio Giaja; il buon Cirillo;
Jkr
312 LA SANFEUCE
La bella ed ispirata Eleonora
Foneeca Pimeoitel, fatta strozzare
Selvaggiamente, e tutte a una a una
Le vitytime sublimi di codesto
Pagliaccio sanguinario, ora vi sono
Riconosoenti di salvar la loro
Più infelice superstite!
L'Altobello
[seccato) »
Ma sì!
M'importa assai di morti e vivi!...
Il Ferri
[interdetto)
O dunque
Perchè?...
L'Altobello.
Perchè... perchè... caro fratello,
È il mio ladix) destino!...
Il Ferri.
Avrebbe forse
Ragione fra Lorenzo, che si loda
Di questa vostra carità d'amore
Per la povera martire?
L'Altobello.
Io? io?
E non vi vien da ridere? no? punto?
Amarla, io? C'è egli la più buffa
Bestia dell'uomo in preda alla manìa
Ebete dell'amore? Ogni stoltezza
La compie; ogni viltà l'accetta. Insegue
La sua bella con ostinazione
Gandna; va di porta in porta; sale.
Scende, misura il marciapiedi avanti
E indietro, per vederla un attimo. Anche
Loda il portiere, adula la fantesca,
Fa la ruota alla cuoca, e trincherebbe
Co' lacchè. Magro, logoro, convulso,
Balbetta frasi senza senso, tuba
Come un colombo e in certi si compone
Atteggiamenti plastici da fare
Ulular le bertucce. E poi, s'intende.
Né volontà, né ambizione, nulla!
Io?... Maledizione!
Il Ferri.
Eppure, ho proprio
A dirvela? Così vi troverei
Meglio. È una buona azione che fate
In somme,.
la sanfelice 313
L'Altobello.
Ah sì? Ma questo più di tutto
M'esaspera! Io, far la balorda cosa
Che voi chiamate una buona azione!
Come? Perchè? Che importa dunque a voi
E a me che una donnàcchera un po' sciocca
Viva o muoia? Che cosa ci guadagno
Io?
Il Ferri.
La gioia profonda, intima, pura,
DeUa vostra coscienza.
L'Altobello.
Ah! la coscienza!
Altro spaventapasseri. Vorrei
lo esser io, e vedreste se punto
Mi metterebbe la coscienza inciampi
Su la mia strada. Egli è...
Il Ferri.
Zitto! La zuffa
È impegnata laggiù...
{S'ode un twmvZto d'annua di voci solcate, di corpi abbattuti.
LAltobello e il Ferri vanno verso il fondo a spiare. Di Vi a poco
sopraggiunge il capitan Burgio, che trae seco Luisa).
SCENA Vili.
L'Altobello, il Ferri, H Burgio e Luisa.
L'Altobello
[al Burgio)
Date le vele!
{Il capitan Burgio e il Ferri salgono a bordo).
L'Altobello
{a Liàsa)
Venite!
Luisa
[quasi asserite di spirito)
j Dove?... Chi siete voi?... Sono
\ Libera?
f
L'Altobello.
t Sì : fate i)resto.
Luisa.
Chi siete
Voi?
ai . Voi. CCXVI, serie VI -^ 16 febbraio 1922.
314 LA SANFEUCE
Luisa!
L'Altobello ^
(accostandosi)
Luisa
[con raccapriccio)
Ah!... l'abate!
L'Altobello.
Ebbene, si,
L'abate! Ma non è questo già tempo
Di rampogne: venitel
Luisa.
No, non posso!
Le vostre mani grondano vermiglie
Del suo sangue... e le mie, anco. Che mai
Volete fare, adesso? L'uccidemmo
Entrambi, e ora egli ci aspetta. Io odo
La voce sua dilaniarmi all'alba
Le visceri... ah! — Viva Dio! viva il Re! —
Gerardo! o mio Gerardo! Ecco, son teco...
Perdonami! perdonami!
L'Altobello.
Luisa,
Lasciale in pace i morti: ora bisogna
Vivere! Sono mesi e mesi e mesi
Che preparo quest'attimo, ficcando
L'occhio nel vostro carcere; a ciascilna
Minaccia nuova che pendea su voi,
Operando e fremendo; in ogni luogo
Seguendovi, non visto; a volta a volta
Cercando di sorprendere il pensiero
De' vostri i)ersecutori. E alla fine
Libera! siete liberal Ah! l'idea
Raccapricciante di quel vostro collo
Gracile sotto la fulminea scure!
Luisa.
No, no, no, no. Perchè? S'egli mi fece
Madre del suo figliuolo!... 0 che le madri
S'uccidono? E i bimbetti, come mai
Faranno senza le mamme?... Sperduti,
Soli nel mondo, in bracxria estranie!... .\vraiuio
Freddo, poveri piccoli! Il mio, sento
Che mi brancica: è qui,
{Si tocca il ventre).
L'Altobello.
Venite dunque!
LA SANFELICE 315
Luisa.
Con voi? No, proprio. Egli lo sa : gli fate
Paura, voi! Lasciateci!
L'Altobellg.
Luisa,
Toniate in voi, ve ne scongiuro!... Io v'amo,
Luisa!... io sono disperato e triste
Come un sepolto! Sarà questo il solo,
Il solo fiore della vita mia
Arida e amara: vivete! La gioia —
E poi più nulla — di sapervi salva
Per mio merito! Via! Non è poi troppo
Ciò che vi chiedo. Se vedeste quanto
Soffro! Sapessi anch'io piangere almeno,
Per disfogarmi' in lagrime!
Luisa.
Ah! quell'Ombra,
Com'è crucciata!... So, so bene... È questo
Che tu vuoi dirmi con que' lividi occhi
Disconsolati? E non è vero!... Spesso
Vide meno chi vide. Io t'amo, oh t'amo
Tanto!... Le mie farfalle!
BURGIO
{affacciandosi dalla murata della nave)
E' mi par tempo
Di salire, Eccellenza!
L'Altobello.
Orsù, Luisa,
Venate!
Luisa.
Via, non mi toccate!... via,
Via, via!
L'Altobello.
Su, presto! Dovete salvarvi
Anche vostro malgrado!
{La trascina).
Luisa
[gridando)
. Aiuto! aiuto!
Voa LONTANE.
Allarmi!
{S'ode fragor d'armi e il passo cmicitato d^una pattuglia che
viene di corsa).
BURGIO
{dalla murata della nave):
Siam cucinati, Eccellenza!
316 LA SANFEUCE
SGENA vili.
L'Altobellu, Luisa, un uffiziale, un brigadiere^
guardie e soldati con lanterne.
L'Uffiziale.
Fermi tutti!
^ L'Altobello
{beffardo)
Perchè tanto baccano,
Signor guerriero? Come? Da fedeli
Servitori del Re, noi vi si rende
Un servigio, e bravate anche? Sarebbe
Stato, parmi, più pratico non farvi
Rubare, come un moccichino, questa
Donna affidata alla vostra solerzia,
E ch'io vi rendo.
L'Uffiziale.
E dove sono i ladri?
L'Altobello.
Io non lavoro di soffietto, amico:
Cercateli! Ma intanto, se non ero
Io qui co' miei, la bella fuggitiva
A quest'ora sarebbe uccel di bosco.
Riprendetela, viaJ
L'Uffiziale
{al brigadiere)
Riconoscete
Questo signore?
Il brigadiere.
Eh sì! S'è fatto cecca,
Tenente. Abate, buona sera! Forse
Non rammentate, voi, che ci siamo
Visti al convento di padre Lorenzo
Or son tFe giorni!
Ma sicuro!
L'Altobello.
Guarda! guarda! guarda!
Il brigadiere.
L'abate è grande amico
Al confessore della nostra pia
Regina.
L'Uffizule
{alCAltobeKo)
Allora vi prego d'avermi
Per iscusato; e grazie del servigio
Che ci rendete, abate.
r
la sanfelice 317
L'Altobello.
Oh non è nulla'.
Ho fatto meglio altre volte. Un bicchiere
Di vino, prima di lasciarci?
L'Uffizmle.
Accetto
Per obbedirvi.
L'Altobello.
Olà! vin di Borgogna!
{Entra toste con la bottiglia e i bicchàeri, e mesce il vino).
L'Uffizl\le.
Alla vostra salute!
L'Altobello.
Alla vostra!
L'Uffizule.
Elcco
Fatto. Signore, buona notter
L'Altobello.
Buona
Notte!
[Uufftziale e i fidati s'avviano con Luisa).
E vi prego d'interporre qualche
Buona parola £iffinchè la vezzosa
Pupilla vostra non mi tenga il broncio.
[Croscian le risa volgari delVufiìziale e de' soldati: V abate
Altobello mesce le sue risa alle loro, e a grado a grado il suo riso
si converte in un pianto convulso. Egli appoggiai i gomiti sttlla
tavola e riman Vi singhiozzante nell\mhbra) .
Cade la tela.
{Continua).
G. A. Cesareo.
(Proprietà letteraria: tutti i diritti riservati).
^ BEATRICE
Mi propongo parlarvi di Beatrice,
E tratterò del sub stato gentile
Donne e donzelle amorose, con vuì,
Che non è cosa da parlarne altrui (1).
Il Boecaceio deplora che l'amorie di Beatrice distogliesse Dante
dagli studi di filosofia e teologia.
« Gli studi » — egli dice — • « generalmente sogliono solitudine e
rimozione di sollecitudine ^e tranquillità d'animo desiderare, e mas-
simamente gli speculativi, a' quali il nostro "Dante... si diede tutto.
In luogo della quale rimozione e quiete, quasi dall'inizio della sua
vita fino all'ultimo della mbrte, Dante ebbe fìerissima ed importa-
bile passione di amore » .
E di nuovo : « Se tanto amore e sì lungo potè il cibo, i sonni e
ciascun'altra quiete impedire, quanto si dee poter estimare lui essere
stato avversario ai severi studi e allo ingegno? Certo non poco, come
che molti vogliono lui essere stato incitatore di quello,... ma certo
io noi consento» (2).
Questo giudizio del Boccaccio ci fa tornare alla mente il dialogo
tra madame Leverdet e De Ryons neWAnd des femmes di Dumas (3) :
« Malheureux! Ingrati » — grida lei — « c'est la femme qui inspire lee
grandee choees! ».
<( Et qui empéche de les aocomplir », ribattè lui.
Ma di questo parere non fu assolutamente Dante. In Beatrice egli
vede:
Qu«lla pia che guidò le jjenne
Delle mie .ali a così alto volo (4).
e riconosce
Che uscio p^* lei della volgare schiera (6).
(1) Vita .VttOtJa, XIX, canz. I, 11-14.
(2) Vita di Dante, § 3.
(3) Acte 1, se. 6. Vedi pure Tolstoi: <( La femme est la pierre d'achoppe
ment de la carrière d'un homme. Il est difficile d'aimer une femme eit de rien
faire de bon» (.4/ma Karénine), IH partie, chap. XXI.
(4) Par., XXV, 49. Vedi pure Par., XV, 63.
(5) /t./., TI. 105.
r
BEATRICE 319
E lo stesso Boccaccio, malgrado la sua opinione che « agro e va-
lido nimico degli studi è amore» (1), ci ammette che «dal viso di
questa giovane donna fu primieramente desto nel petto suo lo 'nge-
gno al dovere parole rimate comporre;... e tal maestro, sospingen-
dolo amore, ne divenne, che tolta di gran lunga la fama a' dicitori
passati, mise in opinione molti, che ninno nel futuro essere ne do-
veva, che lui in ciò potesse avanzare» (2).
•
Dopo secoli caliginosi di pessimismo il duegento rimena negli
animi il senso gioioso della vita. Lo stesso san Francesco d'As-
sisi dà all'ascetismo e alla povertà una nota di letizia, di serena esul-
tanza della natura, del sole, dell'essere; un accento di amore, di per-
dono, di rinnovamento primaverile. Gli Svevi ci rappresentano la
fioritura gaia della cavalleria medioevale, piena di baldanza, audace,
. amante della coltura, che toma a considerare con simpatia l'antichità
e il classicismo.
Cominciano le letterature in volgare, in lingua d'oc, in lingua
d'ozZ, in lingua di sì; le arti della pittura, della scultura, dell'archi-
tettura acquistano coscienza di sé; ammirando intensamente il pas-
sato lontano della civiltà greco-romana, he traggono fiducia pel pre-
sente, speranza per l'avvenire. *"
Si eleva il concetto della donna, come sorriso e ispirazione della
vita.
Il movimento di raffinamento, di idealizzazione (mi si perdoni
l'espressione) del concetto della donna, che si rivela nella poesia italo-
provenzale del XIII secolo, culmina in Dante. Mentre i poeti suoi pre-
decessori donano alle gentili creature, oggetto del loro culto, tutti
gli attributi di perfezione fisica, di grazia e di cortesia, egli battendo
via nuova adoma la sua donna di ogni qualità di perfezione spiri-
tuale (3).
Dopo Dante assistiamo ad un movimento inverso, di discesa e di
abbassamento del concetto della donna, che si fa pivi realistico e ma-
teriale, dal Boccaccio giù giìi fino ai Novellatori del quattrocento.
L'amore nella seconda metà del xiii secolo diventava un senti-
mento di vera adorazione, distinta e al di sopra di ogni pensiero di
amore sensuale, un sentimento di cavalleresca devozione verso una
donna, né moglie né amante, di rinunzia a sé medesimo, che dava
tutto e non esigeva nulla;
Anzi in servir mi trovo guiderdone
canta Bonagiunta da Lucca; onde, come dice Moore, « lo spirito del-
l'uomo, fosse cavaliere o poeta, era reso capace di abnegazione e di
nobili azioni, e di sorgere ad un più elevato ideale della vita» (4).
La passionata anima di Dante spingeva tutto questo al colmo,
con la quasi divinizzazione di una persona reale; la prima entusia-
(1) Cumpe lìdio, § 7.
(2) Ibid.. § 5.
(3) Moore. Studies in Dante, II series, pag. 138.
(4) Ibid., pag. 118.
320 BEATRICE
stica ammirazione del giovanetto e dell'adolescente si trasforma e si
sublima, quasi inconsapevolmente, dopo la morte di Beatrice e la
forzata rinunzia ad ogni più nebulosa speranza di appagamento ter-
reno, in una adorazione mistica e poetica della sua personalità quale
incarnazione dell'ideale di perfezione femminile.
Beatrice è diventata pel Poeta
Quella ohe imparadisa la mia mente (1).
Quella donna che a Dio mi menava (2).
Io non metto in dubbio l'esistenza di Beatrice, come donna reale,
che Dante veramente vide ed amò. Boccaccio, Petrarca, e tutti i tre-
centisti, che erano al caso di saperne qualcosa anche per tradizione
orale, non ne dubitarono mai. Fu primo il Filelfo, un secolo e mezzo
dopo la morte di Dante, a esprimere un dubbio in proposito, ma la
sua voce rimase senza eco fino al secolo xviii, quando il Biscioni
tornò a sostenere che Beatrice non fosse stata mai altro che una fan-
tasia del Poeta come allegoria della Sapienza. La tesi della non realtà
di Beatrice fu ripresa nel secolo scorso, e dottamente sostenuta da
vari, tra cui primo il Bartoli.
Non intendo esporre qui tutta la questione. Dirò soltanto che a
credere fermamente all'esistenza storica di Beatrice ci si trova in ot-
tima compagnia; Mazzini, Tommaseo, Balbo, Fraticelli, Giuliani,
Carducci, Del Lungo, D'Ovidio, D'Ancona (3), Zingarelli, Barbi, Sche-
rillo, Witte, Moore, Toynbee e tanti altr\ sono di questo parere.
Ma pili che dall'autorità degli scrittori, o dalle sottili argomenta-
zioni critiche e dai minuti confronti di testi e di date, che confortano
questa credenza, io traggo la mia convinzione dal sentimento gene-
rale che traspira da ogni passo in cui Dante parla di Beatrice, anche
là dove la consideri come simbolo, ritrovandovi vivi e palesi i segni
di un amore profondo e passionato, non solo pensato ma sentito e
vissuto dal Poeta per una creatura reale, in carne ed ossa, da lui « an-
gelicata» (4).
Lo Scartazzini ed altri dietro lui, ammettono la realtà storica di
Beatrice, ma non vogliono che si chiamasse Portinari, come ce ne
assicura il Boccaccio. Invece ser Piero Bonaccorsi, notaio del quat-
trocento, ci dice che l'amore di Dante fosse per una figlia minore di
Folco Portinari, chiamata Felice (o Felicita; Fia apparisce nel testa-
mento paterno) e che il Poeta si servisse del nome della sorella mag-
giore Bice come di schermo di fronte al pubblico. Su questi punti,
ohe direi di mera nomenclatura, ai fini del presente nostro discorso
non mi riscaldo gran fatto. Dirò come quello studente, che, all'esame
(1) Par., XXVllI, 3.
(2) Ibid.. XVIII, 4.
(3) Alessandro D'Ancoaa osserva acutamente, a riprova della reale em-
stenza di Beatrice, che Dante nella Dirina Commedia la ricorda semplicemente
per nome soltanto quando parla all'amico personale Forese {Purg., XXIII, 128),
all'unica cioè tra le anime rammentate nel {>oeima cui quel solo nome bastasse
a dir tutto s«>nj5a altre ^iegaaioni. Vedi Scritti Danteschi, Firenae, Sansoni,
a pag. 226.
(4) Balìato, IV, 18.
BEATRICE 321
li lettere greche, dopo aver arditan^nte affermato che Omero non
-ra mai esistito, interrogato intomo a chi avesse in tal caso scritto
ì Iliade e VOdissea, rispondeva disinvolto : « Un altro dello stesso
nome ». Per considerare la individualità di Beatrice come ci scatu-
risca viva, lieta e ridente dalle divine pagine dell'Alighieri, poco im-
porta quale fosse realmente il suo nome o cognome. Della sua esi-
stenza storica c'importa invece moltissimo, poiché essa fornisce un
fondamento reale, dà coìpo, vita e calore all'alto immaginare del
Poeta, e avvince alla pura e luminosa fìgiira di monna Bice il nostro
affetto, il nostro cuore.
Noi conosciamo la personalità di Beatrice quale si specchiò nel-
l'animo del Poeta, quale ^fi la sentì e la ritrasse, nella Vita Nuova,
•lel Convivio, nel Canzoniere e più tardi nella Divina Commedia.
\irinfuori di quanto leggiamo in Dante, non abbiamo dati certi in-
tomo a lei, tranne la detta indicazione del suo nome di famiglia for-
nitaci dal Boccaccio, che scrisse circa 45 anni dopo la morte del Poeta :
« Fu adunque questa donna » — così messer Giovanni nel Comento
— « (secondo la relazione di fede degna persona, la quale la conobbe
e fu per consangruinità strettissimo a lei) figliuola di un valente uomo
chiamato Folco Portinari, antico cittadino di Firenze : e comecché
l'autore sempre la nomini Beatrice dal suo primitivo, ella fu chia-
mata Bice... E fu di costumi e di onestà laudevole, quanto donna
esser debba e possa : e di bellezza e di leggiadrìa assai ornata : e fu
moglie d'un cavaliere de' Bardi, chiamato messer Simone, e nel ven-
tiquattresimo anno della sua età passò di questa vita, negli anni di
Cristo MCCXC ». Folco Portinaci fu il fondatore dello Spedale di
Santa Maria Nuova in Firenze, che dotò pure- largamente alla sua
morte. Di lui abbiamo il testamento (1), in data 15 gennaio 1288,
dove parla dei suoi cinque figli e delle sei figliuole, tra cui nomina
madonna Bice, maritata nei Bardi, lasciandole 5r» fiorini. Nella Vita
XìMva il padre di Beatrice é detto « buono in alto grado » (2).
Altra menzione della identità della Beatrice dantesca con Bice
Portinari si troverebbe in un passo di due codici f3; del Com,mento
ii Pietro Alighieri, commento che fu scritto qualche anno prima delle
letture fiorentine del Boccaccio, ma vi é chi contesta la piena autenti-
cità del passo stesso, sostenendo che si tratti di un rifacimento poste-
riore del testo.
In quanto a fatti reali che riguardino Beatrice, ben poco rica-
viamo anche dallo stesso Dante. Essi sono tutti contenuti nella Vita
Nìiova, che ci narra dei vari incontri del Poeta con la sua donna e ci
conduce fino alla morte di lei. Si tratta di pochi brani e brevi, e
credo farvi cosa grata rileggendovene addirittura il testo.
•
• •
Il primo incontro avvenne quando il Poeta era ancora un fan-
ciullo novenne, Beatrice avendo circa un anno meno di lui (4). « Ap-
(1) Vedi ÀLESSAKOito D'Ancona, Nuova Antologia, 1° giugno 1890.
(2) Vita Nuora, § XXII
(3) Ashburnham e Barberini.
(4> Vita Nttova, § II.
322 BEATRICE
parve vestita di nobilissimo coione umile ed onesto, sanguigno, cinta
e ornata a la guisa che a la sua giovanissima etade si con venia ». A
questo primo incontro toma ad alludere nel Purgatorio :
L'alta virtù che già m'avea trafitto
Prima ch'io fuor di puerizia fosse (1).
Il secondo episodio riguarda il primo saluto di Beatrice : « Poi
che furono passati tanti die, che appunto erano compiuti li nove
anni appresso l'apparimento soprascritto di questa gentilissima, ne
l'ultimo di questi die avvenne, che questa mirabile donna apparve
a me, vestita di colore bianchissimo, in meazo di due gentili donne,
le quali erano di più lunga etade; e passando per una via, volse li oc
chi verso quella parte ov'io era molto pauroso; e per la sua ineffabile
cortesia, la quale è oggi meritata nel grande secolo, mi salutò molto
virtuosamente, tanto che me parve allora vedere tutti li termini de
la beatitudine » (2).
Dopo di che Dante ci dice di aver riveduta Beatrice in chiesa
durante le funzioni e ci narra di due suoi corteggiamenti ad altre
gentili donne, intesi a mascherare agli occhi del pubblico la sua vera
passione; il primo con la donna schermo «di molto piacevole
aspetto » (3), e poi, partita quella, con una seconda che doveva fare
la stessa parte di difesa del suo segreto : « dico che in poco tempo la
feci mia difesa tanto, che troppa gente ne ragionava oltre li termini
de la cortesia; onde molte fiate mi pesava duramente. E per questa
cagione, cioè di questa soverchievole voce che parca che m'infamasse
viziosamente, quella gentilissima, la quale fu distruggitrice di tutti
li vizi e regina de le virtudi, passando per alcuna parte, mi negò lo
suo dolcissimo salutare, ne lo quale stava tutta hi mia l^eatitu-
dine... » (4).
« Dico che qunado ella apparia da parte alcuna, per la speranza
de la mirabile salute nullo nemico mi rimanea; anzi mi giugnea una
fìammia di caritade, la quale mi facea perdonare a chiunque m'avesse
offeso : e chi allora m'avesse domandato di cosa alcuna, la mia rispon-
sione sarebbe stata solamente « Amore », con viso vestito d'umili-
tade... » (5).
« Ora, tornando al proposito, dico che, poiché la mia beatitudine
md fue negata, mi giunse tanto dolore, che partito me da le genti, in
solinga parte andai a bagnare la terra d'amarissdme lagrime... » (6).
Il quarto episodio che ci narra il Poeta si avvera quando, essendo
egli stato condotto da un amico in una riunione di leggiadre donne
che facevano compagnia ad una novella sposa, provò un forte smar-
rimento al vedere inaspettatamente in mezzo a loro la sua Beatrice :
« Io dico che molte di queste donne, accorgendosi de la mia trasfigu-
razione, si cominciaro a maravigliare, e ragionando si gabbavano di
me con questa gentilissima : onde lo ingannato amico di buona fede
(1) Purg., XXX, 41-2.
(2) Vita Nuora. ? IH.
(3) Tbid., 5 V.
(4) Ibid., § X.
(5) Ibid., § XI.
(6) Ibid.. 5 XTI.
BEATRICE 323
mi prese la mano, e traendoma fuori de la veduta di queste donne mi
domandò che io avessi... E partitomi da lui, mi ritomai ne la camera
de le lagrime; ne la quale, piangendo e vergognandomi, fra me stesso
dicea: Se questa donna sapesse la mia condizione, io non credo che
così gabbasse la mia persona, anzi credo che molta pietade le ne ver-
rebbe (1).
Questo episodio del gabbo di Beatrice sembra ad alcuno che stoni
alquanto col contegno riservato e composto che s'addice a colei che
Dante chiama « la donna della cortesia » (2).
Non spiegherò l'incidente, a difesa di quella gentilissima, come
quel predicatore della Val d'Aosta che, avendo vietate alle sue par-
rocchiane di fermarsi alla fontana del paese a pettegolare coi vicini,
trovandosi poi imbarazzato a conciliare i suoi precetti col racconto
evangelico di essersi Gesù trattenuto al pozzo con la Samaritana, se
ne sbrigava con la considerazione che dopo tutto : A Ve pa lon ca Va
fàit d mei (non è quello che nostro Signore abbia fatto di meglio).
L'episodio del gabbo di Beatrice panni anzi tale da aggiungere un
Lrrazioso colorito di naturalezza e di verità alla soave e ridente figura
Iella giovane donna; è un tratto di monelleria giovanile che sempre
più attira a lei la nostra simpatia; si vorrebbe formulare un rimpro-
vero, e non si riesce che a sorridere amorevolmente.
Quindi Dante racconta di essersi imbattuto per le strade di Fi-
renze con monna Vanna — donna « di famosa beltade », cantata da
Guido Cavalcanti, che Dante chiama primo dei suoi amici — « e ap-
presso lei, guardando, vidi venire la mirabile Beatrice. Queste donne
andaro presso di me così l'una appresso l'altra... » (3).
Tutti questi incontri gli forniscono fortunatamente motivo di
scrivere dolcissimi versi intomo al suo amore.
«Questa gentilissima donna... venne in tanta grazia de le genti
che quando passava per via, le persone correano per vedere lei; onde
mirabile letizia me ne giungea... Ella coronata e vestita d'umilitade
s'andava, nulla gloria mostrando di ciò ch'ella vedea e udia » (4).
E qui non reggo alla tentazione di leggervi almeno i due sonetti
cui il Poeta ragiona del saluto di Beatrice :
Negli occhi porta la mia donna Amore;
Per che si fa gentil ciò ch'ella mira:
Ov'ella passa, ogni uom vèr lei si gira,
E cui salata fa tremar lo core.
Sicché, bassando il viso, tutto smore,
E d'ogni suo difetto allor sospira:
Fugge dinanzi a lei superbia ed ira
Aiutatemi, donne, a farle onore.
Ogni dolcezza, ogni pensiero umile
Nasce nel core a chi parlar la sente ;
Ond'è laudato chi prima la vide.
(1) Vita Suova, § XIV.
(2) Ibid., XII.
(3) Ibid., XXIV.
(4^ Ibid.. XXVI.
324 BEATRICE
Quel ch'ella par quando un poco sorride,
Non si può dìòer, né tenere a mente,
Sì è novo miracolo gentile (1).
Meravigliosa poi è l'altra gemma:
Tanto gentile e tanto onesta pare
La donna mia, quand'ella altrui saluta,
Ch'ogni lingua divien tremando muta,
E gli occhi non l'ardiscon di guardare.
P^lla si va, sentendosi laudare,
- Benignamente d'umiltà vestuta;
E par che sia una cosa venuta
Da cielo in terra a miraool mostrare.
Mostrasi sì piacente a chi la mira^
Che dà per gli occhi una dolcezza al core.
Che intender non la può ohi non la prova.
E par che de la sua labbia si muova
Un spirito soave pien d'amore
Che va dicendo a l'anima : sospira (2).
Dopo di ciò nella Vita Nuova si narra della morte del padre di
Beatrice, avvenuta nel 1289, e della grande afflizione di lei : « mani-
festo è che questa donna fue amarissimamente piena di dolore » (3).
Un anno dopo il padre, muore lei stessa, salendo « di carne a
spirto» (4), rs giugno 1290; « lo Signore de la giustizia chiamòe que-
sta gentilissima a gloriare sotto la insegna di quella regina bene-
detta Virgo Maria, lo cui nonne fue in grandissima reverenzia ne le
parole di questa Beatrice beata » (5) .
Ita n'è Beatrice in l'alto cielo
Nel reame ove li angeli hanno pace,
E sta con loro (6)
està vita noiosa
Non era degna dì n gentil cosa (7). •
Ecco riferito tutto quanto sappiamo di positivo intomo a Bea-
trice. In ogni altro passo della Vita Nuova o degli scritti posteriori il
(1) Vita Nuova, son. XI.
(2) Vita Nuovo, son. XV. Felix Anvere (1806-1860) nel noto sonetto cui
deve tutta la sua fama, dice della sua donna:
« Pour elle, quoique Dieu l'ait faite douoe et tendre,
Elle suit son chemin, distraite et sans entendre
Ce murmure d'amour élevé sur ses pas ».
(3) Vita Nuova. XXII.
(4) Purg., XXX, 127.
(5) Vita Nuova, XXVHI.
(6) Ibid., canna. IV, 56-8.
(7) Ibid., canz. TV, 67-8.
BEATRICE 3'iÒ
Poeta parla di lei, nell'ordine dei fatti, non come di persona reale,
ma secondo che essa gli apparisce in visione o in sogno, o come sim-
bolo.
Piangendo la morte della sua donna Dante chiude la Vita Nttova.
in cui racconta la breve storia della sua passione, con l'impegno so-
lenne « di dicer di lei », se Dio gli concederà alquanti anni di vita,
« quello che mai non fue detto d'alcuna » fi). E tenne parola.
*
*•
Nella Divina Commedia Beatrice, che simboleggia le Rivelazione
divina,
quella
Che lume fia tra il vero e l'intelletto (2),
)ssa da sjmta Lucia dietro un cenno di Maria Vergine, si presenta
[nel Limbo a Virgilio, che personifica l'umana Ragione, e lo manda
[in aiuto di Dante, per trarlo fuori dalla selva selvaggia delle passioni
fterrene e ricondurlo sulla retta via.
*Gol fascino del solo nome di Beatrice, Virgilio riesce a vincere
[c^ni esitazione, . ogni stanchezza, ogni timore di Dante durante il
ilungo e periglioso viaggio in cui gli è compagno; così, fin dall'inizio,
^allorché il nostro Poèta tituba ad imprendere la paurosa discesa nel-
irinfemo, come quando, all'uscita dal Purgatorio, non sa decidersi a
[traversare il cerchio di fuoco che cingendo l'ultimo girone chiude il
[passo al Paradiso terrestre. Dante terrorizzato non osa avventurarsi
3lle fiamme malgrado le esortazioni e le assicurazioni di Virgilio :
Quando mi vide star pur fermo e duro.
Turbato un jxx», disse: Or vedi, figlio,
Tra Beatrice e te è questo muro.
Come al nome di Tisbe aperse il ciglio
Piramo, in sulla morte, e riguardolla,
Allor che il gelso diventò vermiglio;
Cosi, la mia durezza fatta solla,
Mi volsi al savio Duca, udendo il nome
Che nella mente sempre mi rampolla.
Ond'ei crollò la fronte e disse: Come?
Volemoi star di qua? — indi sorrise,
Come al fanciul si fa «ah'è vinto al pome (3).
Il nome di Beatrice non viene però mai pronunciato fintantoché
il Poeta si aggira tra i dannati, comunque a lei si ailluda più volte (4).
(1) Vita Nuova, XLII.
(2) Purg., VI, 44.
(3) Purg., XXVII, 34-45.
(4) Inf., X, 63 e 130; XII, 88; XV, 90. Vedi Alessandro D'Ancon.a, Sciitti
Danteschi. Firenze, 1912, pagg. 216-221 e 224-229.
326 BEATRICE
Essa stessa poi gli comparisce dinanzi
a disbranargrlt la decenne sete (1)
(€a*a morta nel 1290 e il viaggio di Dante nei regni d'oltretomJba figura
fatto nel 1300) sopra un mistico carro, vestita dei colori delle tre
Virtù teologali, nel Paradiso terrestre, oltre il quale Virgilio non gli
può più servire di guida.
E lo spirito mio, che già cotanto
Tempo era stato ohe alla sua presenza
Non era di stupor tremando affranto,
Senza degli occhi aver piìi conoscenza.
Per occulta virtìi che da lei mosse.
D'antico amor senti la gran potenza (2).
Essa si rivolge con tono severo a Dante, chiamandolo diretta-
mente per nome, e lo rimprovera di non aver serbato fede alla sua
memoria sì tosto che, giunta « in su la soglia » di sua « seconda
etade », aveva lasciata la vita terrena:
Alcun tempo il sostenni col mio volto;
Mostrando gli occhi giovinetti a lui.
Meco il menava in dritta parte volto.
Quando di carne a spirto era salita,
E bellezza e virtìi cresciuta m'era,
Fu' io a lui men cara e men gradita:
E volse i passi suoi per via non vera,
Imagini di ben seguendo false (3).
Dante piangente confessa:
. . . . Le presenti cose
Col falso lor piacer volser miei passi
Tosto che il vostro viso si nascose (4).
Ma Beatrice.
.... perchè altra volta
Udendo le Sirene sie più forte (5)
seeniita h rincarargli la dose
Mai non t'appresentò natura o arte
Piacer, quanto le belle membra in ch'io
Rinchiusa fui, e sono in terra sparte ;
(1) Purg., XXXII, 2.
(2) Tbid., XXX. 34-89.
(3) Tbid.. XXX, 121-123 e 127-131.
(4) Ibid.. XXXI. 34-36.
(5) Tbid.. XXXT. 44-45.
BEATRICE 327
E se il aomino piacer si ti fallio
Per la mia morte, qual cosa mortale '
Dovea poi trarre te nel suo desìo? (1)
Non ti dovea gravar le penne in giu&o,
Ad aspettar più colpi, o pargoletta,
O altra vanità con sì breve uso (2).
E il Poeta riconoscendo tutta la sua colpa e vinto dal pentimento
e dalla vergogna cade tramortito.
Beatrice poi lo accooipagna come scorta nel suo pellegrinaggio a
traverso i nove cieli, e finalmente lo lascia, nell'Empireo, dopo averlo
affidato a san Bernardo, simbolo della Contemplazione, per rioccu-
pare nella "candida Rosa degli eletti il
trono che i suoi merti le sortirò (3).
Non è dato ad ogni donna di riunim in sé tutte le doti e i pregi
di cui era adoma Beatrice,
lume di cielo in creatura degna (4),
e meno ancora di poter esercitare il suo fascino sopra un'anima vasta
e profonda ed una mente titanica come quella di Dante; però nel
senso in cui più volte il Poeta, seguendo l'uso del tempo che credeva
ad una comunione sostanziale delle cose con le parole, « con ciò sia
cosa che li nomi seguitino le nominate cose » (5), nel senso dico in cui
egli allude al nome della sua donna, quello di dare beatitudine, di
soleggiare l'altrui vita, non è precluso a quasi nessuna, che abbia
animo gentile, di rappresentare, nelle varie sue relazioni di madre,
sorella o compagna dell'uomo, la parte di Beatrice.
« Ogni cosa bella è un raggio della luce divina » (6); è una rivela-
zione di Dio.
Ogni donna che, per dirla con Dante, abbia « intelletto d'a-
more » (7), può esercitare una potente influenza elevatrice ed educa-
trice su coloro che la circondano, e sopratutto su chiunque sia legato
a lei da vincolo di afletto.
Non tutti gli uomini possono spiccare il vole sublime di Dante,
ancorché ispirati da una Beatrice, ma ogni Beatrice può e deve spin-
gere ciascuno a tentare quel più alto volo che le sue ali consentano,
nel che sta compreso tutto il suo dovere verso sé e verso gli altri.
L'amore, l'affetto, il pensiero della donna sono nell'animo nostro
le vestali che tengono aco^a la fiamma sacra dell'ideale, in mezzo a
(1) Purg., XXXI, 49-54.
(2) Ibid., XXXI. 58-60.
(3) Par., XXXI, 69.
(4) Canz., XVII, 40.
(5) Vita Nuova, XIII.
(6) Ida Zocchi, nel GiornaU Dantesco, anno XIII, pag. 166.
(7) Vita Nuova, canz. I.
ó'ib BEATRICE
tutte le inevitabili lotte, gli attriti, le amarezze e gli scoramenti della
vita d'ogni giorno.
« La femane »> — scrive Ernest Renan — « nous remet en commu-
iiication avec l'étemelle source où Dieu se mire » (1).
Per svolgere il suo benefico influsso non fa mestieri che la donna
abbia ad indicare lei all'uomo, su cui spiega il suo dolce imperio d'af-
fetto, la meta precisa cui egli debba tendere e la via da percorrere per
raggiungerla; basta che sappia avvivare nell'animo di lui, secondo la
varia sua natura, la scintilla dell'elevazione spirituale. Non si tratta
tanto di guidare, quanto di ispirare e sorreggere; si tratta di infon-
dere la fede nell'ideale, l'anelito al bene, al vero, al giusto, la volontà
dell'azione, la perseveranza di fronte alle traversie, la pietà per il
debole e l'infelice, la costante subordinazione dell'io al servizio di
un'ide<L, la carità in tutto e verso tutti.
Siffatta, influenza che tende segnatamente a raffinare la stessa
natura dell'uomo, intensific-ando quel che già esiste di migliore in lui,
non richiede in chi la eserciti superiorità di energia morale, di acume
intellettuale o di esperienza della vita, ma solo purità di cuore, co-
scienza squisita, femminile delicatezza di sentire.
Ma per elevare gli altri, bisogna cominciare con l'innalzare sé
stessi; per educare gli altri occorre pure disciplinare l'animo proprio.
Già Virgilio c'insegna che
amore
Acceso di virtù sempre altro aooeee (2)
E se Beatrice potè « imparadisare » (3) la mente di Dante fu per-
chè essa pure mirava in alto :
Beatrice tutta nell'eterne rote
Fissa con gii occhi stava^ ed io in lei
Le luci fissi (4)
e di nuovo :
Beatrice in suso ed io in lei guardava (6).
A ogrii nuova sfera celeste la bellezza di lei si accresce, ed è nel
vederla più Isella che Dante si accorge di essere salito più in alto ;
Che la bellezza mia, che per le scale
Dell'eterno palazzo più s'accende,
Com'hai veduto, quanto più si sale (6).
Beatrice diventa la coscienza morale di Dante; a lei si volge
Per vedere in Beatrice il miq dovere (7).
(1) Souvenirs d'enfance, Pr. IX.
(2) Pwrg., XXII, 10.
(.}) Par., XXVIII, 3.
(4) Ibid., I, 14.
(5) Ibid., II, 22.
(6) Ibid., XXI, 7.
(7) Ibid.. XVIII. 53.
BEATRICE 329
Essa è
Quella che vedea i pensier dubi
Nella mia mente (1).
Essa è donna « in altissimo grado di bontade » (2).
Quando Dante rimane turbato dalle fosche predizioni dell'avo
Cacciagnida, Beatrice lo incoraggia e lo conforta:
Mata pensier^ pensa (di' io sono
Presso a colui ch'ogni torto disgrava (3).
In questo senso Dante la chiama, pure «pietosa» (4), definendo
la pietà come « una nobile disposizione d'animo, apparecchiata di
ricevere amore, misericordia, e altre caritative passioni » (5).
Egli dispregia la bellezza senza la bontà dell'animo :
Oh! ootal donna pera
Che sua beltà diachiera
Da naturai bontà (6).
Si tratta di quella bontà che non fa consistere tutta la virtù nel-
l'essere severi con gli altri; di quella bontà soave che è amore diffuso,
e che non solo ci fa « dolere dell'altrui male » (7), ma anche gioire del
. bene e della letizia altrui :
»
E 'n se medesma 'gode
D'udire e ragionar dell'altrui prode (8).
Dante non ci parla mai della bellezza femminile senza qualche
accenno di natura morale o sentimentale; dietro la forma egli cerca
sempre l'anima; e nel ragionare della stessa venustà esteriore, ferma
la sua attenzione quasi esclusivamente sugli occhi e sulla bocca, con-
siderando questa nei suoi due atti del parlare e del sorridere (9) ; « li
quali due luoghi » (cioè gli occhi e la bocca, che egli altrove (10)
chiama principio e fine d'amore) « per bella similitudine si possono
appellare balconi della donna che nello edifìcio del corpo abita, cioè
l'anima, perocché quivi, avvegnaché quasi velata, spesse volte si di-
mostra... E che é ridere se non una corruscazione della dilettazione-
dell'anima, cioè un lume apparente di fuori secondo che sta den-
tro? » (11). Nella stessa occasione egli ci dice come si convenga «al-
l'uomo, a dimostrare la sua anima nell'allegrezza moderata, modera-
tamente ridere con un'onesta severità e con poco movimento delle-
(1) Par., XVIII, 97.
(2) Vita Nuova, XXII.
(3) Par., XVIII, 5.
(4) Convivio, canz. I, 46.
(5) Ihid., II, 11.
(6) Canz., 144-46.
(7) Convivio. II, 11.
(8) Ibid., canz. IH, ia5.
(9) Vita Nuora. XXI.
(10) Ibid., XIX.
(11) Convivio, in, 8.
22 Voi. CCXVI, serie VI — 16 febbraio 192?_
330 BEATRICE
sue membra », « senza cachinno, cioè senza schiamazzare come g'al-
lina. Ahi mirabile riso della mia Donna... che mai non si sentìa se
non dell'occhio! ».
La donna del Poeta «... si lieta come bella » (1) è « nobile intel
letto » (2); è « saggia» (3); per illustrare la quale espressione il Poeta
esclama: « Or che è più bello in donna che sa vere! » (4). Parole dav-
veri mirabili, per moderna larghezza di vedute, in un tempo in cui
si discuteva se la donna anche di civile condizione dovesse saper leg-
gere e scrivere, tanto che vediamo Francesco da Barberino nel suo
Reffgimeiito e costumi di Donna, dopo una diffusa argomentazione
prò e contra, decidere per il no (5), dandoci il singolare esempio di
un libro di precetti educativi scritto ad uso di un pubblico che l'au-
tore vorrebbe analfabeta.
L'amore d'i Beatrice invita Dante alle opere virtuose :
io penso un gentil desìo, ch'è nato
Del gran desio ch'io porto,
Ch'a ben far tira tutto il mio potere (6).
« La sua bellezza ha podestà in rinnovare natura in coloro che
la mirano » (7) ; — dia essa muove
un spirito gentile
Ch'è creatore d'ogni pensici- Imono (8).
Beatrice è:
La boUa donna ch'ai elei t'avvalora (9);
colei:
Che all'alto volo ti vesti le piume (10).
È dessa ohe lo sospinge di cielo in cielo :
Sì sua virtù la mia natura vinse (11).
(1) i'ar., il, 28.
(2) Vita Nnova, son. XVI II, l;i.
(3) Convivio, can^. I, 47.
(4) Ibid., II, 11.
(5) Iteugimento e costumi di Donnn; fu pubblicato nel 1314 o 1315. L'Au-
tore fa iin'ecoezione per la fanciulla che intenda darsi alla vita monacale, sog-
giungendo però subito:
« e se non fosse per l'officio loro
io loderìa del no ancor di queste ».
(6) Canz. XIV, 49-51.
(7) Convivio, III, 8.
(8) Ibid., canz. Il, 63.
(9) Par., X, 94.
(10) Ibid., XV, .54.
(11) Ibid., XXII, 102.
BEATRICE 331
A lei dedica ogni siia attività :
Perocché s'io procaccio di valere
Non penso tanto a mia proprietate
Quanto a oolei che m'ha in sua jHxiestate;^
Che '1 fo perchè sua cosa, in pregio monti (1).
Il pensiero di lei lo riconduce al retto sentiero ogni volta che
qualche umana debolezza ne lo fa sviare :
Che rimirando lei, lo mio affetto
Libero fu da ogni altro disire (2).
Essa è la sua scorta, la «dolce guida e cara» (3) a traverso gli
sterpi e le passioni della vita.
Richiama prima in suo aiuto la Ragione, e lo conduce poi gra-
datamente essa stessa, «ch'opera è di fede» (4), alla contemplcizione
dei pili alti veri.
L'amore di Beatrice pur invadendolo tutto non deve essere così
assorbente da soffocare la sua libera e dritta personalità :
volgiti ed ascolta,
Che non pur ne' miei occhi è paradiso (5).
La comunione più perfetta di due anime non deve significare la
diminuzione diella personalità di ciascheduna, o il desiderio di an-
nientare 0 limitare l'altrui individualità; — per integrarsi a vicenda
occorre che ciascuno contribuisca sempre qualche cosa di proprio e
di originale; — onde necessita (ed è ciò che troppo spesso si dimen-
tica nelle unioni tra uomo e donna) il profondo rispetto dell'altrui
libertà morale e mentale.
Ma tutto ciò non toglie che Dante veda ognora in Beatrice « la
dolce donna » (6), « il mio conforto » (7), « il primo diletto della mia
anima» f8), «il sol degli occhi miei» (9), e non si stanchi mai di
riparlare del
piacer degli ooohi belli
Ne' quai, mirando mio desìo ha posa (10).
Cose appariscon nello suo aspetto
• Che mostran de' piacer del Paradiso ;
Dico negli occhi e nel suo dolce riso (11);
(1) Canz. XIV. 59-62.
(2) Par.. XVIII, 14.
Ci) Ibid.. XXIII. 34.
(4) Ping., XVIII, 48.
(5) Par., XVIII, 20.
(6) Ibid.. XXII. 100.
(7) Ibid.. XVIII, 8.
(8> Convivio, II, 13.
(9) Par., XXX, 75.
(10) Ibid.. XIV, 131.
(11) Cniiv., canz. II, .55.
332 BEATRICE
il quale riso egli ci descrive
Tal, che nel foco farìa l'uom felice (1);
0 COSÌ raggiante e lieto,
Che Dio parea nel suo volto gioire (2).
« Il tentativo d'inanellare il reale e Yideale^ il simbolo e l'invisi-
bile, la terra e il cielo, tramuta l'amiore di Dante » — cito parole di
Gius»eppe Mazzini — « in tal cosa che non trova analogia fra i mor-
tali; in un lavoro di purificazione e idealizzazione che addita, con
esempio unico, la missione dell'amore e della donna quaggiù... » «« è
un amore mesto e tormentato da un senso perenne d'aspirazione a
un idjeale non raggiunto... »,
« L'amore di Dante non inaridisce gli altri affetti, ma li feconda
tutti, ag:giunge forza al sentimento del dovere e spande la vita del-
l'anima sino agli ultimi confini della terra » (3).
•
• •
Della gigantesca opera di Dante, che ritissunne in sé tutta un era
di storia umana, e proietta come un faro radjoso la sua luce sopra
tanti secoli da venire, si può ben dire quel ch'egli dice della sua
donna :
Io non la vidi tante volte ancora
Ch'io non trovassi in lei nuova bellezza (4).
Ed è dilettevole talora abbandonarsi alle varie impressioni che
essa desta in noi, facendo astrazione da ogni considerazione di cxi-
tic-a storica o letteraria, e al solo lume del sentimento nostro odierno.
Leggendo la Divina Cotnnwdia, se da un lato non riusciamo forse
più ad avvertire, o per lo meno ad assaporare a dovere, qualche
finezza, qualche particolare intonazione troppo strettamente connessa
con la mentalità del tempo per non essersi, per così dire, volatiliz-
zata col piX)cesso dei secoli (5), dall'altro possiamo scoprire in essa,
quasi ad ogni lettura, nuove sfumature di sentimento e di pensiero
che dovevano sfuggire ai contem.poranei, in quanto rappresentano i
primi germi di tutto un concepimento della vita proprio dell'anima
moderaa.
È stato osservato da alcuno che il Paradiso di Dante difetta di
pathos, di nota passionale. Fatta astrazione dal gaudio trafcendentale
delle anime per la diretta loro visione di Dio, non vi si parla, in fatto
di beatitudine, che d'intensità di luce e di movimento, di dolcezza di
canti e di ai-monia delle sfere celesti; e tutto ciò lascia un po' freddo il
cuore umano.
(1) Par., VII, 18.
(9) Ibid., XXVII, 105.
(3) Mazzini, Op^re, voi. IV, paj:. 191 e seg.,
(4> Canz. XIV, 71-72.
(6) « Mein Frrund, die Zritfn <V?r Verga naenheit
Sind uns ein Buoh mit siobon Siopeln ».
OOSTHK.
BEATRICE
333
Non è esatto. Dante introduce nel Paradiso, di cui i tratti per ar-
rivare a commuoverci debbono essere necessariamente umani e ter-
reni, un elemento tutto nuovo e moderno, quello della perfetta co-
nmnione delle anime tra loro, della completa e reciproca loro per-
meabilità; con che esse toccano quella più alta felicità che il cuore
umano possi, non dico realizzare, ma perfino immaginare.
Il grande tormento del nostro tempo sta nel sentimento profondo
della completa, insanabile solitudine morale dell'individuo, chiuso
in sé stesso e tagliato da ogni possibilità di fusione con gli altri.
Restiamo sempre stranieri gli uni agli altri, anche dopo anni
vissuti insieniie, dopo aver combattuto fianco a fianco ogni battaglia
della vita, dopo avere insieme pianto e sorriso, a malgrado di ogni
sforzo di affetto e di pensiero per fondere m^lio le nostre anime,
per comprenderci Tun l'altro; nulla vale a sfondare il muro che ci
separa spiritualnrjente.
« E lo strazio di ciascuno sarà la propria anima, che si muore
di freddo ».
Così il poeta inglese:
Yet each will bave one anguish
Which perishies of ooM.
bis own soni
i
Questo senso di solitudine dell'anima si è fatto nell'età recente
più vivo e tormentoso, per effetto dello stesso moWmento di progres-
siva spiritualizzazione ed elevazione del concetto della divinità, in
dipendenza del progresso scientifico moderno e della trasformazione
che ha subito tutta la nostra rappresentazione ideologica dell'uni-
verso e delle sue 1^^.
Vi è tutta una letteratura, specialmente anglosassone, su questo
tema dell'isolamento spirituale. Vorrei saper tradurre convenevol-
mente alcune poesie che ne trattano, come quella di Monckton Mil-
nes, intitolata « Strangers j^t >» — stranieri sempre, — e i versi di
John Reble (1), di Eliza Clapp (2), di Pearse Cranch, ecc. (3). John
Oliver Hobbes (Mrs Craigie) scrive a un amico : « La cosa più terri-
fica nella vita è l'isolamento dell'anima indi\iduale » (4). E Tom-
il\ « Not even the tenderest beart, and next our own,
Knows balf tbe reasons wby we smile or sigb ».
2i « Alone, alone
The soni must do its own immortai work;
The best beloTed most distant are; the near
Far severed wide. Soni knows not soni,
Not more then these unanswering stars divine ».
(3V « We are spirits clad in v«ils
Man by man was never seen ;
AH our deep communing fails
To remove the shadowy screen.
Mind with mind did never meet ;
Hea.rt to beart was never known;
W*e are colnmns left alone
Of a tempre once complete ».
(4) « The isolation of the indi\-idual eoul is the terrific tbing in life ». Let-
tera del 1906. Vedi « Life of John Oliver Hobbes » by ber fatber John Mor-
gan Richards.
334 BEATRICE
maso Carlyle col suo stile imima^inoso : « L'isolamento è la somiiui
totale delle miserie per l'uomo... Ciascuno di noi è come rinchiuso
in un « palazzo di ghiaccio » trasparente : scorgiamo il nostro fra-
tello nel suo palazzo, che gesticola e ci fa dei segnali; lo vediamo, ma
senza poterlo mai raggiungere; sul suo seno non riposeremo mai, né
egli riposerà sul nostro» (1).
Gustave Flaubert scrive ad un'amica: « Nous sommes tous dans
un désert. Personne ne comprend personne ». E secondo Guy de Mau-
passant: « Notre grand toumlent dans l'existence vient de ce que
nous somlmes éternellement seuls, et tous nos efforts, tous nos actes
ne tendent qu'à fuir cette solitudte » (2).
Anatole France fa dire di un suo personaggio : « Il reconnaìt que
les àmes sont impénétrables aux àmes, et il en soufTne... Quoi qu'on
fasse on est toujours seul au monde... Il a raison. On s'explique tou-
jours, on ne se comiprend jamlais » (3).
È con questo intuitivo orrore dell'isolamento spirituale che Mil-
ton ci spiega umanamente il primo imfpulso della gran madre Eva,
la quale, dopo avere, per le lusiinghe del serpente, mangiato del frutto
vietato ed acquistata con ciò la chiara conoscenza del bene e del male,
si affretta ciononostante, pur di non rinunziare ad ogni comunione
morale col compagno della sua vita, a porgere il pomo ad Adamo
ancora inconsapevole, esponendolo a dover anch'esso morire '^4).
« L'ambre » — dice il D'Annunzio — « è il supremo sforzo che
l'uomo tenta per uscire dalla solitudine del suo essere interno; sforzo
come tutti gli altri inutile» (5). Ed all'incontro il Novalis: «L'a-
more rende le individualTtà comunicabili e comprensibili » (6).
« Il grande amore, come il grande dolore » — così Alessandro
Chiappelli — « non ha parola; perchè esso è superiore a quella sfera
della vita ove la parola è necessario strumento di comunicazione fra
anime divise come monadi solitarie» (7).
E per tornare a Dante : « Amore non è altro » — egli dice — « che
unimento spirituale dell'anima e della cosa amata»; (8); e di nuovo:
« questo amore, cioè l'unimento della mia anima con questa gentil
Donna... ».
Ora Dante ci raffigura un paradiso in cui le anime sono liberate
da questo tormento della solitudine morale, godendo della beatitu-
(1) Th. Cari.ylr, rnst fiTìd prexrnt, IV. 3.
(2) «La solitmlo»: nel volumer yovxievr PaTfinf. pag. 278.
(3) Tje. Lys Boufjp. pnR. 93.
(4) ParadUe Lost, IX, 879-84.
<( For bliss. as thou ha.st part. to me is hliss;
Tedioiis. iinshared with thee, .nnd odioiis soon.
Thoii, thorofore. also taste. that equal lot
May join us. equal joy, as eqnal love:
Tjest thou not tastinjj. difforent dogre*
Disjoin US II.
(5) 7/ Trionfo ddUi Morte, pag. 199.
(6) Frammenti.
(7) Amore e Morte, in Nuova Antologia, 1° dicemliv ini? u.-ic .TfiO.
(8) Convivio, TU, 10.
BEATRICE 335
dine di immedesiinarsi nel pensiero e nel sentimento altrui, pur con-
servando la propria individualità. Sarebbe questo davvero il para-
diso dell'affetto, e altro paradiso non è immaginabile.
Ond'ella che vedea me sì oom'io,
A quietarmi l'animo commosso
Pria ch'io a dimandar, la bocca aprìo (1). ■
Già i>arlando di Beatrice in questa vita terrena, Dante ci dice
nel Convivio, della « gran virtù che li suoi occhi avevano sopra di
me; che, come se fossi stato diafano, così per ogni lato mi passava
lo raggio loro » (2).
Le anime beate, mirando
Nel veder di colui che tutto vede (3),
vi scorgono riflesso il pensiero e il sentimento di ognuno :
io dico, non domando
Quel che tu ruoli udir, porcile io l'ho visto
Dove s'appunta ogni ubi e ogni quando (4).
Dante crea le espressioni di mtuarsi., irmnictrsi, inliàarsi, in-
leiarsi (5).
Già non attenderei io tua domanda
Se m'intuassi come tu t'immii (6).
Nel segreto del cuore di ciascuno di noi vive o ha vissuto la vaga
aspirazione, il diolce sogno di trovare un'anima che possa unirsi con
la nostra, realizzando in questo mortai mondo quella perfetta e vi-
cendevole compenetrazione morale di cui Dante fa godere i beati nel
Paradiso.
È una ELSpirazione da non potersi soddisfare completamente mai;
ma quale intenso ed elevato godimento dello spirito, quale viva fonte
di sane e nobili energie morali, quale difesa e sostegno nella prospera
come nella avversa fortuna, rappresenta il solo avvicinarsi! — il po-
ter, due anime, vibrane all'unisono, con reciproca intuizione di sen-
timenti e di pensieri, con sicura fede nella mutua sincerità e drittura,
accomunando speranze e timori, piaceri e dolori, gioiendo insieme di
tutto quello che è bello e grande, col cuore colmo di carità reciproca!
Sentite la voce di una donna, di Ellen Key : « Un altro bisogno
è cresciuto... È il senso dell'isolamento che prova l'essere uinano,
chiuso nei limiti del suo sesso, e questo isolamento è di tanto mag-
giore quanto più forte è la individualità di ciascuno; è l'aspirazione
verso un'anima umana che ci affranchi da questo dolore...
« Amare è fondersi in un'anima nella quale la nostra trovi un
appoggio senza alienare la sua libertà;... è trovare un pensiero che
(1) Par., I. 85; Vedi pure Par., II, 26; IX. 20-21; XVII, 103.
(2) Convivio, III, 10.
(3) Par., XXI, 49.
(4) Ibid.. XXIX, 10.
(5) Ibid., IX, 73; XXII. 127.
(6> Ibid., IX, 80
336 BEATRICE
indovini i nostri sentimenti espressi o inesprimibili;... è scoprire
una mano tesa verso la nostra e la cui stretta ci sarebbe dolce nell'ora
dell'afonia» (1).
Mi sovvengono i versi di Tibullo:
Te spectem, suprema mihi cum venerit bora.
Te teneam moriens deficiente manu (2)
(di'io possa, quando l'ora ultima giunga,
io morente mirarti
e tener te oon la cadente mano).
Felice la donna cui un'anima riconoscente possa un giorno rivol-
gere, nell'intimo suo, ferventi parole come quelle che prorompono
dal cuore del Poeta, giunto al declinare della sua vita, verso Beatrice
glorificata tra gli eletti!
O Donna, in cui la mia si)eranza vige
Tu m'hai di servo tratto a libertate
Per tutte quelle vie, per tutti i modi
Che di ciò fare avei la potestate.
La tua magnificenza in me custodi^
Sì ohe l'anima mia che fatta hai sana.
Piacente a te dal corpo si disnodi (3).
Sidney Sonnino.
(1) Eli*en Key, De V Amour et du Mariagc, pagg. 51-53.
(2) Eleg., I, 1, 59-60.
(3) Par., XXXI, 79.
Conferenza Unuta nella casa di Dante in Roma.
IL PROGRAMMA
I.
La cameicL era angusta, con una finestra polverosa che dava
sulla via. Aria di rinchiuso, soffocante, puzzo di tabac^io. Mozziconi
dappertutto, per terra, sulla tavola, perfino sul letto.
Piccolo e rattrappito, egli stesso somigliava un mozzicone di
sigaretta buttato via da qualcuno. Il viso da più giorni non raso,
ispido, pareva rimpicciolito dai peli che lo coprivano. Guardandosi
ogni tanto allo specchio appannato che pendeva sul divano, quel
viso di vecchio gli faceva un curioso effetto. Non era il suo... Non
poteva esser lui, non era proprio lui.
Di rado si ricordava della vita trascorsa. Gli pareva che non già
lui, bensì altri l'avesse vissuta, un suo buon conoscente, un came-
rata, che un giorno, dietro una bottiglia di birra, gli avesse raccon-
tato di sé vita e miracoli.
Narrava costui di essere stato un giorno attor comico. Giovane,
all€^x>, sempre ben raso e in bell'arnese. Era l'idolo dei pubblico e
viveva di nervi. Poi, a poco a poco, silenziosamente, alla chetichella,
tutto questo era passato, e dei neni non erano rimasti che gli stracci.
Tante e tante altre cose raccontava; e Stefano Grigorevic aveva la
torbida impressione che quella di cui gli parlava il narratore fos?e
la propria vita, lontana ed ignota.
Quando gli capitava di alzare un po' il g^omito, e dai fumi del
vino si sentiva nel cervello ormai fiacco tanti colpi di maglio, ama-
ramente si rammaricava che il passato fosse svanito. Gli veniva
voglia di gridare che era proprio lui quel famoso Pogodin-Smielski,
il cui nome fregiava tutti i giorni le gas^zette e dominava e teneva
in pugno il pubblico... E se per caso sorprendeva un mal dissimu-
lato sorriso sulle labbra degli ascoltatori, cacciava subito una mano
in tasca e ne cavava qualche cosa. Era un vecchio programma gual-
cito e piegato con mille riguardi. E trionfalmente, con aria superba,
s\'olgeva il prezioso documento ingiallito dal tempo, ne spianava
accuratamente ogni ruga e diceva: «Ecco!». Allora uno della bri-
gata prendeva il foglio e con lingua impastoiata dal vino leggeva
che « a Kursk, per la serata d'onore del celebre artista Pogodin-
Smielski, andrà in scena V Amleto di Shakespeare».
Per un moment<];, tutte le facce esprimevano uno stupore incre-
dulo, cui subentrava il solito gracidìo avvinazzato; e Stefano Grigo-
revic andava attorno e mettev^a sotto il naso di tutti e di ciascuno
il suo programma, dal quale emei^va che trentasette anni addietro,
338 IL PROGRAMMA
a Kursk, per la serata d'onore del celebre artista Pogodin-Smielski,
si era rappresentato VAìnleto di Shakespeare.
Al g:racidio succedevano i nitriti e nessuno più gli dava retta.
Si faceva a ohi più ne aveva in gola, e in quel fciaccano di voci pa-
reva a Stefano Grigorevic di cogliere un'eco lontana dei trionfi di
una volta. Si premeva al petto il programma ingiallito, con la vaga
sensazione che dei fili impercettibili lo legassero alla sua esistenza.
Ne sapeva a mente ogni frase, ogni parola. Era l'unico ricordo ri-
mastogli del passato; di un passato tutto suo, tutt'una cosa con lui,
e che pure, staccatosi da lui, era scomparso irrevocabilmente... Un
programma giallognolo, logoro, polveroso; ma anche la sua vita era
coperta da fìtti ed annosi strati di polvere. L'uomo e il foglio, soprav-
vissuti alla propria labile esistenza, svalutati e 9«.iperfìui, facevano
ora da cippi sepolcrali a quel che un tempo erano stati. E quando
nessuno più gli badava, Stefano Grigorevic si riduceva in un can-
tuccio e rileggeva da se la sacra reliquia, la quale attestava che c'era
stato al mondo il celebre artista Pogodin-Smielski e che per la sua
serata d'onore si era rappresentato V Amleto di Shakespeare.
Ma la cosa non durava a lungo. Le vivide tinte degli improv-
visi ricordi non meno improvvisamente sbiadivano, ed egli stesso
cominciava a dubitare se quel famoso Pogodin-Smielski, il cui nome
i giornali portavano alle stelle, fosse proprio lui o non piuttosto il
buon camerata che un giorno, dietro una bottiglia di birra, gli aveva
raccontato di sé vita e miracoli.
Altri ed altri venivano a trovarlo, non meno di lui mozziconi
gettati via. Si riunivano, chiacchieravano dei pett^olezzi correnti,
dell'ufficiale che Lisa la sera prima s'era tirato dietro e che aveva
l)attuto lei e rotto uno specchio. Nessuno di loro ci credeva: vede-
vano Lisa tutti i giorni, vivace sempre e imibel Iettata; sapevano che
lo specchio in camera di lei era a posto ed incolume; ma nonostante,
per la centesima volta e con nuovi particolari, si comunicavano l'un
l'altro la sconcia storiella. Discorsi lunghi, grigi, monotoni, come
una serie malinconica di nebbiosi giorni autunnali.
Venuta la notte, Stefano Grigorevic rimaneva solo nel suo affu-
migato stambugio, metteva la testa sul guanciale e dormiva pesan-
temente.
I sogni, non che da lui, correvano da altri, ora lieti ora tristi,
ora spaventosi, ora pieni di mistica madia. Altri avvolgevano nelle
loro nebbie; ad altri portavano visioni di speranze adombrate, di
felicità, di gioie, di angoscia: ììó altri, non già a lui, cui non avan-
zavano né gioie, né dolori, né speranze, che potessero adombrarsi
o dil^oiarsi. Il suo sonno era eguale, ««colorito, come una giornata
senza sole, tetra e piovigginosa. Era il riflesso di una realtà vuota
di senso e di carattere; né si potea facilmente definire dove esso
avesse termine e dove la vita reale incominciasse.
E ancora una volta, quando si svegliava la mattina appreeso
nella sua cameretta, non era dato tracciar quel limiite. Giaceva come
un morto, con gli occhi chiusi: e la propria vita si confondeva già
nella vita comune delle camere mobiliate del « Praga » e ne secruiva
il corso uniforme.
IL PROGRAMMA 339'
• *
L'aria è tuttora umida e fosca, e i lontani raggi del sole ne scac-
ciano a stento la tenebra notturna. Tutti i giorni, alla stessa ora
precisa, i medesimi rumori, come di topi che guizzino qua e là,
frugando e rodendo. È la fantesca Eudossia, che si scalmana a spaz-
zare il corridoio, assonnata, sudicia, con la folta capigliatura nera
e polverosa e la sottana succinta fino ai polpacci.
Dalla sua camera scampanella a distesa l'impiegato Panfìlov, e
finalmente vien fuori in mutande e maniche di camicia, strepitando
che lo faranno arrivar tardi all'ufficio. Un bisunto ragazzo accorre
col bricco del tè, ansando, soflBando e gonfiando le guance, come se
volesse fame un secondo bricco. Sempre in maniche di camicia e
mutande, sdraiato sopra un divano ammaccato, fino a che le fiacche
membra non gli si coprano di sudore, Panfilov sorseggia il suo tè.
Poi, vestitosi in fretta e furia, si caccia un portafogli sotto l'ascella,
e giù di corsa per le scale, non sen2ia però pizzicare al passaggio i
ruvidi e carnosi gomiti di Eudossia.
Chetamente e appena av-vertita, vien fuori la modistina, magra,
svelta, sempre vestita di nero. Le hanno appiccicato il nomignolo
di « schizzinosa » e non la guardano di buon occhio. Con nessuno
discorre né la sera riceve uomini. Quando Panfilov si era provato
a farle la corte, fu subito messo a |X)sto. Per maestri che fossero di
pettegolezzi, gl'inquilini delle camere mobiliate non erano riusciti
ad escogitare una sola storiella piccante sul conto della bruna mo-
distina, tanto essa viveva tranquilla e raccolta. Di buon mattino si
recava a lavorare a giornata, e le serate le passava sola soletta, ora
leggendo ora agucchiando al lume di una candela.
Uscita lei, si destavano gli altri, figure scialbe e insignificanti,
vociavano, pestavano, rumoreggiavano, e via pei fatti loro. Dall'ul-
tima camera si udiva ancora il ronfio di Basilio Gornilov e di Gia-
cobbe. L'uno e l'altro a corto di lavoro: uno, impilato licenziato;
l'altro, individuo equivoco, ragazzo a\-\enente, che trafficava non si
sapea di che e si scioglieva in lagrime, per poco che fosse ubriaco.
Tutti e due dormivano a lungo e alla grossa, né valevano a ri-
scuoterli le grida, lo sbattere degli usci, la baraonda mattutina di
quell'umano alveare.
Si destava tardi, non prima delle dodici. Lisa, e sporgeva dalla
porta socchiusa il viso insonnolito, unto di coldcream e circondato
di pezzetti di foglio. Era tutt'altro che seducente e difficilmente la
si riconosceva per quella Lisa irrequieta, leziosa, dipinta, con un
cappellino ghiribizzoso sui capelli ben ravviati, che sbucava di sera
sulla via, lasciandosi dietro nel corridoio una nuvola di profumi
acri, penetranti, che parlavano di non so che di cattivo e di proibito,
e appunto per questo attraenti.
Discinta, sciattata, col lacero sottanino di seta, infagottata in
uno scialle. Lisa attaccava discorso con Daria, la sua vicina di ca-
mera, una donnetta bianca, pienotta, che si cr<^iolava ' ancora nel
tepore delle lenzuola mangiando dolciumi. Daria, ex»cameriera, era
adesso mantenuta da un negoziante, già suo padrone.
Aprendo e chiudendo porte e finestre, senza riguardo ai ri-
scontri, e mettendo tutto sossopra, Eudossia andava rassettando.-
.'é4: I IL PROGRAMMA
Dal basso, esalazioni stuzzicanti e nauseabonde di cucina, puzzo di
carboni e di torcioni da pavimento. Ogni tanto, passava correndo e
sbuffando il ragazzo bisunto, con lesidui di cibo sul vassoio.
StefaiK) Grigorevic, disteso sul suo letto, masticando una siga-
retta e aspirando l'aria fumosa e deleteria, coglieva l'eco delle grida,
delle baruffe, delle risa.
E la sua vita si confondeva con quella delle camere 'mobiliate,
la quale tutti i giorni cominciava allo stesso modo: grigia, uni-
forme, sudicia, brutta fino all'assurdo, pregna di basso egoismo e
di meschini interessi, una vita che si sarebbe detta sozza di un-
tume...
II.
Vn allecrro e limpido mattino di domenica. Anche nelle camere
mobiliate esso irruppe dalle finestre aperte, col fiato fragrante del-
l'aura primaverile e con l'esultante cinguettìo dei passerotti.
Giorno di riposo. L'impiegato Panfilov fino alle undici sorbisce
il suo tè, bicchiere su bicchiere, mentre saporitamente sonnecchiano
i vicini. La modistina abbrunata non si è recata al lavoro e dorme
ancora, sebbene sia di solito mattiniera. Dorme fino a mezzogiorno.
Vei"50 il tocco, bussarono da lei, e non ricevendo risposta, tornarono
a bussare. Silenzio... S'incominciò ad essere inquieti. Dopo un gran
tempestare, con vani tentativi di forzar La porta, chiusa di déntro,
fu chiamato il portinaio. Su e giù pel corridoio si affaccenda^^ano
gl'inquilini, agitati, interrogando, bisbigliando, almanaccando. Le
i/potesi, come scerpi velenose, strisciavano sinuose fra loro. Il porti-
naio si provò ad aprire, ma la porta non fece che scricchiolare e
stridere sui gangheri rugginosi. Quello stridore e il silenzio simul-
taneo che ne seguì fecero subito capire che qualche cosa era acca-
duto. E quando, alla fine, riuscì al portinaio di scardinare la iporta
e uno sprazzo di luce ne emerse, tutti in ifolla si precipitarono dentro,
ma si fermarono spaventati. In mezzo alla camera, con le spalle alla
porta, dal gancio della lampada, penzolava immobile una figura
nera. Un niggio del sole primaverile sfiorava il livido viso e met-
teva una scintilla nel bianco degli occhi, che schizzavano dalle orbite.
Una mano timida toccò appena il corpo inerte, e questo lentaiuente
dondolò come un gran pendolo ma^iccio. Il pendolo della morte.
Lisa cadde in convulsioni.
Staccato il cadavere dal gancio, lo distesero sul letto, aspettando
la polizia. Regnò per tutta la casa un silenzio di tomba.
Tutto il giorno, un 'oppressa ra, un ambascia muta. Si sentivano
nelle branche della morte. Qua e là, una iparola susurrata. Si face-
vano congetture, vaghi accenni, lontane allusioni. I più curiosi en-
travano ogni tanto nella camera e con avida paura fissavano la pal-
lida faccia dalla lingua nerastra e dagli occhi sbarrati e gonfi, che
in nessun modo si era riusciti a chiudere.
Verso sera, quando le ombre s'insinuarono nella camera e gli
oggetti andarono dissolvendosi nel grigio del crepuscolo, lo ^>avento
-e la pena si addensarono e pesarono più grevi sugli animi. Un che
•di soffocante, di misterioso si librava nell'aria: una cosa informe,
IL PROGRAMMA ^^^
mostruosa, come un uccellaccio dalle ali distesa. Pareva che una fitta
coltre fosse discesa sugli uomini e ne avesse arrestato la vita. La
notte, col suo unico occhio nero, guardava le ombre avanzarsi e strm-
gere quasi con mani forti e tenaci ogni cosa viva. Nessuno più si at-
tentava di varcare quella soglia funesta.
Stefano Grigorevic, 'poco innanzi, entrato insieme con gli altri,
aveva fissato a lungo quel delicato viso contraffatto. Una strana im-
pressione si era subito impadronita di lui. Gli pareva di aver ricevuto,
un urto, una percossa. Quella donna gli era quasi ignota. Di rado
s'imbatteva in lei nel corridoio. Qualche volta un po' brillo, le ta-
gliava i panni addosso. Ora sentiva che qualche cosa di nuovo, di
assurdo, penetrava tutto il suo essere e Io stringeva come un incubo.
Di dove gli venisse, non sapea dire; ma la insolita e cupa disposi-
zione di spirito era costante e innegabile. Due fatti la determina-
vano: da una >parte il tragico gesto della modistina abbrunata, la
quale, dopo scagliata un'ardita sfida alla morte, s'era dilegTiata, più
umile di prima, portandosi nella tomba il suo segreto; dall'altra il
tetro contegno di tutta quella gente rustica, corriva agli stravizi ed
al chiasso, che ora parlavano basso o serbavano un pauroso silenzio.
Discese le ombre e con esse la muta ansietà, che come un'onda si
sparse per tutta la casa. Stefano Grigorevic tornò in camera sua, si
distese sul divano e si sprofondò nei suoi pensieri.
Pensieri vaghi e fuggevoli. Qualche cosa era avvenuto lì accanto,,
che lo aveva toccato con mani invisibili e tenaci. Qualche cosa s'era
spe!£zata, aveva cessato di esistere, fuori dt lui; e nondimeno gli pa-
reva che dentro di sé, qua o là, si fosse udita l'eco lamentosa d'una
corda infranta. Non si rendeva ragione del perchè gli stesse così
chiara davanti la livida faccia dagli occhi vitrei. Quando avevano
staccato il corpo dal gancio, gli era balenato sul collo della infelice
il solco lasciato dalla fune. E pensava ora a quel solco, così rosso e
profondo.
Né si spiegava perchè ci pensasse.
Il crepuscolo azzurrognolo del giorno primaverile gli entrò in
camera, fosco. indifTerente a quanto era accaduto, e a poco a poco
mescolandosi all'onda nera della immensità notturna, coprì del suo
sudario tutti gli oggetti, tutto il dolore e l'angoscia. Anch'esso chiu-
deva in sé un mistero, e ancor più strano parve a Stefano Grigorevic
di trovarsi lì giacente, avvolto in quel tenebrore, roso il cervello dal
pensiero fìsso del solco rosso sul bianco .collo della morta.
Un momento alzò la testa per aggiustare un cuscino caduto per
terra, e sul fondo chiaro del palco vide spiccare il rostro nero di un
gancio. Era in tutto simile, né più né meno, al gancio cui s'era ap-
piccata la modistina. C'era una lampada da lei, sempre spenta, ohe
la suicida aveva tolta e messa da parte; e Stefano Grigorevic sapeva
che allo stesso modo la lam'pada in camera sua non si accendeva mai
e che si poteva anch'essa spiccare e mettere in un canto. Tutti i giorni
aveva visto quella lampada e quel gancio; ma ora li guarda vacome-
cosa nuova con una curiosità morbosa e perplessa. E gli venne voglia
di tornar subito sul posto dove il fatto era accaduto, per accertarsi
che quel gancio era in tutto simile al suo.
Cupi e solitari suonarono i suoi passi nel corridoio fino alla ca-
mera della morta. La porta era socchiusa, e Stefano Grigorevic s'in-
-342 IL PROGRAMMA
sinuò (ientro pian piano. La modistina giaceva là. col viso affilato
e nero, sul quale, in tante macchie scure e mobili, il riflesso giallo-
gnolo dei due ceri accesi lottava con le ombre del crepuscolo morente.
Stefano Grigorevic osservò la morta, crollò un poco la testa come
ili segno di saluto, e poi si voltò al gancio. Era confìceato nel centro
del ipalco, e insieme con esso, a destra e a manca, due altri ganci,
ipiù larghi e più spessi, dondolavano. Pareva a momenti che tutti e
tre ne formassero uno solo, ma Stefano Grigorevic potè ben discer-
nere che il vero gancio, sinistro fantasma, era quello di mezzo. Gli
altri due, partoriti dalla fiamma vacillante dei ceri, non facevano
ohe completarlo, formando uno strano connubio enigmatico e pau-
roso di realtà e di ombre irrequiete.
Osservato a lungo il gancio, S befano Grigorevic lo riconobbe iden-
tico a quello della propria camera. Non gli pareva possibile che poco
prima una creatura umana vi fosse sospesa. Ma quella creatura era
tuttora li presso, rischiarata dal bagliore tremulo dei ceri. Orribile
il viso della morta, silenziosa la camera come un sepolcro. E Stefano
Grigorevic usci. Non c'era piià dubbio. Il gancio della modistina non
differiva punto da quell'altro.
La sera, finalmente, il cadavere fu rimosso. Per sollevare un po'
gli spiriti depressi, decisero di accordo di metter su un banchetto
funebre. Giacobbe s'ncaricò dei pi^eparativi.
Il banclietto ebbe luogo nella camera di Lisa.
Mentre si era al colmo dell'animazione e delle libagioni, arrivò
Stefano Grigorevic, esalando come sempre odore di tabacco, e senza
dir parola prese il suo posto.
Erano dodici i commensali, né mancavano Panfilov, Daria, la
stessa Lisa, Basilio Gorailov e qualche inquilino del piano di sotto.
Da principio ricordarono la povera modistina abbrunata.
Poi la comipiansero.
Poi risero.
Poi ancora gli umori si scaldarono, le voci si fecero grosse, ac-
compagnate da gesti vivaci e da qualche spintone. Pareva a momenti
che si dovesse attaccar briga. Tintinnivano cozzando i bicchieri, e
capovolti sulla sudicia tovaglia, spargevano dalle larghe fauci
un'onda torbida di birra, il cui acre odore si fondeva con quello d^
liquori e del tabacco.
Al motivo della riunione nessuno pensava più. Della modistina
non si fece più motto. Era una gara di mangiare e bere a sazietà.
Pareva che una forza prepotente li avesse ag.sii finta ti, dalle cui
strette non era dato strapparsi, allo stesso modo che non riesce un
uomo a salvarsi, preso che sia nel volante d'una grande macchina.
Oscilla sempre più forte e 'potente il segreto motore, e la correggia
attira inesorabilmente la vittima, ora sbattendola in terra, ora sca-
gliandola in alto, finché non l'abbia ridotta ad un'informe massa
sanguinolenta, con le vene lacere e la materia cerebrale schizzante.
Arrivano allora altri uomini e fermano la macchina.
Ma nessuno venne a fermare l'eccitazione dei comim«risali rac-
colti nella camera di Lisa. Bevevano, si sgolavano, tornavano a bere,
rosse le facce dal vino e dall'allegria. La ipaura della morte, che gli
aveva assembrati, cedeva il j)osto al senso animale dell'ubriachezza.
Ciascuno arringava per suo conio, senza dar retta agli altri e tutti
IL PROGRAMMA -i^-^
insieme .facevano un corQ discorde. Verso la fine, nel gruppo delle
donne si udì uno scoppio di pianto, seguito da voci concitate e stri-
denti. Era Daria. Lisa le aveva assestato una guanciata, dandole della
mala femmina. E Daria, scattando come una furia, gridava:
— Bugiarda... Io. io mala femmina?... Son male femmine quelle
che sgonnellano per le vie... Io son mantenuta, io, onoratamente
mant-enuta...
Giacobbe, che sedeva in mezzo, le pizzicava intanto tutte e due,
e ottenne alla fine ohe facessero la pace.
Stefano Grigorevic alzò il gomito più del dovere e non passò
molto che i fumi gli montarono alla testa. Sulle prime, aveva sempre
pensato alla modistina, e ricordandone il viso nel momento che la
portavan via, si sentiva perseguitato dall'espressione di quegli occhi
sbarrati. Di nuovo ebbe l'impressione che qualche cosa era successo
lì accanto, che toccava lui stesso, che lo sconvolgeva e gli dava le
vertigini. Qualche cosa di enorme, di assurdo, una specie d'incubo,
che premeva sul cervello ed empiva la testa di foschi pensieri. Si
rammentò di essere andato in camera della morta a confrontare i
due ganci, uè più capiva a che scopo l'avesse fatto. Pensava al gancio
della propria camera, al quale si poteva anche appiccarsi, e si ma-
ravigliò che di quel gancio non si fosse mai accorto prima d'allora.
Gli pareva strano intanto di trovarsi alla stessa tavola con quella
gente. Strano, eppur naturale... Non era quello un periodo della sua
vita? non era forse la stessa sua vita, che continuava già da gran
tempo e che doveva continuar dell'altro? Rievocando i giorni di gran
lunga trascorsi, gli sembrarono ancor più remoti, ancor più estranei
di quanto realmente non fossero. Era morto il vecchio camerata, ohe
dietro una bottiglia di birra gli aveva raccontato di sé vita e mira-
coli, e le parole di lui s'erano sbiadite, cancellate, sommerse nella
polvere del passato. E di^tutto quel lungo racconto, di tutti i trionfi
decantati, era solo rimasto un pezzetto di carta, ingiallito e sciupato,
come la vita stessa di Stefano Grigorevic...
Egli lo cavò di tasca, lo spiegò con ogni riguardo e se lo rilesse.
E riseppe così per la millesima volta che a Kursk, trentasette anni
addietro, per la serata di onore del celebre artista Pogodin-Smielski,
s'era rappresentato VArììieto di Shakespeare.
Lo strepito delle voci rauche e rotte si faceva sempre più forte.
UrU, risa, invettive, parolacce. Stefano Grigorevic si considerò unico
equilibrato e padrone di sé in una masnada di beoni e di sciocchi.
E perchè non farli rinsavire? perché non raccontar loro qualcosa di
bello e d'interessante, che gl'inducesse a deporre i. bicchieri e ad
ascoltar lui a bocca aperta? Raccontare, per esempio, che ora egli
era gemplicemente Stefano Grigorevic, il vecchietto andato a male,
come lo chiamavano; ma che una volta era stato un famoso artista,
e che per la soia serata d'onore, a Kursk, s'era dato V Amleto di Sha-
kespeare?
Molte altre parole egualmente belle da calmare quei forsennati
escogitò Stefano Grigorevic. Ma innanzi tutto bisognava spiegare chi
fosse Pogodin-Smielski. Si alzò, tenendo in mano il programma. Si
rivolse a tutti senza distinzione, ma nessuno gli badò. Allora si de-
cise a fare il giro della tavola, si avvicinò a questo ed a quello, l'uno
dopo l'altro, mostrando il programma e dicendo: «Ecco!». Quelli,
344 IL PROGRAMMA
con le mani unte, prendevano il foglio ingiallito, lo voltavano da
tutte le parti, e con un sorriso ebete leggevano compitando. Stefano
Grigorevic fu certo in ultimo di averli persuasi che il vecchietto an-
dato a male era Pogodin-Smielski in persona, e ohe non se ne sa-
r'ebbero più scordati e l'avrebbero trattato coi dovuti riguardi.
Arrivato davanti a Giacobbe e messogli sotto il naso il pro-
iiTam^ma, stupì che quegli, non che inchinarsi al famoso artista, lo
respingesse con un pugno nel petto. Poi, toltogli di mano il pro-
.yramma, lo avvicinò alla fiamma di una candela. E Stefano Grigo-
revic vide sulle prime la carta aggrinzirsi. Poi, nella paiie inferiore,
guizzò una fiammella azzurrognola e lingueggiò lenta all'insù. De-
cifrava ancora le parole staccate; ma di lì a poco, il foglio si fece
tutto nero. Giacobbe lo gettò per terra, e insieme col mucchietto nero
cadde il piccolo angolo giallognolo, pel quale fra due dita egli teneva
il programma.
Stefano Grigorevic si chinò e fece per raccattare i resti del pre-
zioso documento. La cenere nera si staccò e disperse, e non gli rimase
in mano ohe l'angolo giallognolo. Non altro. Era tutto.
Giacobbe rideva intanto, mostrando a dito il famoso artista.
E tutti ridevano.
Stefano Grigorevic pianamente tornò al suo posto. Un fatto nuovo
era accaduto, ancora più assurdo, ancora più orribile che non la
morte della modistina, e quel fatto nuovo piombava proprio addosso
a lui... A Lui solo, perchè gli altri ridevano ed erano allegri, visto che
la cosa non toccava loro, bensì un certo Pc^odin-Smielski. E chi era
questo signore? ed era veramente esistito? e dove le prove della sua
esistenza?
Stefano Grigorevic sorrise di uno strano e tranquillo sorriso,
ma rimase im-passibile e chiuso. Né pensieri, né desideri... Il vuoto
e una tal quale ottusità che confinava con la calma più perfetta. I
suoni, le voci, le sensazioni lo fastidivano. Avrebbe voluto sprofon-
darsi in quel vuoto. As'pettò ancora che qualcosa d'altro dovesse ve-
nire, ma nulla venne. Ed egli seguitò ad aspettare...
Il giorno appresso, era già tardi e non si svegliava. Verso il
tocco, bussarono da lui, e non ricevendo risposta, tornarono a bus-
sare. S'impensierirono. Chiamarono il portinaio, e quando questi,
forzando la porta, la fece stridere sui gangheri rugginosi, tutti tra-
salirono.
E compresero che qualche cosa era accaduto.
OSSIP PÉLYNE.
Traduzione dal russo di Federigo Verdinois.
ALESSANDRO MANZONI
L'UNITÀ D'ITALIA E LA QUESTIONE ROMANA
i>a una lettera del Manzoni, pubblicata nel 1896 (1), si sapeva
ch'egli aveva avuto tra le mani le bozze di stampa di un opuscolo
del Giorgini sull'Unità d'Italia (2) e vi aveva fatte due correziom.
Ora il caso mi ha fatto trovare nelìa Biblioteca centrale del Risor-
gimento una copia dell'opuscolo con le postille del Manzoni — le
quali non sono due ma più di una diecina — e con due lettere da
lui al Giorgini (3). L'opuscolo porta il timibro della Biblioteca Bonghi
e di mano del Bonghi mi semibrano le postille; è quindi proba-
bile ch'egli da un esemplare di Gasa Manzoni o di Gasa Giorgini
abbia trascritte su una copia nuova le proposte di -aggiunte e cor-
rezioni manzoniane e anche le due lettere che ad esse si riferiscono :
delle quali la prima fu pubblicata dal D'Ancona e la seconda ci
risulta inedita.
È noto del resto che il Bonghi dedicò alla politica del Manzoni
buona parte del Discorso (4) fatto per l'inaugurazione della Sala
Manzoniana; ed è naturale perciò che s'interessasse a queste due let-
tere, le quali, insieme con le correzioni ed aggiunte, hanno invero
non piccola importanza; e lo stesso opuscoli, approvato e lodato dal
Manzoni, illumina ancor meglio il pensiero politico -di lui. « Sappi,
— scrive il Manzoni al Giorgini — se mi credi un galantuomo, che
m'è stato un vivo e vero piacere rileggere; e che ne sarà un nuovo
il rivedere gli stampini un'altra volta, e un altro il leggere in bella
e perfetta forma » .
Il 23 giugno del '59 il Tommaseo si rivolgeva a nome di altri
amici a donna Teresa Manzoni affinchè in quell'anno storico per il
dibattito prò o contro il Dominio temporale il Manzoni dicesse una
parola, una parola sola, che sarebbe valsa « assai più dell'armi e
delle negoziazioni», perchè detta da un uomo «autorevole per la
pietà religiosa e la moderazione dell'animo, per la potenza dell'in-
(1) A. D'Ancona, Sei lettere di A. Manzoni a G. B. Giorgini, Pisa, Ni-
stri, 1896. La lettera alla quale accenniamo è datata: Milano, 11 marzo [1861].
(2) Dell'unità d'Italia in ordine al diritto - Considerazioni di G. B. Gior-
gini, deputato di Siena. Milano, Redaelli, 1861.
(3) Busta 82, n. 69.
(4) A. Manzoni, Il bello, il retto, il vero, desunto dai suoi scritti, prece-
duto dal discorso di R. Bonghi all'inaugurazione della Sala Manzoniana. Fi-
renze, 1887.
23 Voi. CCXVI. serie VI — 16 febbraio 1922.
346 A. MANZONI, I. IMiA D ITALIA fc l.A «^i L:^Jlu:Nt. Mu.\iA.\A
gegno e del nome » (i). Allora il Manzoni non volle dire apertamente
quella parola, che sarebbe stata davvero « gran voce » e non più
soia; ma a chi legga questo opuscolo parrà di sentire la parola viva
e schietta del grande poeta lombardo, che la confidava al suo fido
Giorgini.*
• •
L'opuscolo fu pubblicato nel marzo del '61, in un momento de-
cisivo per le sorti nazionali; perchè il 26 febbraio era stato procla-
mato il Regno d'Italia e il 25 marzo Cavour faceva proclamare dal
Parlamento la necessità che Roma fosse congiunta aU'Italia. Il Gior-
gini appunto si propone di risolvere il problema dell'Unità inte-
grale d'Italia in ordine al diritto e alla storia: due cose nelle quali
il Manzoni aveva una competenza e un'autorità speciale. Riassumia-
molo brevemente : « Considerare la rivoluzione italiana sotto il dop-
pio aspetto della legittimità alla quale pretende e del suo successo nel
quale confida, domandare al diritto i titoli di questa legittimià, alla
storia le ragioni di questo successo, è appunto lo scopo del presente
scritto ». La legittimità dei governi usurpatori non è in un diritto « as-
soluto », ma in un diritto « contingente », ch'è il diritto de' trattati. Gli
avversari dell'Unità italiana invocano appunto non il diritto morale
ma il diritto legale. Si obbietta: — Dove si andrebbe se ogni popolo
credesse possibile di violare impunemente le stipulazioni del diritto
internazionale? — Siamo sinceri! — risponde il Giorgini. — La
storia d'Europa è violazione di trattati intemazionali per interessi
dànastici; né si vuole abolirli. « Noi domandiamo solamente che ai
trattati che hanno rivestito della loro sanzione le rivoluzioni regie,
succedano quelle che devono consacrare le conquiste delle rivolu-
zioni popolari. Noi domandiamo che la carta di questa vecchia Eu-
ropa, tante volte rifatta nell'interesse di alcune famiglie, che si
chiamano le Dinastie, sia fatta una volta nell'interesse di altre fa-
miglie, che si chiamano nazioni. Noi diciamo agli uomini della le-
galità : — Volete voi che il mondo rispetti i vostri trattati? Fate che
i trattati rispettino la morale; mettete la leg-alità d'accordo con la
giustizia — ».
La rivoluzione italiana fu nel tempo stesso restaurazione di li-
bertà e rivendicazione d'indipendenza. Il movimento italiano è dun-
que giustificato dallo stesso principio : il diritto che i popoli hanno
d'i costituirsi nel modo più conveniente ai loro interessi. Nel 1815
gl'Italiani non pensavano all'Unità. « Il Manzoni, gran voce ma sola,
rispondeva al Manifesto di Rimini, in una canzone della quale ci
rimane un frammento; che forse i precipizi della fortuna non die-
dero tempo di terminarla». I moti del 21, 32, 48 non furono unitari,
[/intervento straniero produsse due effetti: da una parte rassodò
la tirannide intema, dall'altra provò ai liberali che il vero ostacolo
al quale rompevano tutti i loro disegni era l'Austria; e all'Austria
non avrebbe potuto resisbere che l'unità. « Così l'Italia divenne uni-
taria». Ne consegue che non solo, per il principio della sovranità
(1) n biglietto è stato rinvenuto tra le Carte manzoniane. Cfr. SchrrUìLo,
A. M., le tragedie, gl'inni e le odi. Hoepli, 1921, pag.-459.
A. MANZONI, l'unità DÌTALIA E LA QUESTIONE ROMANA 347
-e nazionalità, c^n.i popolo ha diritto di essere costituito secondo i
suoi interessi; ma che di questi interessi deve esser lasciato solo giu-
dice lui. « E se questo è vero, che bisogno, che obbligo abbiamo
noi di provare il diritto della nostra rivoluzione? La volontà nazio-
nale non è dunque la sorgente del diritto politico? E che gl'Italiani
vogliano l'unità se ne può ancora dubitare?».
Si parla di confederazione. Quand'anche le restaurazioni fossero
possibili, non sarebbe possibile la confederazione. Si ripete che tutte
le nostre tradizioni sono federali, nessuna unitaria. Si potrebbe di-
mostrare il contrario. Si chiede poi : se l'Italia non è federale per
la sua storia, lo sarebbe ella per le sue condizioni presenti? — Nep-
pure. Il sentimento dei popoli si è pronunziato per l'unità e la po-
litica dei governi è stata sempre unitaria, ha inteso cioè impadro-
nirsi degii altri. Colle restaurazioni, colla confederazione dei Prin-
cipi non si può dunque scic^liere la questione italiana.
« Sarebbe egli vero che l'unità d'Italia è ugualmente impossi-
bile? ». Nega che essa non siasi costituita per ragioni geografiche ed
etniche e tra le ragioni storiche mette in primo luogo le invasioni
barbariche e la politica dell'equilibrio europeo, che in sostanza di-
strusse l'equilibrio a danno dell'Italia. Evoca quindi la figura di
Ni'ccolò Machiavelli, « l'ingegno più pratico, più sodo, più positivo
che abbia prodotto l'Italia», che ne concepì l'unità come l'ultimo
sostegno delle vacillanti grandezze della nazione; e poi si domanda:
— Se l'ostacolo all'unità non è nelle cause antiche delle nostre di-
visioni, sarebbe nm\ nei loro effetti presenti? — Tra i popoli italiani
non vi sono differenze sostanziali che impongano costituzioni di-
verse. Fosse pur grande la diversità delle tradizioni locali, bisogne-
rebbe provare che avessero, come in Inghilterra, radice profonda
nell'affetto dei popoli. Il che non è. Ma — si dice — per unificare
ci \'uole una capitale; e voi non l'avete. « Certo il non avere una
capitale o, che torna lo stesso, l'averne più d'una, è un inconve-
niente : ma inconveniente tutt'altro che novo e particolare all'Italia ».
Il Papato si affaccia così come l'ostacolo più difficile all'unità : « Il
dominio temporale dei papi, la servitù d'Italia, l'aimullamento mo-
rale e politico del papato cominciarono insieme». Solamente nel
sec. XVI i papi riuscirono a consolidare il loro dominio temporale.
Ebbene! Dal sacco di Roma, da Carlo V e da Clemente VII comincia
la vera ^rvitù della Chiesa. Il papa non ha più nessun'azione n^li
affari generali dell'Europa, non interviene più a nessuna delle grandi
transazioni che decidono deUa sorte de' popoli. Il papa fu ristaurafo
dal Congresso di Vienna; ma lo fu allo stesso titolo, con maggiore
difficoltà, che il Duca di Modena. In tanta bassezza di condizioni
erano caduti questi pontefici occidentali, che avevano aspirato alla
signorìa del mondo, dopo che, facendosi principi italiani, si trova-
rono involti nella servitù che avevano preparata alla loro patria.
« Nessun diritto dunque, nessun in terese legittimo s'oppone alla
completa unificazione d'Italia... E noi faremo l'Italia, se conciliando
le ragioni dell'antica con quelle della nova grandezza, prenderemo
per base della nostra edificazione quanto c'è di reale e d'indistrutti-
bile dell'esser nostro : la vera parte e il vero tutto, il municipio e la
nazione V.
348 A. MANZONI, l'unità d'italia e la questione romana
Per la questione romana il Giorgini si limita a dichiarare che
gli avvendmenti posteriori al suo scritto Sul dominio temporale dei
papi (1), non hanno mutato le sue convinzioni, ch'erano, com'è noto,
recisamente contrarie a quel dominio, ma favorevoli alla soluzione
intermedia della neutralizzazione di Roma . Roma città libera.
•
■k -k
Questa rapida sintesi basterà, credo, a dare un'idea dell'impor-
tanza dell'opuscolo anche pei riguardi del Manzoni. Tanto la parte
storica quanto la parte giuridica hanno un rigore logico che diremmo
manzoniano; e non meno degne di nota sono le pa^ne ove si con-
futano le ragioni giu-sti fi canti la Confederazione e il Dominio tem-
porale. Qui davvero il Giotgini parla anche per il Manzoni, unitario
antico ostinato e convinto, fautore del diritto della sovranità nazio-
nale come fonte della nuova le^gittimità dei popoli di contro alla il-
legittimità dei trattati Internazionali stipulati con l'ingiustizia e con
la violenza. Ne esce così sanzionata la nostra Rivoluzione in nome
del ddritto e in nome della storia: il diritto la giustificava, la storia
la rendeva possibile. E ne escon condannate con logica serrata tanto
l'opera del Congresso di Vienna e de' Governi usurpatori quanto le
soluzioni effimere delle unificazioni parziali, della Confederazione
giobertiana, e la soluzione antinazionale della questione romana.
La sola possibile soluzione, la sola logica è l'Unità, l'unità integrale.
Viene infirmata la stessa concezione del Balbo-Gioberti, di fare gl'Ita-
liani prima dell'Italia: riforme e statuti non risolvono il problema
nazionale; i piccoli Stati sono «una finzione diplomatica», perchè,
privi di vera autonomia, hanno non alleati ma protettori. Le stesse
insurrezioni e cospirazrioni sono giustificate, perchè se furono « fa-
cilmiente sventate, ' via via crescendo d'impeto e d'estensione trasci-
narono i governi e li rovesciarono ».
V'è un punto della trattazione nella quale il Giorgini n^a che
tra i popoli italiani ci siano «differenze sostanziali che impongano
costituzioni diverse». Erano le parole che il Lamartine nel '48 aveva
rivolto ai profughi italiani [udes cnn^lUutions nouvelles de toute
Tialure, que la diversité des élats de Vltalie fait surgir des besoins^
des intére ts, dies foiines de ses différents gouvernertvents »), contro
le quali aveva scritto una fiera risposta il Manzoni in una lettera
del 6 aprile al poeta francese. « Che diversità? — osserva il xManzoni. —
Non v'ha maggior differenza tra l'abitante delle Alpi e quello di Pa-
lermo che tra l'abitante delle rive del Reno e quello dei F^irenei ».
E il suo orecchio d'italiano unitario non pare che potesse essere ferito
da una parola più «dura» di questa diversité, la quale, pronun-
ziata dal Ministro francese come una parola d'avvenire, per lui rias-
sumeva invece « un long passe de malheur et d'abaissement » (2). Di
questa fiera risposta del Manzoni si ricordò il Giorgini nello scritto
che abbiamo riassunto.
(1) Firenze, Barbèra, 1859.
\ (2) \a lettera fu «-dita la prima volta dal Massari nel Faniulìa ^ìfUa
Domenica, 14 gennaio 'Sii, poi dal Chtala noi voi. su G. Dina, o ora dallo
SoHERiLLO, Manzoni e Napoleone III, in op. cit., pag. 459.
A. ÀIANZONI, l'unità DITALIA E LA QUESTIONE ROMANA ó't'i)
Vediamo ora le correzioni e le aggiunte consigliate dal Manzoni
e accettate dal Giorg-ini. Sorvoliamo sopra alcune sviste e sulle cor-
rezioni di lingua, come disegm sostituito a piani, a itn tratto al
« francesissimo » bruscamente, e non poche altre che attestano la
finezza di gusto e di orecchio di chi aveva scritto i Promessi Sposi;
e fermiamoci sulle osservazioni di carattere politico.
A pag. 56, là dove è detto « Il E>oniinio temporale de' papi, la
servitù d'Italia, l'annullamento morale e politico dei papato comin-
ciarono insieme! » — il Manzoni annota: Leverei il!, quasi voglia
togliere alle gravi parole, più gravi in bocca d'un cattolico, qualsiasi
senso di meraviglia: affermazione semplice, recisa, categorica d'una
verità storicai A pag. 58, a proposito della esautorazione de' papi a
Roma e dell'andata di Pio VI a Vienna per supplicare l'Imperatore,
v'è ora un « buon Pio VI » al posto di « debole vecchio», con questa
nota del Manzoni : Non credo che Pio VI fosse nwlto vecchio, quando
andò a Vienna; debole neppure. Infatti era papa da sette anni e ne
campò ancora altri dieciassetle.
Queste correzioni furon fatte evidentemente sull'originale, che
il Giorgini diede a leggere al Manzoni; ma altre non meno impor-
tanti furono aggiunte sulle bozze di stampa e spiegate nelle due
lettere alLe quali si è accennato. A pag. 44, alle parole — « né rotto
a Gavinana dal ferro d'un calabrese » — il Manzoni aveva osser-
vato: Credo che fosse sardo. Non avendo tempo d'i verificare, met-
terei Maramaldo. Nella lettera dell'i 1 marzo, ricevute le seconde
bozze, scrive al Giorgini: .4 ■< un calabrese» sostituirò un u Fabrizio
Maramaldo »; e questo perchè non m'avendo tu scritto d'aver tro-
vair, che tale fosse veramente la patria di << quel colui», posso cre-
dere che Vosservazione ti sia sfuggita. A ogni rrwdo mi par ^n
fatto di scansare ogni titolo di provincia italiana nei fatti odiosi.
Si sentiva così profondamente itadiano e unitario nell'animo che te-
meva di destare la minima suscettibilità negl'italiani delle altre re-
gioni. Voleva che le gioie e i dolori, le glorie e le infamie fossero
conmni a tutta la nazione. A pag. 59, coU'intendimento di meglio
corroborare l'asserzione del continuo decadimento e a\^ilimento del
papato temporale, là dove si parla delle rinunzie che Pio VII fece
a Napoleone, prima il testo diceva: «E di più la resistenza cessò
nellabboccamento di Fontainebleau dove il Papa fece il concordato
COR cui accettava ie proposte di Napoleone, cedeva Roma ecc. ». E
ora è corretto così: «Ma non durò sempre quella resistenza; e nel-
l'abboccamento di Fontainebleau Pio VII fece tutte le concessioni
che gli erano chieste, compresa la rinunzia del potere temporale».
Il Manzoni nella lettera sopra citata scriveva al Giorgini: L'esserti
fatto tanto umile, mi fa esser temerario. T avverto, dunc/ue, che se
non mi viene un tìto avviso in contrario, a posta corrente, farò sulle
prove del torchio una piccola aggiunta e un p'ccolo cambiamento.
Dopo le parole « fece tutte le concessioni che gli erano chieste » ag-
giungerò: k compresa la rinunzia del potere temporale».
Questo sincero cattolico aggravava onestamente la mano su' papi
res' vili o ignavi dal potere temporale, al quale faceva risalire ogni
responsabilità. Non la debolezza e la vecchiezza aveva condotto
350 A. MANZONI, l'unità D'ITALIA E LA QUESTIONE ROMANA
Pio VI ai piedi dell'Imperatore d'Austria, non ia viltii personalt-
averva condotto Fio VII ai piedi di Napoleone; ma l'uno e l'altro erano
spiniti dalla servitù del potere temporale alle suppliche e alle ri-
nunzie!
Più notevole ancora è la correzione che il Manzoni propose con
la seconda lettera, ia quale conferma una volta di più la scrupolosità
che come critico aveva il Manzoni anche ned rapporti di terze T'ar-
sone, pur così intimaimente legate a lui da parentela, come il Gicnv
gini. Consegna le bozze allo stampatore, ma ne sospende la tiratura,
perchè il genero possa esaminare le correzioni del suocero inconten-
tabile; e se la cava con una finezza piena di bontà : « Ho interpre-
tato forse troppo largamente la tua condiscendenza». Infatti piglia
animo a fargli un'osservazione di più larga portata. Il testo da me
esaminato da pag. 12 a pag. 13, dalle parole — E abbiamo noi bisogno^
di notare, sino alla fine : deve cercarsi la risposta — è contrasse-
gnato da lineette e vi è scritto a margine: « Aggiunto dietro l'osser-
vazione del Manzoni. Vedi lettera in fine ». Val la pena di ripor-
tare tutto il brano: « £ abbiamo noi bisogno di notare qui espresi^a-
menlc Vin^fiustizifl, la nullilà morale dei trattati fatti contro di 7ìoi,
ina senza di noi? fatti da alcuni, col solito titolo della forza, e del-
l'iniqua teoria, per la quale quegli alcuni, che con un prepotenje
traslato si chiamano uVEuropa», s'attribuiscono il diritto di stipu-
lare sugli affari degli altri? Quale privato si crederebbe in obbligo di
rispettare contratti ai quali non ha partecipalo, che non Ita sottoscrijlo?
Le analogie desunte dal diritto privato sono qui dunque di novo
fuori di luogo. Videa di u contratto», come Hdea di ^^ proprietà »y
sarebbe malamente applicata a relazioni di una natura tanto diversa.
Nel diritto intemazionale quelle due parole sono un modo itinten-
dersi, che diventa un sofisma, appena se ne vuol fare un principia.
Son sono le dottnine della rivoluzione, è la storia diplomatica del-
l'Europa, che anche qw noi possiamo invocare. Nessun trattato po-
trebtì^e citarsi, che non sia stato la ricognizione d'un fatto, contrario
a un diritto internazionale fondato sopra trattati anteriori. Chi di-
rebbe Vistesso de' contratti? Ebbene! Abbianw noi ragione di pretrn-
dere che l'Europa riccmosca i' fatto della nostra rivoluzione? Non è
nel diritto di « proprietà » , nel diritto de' « contratti » , in nessun di-
ritto positivo, tradizionale, ma nei principi eterni della morale, nei
grandi interessi della civilizzazione, che deve cercarsi la risposta .. .
Nessuno può disconoscere l'importanza di questa che direi pagina
manzoniana. Lo stesso problema politico sollevato oggi da recenti con-
tratti internazionali è affermato e risolto dal Manzoni con una chia-
rezza e convinzione e, diciamo pure, con una libertà che molti dei
liberali d'oggi non saprebbero usare. Egli dichiara solennemente la
« nullità morale » de' trattati stipulati da terzi e non accettati lilxv
ramente e sottoscritti dagl'interessati. La Rivoluzione italiana si ri-
fugiava dal diritto positivo e contingente della diplomazia euix>pea
{quagli alcuni che con un prepotente trastalo si chiamano lEitrojta),
nel diritto eterno e inviolabile della giustizia e della morale! liia
professione di fede così profonda nella giustizia della causa italiana
non poteva essere scossa da vecchi pregiudizi e da nuove opporiunità
di persone o di luoghi. Così si spiega la tenacia con la quaJe il Man-
zoni perseguì costantemente e senza titubanze e crisi interiori il suo
A. MANZONI, l'unità D'ITALIA E LA QUESTIONE ROMANA 351
ideale politioo, tenne fede alla sua coscienza e in tutte le occasioni
più solenni prese parte alle manifestazioni e ai voti in favore del-
l'unità italiana, dal '48 in poi. Anche prima. La lettera si chiude
infatti scherzosamente sulla « più grossa delle correzioni » che sa-
rebbe da farsi a pag. 19 (1) e contro la quale « la sua modèstia
freme » .
La correzione che il Manzoni avrebbe voluto fare ma non fece
si riferisce a sé stesso, per la canzone sul Proclama di Rimini, là
dove il Giorgini, naturalmente tanto bene informato, cosi parla della
impresa muratiana: «Nessuna occasione più bella, l'infelice Gioac-
chino si offriva capitano all'impresa. Il Manzoni, gran voce ma soUiy
rispondeva al manifesto di Rimini, in una canzone della quale ci
rimane un frammento, che forse i precipizi della fortuna non die-
dero tempo di terminarla». Nel 1815 il Manzoni non era ancora una
«gran voce», nia egli si limitò a sottolineare le parole, sorrise e
p£issò oltre. Certo è ch'egli pensava all'unità fin dal 1815, all'unità
prima che alla libertà {Liberi non sarem se non siumo uni), contra-
riamente alla tesi che poi sosterrà il Balbo nelle Speranze. Aveva
dunque ragione Giuseppe Mazzini di congratularsi col Manzoni àel-
l'essere stati, essi due, i più antichi e più i>ervicaci unitari! (2).
Ecco ora la lettera inedita al Giorgini, che trascriviamo dalla
copertina dell'opuscolo e che evidentemente fa seguito a quella ci-
tata deiru marzo ('61) :
Caro Bista, '
stavo per mandanti cfueille bozze, quando rioevetti quelle per RedaeUi,
che gli mandai subito; ma prendendomi la libertà di fargli dire che sospen-
desse lo stampare fino a un tuo novo ordine. Ho interpretato forse troppa
largamente la tua condiscendenza; ma a ogni modo il ritardo non sarà che
d'un giorno, quando tu trovi che non ci sia o nulla o pochissimo da cambiare.
Ecco a buon, conto un'altra osservazione, della quale come delle prime
terrai quel conto che crederai. Nel § IV mi pare che si potrebbe notare più
espressamente l'ingiustizia e la nullità morale di trattati stipaalati da alcuni
sugli affari d'altri, senza sentirli e col solo titolo della forza e dell'inaudita
e iniquissima teoria che attribuisce a quegli alcuni che, con un prepotente
traslato si chiamano l'Europa, il diritto di costituire un diritto sopra gli altri.
Oltre le correzioni tipografiche, troverai delle proposte di cambiamenti
che sarebbero forse peggioramenti; ma ripeto, come proposte che puoi buttare
nel foco.
La più grossa delle correzioini è quella da farsi alla p. 19, alla linea ul-
tima, contro la quale la mia modestia freme.
•
* *
Sembra strano che il Manzoni non abbia fatto nessuna osserva-
zione all'ultima parte dell'opuscolo, dove il Giorgini tratta della que-
stione romana, ch'era allora d'attualità. Ma su questo argomento le
divergenze col genero erano note e parevano, almeno allora, incon-
(1) Nel testo è ora a pag. 20.
(2) L'episodio fu prima ricordato dal De Gubernatis e poi dal D'Ovidio
{Jja politica tìel M., in Nuovi studi manzoniani, Milano, 1905).
362 A. MANZONI, l/UNITÀ l)ITAM\ K I.A QUESTIONE IU»\I\\\
ciliabdii. Il Giorgini, nello scritto citato del '59 sul IJoiikuio tempo-
rale dei papi, aveva proposto la soluzione della neutralizztizione di
Ronia. « La città santa, dichiarata anche città libera, costituita da
sé, governata dal suo municipio, sarebbe messa come fuori d'Italia».
Era in gran parte la tesi dell'altro genero del Manzoni, Massimo
D'Azeglio, che vi accennò in Quistioni urgenti e in altri scritti suc-
cessivi, tesi che fu sostenuta anche dal Tommaseo (1) ma non ebbe
né seguito né fortuna e servi solo ad amareggiare l'animo dell'Aze-
glio, che vi sd ostinò stranamente, rimiettendola a nuovo in occa-
sione della Convenzione di settembre 1864 e del conseguente voto
del Senato.
Pel Manzoni, al contrario, Roma era e doveva restare dentro
l'Italia e all'Italia; non ammetteva mezzi termini né d'internazio-
nalizzazione né di neutralizzazione. Non ebbe perciò le riserve e
gli scrupoli ch'ebbero tanti altri, più liberali e meno cattolici di Lui;
e fu quindi di una disciplina e di una coerenza politica davvero
ammirabile. Franco e inflessibile, fino all'ultimo atto di Roma ca-
pitale.
Ruggero iBonghi, inaugurando la Sala Manzoniana, ricordò che
il Manzoni nel '48 non volle firmare il voto di fusione della Lom-
bardia col Piemonte, contrario com'era a cfuelle che il Giorgini
chiama unificazioni parziali. » Non voleva restaurare im Regno Ita-
lico, voleva un Regno d'Italia». E ricordava pure le parole dette dal
Jklanzoni al Rosmini, a cui l'unità pareva un'utopia. « Forse — ri-
batteva — , ma un'utopia bella; invece la confederazione è un'utopia
brutta». La fusione appunto gli pareva un pericolo per l'unità vera
e non valsero le preghiere e le esortazioni del Balbo e del D'.Azeglio
a farlo firmare.
È strano, ma é così, in politica il Manzoni si sentiva più vicino
a Garibaldi e a Mazzini (2) che al suo Massimo. Non meno strano
ancora, questo fer\^nte cattolico non subì il capogiro che a tanti
uomini politici di allora diede il fortunato gesto di Pio IX ed ebbe,
anzi, maggior fiducia in Cavour che nel Pontefice liberale, che dopo
di aver benedetta l'Italia l'aveva mandata «a farsi benedire». Più
strano ancora, questo letterato timddo e riservato, sebbene ottuage-
nario, non mancò nelle sedute più decisive e solenni del Senato (il
Decreto di nomina a senatore è del 27 febbraio '60). Nella storica
giornata del 26 febbraio 1861 — Kgli che l'aveva desiderato e spe-
rato «contro tutti gl'increduli" fu presente e votò la proclama-
zione del Retgno d'Italia.
La proclamazione di Roma lapiiale — che all'Azeglio sembrava
un'idea rettorica classicheggiante — parve al Poeta romantico la
(1) 11 Tommaseo ne parlò nel libro; // .seyreto dti fatti ptiJesi sefìuiti nel '.};/.
Indagini di N. Tommasw), Firenze, 1H60, pag. 46. Di Roma capitale egli aveva
un'idea pes8Ìnii.stica corno I'A/zOrIìo (ìdnne n'est /Jus ilanx Hom^) v adorivB per-
ciò alla soluzione pix>posta nel famoso opuscolo // /«»/»«/ e il Congresso.
(2) Tra le Carte jtianzomanr il Bonghi afferma trovarsi la boesa di una
lettera del Manzoni in difesa di Mazzini, in risposta a un'altra del Rendu (17
luglio '59) che gli comunicava le i*tie profH'Cupazioni stilla prevalenza del partito
maKziniiino in Italia e sul i)erif'iil'» du' ne sarohlM> vomito :iirli St.-ìti del l'ont»'-
fioe. Cfr. Bonghi, op. cit.
A. MANZONI, l'unità DÌTALIA E LA QUESTIONE ROMANA 353
sanzione d'una ^ande realtà storica e d'un inviolabile diritto. Il 5 ot-
tobre del '62, dopo Aspromonte, scriveva al Giorgrini essere rilut-
tante a far parte di una Commissione nominata dal ministro Broglio
per studiare i mezzi deirunificazione della lingua; e g"li confidava la
ragione vera: che v'era non ix)ca probabilità che la capitale fosse
altrove che a Firenze. « Sarebbe, credo, un caso unico che il capo
della nazione fosse in un luogo e la sua lingua in un altro. Fino il
piemontese, e in così poco t^mpo, s'è infiltrato un pochino negli
scritti e nei discorsi. E almeno sarà creato un conflitto». Come si
vede, neppure in fatto di lingua era separatista o federalista: non
ci possono essere due capitali.' L'unificazione politica portava per
conseguenza all'unificazione linguistica in Roma, unica capitale.
Nel 1863 l'Azeglio, col chiodo fisso di risolvere a modo suo la
questione romana, gli mandò un opuscolo del Rendu, La souverai-
netc pontificale et Vltalle; e il Manzoni rispose con parole evasive
e non compromettenti, che gli f>areva « non abbastanza chiara la
conclusione pratica». I cattolici francesi, amici dell'Italia, propen-
devano per la conciliazione; ma il Manzoni credev^a impossibile la
conciliazione, pericolosa la violenza. Aveva un liei dire l'Azeglio al
Rendu (23 giugno '63) ch'egli era di accordo col suocero : « Nous
sommes assez d'accord sur tous les points. V'oilà un homme que vos
catholiques pourraient peufc-ètre écouter. Lui reconnaìtraient-ils quel-
que autori té à celui-là?... Manzoni e Gino. Capponi c'est c^pendant
quelque chose quand on veut parler du catholicisme italien » (i).
Manzoni si sentiva profondamente cattolico e profondamente
italiano, e tra le due parole, per conto suo, non v'era opposizione
o, se v'era, era apparente ed era nell'ordine de' fatti non delle idee
e dei principi. Ma la soluzione che, anche nell'ordine dei fatti, pa-
reva impossibile nel '63, apparve possibile nel '64, per effetto della
Convenzione di settembre; ma allora né i conciliatoristi né Massimo
furono più disposti ad ascoltare la voce di Alessandro Manzoni; il
quale, ottimista per natura e acutissimo ragionatore, vide subito
aprirsi uno spiraglio di luce tra le tenebi'e della questione romana.
Sentì che non si faceva una rinunzia, ma si faceva una tappa verso
Roma. Tra i conciliatoristi ad ogni costo e tra gli estremisti di
Roma V marte, il Manzoni, senza essere un rinunziatario, capì che
la questione faceva un passo avanti nella via segnata da Cavour.
L'apparente accordo con l'Azeglio fu quindi rotto. Il Manzoni
non solo era per l'approvazione dei trattalo, ma volle andare a To-
rino per dare il suo voto. Il Giorgini, in una lettera alla moglie.
Vittoria Manzoni, narrò tutti i casi di quel viaggio singolarissimo,
tutti i mezzi adoperati dagli amici piemontesi e dall'Azeglio perchè
Alessandro Mfinzoni non si recasse a Torino, srià funestata da' lut-
tuosi fatti del settembre. Tutto fu inutile; egli volle andare, e andò.
« Si N'ede proprio che questi signori conoscono poco Papà, che ne
hanno un co'icetto molto inferiore a qu^ello che merita, e che per
conseguenza si esagerano grandemente il potere della mia influenza
su di lui. D<)\rebbero sapere ch'egli è ben chiaro e ben fermo nelle
sue idee e nei suoi propositi, o che poche idee ha piià chiare e più
ferme di quella di volere che si vada a Roma. Per lui è evidente che
<1> Corre. spondan-ce politique de M. D'A., pag. 276.
354 A. MANZONI, l'unità DÌTALIA E LA QUESTIONE ROMANA
l'andare adesso a Firenze significa incamminajsi sulla via di Roma,
e non saremo certamente capaci né io, né Massimo, né donna Go-
stanza [Costanza Arconati, di cui fu ospite il Manzoni a Torino], né
<iltri, di fargli cambiar rotta : ha in testa piìi fìtto che mai il chiodo
di Roma, ed é sempre pieno di fidlicia che a Roma ci potremo an-
dare col pieno consenso della c>oscienza cattolica » (l).
Il Giorgini invidiava a don Alessandro questa fermezza di con-
vinzione, che lui non aveva; perchè se aveva perduta la fiducia in
una «conciliazione» e nella «neutralizzazione» di Roma, a forza
di guardare e riguardare da ogni lato la questione, viveva « con
l'animo agitato dal dubbio». 11 Manzoni era sicuro del fatto suo e
sereno nella sua coscienza, e perciò non lo scossero né le preghiere
e le esortazioni di parenti ed amici né le paure del medico di casa.
L'Azeglio, che pesava tutta la gravità del voto di Alessandro Man-
zoni in una questione che feriva anche l'amor proprio de' piemon-
tesi, si rivolse al Giorgini e al fedele prevosto di S. Fedele, don
Giulio Ratti, intimo del Manzoni. Il Giorgini, come si è detto, non
potè e forse neppur volle; don Giulio arrivò tardi; spedì l'esortatoria
di Massimo in casa Manzoni, quando questi era già partito, la mat-
tina stessa del 5 dicembre. La lettera lo raggiunse a Torino, ma
Egli non vi diede altra risposta ohe « di porsela tranquillamente in
tasca» (2). Don Giulio ne diede notizia subito all'Azeg-lio con la se-
guente lettera, ch'è inedita e non priva d'interesse:
•Milano, 5 Die. 1864.
Caro Massimo.
appena ricevuta adesso (ore 10 matt.) la tua d'jeri, l'ho spedita sut>i<o
a D. .Alessandro, tenendo per fermo che le tue parode avrebbero avuto molta
influenza sullla sua deliberazione; ma egli era partito poco prioxia con Gior-
gini, D'Adda, Marini ed altri.
Se avessi anticipato d'un giorno a ecrl vermi, forse lo avrei potuto in-
durre a rimanere. Ad ogni hkxìo ti prego di rinunciare al fiero proposito di
non volerlo vedere. Pensa che è tuo suocero, ch'è un vecchio per tanti titoli
rispettabile, che avresti poi rimorso di averlo amareggiato, e che quelli stes^^i
che per amore di patria applaudirebbero oggi aMa tua spartana risoluzione.
condannerebbero domani la tua durezza.
Sono anch'io d'avviso che avrebbe fatto meglio ad imitare Gino Capitoni.
ded quale mi "piacque nwlto la detterà a Lambrusohini che lessi oggi nella
« Perseveranza ».
Anche Manzoni avrebbe potuto scriverne per es. una simile a te, e tutto
si accomodava per bene. Addio carissimo: porto speranza che tu mi scriva;
Mamzoni ha avuto torto; .ma in ftoe poi ho ceduto al taio consiglio. Sta' sano.
L'ani.» Gli! '" <
(1) La lettera fu pubblicata dal D'Ancona col titolo: Un aneddoto mati-
zuiiiaiw (ora in Pagine spar.se di lettrratura e storia, Firenze, 1914).
(2) Così riferiaoe B. Ix\caita, dopntato, al Paniszi. Cfr. Lettert ad A. Pa-
tiizzi. Barbèra, 1880, pag. 485.
(3) Ho trovato la lettera, insieme con molte altre sulla ConvenEione dvì '64,
nella Raccolta delle cartt» d'Azeglio di p:-oprietà dogli eredi Ricci. Tra le altre
A. MANZONI, l'unità D'ITALIA E LA QUESTIONE ROMANA 355
L'Azeglio mantenne la promessa di non volerlo vedere; e nella
casa deg-li Arconati, ove era un pellegrinaggio di persone per visi-
tare il Manzoni, non andarono né lui né altri piemontesi. Quando
l'Azeglio, il 3 dicembre, fece leggere il suo discorso al Senato, il Man-
zoni non era ancora arrivato; ma certo giunse fino a lui il rumore
di quel discorso, che fu senza, dubbio un successo, un successo di
stinna se si vuole, dovuto al suo passato e più al senso di dolore e
di sacrifizio col quale egli dichiarava di accettare il trattato. Non
accenna alla sua tesi, ma la conciliazione è il presupposto di tutto
il discorso, il cui successo dovè produrgli molta illusione, come se
avesse seppellito la questione romana; e si compiaceva di riferire le
parole d'un amico: Mais^ mon Dieu, qui est-ce qui pense encore à
Il Manzoni comparve nella seduta del 6 dioemibre. Al suo in-
gresso nella sala moltissimi senatori gli andarono incontro a strin-
gergli la mano; andò a sedere sugli scanni più alti a destra del
Presidente, accanto al Cialdini, che quel giorno fece un discorso im-
pressionante, il più efficace forse in quella storica discussione; e il
Manzoni disse poi scherzando che ci avev-a merito anche lui, per-
ché... gli aveva dato da bere.
Il giorno dopo, prima di lasciar Torino, andò lui col Giorgini
a far visita all'Azeglio, il quale per un'ora non gli parlò d'altro che
di spiritismo. Ripicchi e debolezze d'un grand'uomo! Il quale, del
resto, era di accordo col Manzoni nella gratitudine e nell'ammira-
zione verso Napoleone III. Ma mentre l'Azeglio lo benediva, perchè
credeva che la Convenzione del '64 ci avesse liberati dall" incubo di
Roma o Morte!, il Manzoni, ch'era un loico sottile, distinse, perchè se
non dimenticò le sue benemerenze, non dimenticò neppure tutti gli
ostacoli che dopo il '59 l'Imperatore frappose all'Unità d'Italia, non ul-
timo, almeno nella intenzione, quello dell'imfpnsto trasferimento
della capitale a Firenze. lE quando nel 1873 -=- celebrandosi le
esequie del terzo Napoleone a Firenze — il Gomitato lo fece inter-
pellare dal Giorgini perché scrivesse l'epigrafe da porre sulla porta-
lettere ce ne sono due di Gino Capponi, il quale non andò a votare a Torino, ma
esortò l'Azeglio ad andar lui e parlare. La seconda di queste due lettere dice:
(( Mio caro Massimo,
«Belle parole, parole sante, ma temo giungano troppo tardi. Abbiamo noi
quello che ci siamo meritati ; e il discorso di Napoleone ribadisce troppo bene
la nota austriaca. Tutto questo mi pare grave, te lo confesso, né vedo altro che-
un forte impeto di buon senso che possa salvarci. E il buon senso vi è nel fondo,
ma è ricoperto da troppa robaccia. È uno di quei momenti pe' quali isei fatto,
non aspettare il discorso, va' sotto i portici e discorri lì. Non aspettare, che tu
diel bene poi farne sempre e Dio faccia non venga il momento che tutti dob-
biamo fare atto di presenza. Se Dio non ci salva, me lo vedo innanzi ques^
momento. V^a' e dici che le bugie ci volteranno l'Europa addosso, e piaccia a
Dio che non ce l'abbiano già voltata. Di' che il solo forte sarà quello che oserà
dire la verità schietta, che Roma o morte è una seccatura, come tu scrivi, i>oi
grida pace e perdonami le insufficienze e gli spropositi. E poi rientra nella tua
nicchia, speriamolo, e che ai più impotenti non sia debito uscire dal guscio a
solo sgravio di coscenza. Mando le tue parole a Gigi Mannelli che ora è in-
villa.
<( Firenze, 6 novembre '64.
u G. Capponi ».
366 A. MANZOM, l'unità D'ITALIA e i'.A QUESTIONE ROMANA
del temipio, il Manzoni si rifiutò, non potendo eg^li disiinguere e
spiegar tutto in una epigrafe. « Il benefizio che si tratta di celebrare,
fu certamente una cosa imimensa, anzi unica e incomparabile, ma ac-
compagnata nella condotta da fatti restrittivi, anzi opposti » (1).
L'ultimo di quei fatti restrittici, anzi opposti^ era certamente
la Convenzione del settembre 1864 e il conseguente trasferimento
della capitale a Firenze. Fin nell'ultimo anno della sua vita, il
Manzoni, ce deplorable Manzoni — come avevano esclamato i gesuiti
óeWUnivers — fu dunque coerente con se stesso e coi suoi principi di
costante propugnatore dell'Unità italiana e imj^enitente oppugnatore
del Potere temporale : coerenza ch'ebbe la più alta e significativa
espressione e sanzione nel meritato conferimento della cittadinanza
romana (2), come aveva avuto la prima esplicita affermazione ne'
versi messi in bocca al re Desiderio, ne' quali è il ritratto del ponte-
fice ideale del Manzoni :
Quel dì che indamo
I nostri padri sospirar, serbato
È a voi : Ironia f ia nastra ; e, tardi accorto.
Supplice invan, delle terrene spade
Disarmato per sempre^ ai santi studi
Adrian tornerà: re delle preci,
Signor del sacrifizio, il aoglio a noi
Sgombro darà.
Nunzi.) Vaccalluzzo.
(1) Da lettera al Giorgini. in D'A>-con.\, op. cit.
(2) Per i rapporti tra Napoleone III e Manzoni, è da v^dt-ìi' lì aii^git^*
■di M. ScHBRiLiX), Manzoni e Napoleone III, in op. cit., pagg. 446-74. Nella
rispoeta di ringraziamento al Sindaco di Roma, il Manzoni dice ch<' il Con-
siglio comunale <( ha^oluto... dare il valore di merito alle aspirazioni costanti
d'una lunga vita alla indipendenza e unità d'Italia ■.
LA TRASFORMAZIONE DEL LATIFONDO IN SICILIA
E IL PROBLEMA MERIDIONALE
Prima della guerra il problema meridionale, del quale il pro-
blema del latifondo è un esponente tipico, era il più grave della no-
stra politica intema. Dopo la guerra esso torna a divenir tale : deve
tornar tale perchè esso è il problema della unificazione e della giusta
equiparazione di quelle due Italie che nell'ora del pericolo furono
così magnificamente ed eroicamente unite.
Per l'Italia, salvata dalla loro unione, è ora debito di onore ricor-
darsi di quella parte di essa, che, condizioni naturali, vicende sto-
riche, negligenza ed ingiustizia di uomini, fecero meno fortunata
ma non meno degna di amore di considerazione e di rispetto del-
l'altra. E l'Università, che fece anch'essa così nobilmente il suo do-
vere in questa guerra, e che ora non può, né deve appartarsi dalla
grande vita della nazione, è bene dica il suo parere su questo diffìcile
problema, alla cui soluzione i suol tecnici, i suoi ingegneri, i suoi
agronomi, i suoi economisti e giuristi, possono portare un prezioso
contributo, seppur non avvenga che le loro parole si sperdano, come
tante altre volte, inascoltate al vento.
Ho detto due Italie. La frase non è mia, ma del senatore Giustino
Fortunato, i cui discorsi sul problema meridionale al Parlamento ita-
liano, sono uno dei più alti monumenti di sapienza politica che vanti
il nostro Paese.
Due Italie, scrive l'onorevole Fortunato, separate quasi netta-
mente dal Tronto e dal Liri, in due parti, per ogni rispetto assai di-
verse e tenute divise per lunghi secoli da vicende storiche oppo-
ste. L'una, la meridionale, naturalmente assai ix>vera, ma che gli
uomini si ostinavano a ritenere naturalmente assai ricca, isolata nel
Mediterraneo che da lungo tempo non era più il centro della civiltà.
L'altra, assai più favorita dalla ratura, e gravitante \er5o i nuov
centri della civiltà europea e mondiale. L'una prevalentemente agri
cola, e retta quasi sempre a monarchia, associata ad uno dei più esosi
sistemi feudali; l'altra, retta quasi sempre a comuni o a principat
che dal feudalismo si aiTrancarono presto. Due Italie che s'eran for-
mate due anime diverse e che la fortunata epopea del nostro Risor-
gimento era riuscita a Ulcerare ed unificare politicamente,' ma non
economicamente né socialmente. Due Italie che bisogna ora portare
368' LA THASFORMAZIO^L DLL LAiliU.NDU L\ blCU.l A
fX>ssibilniente allo stesso livello, perchè la debolezza e le iriiserie del-
l'una, sono la debolezza e le miserie dell'altra, dell'Italia cioè e con-
siderata nel suo complesso. E a seconda che il livellamento avverrà
verso l'alto o verso il basso, il Mezzogiorno sarà, come conchiudeva
l'on. Fortunato, la fortuna o la sciagura d'Italia.
Il problema meridionale varia da regione a regione, ma, mentre
le regioni continentali difficilmente si potrebbero considerare indi-
pendentemente l'una dall'altra, questo si può fare della Sicilia che
compendia in sé i principali aspetti del Mezzogiorno continentale e<l
ha caratteristiche sue proprie.
Bella, come una perla sorgente dal mare, la Sicilia è un ponte
naturale fra l'Italia e l'Africa, ed uno scalo fra i due bacini : l'orien-
tale e l'oc-cidentale del Mediterraneo che essa divide a metà. Teatro
per questo delle più antiche lotte tra l'elemento europeo ariano e l'e-
lemento semitico africano o asiatico, terminate colla vittoria del
primo sul secondo. Essa conobbe tutte le civiltà, e ne serba traccie
nelle antichissime tombe sicane e sicule, nei meravigliosi templi di
Selinunte, di Segesta, di Girgenti, di Siracusa, nelle chiese e nei pa-
lazzi arabo-normanni.
Per lungo tempo fu il centro della vita mediterranea finché, dopo
la morte del grande Federico e la cacciata degli Angioini, sembrò
cadere in sonno profondo, e in una servitù secolare, dalla quale,
come già Timoleone, salpando da Corinto, la liberava il ligure eroe,
salpando da Quarto coi suoi Mille per ricongiungerla all'Italia.
Non v'è una Sicilia compatta e armonica, come non v'è un Mezzo-
giorno continentale compatto e armonico, ma quasi due mondi la com-
pongono profondamiente diversi e antagonistici che paradossalmente
cx)esistono, dando luogo a due diverse civiltà che s'incrociano, si ur-
tano, si sovrappongono senza confondersi mai, come non si confusero
totalmente mai le varie genti che la popolarono nei secoli. I due mondi
corrispondono quasi esattamente alla regione delle coste e alla regione
dell'interno.
Anticamente tutte le coste si trovavano in una situazione privile-
giata, e questo si poteva specialmente dire della costa meridionale,
dove sorgevano grandi e famose città, delle quali non rimangono più
ora che maestose rovine; e con esse scomparvero i giardini profumati,
i fiorenti campi di grano, di viti e di olivi che le circondavano.
Adfesso la zona privilegiata è limitata alla costa trapanese e alle
due coste tirrenica e ionica, con le brevi e basse vallate che in esso
slx>cx;ano ed è pari ad un diadema di bellezza che ricinga la fronte
dell'isola. Qui regna l'eterna primavera. Qui, nel cielo quasi sempre
turchino, spicca il verde perenne delle esperidi, dalle frutta d'oro e
dal bianco fiore di zagara che spande lontano il suo odore inebriante.
Qui le foglie cangianti dell'olivo tremolano alla brezza del mare,
siepi di fichi d'India e di agave americane che fioriscono una sol
volti! e muoiono, dividono i campi e le culture. File di rossi gerani in
fiore, e nmc-chie di ginestre accompagnano per chilometri e chilo-
metri il viaggiatore. Qui, pur nel cuor dell'inverno, quando le neb-
bie, il freddo, le nevi, il gelo aduggiano il settentrione, le contadine
lavorano in manica di camicia e il loro canto si mesce al sussurar del
mare vicino. Qui la campagna, intensamente ed amorevolmente col-
Hv'ata, nutre una popolazione densissima, che nel triangolo Catania.
E IL PROBLEMA MERIDIONALE 359
Acireale, Nicolosi, sulle pendici meridionali dell'Etna, raggiunge la
favolosa cifra di milleduecento abitanti per chilometro quadrato.
Qui prosperano le migliori industrie e le maggiori case commerciali
dell'isola. Qui, all'apparenza almeno, nulla di anormale, ma solo la
apparenza, giacché questo splendido mondo, ove si muove e vive una
società complicata, raffinata e fastosa, si trova pur esso sotto il triste
influsso dell'interno, di quell'interno così vicino, così a portata di
mano, ma che pur sembra tanto lontano, perchè tanto diverso, tra-
mandato a noi quasi intatto traverso i secoli, per chi sa quale .mi-
sterioso e sinistro sortilegio.
Cos'è quest'interno? Non è facile descriverlo, perchè anch'esso è
ricco di contrasti, pieno di luci e d'ombre, ed ha le sue zone privile-
giate accanto ad altre ben più vaste e numerose ove hanno radice
tutti i mali suoi e dell'Isola. Immaginate un immenso e complicato
viluppo di montagne, che staccandosi dalla dorsale tirennica, le cui
più alte vette rasentano i duemila metri, vadano man mano digra-
dando verso il mare africano o verso Io Ionio, girando a mezzogiorno
l'immane cono \ulcanico dell'Etna che supera, sovrano e solo, di
milletrecento metri i più alti monti siciliani. Fra tale viluppo si
aprono le valli, che si storcono, si allargano o si restringono dando
luogo a brevi piajiure o a gole paurose; e fra l'una e l'cdtra si sten-
dono gli altipiani, tormentati da infinite colline o da ardite punte iso-
late che ricordano le Ambe africane. Nude le cime dei monti, tranne
che nelle lontane Madonie © nelle Caronie; rarissimi i boschi e quasi
nascosti in remfoti angoli; dappertutto campi di grano a cultura esten-
siva alternati con vasti pascoli naturali.
L'occhio spazia per chilomestri e chilometri senza incontrare nes-
suna casa, nessun albero, solo qualche arbusto selvaggio. A grandi
distanze nelle campagne sorgono i casamenti dei feudi circondati da
qualche capanna di paglia o da pochi alberi e somigliano ad oasi nel
deserto. Tutt'intorno è silenzio profondo, rotto talvolta dal trillo dei
rari uccelli, dall'abbaiar dei cani, dal raglio doloroso degli asini, o
dal vociar roco dei contadini incitanti sé e le bestie al lavoro, il capo
ravvolto da un rosso fazzoletto per ripararsi dal sole e dal vento.
Mancano o sono rarissime le strade di campagna carreggiabili.
Dalle poche strade nazionali o provinciali, si passa alle rozze traz-
zere che una volta dovevano avere una larghezza di 37 metri, per
consentire il pascolo alle greggi trasumanti, ma che per le continue
usurpazioni, furono ridotte a pochi metri e non sono più carreggia-
bili. I trasporti si fanno perciò a soma, e lunghe file di muli, legati
otto per otto, uno dietro all'altro, le così dette « retine », si vedono
dopo la mietitura traversare le campagne, scortati da pittoreschi cam-
pieri a cavallo, formidabilmente armati.
Poche le acque e sregolato il loro corso. Solo di tanto in tanto
sincontrano degli abbeveratoi, l'acqua dei quali non è spesse volte
be\ibile dall'uomo, perchè salmastra e solforosa. Scarsissime le piog-
gie e limitate quasi esclusivamente ai mesi d'inverno. I fiumi, che
d'inverno hanno carattere torrentizio e che d'estate sono quasi asciutti,
si passano a guado. E lungo di essi o delle loro derivazioni, o presso
alla spiaggia del mare, si trovano delle morte gore, soggiorno prefe-
rito delle zanzarre anofeli, che diisseminano dovunque la malaria:
e contadini malarici si vedono ogni tanto sdraiati al sole, ravvolti
360 LA THASFORMAZIONE DEL LATIFONDO IN SICILIA
nella raantarra per ripararsi da « lu friddu », dai brividi cioè ctic
dà la febbre.
Nel centro di questa zona e verso il mare, vi sono le zolfare, le
quali occupano talvolta interi valloni, e che, uccidendo intomo a sé
per le esalazioni dell'anidride, ogni vita vegetale, coi neri e rossi de-
triti vomitati dalle bocche di scarico, il bagliore delle fornaci, il fu-
nrigar l>as&o e crepitante dei calcaroni, lo strepito delle macchine
e l'affannaitìi «dei carusi dall'emaciato aspetto, danno l'idea d'un
triste inferno. Puro anche questa zona ha la sua particolare e pro-
tonda poesia, paragonabile in un certo senso a quella delle alpi
remote, nelle quali l'uomo si sente quasi abbandonato e lasciato solo
di fronte alla natura, solo coll'universo stellato, e cogli sterminati
orizzonti sui quali incombe immobile il sole.
Il carattere del paesaggio si riflette nel carattere dell'uomo che
questa terra ama di appassionato amore; che è taciturno e fiero, sen-
sibile e paziente, sobrio e tenace, più pronto ai fatti che alle parole,
sì nel bene che nel male. Medita a lungo una vendetta e la compie
con fredda ferocia, ma è fedele all'amico fino alla morte ed al sacri-
fìcio. *
Deserto, dicevo, ma solo in apparenza, perchè pur nella provin-
cia di Caltanissetta, che è la meno abitata dell'iiola, la densità della
popolazione supera, e di molto, quella della nostra provincia di
Siena, raggiungendo la cifra di 104 abitanti per chilometro quadrato.
Gli è che, sebbene molto estensivamente coltivata, la terra di Sicilia
non ha quasi un palmo di superfìcie che non sia utilizzato, sia pur
solamente come pascolo.
Ma questa densa popolazione, non riesce a togliere al paesaggio
la sua impressione di abbandono, perchè essa non abita nelle campa-
gne, in quelle case coloniche formanti centro a un podere che danno
al paesaggio toscano umbro e miarchigiano tanto vago aspetto, ma
vive strettamente addensata nei rari e grossi paesi, ove le case si ad-
dossano alle case, senza intervallo, senza respiro, con poche piazze
e solo, per eccezione, un giardinetto pubblico. E quali case! La mag-
gioranza di esse, appartenente alla classe più numerosa dell'Isola,
cioè al giornalieri agricoli, non è il più delle volte composta che da
un solo ed unico vano, dove vivono i vecchi, gli sposi, i bambini, e,
dentro alla comune dimora, non in stalle, ma a contatto quasi delle
persone, l'asino, talvolta il maiale, e le galline. Condizioni orribili
che non avrei mai potuto immaginare, se tante volte non le avessi
vedute io stesso, e fotografate.
Migliori sono le case dei « burgisi » ossia di quei contadini che
posseggono qualche palmo di terreno, ed uno o due muli e possono,
I>er conseguenza, prendere in affìtto un appezzamento da otto a dieci
ettari. La lor casa comprende, oltre la stalla, almeno due locali d'a-
bitazione, ond'è attenuata un poco l'orribile promiscuità. La quale è
tanto dolorosamente sentita dai siciliani, che, appena il contadino
può, è alla casa che destina i sudati risparmi e i vicini si mostrano*
con invidia le bianche e linde casette dèi cosidetti « americani »,
cioè delle famiglie degli emigranti, che le modeste donne siciliane
sanno tenere con ordine tanto civettuolo.
Or questi paesi, che sono grossi come città, ed hanno una media
di 10,000 abitanti, quasi tutti contadini e tutti residenti nel centro,
E IL PROBLEMA MERIDIONALE 361
si trovano a grande distanza l'uno dall'altro e quasi sempre sorgono
sulla vetta difficilmente accessibile d'un monte o in alto a una col-
lina, in posizione facilmente difendibile. È, questa, una forma anti-
chissima di colonizzazione, propria a tutti i paesi meridionali, ma
che in Sicilia è più accentuata che altrove, e dove già i primd abita-
tori la adottarono, come gli Elimi sul monte Erico, l'odierno monte
San Giuliano, che appare lontano ai naviganti; come un faro, o come
i Sicanti ad Entella, e i Siculi ad Enna, l'odierno Gastrogiovanni, ©
in moltissimi altri posti.
Ampi orizzonti si godono di lassù ed aria purissima; ma la via
ai latifondi è lunga e faticosa. In lunghe file partono i contadini
avanti l'alba, cacciando innan2d a sé l'asinelio e il mulo carichi del-
l'aratro e degli altri attrezzi da lavoro, e percorrono, una, due, sin
tre ore di strada, che la sera rifanno in senso inverso, lasciando
a casa le donne e i bambini.
Ma al tempo della mietitura, o dei lunghi lavori d'aratura, stanno
fuori anche intere settimane e durante la mietitura portano seco an-
che le donne e i bambini. In campagna, poiché non v'é posto per
loro nei casamenti del feudo, ove é provveduto per gli animali ma
non per gli uomini, dormono in rozze Capanne di paglia, o addirit-
tura a cielo aperto, riparandosi dalle intemperie (del resto reirissime
in estate) col mantello o colla famosa incerata^ ma nessun riparo tro-
vando contro l'insidiosa zanzara malarica.
Terminata a fine di giugno la mietitura, cessa per tre o quattro
mesi ogni lavoro nei feudi; il terreno prende un triste colore, giallo
per le ristoppie, nero pei maggesi, e grigio per il pascolo bruciato
dal sole; ed ogni vegetazione è sospesa. I giornalieri devono cercar
lavoro altrove, nella zona a coltura intensiva, o alberata, chiamata
fondo censito, o chiese, o luoghi, che si trova dovunque, attorno ai
paesi, dove più dove meno ampia, e rompe la desolazione del pae-
saggio. Gosicchè, a chi contemplasse l'interno della Sicilia, dall'alto
di un monte, esso gli apparirebbe, secondo la bella imagine del Ga-
mareri-Scurti, come un vasto mare dal quale qui e lì, emergano delle
isole più o meno grandi, rappresentate dai paesi e dalle loro imme-
diate vicinanze, coltivate a viti, olivi, mandorli, pistacchi o agrumi,
il tutto frammisto a cultura granaria, con fave da granella concimate.
A volte il mare sembra ritirarsi, le oasi s'ingrandiscono e nuove
isole emergono : sono i periodi di civiltà e di ricchezza, a volte il
mare s'innalza, le oasi si restringono, le isole appena sorte si sommer-
gono : sono i periodi di decadenza e di miseria. E in questo duello fra
il gran mare del latifondo e le oasi della cultura intensiva, sta tutto
il dramma dell'interno dell'isola, e si può dire di tutta la Sicilia.
Il contrasto cioè, che abbiamo notato fra la zona delle coste e l'in-
terno, si ripete nell'interno fra la zona circostante ai paesi e l'ampia
distesa del latifondo : contrasto formidabile di uomini e di cose, che
solo lentamente potrà venir modificato, col modificarsi delle forze
dalle quali deriva, e col sapiente intervento, nel corso delle stesse,
degli uomini, delle classi interessate e dello Stato.
Sul latifondo in Sicilia, l'inchiesta del 1910 potè portare ele-
menti nuovi, sia quantitativi che qualitativi che qui rapidamente
riassumerò, rimandando il lettore per maggiori particolari alla mia
r
24 VoL OCXVI, serie VI — 16 febbiraio 1922.
302 l-V TRASFORMAZIONE DEL LATIFONDO LN SICILIA
Relazione ove ho anche spieg^ato il metodo che seguii per quell'inda-
gine (1).
Risultò da essa anzitutto che i latifondi dell'estensione di 200 et-
tari e più (giacché dei latifondi minori non si potè per ragioni tecni-
che tener conto), erano in numero di 1400, occupanti una superficie di
717,729 ettari, pari al 30 per cento della superficie catastale totale
dell'Isola. Essi appartenevano a 787 proprietari, dei quali 614 ne pos-
sedevano circa la metà, ossia 335,031 ettari; mentre 173 proprietari
possedevano il rimanente, ossia 382,098 ettari. In altre parole, sopra
una popolazione totale di più che 3 milioni e mezzo ^di abitanti,
787 individui possedevano un terzo dell'Isola e 173 più' di un sesto
della stessa.
Che, se invece dell'Isola intera, noi teniamo conto soltanto della
zona intema e in questa anche dei latifondi inferiori ai 200 ettari, le
proporzioni si invertono e circa due terzi del tenitorio risulta occu-
pato dal latifondo, un terzo dal fondo censito e dai fabbricati dei
paesi. La proporzione del latifondo in certi comuni, arriva fino ai
quattro quinti del territorio. Proprietaria dei latifondi è in massima
parte l'aristocrazia di antica data o di nuova formazione, del tempo
cioè in cui si poteva acquistare un titolo nobiliare comperando il
fondo sul quale esso era radicato. Proprietari del fondo censito sono
invece, in massima parte, la borghesia e i contadini, cosicché il con-
trasto fra le due zone è anche di classi e di mentalità diverse. Con-
formemente alla loro origine feudale i latifondi vengono chiamati
dal popolo feudi e i loro proprietarii, baroni, anche se non lo siano.
L'estensione media dei 1400 latifondi, di cui rilevammo i dati,
era di 512 ettari. Il concetto di latifondo non è però un concetto geo-
metrico di unità estesa appartenente ad un solo proprietario. Vi sono
anche nell'interno della Sicilia, sebbene rare, vaste tenute coltivate
a viti, olivi e mandorli che nessuno considera come latifondi. Come
vi sono dei latifondi che appartengono a più proprietari, prò indi-
viso, perché non v'é tornaconto a ridurre la superfìcie del latifondo
al di là di un certo limite.
Caratteristiche fondamentali del latifondo sono invece il predo-
minare della cultura estensiva a cereali e pascoli, e l'unità ammini-
strativa. Chi sia stato una volta in Sicilia, non s'inganna del resto
certamente a giudicare se una tenuta sia latifondo o no. Esso si pre-
senta come un'ampia distesa di terra unita, per lo più ondulata o
collinosa, priva di siepi e di alberi, con radi cespugli e assai somma-
riamente trattata. Nel mezzo od in altro posto conN'eniente è costruita
la masseria che può bastare anche a due o tre latifondi assieme.
La masseria è un complesso di edifici formanti quadrato o ret-
tangolo chiuso, con un cortile nel mezzo. Il lato principale è occu-
pato dall'edificio padronale: i rimanenti dai magazzini, dalle stalle,
dalle abitazioni degli impiegati stabili. A volte vi è una chiesetta o
una cappella. Le finestre si aprono preferibilmente sul cortile in-
temo come quelle di una fortezza, e da fortezze, spesse volte, le mas-
serie servirono. Attorno al casamento si trova, ma di rado, un breve
tratto coltivato a mandorlo o a viti o a ortaggi : il cosidetto « girato »,
(1) Vedi Atti della Giunta Parlainenturo d'inchiesta sulle condizioni dei
contadini nel Mezzogiorno e nella Sicilia. Volume VI: Sicilia. Relazione del
Delegato tecnico (tomo 1» e 2»). Roma, Bertero, 1910.
E IL PROBLEMA MERIDIONALE 363
e vicine sorgono le rozze CcLpanne di paglia degli operai avventizi. Solo
le cavalcature e le bestie da lavoro trovano riparo nelle stalle; le grosse
mandre vengon tenute a sistema brado. I latifondi si susseguono e
si toccano l'un l'altro, sì da formare all'occhio una massa compatta
ed uniforme. Più latifondi contigui, appartenenti a un solo proprie-
tario, formano uno stato : denominazione anche questa di origine
feudale come lo estate degli Inglesi.
Ma i moderni proprietari, diversamente dagli antichi signori
feudali, e dai moderni sqvires inglesi, non soggiornano più in quei
loro ex-feudi, neanche per brevi periodi dell'anno. Tutt'al più vi
fanno delle rapide apparizioni, scortati dai loro campieri, a cavallo,
ed accolti, un po'. come ai tempi feudali, dag^li omaggi dei loro dd-
pendenti e vicini. Il rimanente dell'anno lo passano nelle ricche città
della costa, del continente, o all'estero. Sono, come si dice, degli
assenteisti. Ed Eugenio Anzimonti, ha perfettamente ragione, quando
scrive che se i latifondisti impiegassero nei loro terreni il danaro che
stoltamente disperdono al gioco o nella frivola vita delle grandi città
e risiedessero almeno per qualche mese nelle loro campagne, un
gran passo sulla via della trasformazione intensiva e civile del lati-
fondo sarebbe compiuto.
Così, invece del proprietario, è il gabellotto o affittuario che di-
rige l'azienda; e poiché il terreno non è suo e l'affitto non dura mai
più di 6 anni, egli non ha nessun interesse a introdur miglioramenti
che frutterebbero solo a lunga scadenza, ma cerca di ricavarne su-
bito il miglior reddito sfruttando la terra e gli uomini che la lavo-
rano. Ed anch'egli è assai di sovente assenteista. Vi sono infatti due
tipi di gabellotti. Il primo, che va diventando sempre più raro, è
quello dell'affittuario imprenditore che tiene l'agenda in conto pro-
prio, e la fa coltivare dai suoi garzoni stabili o da avventizi, presi
da paesà vicini. Il secondo, che è il tipo predominante, è quello del
gabellotto intermediario, la cui funzione è quasi esclusivamente am-
ministrativa. Egli subaffitta cioè, o dà a partecipazione, tutto o la più
gran parte del terreno, riservandosi tutt'al più i lavori del maggese
o l'industria armentizia sulla parte del fondo destinato a pascolo.
I patti agrari che si usano nei latifondi, variano secondo i sistemi
di rotazione. Il tipo predominante di rotazione è quello a terzeria,
cioè un terzo a grano, un terzo a pascolo, un terzo a maggese : l'an-
tico sistema virgiliano del novale. Più recente è ìa rotazione quin-
quennale che richiede maggior impiego di animali e di concime.
Nella rotazione triennale, il terreno destinato a ricevere il grano,
viene dato anno per anno ai contadini che lo seminano. Io coltivano,
e lo mietono, sia verso un compenso fìsso, per lo più in natura, nel
qual caso si chiama sistema a terratico o verso una quota parte del
prodotto, nel qual caso si chiama contratto a metateria^ vocabolo si-
mile a mezzadria, ma che non ha con questa nulla a che fare.
II contenuto effettivo dei contratti, specialmente prima che l'e-
migrazione sfollasse un po' il mercato del lavoro, era assai oneroso
per il contadino, sul quale i gabellotti e i loro agenti non si vergo-
i^navano di accumulare angherie e soprusi d'ogni genere.
Il terzo del fondo destinato a pascolo è coperto dalle mandre del
abellotto, se questi conduca egli stesso un'iTidustria armentizia, ma
lù di frequente viene affittato ad altri, specialmente a società di pa-
tori.
364 LA TRASFORMAZIONE DEL LATIFONDO IN SIQLIA
I lavori del maggese sono fatti di solito dal gabellotto con gli ani-
mali suoi propri, oppure vengon dati a eseguire ai contadini con i
loro animali, nel qual caso l'affitto è biennale. Non sempre il conta-
dino possiede dlue muli; e allora egli si associa a un compagno, op-
pure aggioga un mailo e un asino o un asino e una vacca, e questa
strana coppia trascina un aratro ancor oggi in nulla dissimile dal-
l'aratro di Trittolemo, quale vediamo riprodotto sulle antiche monete
greche dell'Isola, l'aratro-chiodo cioè, che scalfisce il terreno a 20 o 25
centimetri, ma non vi penetra.
Come, con tali sistemi, e con impiego addirittura minimo o
nullo di ricostituenti, il suolo, dopo tanti e tanti secoli, non abbia
sensibilmente perduto della sua capacità produttiva, che pare sia
sempre oscillata fra le sette o le otto sementi, è un mistero; ma un
mistero che dà bene a sperane se avvenga, e nessuna ragione essen-
ziale vi si oppone, che si applichino alla coltura siciliana i moderni
sistemi scientifici dell'arido-coltr \ della quale abbiamo in Italia
autorevoli e competentissimi inte^i,/eti, come il compianto professor
Ulpiani, il prof. Jovino ed altri.
Ma il miaggese non si fa sempre con gli animali. A volte il ter-
reno che succede al pascolo vien dato ai contadini che lo rompono
con varie zappature, poi lo seminano con grano d'inverno, e dopo la
mietitura lo zappano di nuovo, varie volte, per seminarlo la prima-
vera seguente con grano estivo, la cosidetta timinia. Ed è il sistema
più estenuante tanto del terreno che di chi lo lavora.
Nella rotazione quadriennale e quinquennale, che è la meno dif-
fusa, lo stesso appezzamento di terreno vien dato in affitto o in par-
tecipazione ai contadini per uno o due anni, talvolta anche per l'in-
tero ciclo produttivo. I contadini che assumono questo contratto,
devono disporre di un certo capitale e di uno o due animali almeno,
e stanno nella scala sociale un gradino o due più in su dei giorna-
lieri, dai quali si distinguono anche nel vestire e nel tenor di vita, e
son chiamati « burgisi ».
Importanza quasi uguale alla cerealicultura, aveva un tempo
l'industria armentizia, che della prima rimane sempre il comple-
mento necessario, per quanto, ora, non abbia più l'estensione di una
volta, e sia specialmente diminuito il numero dei bovini.
Essa accennava tuttavia da ultimo a rifiorire, ma è insidiata gra-
vemente da uno del peggiori flagelli sociali dell'Isola: dalVabigeato,
ossia dal furto di animali che porta con sé un doloroso strascico di
omicidi, di vendette, di ricatti.
L'abigeato è strettamente connesso col sistema dominante del-
l'industria armentizia che è transumante e brada, coll'esistenza della
mafia, e con l'abito mentale della popolazione poco di^X)sta ad aiu-
tare la forza pubblica nella scoperta e nella repressione del reato,
più proclive a farsi giustizia da sé, o a trovare un accomodamento
anche oneroso, coi malandrini, i quali intessono la loro tela in tutte
le parti e fra tutte le classi dell'Isola.
Le mandre,* composte promiscuamente di pecore, bovini ed
equini, trasmigrano, secondo le stagioni, dalla montagna alla mez-
zalina, alla marina e viceversa, custodite da pochi pastori. Durante
la notte qualcuno si avvicina, immobilizza i guardiani o ne compera
l'acquiescenza, e si porta via un certo numero di animali che di giorno
nasconde nelle grotte o mescola ad altre mandre di pastori compia-
E IL PROBLEMA MERIDIONALE 365
centi e cointeressati. Poi, o manda al proprietario una letterina con
cui l'avverte, che, deponendo in un certo posto una somma tale, egli
IDotrebbe, dopo un certo tempo, ricuperare i suoi animali, oppure li
vende addirittura in città lontane, dopo averne alterato il contras-
segno.
E questo trafl&co, nel quale eccelle la mafia, è cosi sapientemente
organizzato, che il Governo, per quanti sforzi abbia fatto e quanti
sistemi abbia escogitato, non è mai riuscito, non dico a reprimere,
ma neanche a diminuire. Anzi, negli ultimi anni si nota in esso un
doloroso rincrudimento.
Questo è l'ordinamento essenziale e tradizionale tuttora in vigore
nel latifondo siciliano, questo l'ambiente che ne spiega la perma-
nenza traverso i secoli. Esso subì delle modificazioni nel passato e
ancor più ne subisce ora, sia quantitative c"he qualitative. Perpetua
fu l'oscillazione fra esso e il fondo censito : ma, se questo guadagnava
terreno sul primo, in periodi di prosperità e di accrescimento della
popolazione, quello si rivaleva estendendo il suo dominio ai boschi
e modificando con ciò a suo favore il regime delle acque e del clima,
perchè ove è siccità, più difficile diventa l'allargarsi della piccola pro-
prietà e della cultura intensiva. Ma, anche nella struttura intema
del latifondo, andava negli ultimi anni disegnandosi un promettente
risveglio, nel senso di un progressivo avviamento a una cultura più
intensiva e più razionale.
Tanto dei mutamenti quantitativi che qualitativi, furono causa
od occasione, provvedimenti legislativi o, ben più efficaci di questi,
fattori naturali e sociali, quali l'accrescimento della popolazione, l'e-
migrazione, l'evoluzione dello strumento tecnico e la lenta ma sicura
trasformazione degli spiriti da una mentalità feudale a una più mo-
derna.
I provvedimenti legislativi principali, furon quelli che ordina-
rono la quotazione dei demani comunali e la censucizione dei beni
ecclesiastici. Entrambi miravano allo scopo di restringere il latifondo
e di allargare la piccola proprietà facendone partecipi i non abbienti.
Ma è doloroso dover confessare che tanto il Governo borbonico,
quanto il Governo nazionale, non riuscirono nellintento. Essi furono
meno fortunati o meno abili di quei baroni feudali, che colle colo-
nizzazioni dei secoli decimosettimo e decimottavo, erano riusciti a
fondare delle piccole borgate attorno ai loro castelli, concedendo in
enfiteusi ai contadini alcuni terreni contigxii. I governi successi al
regime feudale perdettero cioè un'occasione magnifica di creare una
classe di piccoli proprietari lavoratori, che sarebbe stata garanzia di
ordine, di sicurezza e di prosperità all'Isola.
I beni demaniali, che per rappresentare il corrispettivo dei diritti
d'uso, goduti dai cittadini sui demani feudali, sarebbero dovuti pas-
sare ai cittadini stessi, e specialmente ai non possidenti, e fra questi
specialmente ai più poveri, come giustamente voleva la legge, ven-
nero in realtà accaparrati, nella grande maggioranza, dai ricchi, con
frodi, violenze e minacce. Le quote più lontane finirono per ingros-
sare gli ex-feudi, le più vicine divennero presto o tardi proprietà dei
piccoli signorotti di paese.
Uguale sorte toccò alla censuazione dei beni ecclesiastici voluta
(riprendendo un'antica idea dei re aragonesi) da Giuseppe Garibaldi
nel 1860, e poi confermata con legge dello Stato italiano nel 1862.
36H LA TRASFORMAZIONE DEL LATIFONDO IN SIGILLA
Anche qui si ebbe lo stesso lagrimevole risultato. I contadini furono
tenuti lontani dalle aste con minacce o violenze, o con l'agitar loro
dinanzi lo spettro della scoiminica, oppur, partecipando alle aste, fu-
rono eliminati daira^giudiicazione con mille sotterfugi e camorre, o,
giunti, malgrado tutto, in possesso dei terreni, furon obbligati ad ab-
bandonarli ben presto, sia perchè mancavano di capitali, o perchè li
dovevano pagare troppo cari agli usurai che li spiavano al varco.
Il Governo vedeva e taceva. Esso era divenuto schiavo della
nuova borghesia parlamentare, come l'antico lo era stato dell'aristo-
crazia. La sua scelta fra una massa priva di organizzazione e di voto,
ignorante ed analfabeta, da secoli spregiata e \'11ipesa qual'era quella
dei giornalieri e dei contadini, antichi servi della gleba, e la nuova
borghesia, che sola mandava deputati alla Camera e che poteva col
suo voto compatto decidere della vita dei Gabinetti, la scelta, dico,
non poteva purtroppo essere dubbia. Perchè fosse stato altrimenti,
sarebbe bisognato che lo Stato avesse fin da principio avuto un ca-
rattere, una volontà e una finalità ben diverse.
Ma la vittoria non fu allegra per i vincitori, giacché la lotta si
ripetè nel seno stesso della borghesia, la quale si contendeva la preda,
da famiglia a famiglia, da clientela a clientela, da partito a partito,
avvelenando tutta la vita sociale dei comuni, destando sospetti, su-
scitando calunnie, alimentando odii e vendette senza fine, onde giu-
stamente il senatore Giustino Fortunato osserv^ava che questa dei
demani comunali fu la vera tragedia intima del Mezzogiorno.
Pur tuttavia, qualche bene fecero tanto le quotizzazioni che le
censucizioni, giacché, liberando molti terreni dagli usi promiscui e
facilitandone il passaggio a chi in ogni modo li sapeva meglio sfrut-
tare, giovò indubbiamente alla produzione, senza tacere che qualche
briciola di essi andò pure, e rimase, ai coltivatori diretti.
Altri avvenimenti intanto maturavano. La popoleizione cresceva.
Fra il 1871 e il 1881 l'accrescimento fu del 13 per mille, nel decennio
susseguente fu dell'U per mille, cioè sensibilmente superiore alla
media del Regno. L'avevano reso possibile il dissodamento dei boschi
(che però fu come un ammazzar la gallina per aver l'uovo), la ridu-
zione dei pascoli e l'aumentata domanda dei prodotti delle vigne,
degli agrumeti e degli uliveti siciliani, che presero perciò rapido svi-
luppo e richiamarono molta mano d'opera dall'interno.
Ma improvvise e tremende crisi, che colpirono uno dopo l'altro
quei prodotti, troncarono la subitanea prosperità. Le coste e le zone
a cultura intensiva non poterono piìi assorbire l'usuale contingente
di lavoratori dall'interno. La popolazione fu vicina a superare il li-
mite delle sussistenze, e i salari divennero spaventosamente ed inu-
manamente bassi. Scoppiarono i primi tumulti, si formarono i fasci,
la rivolta divampò fra il 1893 e il 1895 e il brigantaggio rivisse in più
trista forma.
Fu questo il momento più tragico della moderna storia di Sicilia.
Francesco Crispi, che era allora al potere, propose un disegno di
legge per il frazionamento del latifondo, che però non venne mai vo-
tato, il che non fu male, per i molti e gravi difetti e lo sbagliato in-
dirizzo che rispecchiava, mésso così bene in luce dal nostro compianto
Valenti.
Un commissario speciale veniva mandato nell'Isola che poco a
poco si chetava, non perchè domala, bensì perchè una valvola prov-
E IL PROBLEMA MERIDIONALE 367
videnziale le si era improvvisamente dischiusa nell'emigrazione, ctie
fu il fatto sociale più importante per il Mezzogiorno nel ventennio
pi*ec€dente alla guerra.
Debole dapprima, l'emigrazione andò rapidamente aumentando
e in certi momenti parve divenuta quasi una frenesìa. Dalle coste e
dairintemo, dalle città e da ogni più remoto angolo della Sicilia,
si videro scendere i contadini, prima isolati, poi a frotte, e traversare
l'Oceano, lasciando la terra cosi ardentemente amata, ma che non
aveva più posto per loro. Si videro affrontare tutte le ingiustizie, tutti
i tormenti, tutte le infamie che si abbattevano, allora si>ecialmente,
sui nostri emigranti, figli d'una terra che una volta aveva pur man-
dato per il mondo dominatori e conquistatori, non esecutori di opere
servili. Seppero andar incontro alle paurose incognite di paesi lon-
tani, che essi non conoscevano, i cui abitanti parlavano una lingua
ad essi incomprensibile e dai quali venivano palesemente considerati
come e^eri inferiori.
E seppero vivere, laggiù, nelle grandi città americane, adattan-
dosi ad ogni più umile mestiere, o, maneggiatori impareggiabili della
zappa e del badile, costruirono canali e strade. Vivevano con nulla,
dormivano ammassati in orribili locali : nessun sacrifìcio sembrava
loro soverchio, se avesse giovato a diminuire la miseria delle fami-
glie rimaste a casa, se avesse loro permesso di tornare nell'Isola, non
vinti, ma vincitori. Il loro numero andava sempre crescendo. Nel
1906 superava i centomila. *
Or sapete quanto denaro questa oscura, laboriosa, sobria e su-
blime gente seppe inviare in Sicilia? Vi dirò una cifra sola: quella
per il 1907, l'ultima che potei accertare con una minuta inchiesta
presso gli uflBci postali dell'Isola ; centosette rmlioni di lire. E questa
cifra non solo non è esagerata, ma ho motivo di ritenerla un poco
inferiore al vero, perchè non tutte le rimesse si poterono con suffi-
ciente esattezza calcolare, e nel dubbio si preferì la cifra più bassa.
Sopraggiunta la crisi americana del 1907 e del 1908, l'emigra-
zione subì una stasi, poi riprese nel 1911, nel 12 e nel '13, nel quale
anno superò tutte le cifre precedenti con 146,000 emigranti, pari al
40 per mille della popolazione totale.
Or cosa abbia significato per la Sicilia e'per tutto il Mezzogiorno
l'emigrazione non può facilmente imaginare, chi non ne abbia visto
con i suoi occhi gli effetti. Essa fu come una catapulta, ritmicamente
maneggiata da una massa silenziosa che lentamente, ma sicuramente,
demoliva l'antico mondo feudale per instaurare il nuovo mondo
moderno.
Primi a sentirne gli effetti, furono i nuovi signori feud€ili, i cap-
peddi o galantuomini, i piccoli proprietari civili cioè, delle città di
provincia, che nel loro paese erano abituati a fare il nuvolo e il se-
reno, cianciando di politica, mentre sotto il solleone il contadino,
legato da patti angarici, lavorava per loro.
QueWj orna taro, che pochi anni prima essi erano abituati a veder
implorare a gran mercè un poco di lavoro per 15 soldi al giorno, e un
po' di pane, si presentava ora a chiedere se non avessero per a^"ven-
tura da vendergli per danaro sonante, qualche pezzo dei loro terreni.
E molti vendettero infatti : dovettero vendere perchè il cresciuto li-
vello dei salari concedeva ormai troppo meschino -margine di rendita.
3t>8 LA TRASFORMAZIONE DEL LATIFONDO IN SICILIA
In tal modo in pochi anni passò in proprietà dei contadini, per
loro merito esclusivo, e in grazia ai duri sacrifìci fatti, molto più
terra che non avessero potuto conseguire in due secoli di quotizza
zioni e censuazioni statali.
Ma se, coi denari d'America, i contadini potevano acquistare ter-
reni dai proprietari borghesi del fondo censito, o rosicchiare un po'
del grande osso del latifondo vicino ai j>aesi, non potevano intaccarne
la grande massa, compito di troppo superiore alle forze -«isolate del
singolo. Pensarono allora di unirsi in cooperative per eliminare il
gabellotto intermediario e prendere essi stessi in affitto diretto i lati-
fondi. Sorsero così le prime affittanze collettive, la mag"gior parte a
conduzione divisa, che ebbero ed hanno oltre che un rilevante valore
economico, un inestimabile valore educativo. Poche, ancora, quasi
una goccia d'olio sulla superfice del latifondo, sono, come la goccia
d'olio, destinate ad allargarsi. Ma anche i latifondi e gli affittuari o,
quanto meno, i migliori fra essi, non subirono del tutto passiva-
mente la nuova situazione, ma cercarono di riparare all'aumentato
costo di produzione, col perfezionare i metodi di cultura.
Da una ricerca analitica compiuta dallo scrivente nel 1909 a
complemento della precedente, su 539 latifondi distribuiti nelle
varie parti dell'Isola, risultò che quasi il 20 per cento dei pro-
prietari ck\ affittuari, stavano trasformando l'ordinamento dei loro
latifondi in senso relativamente intensivo, mig-liorando le rotazioni,
col sostituire al maggese vuoto il maggese di sulla o di altre le-
guminose da foraggio, introducendo una stabulazione almeno par-
ziale, aumentando le scorte vive, costruendo case coloniche, adot-
tando aratri e trebbiatrici moderni, e abbandonando al pascolo i ter-
reni d;i cui era stata possibile la cultura a grano solo in regime di
bassi salari: sostituendo, insomma, a un diminuito impiego di forza
di lavoro, diventata troppo cara, una maggior quota di capitale.
Ma quante volte dovettero questi animosi arresiarsi o desistere
dall'impresa \y&T i tremendi ostiicoli che incontravano: mancanza di
strade, regime funesto o deficienza di acque, malaria, malandrinag-
gio, abigeato, mafia, ionUinanza dei centri abitati, e scarsezza di
buoni elementi tecnici e direttivi e, assai spesso, difficoltà di pro-
curarsi mano d'opera sufficiente. C'era davvero di che scoraggiare i
pili arditi.
L'inchiesta agraria, allora in corso, mise in luce questi ed altri
fatti: mostrò cosa fosse xeramente il problema del latifondo; e
come fosse indissolubilmente connesso con tutto il probltM!i<i meri-
dionale, e di quali difficoltà esso fosse perciò materiato.
Non leggi speciali essa chiedeva, ma che le leggi esistenti fos-
sero osservate, che fossero in primo luogo restaurate l'autorità e la
moralità dello Stato, servo troppe volte delle clientele locali, per basso
interesse parlamentare, e complice perciò esso stesso della mafia,
che col gioco di quelle clientele è strettamemle connessa.
Mostrò, che, se il Governo nazionale aveva fatto in pochi decenni
più (li quello che il borbonico non avesse compiuto in secoli, ciò non
era tuttavia ancora abbastanza? e che bisognava sopratutto distri-
buire più equametne le imposte e le spese fra le varie regioni d'Italia.
Deplorò che specialmente la erogazione delle somme votate per le
bonifiche, per i rimboschimenti, i bacini montani, i porti, le strade,
.si svolgesse fiaccamente, senza un piano organico, e con personale
E IL PROBLEMA MERIDIONALE 3t>9
non abbastanza scelto, talvolta, anzi, inviato in Sicilia quasi in pu-
nizione.
Mostrò l'urgenza di provvedere alla scuola tanto elementare che
professionale, diventate insufficienti, ora che i contadini vi manda-
vano volonterosamente i loro figli, per i quali non vi era sempre po-
sto, perchè le scuole erano state costruite solamente per una mino-
ranza di benestanti; e in molti comuni versavano in condizioni igie-
niche on-ibili.
Mostrò la necessità d'intensificare l'opera del risanamento fisico,
combattendo la malaria e il tracoma, riformando i regolamenti igie-
nici, provvedendo agli ospedali, alle fognature e alle acque potabili;
e di affrettare la più difficile azione del risanamento morale, resti-
tuendo alle popolazioni la fiducia nell'autorità della legge e dello
Stato, senza la quale la mafia e l'omertà continueranno a durare ed
imperversare senza fine.
Né l'inchiesta si nascondeva, che per attuare questo programma
pur elementare e minimo, non sarebbe bastata la buona volontà degli
Enti locali, ma che sarebbero occorsi ingenti capitali. E l'Italia di al-
lora sembrava sulla via di accumularli. E li avrebbe accumulati se
avesse potuto continuare in una politica di pace, di raccoglimento,
di lavoro.
Senonchè le nazioni non sono libere di scegliere la loro ora. Per
esse non vi è riposo a scadenza fissa. Se non vogliono essere sopraf-
fatte o prevenute dalle più forti, debbono lasciare il porto, dove vo-
lentieri avrebbero ancora indugiato, e debbono riprendere a navi-
gare verso l'ignoto, per la grandezza e per la gloria.
L'ora d'Italia suonò meno di due anni dopo compiuta l'inchiesta
agraria; ma la guerra di Libia non doveva essere che il preludio di
un'altra più formidabile guerra, nella quale l'Italia entrò per ricupe-
rare i suoi figU irredenti, per conquistarsi più largo respiro sulle Alpi
e sul mare, per assicurare la sua libertà e la sua indipendenza. Tutta
la sua vita nazionale fu concentrata in quelli anni nello sforzo tre-
mendo; ma l'Italia vinse. Vinse con la collaborazione di tutto il suo
popolo e di tutte le sue regioni, ora veramente unite nel vermiglio
cemento del sangue. Che, se i frutti della vittoria le furono contra-
stati o lesinati, uno non le potrà mai essere contrastato : la gloria di
aver superato sé stessa.
Tornano ora gli antichi problemi, e la loro soluzione si prospetta
diversa da quella che sarebbe stata prima della guerra perchè son
cambiati gli uomini, si sono mescolate le classi sociali, furono in-
vertiti o sovvertiti molti valori; e, 'mentre ancora ignoriamo di quale
portata siano questi mutamenti, una cosa appare spietatamente certa,
cioè che l'enorme distruzione di ricchezza renderà assai più difficile
di prima la soluzione di quei problemi che richiedano grande impiego
di capitali, fra i quali è indubbamiente il problema del latifondo, e
in genere il problema meridionale. Ad una parziale soluzione di que-
sto, tuttavia, la guerra ha portato un contributo non ancora sufficien-
temente avvertito dai più.
È avvenuto cioè, entro le classi agrarie, uno spostamento di for-
tune, che deteminò uno spostamento di proprietà a favore degli affit-
tuari grandi e piccoli, nel pagamento dei canoni e l'aumento dei
prezzi nella vendita dei prodotti.
370 LA TRASFORMAZIONE DEL LATIFONDO IN SIOLIA
In seguito a questo fenomeno, «« molti latifondi », come mi scrive
l'illustre amico prof. Riccobono, dell'Università di Palermo, « e in
« misura assai maggiore che non fosse mai avvenuto, cambiaron di
« roceaite dominio, passando dall'aristocrazia e borghesia cittadine
« ai contadini, ai gabellotti, alla borghesia di campagna, divisi in lotti
« da 10 a 20 ettari o da 50 e 100 e al prezzo da 7 o -8000 lire l'ettaro.
« Paralellamente rialzano i salari agricoli, che raggiungono conmne-
« mente il livello di 15 lire. I contadini hanno danaro a bizzeffe e lo
« offrono a manciate, per avere la terra ». E la cosa mi viene confer-
mata anche da altre parti.
Vuol dir, tutto ciò, che l'ultima ora del latifondo sia suonata e
che il problema siciliano sia risolto?
Ahimè, no : queste stesse nuove proprietà dei contadini potranno
convertirsi in passivo, se le condizioni generali non vengano radical-
mente migliorate. La piccola proprietà ha bisogno, per prosperare,
di un ambiente civile, il quale non manca solamente nel cuore del
latifondo, ma anche nella zomi intermedia fra questo e il fondo cen-
sito, e nella quale i contadini hanno fatto i nuovi acquisti.
Inoltre non bisogna dimenticare che la grande maggioranza dei
giornalieri, i quali formano i cinque settimi della popolazione agra-
ria dell'Isola, non dispone dei mezzi che permisero ai contadini be-
nestanti, ossia ai « burgisi », di comperarsi terreni a prezzi elevati
sempiie, ma lalvoita favolosi.
La grande massa dei giornalieri non può concedersi questo lusso,
e la sua fame di terra rimarrà insoddisfatta. Meno ancora è possibile
imaginare che tutta la Sicilia possa venire divisa in piccole proprietà.
Il latifondo non è un portato capriccioso degli uomini, ma una ne-
cessità economica dipendente da complicate condizioni naturali e so-
ciali, che solo parzialmente e lentamente, e con molta fatica e di-
spendio si possono mutare. Per lungo tempo il latifondo rimarrà una
unità culturale indivisibile. Esso può però venir trasformato nel suo
intimo e già ne vedemmo gli indizi, e nulla vieta che di questa tra-
sformlazione si facciano esecutrici anche le affittanze collettive dei
contadini nelle quali i socialisti vedono, con soverchio ottimismo o
dottrinai'ismo, le uniche eredi degli attuali proprietari e gabellotti.
Noi pensiamo, invece, che in regime di civile concorrenza vi sia
utilmente posto per gli uni e per le altre, pur augurandoci che le coo-
perative, questa nobilissima ma diflBcilissima fra tutte le forme d'im-
presa, perchè più delle altre richiede autolimitazione e disciplina
dei componenti, guadagnino terreno e si estendano sempre di più.
Ma, si trovino i latifondi nelle mani dei proprietari, o dei gabel-
lotti, o delle cooperative, l'ambiente agricolo e sociale, che ne deter-
mina l'ordinamento, rimane quello che è, e se non verrà modificato,
i latifondi non potranno né trasformarsi, né migliorarsi, e le nuove
piccole proprietà dovranno fallire.
Cosa vorrebbe ciò dire per l'Isola', non è chi non veda, tenendo
specialmente presente che l'antica valvola di sicurezza dell'emi.Era-
zione verso gli Stati Uniti d'America, ha ormai carattere molto pre-
cario. Né può un popolo che si rispetta, fondare il suo av\-enire sulle
vicende dell'emigrazione della sua mano d'opera. Il canmiino dell'e-
migrante non è una marcia da conquistatori, ma un duro e doloroso
Calvario per tutti. Avanti, dunque! Si dia virilmente opera alla rico-
stituzione nazionale ed al risorgimento del Mezzogiorno. E si faccia
E IL PROBLEMA MERIDIONALE 371
questo coU'applicazione delle leggi antiche o con leggi nuove, pur-
ché si faccia.
Fra i progetti di legge nuovi, uno ve n'è che meriterebbe qui at-
tento esame. Alludo al progetto Falcioni-Micheli, per la trasfonna-
zione del latifondo e la concessione di terre ai contadini. Esso prevede
la espropriazione per ragioni di pubblica utilità la concessione ob-
bligatoria in enfiteusi o in godimento temporaneo a favore di conta-
dini isolati, o riuniti in cooperative, di terreni estensivamente colti-
vati, purché il proprietario non s'impegni di intraprenderne subito
egli stesso la bonificazione e purché superino l'estensione di 300 et-
tari, se entro un raggio di 10 chilometri dall'abitato, oppure di 100 et-
tari, se entro un raggio di 5 chilometri.
Organo principale della riforma dovrebbe essere un Istituto
nazionale per la colonizzazione intema, il quale verrebbe finanziato
dagli istituti di emissione, da altri stabilimenti pubblici.
Esso dovrebbe provvedere, non soltanto alla quotizzazione e alle
concessioni in godimento temporaneo dei terreni, ma altresì al loro
bonificamento. E quest'azione dovrebbe, a seconda dei casi, prece-
dere la prima, o svolgersi parallelamente.
Per quanto io non sappia superare quell'invincibile senso di dif-
fidenza che è quasi connaturato in ogni economista contro ogni ten-
tativo che presuma di risolvere con alcuni articoli di legge le più
complicate situazioni economiche e sociali, diffidenza che le tristi
prove fatte durante la guerra dal funzionamento degli organismi
statali, hanno solamente accresciuto, non vorrei tuttavia coildannare
senz'altro questo progetto, che assecondando tendenze già rigogliose
e gagliarde, potrebbe accelerarne il ritmo. Penso anzi che con qual-
che modificazione, del genere di quelle che il prof. Serpieri dell'Isti-
tuto Superiore Forestale, acutamente suggerì, potrebbe venire accolto.
Ma non facciamoci, per carità, illusioni sulla sua portata ne sulle
difficoltà di trovare i fondi necessari. Non dimentichiamo, soprat-
tutto, che il problema del latifondo non è se non una parte del for-
midabile problema meridionale che è insieme problema tecnico ed
economico, morale e politico.
Anche senza leggi speciali, il latifondo si trasformerebbe, e la
piccola proprietà si estenderebbe, se si creassero condizioni di am-
biente favorevoli all'intensificazione e alla industrializzazione del
primo, alla permanenza e alla prosperità della seconda : come senza
queste condizioni le migliori leggi speciali naufragherebbero. Ma per
creare queste condizioni che .rappresentano il minimo necessario bi-
sogna che almeno almeno venga attuato quel programma minimo che
l'inchiesta del 1910 aveva già indicato. Senonchè tale attuazione si
presenta ora assai più difficile che prima della guerra, sia per la molta
ricchezza andata i)erduta, sia perchè non il solo Mezzogiorno, ma
tutta Italia si trovano in una situazione anormale.
Il problema del Mezzogiorno, in una parola, é divenuto parte di
un problema più vasto e più alto : quello della ricostruzione e della
salvezza d'Italia: d'un'Italia fatta più grande dalla guerra e dalla
vittoria, posta perciò dinanzi a possibilità ma anche a difficoltà nuove,
che solo dal concorde volere della Nazione potranno essere superate.
L'Italia poteva prima della guerra guarire sé stessa guarendo il
Mezzogiorno; ora non può guarire il Mezzogiorno se non guarendo
sé stessa. Giovanni Lorenzoni.
PIO XI E LA NUOVA SITUAZIONE POLITICA DEL PAPATO
Il gesto col quale Pio XI ha benedetto dal loggiato esterno di
S. Pietro il popolo di Roma è stato certo un gesto rivelatore: non
nel senso che a molti è sembrato di costituirne l'interpretazione im-
mediata, nel senso cioè ohe quella benedizione rivelasse un papa ita-
lianissimo, un papa nel cui convincimento il contrasto fra Chiesa e
Stato italiano sia ormai risolto: ma in un senso più ampio, e se non
per l'Italia per la Chiesa più decjisivo. Quella iDenedizione ha mo-
strato un uomo che non esita a spezzare una tradizione, a passar
sopra al precedente dei tre papi succedutisi sulla cattedra di S. Pietro
dopo il '70.
Chi non abbia presenti le linee direttive secondo cui si svolge
tutta la> vita ecclesiastica, ed in particolarissimo modo la vita che
pulsa nel cuore della cattolicità, negli organi direttivi della Chiesa
universale, non può intuire quale sia nel mondo chiesastico la forza
della tradizione, quella delle stesse forme di consuetudine da cui
esula ogni contenuto spirituale. Il precedente, la prassi sono barriere
insuperabili, guide di acciaio che contengono la violenza delle in-
doli più accese, che raffrenano le manifestazioni degl'ingegni più
vivi. Le maggiori autorità ecclesiastiche, la stessa suprema autorità
pontifìcia, sono costrette, incatenate da questa forza della tradizione,
dalla timidezza di fronte ad ogni novità, specialmente quando po-
trebbe rappresentare un passo nel vuoto. -Ma anche i non credenti,
osservando la storia della Chiesa, devono credere se non ad un suo
fato provvidenziale, ad una meravigliosa legge interiore di conser-
vazione. Nelle ore decisive, la cerchia della tradizione si rilascia,
fresche energie foggiano istituti nuovi, adatti ai nuovi bisogni. All'in-
domani di ogni periodo in cui gli spiriti più scaltri e chiaroveggenti
hanno guardato alla Chiesa come ad una moritura, incapace di poter
mutare, di adattarsi ai nuovi temipi, la Chiesa inizia una rifioritura
miracolosa di giovinezza, lascia cadere a terra i rami morti, esprime
dal tronco millenario nuovi virgulti, mostra una linfa vitale.
L'ottocento è stato uno di quéi secoli in cui la Chiesa è sem'brata
ai più un organismo ormai appartenente al passato: la fede cieca
nella scienza, nella scienza che avrebbe dovuto strappare ogni se-
greto al Cielo, rendere vano il nome di mistero, annullare quel campo
dell'inconoscibile in cui ogni religione getta le sue radici profonde,
contribuiva per molto a far considerare la Ohiesa una moritura. Ma
l'ottocento fu certo per la Chiesa — tolto che negli ultimissimi anni
— secolo di letargo, secolo in cui la forza bruta della tradizione,
PIO XI E LA NUOVA SITUAZIONE POLITICA DEL PAPATO 'ój'ò^
raltaccamento al passato, parv^ero tutto schiacciare. La grande crisi
europea del secondo decennio del secolo che corre ha rapidamealie
compiuto il risveglio, il miracoloso ringiovanimento della Chiesa:
come all'inizio del secolo xra, allorché tutta la Casa di Cristo sem-
brava pericolante, la Chiesa pare d'un tratto richiamata alla coscienza
dei suoi doveri e delle sue possibilità.
Il primo gesto di Pio XI sembra mostrai^ ch'essa ha trovato il
pastore capace di guidarla in quelli che saranno certo anni di atti-
vità giovanile, forse anni di vittoria.
•
• • •
Più ancora che quel gesto, affida la conferma del cardinale Gsl-
sparri al posto di segretario di Stato.
11 segretario di Stato di Benedetto XV ha certo benemerenze
grandi verso l'Italia : ne vanta delle mag-giori verso la Chiesa : non
ha avuto paura di battere vie nuove.
L'opera di codificazione del diritto della Chiesa, prima che da
Pio X, da altri papi era stata voluta: altre volte era stata iniziata
attuata condotta in porto: all'ultimo momento era mancato il co-
raggio di promulgare il codice, che doveva fatalmente o riaffermape
pretese della Chiesa contraddette dai governi e dalla opinione pub-
blica, o sia pure implicitamente sancire la rinuncia a quelle pretese.
Se Benedetto XV osò, non è ardito supporre che sul suo « vt^lio »
molto potè il consiglio del segretario di Stato che della codificazione
era stato il massimo artefice.
La diplomazia tradizionale della Chiesa doveva mascherare, na-
scondere ogni scacco : nessun passo, nessun tentativo era mai attuato
in modo formale, reso noto al pubblico, se non ne fosse assicurato il
successo : a prescindere dai Libri bianchi pubblicati a guerra aperta,
le sconfìtte della diplomazia pontificia non erano acquisite alla storia
se non attraverso le indiscrezioni. Era questa una rigorosa linea di
condotta, e nessuna ragione di umanità o di pietà, come nessun amore
del bel gesto, potevano farvi derogare. Fu sotto il pontificato di Be-
nedetto XV che per la prima volta si vide un pontefice inviare,
sfònz'aver fatto scandagliare preventivamente il. terreno, note ai Go-
verni, anche non riconosciuti dalla S. Sede, e far seguire alle note
le repliche, non preoccupandosi dell'insuccesso dei passi né dello
scorno diplomatico di Governi che rispondevano tardi e in termini
vaghi o non rispondevano affatto : proprio negli ultimi giorni di quel
pontificato, a proposito del dispaccio diretto al Presidente degli Stati
Uniti in occasione della Conferenza di Washington, si parlò ancora
d'insuccesso della diplomazia pontificia. Ma attraverso tutti quelli
che secondo il protocollo delle cancellerie erano effettivahnente insuc-
cessi, il segretario di Stato aveva riallacciato il contatto della S. Sède
con i popoli, le aveva assicurato un posto tra le forze creatrici della
storia di domani.
La prassi della Curia pontificia era tutto un tessuto di reticenze •
nulla doveva penetrare al di fuori, neppure le malattie del pontefice
finché egli non fosse agli estremi: gli organi ufficiali della Curia
avevano per compito precipuo di opporre smentite a quanto gli altri
giornali pubblicas^ro intomo a ciò che seguiva entro le mura del
374 P^O XI E LA NUOVA SITUAZIONE POLITICA DEL PAPATO
Vaticano : il segretariato del Gasparri segnò un deciso mutamento di
rotta: quegli ch'è il ministro degli esteri della S. Sede apparve a
contatto del pubblico, della vita, quasi come un qualsiasi ministro
(Uigli esteri di repubblica o di regno democratico : tutti si fkiì per
sentirlo più vicino: anohe gl'indifferenti, quelli stessi che si osti-
nano a considerare il Vaticano come il sepolcro dov e composto un
passato senza possibilità di risurreaione, dovettero quasi giocoforza
intenderne la voce.
Pio XI, che al Gasparri molto deve della sua rapida fortuna,
compiutasi tutta nel ciclo di pochi anni, ha confermato il suo grande
elettore nel posto di segretario di Stato. È una garanzia di» più, che
non mancheranno alla Chiesa in quella che sembra essere l'ora pro-
pizia alla sua rifioritura miracolosa, i dirigenti capaci di guidarla
per nuovi sentieri.
*
• *
Papato religioso o papato politico? Mai come in questo inizio di
fx>ntifìcato il dilemma tradizionale ha avuto meno ragion d'essere.
Ghè se nei periodi di calma, nei periodi di torpore, la distinzione
può acquistare qualche rilievo e rispondere in certo modo allo stato
delle cose, nei periodi di riscossa, d'intensa vita, i due elementi si
compenetrano, divengono un tutto inscindibile. Il pax>ato influisca
sui regni e sui popoli, in quanto esercita un dominio incontrastato
sulle anime: e la sua forza terrena, se volta ad opere di pace, alla
conculcazione delle più stridenti ingiustizie, diviene alla sua volta
un mezzo potente di propaganda religiosa, suscita proseliti, smorza
odi teologici, soffoca le riibellioni del dubbio. I germi di disgregazione
che sempre sono presenti in seno alla Ohiiesa, e sempre susciteranno,
nelle forme più svariate e più imprevedibili, quelli che la Chiesa
chiama eresia e scisma, acquistano tutta la loro capacità e tutta la
loro virulenza nei periodi di torpore: s'immobilizzano, paiono iste-
rilirsi, nelle ore trionfali.
Ora nessuno può dive se il prossimo decennio segnerà un periodo
trionfale per il papato: ma è facile prevedere che non potrà segnare
unepoca di torpore.
Pericoli prossimi, possibilità più ampie ma più remote d'im-
mensi successi, si delineano sull'orizzonte del pap)ato.
Nell'ultimo secolo, in particolarissimo modo negli ultimi venti-
cinque anni, Roma ebbe a guardare semipre ad occidente per vedere
se più fosche si facessero le nubi o si schiarisse il cielo. La Francia,
<mzitutto, il Portogallo e la Spagna, poi, furono volta a volta causa
di angoscia e di giubilo al papato. L'Inghilterra non entrò nella più
immediata cérohda dell'attività papale se non per breve ora, sotto
il irontificato di Leone XIII, negli anni delle speranze di unificazione,
troncate dalla opposizione irlandese, dalla intransigenza storico-dog-
matica che portò alla dichiarazione d'invalidità delle ordinazioni an-
glicane: più tardi resitò sempre in una posizione di second'ordine
nel gioco della diplomazia vaticana: anche il duello tra Inghilterra
ed Irlanda, ch'ebbe le sue ore tragiche, non parve questione in cui
si dibattessero interessi vitali per la Chiesa. La Germania, dopo il
conflitto tra Stato e Chiesa cattolica, ch'ebbe quarantanove anni or
PIO XI E LA NUOVA SITUAZIONE POLITICA DEL PAPATO 375
-<>no le sue ore epiche, non è più stata og:gFetto di gravi cure per il
i:>apato : la scarsa docilità del Centro, la questione dei sindacati in-
léi Confessionali, non sono apparse mai come nubi apportatrici di tem-
pesta sul cielo del Vaticano. L'Austria, dopo i dissensi non gravi
del 70, dopo la denuncia del concordato del '55 così vantaggioso per
la Chiesa (e che tuttavia restò di fatto norma regolativa di tanti rap-
porti ecclesiastici) rimase terreno pacifico per eccellenza nei riguardi
della Curia romana : l'azione di questa potè mirare ad esercitare una
influenza maggiore; le sue sconfìtte non furono in realtà ohe minori
\ ittorie : le parole attrito e conflitto perdevano ogni \'irulenza allorché
! applicassero ai rapporti tra l'Austria e la S. Sede.
Tutto questo stato di cose è prossimo a mutare radicalmente : il
mutamento anzi è già in atto. La situazione della Chiesa non sembra
orrere seri pericoli ad occidente. Non in Francia: una riscossa gia-
cobina pare ivi affatto improbabile: né assumierà certo una posizione
antifrancese Pio XI, l'antico monsagnor Ratti, accorto, intelligente,
duttile, pratico, restìo agFinfatuamenti, l'ex nunzio apostolico in
Polonia che così strettamente abbracciò la causa della fedele figlia di
Francia, della strenua e bellicosa sua alleata d'Oriente : i pochi cri-
stiani integrali, i quali sentono l'incompatibilità assoluta tra i valori
fondamentali del cristianesimo e l'atteggiamento spirituale della
Francia uscita dalla vittoria, debbono ben comprendere che non sarà
Pio XI il papa che griderà oltr'Alpe la difficoltà di conciliare al tempo
tesso i precetti di Cristo e lo spirito nazionalista della politica fran-
ose. Non nel Portogallo, dove il periodo del giacobinismo tripu-
iiante, della infatuazione anticattolica, sembra ormai superato.
.a Spagna reca in sé da decenni il torlo del dualismo catalano-ca-
tigliano: la riscossa della Catalogna, la sua autonomia o anche
'Itanto la sua prevalenza nel regno, porterebbe, è noto, un ri-
veglio di aspirazioni ostili alla Chiesa, una ferma volontà di ab-
battere quel che ancora v'è di antiquato, di rjfcchio regime, nei
rapporti fra Stato spagnolo e Chiesa; ma la Catalogna era un po'
provincia spirituale della Francia: la conversione di questa dal
iacobinismo al conservatorismo, se non ha naturalmente potuto
^vere effetto sul dissenso di razza tra catalani e castigliani, deve fatal-
mente aver gettato molta acqua nell'acceso liberalisano della Cata-
logna.
Ben più immediati appaiono altrove i pericoli.
In Italia passò quasi ignorata la crisi della Chiesa czecoslovacca,
il memoriale indirizzato nel '19 da gran parte di cpiel clero alla Santa
Sede — si ripetevano in quel memioriale molti dei postulati e delle
aspirazioni delle Chiese nazionali, ostili all'accentramento romano,
che nei Concili riformatori del secolo xv ebbero la più perspicua
espressione — : rimase pressoché sconosciuto lo scisma parziale pro-
dottosi in quella Chiesa. Troppo poco da noi si guarda alla Czecoslo-
vacchia, cui la pace di St. (^rmain ha dato splendidi confini di vit-
toria, la zona più ricca e più industriale deH'ahtico Impero, ed il cui
popolo era' persino agli occhi degli avversari tedeschi il più laborioso
e il più tenace della monarchia degli Asburgo: alla Czecoslovacchia,
che avrà fatalmente una posizione economica non inferiore a quella
fel Belgio prima del '14, ma accompag"nata e sorretta da una volontà
37H PIO XI E LA NUOVA SITUAZIONE POLITICA DEL PAPATO
di conquista e di dominio che non può non renderla un elemento di
prim'ordine nei destini d'Europa. È la crisi czeca superata? può dirsi
la scissione daw.ero arginata, può aversi la certezze che dalle file
della Chiesa ortodossa non usciranno nuovi elemienti ad ingrossare
quelle della Chiesa dissidente? Quando pure si verificasse questa ipo-
tesi favorevole al cattolicesimio, non si deve dimenticare che nella
Chiesa nazionale <lissidenf-e è passato tutto il fermento hussita, tutta
l'avversione anticattolica e soprattutto antiromana, maturata per se-
coli nel sottosuolo di quella misteriosa Czechia, che ha serbato vivo
il medioevo, non soltanto nelle strette vie e nei Lungo-Moldava di
Praga, ma pur nell'animo, nelle 'passioni e negli odi, del suo popolo
repubblicano.
Né minori pericoli attendono la Chiesa in tutti gli altri Paesi sori.i
dallo smembramento dell'Austria, o ingranditi, mutati, trasformata
dalla vittoria. I nazionalismi esasperati si manifestano anche nel
campo chiesastico : eterno Sisifo, Roma deve ancora una volta op-
porre la sua ragion d'essere, l'unità cattolica che mirando a Roma
pone in seconda linea, dlimìentica le frontiere nazionali, a quest'aspi-
razione di ogni Stato ad avere una propria Chiesa nazionale, aspira-
zione che sempre pare spenta e sempre si ridesta. La battaglia com-
battuta e vinta nei pericolosi giorni di Costanza e di Basilea, in quel
secolo XV, che vide per Punita pericoli più grandi che non il secolo
seguente (l'eresia restrinse il dominio d'ella cattolicità, non frantumò
questa in tante chiese nazionali), deve sempre ripetersi. Si è ripetuta,
pili attenuatti, nel secolo xvii, l'età d'oro del gallicfinismo, nel se-
colo xviii, il secolo di Febronio, delle aspirazioni d'indipendenza dei
grandi prelati tedeschi; dopo la tregua dell'ottocento si ripeterà (im-
possibile dire se piìi virulenta o meno intensa) nel secolo che volge.
Le aspirazioni ad un proprio rito, all'abbandono del latino nella li-
turgia, a concili nazionali propri, sono aspirazioni ben note nella
storia della Chiesa: a ragione Roma le ha sempre combattute : ben sa
com'esse preludano alla rottura della unità. Ora queste aspirazioni
incalzano, fermentano, premono, in tutto il mondo slavo e magiaro
ancora unito alla Chiesa di Roma: paziente ed accorta, questa segue
attenta il movimento : talvolta qualche poco concede, cerca di elevare
paratìe in seno ad esso, d'impedire che i rivoletti dispersi conflui-
scano in un fiume impetuoso. Cura che intomo a questi scricchiolii
miale auguranti, intorno a questi fremiti di terra in sussulto, si fac-
cia il silenzio : non ignora e non trascura; certi episodi in sé insigni-
'.flcanti (l'intransigenza del Vaticano, transigentissimo in tutti gli altri
suoi rapporti col Governo italiano, nella questione di S. Girolamo
degli Schiavoni che vuole assolutamente destinato agli slavi anziché
ai dalmati) mostrano come la S. Sede non sia disposta a privarsi di
alcun mezzo di lotta per mantenere nella integra ed assorbente co-
munione romana quanti aspirano, a staccarsene.
Ma non soltanto in queste aspirazioni autonomiste si annidano i
pericoli : il crollo del colosso «moscovita ha avuto ripercussioni reli-
giose ancora non palesi, ma non perciò meno sicure: molte branche
della Chiesa scismatica hanno da quel crollo acquistato un'autono-
mia, non giuridica, ma reale, una libertà di movimenti e di atteggia-
menti, che costituisce l'equivalente di un ringiovanimento miraco-
loso: hanno acquistato per conseguenza una capacità di proselitismo.
PIO XI E LA NUOVA SITUAZIONE POLITICA DEL PAPATO 877
un'attitudine alla lotta, per cui sono potenzialmente oggi avversai!
pericolosi, quali non erano in passato, per la Chiesa di Roma.
Infine anche là dove non si porrebbe questione religiosa, il na-
zionaiismo politico può suscitarla: i popoli oppressi, i popoli che
fortemente odiano, ove siano popoli primitivi in cui il fattore reli-
gioso è fattore di prim'ordiné, sono tratti naturalm.ente ad abbreviare
e favorire quella religione che appaia antitetica alle credenze dell'op-
pressore. L'antico Nunzio a Varsavia non può dimenticare questa
specie di pericoli: tra i lituani, tra le altre popolazioni minori che
considerano come un vero giogo la dominazione polacca, protestan-
tesimo e chiese scismatiche possono trovare terreno favorevole.
Di fronte ai pericoli, immiediati, non suscettibili di essere eli-
mdnati, le possibilità di azione feconda, le possibilità di trionfo.
Mai si diede ora più favorevole di questa alle possibilità più va-
ste, alle speranze più sconfinate che possano allignai*e nell'animo di
un pontefice romano.
All'indomani della più terribile crisi della storia moderna, tutti
i popoli, abbeverati di dolore, aprono l'animo ad inconscie' indecise
speranze messianiche. Volge una di quelle ore storiche in cui anche
le menti più elette, più conscie della fatalità che regge il divenire sto-
rico, accolgono loro malgrado la fiducia nel possibilismo più asso-
luto, si sentono indotte a credere nella possibilità del miracolo, nei
gesti miracolosi dei taumaturghi. Più ancora, attendono siffatti ge-
sti: di fronte ai complicati problemi politici ed economici, al grovi-
glio inestricabile di difficoltà, che si ravvisa in ogni campo, alla im-
possibilità propria a qualsiasi scienza e dottrina di mostrare le vie
attraverso cui si potrà ritornare all'antico benessere, all'antica sere-
nità, tutti sono indotti, più o meno coscientemente, ad aspettare una
soluzione extraempirica, impre\'^dibile, i>osta al di fuori della ferrea
catena di ogni determinismo. Nelle classi colte, dove quest'attesa mes-
sianica trova ostacolo in tutta una inupalcatura di principi e di cer-
tezze acquisite, nuove dottrine demoliscono affrettatamente quella
impalcatura: per il popolo non abbisogna neppure quel lavoro pre-
liminare: ed il messianismo, rav\"ento del secolo d'oro del proleta-
rig,to, ha già un nome e tratti ben definiti.
Non occorre dimostrare come un siffatto momento racchiude nel
suo seno possibilità sconfinate per tutte le religioni, per tutti i mo-
vimenti spirituali che parlano all'animo degli uomini, che hanno il
potere di toccare quel lato profondo e misterioso ma più di ogni altro
sensibile, ch'è la coscienza religiosa. E queste possibilità potranno
essere soprattutto sfruttate da quella ch'è tra le religioni la meno cri-
stallizzata, la più duttile e la più accorta, quella che mostra con fatti
un potere sempre vivo di gettare nuovi germogli, di estendere la va-
sta massa delle sue radici.
Ma contingenze politiche accrescono la possibilità di successi
della Chiesa di Roma.
Il crollo dell'impero moscovita, cioè della salda impalcatura sta-
tale che sorreggeva la Chiesa russa; l'avvento di un potere che in un
primo momento è stato nettamente e crudamente ostile a quella
Chiesa, e in un secondo si è rinchiuso in una indifferenza malevola;
la crisi di dolore e di smarrimento di quel popolo, che ha dovuto per-
dere una ad una le sue vecchie fedi, i suoi convincimenti tutti, che-
25 Voi. CCXVI, serie VI — 16 febbraio 1922.
SlH PIO XI E LA NUOVA SITUAZIONE POLITICA DEL PAPATO
ha dovuto mutare il suo orientamento mentale : tutto ciò ha indub-
biamente avvicinato quelle possibilità di riunione della Chiesa russu
alla romana che non apparvero mai assurde a spiriti eletti delle due
Chiese. Queste non sono separate da alcun fondamentale dissenso
dognkatico, non diversificano per costituzione : le diversità di tradi-
zione, di sentimento, di litur;^a, sono certo meno ingenti che non
siano talora tra chiese e riti conviventi nella famiglia cattolica.
Ad un'altra possibilità di riunione, più e volte vagheggiata, e che
talora parve prossima a compiersi, è stato tolto l'ostacolo che rese fin
qui inupossibile il suo verificarsi. Il componimento tra Irlanda ed In
ghilterra fa sì che una conciliazione tra Chiesa anglicana e Chiesa
romana non abbia oggi più, come in passato, la conseguenza di far
perdere ogni ascendente al papa di Roma sull'isola di smeraldo. Certt»
oggi ringhilterra è meno proclive a questa unione che non apparisse
in alcuni momenti del pontificato di Leone XIII : ma v'è oggi pel pa-
pato quel che non si dava allora : la possibilità di un lavoro fecondo,
non destinato fatalmente a spezzarsi di fronte ad una ferrea alter-
nativa.
• *
Questi i pericoli, queste le possibilità del papato.
Altri problemi vi sono, già impostati, che il papato non potrà
scartare dal suo cammino. Così non potrà, senza che il suo pre?^
ne sia gravemente ferito, recedere dalla posizione già presa da Bc:..
detto XV di fronte ai luoghi santi, riniunciare a farsi sostenitore dei
diritti morali del « popolo cristiano». La questione è di una delica-
tezza estrema: il nucleo sionista palestinese ha dietro a se, solidali
e compatti, tutti gl'israeliti di Europa e di America: un att^gia-
mento antisiondsta del papato importerebbe un rincrudimento di av-
versione anticattolica ed antivaticana dovunque batta un cuore se-
mita. Ed alla volta il papato, dando sia pure involontariamente pre-
testo ad un rinfocolarsi dell'antisemitismo, più vivo che mai in tutte
le terre dell'antica Monarchia degli Asburgo, ed in Polonia e in Ro-
menia e in tanta parte della Germania, renderebbe un ben cattivo
servizio alla causa della pacificazione. Ma se la S. Sede riuecirà ad
attuare quella che sembra la sua jwlitica, ostacolata sin qui dalla po-
litica britannica, riuscirà a giungere ad accordi diretti con l'orga-
nizzazione sionista, che finora non è apparsa da\^ero né fanatica
né irrisipettosa degli altnii diritti; se riuscirà ad accordare gl'inte-
ressi morali del popolo cristiano e il bisogno di ricostituzione di un
focolare nazionale per gli ebrei dispersi, avrà ottemuto un primo
grande successo, che sarà forse scarsamente avvertito in Italia, ma
che gioverà infinitamente al suo prestigio in tutto il bacino meridio
naie ed orientale del Mediterraneo, ed in tutti quei Paesi ove la que
stione semita è questione essenziale, sempre presente in ogni suo
aspetto.
Nessuno, che non voglia arrogarsi il compito di profeta, può
oggi dire quali di questi possibili successi il papato di Pio XI saprà
afferrare, quali di quei pericoli potrà schivare.
Può solo dirsi che non sarà papato privo di eventi, papato che
non debba scrivere una densa pagina di storia. Nella Chiesa come
PIO XI E LA NUOVA SITUAZIONE POLITICA DEL PAPATO 379
nelle grandi istituzioni, nelle istituzioni che hanno una ragion di
vivere, avviene che talvolta manchino agli uomini la possibilità, non
mai ohe alle possdbilità manchino gli uomini : è questo il loro fato
misterioso, la loro Provx idenza.
Potrà essere un pontificato di vittorie o meno: ma non sarà
un pontificato ohe lasci trascorrer© la sua ora senza cercare di af-
ferrarla.
*
Alla proclamazione della nomina a papa del cardinale Achille
Ratti, vi fu chi gridò « l'italianissimo! ».
Italiano di cuore, certo: ma papa romano, pastore della Chiesa
universale, anzitutto. Non è escluso che al cuore italiano che batte
scKtto il bianco ammanto papale sia data l'ora di gioia della riconci-
liazione aperta e piena tra S. Sede e Stato italiano. Ma non sarà certo
questa la cura principale del nuovo pontificato, il punto centrale delle
sue preoccupazioni ; altri Paesi minacciano al papato pericoli ben più
gra\i che l'Italia non minacci, fanno balenare possibilità di vittorie
ben maggiori di quelle che l'Italia possa offrire.
Vittorie, e quali? nessuno può dirlo : ma certo sarà pontificato
cattolico nql senso originario dtella parola, e non restringerà al Tir-
reno ed aJle Alpi la sua visuale, ma sempre rammenterà di avere per
campo d'azione il mondo tutto.
A. C. Jemolo.
PROBLEMI DEL GIORNO
LA CRISI DELLA BANCA ITALIANA DI SCONTO
La crisi della Banca Italiana di Sconto costituisce un avveni-
mento altamente doloroso dell'economia nazionale.
Per quanto si tratti senza dubbio di un affare privato, bctóta ri-
flettere alla entità dei crediti raccolti nella Banca (circa 4 miliardi),
al numero notevole dei creditori (circa 427 mila), alla loro diffusione
in tutto il Regno per persuaderci che siamo di fronte ad uno di quei
problemi che, nell'interesse generale del paese, conviene .risolvere in
modo sollecito e soddisfacente. A questo riguardo nessuno potrebbe
rivolgere alcuna critica fondata al Ministero Bonomi — a cui augii
riamo prospere sorti — tenendo conto del fatto che, appena esso ri-
tenne inevitabile la crisi, non esitò a promailgare una serie di Decreta-
legge di molta gravità ed utilità. Vi attesero personalmente non solo
i ministri dei due dicasteri competenti del commercio e del tesoro,
gli on. Belotti e De Nava, ma anche l'on. Beneduce, ministro del la-
voro, e l'on. Bonomi, Presidente del Consiglio.
Percorsa così la prima fase conservatrice, spetta ora di compiere
la seconda parte : quella ricostruttrice. Ma a ciò occorre un ambiente
di calma e di serene e concordi discussioni tecniche. Si è soltanto per
contribuire a questo scopo, e per facilitare una base di comune intesa
che pubblichiamo queste brevi note, nelle quali abbiaimo semplice-
mente raccolte idee, che ci vennero da più parti presentate.
La storia bancaria d'Italia offre, a questo riguardo, due grandi e
fecondi precedenti, che devono sopra tutto servirci oggi d'insegna-
mento e di guida. Il primo è la mirabile ricostruzione della Banca
Nazionale e la sua trasformazione in Banca d'Italia, sapientemente
progettata dall'on. Sonnino nel 1894-95, e splendidamente attuata dal
oomm'. Stringher. L'altro esempio ci è dato dalla ricostituzione del
Banco di Napoli, pochi anni dopo, con pari sapienza e con pari abi-
lità progettata dall'on. Luzzatti e compiuta dal comm, Miraglia.
L'esemipio dtella Banca d'Italia è quello che più fa al caso nostro.
Si ritiene che l'antica Banca Nazionale avesse perduto non solo l'in-
tero capitale, ma più assai ancora: ciò nonostante, la ricostruzione
fu così completa ed effettiva, che tutto venne rimesso a posto — la cir-
colazione, i correntisti e gli, azionisti!
Nella stessa guisa, la soluzione dell'attuale crisi bancaria deve
proporsi :
il minor danno dei creditori e, se possibile, degli azionisti della
Banca di Sconto;
LA CRISI DELLA BANCA ITAUANA DI SCONTO 381
la ricostruzione — se non della Banca di Sconto — del vasto
organismo di credito ch'essa rappresenta;
il minor danno dell'economia nazionale.
Ed è del tutto inutile a,g:giungere che ha pienamente ragione
Fon. Bonomi, quando afferma che lo Stato « non potrà mai né com-
promettere l'esistenza degli Istituti di emissione, così collegati all'e-
conomia del paese, né trasferire sui contribuenti italiani le perdite
di un'impresa privata ».
È tuttavia evidente che Stato ed Istiutti di emissione devono,
nell'orbita delle rispettive funzioni, dare tutto il loro concorso pos-
sibile per questa opera di ricostruzione, indispensabile all'economia
monetaria ed al credito del paese.
U accertamento della situazione.
La prima necessità è quella di avene un accertamento preciso
della situazione della Banca di Sconto che, purtroppo, anche oggidì,
pare soltanto approssimativo per quanto riguarda la partita decisiva
delle imnìobilizzazioni e delle perdite. In cifre tonde si può dire che
la Banca presenta:
al Passivo : 3i5 milioni di capitale versato e 75 milioni di ri-
serva: in tutto circa 400 mdlioni di patrimonio;
4 miliardi di creditori fra depositi a risparmio, conti correnti,
orrispondenti, ecc., in tutto un passivo di 4,400 milioni.
alV Attivo : 4,400 milioni di attività e d'impieghi diversi.
Sventuratamente si calcola che fra questi 4,400 milioni si abbiano
allincirca 1,200 milioni d'immobilizzazioni e di perdite diverse. E
questo costituisce il punto grave del problema.
Anzi tutto solo il tempo potrà dirci quante siano le immobiliz-
zazioni e quante siano le perdite vere e proprie, mentre tra le une e
- altre corre una differenza enorme. Ciò dimostra sempre più la ne-
essità di procedere con cautela, a gradi, ed in base a risultati pratici.
Partendo dall'ipotesi estrema di una perdita di 1,200 milioni, se-
ra 4 miliardi, la perdita sarebbe del 30 per cento e la "parte solida
ie^l 70 per cento. Qualora invece si volesse calcolare perduto l'intero
I>atrimonio di 400 milioni, la perdita a carico dei creditori verrebbe
ridotta ad 800 milioni e si rag-gnaglierebbe al 20 per cento dei crediti,
la parte solida all'SO per cento. Ma, come si é detto sopra, il tempo
r — giova sperarlo — la buona soluzione del problema, possono mo'-
dificare questi risultati, e occorre procedere con cautela ed a gradi.
La creazione di un nuovo Istituto.
È oramai opinione prevalente che si debba provvedere alla crea-
zione di un nuovo Istituto di credito, come si fece per la Banca d'I-
talia, e si accenna alla fondazione di una nuova Banca Nazionale di
-Sconto. Essa potrebbe avere 300 milioni in azioni e 100 milioni di
riserva, in guisa da raggiungere un patrimonio versato di 400 milioni.
Accettando questa idea, noi respingiamo tutte le proposte di co-
stituire il capitale o la risen-a, anche solo in parte, con partite im-
mobilizzate e tanto meno con perdite della vecchia Banca di Sconto.
Il nuovo Istituto sorgerebbe senza credito, e costituirebbe una debo-
lezza permanente dell'organismo bancario del paese. Capitale e ri-
382 LA CRISI DELLA BANCA ITALIANA DI SCONTO
serva devono essere, sia pure a gradi, versati in contanti. Poiché si
assicura che la vecchia Banca di Sconto possegga almeno 1.500 mi-
lioni di partite di non difficile e di non lontana realizzazione, a mi-
sura che queste prime partite rientrano, e -sono disponibili, esse po-
trebbero subito costituire il capitale e la riserva della nuova Banca
Nazionale. Sarà tanto meg^lio se la formazione di questo capitale po-
trà essere accelerata da sottoscrizioni pubbliche, da gruppi finan-
ziari, o dagli ex amministratori.
Così pure nel nostro concetto la nuova Banca Nazionale deve as-
sum^ene la gestione e l'amimànistrazione della vecchia Banca di Sconto,
in vista del suo graduale assorbimento, nello stesso modo in cui la
nuova Banca d'Italia assunse la gestione e l'amiministrazione della
vecchia Banca Nazionale, e finì per assorbirla completamente. Bene
inteso che sulla nuova Banca Nazionale di Sconto non possono rica-
dere in parte alcuna le perdite della vecchia Banca di Sconto, altri-
menti ne resterebbe schiacciata. Purtroppo, e sia pure nella minor
misura possibile, esse dovranno venir sopportate dai creditori.
I 400 milioni del nuovo capitale dovrebbero quindi costituire
la prima quota di rimborso ai creditori^ in ragione di circa il 10 per
cento dei loro crediti superiori alle lire mille. I creditori la ricevereb-
bero in azioni versate in contanti, con forte riserva, e che probabil-
mente sarebbero contrattate nel mercato libero alla pari e forse an-
che con premio, specialmente se appoggiate a qualche potente sinda-
cato. Si può quindi dire che i creditori riceverebbero una prima
quota, di circa il 10 per cento, in contanti, ma sopra tutto si avrebbe
il vantaggio di dare vita ad un Istituto forte e solido che — se bene
amministrato — acquisterà largo credito p>er sé, e ne darà al paese.
Le difficoltà dei rimborsi.
Sono sorte successivamente diverse proposte per rimborsi ai cre-
ditori dal 50 al 70% <lei loro crediti, in base alle presunte attività
della Banca di Sconto. Ma questi rimborsi presentano difficoltà
enormi che giova equamente valutare.
II rimborso del 50% dei crediti esige 2 miliardi di lire in con-
tanti: il 70% richiede quasi 3 miliardi. È probabile che nelle stret-
tezze dèi giorni che precedettero la moratoria, la Banca di Sconto
abbia incassate le partite piìi liquide: quelle che rimangono è da ri-
tenersi presentino una maggriore pesantezza. In tali condizioni, quanti
mesi, quanti anni possono occorrere i>er realizzare da due a tre mi-
liardi di partite siffatte? e quale vantagg^io risentiranno i creditori
da un rimborso a spizzico di piccole quote dei loro crediti, diluiti
per una serie di mesi e di anni?
Oltre a ciò, se a misura che la Banca incassa, i.wi.-^i 4uv-to
somme in rimborsi ai creditori, sereno necessariamente due inoon
venienti l'uno più grrave dell'altro. Da un lato la Banca s<'f
suoi clienti ed ai suoi debitori delle somme vistose, col pen
creare gravi restrizioni di credito a danno dell'attività e della pro<iii
zione nazionale. Dall'altro lato, a misura che la Banca rimborsa i
creditoiri, riduce le risorse di cui dispone per le sue operazioni, o «i
annulla. La funzione di una banca è di garantire la sicurezza v l;i
disponibilità dei crediti ad essa affidati, e non di rimborsarli m
massa. La banca rimane solo di nome, con tutte le spese di per^->
LA CRISI DELLA BANCA ITALIANA DI SCONTO 385
naie, di locali, di esercizio, e senza i mezzi di ^adagnare quanto
le occorre per coprirle. Così svanisce a poco a poco la vecchia banca,
prima che il nuovo istituto che le succede ottenga credito, depositi e
fondi per fimzionare.
In conclusione il sistema dei rimborsi a gocce non elimina Tim-
bar-azzo dei creditori, danneggia l'economia nazionale, distrugge, in-
vece di ricostruire, la banca caduta. Per ultimo v'ha chi ritiene che
la Banca di Sconto avesse la possibilità di guadagnare parecchie de-
cine di milioni di lire nette all'anno. Se ciò è vero — e dovrebbe es-
sere accertato tecnicamente — lungi dal liquidare e distrugg^ere l'an-
tico organismo, conviene riattivarlo, perchè è solo dagli utili del-
l'esercizio che si potranno ritrarre i onezzi atti a compensare in tutto
o in parte il 20 o il 30% di perdita sui crediti. Ma se ciò è vero, è
pure ingiusto saxirificare del tutto i vecchi azionisti.
La Tìiob-ilizzazione dei crediti.
La mobilizzazione dei crediti offre un sistema assai più eflBcace
per venire in aiuto dei creditori, che abbiano immediato bisogno di
contanti.
Si può immaginare che ogni creditore riceva, per raanmontare
nominale del suo credito, una obbligazione od un certificato, o meglio
un semplice libretto di credito, chiuso e regolato al 31 dicembre 1921.
Questo libretto, al {)ari di qualsiasi altro titolo industriale, può es-
sere dato in pegno ad una banca, può formare oggetto di anticipa-
zione, a vista, cosicché il creditore riceve immediatamente una parte
notevole del credito suo.
Prendasi il caso di un correntista c^e possegga un libretto di cre-
dito di lire 50,000 della Banca di Sconto. Assai probabilmente egli
può subito realizzare lire 25,000, impegnando il libretto presso una
banca, ed aggiungendovi la sua firma personale. Ma se è persona
solvibile, può anche avvenire che una banca gli anticipi l'intera
somma di lire 50,000 sulla doppia garanzia del libretto e della firma
personale del portatore.
Si supix)nga che le attività della Banca di Sconto siano per ora
valutate — oltre il 10 % convertito in azioni — oltre il 50 % delle sue
passività. Mediante rilascio dei rispettivi libretti di credito, c^i
creditore si potrebbe trovare in grado di realizzare a vista circa
il 60 % del suo credito, mentre col sistema dei rimborsi parziali ciò
non può avvenire che in una lunga <^erie di mesi, con poca o nessuna
utilità del creditore bisognoso e dell'economia del paese. Conosciamo
un agricoltore che ha venduto i buoi da lavoro, e ne ha versato alla
Banca di Sconto l'importo di circa lire 8,000. Se mediante un'antici-
pazione ecc. egli può realizzare il 60% del suo credito (lire 4800),
con lieve sforzo in piìi, sostituisce ai buoi venduti una coppia di
animali più giovani e meno costosi, e si cava d'imbarazzo. Ma se
egli deve attendere dodici, oppure diciotto mesi — seppure baste-
ranno — per ottener rimborsi graduali fino a lire 4800, la sua situa-
zione diventa oltremodo critica, il malcontento cresce, e l'attività pro-
duttiva del paese ne soffre. E gli esempi di tal fatta si possono mol-
tiplicare a m;igliaia : di comlmercianti che devono rifornirsi di merci,
d'industriali che hanno materie prime e salari da pagare, e di pò-
384 I-'V CRISI DELLA BANCA ITALIANA DI SCONTO
veri padri di famiglia che hanno immobilizzate alla banjca le somme
necessarie per la pigione e por le spese <li casa!
Tutto ciò che occorre è di organizzare rapidamente un sistema
di anticipazioni con apertura di conti coirenti attivi, su cui il credi-
tore possa prele\^are e versare. Ed è nell'attuazione di questo con-
gegno, che rientra nelle normali e sicure operazioni di banca, che
lo Stato e gl'Istituti di emissione potrebbero dare il loro concorso
senza rischi, senza spese a carico dei contribuenti e senza perdite
per alcuno. Tutto «al piij si può discutere se abbiano ad essere auto-
rizzati a fare anch'essi direttamente queste operazioni, o se debbano
gl'istituti di emissione accettarle mediante girata da parte di Ijanche
private almeno per i grossi conti.
In quest'ultimo caso l'Istituto di emissione avrebbe tre garanzie :
la firma della banca cedente;
il libretto di credito;
la firma di un presentatore sohibile. In generale i correntisti
di una banca lo sono sempre.
Sentiamo per i primi le difficoltà e le obiezioni anche di questa
idea, che presentiamo soltanto a titolo di studio. Ma in un naufragio
così grande non possiamo sperare di giungere alla riva che scegliendo
il male minore. Un vantaggio intanto è evidente: quello di ridurre
al ininimo e forse anche di evitare qualsiasi aumento di circola-
zione. Infatti i creditori della Banca di Sconto si possono dividere
in due grandi categorie:
coloro che hanno bisogno di ritirare una parte almeno dei loio
crediti per vere necessità personali;
coloro che, presi dal pànico, ora ritirerebbero senz'altro delle
somme, ohe prima della moratoria a\Tiebbero lasciate presso la Banca
per iempo indefinito.
Se procediamo col sistema dei TÌinhorsi, tutti i creditori si pre-
senteranno agli sportelli della soda Banca Nazionale di Sconto a riti-
rare le loro quote, e la Banca difficilmente potrà da sola sopportare
uno sforzo così grande, cosicché si richiederà il largo intervento degli
istituti di eniissione, a fine di evitare nuove e maggiori diflBcoltc'i.
Invece col sistema della mobilizzazione dei crediti, quasi soltanto
quella parie dei creditori che ha bisogno effettivo di danaro j^er le
sue spese personali attingerà credito, e nella minore misura possibile
per risparmiare gli interessi. Le domande di fondi diminuiranno per
due vie diverse: come numero di richiedenti e come ammontare delle
somme richieste. Oltre ciò, la minore domanda di fondi, invece di
concentrarsi sulla sola Banca Nazionale di Sconto, si andrà disse-
minando fra tutte le banche e le Casse di risparmio, che vorranno
partecipare a questa mobilizzazione dei crediti, che è indispensabile
anche nell'interesse dell'organismo bancario del paese. Di fronte alle
cifre moderne del movimento monetario nazionale, anche le centinaia
di milioni di credito, accordate ri pegno dei libretti della Banca di
Sconto, passerebbero pressoché inavvertite.
Alla loro volta i creditori — giova sperarlo — non andranno in-
contro ad oneri apprezzabili. Noi confidiamo, come diremo in ap-
presso, che si possa continuare a corrispondere il 3 % all'anno ai
creditori attuali della Banca di Sconto. Costoro alla loro volta do-
vrebbero pagare dal 6 al 7 % sulle anticipazioni da essi prese con
intfjresse scalare sul conto corrente; cosicché le due partite d'in-
LA CRISI DELLA BANCA ITALIANA DI SCONTO 3S5
tepeasi presso a poco si compenserebbero. Gi spieghiamo con un
esempio :
un creditore ha L. iOO,000 (presso la Banca di Sconto, e sopra
L. 90,000 continua a ricevere il 3% all'anno, cioè L. 2700. Si fa aprire
oresso una banca, sulla garanzia del libretto, un conto corrente at-
ivo di lire 50,000, ad un interesse fra il 6 e il 7 %, il che importa
da 3000 a 3500 lire all'anno. Tenendo conto degl'interessi scalari, è
probabile che in fin d'anno interessi attivi e passivi si pareggino.
Oltre a ciò H creditore concorre ancora al dividendo sulle azioni,
cosicché è da sperare che ciascun creditore, che ne abbia realmente
bisogno, possa incassare subito il 60% del suo credito, senza sotto-
stare ad alcun sacrifìcio.' E d'altra parte, se perdita v'ha da essere,
meglio che si verifichi sugl'interessi o sul capitale?
In fondo il sistema della mobilizzazione dei crediti, se bene or-
ganizzato, può dare subito a ciascun creditore, senza sacrifìcio ap-
prezzabile da parte sua, il 60% del suo credito, e questa quota può
-alire a gradi, a misura che si presentino migliori le condizioni della
\ecchia Banca di Sconto. Esso non perturba il mercato finanziario,
ne il mercato monetario, né l'andamento attuale degli istituti di
emissione, mentre lo Stato e i contribuenti avrebbero ancora il van-
taggio del provento delle imposte, che graver^bero sulle nuove ope-
razioni di credito.
Né è possibile dimenticare che le grandi orisi monetarie nella
-toria non si vinsero quasi mai che mediante l'intervento degli Isti-
mti di emissione, e quasi sempre con l'aumento della circolazione
oltre i limiti l^ali. Tutti sanno il culto che l'Inghilterra ha per la
legge bancaria di Peel nel 1844, eppure in tre cireostanze di crisi il
Governo inglese non ha esitato ad autorizzare con semplice atto del
potere esecutivo un'eccedenza di circolazione ed una sospensione
della legge, da convalidarsi poscia dal Parlamento:
1847 — prima sospensione della legge bancaria mediante let-
tera del tesoro;
1857 — fallimento della Banca di Glasgow: seconda sospen-
sione della legge bancaria;
1866 — fallimento della ditta Overend, Gumej' e Co. : terza
sospensione della legge bancaria.
E ben maggiori furono le misure escogitate ed attuate da Lloyd
George allo scoppio della guerra nel 1914. Le grandi crisi monetarie
-i possono talora prevenire con regime severo della circolazione : di
rado si possono con esso reprimere.
Come abbiamo premesso, si tratta semplicemente di scegliere il
male minore.
La ricostntzione.
L'auspicata ricostruzione del grande organismo di credito, rap-
presentato dalla Banca di Sconto, non potrà effettuarsi che mediante
un'austera e rigida amministrafcione della nuova Banca Nazionale.
A quest'opera debbono sopratutto cooperare gl'impiegati, che hanno
limostrato tanta viva simpatia per il loro Istituto. Pur troppo essi
trovano innanzi ad una dolorosa alternativa: o dare un rendi-
mento maggiore, oppure correre il rischio di perdere i loro posti.
La nuova gestione deve penosamente, ma risolutamente recidere
^ tutte le grosse spese di succursali non attive, di palazzi ed uffici di
386 LA CRISI DELLA BANCA ITALIANA DI SCONTO
liisso, di stipeiidi eccessivi, cki brevi orari e di personale di poci
rendimento. Gl'impiegati, dopo i sacrifìci, volonterosamente accet-
tati, saranno i primi a provarne la soddisfazione morale, colla tran-
quillità delle loro esistenze ed un'equa retribuzione.
La ricostruzione deve effettuarsi, come già si operò quella della
Banca d'Italia: accrescere le entrate, all'uopo anche mediante un
lieve aumento del saggio degl'interessi attivi, e diminuire al mas-
simo le spese. In tal guisa l'eccedenza delle entrate sulle spese la-
scerà ogni anno un profitto netto, col quale costituire un fondo d'ac-
cantonamento, cJie a gradi liquiderà — in parte o in tutto — la
quota di perdita del 20 o del 30 %, che ora si teme.
I punti fondamentali di questa ricostruzione potrebbero essere
i seguenti, che presentiamo non come un progetto, neppure come una
proposta, ma come semplici elementi di discussione :
a) Si istituisce una nuova Banca Nazionale di Sconto con un
capitale azioni di 300 milioni di lire in contanti, ed una riserva di
altri 100 milioni pure in contanti. Queste somme saranno sommi-
nistrate a gradi dialla Banca Italiana di Sconto sui primi incassi di-
sponibili da essa effettuati. Le dette somme saranno accreditabe come
quote proporzionali di rimborso, a favore dei creditori per somme
superiori a lire 1000. I creditori per somme inferiori si spera siano
rimborsati in contanti.
b) Ciascun creditore riceverà per l'ammontare nominale del
suo credito im libretto chiuso e regolato al 31 dicembre 1921.
La Banca Nazionale di Sconto, le Casse di risparmio e — ove
lo si creda — gl'Istituti di emissione, sono autorizzati ad aprire conti
correnti attivi fino alla concorrenza della metà dei rispettivi libretti,
con la garanzia del libretto stesso e con la firma di un presentatore
solvibile.
Sarebbe anzi utile organizzare fin d'ora presso le banche esi-
stenti siffatte anticipazioni in conto corrente, prima ancora che fun-
zioni la nuova Banca Nazionale, che certo richiede non poco tempo.
A queste operazioni si applicano le tasse che colpiscono lo sconto
delle cambiali.
e) La Banca Nazionale assume la gestione e l'amministrazione
della Banca di Sconto, in vista del suo graduale e completo assorbi-
mento, ma non assume alcuna responsabilità per lo scoperto even-
tuale.
Gli atti intemi fra le due banche sono esenti da tasse.
d) Le entrate lorde annuali delle due Banche di Sconto for-
meranno un'unica partita e serviranno a fronteggiare le spese nel-
l'ordine seguente:
imposte e tasse;
spese d'amministrazione, di esercizio, di personale e di locali,
ricondotte alla maggiore economia;
interessi passivi della Banca Nazionale;
dividendo nrvn <iìiperiorp al 6% sulle azioni della Banca Na
zionale;
interessi non sui>eriori al 'ò % ai creditori della Banca di Si'onto.
Ogni rimanenza andrà a costituire im fondo d'accantonamento
\per ripianare in parte od in tutto, anche mediante speciali o]Terazioni
di assiri inazione o <!' rrp<Mto, ]e jiordito (lf»lla Banca di Sconto, da
LA CRISI DELLA a\NC\ ITALL\NA DI SCONTO 38r
parte dei creditori e, se possibile, anche da parte degli azionisti
attuali.
e) Speciali disposi^icMii vieteranno alla Banca Nazionale gli
acquisti di titoli industriali e le j>artecipazioni industriali, e regole-
ranno l'entità dei riporti e la misura massima del fido da accordarsi
ad una, sola azienda.
f) La Banoa sarà amministrata da un Comitato soeUo dagli
Istituti di emissione, con una Ck>mmissione di vigilanza rappresen-
tante dei diversi interessi.
g) La Banca Naadonale rientrerà nel diritto comune tosto che
funzioni a sportelli aperti, anche per la liquidazione della Banca di
Sconto, con quell'assetto definitivo, che sarà a suo tempo stabilito
fra la Banca stessa e lo Stato.
La sistemasione nionetaria.
L Italia sta superando la scossa che La crisi della Banca di Sconto
ha prodotto. Il paese ha dimostrato calma e senno, ed è a sperare che
continui sulla stessa via. Ora preme provvedere anzitutto alle giuste
necessità di quei creditori della Banca di Sconto, che si trovano stretti
dial bisogno reale di contanti.
La sistemazione dei crediti e l'effettuazione dei rimborsi su vasta
scala per miliardi di lire, purtroppo non può essere opera facile e
rapida. Si è perciò che abbiamo indicato l'opportunità di un provve-
dimento provvisorio e temporaneo, ma immediato che, da doniam
stesso, potrebbe essere attuato da tutte le banche del paese che hanno
mezzi disponibili. La mobilizzazione dei crediti non deve sostituire
affatto la sistemazione iiK>netaria della Banca di Sconto: deve sem-
plicemente precederla per dare tempo a studiare e ad attuare i prov-
vedimenti definitivi. Per intanto noi sappiamo che i crediti della
Banca sono laicamente coperti oltre il 50 per cento dalle attività, ed
è su queste basi che possiamo fare i primi passi. Riassumendo, ecco
alcuni dei punti principali che paiono meritevoli di esame :
1° Ammissione immediata alle anticipazioni in conto corrente
dei libretti di credito della Banca di Sconto con garanzia personale
del presentatore e fino al 50 per cento del loro ammontare nominale
presso le banche in genere e possibilmente anche presso le Gasse di
risparmio e, con certe limitazioni, presso gl'Istituti di emissione;
2* Costituzione diella nuova Banca Na2àonale di Sconto con ca-
pitale tutto in contanti;
3° Accertamento e liqfuidazione graduale delle partite immobi-
lizzate dalla Banca di Sconto;
4° Riordinamento completo dell'organismo di credito costituito
dalle due Banche di Sconto, sopra basi di giusta economia;
5° Sistemazione definitiva della Banca in base ai risultati con-
creti dell'accertamento.
Un metodo siffatto ha il vantaggio di provvedere subito e per
larga somma ai creditori piìi disagiati, mentre forse facilita il desi-
derato accordo fra lo Stato, la Commissione Giudiziale, il Consorzio
dei creditori e gli egregi uomini preposti alla gestione temporanea
della Banca. Tutti sono animati da comuni intenti e da fervido buon
volere, ed il nostro augurio è che riescano a conciliare al più presto
i legittimi interessi privati dei creditori della Banca col vantaggio
della economia monetaria nazionale. Argentarius.
TRA LIBRI E RIVISTE
I cardinali Ratti e Gasparri
a Giacomo Boni.
Un uomo semplice, divinamente sem-
plice, che armonizzava nella dottrina
le cogitazioni più eccelse del penr-iero
e le creazioni più nobili dell'arte, o
saliva per ispirarsi ai capolavori della
Natura, tra roccie aspre ed insuperati
ghiacciai, mi scriveva dal confine a-
siatico dov'era sentinella della civiltà
europea :
NUNTIATURA APOSTOLICA
Poloni AE
Varsavia, 31 maggio 1901.
///. e caro Boni,
La benevola ed indulgente sua let-
tera delli8-4-2i mi ha tutt'insieme com-
mosso, confuso e giocondamente im-
pressionato; tanto apprezzata e cara
mi è la sua amicizia; tanto prezioso
e sensibile il nuovo segno ch'Ella me
ne dà. Grazie di cuore.
Delle cose mie che dirle? Dico col
buon S. Martino : non recuso laborem
per quanto nuovo, inusitato e immane.
Non voglio neanche confondermi troppo
né per la dignità pastorale né per l'o-
nore cardinalizio ; con la prima l'Au-
gusto Pontefice ha voluto soddisfare
al desiderio di tanti buoni, troppo
buoni per me ; col secondo ha voluto
fare un gesto di sovrana cortesia e a
questa nobile Polonia di fresco risorta
e ancora tanto travagliata ed alla mia
cara Città e Chiesa di Milano.
La disposizione Pontificia, per quanto
grave, mi lascia godere una gran pace
e mi infonde una grande fiducia ne-
gli aiuti umani e divini, tanto più
quanto più assente fu ogni volontà
mia ed ogni mia possibilità di scelta.
Sono comandato a*d un posto diffi-
cile; quando non si tratta che di ub-
bidire, mi par di valere per due... Ed
è proprio cosi : per me e per chi mi
comanda.
Mi congratulo dei Suoi belli e prov-
vidi lavori ; sarò felice di aiutarla in
un'opera di cosi benefico e necessario
apostolato.
La spero bene ; ogni bene Le au-
guro e prego con desiderio — e fidu-
cia — di presto rivederla nella sua
bellissima tra le dimore belle.
dev.mo obb.mo suo
t A. Ratti.
Prima che giungesse a Roma que-
sta sua lettera, venne il neo cardi-
nale-arcivescovo di Milano a dirmi
del suo grande predecessore S. Am-
brogio, il quale, vissuto in tempi più
calamitosi dei nostri, vedeva nella
legge universale di misura — armo-
nizzante le energie antagonistiche, sim-
boleggiate nelle strofe alterne del
THA l-TBai E RIVISTE
589
canto, — una base su cui ricostruire
la famiglia e l'aggregato sociale.
Erede dei Pontifices romani, dei
prisco-latini o italici, costruttori di una
Sacra via ideale alle nazioni, Pio XI
dirige il massimo Osservatorio ter-
restre, faro di segnalazione e guida
ai cuori umani, le cui profondità non
sono misurabili dalle più pompose
cifre dell'astronomo.
La divina semplicità, caratteristica
delle anime grandi, tuteli Pio XI; sug-
gerisca idee pure alla sua mente sana,
nutrita col pensiero e la divinazione
di millenni, invigorita con la luce sme-
raldo dei prati d'alta montagna, col
roseo dei graniti ed il candore deile
nevi eteme ; rievochi pensieri ed ima-
gini d'eterna bellezza, — sublime nelle
azioni belle, — dall'anima sua di Uomo
Giusto, sempre calma, come il cielo
sopra la luna è sempre sereno.
(gà).
*
« «
I nostri lettori hanno presente la
benefica campagna che il nostro valo-
roso collaboratore conduce contro l'ai-
coolismo che purtroppo costituisce uno
dei maggiori danni della società mo
derna. Intorno ad essa l'illustre cardi-
nale Gasparri cosi scriveva a Giacomo
Boni:
Sfgreteria di Stato
DI Sua SaxtitI
N. 157 II
Dsl Vaticano, »4 gecnaio 1931.
La predicazione apostolica dalla
S. V. lU.ma opportunamente ricor-
data neirofi"rire a Sua Santità il Suo
dotto lavoro sul Vinismo, nulla ha
perduto, neppure ai giorni nostri così
lontani, della sua forza, contro un vi-
zio funesto alla Religione non meno
che alla vita morale e civile dell'uomo
e della società.
Sinceramente deplorando gli abusi
dovunque essi si trovino e fervida-
mente auspicando che la sperimentata
efficacia del sentimento rehgioso sia
favorita anhe in questo campo per il
suo alto valore etico e trascendente,
il Santo Padre è assai lieto che l'au-
torevole parola della S. V. faccia cosi de-
gnamente eco alla parola della Chiesa,
e Le porge di cuore, insieme coi più
vivi ringraziamenti per il cortese omag-
gio e con ricambiati auguri per l'anno
nuovo, le Sue auguste felicitazioni ed
il voto di ogni bene.
Con sensi di alta stima mi professo
della S. V. IlLma
dev.mo
P. Card. Gasp arri.
lUmo Sienor Commendatore
Prof. Arch. Giacomo Boni
Palatino Roma.
Nbmi,
LIBKI E RECENTI PUBBLICAZIONI
t
A. Baccelli. Tm mèta. Koniaiizo.
— Livorno, Giusti. L. 7.
A. Oriani. Lfl lotta inditica in
Italia. — Firenze, « La V^ooe », 1921.
V'oli. I-III. L. 10.
A. Silvio Novaro. Due rovine.
Racconto. — Milano, Treves. L, 7.
C. Bernardi. L'iìuiibo e altre no-
velle. — Milano. Treve*. L. 5.
C. Dk Flaviis. L'aììwre di l'ulci-
nella. — Milano, Treves. L. 5.
C. Porta. Poesie milan-esi. — Mi-
lano, Mondadori. L. 20.
D. Provenzal. Il Dante dei pic-
roli. — Fiivnae, a La Voce », 1922.
L. 9.
Le più belle pagine di R. Monte-
cuccoli, aoeJte da L. Cadorna. — Mi-
lano, Treves, 1922.
Le più belle pagine di Alessandro
Manzoni, scelte da G. Papini. — Mi-
lano, Treves, 1921.
M. TiBALDi Chiesa. Omero e Glad-
ston-e, con prefazione di E. Roma-
gnoli. — Bologna, Zanichelli, 1922.
L. lo.
R. Sacchetti. La vita e le opere
di lioberto Sacchetti. — Milano, Tre-
ves, 1922. L. 8.
T. MuRRi. La vin^:ifrice. Roman-
zo. — Bologna, Cappelli. L. 7.
D. Fazzini. Cento sonetti in ver-
narolo fiorentino. — Firenze, Batti-
st€41i. L. 5.
V. Grandi. Il romanzo interiore di
Uosorin/) della Malorsa. — Firenze,
Battistelli. L. 6.
A. MoDUGNO. Bicordi bolognesi. —
Bologna, Oberosler, 1922. L. 5.
Q. Cardklli Fumacchi. Critica let-
teraria e ]X)litica. — Bologna, Obe-
rosler, 1922. L. 9.
T. Al.\ckvich. Dio, Vuomo e l'al-
di-là. Quello che può rivelare lo spi-
ritismo. — Bologna, ObM^Jsler, 1921.
L. 18.
M. Vinelli. / limiti della produt-
tività della terra. — Torino, Bocca,
1922. L. 12.
L. C. Licata. Diritti dell'anima.
Commedia in versi. — Canicatti,
1922. L. 5.
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Sir Robert Peel. — London, lohn
Murray.
E. Zyromski. Eugènie de Guérin.
— Paris, Colin, Frs. 7.
M. Rbynìss-Moulaxjr. Les Dieux
s'en von-t. — Paris, Plon, 1922.
Frs. 7.
R. Duverne. Brindine, Pacha et
C.ie. — Paris, Plon, Fra. 7.
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Baltimora, Williams e Wilkins Co.,
1922.
L. Carnovale. Th.e Di^rmament
Conferen-ce at Washingtow luill be a
Failure. Second edition. — Chicago,
1922. Cent. 0.25.
I. AuLNEATT. Le Bhin et. la Fran-
re. Histoire politiqu* et économique.
— Paris, Plon, 1921. Frs. 8.
Ugo Messiki. BetponaabiU
Bom» — Ditta Araani di Mario Ooarrtor.
^?l
INDICE DEL VOLUME CCXVI
(SERIE VI — 1922;
Fascicolo 1195 — T Gennaio 1922
La Sanfelice - Poema tragico - Atto I — G. A. Cesareo . Pag. 3
Ricordanze e augurii d'un recchio insegnante — Isidoro Del Lungo,
senatore ............. 18
Lord J. Bryce e la democrazia — Achille Loria^ senatore . .28
L'antico disino delle regioni: Cavour - Farini - Minghetti — Ernesto
Artom, senatore 37
Il caso di Bianca Neri — Alfredo Baccrlli. senatore .50
II pittore Luigi Serra (1846-1888) — Francesco Sapori .... 58
Nel centenario di Siato V — Alceo Speranza . . .67
Gli ultimi (t Cimbri » - Tramonto d'una parlata — Litigi Mbssbdaglia . 81
Antichi fasti e presenti condizioni della Sicilia — M. Vaccaro 89
La gara della pietà - Per i bimbi Baldncci 102
Fascicolo 1196 — 16 Gennaio 1922.
La SanfeUoe - Poema tragico - Atto II — G. A. Cesareo . . Pag. 106
Lettere a mie padre dall'America (1866-1867) — LrriGi Adamoli, sciatore 120
Ad tellurem alendam — Giacomo Boni 134
Il mondo della fantasia e dell'arte di E. T. A. Hoffman — Rodolfo Bot-
TACCHIARI 141
H vecchio - Nov^a — Mario Px'ccini ........ 153
n deqentramento — Dante Pktaccia . 161
n conte Giacomo De Martino e la sna oi)era in Cirenaica — Ernesto
Qtteirolo 173
Notizia letteraria : « Una religiosità inconsapevole » : Adriano Til^er —
Ernesto Bonaittti 186
Tra libri e riviste — I nostri editori: Antonio Vallardi - Elementi di
noologia - Scavi in Laguna - La questione rtmiana - « Vittoria » di
Giorgio Meredith - Un diario di guerra - Piscicoltura olandese - From
Waterloo to the Marne - In biblioteca -' Graf istoria della Regioaie Ita-
lica - Per i bimbi Balducci — Nemi 190
Ubri e recenti pubbUcazioni .......... 200
3ìt-
Fascicolo 1197 — l" Febbraio 1922.
11 pontificato di Benedetto XV e la politica ecdesiastioa italiana — A. C.
Jemou) Pag. 201
La Sanfelice - Poema tragico - Atto III — G. A. Cksareo .... 208
Lettere a mio padre dall'America (1866-1867) — Luigi Ad.\mou, senatore 221
Jl villaggio del Parini <> il potata Alessandro Arnaboldi — Raffaki.i.o Bak-
BIKRA S.ió
Un poeta inglese: William hniest Henley — Anna Benedetti 243
Luci e specchi - Novella — Clarice Tartufari 249
Il naturalismo umanistico di Roberto Ardigò — Giovanni Makchesini . 263
La situazione dell'Ungheria — Alberto Berzbviczv, ex-Pri^sidf ntc <U>Il;i
Camera dei deputati d'Ungheria .... 276
Tra libri e rivislie — I nostri editori: Loescher-Chiantorc - in iioro <ii
finaniva - Onoranze a Sir James Frazer investigatore dei riti prisco-
Italici - I consigli di un gioimalista - Il teatro e i fanciulli - Caserme
tedesche - Per la cultura nazionale - Usanze della società italiana nel
Seicento - Amburgo — Nehi 268
Libri e recenti pubblicazioni 296
Fascicolo 11S8 — 16 Febbraio 1922.
Il centenario delle casse di risparmio vienete — Luigi Lxtzzatti, senatore
- ministro di Stato Pag. 297
La Sanfelice - Poema tragico - Atto IV — G. A. Cesareo .... 302
Beatrice — Sidney Sonnino, senatore 318
Il programma - Novella — Ossip Félyne 337
Alessandro Manzoni, l'unità d'Itaha e la questione romana — Nunzio
VIaccaIìLuzzo 345
La trasformazione del latifondo in Sicilia e il problema meridionale —
Giovanni Lorenzoni 357
Pio XI e la nuova situazione politica del Papato — A. O. Jeholo . 372
Problemi del giorno: La crisi della Banca Italiana di Sconto — Argbn-
TARIU8 380
Tra libri e riviste — 1 cardinali Ratti e Gafiparri a Giacomo Boni — Nbmi 388
Libri e recenti pubblicazioni 390
NUOVA
ANTOLOGIA
LETTERE, SCIENZE ED AMI
SESTA SERIE
MARZO-APRILE 1922
VOLUME CCXVn — DELLA RACCOLTA CCCI
EOMA
DIREZIONE DELIBA < NUOVA ANTOLOGIA. >
±*IAZZA DI Spagna, Via di S. Sebastiano, 3
i922
PKOPRIÈTÀ LETTERARIA
Soma — sub. Lito-Tipogratioo DitU B. Arnuuii — Pianato Flamiaio, SK.
IL DIO DEI VIVENTI
ROMANZO
Iddio non i Dio dei morti, ma Dio dei -viveàti.
UAMSO xa.
Le cose erano andafe come la famiglia Barcai sperava. Il fra-
tello maggiore, Basilio, scapolo, ma padre di un figlio illegitimo,
era morto senza lasciare iestamento. Così i suoi beni tornavano al
fratello minore, Zebedeo; il patrimonio Barcai si ricomponeva come
ai tempi del vecchio nonno il quale aveva costretto due suoi figliuoli
a farsi preti e una figlia a non prendere marito perchè i suoi beni
non andassero divisi.
E la tradizione promett-eva di continuare, perchè Zebedeo non
aveva che un figlio, e la gente diceva che quel figlio era rimasto
unico per volontà dei genitori, nella speranza appunto che lo zio
Basilio morisse scapolo.
Le cose erano dtmque andate come si prevedeva, e la gente,
data la tradizione dei Barcai, non si meravigliava della poca co-
scienza del morto, il quale non aveva lasciato nulla al figlio, e che
d'altronde era morto d'improvviso d'un male al cuore da lui sempre
trascurato.
Non<jstante l'eredità, la sua morte aveva impressionato profon-
damente il fratello, col quale si amavano sempre coame da bambini
e si aiutavano a vicenda n^li affari e nelle vicende della vita. ¥&sì
abitavano la stessa casa, divisa in due parti eguali, e col cortile in
comune: una parente povera faceva i servizi a Basilio, ma poiché
era molto vecchia la moglie di Zebedeo l'aiutava.
La sera dopo il funerale Zebedeo uscì di casa tutto incappuc-
ciato e andò dall'amica del fratello.
11 suo pensiero fisso era di aiutare in qualche modo lei e il
ragazzo: la sua coscienza glielo imponeva nettamente.
La donna abitava non troppo distante, in una casetta di pro-
prietà del morto : anzi Zebedeo ricordava che la relazione peccami-
nosa era nata appunto dal fatto che lei e il marito, fabbro ferraio,
tenevano da molti anni la casa in affitto; un giorno l'uomo decise
di andare in America in cerca di fortuna e durante la sua assenza
la moglie si consolò col padrone di casa.
Il fabbro, avvertito da lettere anonime, era tornato col propo-
sito di spaccare la testa col suo martello ai due amanti; ma in viaggio
4 IL DIO DEI VIVENTI
un grave male lo aveva colto, una iparalisi alle gambe : la gente di-
ceva per opera d'una malia della moglie.
Il fatto sta ch'egli s'era fermato nel paese di sbarco, dove con
l'aiuto dei quattrini portati dall'America aveva aperto un negozio
di ferramenta che gli rendeva molto.
Di tanto in tanto scriveva lettere violente alla moglie, minac-
ciando di ucciderla, ma non si faceva mai vivo.
Zebedeo pensava a tutte queste cose camminando rasente i muri
per non farsi riconoscere dai pochi passanti. La notte era chiara,
illuminata da una vivissima luna: quando attraversava qualche
spazio libero egli vedeva la sua ombra disegnarsi sul terreno con
contomi nettissimi come una figura dipinta in nero, una figura un
po' misteriosa, quasi diabolica, col profilo del cappuccio, il cappotto
stretto alla vita, le gambe lunghe chiuse dalle ghette di lana.
Le sue scarpe erano pesanti; tuttavia egli camminava lieve, agi-
lissimo com'era, tutto muscoli e nervi; se dei nemici l'avessero as-
salito si sentiva capace di difendersi con le sue sole mani afferran-
doli e atterrandoli in gruppo. Ma egli non aveva nemici, e nessuno
pensava ad assalirlo in quella mite notte di aprile.
Eppure aggrottava le sopracciglia e stringeva i pugni, istinti-
vamente, come se un pericolo occulto lo minacciasse. Pensava alla
morte del fratello : ecco,^ uno se ne va tranquillo per la sua strada,
sicuro di sé e degli altri, e allo svolto un fantasma lo aspetta, gli
dà un colpo, lo fa stramazzare ..
Il suo viso era così corrucciato, così scuro fra il nero della barba
e dei capelli che la donna venutagli ad aprire provò un senso di
paura: o almeno lo finse.
Tuttavia lo fece entrare subito, con premura silenziosa, e con
voce turbata lo invitò a sedere.
Egli sedette, rigido con le grandi mani nere sulle ginocchia.
Il fuoco era ancora acceso nel camino e un certo senso di be-
nessere si avvertiva intorno, in quella cucina pulita ove ogni oggetto
era a suo posto, e la tavola lavata sembrava nuova, e una sedia
bassa accanto al focolare pareva aspettasse un visitatore che non
doveva arrivare mai più, E poiché Zebedeo s'era seduto lontano dal
camino, quasi avesse paura o sdegno della luce e del calore del fuoco,
gli occhi neri e grandi della donna erano corsi a quella sedia vuota
subito illuminandosi di lagrime: il suo viso (però non si scompose,
sottile, acuto, con qualche cosa che ricordava a Zebedeo la faccia
della faina.
Egli la guardava in silenzio. Tu non mi imbrogli con le tue
lagrime, pensava, osservando ch'ella era vestita completamente di
nero come una vedova, con un giubbettino tuttavia che dava ri-
salto alle forme procaci del seno.
— E il ragazzo? — domandò poi bruscamente.
— È già a letto: non sta molto bene.
— Cos'ha? — egli insistè con premura esagerata, — Se sta male
devi curarlo. Chiama il dottore. Il dottore è obbligato a venire, quel
mangio tutto, che lo possano ammazzare entro otto giorni.
La sua voce era squillante, sebbene egli parlasse a denti stretti
scandendo le parole, con pause profonde, fra un periodo e l'altro
come suonasse una campana e per il primo desse ascolto ai suoi
rintocchi.
IL DIO DEI VIVENTI 5
Anche il suo sdegno contro il dottore era ostentato: la donna
ebbe un fugace sorriso, un sorriso cattivo.
— Non occorrerà, il dottore, ohe il fuoco lo bruci, — disse anche
lei con accento di malevolenza; a me non garbano, le sue visite,
e ne faccio sempre a meno. Il ragcLzzo lo curo da me, quando oc-
corre, ohi è che non sa curare un ragazzo? E anche un grande, se
occorre... Se...
« Se Basilio si fosse confidato con me, se fosse stato qui al mo-
mento del male, forse lo avrei salvato », voleva dire, ma non lo disse :
aveva un certo pudore a pronunciare quel nome davanti a Zebedeo;
e anche lui, d'altronde, pareva volesse evitare di ricordarlo.
— Il ragazzo studia? L'ho veduto un giorno che tornava di
scuola e continuava a leggere per strada. Ha due occhi neri che
parlano e ridono da soli.
— Il ragazzo studia, — ella confermò, con voce bassa e sorda;
e sospirò profondamente. — Povero Salvatore! Mamma, mi dice
sempre, quando ero nella culla tu mi cantavi semipre una canzone
che diceva : cresci e diventa studente, gioiello d'oro; che la tua fama
si spanda dalla Corte di Roma alla Corte di Spagna. Ecco perchè
mi sono messo in mente di studiare e diventare dottore.
Ella si piegava e si dondolava un poco, quasi stesse ancora a
cullare il suo bambino; ma si raddrizzò, ostile, nel sentire le parole
di Zebedeo.
— Il mio Belila, invece, non ha voluto sentirne, di studiare; fatta
la terza disse: basta, oh, adesso: anche se mi mandate a scuola io
me ne vado nel podere e mi metto a zappare.
— Il tuo Bellia ha ragione: che se ne fa dello studio, lui che
ha tanta roba a cui badare?
Richiamato allo scopo per cui era venuto, l'uomo aggrottò la
fronte e chiuse un po' gli occhi come per guardare dentro sé stesso
e ascoltare meglio la sua coscienza: e si fece forza -per pronunziare
finalmente il nome del fratello.
— Lia, — disse con un certo dispiacere, — tu sai che Basilio
non ha lasciato nessuno scritto. Abbiamo cercato dappertutto inutil-
mente: indosso non aveva nulla e nulla si è trovato in casa. A te,
Lia, non ha mai consegnato qualche carta?
— A me nulla, Zebedeo, ma mi diceva sempre, fino alla vi-
gilia della sua morte, che avrebbe provveduto a me e al ragazzo
come fossimo legati a lui dalla legge.
— Lia, — egli riprese dopo un momento di silenzio, — mi hanno
riferito che tu, oggi, saputo che non si è trovato nessuno scritto, ti
sei buttata per terra e ti sei strappata i capelli, e ohe gridavi chie-
dendo giustizia a Dio; gridavi in modo che una vera folla si è accu-
mulata intorno a casa tua, e molti volevano fare una colletta per
il tuo Salvatore. Idioti e mendicanti lebbrosi che essi sono, — egli
ringhiò ancora sdegnato: — che credono, essi? Che i Barcai non
abbiano un'anima e un onore?
La donna ascoltava intensamente: i suoi occhi si facevano più
vivi, il viso pili acuto; e pareva guatasse nell'ombra, fissando l'uomo
come una preda.
— Chi ti ha raccontato tutto questo esagerava, — disse; — c'è
sempre delLa gente che prende gusto a seminare zizzania. Io pian-
gevo, è vero, ed è da tre giorni che piango; ma piango lui, non la
6 IL DIO DEI VIVENTI
sua roba. Egli non tornerà più qui, non tornerà più; questo solo mi
fa urlare, per il resto c"è Dio. Per allevare mio figlio e fame un
uomo basto io sola con le mie braccia. Andrò a spaxjcare pietre, se
occorre; ma nulla mancherà alla mia creatura. Per il resto c'è Dio,
— ripetè; e le sue parole avevano qualche cosa di nascosto, di mi-
sterioso.
— Che cosa vuoi dire con questo?
— Che Dio vede tutto. Se Basilio ha creduto di far cosi, vuol
dire che Dio voleva castigarmi per mezzo suo. Tu hai peccato, mi
dice, e tu alleverai il figlio della colpa fra il dolore e la povertà.
Dio è giusto; è la giustizia stessa.
— Tu non mancherai di nulla. La casa ce l'hai, le provviste
non ti mancheranno. Se tuo figlio non potrà diventare maestro o
dottore diventerà contadino o pastore; ma nulla ti mancherà.
" — Se Basilio fosse vissuto, mio figlio non diventava né conta-
dino né pastore, — ella disse con fierezza; e subito Zebedeo intese
ch'ella pretendeva si facesse continuare a studiare il ragazzo; ma
egli aveva ben altre idee, e in fondo era geloso dell'intelligenza e
delle buone disposizioni del piccolo Salvatore : perchè Salvatore do-
veva diventare un dottore mentre Bellia rimaneva un contadino?
Lì per lì non seppe dunque rispondere, sebbene sentisse lo
sguardo di Lia penetrargli fino all'anima : e aveva l'impressione che
ella gli leggesse nel pensiero e indovinasse tutto di lui : ma lui non
era un uomo debole e quello che voleva voleva.
— Io non so che intenzioni avesse Basilio, riguardo al ragazzo;
— disse dopo un breve silenzio; — non me ne parlò mai. Eravamo
molto legati, molto fratelli, ma riguardo ai suoi fatti intimi era
molto chiuso. So però una cosa: che egli non amava la gente che
va fuori del paese. Diceva : se Dio ci ha fatto nascere in un posto
vuol dire che dobbiamo viverci; più si sta raccolti in una casa o in
un ovile, più si sta bene e tranquilli. Era un uomo di senno Basilio.
— Era un uomo di senno, — confermò la donna: — ma a me
diceva che non bisogna farsi padroni della volontà altrui. Dio ci ha
messo in un posto, sì : ima se uno vuole camminare e andar lontano
è segno che Dio comanda così. Gesù e gli apostoli sono andati lon-
tano, fino al mare e fino a Roma; ed erano chi erano.
L'uomo parve colpito da questa osservazione; ma subito scosse
la testa con evidente sdegno : che forse la donna voleva paragonare
suo figlio a Gesù o ad alcuno degli apostoli ?
— Quanti anni ha adesso tuo figlio? — domandò brusco.
— Mio figlio compie adesso dieci anni, il Signore lo benedica
e lo faccia arrivare a cento.
— Non avrebbe intenzione di farsi prete?
Nonostante il suo dolore, la donna ebbe un lieve riso sincero.
— Mio figlio è religioso, ma i suoi occhi non dicono, no, in ve-
rità, ch'eg'li pensi a farsi prete.
— Eppure è l'unico posto buono, per un uomo, — egli disse
convinto. — Mi fossi fatto prete, io. Vivevo bene in questo mondo
e salvavo l'anima mia per l'altro.
— E chi ti impedisce di viver bene e di salvarti l'anima? Non
dispero di salvarla io, che ho peccato e dato scandalo, e pensi di
perderla tu ? Che hai fatto di male ? Delitti non ne hai commessi»
e neppure ti sei preso la roba altrui.
IL DIO DEI VIVENTI 7
Ella lo fissava; ma pareva, più che altro, vivamente curiosa di
sapere in che egli poteva x)eceape.
Egli disse fra l'aspro e l'umile:
— Siamo tutti soggetti all'errore, e quello che non s'è fatto fi-
nora si può fare in avvenire. E non tutti i peccati consistono nel
rubare.
— Questo è vero; e puoi portarmi l'esempio del tuo stesso fra-
tello. Era un uomo saggio, eppure peccò. Dio lo ^perdonerà per le
sue buone intenzioni poiché, dopo tutto, se egli non ha potuto sal-
dare il suo conto in vita è perchè c'era ostacolo. Tante volte noi pec-
chiamo contro la nostra volontà. Egli stesso lo diceva. Del resto ^11
viveva con me come fossa la sua moglie legittima, e Dio lo avrà per-
donato, lo sento nel profondo dell'anima,
E d'un tratto ella piegò la testa profondamente, come stroncata
dai ricordi e dalla pena, e pianse forte.
Ogni parola di lei era una frecciata iper Zebedeo, e quel pianto,
invece di commuoverlo lo irritò : credeva di capire le allusioni di
lei, sempre tese allo stesso scopo; che cioè i parenti di Basilio la
escludessero, dall'eredità nonostante le dispc«izioni del morto; ma
era un uomo di coscienza, lui, e voleva chiarire le cose
— Sono un uomo di coscienza, Lia — disse con calma; — e ti ri-
peto ohe non aggraverò i peccati di Basilio davanti al Signore. Sono
qui per questo. Ascoltami : è inutile continuare con chiacchiere vane.
Appena passato il primo grande dolore per la morte di Basilio, tutti
noi abbiamo .pensato subito a te e al ragazzo, animati dalle migliori
intenzioni. Mia moglie, sopratutto, si preoccupava di questo; ma
poi vennero a riferirci della tua scena, dei tuoi gridi, delle tue ac-
cuse, e i parenti tutti ti divennero ostili. Lasciamola quale nemica
che è, — dissero tutti. — Vuoi sapere una cosa, Lia? Io sono venuto
qui stasera di nascosto, a insaputa della mia famiglia; e sono qui
per dirti : Lia fa il tuo dovere; rimani a casa tua a fare le tue fac-
cende e non chiacchierare, non dare ascolto né soddisfazione ai vi-
cini ed ai lontani. Io penserò e prowederò a te ed a tuo figlio; vedrai
che sarai contenta. Che vuoi fare altrimenti ? una lite non puoi in-
tentarla; è meglio quindi, che tu accetti la mia buona volontà.
La donna piangeva.
— Non m'importa di nulla, — disse con voce cavernosa; — nes-
sun bene del mondo può compensarmi del bene perduto. Basilio mio,
cuore mio, gioiello d'oro e d'argento, tu sei uscito per ritornare e
non ritorni più : la mia iporta s'è chiusa dietro di te come quella
dell'eternità. Che importa tutto il resto?
Zebedeo s'alzò, un poco infastidito. Nel venire da Lia ^li s'era
aspettato urli, improperi e maledizioni; nel vederla cc^i, piegata e
rassegnata al suo destino, provava un certo malessere; l'avrebbe pre-
terita violenta e accusatrice; ma la sapeva già, sebbene la conoscesse
poco, donna lusinghiera e finta, di modi insinuanti; giusto per questo
aveva abbindolato il povero Basilio.
Dritto davanti a lei, con una mano appoggiata aip^rta sulla ta-
vola, egli la guardava dall'alto, aspettando che ella finisse i suoi
lamenti.
— Coraggio! — disse infine, come le facesse le sue condoglianze.
— Siamo nati per soffrire. E anch'io non dovrei continuare a pian-
S IL DIO DEI VIVENTI
gere? Era mio fratello, dopo tutto. Il tempo guarirà il nostro dolore.
Addio.
S'avviò, senza porgerle la mano. Ella si alzò di scatto e vide
che egli aveva deposto sulla tavola un biglietto da cento lire: e
sulle prime ebbe un moto per afferrare il foglio e buttarglielo
dietro; poi tremò e s'irrigidì in pari tempo come un cavallo frenato
e raggiunse a lunghi passi Zebedeo fin sulla porta salutandolo umil-
mente.
Ma quando fu sola prese il biglietto e lo spiegò, fra tutte e due
le mani, guardandolo come per esaminare se era buono; e subito
dopo sollevò e scosse le braccia in direzione della porta maledicendo
l'uomo e tutta la sua generazione.
•
• •
E l'uomo, di fuori, sentiva ch'ella faceva così, e aveva un po'
di paura, perchè infine, pensava. Salvatore era figlio di Basilio e
aveva diritto naturale, se non per legge, all'eredità.
Dio dispone così. Ma il mondo ha quasi sempre piìi ragione di
Dio; il mondo non permette che un figlio illegittimo prenda l'ere-
dità patema, e, dopo tutto, le leggi sono fatte da uomini sa^gi ohe
forse e senzia forse sono inspirati da Dio.
Se la legge dispone così, vuol dire che un certo castigo deve
pesare sul figlio del peccato. Questo, poi, l'ha detto proprio Dio : che
i figli devono scontare le colpe dei genitori.
— Noi camminiamo guidati da Lui, se Lui vuole ch'io faccia
così è segno che devo far così.
Ma intanto aveva paura della maledizione della donna, ed anche
delle sue fattucchierie. Sa/peva, per esempio, ohe in quegli ultimi
tempi, per quanto lei adesso mostrasse tanto dolore, non correvano
più buonissimi rapporti fra lei e Basilio; ed essa gli augurava del
male: forse lo aveva fatto morire Lei.
Che vada dunque al diavolo anche lei! Ed egli fece le fiche per
scongiurare il malaugurio, ma guardava per terra e gli pareva che
di tanto in tanto il terreno si spaccasse per lasciare intravedere
una misteriosa profondità d'acqua e di fuoco. Erano pezzetti di vetro
che scintillavano alla luna.
•
• *
Finalmente le visite di condoglianza erano terminate e le donne
si affaccendavano a rimettere in ordine la casa.
La serva, una ragazza che rassomigliava a Lia, ma molto più
giovane e acerba, aveva riacceso il fuoco e rimessa la caffettiera a
bollire, sapendo che quello era il maggior conforto delle sue pa-
drone e anche suo: e tpensava con sollievo ohe finalmente il. padrone
anziano se ne sarebbe andato in campagna, come già n'era andato
il padrone piccolo.
Erano così autoritari e pretensiosi gli uomini, quando slavano
in casa. Il padrone anziano voleva ohe la serva gli versasse perfino
l'acqua da bere, e gli lavasse i piedi, e la trattava come una schiava.
Quei giorni, poi, era più inumano che mai : il dolore per la
IL DIO DEI VIVENTI »
morte del fratello pareva lo inasprisse, e lo rendesse malvagio, in-
vece di ricordargli che tutti dobbiamo morire.
Ecco che seduto ancora al posto dove da tre giorni riceve le con-
doglianze degli amici e dei conoscenti, ancora fermo e rigido dentro
il suo cappotto come un diavolo in (penitenza, grida alla ragazza che
vada a prendere il cavallo dalla stalla e lo conduca all'abbeveratoio.
— E non montarci su, non farlo bere in fretta.
— L'ho fatto già bere qui, con l'acqua del pozzo pulita come
l'argento.
— Oh!
Un oh, solo; ma urlato in modo tale che la ragazza balzò come
sotto una sferzata e corse via.
Il fatto è che il padrone voleva per qualche momento liberarsi
di lei e della sua curiosità; voleva parlare alle donne, prima di an-
darsene in campagna, alleggerirsi di un peso ohe gli gravava sul-
l'anima e sul corpo.
— Zia Annia, — disse, non senza una certa trepidazione, —
bisogna che parliamo di una cosa; e tu, Maria, mettiti a sedere fi-
nalmente.
La moglie non se lo fece ripetere; era una ipiccola donna pingue
e remissiva che sarebbe rimasta tutta la sua vita seduta, senza far
niente, felice solo di quello. Sedette accanto a lui e riprese istinti-
vamente l'atteggiamento composto e tragico di quando riceveva le
condoglianze.
La vecchia zia Annia continuava invece ad andare e venire, ap-
poggiando l'altissima persona scarna e ricurva a un bastoncino che
non lasciava mai: le sue lunghe vesti nere strascinavano per terra,
tutte di lana grossa, e pure di lana era il fazzoletto che le circondava
il viso grande, terreo, dal lungo labbro sardo e gli occhioni neri
cerchiati.
Andava e veniva; eppure aveva sentito e forse anche capito il
richiamo di Zebedeo, ma fìngeva di nulla, occupvata a riempire d'olio
i lumi d'ottone disposti sopra il camino, e una lanterna che serviva
alla notte .per andare nel cortile o nella stalla.
— Zia Annia, — ripetè Zebedeo sforzandosi a parer gentile, —
venite a sedervi qui, per piacere. Ho da chiedervi un consiglio.
Ella depose l'oliera, si pulì le mani, tutto con lentezza, come
assorta in un suo pensiero dal quale nulla valeva a distorgliela.
Quando finalmente le piacque andò a sedersi anche lei in fondo
alla stanza, dove questa aveva una specie di abside con una finestra
che adesso stava chiusa, come tutte le altre della casa, per il lutto.
— Si tratta di quella donna, — disse Zebedeo, — di Lia, del-
l'amica del beato Basilio insomma.
La vecchia rispose seccamente:
— Se tu sei uomo di fegato devi trovare subito il modo di farla
tacere.
— E come? — egli domandò, piccato; — ditelo voi, il come.
— ■ Sai quello che hanno fatto a donna Marta Deliperi, sebbene
nobile e ricca. Aveva la lingua lunga e amava gli scandali : ebbene,
tu sai quello che gli avversari le hajino fatto. Tu lo sai.
Egli lo sapeva. A questa donna Marta Deliperi gli avversari
avevano fustigato il sedere nudo con una corda di pelo, sino a farlo
10 IL DIO DEI VIVENTI
sanguinare; e sulle piaghe vive sparso il sale, in modo ohe la donna
dalla lingua lunga era stata in pericolo di vita.
— Gli avversari di donna Marta Deliperi avevano ragione di
farle quanto le hanno fatto. Eppoi erano altri tempi. Io non mi sento
da tanto.
— Ma c'è anche il giudice, — propose timidamente la moglie. —
Egli condanna le persone diftamatrici.
— Io, — riprese con accento di odio la vecchia, — ho sempre
avuto il presentimento che quella demonia ci 'portasse la sventura
in casa. Sempre ce l'ha portata del i-esto, fin dal malaugurato giorno
che fissò gli occhi di serpente sul nostro .povero Basilio. Lo aveva
incontrato, lo aveva legato a sé con malìe infernali. Ci fu un tempo
ìb cui lo spronava anche al delitto: posso dirvelo in coscienza, per-
chè qualche volta il povero morto aveva dei momenti di confidenza
con me. E mi diceva: zia Annia, forse mangerò il pane del re: vale
a dire, forse andrò in prigione. Perchè la vipera lo consigliava ad
ammazzare il marito, non riuscendovi lei con le sue fattucchierie.
E il marito lo sapeva, e lo sa, disgraziato; per questo, per paura,
non è ritornato in paese. Un'altra cosa devo dire...
— As/pettate, — interrujppe Zebedeo, infastidito di quel torrente
di parole; — tutte queste sono chiacchiere; il fatto è che la donna
ci diffama; qualcuno può non credere alle sue storie, ma i più vi
credono. Bisogna iarla tacere, questo è l' importante.
— Accoppala, ti ripeto; oppure ha ragione tua moglie, diamole
querela.
— Oh donna di Diol — egli sospirò; — il rimedio è peggiore
del male.
— Perchè?
— Perchè se andate a molestare una viqpera, questa vi morde
con più furore.
— E allora che vuoi fare? Dillo tu.
— Io direi di prenderla con le buone; di aiutarla a campare.
— Ah, Zebedeo! E tu, dunque, te la vuoi mettere in seno, la
vipera? Prova, prova: prova e vedrai.
— Infine, non è per lei, è per il bambino. È figlio del povero
morto, e dobbiamo aiutarlo.
— Questo è vero. Ma non si potrebbe toglierlo alla donna e pren-
derlo noi? Basilio gli voleva molto bene, — disse la moglie.
La vecchia non rispose, ma sorrise con compatimento: aveva
molto rispetto per Maria Barcai e la considerava come sua padrona,
non la contraddiva, ma la compativa per le sue ingenuità. D'al-
tronde anche Zebedo diceva:
— Non è il caso neppure di parlarne, moglie mia; e non sa-
rebbe coscienzioso il tentare di farlo. Eppoi mi dicono che il ragazzo
è molto intelligente e attaccato alla madre.
— E la madre ne farà un nostro nemico, non dubitarne.
— Non ne dubito, no, se non procureremo di evitarlo.
— Ma che cos'è, dunque, che tu vuoi fare? E cedi dunque a
quei due l'eredità, — disse la vecchia, con ironia rabbiosa.
— Se Basilio avesse disposto così, io sarei pronto ad eseguire
la sua volontà, — affermò Zebedeo, con grave tristezza.
— Per fortuna Basilio ha lasciato a Dio la cura di provvedere
IL DIO DEI VIVENTI 11
a quella vipera. E Dio prowederà: non provvede a tutte le vipere
della terra?
— Zia Annia! questo non è parlare degno di voi. Siete vecchia e
vi ho conosciuta sempre saggia e timorata di Dio. Tutti possiamo
avere del veleno in cuore; ma sotto il cuore c'è la coscienza.
— È vero, — approvò la moglie.
Anche la vecchia parve colpita dalle parole di lui.
— E di' tu, allora, Zebedeo.
— Io ho detto. Bisogna aiutare la donna e il fctnciullo. Bisogna
non dare ascolto alle chiacchiere della gente: la gerite ha gusto a
spandere zizzania. Chiudete la porta alle donne sfaccendate, die
vadano all'inferno, a chiacchierare con Lucifero. Date retta; chiu-
dete la porta.
La vecchia lo guardava fìsso, fra curiosa e beffarda: infine do-
mandò:
— Per caso, ci sei stato anche tu nella tana della vipera?
Ed egli arrossì; ma parve un rossore di dispetto; o almeno per
tale egli lo fìnse.
— E se ci fossi stato? Sono forse un uomo che deve aver paura
delle vipere? Ne ho ammazzate millanta e una, con la punta del mio
bastone.
— E ti ripeto che faresti bene, non dico ad ammazzare, ma a
pestare la lingua a questa.
— E, perdio, non è quello che dico? — egli g-ridò. — Ma con le
donne bisogna parlare tre ore prima di intendersi. Infine, il fatto
è questo : bisogna far tacere la donna aiutandola. Mandiamoci della
roba in casa, anche perchè il mondo veda. Altrimenti prowederò
io : provvedere, cmche perchè la coscienza così mi detta : ma poi non
venite a farmi delle chiacchiere.
Egli alzava sempre ipiù la voce, e pareva provasse gusto a gri-
dare, più per gridare, dopo tutti i bisbigli e le parole false di quei
giorni, che per affermare la sua volontà.
La moglie aveva chinato la testa e si guardava le mani grasse
incrociate sul grembo: per lei la volontà del marito era la sua;
ma non le dispiaceva in quel momento, che zia Annia contrastasse
con Zebedeo: perchè in fondo sentiva, come la vecchia, una paura
superstiziosa di Lia: per troppo tempo, ipoi, aveva nutrito il terrore
che l'eredità di Basilio andasse al bastardo, invece che al suo Belila.
La vecchia diceva dunque, senza alzare la voce, senza scom-
porsi:
— Se tu credi di placarla con poco t'inganni. Zebedeo, quella
è un vampiro che non ti darà mai pace, e più le farai del bene più
lei ti farà del male. Ti voglio ripetere il mio sospetto che Basilio
sia morto per opera sua: anche lui aveva paura di questo.
— Zia Annia! perchè parlate così?
— • Tu lo hai detto; perchè nel cuore possiamo tutti avere del
veleno, ma sotto il cuore c'è la coscienza. Tu osserverai: quella
vipera non aveva interesse che il povero Basilio morisse: anzi con
lui tutto doveva perdere. Ed io ti rispondo: ma lei non credeva
così; lei era certa di mettere le mani sulla roba di Basilio; lei era
convinta che esistesse un testamento di lui m favore del figlio.
12 IL DIO DEI VIVENTI
— Ma allora avrebbe cercato di tenerlo lei, questo testamento.
— E chi ti dice che non l'abbia?
— Voi sragionate. L'avrebbe tirato fuori subito.
— È vero, — approvò la moglie, ohe s'era animata, ed anzi
aveva un lieve brivido d'inquietudine.
— Non si sa mai il 'pensiero delle donne come quella, — riprese
la vecchia. — Aspettiamo qualche giorno. Questo di certo posso dirti,
che un testamento lui lo aveva fatto. E lo teneva sempre con sé : e,
quando gli accadde la disgrazia, sabato scorso, ricordati, Zebedeo,
io venni qui gridando; e tu sei accorso e lo hai tirato su, lo hai messo
sul letto, mentre la serva correva a chiamare il dottore. Le vesti del
povero Basilio le ho messe io, sulla sedia, e nessuno le ha più toc-
cate, finché, dopo qualche ora si guardò se aveva delle carte in tasca;
e ne aveva, sì, ma non quella.
Zebedeo ascoltava, attento come se le cose che sentiva gli fossero
nuove, aspettava il particolare che gl'indicasse come la vecchia sa-
I>eva del testamento; e tardando questo particolare a venire s'irritò.
— Ma, infine, avete voi veduto il testamento? Questo importa
sapere, tutto il resto sono chiacchiere.
— Veduto non l'ho, ma so di certo che lo aveva. Del resto io
non so leggere e non frugavo nelle carte del povero Basilio.
— Può darsi che il testamento fosse a favore nostro e che la
vipera glielo abbia sottratto, — arrischiò l'ingenua Maria Caterina
Barcai.
— Macché, macché! — gridò il marito. — Non era uomo da la-
sciarsi beffare così, mio fratello. E voi, donne, fareste bene a tener
la lingua in bocca, perché ogni vostra parola è un mal seme gettato
al vento. '
La zia Annia non protestò; anche per lui aveva un certo rispetto,
una soggezione istintivamente servile; ma non potè nascondere un
risentimento silenzioso e ostile che le indurì maggiormente il viso.
E l'uomo se ne accorse e alzò ancor più La voce come s'ella gli
avesse risposto male.
— Il fatto é questo, che se voi chiacchierate così davanti alla
gente, la gente, che é maligna, può dire: il testamento lo hanno fatto
sparire i parenti. Ed é questo, appunto, che urlava ieri quella donna
che voi chiamate la vipera.
— Io non sono donna da gettare le parole al vento, Zebedeo;
non ho mai chiacchierato con le vicine di casa. Se adesso ho parlato
è perché tu stesso lo desideravi.
— Io non desideravo questo, veramente; io vi ho chiamato qui per
dirvi il mio (i>ensiero, che nonostante tutte queste divagazioni rimane
lo stesso: bisogna sovvenire la donna perchè il figlio é figlio di Ba-
silio. Se poi le risponderà male, peggio per lei : è afTar suo : noi non
abbiamo bisogno della sua gratitudine.
— È vero, è vero, — ripeteva la moglie, guardando ora lui ora
la vecchia. Ma questa serbava nel viso le pieghe del suo risenti-
mento: le parole di Zebedeo l'avevano punta a fondo, e lei non si
lamentava, ma non perdonava.
Qualche cosa di ostile, una sfumatura di diffidenza reciproca,
un'ombra indefinibile sorse subito fra lei e Zebedeo. Egli sentì il
bisogno di alzarsi, di mettere fine al colloquio: eppure aveva voglia
IL DIO DEI VIVENTI 13^
di gridare ancora, di provoccire la vecchia : andò su e giù sbuffando
per la cucina, in cerca di qualche cosa che non trovava, infine uscì
sbattendo Tuscio.
Le due donne continuarono a parlare della cosa, e la moglie
adesso propendeva per le idee del marito, anche perchè sapeva che,
dopo tutto, egli avrebbe fatto il piacer suo, mentre, la vecchia, pur
dichiarando di non voler più impicciarsi nell'affare, gettava nel suo
discorso frasi misteriose che davano un oscuro senso di paura alla
mente di Maria Barcai.
— Il povero Basilio, Dio lo perdoni, ha peccato con quella donna;
doippiamente ha peccato, per adulterio e perchè quella donna ha la
natura del demonio: sono peccati che Dio fa scontare a tutta la ge-
nerazione dell'uomo che li fa, — disse in ultimo; — preghiamo Dio
che così non sia.
E Maria Caterina Barcai si mise a pregare fra sé per suo figlio,
quasi un pericolo vero lo minacciasse.
•
• •
Anche ZebeJeo si sentiva oppresso da un presentimento di sven-
tura. Elcco che se ne andava a cavallo; tutto nero e incappucciato
come un cavaliere errante, per la strada luminosa che attraversava
campi ondulati ove le distese d'orzo e di frumento si alternavano
a distese coperte di ginestre e di eriche e a vastissimi prati tutti
violetti e bianchi per i fiori del ipuleggio e delle margherite.
Una serenità già quasi estiva rallegrava il paesaggio: sui lucidi
cespugli dell'acanto che fiancheggiavano la strada, si posavano grandi
farfalle dai vivi colori, e ragni bianchi e insetti verdi e dorati: tutti,
insetti e bestie, fiori e foglie vestiti a festa: e dalle querele che
spandevano la loro ombra fitta sul verde del grano, gli uccellini
nuovi volavano giù come lasciandosi cadere a picco dal nido.
In fondo apparivano i monti battuti dal sole, coi boschi di lecci
che cominciavano a fiorire; e pareva venisse di lassù il fresco soflSo
profumato che faceva sorridere e mormorare le foglie.
L'uomo a cavallo portava la sua nota di lutto attraverso la gioia
innocente delle cose, ma si lasciava anche lui di tanto in tanto scuo-
tere e penetrare da quell'alito puro dei monti che gli ricordava qual-
che cosa d'indefinibile, un luogo lontano dov'era vissuto nella sua
prima infanzia e anche (prima, durante una vita anteriore.
Pensava sempre all'eredità del fratello; e il problema lo preoc-
cupava tanto da fargli persino dimenticare il dolore per la morte di
lui. Gli sembrava di sentire ancora, dentro di sé, la voce delle sue
donne, . quella grave e austera della vecchia, e quella placida e in-
genua della moglie. E la moglie accomodava tutto, con la sua sem-
plicità; se si lasciava fare a lei tutto andrebbe bene, nella vita; tutto
si aggiusterebbe con la bontà e con un po' di pigrizia.
E si pentiva di non essersi consigliato solo" con lei, dopo tutto
la vecchia zia non era che una serva; riceveva il suo mensile e se
lo metteva da parte; che ei aveva da vedere negli affari di casa?
— Se non sta zitta, posso anche iprenderla per il braccio e cac-
ciarla via.
14 IL DIO DEI VIVENTI
Ma la sua stessa eccitazione accresceva la sua inquietudine.
Al suo arrivo al podere, due servi che vi lavoravano, due> fratelli,
piccoli neri e scarni, divorati dalla fatica, si sollevarono per salu-
tarlo quasi militarmente, perchè egli non dava nessuna confìdenea
alla servitù : era scrupoloso, pagava bene, ma ciascuno al suo posto.
Non rispose .neppure aila parola di condoglianza che i due gio-
vani, quando egli smontò da cavallo, gli rivolsero seri e composti :
solo ordinò che non togliessero la sella al cavallo, poi domandò se
Belila, il figlio, era stato al podere.
— C'è stato, verso mezzogiorno, poi ha proseguito per Sanmattia.
Sanmattia era la proprietà principale del morto, una vigna, un
seminato, un vasto pascolo con molto bestiame : distante circa un'ora
di strada dal podere di Zeibedeo, verso il principio di una vallata
e quasi ai piedi dei monti.
Non s'era trascurato, Bellia, ad andare a visitare la proprietà
dello zio; e del resto aveva fatto bene.
I due servi avevano ripreso a lavorare; zappavano la vigna, e
tc^lievano alle viti i traici superflui: di solito lavoravano uno di-
stante dall'altro, in silenzio; in quel momento invece s'erano avvi-
cinati e si scambiarono qualche parola sottovoce. D'un tratto uno
di essi raggiunse il padrone che s'era alquanto allontanato e si chi-
nava per guardare le viti.
— Zio Zebedeo, — disse con accento rispettoso, — prima di mo-
rire zio Basilio vi avrà forse detto che io gli devo dieci scudi.
II padrone lo guardò dal basso, con sdegno, e senza sollevarsi
borbottò :
— Egli non ha avuto tempo neppure di dirmi addio, figurati
se pensava ai tuoi dieci scudi.
— Non importa, glieli devo lo stesso, e appena potrò li resti-
tuirò. 0 se credete, zio Zebedeo, voi potete ritenerveli dalla paga
mia e di mio fratello.
— Vattene, tu coi tuoi dieci scudi! Noi faremo delle elemosine
in nome e in memoria del morto; puoi tenerli i suoi dieci scudi.
Il servo lo guardò un poco sbalordito, perchè sapeva per espe-
rienza che i Barcai non erano molto generosi. E una viva gioia gli
brillò negli occhi melanconici, per un momento rimase incerto se
insistere o no; decise per il no: aveva fatto il suo dovere, dichia-
rando un debito che il padrone ignorava: Dio lo compensava per
la sua buona coscienza.
— Dio vi rimeriti, allora — disse commosso; — io e mio fratello
ci ricorderemo della vostra bontà; e pregheremo -per voi e per il
beato morto.
E tornò presso il fratello, col quale si rimisero a lavorare con
più lena di «prima.
Ma il padrone non sembrava contento; nel sollevarsi s'era sen-
tito arrossire per la stizza, perchè neppure lui sapeva il perchè della
sua improvvisa generosità; se avesse potuto avrebbe ritirato la sua
parola; non potendolo imprecò fra di sé contro i servi e mandò al
diavolo le preg-hiere ch'essi promettevano iper lui e per l'anima del
morto.
E il diavolo si mangiò anche quei dieci scudi.
IL DIO DEI VIVENTI 15
Di solito egli si tratteneva a lungo nel podere, aiutando i servi
a lavorare e visitando minutamente ogni cosa, E aveva piena fiducia
in quei due bravi ragazzi ch'erano, si può dire, cresciuti nel podere
e lo amavano come proprietà loro.
Quel giorno invece provava quasi noia a visitare la sua terra;
una smania di camminare, di andare in qualche altro posto lo co-
stringeva ad affrettarsi; e i due servi, nonostante la recentissima
prova della loro onestà, anzi forse a causa di questa prova, gli riu-
scivano improvvisamente antipatici.
Attraversando uno spazio coltivato a fave destinate ad essere
raccolte e seccate alla loro prima maturità, vide un sacchetto colmo,
legato in cima, e subito pensò che fosse pieno di fave fresche.
I servi dovevano coglierle a sua insaputa, per portarsele a casa
o venderle; perchè non potevano essere disonesti anche loro? Forse
erano figliuoli o nipoti di santi? Col piede tastò il sacco, era duro,
ma non bitorzoloso come avrebbe dovuto esserlo se pieno di
fave. Si volse a guardare se lo vede\'ano; le fave erano alte, che co-
privano la sua persona curva: allora slegò il sacco; e vide ch'era
pieno solamente d'erba pesta sanguinante per il rosso dei papaveri
che vi sd mescolavano.
Legò di nuovo il sacco, cercando di farlo com era prima perchè
i servi non si accorgessero della sua diffidenza; poi ripartì, senza
neppure salutarli; essi però non solo scusarono ma trovarono giusto
il suo triste umore : non si può ridere né essere espansivi tre giorni
dopo la morte improvvisa di un fratello.
Ed egli se ne andava tirandosi sul viso il cappuccio contro i
raggi del sole, come volesse stare ben chiuso nel suo scuro dolore.
I servi però dal basso della vigna, videro- ch'egli, sebbene l'ora
fosse quella del ritomo, invece di avviarsi al paese, andava in là,
verso i monti; forse incontro al figlio, o forse addirittura a visitare
anche lui la proprietà del fratello. Dopo tutto, i morti son morti,
e ai vivi Dio stesso comanda di vivere e di fare il proprio dovere.
Zebedeo non sapeva veramente se era Dio a ordinargli di an-
dare verso la proprietà del fratello : in principio non era stata questa
la sua intenzione, e anche adesso si avviava con mala voglia, spinto
da una irrequietudine nervosa, e sopratutto dal desiderio di incon-
trarsi con Bellia e rifare la strada assieme.
Questo Bellia era un ragazzo di sedici anni, che aveva ancora
la spensieratezza innocente dei bambini e nello stesso tempo già
qualche cosa di maturo, di assennato : dava un senso di gioia a starci
assieme, e il padre, quando era con lui si sentiva ringiovanire.
— Eppoi bello! — pensava con tenerezza orgogliosa. — Alto,
sottile, diritto e liscio come un fusto di pioppo : e gli occtìi gli ridono
da lontano, nel viso pulito come quello di una fanciulla. La bellezza
di casa nostra! Non sembra neanche mio figlio.
Intanto camminava. Il sole era ancora alto, ma già in declino
verso l'occidente : le ombre si allungavano, lo scintillare delle foglie
e dei giunchi si faceva più vivo, l'aria più odorosa.
S'avvicinavano i monti, con le loro cataste di massi granitici
16 IL DIO DEI VIVENTI |
simili a enormi rovine; le ombre al calare del s(rfe si allungavano
tutte in su come tentando di arrampicarsi verso le cime.
Adesso il passaggio era popolato di greggie e di armenti, iper
la vicinanza del fiume il quale mostrava il suo gomito d'argento tra
il monte e il principio della valle.
Laggiù era la proprietà del morto, di grande valore appunto
perchè confinava con quel corso d'acqua che non veniva meno come
in altri luoghi, neppure dopo le lunghe siccità estive e spesso anche
invernali.
Per arrivare (più .presto Zebedeo lasciò la strada principale e
prese un viottolo fra due muricele ricoperte di rovi; era un viottolo
pericoloso, lungo il quale i malfattori usavano assalire e depredare
i viandanti : Ziebedeo non aveva mai per questo esitato ad attraver-
sarlo, solo, adesso, quel senso d'angoscia che non lo abbandonava
più, gli stringeva forte il cuore: ecco, sentiva una paura va^a, mi-
steriosa; gli pareva di aver dei nemici adesso, lui ohe non ne aveva
avuti mai, e che lo aspettassero in agguato dietro le muricele.
Due occhi infatti scintillavano attraverso la siepe; brilla la punta
di un pugnale, e più in qua la bocca di un fucile: idiota che sei,
Zebedeo, è il sole al tramonto che fa questi scherzi.
E lo stridere degli uccelli, il fischio del merlo, lo zirlo dei primi
grilli pare lo irridano con la loro musica spensierata; tutta la natura
ride, e anche il più umile stelo e anche l'erba velenosa danzano al
vento del tramonto; ogni cosa si gode la sua gioia, anche le ombre
pare salgano verso le cime per sparire il più tardi possibile; e tu
solo, o uomo, rodi coi tuoi denti stessi il tuo cuore. Il nemico è
dentro di te, mentre lo credi dietro la siepe, e tutto questo perchè
ti sei dimenticato che Dio vuole si viva giorno per giorno come gli
uccelli dell'aria, come gli steli dei campi.
All'uscita del viottolo provò finalmente un senso di sollievo. La
bella proprietà del fratello morto era lì tutta davanti a lui : gli ap-
ipariva come una visione fantastica; come quando egli la, vedeva col
.pensiero avido di possederla: eccola, era distesa sulla china soleg-
giata dove il monte si versava nella valle, e si prolungava nei prati
a destra verso la pianura; si potevano distinguere tutte le muriccie
di cinta che la circondavano serpeggiando, e tutti i colori della ve-
getazione che l'arricchiva, dal verde cupo delle querele al verde
smeraldino dei pascoli, dal verde vivo della vigna a quello grigio
degli olivi e dei fichi d'india: e il rosso e il nero delle vacche al
pascolo e il bianco delle pecore e il glauco dei salici piangenti che
abbandonavano le larghe chiome al vento lungo il fiume.
Una casetta bassa, tutta di ^pietra, col tetto di tegole rosse, do-
minava la proprietà; fin laggiù dove stava Zebedeo si sentiva l'ab-
baiare dei cani e le voci degli uomini che lavoravano nella vigna.
Ma non era tutto questo che ridonava la vita e il senso della
gioia al cuore dell'uomo: più che le querele del X)ascolo e le roccie
e la casa saprà il podere, egli vedeva ima figura dominare su tutte
le cose, sebbene fosse giù ai piedi della proprietà anzi già fuori di
essa, davanti al cancello chiuso: il figlio Belila, che dopo aver visi-
tate le terre del morto, se ne tornava a casa.
Il padre gli andò incontro come se avesse avuto paura di non
rivederlo più.
IL DIO DEI VIVENTI 17
Il giovane era anche lui a cavallo; montava anzi un puledro
già appartenente allo zio. Questo bel puledro nero, fresco e lucido
come fosse verniciato, con un ciuffo da discolo sugli occhi tristi e
torvi che pareva meditassero una cattiva azione, nel vedere il vec-
chio cavallo castaneo di Zebedeo s'animò tutto, scuotendo le orecchie,
la coda, la criniera; ma. era un'accoglienza piuttosto ostile, cc«ne se
gli desse noia il pensiero di rifare il viaggio assieme, mentre aveva
bisogno della sua piena libertà per i suoi scatti e i suoi capricci di
bestia giovane ancona non persuasa di essere domata.
Il vecchio cavallo castaneo parve invece non accorgersi di nulla :
procedeva filosoficamente, un po' stanco ma rassegnato al suo de-
stino, profittando solo delle distrazioni del padrone per allungare il
muso e strappare qualche fronda e qualche ciuffo d'erba.
— Come mai da queste imrti? — domandò Belila al padre. E nel
suo accento allegro vibrò qualche cosa d'ironico che dispiac^pie a
Zebedeo; pareva che il figlio sapesse già che anche il padre sarebbe
venuto quel giorno stesso a vedere la proprietà: il tempo fa presto
ad asciugare le lacrime degli eredi.
E Zebedeo fu per rispondere: ci sei venuto tu prima di me;
perchè infine, i beni di tuo zio sono piiì tuoi che miei.
Ma non lo fece; non aprì bocc^ finché non fu ben vicino al gio-
vinetto in modo da poter parlare sottovoce.
— Tu hai fatto male a venire così presto, — gli disse con finto
rimprovero; ed io ti sono venuto incontro per dirtelo. Che avranno
pensato i servi del tuo povero zio?
— Ma se sono rimasti tutti contenti, nel vedermi! Se mi aspet-
tavano! Paulu il pecoraio mi ha detto che ha fatto un brutto sogno :
che zio Basilio aveva lasciato la sua roba all'amica.; e questa era
venuta a prendere possesso, nera e insolente come la moglie del
diavolo. — Volevo accopparla, così Sant'Antonio mi salvi, — disse
Paulu, — e volevo sotterrarla fra le pietre. E così sarebbe accaduto
se fosse stato vero. — E tutti a ridere, perchè parlava sul serio,
ancora scombussolato dal sogno. E anche gli altri dicevano: meglio
entrino le volpi, le locuste e i ladri : da queste ci si difende, non da
quella fattucchiera.
Il padre taceva.
— Giacché siete arrivato fin qui, perchè non entrate? — riprese
Belila, tentando di ritornare verso il cancello: il puledro però resi-
steva, non voleva volgersi indietro. D'altronde Zebedeo non aveva
voglia di entrare; o meglio sì ne aveva voglia in fondo ma anche
lui resisteva al suo desiderio come il puledro alla mano di Bellia.
— Andiamo; è tardi : tua madre s'inquieta.
S'avviarono insieme: ma il puledro si tirava indietro o in avanti,
come avesse vergogna di accompagnarsi al vecchio cavallo. Le loro
code si sbattevano contro le mosche in diverso modo; con stizza quella
della bestia giovane, con abitudine rassegnata quella del cavallo.
— Paulu il pecoraio, che è vecchio come Sant'Antonio e quindi
un credulone, ha paura di quella strega, — insisteva il giovane ri-
dendo ancora per le superstizioni del servo. — Ha paura ch'essa pre-
pari qualche fattucchieria per far ammalare il bestiame : ha quindi
2 Voi. CX^Vn, Searle VI — 1* marzo 1922.
18 IL DIO DEI VIVENTI
recitato gli scongiuri, e lungo le miuriocie dell'ovile e dello stabbio
ha meseo delle foglie dd olivo benedette e croci di canna e altre dia-
volerie; anche gli altri ci credono. Perchè era abituata a ricevere
reg-ali, il povero zio Basilio le niandava ogni cosa come si trattasse
di pagare le decime a lei, invece che alla chiesa. Le cuocerà, si, di
non aver più il formaggio fresco per le sue focacce e Le fave e le altre
cose. Io non credo alla sua potenza, son tutte chiacchiere dei servi.
Però oggi quest'animale sembra aizzato dal diavolo, — egli disse poi,
poiché il puledro s'impennava e faceva mille dispetti.
— Anch'io non ci credo, — disse il padre; — ma ad ogni modo
non bisogna beffarsi di lei e provocarla. È capace di tutto. Sai che
ieri gridava che noi abbiamo fatto sparire il testamento a suo favore?
— ^ Sì, ho sentito le donne chiacchierane. E il fatto è risaputo,
lo sanno anche i servi nostri e quelli di qui; io non so come questa
gente, pur restando in campagna come le volpi, sappia tutto.
Il padre s'era fatto più scuro di prima.
— Sì, certe cose volano; pare che il vento si comjpiaocda a span-
dere le malignità. E che dicevano quelli di qui?
Egli sembrava preoccupato più che dell'opinione dei servi suoi,
di quella dei servi che ancora non osava dire suoi.
— Che dicevano? Che se mai, abbiamo fatto bene.
— Bellial — disse il padre sdegnato. — E tu non hai risposto
mal^?
— Perchè dovevo rispondere male? Anch'io penso così. Se io
avessi saputo che c'era una carta in favore di quella strega l'avrei
cercata e strappata.
— Tu avresti commesso un peccato mortale e un atto disonesto.
La legge punisce tali cose.
— La legge è fatta da uomini, ed è tutta inganni. La legge me
la faccio io; e prendo quello che mi spetta.
— Tu non hai religiome, Bellia; lo dice anche tua madre, seb-
bene veda solo per gli occhi tuoi. Dio comanda di non toccare la
roba altrui.
— La roba di mio zio morto spetta a me.
— C'è il figlio.
— Che ne sappiamo noi se è suo figlio? Quella strega ha avuto
commercio anche col demonio; almeno così dice la voce pubblica.
E zio Basilio era uomo di coscienza, se fosse stato sicuro di essere
padre di quel ragazzo lo avrebbe legittimato o almeno adottato,
questo lo diceva anche Paulu, che è uomo religioso e devoto.
— È vero, — ammise il padre. — A questa non ci avevo pensato.
Del resto è meglio non pensarci più, perchè parlarne? Oramai tutto
è fatto. Però, — aggiunse con la voce monotona di chi ha un'idea
fìssa, — bisogna provvedere egualmente alla donna e al bambino
anche per non far mormorare la gente.
— La gente mormora lo stesso. Se voi mandate regaU a quella
streg-a dicono che è diventata vostra amica. Voi credete che non si
sappia già che ieri notte voi siete stato da lei?
— Oh, perdio! — gridò l'uomo fermando il suo cavallo, mentre
il puledro, come aizzato da qiiel grido, si metteva a correre parando
calci da ogni lato. Così sbucò dal viottolo sulla strada, dove continuò
la sua corsa con più furia. Bellia era forte e si teneva bene in sella.
IL DIO DEI VIVENTI 19
frenando con tutta la sua abilità la bestia impazzita; anzi pareva
prenderci gusto, come nelle corse dei puledri nelle quali una volta
era stato vincitore. In breve spar\e allo svolto della strada, riap-
parve più lontano, piccolo e nero, sparve ancora.
Il padre intanto era uscito anche lui dal viottolo e guardava;
l'angosica di nuovo gli stringeva il cuore; aveva paura che Belila
cadesse e si facesse del male. Imprecazioni violente gli uscivano di
bocca, senza ch'ali lo volesse. E pensava di vendere al più presto
quel puledro indemoniato. Ricordava di essere stato una volta alla
festa del Cristo, nella Baronia, e d'aver assistito a una serie di di-
sgrazie accadute per causa di un puledro rubato, che il ladro stesso
cavalcava.
Il più strano fu che anche il vecchio cavallo di Zebedeo, sempre
cosi calmo e filosofo, pyarve ad un tratto vinto dal cattivo esempio;
si mise a trottare pesantemente, riz2ando le orecchie e sparando
calci; ma quando il padrone, che non prendeva gusto al giuoco,
poiché non riusciva a frenarlo gli diede qualche pugno sulla fronte,
riprese a camminare al passo, con la testa bcissa, un po' umiliato.
Da lontano Zebedeo vide che anche il figliuolo era riuscito a fer-
mare il puledro, ma balzando a terra e tenendolo per la briglia, alla
quale s'intrecciava la criniera scomposta.
Il puledro sudava e la sua bava sanguigna bagnava la mano
che lo frenava; il giovane era così pallido che il padre si turbò pro-
fondamente.
— Che hai? Belila! Hai del sangue nella mano.
— Ebbene, — gridò il giovane con dispetto, — questo demonio
è divenuto un cane arrabbiato: mi ha morsicato.
Il padre sentì tale ira che se avesse avuto U fucile avrebbe am-
mazzato il puledro.
— Lavati la mano con questo, — gridò traendo dalla bisaccia
una piccola zucca piena di vino.
Ma Belila prese la zucca e bevette il vino.
— Fa più bene dentro che fuori, — disse riprendendo la sua
all^ria.
E non volle neppure fasciare la mano, che del resto era stata ap-
pena scalfìtta sul dorso dai denti del puledro.
Anche la bestia, compiuta la sua prodezza e stordita dai pugni
che il giovane gli aveva dato e continuava a dargli sul muso e sugli
occhi, s'era data per vinta: solo torceva la testa e batteva a terra
una delle zampe posteriori come per chiedere di finirla e di ri-
partire.
Ripartirono: e solo quando furono in vista del paese il padre
riprese il discorso interrotto dalla fuga del puledro.
— Chi ti ha detto che io, ieri notte, sono stato da quella donna?
Anche lui, pur evitando gli epiteti selvaggi che gli altri davano
a Lia, non osava chiamala col suo nome.
— Me lo hanno anche accennato i fratelli Pintori, i vostri due
Santarelli; e poi me lo disse Paulu il pecoraio; disse: tuo padre
avrà creduto di fare un'opera buona, ma quella strega non lo merita.
— Chi diavolo può ficcarsi così nei fatti miei? Sì, è vero, ci
sono stato, per placarla, perchè non continui a dare scandalo. Ad
ogni modo non dirlo a tua madre e a zia Annia!
20 IL DIO DEI VIVENTI
— Oh, lo sapranno anche loro.
— E se lo sanno, lascia che lo sappiano! — gridò Zebedeo : ma
pareva lo dicesse più a sé stesso che al figlio.
• •
Era già sera quando arrivarono a casa. Tutto era chiuso e scuro;
solo dal comignolo usciva come furtivamente un filo di fuimo che si
sperdeva nel cielo chiaro di luna.
I due uomini cercavano di rientrare più chetamente possibile,
frenando il passo ai cavalli : anche il puledro obbediva, adesso; pa-
reva stanco; partecipe della tristezza dolce della sera.
II portone si aprì come da per se, lasciò entrare i due cavalieri,
si richiuse silenziosamente: e la famiglia fu tutta dentro nella sua
casa, al sicuro di ogni sorta di pericolo.
Il fuoco ardeva nel camino, la cena era pronta; zia Annia
già andata a letto perchè accusava un dolore alle reni; e Zebedeo
fu contento di non vederla. Ecco che tutto pareva tornato come prima,
quando non bisognava chiudersi dentro per scambiar due parole e
mangiare in santa pace una coscia di agnello: solo l'ombra delle
donne così incappucciate di nero, pareva stendersi ipiù densa sul
pavimento e sulle pareti.
Ma la serva diede un grido isterico, un po' esagerato e falso,
nel vedere la mano di Bellia, mentre egli le porgeva la bisaccia tolta
al cavallo.
— Che hai fatto a quella mano? Che animale ti ha morsicato?
— Va' al diavolo; non è poi la tarantola che mi ha morsicato.
— Mi pare invece proprio il morso della tarantola.
La madre era accorsa a guardare : e il cuore le batteva, nel petto
grasso: perchè Bellia era sempre un fanciullo per lei, ed era ipur
ieri che ogni spina ogni sasso rappresentava un pericolo -per il suo
timore di madre.
Bellia cercava di nascondere la mano appunto come un bam-
bino che si è fatto qualche male per sua colpa.
— Ma non è nulla: è un rovo che mi ha graffiato.
— Non sarà stato un cane, a morderti, figlio mio? Di' la verità.
— Vi giuro che non è stato un cane. Lasciatemi in pace e datemi
da mangiare.
La serva vuotava la bisaccia dove Paulu, il pecoraio del povero
Basilio, aveva collocato due forme di cacio fresco ed una di ricotta :
a sua volta 2jebedeo vuotava la sua, versando in un canestro le fave
fresche del podere; un odore di ovile e di orto si spandeva intomo,
con quei doni della terra alla casa dei suoi fortunati padroni, e si
mischiava con l'odore dell'arrosto allo spiedo che usciva dal camino.
La tavola era appareo/chiata nella stessa cucina, e la serva man-
giava coi padroni, solo alzandosi ogni tanto per prendere i piatti e
le pietanze: a volte, anzi, la madre rimbrottava Bellia, se gli occor-
reva qualche cosa e non andava a prendersela da sé.
Tuttavia Zebedeo avrebbe preferito ohe la serva quella sera non
avesse saputo della visita del giovane alla proprietà del povero
morto; egli guardava bene la ragazza in faccia, mentre mangiavano
tutti con discreto appetito l'agnello arrosto: e su quel viso puntuto.
IL DIO DEI VIVENTI 21
che gli ricordava quello di Lia, gli sembrava di notare una lieve
aria di sarcasmo. 0 forse era solo una sua illusione, poiché tutto
ormai gli dava sospetto.
Bellia era allegro e raccontava della sua visita alla proprietà e
le chiacchiere e le superstizioni dei servi.
— Ma che avete? — disse ad un tratto, rivolto alla madre e alla
serva. — Non fate che guardarmi la mano; finirete col farmi il ma-
locchio.
La madre si toccò un nastrino giallo che teneva legato alla bre-
tella del corsetto, e la serva, che non aveva il nastrino, fece le fiche :
tutto iper scongiurare il malocchio.
E lì per lì la serva, che mentre stava a tavola non apriva bocca
per rispetto ai padroni, non disse nulla; ma quando si fu alzata e
cominciò a sparecchiare mormorò come fra sé:
— Per scongiurare bene il malocchio bisognerebbe andare da
Lia e rubarle una pezzuola per avvolgere la mano malata.
— Ma, accidenti a te, io non ho nessun male, — gridò Belila,
scuotendo la mano per dimostrare tutta la forza. — Quanto scom-
metti che te lo provo a spese della tua testa?
E balzò sulla ragazza come per darle uno scapaccione; ma fa-
ceva per burla, e si contentò di afferrarla per gli omeri e scuoten-
dola di qua e di là sino a farle venire il capogiro.
Grazia Deledda.
{Co7itinua).
Riproduzione vietata.
LA SANFELICE
POEMA TRAGICO
ATTO QUINTO
Il torrione del Carmine. Lo stanzone nudo ai prolunga invisibile a destra.
Sotto un'alta inferriata, che s'apre nel muro di fondo, è incastrato un sedile di
pietra, e dalla parte dello stan2K>ne si vede un letticciuolo a panchette, una
lanterna appesa alla parete e una brocca per terra. A sinistra, un Crocifisso
apre le braccia sur una porta di ferro, serrata.
SCENA I.
La Caporalessa fila, la Monaca e Zizzella cuciono su la panca.
La Caporalessa
{sbacchiando il fuso e la conocchia per terra)
Malannaggia la carcere! Ma guarda
S'è vita, questa! E fila, e fila, e fila!
Non ho più dita. Ah! se mi capitasse
Qui fra gli ugnelli quel caji traditore
Che m'ha messo ne' guai!
La Monaca.
Si ricomincia
Adesso! E datti pace! Quel ch'è stato
fi staiol
La Caporalessa.
Già: perchè tu con le tue
Arie da santerella — e tu m'intendi! —
C'è il guardiano che ti fa le spese.
La Monaca.
E 96 ti prude, grattati!
Zizzella
(alzandosi)
Ragazze,
Finitela! Sapete che c'è quella
LA SANFELICE
Signora, poverina! Non è mica
Una perduta, come noi.
La Qaporalessa,
Credevo
Che dormisse. Ma già, lei non ci sente:
È uscita di cervello.
ZlZZELLA.
E a volte invece
Discorre tanto benel In tutto il tempo
Che dovè rimanersene a giacere,
Dopo il suo parto, avea persin vergx^na
A chiedere un po' d'acqua. E una vocina
Così soave e man-sueta! Quando
Parla al bimbino suo, dilania il core.
Luisa
{di dentro, cantando)
« Fate la nanna e fatela con Dio,
Fatela voi che la farò pur io... ».
La Monaca.
È condannata a morte?
ZlZZELLA.
Ma si dice
Che avrà la grazia.
La Caporalessa.
Cos'ha fatto poi?
Era una patriota.
La Monaca.
'Eh, Pos'e fiori!
Volea nient'altro che tagliare il capo
Al re nostro.
La Gapcmialessa.
Chi? lei? ma dille grosse!
Luisa
{di dentro, cantando)
« Nata in buon'ora, ed in buon'ora sia
L'ora che tu nascjesti, ansima mia... ».
La Monaca.
Come sei scema! Si sa, non già proprio
Con le sue mani, lei : c'era un'intesa.
Ed eran tanti, anche uomini. Totore,
L'innamorato mio che comandava
Una squadra, di lazziari, mi fece
Vedere più di dodici orologi
28
u
LA SANFBLICB
Che avea tolti di tasca a' giacobini
Tratti in prigione.
ZlZZELLA.
A me, che una signora
Così morbdda e fina avesse in mente
Di versar l'altrui sangTje, ecco, non m'entra.
La Monaca.
Ah sì? Ma tu con quella tua boc<ihella
Di pupattola, dunque, o non facesti
Il servizio alla Rossa di stamparle
Un Sette in faccia a colpi di rasoio?
La Caporalessa.
Il gxiardìano! State zitte.
SCENA II.
{S'ode cigolare la chiave nella toppa : s'apre la porta, e appa-
risce il guardiano con donna Lucia, -levatrice; poi Luisa).
Il Guarduno
[a donna Litcia)
.Attendo
Qui fuori: fate presto!
Donna Lucia.
Eh, dite bene!
Ah, che sventura! E proprio a me! Figliuole
Mie, che sventura!
ZlZZELLA, la Caporalessa, la Monaca.
Insonuma, cos'è stato?
Sedetevi.
Donna Lucia
{sedendo)
Figliuole cane, un sorso
D'acqua! {Beve). Dov'è? dov'è? Poveri noi!
La Caporalessa.
Chi? la partoriente? Eccola!
{Addita verso l'interno).
ZlZZELLA.
Dunque?
Che c'è di nuovo? Via, non ci tenete
Su La corda.
Donna Lucia
{con voce bassa e paurosa)
È per oggi!
LA SANFELICE 25
ZlZZELLA.
Cosa, accade
Og^?
Donna Lucia.
{accennando a Luisa)
Lei! led! la povera Luisa!
Giustiziata!
Piccino?
ZlZZELLA.
Ah!.., proprio vero? E il 3uo
Donna Lucia
(angosciata)
È questo! è questo! M'hanno dato
Ordine di levarglielo.
La Caporalessa.
Che belve!
La Monaca.
Zitte! viene per qua.
{Appare Luisa col bambino nelle braccia).
Luisa.
Buon dì,' cornane!
Buon dì, comare! Ma guardate dunque
Il mio oocchino, che vuol tanto bene
Anche a voi! Sì caro, sì caro, sai?
È la comare che viene a menarci
Via, via di qui. Qui è troppo buio, troppo
Freddo!... oh l'aria, la luce, il sole, il sole
Grande!
Donna Lucia.
Donna Luisa!
Luisa.
Li vedete
Questi piedi ni, comare? A baciarli
Sanno di nido. Due foglie di rosa,
E nulla più. Ma non avranno mai
Calzine né scarpette. È la disgrazia
Di nascer senza il suo papà, che compra
TTitto a' poveri piccoli. Potevo
Io far altro che piangere, se volle
Abbandonarmi sola, nel selvaggio
Mondo, col suo bambino, per andare
A dormire sotterra?
2$ la sanfelice
Donna Lucu
{tra sé)
A me non regge
Il core di levarglielo.
Luisa.
Dobbiaono
Andare noi dal tuo papà, dia! tuo
Ingrato papaìno? Sì, tesoro!
Chianialo. Tu vedrai com'egli è bello
E ardito nella sua divisa azzurra
Di capitano, e gli dirai soave :
Un bacio, un bacio, un bado al tuo piooino,
E uno anco alla mamma.
Donna Lucia.
Non volete
Darlo a me, che '1 rifasci?
Luisa.
... Io sono un poco
Debole di cervello, e non intendo
Bene le cose, no, no, no, purtroppo!
Ma non perciò dovreste farvi beffe
Di me, ohe non ho colpa. Io mi rassegno
A tutto, a tutto: cucirò le vostre
Sottane, spazzerò le vostre case,
Le vostre scale laverò : son tanto
Vile, ornai! Ma lasciatemi, vi prego,
II bimbo! il cielo, il cielo mio!... Che altro
Posso dirvi? Una volta ero una bella
Signora, oh sì! oh sì! bella: ricordo
Che tutti m'inchinavano... Che farci?
«< Un albero gran tempo coltivai
Con molto affanno e con molto sudore :
Di lagrime e di sangue lo bagnai... »
Povera!...
[Scoppia in singhiozzi).
ZlZZELLA.
Via, datevi pace, buona
Signora.
La Monaca.
Non volete accomodarvi?
Starete con più agio.
Luisa
{tergendosi gli occhi)
£ fatta! Adesso
Datemi la mia veste nuziale.
LA SANFELICE 27
Egli m'attende, lontano, nel bianco
Talamo. Vengo! veng-o!... Oh non fissarmi
Con que' tuoi vitrei occhi di rampogna!
Ti duole il petto? Oh, oh, povero amore!
Come te l'hanno straziato!... Lascia
Vedere: sangue, sangue, sangue, sangue!...
E non vuol più stagnare... Io non ho altro
Che le mie mani, e son già tanto scarne!
Guarda: le vuoi?... Ma non levarmi il bimbo,
Ti pr^o, no!... Dormi più tosto. Il sonno
Ti farà bene, e anche a me.
Il Guardiano
(a donna Litcia)
Ma, dunque?
Sbrigatevi!
Donna Luoa.
Non posso! Come fare
A portarglielo via? Vedete?
Il Guardiano.
Insomana,
L'ordine è questo.
Luisa. ^
È l'uomo nero?... Aiuto!
Nascondetemi voi.
Donna Lucia.
Donna Luisa...
Il Guardiano.
Non la mettete su l'avviso. Adesso
Ci penso k).
{Furtivamente circonviene Ltùsa^ mentre donna Lucia la di-
strae con parole; repente le afferra i polsi, di dietro).
Donna Lucia.
No, non vi date affanno.
Poverina! Chi sa!... Bisogna pure
Lavarlo, no?
Il Guardiano
{attanagliando Luisa, a donna Lucia)
Prendetelo!
{Donna Lucia leva di sorpresa il bambimo dalle braccia di
Ltiisa, e fugge. Il guardiano la segue e riserra la porta).
28 LA SAMFELICE
SCENA III.
Luisa, Zizzella, la Monaca e la Gaporalessa.
Luisa
[con imo strido ferino):
Ah!... mio figlio!
Mio figlici mio figlio! mio figlio! mio
Figlio!... Me lo fucilano!... Ah, briganti!
Mio figlio!... voglio mio figlio!... Un cosino
Nato da dieci giorni... ah! ah!... Che male
Ha egli fatto?
[Chiama con voce gonfia di lagrime)
Mimmino!
[Peróote la porta co' pugni).
E questa porta
Implacabile!... Mimmo, senti tu
La tua mamma? No, no, no, no: me l'hanno
Ucciso!... ucciso!... Prima il i>adre, e poi
Il figlio, il figlio piccolo!... Assassini!...
L'ultimo liso de' miei poveri occhi
Arsi dal pianto!... Ladri! ladri! ladri!
Rendetemi il mio dolce angelo!
[Lunga patisa).
Nulla!
L'eterna sordità del cimitero.
Siam tutti morti, forse. Oh! oh!
[S'accascia per terra rompendo in violenti singhiozzi).
* Zizzella.
Volete
Un po' d'acqua?
Luisa
[accenna di no con la testa)
La Monaca.
Rizzatevi, la, mia
S ignorai Lì per terra, come un cane?
Luisa
[accenna di no con la testa)
La Gaporalessa.
Madre disgraziata! Ci volea
Anche questo supplico! Il vostro re?
Ci sputo sopra io, puh!
La Monaca.
E non è tutto:
Ora entpenanino gli altri.
la sanfelice 29^
La Gaporalessa.
Oh per me, dico
Ch'è meglio! Almeno non patirà più.
ZlZZELLA.
La meneraraio in cappella?
La Gaporalessa.
Può darsi :
C'è già stata due volte.
La Monaca.
Ah vengono, ecco!
{Si riapre la porta. Appariscono dite frati della compagnia de^
Bianchi: il guardiano riman fuori e richiude).
SCENA IV.
L'Abate Altobello e Fernando Ferri, travestiti da Bianchi,
Luisa, Zizzella, la Monaca e la Gaporalessa.
L'Altobello
{alle ragazze)
Ragazze, orsù, spulezzate!
{Le tre detenute s'allontanano verso destra. UAltobello fissa
Luisa giacente).
Ghe orrore!...
E che pietà!
{Rimane im?nobile su la porta. Il Ferri si china su Luisa e^
s'alza il cappuccio).
Il Ferri.
Signora! Sono io,
Fernando Ferri: vengo a liberarvi.
Su, il tempo stringe! Signora Luisa!
Luisa
{levandosi lentamente in ginocchi e giungendo le mani)
0 buon custode, non è troppo freddo
In questa sepoltura : ve ne pr^o,
Lasciatemi! Non ho proprio più forza
Di patire: lasciatemi! Soltanto
Sì, questo sì, ponetemi sul seno
Il mio bimbo: chi sa quanti son mesi
Ghe non ha latte, ninnolino mio!
E chiama la sua mamma : udite? Gara
Vocina inconsa|>evole!
30 la sanfelice
Il Ferri
{airAltobello):
Non ode...
È inutile!
L'Altobello.
Chiamatela di nuovo.
Il Ferri.
Luisal
Luisa.
Vengo, vengo! 0 amor inio bello.
Perchè cosi stravolto? Hai tu paura
Che ti scoprano qui, fra le mie braccia,
Nel letto mio?... Ssss... bussano: che guati?
Via da quella terrazza!... Ah! ah!
Il Ferri.
Signora,
Tornate in voi. Vi salveremo. Basta
Indossare quest'abito, e fuggire
Da quella porta. Sono il Ferri, io stesso.
Un amico.
Luisa.
Lo so; ma fate adagio,
Che i morti non ci sentano. Vedete?
Le loro croci sono senza fiori :
Perchè? perchè? Son tanto oscuri, tanto
Miseri, tanto smunti! E c'è un bambino
Che dorme solo nella bara sola.
Senza la mamma e senza il babbo.
Il Ferri
[alCAllobello)
Che risolvete?
Or via,
L'Altobello.
Io?... Vorrei qui nel pugno
Avere il mondo, per istriiolarlo
Così!... C09Ì!... così!...
Il Ferri.
Quel re feroce
Sia maledetto! lui, con la sua razza
Abbomdnata, e i figli de' suoi figli
Senza misericordia!
LA SANFELICE 31
SCENA V.
{Si riapre la porta. Entrano il gitar diano, il canonico Pttoti^
confessore, e alcitne guardie che rimangono su la soglia. UAl-
tobello e il Ferri s^ rialzano H cappuccio).
Il Puon
(a' due Bianchi, piano)
È apparecchiata
Al triste passo?
L'Altobello.
{con un ghigno arnaro)
Non lo sa! L'avranno
Menata a morte come si conduce
Una bestia al macello. È affatto fuori
Di sé.
Il Puoti.
Demente?
. L'Altobello.
Interrogatela anche
Vodl
Il Puon
{a Luisa)
Non volete riconciliarvi
I Con Dio, sorella, or che vi sta sul capo
Il castigo degli uomini?
Luisa.
Che chiede
Questa gente da me?... Dove son io?...
Ahi! ahi! chi mi martella il cranio?... Nulla
V'ho fatto. Sono anch'io povera carne
Battezzata... No, no, ve ne scongiuro:
Non mi fate più male! È mia la colpa
Se m'hanno tutti calpestata?
Il Puoti
{alzando le braccia al cielo)
0 giusto
E terribile Dio! che ti diremo
Quando ragione tu ci chiederai
Di questa tua percossa creatura?
{A Luisa)
Sorella mia! cara sorella! abbraccia
Il tuo Signore crocifìsso.
(Le dà un crocifisso a baciare)
E vieni.
32 LA SANFELICK
Tu che, aJ pari di lui, salì innocente
Sul patibolo infamel
{Accorrono le tre detenute, Zizzella, la Caporalessa e la Mo-
naca).
ZlZZELLA
{prostrandosi davanti a Luisa)
0 buona, o bella
Si^om, addio!
La Monaca.
Siete una santa! addio,
Signora dolce!
La Caporalessa.
Addio!... Mi scoppia il cuore!
{Luisa bacia il Crocifisso, e muove per uscire. Improvvisa-
mente un lampo momentaneo le passa negli occhi: ella corre al
suo letticciuolo, vi si getta bocconi, e, scoppiando in singhiozzi,
lo copre di baci).
Il Puon.
Andiamo, cara!
{Luisa esce col Crocifisso su la bocca reggendosi al braccio del
canonico Puoti. GU altri, fuorché VAltobeUo, la seguono. UAl-
tobello siede sul letto di Luisa, e cava una pistola).
ZlZZELLA e la Caporalessa.
Che fa egli? Gente!...
La Monaca.
Soccorso!...
L'Altobello.
Zitte, tortorelle mie!
Si spegne il lume, e tutto è detto... Schiavo!
{Si, tira un colpo di pistola, e stramazza riverso sul letto. Le
donne strillano; accorrono il guardiano e i soldati).
Cade la tela.
PINE.
O. A. Cesario.
Proprietà letteraria: tutti i diritti riservati.
IL NUOVO FIGLIO DI DANTE
Il sesto centenario dalla morte del Poeta è ormai chiuso; ma se pos-
sono aver tregxia le commemorazioni, le letture, le declamazioni, le
conferenze divulg^ative, non diminuisce certo di fervore il lavoro as-
siduo degli studiosi, di che anzi è giusto che meglio e via via si col-
gano, come di ogni più feconda opera, i maturati frutti. Così, France-
sco Paolo Luiso (1), già benemerito cultore degli studi danteschi, men-
tre per l'anno sacro ha inteso a sue laboriose e coscienziose ricerche su
Dante e i Lucchesi, non ancora concluse ma di cui presto avremo
gustose primizie, ci offre oggi un dono, per il donatore stesso e per
noi, imprevisto e insperato: un documento certo, coevo, di un 'nuovo
figlio di Dante! Un incontro — scrive il Luiso — non so se più sor-
prendente o inquietante. E vogliam vedere anche noi se effettiva-
mente vi sia, vinta la prima meraviglia, di che sorprendersi e, spe-
cialmente, di che turbarsi.
Siamo a Lucca, nella corte dei Monconi, a dì 21 d'ottobre
del 1308: la Ditta, societas, dei Moriconi di Lucca si obbliga a
sborsare alla Ditta Maoci e Bonaccorsi di Firenze (cointeressato nel-
l'operazione di cambio è anche un lucchese, Micheluccio del fu Fredo
Gentile, verisimilmente rappresentante in Lucca della Ditta fioren-
tina) lire seicento di tomesi piccoli di Francia in cambio di lire
lucchesi settecentosessantadue e soldi dieci di buoni denari lucchesi,
in ragione di denari quindici e un quarto lucchesi per ogni soldo
tomese. Raccoglie l'atto e lo registra nel suo scartafaccio di imbre-
viature, donde il Luiso lo ha tratto, il notaro lucchese Rabbito To-
ringhelli. — Nulla di singolare nell'atto, nessuna meraviglia dai
nomi; noti anzi i Moriconi agli studiosi delle antiche famiglie luc-
chesi, e notissimi — basti ricordare gli spogli preziosi del Padre
Idelfonso da San Luigi nelle sue Delizie degli eruditi e gli indici
delle Considte del Gherardi e le testimonianze degli stessi più an-
tichi cronisti fiorentini — i Macci {cfr. Peruzza, Storia del Corri-
mercip e dei Banchieri di Firenze, pp. 171, 188...) e i Bonaccorsi.
Ma in cauda... dulce, o, se si voglia, venenum. I testimoni all'atto sono
Guido Appiccalcani notaio lucchese e Johannes filiiis Dantis Ala-
gherii de Florentia. Dunque, un figliuolo di Dante, che nel 1308 è
venuto (o vive?) in Lucca, e di cui non si aveva traccia neppure nelle
liste più o meno copiose e arbitrarie dei commentatori e degli eru-
(1) Francesco Paolo Ltjiso, TJn documento inedito lucchese che in-
teressa la biografi* di Dante. Lucca, Coop. Ed. lucchese, 1921 (Nozze Sardi-
Mazzei).
3 Voi. OCXVn. serie VI — 1* mano 1922.
34 IL NUOVO FIGLIO DI DANTE
diti : Pietro, Iacopo, Antonia, Beatrice in prima linea, e poi, con
titoli senza credito o assai discutibili. Aligero, Eliseo, Gabbriello,
Bernardo, Francesco, una terza femimina innominata... (cfr. Pelli,
Memorie, pp. 37 sgg.; Kraus, Dante, pp. 36-9), ma, di Giovanni,
nessuno ha detto verbo. Eppure — l'osservazione non è speciosa
soltanto — Pietro, Giacomo e Giovanni sono eletti dal Poeta del
Paradiso « a esaminare e addottorare nelle tre Virtù teologali » il
mistico pellegrino: e perchè non ammettere eh© Dante si compia-
cesse della scelta dei nomi dei figli prima e, poi, della onorevole
concordanza dei nomi? Ma la critica ama piuttosto dubitare e negare
che costruire e compiacersi di ben costrutti, ma non sempre stabili,
edifici. Se il nuovo figlio di Dante interviene come testimone in im
atto pubblico, non è possibile, dice il Luiso, avesse meno di diciotto
anni d'età : deve dunque esser nato nel 1290 o, più probabile, prima.
Senonchè il 1290 è l'anno della morte di Beatrice, e ripugna non
solo al nostro sentimento, ma a tutti i dati ed elementi offerti dalle
stesse opere del Poeta ammettere che egli avesse sposato in quel-
l'anno o prima. Che Dante cedesse alle lusinghe d'Amore anche in-
nanzi che, morta Beatrice, cominciasse il vero e grave suo travia-
mento morale, non fa difficoltà ammetterlo; ma che le itistae ìiuptiae,
con Gemma Donati precedano la morte della donna di Simone dei
Bardi pare da escludere : anche nella tenzone con Forese (non dob-
biamo però dimenticare che Forese e Gemma sono della stessa fa-
miglia) Dante apparirebbe scapolo! Dunque, conclude CoiTado Ricci
(nel Giornale dltalia del 17 febbraio), « si tratta di un figlio natu-
rale nato dal poeta e da una donna finora e forse per sempre ignota ».
E perchè non da Gentucca? Hanno suggerito subito nei salotti e nei
caffè lucchesi, solleciti ad assicurarsi una nuova gloria paesana anche
a costo della riputazione della ipotetica gentildonna. Anche il pub-
blico, dei salotti e dei caffè, vuole, al pari degli eruditi, la sua ri-
sposta: ed è facile: che, ammesso anche, come io son disposto ad
ammettere (e non me ne abbia a male l'amico Ezio Levi, Piccarda
e Gentucca, Bologna, Zanichelli, 1921, p. 99), la storicità della Gen-
tucca, gli anni necessari al nostro Giovanni non combinano coi dati
offerti da Bonagiunta da Lucca nel ventiquattresimo del Purgatorio
per la ferrmiina che non porta ancor benda! Ma lasciamo il pubblico,
che penserà forse a qualche altra bella lucchese conosciuta da Dante
prima del 1290 eccetera eccetera, e torniamo agli eruditi: e primo
al Luiso che propone, ma esclude, l'ipotesi del figlio naturale : « o
figlio naturale o figlio legittimo, i motivi di diffidare sono gli stessi » :
e, ragionando, accenna un'altra ipotesi che egli stesso peraltro dice
«non meno... inquietante»: il misterioso testimone lucchese non
può esser figlio di Dante, ed è giocoforza darlo a un altro padre,
cioè a un altro Dante Alighieri, concittadino e coetaneo dell'autore
della Commedia. E poiché le ipotesi, anche le più audaci, hanno
sempre qualche parvenza di prova, il Luiso insinua, pur non affer-
mando, che alla differenza fra la grafia del cognome. Allegherà e
Alleghieri da un lato e Alagherii dall'altro, possa corrispondere una
differenza di persone: il padre del nostro testimone, un Alagherij,
non sarebbe Dante, e Dante non sarebbe nemmeno (non sarebbe
sempre dice il Luiso, temperando, quasi istintivamente, la gravità
dell'illazione) qn^lV Alagherij che interviene come uno dei savi e
IL NUOVO FIGLIO DI DANTE 35
porla nel Consiglio delle Capitudini delle Arti mag^ori nel 1295.
Così, di ipotesi in ipotesi, di illazione in illazione, si verrebbe a con-
cludere che tutti i doc-umenti ritenuti spettanti al Poeta debbano es-
sere soggetti ad una revisione di legittimità di attribuzione e, con-
clusione delle conclusioni, Vimbreuiatura di Ser Rabbito non sarebbe
più un impori^nte documento per la biografia del Poeta, ma un do-
cumento, e non meno importante, che non solo non spetterebbe a
lui, ma che varrebbe a togliergliene altri e indubbiamente dei più
cospicui. E se così fosse, ci sarebbe veramente non solo da sorpren-
dersi, ma da turbarsi.
Sia lecita qualche aggiunta all'acuto opuscolo del Luiso e qual-
che obiezione alla tesi di lui e, di conseguenza, a quella del Ricci.
Una breve aggiunta che tolga una facile speranza di chiarifica-
zione col sussidio invano presunto di altri documenti. Ecco : la regi-
strazione del notaro lucchese è cassata, ed ha una postilla che della
cassatura ci dà la spiegazione : i Moriconi pagarono e il debito fu
estinto : post hec sitprascripto anno et indictione XV kal. ian. post
cartain factam et restitutam et incissam cassatum licentia et man-
dato suprascripti Moris [è il Bonaccorsi presente all'atto] quia se prò
se et sicprascriptis de suprascripto credito in totum contentami et
pagatum clanmvit per cartam confessionis de soluto scriptam manu
Ranuccii Senni Ranuccini del Forese de Florentia not. a. n. d.
MCCCVlll indictione VII", die XVI mensis novembris. Si potrebbe
sperare qualche luce dall'atto rogato da ser Ranuccio? DiflBcilmente
vi sarebbe occorso quello che a noi preme, il nome dell'Alighieri te-
stimone all'atto lucchese; ma, comunque si argomenti, le carte del
notaro fiorentino [Cfr. Consulte, II, 659, 663] mancano nella rac-
colta di atti notarili dell'Archivio di Stato di Firenze, costituito nel
1569 p>er ordine del Granduca Cosimo; mancano ^le carte del Banco
e della famiglia dei Meteci, tranne poche e senza' pregio, ed è stata
inutile ogni altra ricerca mia e degli egregi studiosi che sono addetti
all'Archivio fiorentino, nelle carte della Mercatura e del Diplomatico.
Veniamo dunque all'ipotesi preferita dal Luiso, che si tratti di
un Giovanni figlio di un Dante Alagherii che non sarebbe da identi-
ficare col poeta, Allegheri o Alleghieri. E, in primo luogo, può la
differenza di grafia del nome servire, se non di base, di conferma a
tale illazione? La questione della esistenza di due Danti così distinti
nel cognome neppure è posta come possibile dal più recente e auto-
revole ricercatore delle vicende del casato di Dante, Pio Rajna (negli
Studi Danteschi del Barbi, III, pp. 79, 87...), confermandosi anzi da
lui per Allagherà o Alageri la forma autentica del cognome del
Poeta; ma un rapido esame dei documenti danteschi più probativi
e che ho a mano, giova a togliere alla grave illazione ogni e qual-
siasi fondamento. Le forme Alagherii e Alleghierii si alternano nei
documenti sui debiti di Dante pubblicati dal Barbi {Bull, della Soc.
Dant. ItaL, 1892, n. 8), un Caruccius Salvi Alegerii o Alagherii ri-
corre nelle Consulte (I, 42) e nello spoglio del Borghini {Consulte,
II, 660); e se nelle Riformagioni di S. Gemignano del VII mag-
gio 1299 abbiamo Dante de Allegheriis {Cod. dipi, dant., 1' dispensa),
e così nell'atto di S. Godenzo (disp. 6') e nei Bandi d'esilio (disp. 9-12),
e Dante Alegerii nella pace di Sarzana (disp. 7*)..., nel Consiglio del
19 giugno 1301 (vedi Consigli della Rep. Fior., ed. Barbadoro, p. 14,
36 IL NUOVO FIGLIO DI DANTE
tav. I) Dante Alagherii consuluit quod de servitio Jaciendo d. pape
nichil fiat, e una carta della Badia dell'll settembre 1277 ci presenta
u Bellus q. Alagherii... Gerardus ALagerii... Burnectus Alagerii »
(Barbi, in Studi Danteschi, I, 132), mentre Francesco Alighieri figura
in un documento del 1299 come « Franciscus quondam ALlegheru
de Alleghieriis » (ib., I, 130), e per lo stesso padre di Dante la forma
Alagherii o Allagherà è documentata da un atto di prestito pubbli-
cato da Pietro Santini (negli Studi Danteschi del Barbi, 1, 127...),
non meno che per lo zio Drudolo e l'avo Bellincione (cfr. Barbi,
Studi, II, 15, e Bull., N. S., II, 4) e la forma Alagherii predomina nei
documenti privati ripubblicati nel Codice diplomatico dantesco,
disp. 12-14. E si potrebbe continuare; ma la sostanza è che, anche
presentata come ipotesi la coesistenza dei due -Danti, nessun valore
hanno le differenze della grafia del casato.
L'ipotesi del Luiso avrebbe un qualche aiuto, che a lui è sfuggito,
da un'osservazione di Michele Barbi (cfr. peraltro Scherillo, Le Ori-
gini, pag. 103), che recensendo le Consulte del Gherardi nel Bull.,
VI, 225 segg., rilevò che il supplemento [Dante Ala]gherii consuluit
secundum propositionem per la consulta del 6 luglio (cfr. Cod. dipi.,
disp. 2") dovrebbe ritenersi errato, perchè se nel luglio Dante avesse
fatto parte del Consiglio Generale, non potrebbe figurare, come
figura, il 14 decembre dell'anno e il 5 giugno 1296 nel Consiglio delle
Capitudini. Ma converrà, come fece il Barbi, pensare meglio che al
presunto omonimo ad aTtri della famiglia Alighieri, se pur non si
tratti, cosa che a me par diflBcile, di altra famiglia con lo stesso esito
di cognome. (Vedi anche Gallarati-Scotti, Vita di Dante, pag. 66).
Resta però l'argomento fondamentale del Luiso, l'età del testi-
mone, E. indubbiamente, sia che si interroghino e si ritengano ap-
plicabili, come pare, gli Statuti Fiorentini (II, rubr. 115, ed. Kluch,
voi. I, p. 206), trattandosi di capìicità personale da giudicarsi se-
condo l'origine dei testi, sia che si applichino, osservando la lex loci,
gli Statuti lucchesi (vedasi lo Statuto delle Curie, in Arch. Guinigi,
Ti. 263 (A. S. L.), 1. III, e. 21 « intelligatur per feda aelas nostro iure
municipali aetas XV III annoruTìy tam in mascido quam in fem-
ndna »), la capacità giuridica richiede i diciotto anni. Sennonché,
questo principio non è assoluto; e a prescindere dalle fugaci riserve
del Ricci sulla fede del Giry, Manuel de diplomatiqne , Paris, 1894,
pag. 615, ben altro c'è da osservare. Conviene, infatti, distinguere la
capacità a contrarre, che s'integra pienamente coi venticinque anni,
dalla capacità a testimoniare per cui è sufficiente non essere impu-
bes, cioè non aver meno di quattordici anni. Basti far presenti le
norme del Formiulario Ma^liabechiano del sec, xni « Testes autem
adhiberi possunt omnes praeler istos : non mulier, non impuhes,
non servus, etc. » (Palmieri, .Appunti e documenti per la storia dei
glossatori, Bologna, 1892, pag. 86; Gaudenti, Bibl. lurid. Medii
Aevi, I, 218), di Ranieri da Perugia ^^non debet admitti testis im
pubes, mutus, surdus, etc. » (in Wahrmund, Quelten zur Gesch. des
roemischkanon. Proc. in Mittel., Innsbruck, 1917, III, pag. 24; Gau-
denzi, Bibl. lurid. Medii Aevi, II, pagg. 27 segg.), del Formulario
Aretino composto dal 1240 al 1243 (Cicognani in Gaudenzi, III, § 157,
pagg. 327-28), del Formulario di Martino da Fano, in Wahrmund,
1,8, pfig". 100, «tVcm masculus a XIV annis supra dicitur pubes.
IL NUOVO FIGLIO DI DANTE 37
aduLtus et advlescens ». È quindi autorizzata (1) anche la conclusione
che il Giovanni di Dante Alighieri possa essere un figlio di Dante,
mag-giore di anni quattordici, forse il primogenito, nato dalla stessa
Gemma Donati in iicstae nuptiae, fra il 1290 e il 1294. L'ipotesi pre-
ferita dal Ricci non è dunque necessaria, e sarebbe gratuita.
E se in attesa di nuovi documenti che l'Archivio lucchese ci può
ancora riservare nelle sue inesauste dovizie, mi è lecito proporre
un'ipotesi, dopo aver cercato di infirmarne di cdtri, io mi domando se
il giovane figlio di Dante non possa aver trovato rifugio in Lucca
dopo l'esilio del padre, essendo stato egli pure costretto, se già quat-
tordicenne (cfr. B.\RBI, in Studi Danteschi, II, 158), a lasciare Fi-
renze, e se non sia un atto di affettuosa cortesia quello di Giovanni
Bonaccorsi, rappresentante della compagnia dei Macci, di aver voluto»
venendo a Lucca per un'operazione di cambio, quale testimone al-
l'atto un suo concittadino, figlio legittimo del Poeta, e appartenente
a quella famiglia degli Alighieri con la quale è probabile che i Macci
avessero amicizia, affinità di parte politica (cfr. Delizie degli eruditi.
Vili, 278) e, forse, anche (cfr. Pietro Santini, Un atto di prestito
del padre di Dante, in Stitdi Danteschi del Barbi, I, 128) relazioni di
affari. Ad ogni modo certissimo è che il Giovanni Alighieri, se figlio
di Dante e, per lo meno, già quattordicenne, non poteva venir da
Firenze, donde era esule; o egli viveva, esule, in Lucca, o seguiva
nei suoi viaggi d'affari il Bonsiccorsi, rappresentante dei Macci, e
faceva parte, diremmo come apprendista, della compagnia. Veda
Francesco Paolo Luiso, a cui offro queste mie osservazioni, se nelle
sue amorose e fortunate indagini pK)ssa mettere a prova fra le altre
anche le mie ipotesi.
Augusto Mancini.
(1) Solo ora, mentre correggo le bozze, ho potuto vedere nell'edizione mi-
lanese del 1486 la conferma, del resto presumibile, di Rolandino, Summa artis
notariae, oap. I, tit. 12; cap. Vili, tit. 45.
SCRITTORI NOSTR
VIRGILIO BROCCHI
Tra le piante grasse e fiorite che inghirlandano l'incantevole
passeggiata sul mar ligure, a Nervi, balza fuori ad una svolta un
lembo ardito di scogliera, la quale si sporge tanta fra le onde spu-
meggianti, da sembrare una minuscola isoletta. Su quel Scisso, ani-
mato dalla musica perenne delle acque, Virgilio Brocchi trascorre
delle ore a meditare, talvolta a scrivere le pagine del suo nuovo
romanzo. Agile, giovajie ancora, egli s arrampica lassù a contem-
plar la bellezza infinita di quell'insenatura marina, tra le più am-
maliatrici che vi siano al mondo. Dirimipetto a tanta luce e fragranza
di natura, noi ci siamo incontrati un giorno a discorrere d'arte,
vinti entrambi dalla passione che ci costringe al lavoro. Di media
statura, con la testa ardita, gli occhi vivi dietro le lenti, egli parlava
senza stancarsi della sua prima giovinezza, delle lotte trascorse,
della tenacia che l'ha condotto a conquistare il suo « posto nel
mondo». E c'era, in fondo alle sue parole, una bontà, un conforto
spirituale, che m'è parso il premio migliore della sua fatica.
Elcco alcuni ricordi suoi:
«< Vissi fanciullo in Lombardia: quando ebbi quattordici anni
e studiavo nel liceo a Cremona, perdei mio padre e mia madre mi
condusse a Padova, dove mi laureai in lettere giovanissimo. Troppo
giovane : avevo tanto candore d'animo e così a»ppassionato amore di
povertà che divenni professore e pronunciai i voti letterari! Così vagai
dalle paludi pontine alla indimenticabile Sicilia, e poi fui nelle Mar-
che: più tardi vissi a Bologna, calda nella mia anima come la più
soave delle nostalgie... »
• *
Virgilio Brocchi ha incominciato a tentare la sorte per le stampe
nell'anno 1901, col romanzo « Le ombre del vespero ». Dietro al quale
ne venne quasi subito un secondo, « Il fàscino»; ma d'entrambi egli
ha poi vietata una nuova pubblicazione. Codesta forma letteraria
gli piacque sin da principio sopra ogni altra. Natura vivace, indo-
cile, egli sentiva in sé del lirismo, il quale chiedeva di concretarsi
sul telaio largo, (promettente e conclusivo del romanzo.
La sua personalità s'afferma presto. Non facilmente riconosci-
bile è lo stampo sul quale essa si è composta. Da principio, in alcuni
atteggiamenti del racconto, ^li sembra muovere da Antonio Fogaz-
zaro; altrove lo scuotono le ansie umane e profonde che dettero vita
SCRITTORI nostri: VIRGILIO BROCCHI 39
agli «-Ammonitori » e ad « Homo » di Giovanni Gena. La costruzione
ponderata de" suoi romanzi, il dialogo amabile, vivo, frizzante, gli
hanno conquistato l'attenzione d'un pubblico vario e numeroso. Non
vorremmo recargli offesa scrivendo che egli è stato ed è tuttora un
autore di moda.
Piacevole, penetrativo, con una punta mal nascosta d'ironia,
fruga nei cuori de' suoi personaggi, tanto da scrutarne ogni segreto
palpito. Perciò le sfumature non -mancano nella sua analisi discreta
ed acuta. E se talvolta, specie in alcune novelle, s'accontenta di (pire-
sentare o d'asserire senz'altro, più spesso sviscera, viviseziona pa-
zientemente. Egli tratta il romanzo in una sua particolare maniera.
Non è mai concentrico, assoluto; non ama chiudere in confini ben
determinati le vicende che gli hanno dettato uno o più libri narra-
tivi. Un (pretesto, un fatto qualsiasi può interessarlo, persuaderlo a
raccontare pianamente, senza troppe preoccupazioni stilistiche. In
genere, i suoi personaggi fanno largo malvolentieri ad un tprivile-
giato che assorba tutte le cure dell'autore e tutta l'attenzione del
pubblico.
I protagonisti del Brocchi non sono mai soli. Essi stanno volen-
tieri in compagnia; sicché spesso si nota quasi una compiacenza
dello scrittore a studiare parallelamente dei casi di vita, degli in-
trecci d'amore, in guisa da non individuarne l'interesse, ma da ri-
partirlo fra diverse persone. Questo curioso procedimento, che ha
il vantaggio di recare al romanzo una varietà maggiore di episodi,
deprime qualche volta gli effetti centrali. Del resto il Brocchi non
intende di dar termine al suo romanzo quando ne scrive le ultime
pagine. Non prende che un congedo momentaneo: dove è scritto
« fine » si potrebbe sostituire per lui la parola « continua » . Diresti
che non possa mai staccarsi del tutto dalle sue creature : le ha co-
nosciute a poco a poco, le ha amate; sono le compagne de' suoi giorni
laboriosi. Come lasciarle? Gome abbandonarle? Questo sentimento
affettuoso, questa assiduità patema assiste e riscalda tutta l'opera
del Brocchi.
Egli ama d'innestare tratto tratto la finzione alla realtà : la fan-
tasia non sdegna di prendere a braccetto la cronaca. I suoi libri sono
pieni di persone vive, vere: l'Ardigò, il Pellizza, l'Oriani, il Miglioli,
il Testena: dal filosofo solenne al pittore delicato, dal formidabile
pensatore al tribuno fiammeggiante, all'anarchico intransigente. Le
figure che emergono in primo piano nella società contemporanea,
gli giovano quasi da altorilievi. Gli piacciono sopratutto gli artisti :
pittori, scultori, commediografi, romanzieri. Gome li coltiva e li rap-
presenta, con quell'ansietà naturale, dubbi, orgogli e speranze, che
accompagnano gli adepti della bellezza, gli arcangeli dell'ideale!
Le sue donne non sono sempre carnali. Le vedremo nei diversi
libri e andremo loro incontro con simpatia virile. Tuttavia la mor-
tale creta originaria dà continui rintocchi sotto le dita di questo
narratore verista e sincero.
•
• •
Nel romanzo «Le aquile", il primo in ordine di tempo, egli
presenta dei seminatori di bene. La loro mente spazia al di sopra
delle povere vicende comuni, vede più lontano e più in alto, deli-
40 SCRITTORI nostri: VIRGILIO bro(x:hi
berata a vincere cadendo per un'affermazione di bene. Ecco dei brani
del libro, pieni di musica interiore, caldi di passione redentrice per
l'arte e per la vita, ohe ci fanno amare come fratelli Andrea Ardena
ed Anna Poderna.
Il primo parla in pubblico: « Il discorso si accendeva nella corsa
veemente, come una fiamma che s'agita e folgora di più vivi sfavil-
lamenti; e fluiva rapido come se il fiume delle parole traboccasse
dall'anima piena di sogni, di bontà e d'amore».
Ora parla la donna:
— Sì : hai raigione. La nostra vita è di vita : forse ha in sé troppo
fervore di vita : così che me ne consumo a poco a poco. Ascolta come
è strano, Maria! Quando il sole tramonta, e quando si leva nelle sue
albe primaverili, ed io vado al nostro asilo d'infanzia e alla scuola
elettorale, mi pare dhe nell'aria vibrino le canzoni di un popolo re-
dento; mi pare che le campane nostre squillino a festa, che superbe
moli giganteggino tra mille pinnacoli sul purissimo fondo del cielo.
E, allora, vorrei... non so,., vorrei spargere intorno fiori e chinarmi
a baciare i piccoli bambini per la via, e vorrei confondermi tra una
turba infinita di lavoratori, 'per ascoltarne le voci, iper comprenderne
l'anima grande e semplice».
Andrea Ardena di nuovo : « E intendeva anche che godere con
semplice cuore ed insegnare agli altri a godere ingenuamente e
pacatamente delle grandi idee e delle piccole cose, anche delle più
umili e delle più semplici, allontanare le suggestioni e le ebbrezze
malate del dolore è dovere non meno grande e non meno nobile che
diffondere la verità e difendere la giustizia: poiché fine supremo
dell'uomo è la felicità, illuminata dalla calma luce della saggezza
e della bellezza » .
Questi concetti sani, divulgati con piglio convinto, in forma così
squisita, si spezzano, urtano poi violentemente in mezzo ai contrasti
banali della vita quotidiana. La politica è il mostro ohe divora le
più pure energie, le frantuma e le fa sanguinare.
Ne «La Gironda» incominciano ad apparire i preti, che chia-
meremo, per intenderci, il luogo comune di Virgilio Brocchi, Qui
si parla di organizzazioni in favore del proletariato, di congressi, di
circoli, di comizi, di cooperative fra operai, di polemiche fra kru-
miri e barabba incoscienti, di democristi, di socialisti, di mangia-
preti, di leghe, di questura, di capipartito, di deputati eletti o da
eleggere, di rappresaglie, di barricate fatte anche col fango.
Frammezzo a codesto stormo di politicanti arrabbiati, ecco la
voce dell'artista, che dichiara : « gli uomini si distinguono non per
le loro opinioni politiche o religiose, né per la loro coltura, ma solo
per l'ampiezza delle loro anime », Per bocca delle sue creature,
corre qua e là l'anelito selvaggio dei liberi campi, del libero mare;
e attraverso la sua anima assetata, randagia, s'affacciano paesaggi
luminosi di laghi, aerei di montagne. Passano aliti freschi, puri, di
visioni e di sogni (vedi tutta la pagina 138), E la poesia dei ricordi:
<> Ah il maggio di Bologna! Basta che io chiuda gli occhi per rive-
derlo, per respirarlo con tutto l'odore dell'erba, dei biancospini, dei
meli in fiore, del frumento lucido sull'ondeggiare dei colli, fiam-
mante di tulipani ». E la descrizione d'un salotto « come rischiarato
da piccoli acquerelli con grandi cornici bianche».
SCBITTORI nostri; VIRGILIO BROCCHI 41
Colori e forme sarebbero nitidi, lievi, se ogni tanto non irrom-
pesse una sottana pretesca ad abbuiare e appesantire il quadro.
Uno dei personaggi, nel romanzo «Il Labirinto», dice: «tutto
si complica con i grovigli del fondo più oscuro e meno consaipevole
dello spirito, con le resistenze famigliari, con i ritegni dell'amor
proprio, con l'ansia della maldicenza, magari con i brividi degli
sgomenti religiosi che non distolgono, no, da un volgare adulterio
celato nell'ombra... »
In questo libro è dato un particolare rilievo al contrasto reli-
gioso in rapporto all'amore e al matrimonio. Presso il Lago Mag-
giore, sorgono due ville poco discoste: una dell'editore israelita Ur-
bisaglia, l'altra dei conti Mainardi, gente cattolica e ligia al rito.
L'Urbisaglia ha una figlia, Anna; e anche la contessa ha un figliuolo
giovane. Anna accetta di mutare religione perchè è innamorata del
conte. Infatti i due si sposano; ma c'è in lui una repugnanza ere-
ditaria per gli ebrei. Ben presto la vita in comune diventa, fra di-
sgusti, irritazioni e dissensi, impossibile. Anna intende il divorzio
come un dovere di lealtà e di coerenza. Ma quante difficoltà da su-
perare per raggiungere tale stato di liberazione e di grazia! Che labi-
rinto di complicazioni, previste dalla legge o escogitate dagli uo-
mini! Alla fine il divorzio si conclude per l'interessamento del gio-
vane avvocato Arnaldi, che s'invaghisce di Anna. E il romanzo
termina con un lungo bacio, che segna il principio d'un nuovo amore.
•
Durante gli anni dell'ultima guerra, Virgilio Brocchi scrisse un
libro in prosa, «Secondo il cuor mio», che chiamò anche «poema
di passione e di fede», nel quale aprì la sua anima d'artista e di
socialista. Egli non approva le lotte fratricide che sacrificano ta,nta
giovinezza a un dio ingiusto, avido, crudele. Ma ammira chi di-
fende, a rischio della propria vita, la santità intangibile della patria.
Per tale suo libro, pubblicato prima che in volume, in una Rivista
milanese, il Brocchi fu calunniato di disfattismo, processato e as-
solto.
La cecità delle passioni politiche spinse degli ignoti contro di
lui. Ma la miglior difesa dell'accusato si può leggere nelle parole
che egli ha fatto ipronunziare al suo Battista Tassara, un vecchio
garibaldino che pure aveva saputo battersi eroicamente a' suoi tempi,
per l'Italia : « Piìi vivo e piìi mi persuado che la distinzione fra gli
uomini non ha per base né la patria, né la razza, né la politica, né
la religione. Si può essere fratelli essendo socialisti, anarchici, ca4;-
tolici e magari moderati... E si può essere di due razze; anzi di due
umanità diverse, appartenendo allo stesso partito e professando la
stessa fede. C'è dentro di noi un metallo originario: quando è sano
e nobile dà in tutti lo stesso suono al quale dobbiamo riconoscerci ».
• *
Virgilio Brocchi è un novelliere occasionale. La sua natura,
come abbiamo visto, è di scrivere romanzi. Nullameno, con le no-
velle egli usa fare dei tuffi, di tanto in tanto, nella realtà non inter-
.pretata.
42 SCRITTORI nostri: VIRGILIO BROCCHI
•Le sue rajccolte «I sentieri della vita», «La coda del diavolo»,
«L'amore beffardo», accennano fin dai titoli a giuochi pericolosi,
a insidie, duelli, adulterii. Contengono infatti storie d'orgogli e d'ab-
bandoni, la verità amara d'ogni giorno, che passeggia per sentieri
nascosti fra poche rose e molte spine. Aneddoti brillanti, trovate astu-
tissimo, calde delizie di passioni fugaci; e un'ironia bonaria, uno
scetticismo indulgente, specie pei felici errori che gli uomini com-
mettono insieme alle loro complici belle, fragranti di gioventù : ecco
che cosa s'incontra nelle pagine di questo novelliere garbato e mor-
dace. La verità, briosa, sarcastica, intorno ai motivi del cuore, si
chiarifica in lui man mano, sino a dargli un carattere ben definito
d'elegante, esperto casuista dell'amore. Ma la fama, com'era giusto,
doveva sorridergli attraverso un romanzo, « L'Isola sonante », che
fu anche premiato al Concorso Rovetta.
A proposito di questo borgo, sonoro di campane e di politicanti,
mi piace di riferire una pagina autobiografica del Brocchi, la quale
giova a spiegare la sua insistenza sui luoghi e le persone ohe gli det-
tero matèria per quattro romanzi : «... io che adorando la mia terra
anelo al giorno in cui per nessun uomo di fede la patria si arresti
alle frontiere armate, ho in fondo allo spirito una romantica me-
stizia: il rammarico di non trovare nel mio passato l'angolo soave
della provincia, del paese, della casa, la zolla a cui si abbarbichi
con le sue piiì tenere radici la mia primissima vita e l'inobliabile
puerizia, con le immagini del mio forte babbo, della mia mamma
giovane, dei miei fierissimi fratelli e delle mie sorelle bambine, tutte
legate agli aspetti, al colore, all'odore dei campi e degli alberi.
« Forse per questo prediligo un borgo del Cremonese, non bello,
piatto tra così vasta pianura, paese di preti e di campane, di dema-
goghi cattolici e d'arrembaggi cristiano-sindacalistici : perchè in quel
paese non nacqui, ma vi ebbi prima sette e poi quattordici anni, e
tutta intorno a me la mia famiglia; e quando ci ritomo non c'è cia-
battino o manuale che non mi chiami Virgilio, e nulla più, Virgilio,
e ne sorrido di gioia... »
Le due figure che vincono tutte le altre, all'ombra maliziosa del
campanile dell'Isola, sono quelle di due sacerdoti : Don Corrado Ran-
goni e Don Renzo Stringare Accanto ad entrambi è posta una donna:
Gesuina, scialba beghinella innamorata; Emesta, mistica ardente e
tenace. Don Stringari, vinto dall'amore e disgustato della Chiesa,
getta la sua veste, abiura la fede cattolica per quella protestante, e
si sposa. Don Rangoni soffre anche lui molto, ma è un'anima inde-
cisa; e nonostante che sì desti dai sogni sensuali « madido del suo
•peccato», singhiozza disperatamente per non avere la forza di spez-
zare i vincoli sacerdotali.
In questo mondo di chieriche volgari, di bigotte maligne, di so-
cialisti arrabbiati, di ragazzacci insolenti, l'Ernesta e Don Renzo
s'elevano non solo pel rapimento totale dei sensi, ma anche per la
forza decisiva del loro amore. Dice al prete la donna: «vorrei ado-
rarti in ginocchi! tua per tutta la vita: dovessi soffrire il disprezzo
di tutto il mondo, non veder più nessuno, mai più... »
Elssi vanno uniti nella notte oscura, nascostamente, trasportati
dall'impeto di vita che li rende audaci e vili al tempo stesso. « Erano
avvolti dall'ebbrezza, sollevati dal gonfio oceano della felicità, non
SCRITTORI nostri: VIRGILIO BROCCHI 43
sapevano come vivevano, quel che le labbra dicevano; andavano in-
consapevoli nel buio e nel silenzio, col sussurro divino dei lunghi
baci soffocati, per la strada deserta sotto il cielo nero; si trovarono
dinanzi alle cascine e sussultarono per la paura di essere veduti».
Intorno a loro, stanno il mulino, la roggia, il paese, con la grazia
adesiva che presentano i luoghi campestri dietro ad una coppia, sia
pure sacrilega, d'innamorati. E il Brocchi ha dispensato davvero in
questo libro tutte le sue felici risorse di narratore umano, analitico,
e malizioso.
A « L'Isola sonante » tengono dietro, legati da uno stesso filo,
« La bottega degli scandali », « Sul cavai della morte amor cavalca »,
e «Il lastrico dell'inferno».
Il .primo di questi tre è un romanzo comico, nel quale il diavolo
passeggia per le canoniche come fossero dei gironi infernali; paolotti
e podrecchiani s'azzuffano fra scandali e fornicazioni; mentre la bal-
doria indiavolata delle campane di rabelesiana memoria, strepita
dalla mattina alla sera, coprendo con l'accompagnamento ironico,
assordante, il mormorio dei baci proibiti e gli echi delle bestemmie.
Tommasone Valdari è il filosofo del luc^o, che ascolteremo nel
romanzo successivo, mentre rimpiange l'Isola d'una volta:, «Anche
l'Isola e i campi si preparavano ad accogliere la fiera, appena sgom-
bri dalle nevi e dalla brina. Gli alberi rimiravano i loro rami ancora
nudi entro le acque dei canali e già sotto gli strati delle foglie secche,
ai loro .piedi odoravano le viole. Lungo le prode brillavano i ciuffetti
delle primule gialle; sotto le dure siepi spinose strisciavano nascoste
le catenelle delle pervinche, e qua e là agitavano nell'aria con uno
squillo turchino le loro campanelline; e il cielo ne rideva così lim-
pido che lasciava trasparire in fondo all'immensa pianura sogni di
montagne azzurre, orlate di bianco, in una lontananza infinita».
Insieme alla rappresentazione spicciola, garrula, della vita del
borgo, con le ragazzine stormenti della sarta, la prodigalità delle
donne facili, fioriscono qua e là ricordi vaghi, fremono sospiri d'inaf-
ferrabili sogni.
Ma ecco « Il lastrico dell'inferno», ossia « Le buone intenzioni »,
nello stesso ambiente sordido e pettegolo, con la meschina gente che
traffica, malata di mali comuni, triviale e melensa: mogli avide
d'adulteri amplessi, mariti d'ottusa condiscendenza, con le solite la-
drerie amorose di preti indegni.
*
• •
A sollevarci da questo mondo basso, immorale, ecco il romanzo
« Miti ». La donna fragile ed eroica, che dà il titolo al libro, e che
l'autore sa farci amare fin dalle prime pagine, è certamente la più
bella che sia uscita dalla mente e dal cuore di Virgilio Brocchi. Per
lei, per lei sola, il romanzo è percorso da un profumo, da un ab-
bandono d'intimità gelosa e fiera. Sulle descrizioni naturali aleggia
un fremito di primavera. Questa è l'oasi degli affetti, che fiorisce
e fruttifica al calore dell'ispirazione; qui amore, onore, gelosia, fe-
licità, non hanno trasporti né slanci, né brividi, né lampi che non
siano umani. Qui la lotta per la vita libera, buona, feconda, ritempra
anche quando sgomenta, e il dolore é il buon compagno che non
deve abbandonarci, perchè è necessario come il pane della mensa.
44 SCRITTORI nostri: VIRGILIO BROCCHI
La dedizione per la donna cara, la sublime maternità, la crea-
zione artistica, sono enunciate con gentile e appassionata schiettezza.
Parole gravi, religiose escono dalle labbra di questa fida compagna,
che attende il frutto del suo sangue: «... sono certa che se bisognerà
andare incontro alla nostra creatura adorata nel buio, la lampada
non mi tremerà nella mano».
Le pagine da 98 a 101, si leggono, si rileggono con gioia; cosi
pure quelle da 129 a 131, nelle quali vibra ancora il ritmo persuasivo
e profondo della maternità. Ad esse fanno seguito altre, ciove sono
sgranate tutte le ingenue finezze, le tenere trepidazioni di Miti, e le
infantili visioni della piccola Luciana. I molti capitoli di questo ro-
manzo non riescono a turbare, a confondere il gruppo della madre
e della piccina, ohe suggella, come un'erma sacra, il primo periodo
dell'arte di Virgilio Brocchi.
• •
Egli ne ha già inaugurato un altro, con la storia di Pietruccio
Barra: « Il posto nel mondo ». Questo è, prima di tutto, un romanzo
d'ingenua bontà. Spesso, leggendo, vien fatto di pensare come debba
piacere ad essere utile ai fanciulli. Sono bastate infatti alcune leg-
giere modificazioni, ed ecco il libro per adulti mutato in una bella
edizione pei ragazzi, che il Sacchetti 'ha illustrata con quel sagacis-
simo segno che gli è particolare, e il Mondadori ha allestita con la
modernità signorile che oggi ha ben pochi emuli, in Italia e all'estero.
Le cinquecento pagine del romanzo descrivono con calma me-
ditativa e minuziosa tutti i particolari dell'infanzia, della puerizia
e della giovinezza di Pietruccio. La prima iparte è quella ohe mi
piace meglio. La fuga del giovinetto protagonista, Pietruccio, da
Roma a Velletri ed a Sezze, è narrata con una delicatezza ansiosa,
con una appassionata conoscenza dei luoghi. La via Appia riappare
di momento in momento, bianca e assolata, fra gli alberi grandi, e
il mistero d'eternità che essa culla ancora tra le sue prode gloriose
e le sue pieti-e miliari. Pure, le parti descrittive non sono prepon
deranti, ma concentrate piuttosto in tocchi rapidi, suggestivi : « La
strada fu invasa da un fiume belante di groppe lanose, che si distese,
s'accavallò dilagando intomo ai ruderi su cui egli era seduto, e tra-
scorse fra pochi secchi latrati di cani e fischi acuti di pastori che
camminavano dondolando sulle anche cinte di pelli caprine».
Non è la prima volta che egli rammenta, descrive la campagna
laziale e la desolata palude che la circonda. Mai però aveva rag-
giunto — come in questo libro — una così precisa medesimezza col
paesaggio solenne e immortale che circonda l'Urbe.
Ma il ragazzo è costretto a tornare nella casa patema, dove è
oramai padrona la terribile discordia. La mitezza angosciosa della
madre s'effonde sopra di lui, che è la sola speranza della casa, la
promessa innocente d'un avvenire meno angoscioso. Il padre di
Pietruccio dirige un'officina, in un istituto di correzione; ed ecco il
ragazzo buono e lavoratore, cacciato là In mezzo ai perfidi corri-
gendi, come in un covo di serpi che gli s'avventano addosso.
Le persone, in questo «Posto nel mondo», sono centinaia: una
folla che l'autore conduce per mano dinanzi a noi, dipanando le fila
SCRITTORI nostri: VIRGILIO BROCCHI
45
intricate del racconto con un gusto di prendere e lasciare che mette
a prova l'attenzione e accresce la varietà dei luoghi, delle vicende,
ma non dimentica lo scopo fondamentale dell'opera. Figura indi-
menticabile, che merita un c^nno a parte, è Nella, l'accigliata e
bnma sorella, ohe .parla poco, con franchezza grave, e sembra cam-
peggiare sulle altre, quasi fosse d'una razza più forte. Il Brocchi
ha raggiunto di rado, con mezzi rapidi, sicuri, vorrei dire impres-
sionistici, tanto risalto.
Pietruccio è quindi chiuso in seminario, dove diventa testimone
dei cento vizi, delle ipocrisie, delle infamie d'un mondo sudicio ed
equivoco, nel quale la viltà briccona dei chierici fa da specchio alle
untuosità false dei monsignori. A costo di far piangere sua madre,
il ragazzo si libera, esce; affronta la cupa povertà a Milano. Ma è
strenuo in mezzo alle burrasche, e non trema. La via è lunga, e la
conquista somiglia qualche volta ad una croce di camposanto. Ma
ohe importa? Egli va innanzi col cuore colmo di fede.
Gli sono accanto, insieme a quello di sua madre, gli esempi delle
persone più care: Giovanni Maresi di Santa Maria delle Rondini
e il filosofo Agostino Maresi. La vita è come il mare, dove chi è buon
nuotatore si salva anche nei naufragi. Ma il povero amico pittore
Vietti gli muore accanto, d'una malattia di petto, all'ultimo piano,
in una stanzuccia esposta a tutti i venti. Barra andrà poi a visitare
i genitori del defunto compagno, nella bicocca sconquassata, sull'orlo
del canale romagnolo, alla Coccolia.
Questi atti di pietà serena e consolatrice, gli valgono per ripren-
dere con più forza la sua strada, per affrontare col solo aiuto delle
proprie forze i pericoli e le insidie del mondo. Dopo il lavoro osti-
nato, viene il guadagno onesto; la vita con tutte le sue sante pro-
messe rigogliose. Questo Pietruccio è buono, leale, valoroso. È ri-
masto sempre oppresso dal morso delle sofferenze; l'amore non è
ancora sbocciato in lui. La sua carne dorme, per lasciar vivere sol-
tanto l'anima.
Certo, nel prossimo romanzo, «Il destino nel pugno», ci sarà
serbata la conoscenza della donna che Pietruccio amerà ed eleggerà
a compagna della propria vita.
Virgilio Brocchi ha raggiunto, a questa maniera, un fine di giu-
stizia consigliatrioe, ammonitrice : esaltando la virtù sopra ogni bene
terreno, ha guadagnato insieme alle simpatie del pubblico onesto,
quel compenso morale che troppi scrittori sdegnano e non meritano.
Francesco Sapori.
ETRURIA E ROMA
Nei due nomi deirEtniria e di Roma, non v'ha dubbio, si com-
pendia la storia dell'Italia nell'antichità. Col nome dell'Etruria l'Ita-
lia ha cominciato a far sentire la sua potenza nel Mediterraneo, col
nome di Roma l'Italia nostra ha toccato l'apice della grandezza, ha
soggiogato il mondo antico, e adesso ancora co' suoi monumenti, con
le sue tradizioni, col pensiero civile e religioso che rappresenta, tiene
avvinte a sé tutte le nazioni del mondo. Ma Roma non ha trovato né
poteva trovare soltanto in se stessa gli elementi necessari alla sua
grandezza, e molti essa ne attinse dai popoli stessi che dovevano di-
ventare suoi sudditi, e prima che da altri, dall'Etruria, dimostrando
così fin dalle origini quella capacità di assimilazione e di trasforma-
zione che é l'indice più certo della vitalità e della potenza fattiva di
un popolo.
Le prove di quanto affermo sono state esposte già in gran parte
nelle lezioni precedenti; ma stimo opportuno raccoglierle ed integrai^le
qui in una rapida sintesi, perchè soltanto così, abbracciandole con
uno sguardo tutte insieme, si potrà comprenderne il valore e trame
le necessarie conseguenze.
•
• •
Qualunque sia l'opinione che si voglia seguire intorno alla pro-
venienza degli Etruschi, il fatto è che la loro sede principale fu in
quella parte dell'Italia centrale che è racchiusa fra l'Appennino, il
Tevere e il mare. Qui sorsero le loro città capitali, qui si fece più in-
tensa la coltura dei terreni e si svolsero le loro industrie metalliche,
di qui sferrarono le loro navi per gli scali lontani dell'oriente, e di
qui partirono quelle loro colonie che dovevano portare i primi rudi-
menti del vivere civile a mezzodì nel Lblzìo e nella Campania, a setten-
trione nella vallata del Po. In breve il nome etrusco si estese dalle
Alpi al golfo di Salerno, riunendo in una compagine statale unica la
parte maggiore, più bella e più ricca di tutta la penisola. Dei tanti,
innumerevoli tentativi di unificazione dell'Italia che la storia registra,
è questo il primo e fors'anche il più fortunato, perchè, almeno per
noi, non s'accompagna colle memorie tristi di lutto e di sangue che
funestarono gli altri. E tutto questo, si noti, si è compiuto fra l'vin e
il v secolo a. C, mentre Roma, si può dire, non era, e il resto della
penisola avanzava lentamente nei primi gradi della civiltà, dall'età
eneolitica all'incipiente età del ferro.
ETRURIA E ROMA 47
All'esterno, lungo le spiagge del mare, la cosa era diversa. Forse
i più antichi navigatori della Fenicia, certamente i loro successori, i
Cartaginesi, ed i coloni Greci scorrevano colle loro navi lungo le coste :
e già erano sorte le colonie di Guma nella Campania, di Marsiglia
nella Gallia, di Nicea e più tardi di Alalia nella Corsica. E le rela-
zioni degli Etruschi con tutti i coloni dovettero da principio essere
pacifiche. Da una parte gli Etruschi erano nei primordii della loro
espansione e sentivano l'immenso vantaggio che recavano i viaggia-
tori d'oltre mare che insieme a prodotti nuovi e preziosi, quali non
si potevano rinvenire in Italia, recavano anche l'insegnamento di
tecniche assai progredite in ogni ramo d'industria; dall'altra parte
quei primi coloni greci non avevano propositi di conquiste : si tra-
sferivano volentieri dove la ricchezza dei prodotti li attirava e si ac-
contentavano dei loro traffici. Dei Fenici, e più specialmente poi dei
Cartaginesi, si sa che non avevano grandi mire di espansione e ba-
davano sopratutto a impiantar buone fattorie e a difenderle dalle ag-
gressioni dei Greci; e perciò, su questo terreno, i Cartaginesi veni-
vano a trovarsi in perfetto accordo cogli Etruschi e a diventarne i
più fedeli alleati. E durante questo tempo, nei secoli viii e vi a. C,
mercè l'amicizia punico-fenicia, dovettero essere le maggiori relazioni
etrusche, dirette od indirette, coll'oriente asiatico per una linea di
navigELzione che Cipro e dalle coste della Siria costeggiava l'Egitto, la
Cirenaica, la Tripolitania, i possedimenti Cartaginesi, e di là per la Si-
cilia e la Sardegna toccava le sponde del Tirreno. Gli Etruschi cede-
vano il ferro e il rame che abbondava nel lóro paese e accettavano in
cambio i metalli preziosi, gli aromi e molti di quei minuti oggetti
di lusso che si trovano nelle loro tombe più antiche, specialmente
nelle tombe dei tumuli : balsamarii, piatti e coppe d'argento lavorate
a sbalzo e dorate, scarabei ed avorii d'ispirazione egiziana od assira :
di più colle derrate preziose acquistavano o rinsaldavano alcune dot-
trine e pratiche religiose, come quella dell'aruspicina e fors'anche
dell'agrimensura, ed apprendevano l'arte di costruir navi e correre il
mare; cosicché diventarono anch'essi una potenza marinara, la quale,
unita alla cartaginese, disputò il possesso del Tirreno alle flotte el-
leniche. E venne presto il giorno in cui anche gli Etruschi sentirono
di quale importanza fosse per l'Italia centrale l'aver sicure le vie del
mare.
La prima volta fu contro i Greci di Focea. Siamo alla metà del vi
sec. a. C. La potenza persiana, raccogliendo l'eredità assiro-babilo-
nese ed egiziana, viene a scaricarsi sull'Asia Minore e travolge sotto
i suoi colpi anche le fiorenti città elleniche. Una di queste, Focea.
sdegnando sottomettersi ai nuovi barbari, cerca uno scampo nei mari
d'occidente e tenta trapiantarei nella Corsica, dov'era una loro fat-
toria ad Alalia. Gli Etruschi, padroni del resto dell'isola e dell'Italia
centrale, i Cartaginesi, gelosi dei loro possessi di Sardegna, vedono
la minaccia che portava con sé la presenza di una colonia straniera
attiva e bellicosa, e stretti in lega, provocano a battaglia nel mare di
Sardegna i temuti rivali. È la prima battaglia internazionale di mare
che ricordi la storia nel Mediterraneo, dove si trovarono di fronte i
rappresentanti di tre diversi continenti, l'Asia, l'Africa e l'Europa. Il
genio greco nella mischia feroce ebbe il sopravvento, ma le perdite
48 ETRURIA E ROMA
subite furono tali, che i Foceesi, non ostante la vittoria riportata, pre-
ferirono ritirarsi e abbandonare il Tirreno ai loro avversarli.
Fu l'apogieo della potenza etnisca, ma fu anche l'inizio della sua
decadenza. Le popolazioni del Lazio, che di gran lunga più arretrate
nella civiltà erano state per gran tempo o spettatrici o sottomesse alla
sua potenza, spalleggiate da Volsci e Sanniti e più ancora dai Greci
di Cuma, cominciarono ad alzare la testa e colla vittoria dell'Ariccia,
degli ultimi decenni del vi s'ec, divisero per sempre la dominazione
etrusca del settentrione da quella del mezzodì. Si cementava così la
prima lega latina, e Roma, scosso il giogo etrusco, entrava subito a
far parte della lega e poco per volta affermava su di essa la sua su-
premazia.
Gli Etruschi, non di meno, conservano i possessi della Campania,
ma s'accorgono di quanto fossero indebolite le loro forze per le comu-
nicazioni perdute attraverso il Lazio, per l'irruenza dei pKjpoli mon-
tanari del Sannio e per le continue insidie dei Greci di Cuma, e pen-
sano per un istante d'impadronirsi di Cuma, per sopprimere in essa
l'istigatrice principale dei loro awersarii ed assicurarsi così per la
via del mare un nuovo accessoalle città campane. È il secondo ten-
tativo, dopo quello fortunato contro Focea, di allontanare del tutto
dalla penisola la pericolosa concorrenza greca. Ma questa volta gli
Etruschi non poterono essere soccorsi dai Cartaginesi, impegnati in
Sicilia contro Agrigento e Siracusa; mentre i Cumani ottennero l'a-
iuto di lerone di Siracusa. La battaglia di Cuma del 474, di cui è l'eco
in un'ode di Pindaro, e rimase trofeo nel tempio di Giove ad Olim-
pia l'elmo etrusco dedicato dal vincitore, fu una sconfìtta per gli
Etruschi. D'allora in poi non si sente più parlare d'imprese navali
etrusche, e non solo declina, ma precipita la loro fortuna.
Dopo circa cinquant'anni, coll'irruzione dei Sanniti, cessa la do-
minazione etrusca nella Campania, e contemporaneamente, colla
grande invasione gallica, svanisce quella dell'Italia settentrionale;
mentre si riaccendono più accanite le lotte con Roma.
La prima fase del duello fatale si chiude coll'assedio e la caduta
di Veio al principio del iv sec. : si riapre quarant'anni dopo con una
guerra contro i Falisci, i deretani e i Tarquiniesi (351) e finisce con
l'intera sottomissione da parte di Cere che riceve un trattamento spe-
ciale di benevolenza consacrato nel iits Ceritum, con cessione di ter-
ritorio ed una tregua di quarant'anni da parte di Tairquinia.
Scaduto il termine della tregua, la guerra divampa da tutti i lati.
Questa volta è tutta la federazione delle dodici città che scende in
campo e chiede il soccorso degli Umbri e dei Galli per tentare l'ul-
tima prova. I Romani, non scoraggiandosi di qualche insuccesso nelle
prime avvisaglie, moltiplicano le forze e l'audacia; e, mentre il grosso
dell'esercito etrusco tiene il campo tra la selva cimina e il mare, con
mossa ardita staccano una parte delle legioni e, risalendo la vallata
del Tevere ,fìn sotto le m,ura di Perugia, hanno facilmente ragione
delle truppe accozzate in fretta alla difesa : segue la memoranda bat-
taglia di Sentine che fiacca per sempre Unubri e Galli Senoni (295) e
in pochi anni la guerra si chiude colla sottomissione di Perugia, Vol-
sinio, Arezzo, che fanno pace ed alleanza con Roma.
Dopo di ciò non solo la Confederazione, ma la stessa unità del-
l'Etruria è spezzata : vi saranno tentativi isolati di riscossa, ma senza
ETRURIA E ROMA 49
effetto, anzi coll'unico effetto di spronare innanzi i Romani a com-
piere l'assoggettamento del nemico, con strappargli nuovi lembi di
territorio e trapiantarvi nuove colonie. Il racconto di queste riprese e
di questi vani tentativi si trova in qualsivoglia manuale di storia ro-
mana e non gioverebbe ripeterlo ora. Il fatto è che tra gli Etruschi si
va formando lentamente la persuasione che era impossibile lottare
con Roma, e meglio valeva riconoscerne la manifesta superiorità mi-
litare e vivere con essa in pace e possibilmente in buona amicizia.
Una prova evidente di questa disposizione d'animo si vede nel
fortunoso periodo delle guerre puniche e specialmente nella seconda.
All'appello di Annibale contro Roma rispondono prontamente tutti
i Galli al di là e al di qua delle Alpi : l'Etruria, che aveva pur lon-
tane tradizioni di amicizia e di alleanze con Cartagine, preferisce sot-
tostare al flagello dell'invasione in una delle sue contrade più fiorenti,
piuttostochè staccarsi da Roma; che anzi, quando Scipione detto poi
l'Africano cerca l'aiuto delle città e delle colonie amiche per tentare
la spedizione sulle coste dell'Africa, le popolazioni etnische, come
già vedemmo, si offrono spontaneamente a sostenere coi propri mezzi
una parte non indifferente dell'impresa. Soltanto molto più tardi,
un buon secolo dopo, vi fu un sollevamento generale contro Roma;
ma, si noti bene, fu un sollevamento promosso dalle città confede-
rate dell'Italia, le quali, stanche di dover servire con tributi di uo-
mini e di denaro alle guerre continue e in Africa, e nel lontano
oriente, e a settentrione contro le orde dei Cimbri e dei Teutoni,
chiedevano alla signora del Tevere di poter fruire dei diritti di cit-
tadinanza^ romana. È la celebre guerra sociale, in cui il nome d'Ita-
lia compare la prima volta come espressione politica e geografica a
rappresentare la parte maggiore della penisola; e gli Etruschi fanno
causa comune cogl'Italici contro Roma, che abusava pe' suoi fini
della cieca devozione de' sudditi e degli alleati più fedeli. *
Tutti sanno l'esito della guerra. I confederati italici perdettero
la loro causa, ma Roma, paga di aver ^mostrata la sua forza e la sua
potenza, concedette spontaneamente e poco per volta ciò che da prin-
cipio e in blocco aveva negato. Solo per l'Etruria la repressione fu
spietata, perchè con essa la causa degli Italici si trovò associata a
quella dei partigiani di Mario, e su di essa si abbattè più feroce la
vendetta di Siila. Chiusi, Populonia, Volterra, dopo aver lungamente
resistito, caddero nelle mani dei legionari romani ed ebbero la sorte
di Preneste. Alla distruzione delle città si accompagiiò una devasta-
zione sistematica della regione. Fu un arresto improvviso, e brutale
di un'antica civiltà, di cui nessuno poteva prevedere le conseguenze;
perchè da quella data comincia l'impoverimento e lo spopolamento
della Maremma e della Val di Chiana, a cui invano Augusto e i suoi
successori tentarono por riparo trasportando colonie e concedendo
privilegi a quelli che fossero andati ad abitarvi. Ma le campagne
ubertose che con una sapiente distribuzione di canali sopra-terra e
di condotti sotterranei assicuravano insieme la ricchezza, la salute e
l'igiene, abbandonate o prive dei loro coltivatori, si coprirono di
stagni. Ivi trovarono il coefifkiente più funesto i germi malefici della
malaria, e da quel giorno esse divennero sinonimi di località ma-
ledette e perseguitate dalla morte. L'Etruria, trafitta dal colpo mor-
tale, si ripiegò esausta ed annichilita su se stessa: come nazione e
4 Voi. CCXVII. serie VI — 1° marzo 1922.
50 ETRURIA E ROMA
conile civiltà essa ha cessato di esistere, e quello che aveva ancora di
vivo o di vitale seguì l'antica via del Tevere e si confuse colla civiltà
romana.
Così dei due grandi nonri sui quali s'imipernia la storia antica
dell'Italia uno è scomparso : e le sorti della civiltà non più dell'Ita-
lia, mia del mondo, rincaserò per sempre legate alle sorti di Roma.
• •
Fu bene o fu male?
Una risposta alla domanda, non si può dare, se non cerchiamo
prima di vedere attentamente le note fondamentali delle due civiltà,
l'etrusca e la romana, e di stabilire quali di queste ebbero maggior
valore nella storia del progresso umano.
Chi ben osservi, troverà che gli Etruschi e i Romani, non ostante
le differenze e i contrasti apparenti, mostrano nel loro carattere molti
ed importanti elementi comuni, i quali sono fattori indispensabili
d'ogni vera grandezza civile e sociale; e prima di tutto una meravi-
gliosa facoltà di osservazione e di analisi.
Lasciamo per ora da parte la disciplina etnisca, nella quale pure
l'osservazione e l'analisi hanno una funzione preponderante; ma
pensiamo principalmente a tutto il comiplesso sistema di canalizza-
zione che si riscontra nelle città e nelle campagne, alle cure meti-
colose introdotte e praticate per la misurazione dei terreni, e com-
prenderemo facilmente che un tale insieme di opere è di necessità il
frutto di osservazioni e di constatazioni multiple fatte coll'uso di de-
terminati stnimenti e continuate per lungo tempo. Questo spirito di
osservazione e di analisi, concentrato dagli Etruschi nelle opere pra-
tiche dell'agricoltura e dell'agrimensura, i Romani volsero allo studio
dei fenomeni sociali e dei fatti morali, e di qui, come tutti sanno,
con lenta ma sicura evoluzione, uscirono quei monumenti di sa-
pienza civile raccolti nelle Istituzioni Civili, nel Codice e nel Dige-
sto, che sono ancora la base della vita pubblica e privata moderna.
Un secondo elemento comune agli Etruschi e ai Romani è la
grande facoltà d'assimilazione.
Ho già accennato sopra a questo elemento di primaria impor-
tanza come indice sommo dìi vitalità. La facilità colla quale gli Etru-
schi si sono assimilati gl'insegnamenti attinti dall'oriente nelle arti
più svariate e nelle scienze, sono la prova più convincente di questa
facoltà assimilatrice; e lo stesso deve dirsi dei Romani rispetto agli
Etruschi prima e ai Greci poi.
È una virtù comune che nelle arti e nelle lettere ha degenerato
persino in difetto, perchè ha impedito che l'arte etnisca, che l'arie
e la letteratura romana avessero e nella forma e nella sostanza una
impronta schiettamente originale; ma potremmo anche proporci il
quesito, se, date le necessarie premesse di razza, di tempo e di clima
era umanamente possibile, battendo vie diverse, arrivare a risultati
che potessero competere colla Grecia.
Altro elemento comiune è l'osservanza delle forme che porta fa-
cilmente poi al formalismo, ti una qualità che si associa spesso allo
spirito di osservazione e di analisi. Una volta arrivati per una data
via a conclusioni buone ed eccellenti, si crede facilmente che queste
ETHURIA E ROMA 51
siano il lìon plus ultra di ogni ritrovato umano, e siano tali perchè
ottenute in quel modo e con quelle norme determinate. E quelle
norme che sono indispensabili per conseguire un dato effetto nel
campo materiale, si ritengono egualmente indispensabili nel campo
morale. La cosa risulta evidente per gli Etruschi e per i Romani nel
cerimoniale religioso e nelle pratiche annesse; ma in Roma pervade
ogni procedura pubblica e la legislazione, e assurge al grado di as-
sioma nel dettato giuridico: forma dal esse rei.
Quarto elemento nel quale Etruschi e Romani si accordano è il
gusto innegabile dello sfarzo e dell'opulenza. Le insegne dei magi-
strati, le grandi pomipe dei funerali, delle feste e dei trionfi sono co-
muni all'uno e all'altro popolo. Né vale l'osservazione che i Romani
seguirono per questa parte l'esempio dato dagli Etruschi, perchè se
l'esempio non avesse trovato il terreno adatto nell'indole del popolo,
non avrebbe così facilmente attecchito. È questa una passione che,
considerata a rigore di morale, è nella maggior parte dei casi ripro-
vevole; ma quando si prefìgga il proposito di celebrare imprese pub-
bliche, e d'innalzare personaggi veramente benemeriti della nazione,
essa ha pure un effetto benefico sull'educazione sociale, perchè sve-
glia e fomenta il sentimento delle cose grandi, ed è utile anche per
noi lontani, perchè, senza l'impulso di questa passione, non sareb-
bero sorti tanti monumenti che sono stati é sono per tutti scuola in-
superabile di arte e di bellezza.
Un quinto, e per me ultimo, elemento comune all'Etruria e a
Roma è il culto della libertà coordinata al rispetto dell'autorità su-
periore dello Stato.
Nessuno può dubitare del fatto, se si guarda a Roma, e special-
mente se si confronta il regime politico di Roma con quello degli
stati ellenici, i quali hanno anticipato, per chi conosce un po' ad-
dentro la storia antica, tutti gli eccessi, tutte le aberrazioni cosi del
conservatorismo assoluto come delle demagogie moderne. Roma ha
mantenuto sempre alto il prestigio dello Stato, e nello stesso tempo
ha permesso che le energie individuali e sociali potessero svolgersi
con date norme liberamente. E lo stesso potemmo provare in qual-
che parte anche per gli Etruschi, per ciò che riguarda la dottrina e
la pratica della disciplina.
Gli Etruschi però spinsero il sentimento della libertà in altro
«ampo fino agli eccessi, sia nel permettere, come vedemmo, che sin-
gole città intraprendessero guerre per iniziativa propria senza il con-
sentimento del congresso federale, sia nel lasciare, come par certo,
che famiglie o società private facessero spedizioni e scorrerie sul
mare per proprio conto.
• ■
• *
Sono questi, in breve, i principali, se non tutti gli elementi co-
muni del carattere etrusco e di quello romano: elementi che tor-
cano a lode di quei nostri antichi progenitori.
Ma se tanta affinità d'indole e di costumi fu veramente tra i due
popoli, come mai, si domanderà, essi invece di fondersi in uno solo,
si combatterono sempre più accanitamente tra loro; e perchè dei due
ila prevalso il più giovane e il più rozzo?
6^ CTRURIA E ROMA
La risposta alla domanda non è difficile, quando, insieme alle
note comuni, si prendano a considerare alcune altre speciali de^'li
Etruschi, più che bastevoli a spiegare la loro inferiorità rispetto al
moto ascendente e trionMe di Roma: in primo luogo una tendenza
spiccata al viver tranquillo che degenera in quello, che con una pa-
rola di conio recente, si può chiainare pacifismo; in secondo luogo-
una vera ripulsione da un'efficace cooperazione nazionale, che si può
ragguagliare ad uno spirito di autonomia regionale spinto all'eccesso,
per cui facilmente e volentieri una parte integrale dello Stato si
chiude e si esaurisce nella stretta cerchia del proprio tornaconto, e,
se non è costretta da un pericolo imminente di vita e di morte, ri-
fugge dal prender parte alle imprese d'interesse generale. Sono due
difetti o vizii : il pacifisnw e il regionalismo, che avvelenarono la
potenza etnisca nel suo rigoglio, ma che trassero origine dal modo
stesso con cui la conquista etrusca si è compiuta,
È ammesso comunemente che, venendo in Italia, gli Etruschi
conoscessero l'uso del ferro; mentre le popolazioni che li avevano
preceduti consei-vavano ancora la civiltà del bronzo. Chi sa anche
superficialmente quale enorme distanza córra fra le due civiltà, so-
pratutto per ciò che riguarda le applicazioni dell'industria e della
guerra, comprende facilmente, che gli Etruschi nel loro avanzare
non dovettero incontrare una resistenza tenace, come nessuna seria
opposizione dovettero sostenere per mantenerla.
Dove uno scaglione d'invasori arrivava, al primo scontro sgomi-
nava gli avversarli e poteva tranquillamente adagiarsi al suo posto
nel territorio appena occupato. Basti pensare alla rapidità e alla fa-
cilità colle quali due avventurieri come Francesco Pizzarro e Fer-
nando Gortez, al tempo delle scoperte marittime, con un pugno di
soldati bene armati, ebbero ragione degli imperi del Perù e del Mes-
sico, che pur contavano una civiltà antica e popolazioni numerose.
Ma sono invece le lotte sanguinose, i pericoli sostenuti insieme,
l'esultanza di una vittoria lungamente disputata, i fattori più efficaci
di una salda unità nazionale, di un forte organismo di Stato. Gli
Etruschi non provarono queste lotte, non sentirono il bisogno di
stringersi compatti coi vicini nello sforzo disperato di un'ardua im-
presa, e rimasero come disgregati, uniti fra loro soltanto con un le-
game ideale e religioso: troppo poco perchè acquistassero uno spi-
rito nazionale loro proprio, perchè si svolgessero e si fortificassero
tra loro quelle salde istituzioni militari senza le quali nessuna con-
quista si compie, né compiuta, si mantiene.
Mancando loro una forte unità, mancarono anche i grandi mo-
numenti. Furono tra loro molte città ragguardevoli e non una grande
metropoli : molte opere lodate di arte industriale e molte tornile son-
tuose: non il capolavoro artistico, non il monumento nazionale per
eccellenza, simbolo della patria, che forma l'orgoglio del cittadino
e ne tramanda ai posteri la fama. E quando più tardi, tra il ve il iv
secolo, i vicini del mezzodì, prima poveri e digiuni di ogni arte,
acquistano la coscienza del proprio valore e si agguerriscono come i
loro avversari, e dal settentrione irrompono nuove popolazioni bar-
bare, gli Etruschi si trovano déboli ed incapaci di una lunga resi-
stenza e diventano facile preda dei più forti che perciò stesso, note-
rebbe il Machiavelli, sono più favoriti dalla fortuna.
ETRURIA E ROMA 69
Roma invece ebbe dura l'infanzia e non meno aspra e combat-
tuta la giovinezza. Non fu nemmeno favorita dalla ricchezza e dalla
fertilità del suolo, e si trovò circondata da \'icini al par di lei tenaci
e laboriosi, sui quali dovette conquistare palmo a palmo l'indipen-
denza per giungere lentamente a superarli e costringerli a far parte
del proprio organismo di Stato.
Così non poteva nascere né allignare in essa la velenosa pianta
del pacifismo : così il giovinetto imparava per tempo, accanto ai mag-
giori, a vivere a ciel sereno, a maneggiare le armi e ad affrontare i
rischi della battaglia: si formava l'oraziano robustus acri ndlitia
puer, quegli che sarebbe diventato poi eques metuendus hasta. L'uso
delle armi diventava per lui famigliare, e senza difficoltà il contadino
abbandonava il campo o la greggia per imbracciare lo scudo e stringer
l'asta, l'artigiano deponeva gli attrezzi del mestiere e accorreva al
Campo Marzio alla chiamata dei consoli. Posava la guerra, e ognuno
riprendeva tranquillamente il proprio ix)sto, pronto a lasciarlo al
primo appello della patria, al primo squillo delle trombe di guerra.
E la storia di Roma nei primi secoli, anche in mezzo ai racconti leg-
gendarii che l'abbelliscono, è un seguito continuato di guerre con
brevissime soste; guerre nelle quali si alternano vittorie e sconfìtte,
ma che sempre alla fine segnano un buon passo innanzi nella via
delle conquiste : un popolo soggiogato trasportato ad abitare in
Roma, una frazione di cittadini romani condotti ad abitare là dove
era il centro della potenza nemica, quasi sentinelle avanzate di una
marcia che deve seguitare. Appena superata una prova, eccone un'al-
tra più dura e più terribile. Si associano tra di loro e si moltiplicano
i nemici : insorgono le dodici nazioni confederate dell'Etruria e sono
con loro Umbri e Galli : Pirro di vittoria in vittoria si affaccia alle
vie del Lazio : che più? Il tanto odiato Annibale, dopo aver sconfitto
condottieri di valore e annientato di seguito tre eserciti, accamipa non
lontano da Roma: il terrore invade il Senato, ma Roma non pensa
mai a chieder tregua, a negoziare accordi che le concedano un re-
spiro: le tregue sono per gli altri, non per essa: affronta animosa il
pericolo e va diritta allo scopo, e così prima il Lazio, la Campania,
l'Abruzzo, l'Etruria, poi iF resto dell'Italia e gli antichi popoli del-
l'Africa, della Grecia e dell'Occidente diventano sudditi suoi.
E come non vi fu pacifismo in Roma, così non potè mai sorgere
e prevalere in essa e nelle regioni a lei sottoposte alcuna tendenza di
autonomie e di separazione. Roma conobbe pure lotte e dissensi in-
temi, memorabili e memorande quelle tra patrizi e plebei che con
diversi nomi e diverse forme occupano tutta la storia della repub-
blica fino all'impero; ma di fronte ai nemici esterni essa fu sempre
unita e compatta come un uomo solo. Quando lo Stato, o per trat-
tati o per conquiste, si estende, è l'originario comune che allarga i
suoi confini, sono i suoi ordinamenti comunali che, sapientemente
adattati, si trasformano in quelli della repubblica e più tardi del-
l'impero. Roma, sempre e unicamente Roma, è il comune, la città,
la repubblica, l'impero : far parte dello Stato romano è entrare a
parte della città di Roma, diventare suoi cittadini; per cui, giunta
all'apice della sua potenza essa, per bocca d'uno de' suoi più grandi
scrittori, poteva a buon diritto vantarsi di aver fatto degli abitatori
del mondo i cittadini di una sola città.
54 ETRURIA E ROMA
Di fronte a così forte spirito guerriero, ad un organismo di Stato
cosi coordinato e compatto come avrebbe potuto e contrastare e reg-
gere l'Etruria? Una volta impegnata la lotta, il risultato era certo.
Nel cozzo violento il prestigio delle arti, della coltura e della civiltà,
non sostenuto da solide virtù militari e politiche, non valse, e l'Rtru-
ria come nazione cessò presto di esistere, prima ancora che i suoi
aruspici ne annunciassero la fine segnata nei libri fatali.
Ma, diciamolo subito, Roma fu degna della vittoria, e per la sua
vittoria ciò che nei popoli vinti era frutto di una civiltà e di un sa-
pere superiore non andò interamente perduto.
Come notammo sopra, Roma, ebbe comune cogli Etruschi la fa-
coltà di assimilare; ma Roma svolse ed applicò questa facoltà in
grado sommo e sopra un'estensione di tempo e di spazio che nessuno
miai avrebbe potuto immaginare. Gli Etruschi poi furono i primi dei
popoli sui quali essa esercitò questa facoltà, e la esercitò nella forma
piìj diretta e più semplice, quella dello scolaro volonteroso che as-
sorbe lentamente e fa sua la dottrina del maestro. La superiorità
della coltura e la contiguità del territorio ne furono i coefficienti più
efficaci; e la storia poi lo dimostra ad ogni passo. Documento noto
e significativo quant'altri mai il fatto che agli Etruschi affidavano i
Romani quella che noi diremo l'istruzione superiore della gioventù.
È Livio che lo afferma: habeo auctores, vulgo tum Roììianos imeros,
siciit mine Graecis, ita Etruscis litterìs erudir? solitos : posseggo te-
stimonianze scritte, che come adesso si usa educare i giovani nelle
lettere greche, così allora si faceva nelle lettere etnische. Dovettero
passare parecchi secoli, prima che i Romani stessi, venuti a contatto
delle civiltà maggiori e più diffuse della Grecia e dell'oriente, im-
parassero a conoscere ed ammirare altri monumenti di arte e di let-
teratura superiori agli etruschi, prima che Livio Andronico, Ennio
e Pacuvio, Plauto e Terenzio facessero sentire nel rude idioma latino
alcune delle grazie della Musa ellenica.
Non è necessario su questo punto che io discenda ai majargiori
particolari : non farei altro che ripetere quanto ho detto e spiegato
volta per volta nelle lezioni passate.
In processo di tempo non sono i Romani che si recano a studiare
in Etruria, ma sono gli Etruschi che si trasportano in Roma. Lo
sappiamo in forma esplicita per ciò che riguarda l'anispicina e in
generale per tutta la disciplina etnisca: ma il fatto, per illazione le-
gittima, si può presumere per ogni altro ramo dell'arte e del sapere.
Né può avere gran valore in contrario l'opposta affermazione df
Orazio :
Grnecia capta feium rtimem cepìt rf nrfrx
Intulit agresti Latio.
Se con questi versi Orazio intendeva dire che le arti e le lettere ro-
mane del suo tempo erano una rifioritura dell'arte e della letteratura
greca, nessuno oserebbe dargli torto; ma se avesse voluto affermare
che quella rifioritura era una conseguenza diretta ed immediata della
ETRURIA E ROMA 55
conquista romana della Grecia, noi dovrenuiio dire che egli ha er-
rato, o per lo meno che ha grandemente esagerato.
Si vede molto chiciro che due sentimenti principali dcwninavano il
pensiero di OfcLzìo, quando dettò quei versi : l'uno, se mi è lecita la
frase, era un sentimento di boria nazionalista, per il quale il fiero
Quirita, salito al fasto di un impero universale, sdegnava rintrac-
ciare le origini della propria grandezza nei popoli piìi vicini, da lui
sottomessi e quasi annientati; mentre più volontieri si protestava
figlio intellettuale di quella Grecia, che colla spada di Alessandro
precorse le aquile romane nei più lontani confini dell'oriente; e di
buon animo accettava le origini di Roma dalla leggendaria Troia,
circonfusa di tanta poesia nei miti, nei canti e nelle arti elleniche.
In secondo luogo, è giusto riconoscerlo, il pensiero di Orazio non
poteva sottrarsi all'impressione che doveva produrre la Roma di
marmo dell'età augustea in confronto della Roma di mattoni dell'età
repubblicana: gli archi trionfali, i templi, le terme, le basiliche e
sopratutto VAra Pacis che sorgeva sotto i suoi occhi, recavano così
chiara e luminosa l'impronta del genio greco, che facilmente pote-
vano sfuggirgli gli oscuri meati che collegavano i grandiosi monu-
menti imperiali colle opere più modeste dell'arte paesana.
Non è quindi la sentenza oraziana quella che può infirmare le
nostre deduzioni. Se Roma ha taciuto spesso le fonti a cui attinse nei
secoli più avanzati della sua storia, questo non vale a negare il fatto,
e si spiega assai facilmente o come effetto di vanità nazionale od an-
che come dimenticanza.
Del resto non era neppur necessario che essa rivelasse le sue
fonti, perchè, come dicemano, l'assimilazione delle arti, delle dot-
trine, dei costumi era nell'indole e nelle consuetudini sue. Roma,
tuttavia, non si è accontentata di assimilare, arti dottrine e costumi,
ma ha fatto di più : ha attirato a se gli uomini migliori delle altre
genti e li ha liberamente associati alle proprie imprese e alla pro-
pria fortuna: in altre parole essa ha saputo intendere ed applicare
fino da' suoi tempi il grande principio della cooperazione sociale. E
chi ben guardi si persuaderà facilmente che nell'applicazione di que-
sto principio sta la ragione prima e principale della grandezza di
Roma, della perennità dell'azione e della fama sua attraverso i
secoli.
Lo sforzo continuato di tante guerre avrebbe fatalmente pro-
dotto in lei la spossatezza e l'esaurimento, ed era necessario che di
volta in volta essa potesse risanguarsi con elementi nuovi e ricchi di
nuove energie. Altri avrebbe potuto temere che con questo mezzo
si alterasse il carattere UcLzionale, e ne fosse minacciata la sicurezza
dello Stato; ma Roma seppe compiere l'opera sua per gradi e con
tanto senno, che nessuno mai degli elementi associati pensò di so-
^Tapporsi ad essa o di deviarne comunque l'azione. Tale era il pre-
stigio che Roma si era guadagnato, che ognuno si sentiva in essa no-
bilitato e diventava tosto romano di elezione e di cuore. E quando
Cesare, il più grande dei Romani, estendeva di sua volontà la citta-
dinan2a, romana ai Cisalpini e fondava colonie nuovie, e chiamava
in Senato i migliori cittadini galli, potè bensì essere schernito ed ac-
cusato dall'oligarchia avversaria di cercar coll'arbitrio difensori in-
teressati della causa sua: ma in realtà egli obbediva ad una legge
56 ETRURIA E ROMA
storica e aggiungeva nuove e solidissime basi alla futura grandezza
di Roma.
Che diventerebbe il fiume reale che attraversa maestoso colle
turgide correnti la pianura, se le piccole ed ignorate sorgenti della
montagna gli negassero il loro tributo? Che sarebbe il biondo Te-
vere senza i miille rivoli che dalle sue fonti perenni gli mandano
rUmibria e la Sabina e senza quelli che a lui rifluiscono e dalle sel-
vose pendici dell'Amiala e dalle feconde pianure della Chiana? Come
i fiumi e le fonti, così sono le rudi schiatte montanare, così le forti
generazioni delle campagne. La chiarezza del sole e dell'aria che si
trasfonde in lucidezza di pensiero, e la robuste2iza della fibra che
feconda l'energia dei propositi si disposano alla mansuetudine del
carattere e alla pietà dei mistici umbri, monaci, poeti ed artisti, che
attingono alle profonde scaturigini della religione e del sentimento
etrusco. Ma la mèta lontana è Roma, e Roma s'arricchì delle forze
dei sudditi suoi, ridandole ad essi nobilitate e perfezionate in leggi
ed ordinamenti nuovi civili e religiosi.
E la storia dell'Umbria e dell'Etruria è quella di tutte le regioni
dell'Italia, e grado a gr^do di tutto il mondo antico, che attratto nel-
l'orbita di Roma, ha finito col diventarne parte essenziale e col di-
viderne le sorti.
Chiedete alla storia, donde vennero a Roma i primi maestri del-
l'arte, ed essa vi risponderà col nome di Volca che foggiò la prima
quadriga del tempio di Giove Capitolino, e poi vi mostrerà la lupa
capitolina e le antiche sepolture degli Scipioni, e vi ricorderà i tu-
scarna signa, e le duemila statue che; al dir dà Plinio, dalla vinta
Volsinio furono portate a Roma.
Chiedete agli architetti romani donde trassero le norme pratiche
del costruire e l'idea madre di quelle moli complesse di archi, vòlte
e cupole che sfidarono l'urto della barbarie e il morso tenace del
tempo, ed essi additeranno le miura, e le porte di città etrusche, i ca-
nali, i pwnti e le tombe, di cui restano tracce preziose, e che nei
primi tempi di Roma dovevano brillare in tutto lo splendore e la
grandezza loro.
Che se dalle arti passiamo alle lettere, chi sono e donde vennero
i poeti, gli storici e i retori piij famosi che hanno cantato le gesta,
eternato il ricordo, tradotto il pensiero più genuino di Roma nei loro
scritti?
Non sono Virgilio di Mantova e T. Livio di Padova, l'uno coi
versi e l'altro colla prosa, che hanno immortalato le origini di Roma
e ne hanno preconizzata la missione provvidenziale nel mondo? Non
è Tacito di Temi che ha segnato con marchio d'infamia le nequizie
dei primi successori d'Augusto ed additato coll'esempio quale sia il
compito d'uno storico severo? Non venne da Sarsina Plauto a ralle-
grare co' suoi sali il popolo di Roma, e dall'Africa Terenzio, ed En-
nio e Livio Andronico dalla Magna Grecia? E chi con maggior sin-
cerità di passione cantò d'odio e di amore del Veronese Catullo? Chi
pili di Orazio di Venosa ha saputo adornare la lirica latina delle
grazie più squisite delle Muse elleniche e magnificare nelle sue strofe
il nome e la grandezza di Roma? E dove lascio Properzio di Assisi,
Ovidio di Sulmona. Persio di Volterra, Giovenale d'Aquino, Stazio
di Napoli, i due Plinii di Como. liucano, Seneca, Columella e Mar-
ETRURIA E ROMA 57
ziale della Spagna? E quando l'impero e le lettere decadono, non
sono i provinciali che sostengono ancora gli studi e il buon nome
di Roma? Orosio dalla Spagna, Ausonio e Sidonio Apollinare dalle
Gallie, S. Girolamo dalla Dalmazia, Ammiano Marcellino da An-
tiochia, Claudiano da Alessandria, Apuleio, Frontone ed Agostino
dall'Africa, tutti convergono il loro sguardo verso la regina del Te-
vere, e, CQm€ dall'unica patria loro, ne esaltano le glorie e ne pian-
arono amaramente le sventure. Che più? Gl'imperatori stessi che con
mano più ferma e con msente più sagace ressero le forze trionfanti di
Roma o le rialzarono cadenti, non nacquero cittadini di Roma, ma
fecero di essa la loro patria di elezione. Così vennero, a tacer dei mi-
nori, Vespasiano da Rieti e Nerva da Nami, Traiano e Teodosio il
Grande dalla Spagna, Aureliano e Probo dalla Pannonia, Diocleziano
dalla Dalmazia e Costantino Magno dall'Illiria e Settimio Severo dal-
l'Africa.
* *
Tale fu l'azione che Roma esercitò sui popoli a lei sottomessi:
attirarne a sé le forze migliori e stringerle in un sol fascio per farle
contribuire alla grande opera della civiltà e del progresso umano.
Né questa opera si arresta con Roma antica, ma continua sotto
altre forme e per altre vie per tutto il Medio Evo fino all'età nw-
derna. Passano appena due secoli da quando i Goti di Alarico sono
penetrati saccheggiando e incendiando nel pomerio di Roma, e —
l'immagine è del Gregorovius — altre schiere di barbari arrivano
dal settentrione per le vecchie vie consolari. Ma essi non portano
armi e non intonano canzoni di guerra: levano alto le croci e can-
tano salmodie religiose: non vengono per distruggere, ma cercano
una tomba da venerare, un vecchio a cui chiedere una benedizione:
non vogliono bottino, ma recano l'oro e l'argento delle terre natali.
Sono gli Angli, i Sassoni, i Franchi, gli eredi degli antichi invasori
che Roma ha mansuefatto e che tornano a lei come figli all'antica
madre. Dei molti che arrivano pellegrinando, non sono pochi quelli
che ne restano ammaliati e scelgono come loro asilo un angolo del-
l'urbe, dove vivere ed operare sotto lo sguardo materno. Sono i primi
pellegrinaggi, quei pellegrinaggi che si ripeteranno senza tregua
fino ai giorni nostri, verso mète diverse, ma tutte romane, della
fede, della storia e dell'arte. Roma riceve novelli tributi, ma li ri-
dona moltiplicati in opere di sapienza morale e civile, in monu-
menti d'arte e di bellezza che parlano, insegnando ed educando, a
tutto.il mondo.
Troppo forse io sono trascorso col mio dire: ma prima di con-
cludere, mi sia permesso ricordare un'altra grande pagina della no-
stra storia, che é tutta un commento, anzi una conferma di auanto
abbiamo osservato e studiato insienne, una pagina della storia del
Rinascimento italiano.
Si è chiuso per sempre il periodo delle invasioni barbariche,
sono cessate le lotte delle investiture : il feudalismo, battuto in brec-
cia dai liberi comuni, apre le ferree rocche e si mescola alla vita
cittadina : appaiono i segni forieri di un'età più civile e di una nuova
e più pacifica comunione dei popoli fra loro, e ITtalia si ridesta dal
58 ETRURIA E ROMA
sonno secolHre. Quali sono le ragioni ohe prime e in più larga mi-
sura e con uno slancio di volontà che non s'arresta, accolgono i nuovi
germi, li coltivano più amorosamente e ne traggono i fiori .più ri-
denti e più leggiadri, se non le nipoti lontane dell'antica Etruria,
la Toscana e l'Umbria? Da Assisi e Todi e Gubbio e Perugia, ad
Arezzo e Pistoia, a Firenze e Lucca, a Pisa e Volterra, a Siena ed
Orvieto è una primavera di opere d'arte e d'ingegno che non ha
l'eguale, e in cui gareggiano fra loro architetti e pittori, orafi e scul-
tori, poeti, novellieri e cronisti, i quali tutti si professano figli di
Roma e tendono ad essa come alla patria comune. E Roma per lungo
tratto non partecipa al risveglio delle proprie figlie, e rimane quasi
corrucciata in disparte avvolta nel suo manto di rovine; finché
l'istinto materno si ridesta e risponde alle voci che l'invocano; e
dalle cento valli dell'Umbria, dalle colline e dai piani della Toscana
scendono a schiere i letterati e gli artisti che in essa e intorno ad
essa affinano l'ingegno e traggono insegnamenti di saggezza antica.
A Roma vennero e ne partirono trasformati il Donatello, il Bru-
nelleschi e Leon Battista Alberti, ivi il Masaccio e Pier della Fran-
cesca, il Signorelli, il Perugino, il Pinturicchio; a Roma vennero e
si arrestarono Michelangelo e Raffaello; e qui l'opera loro, spoglia-
tasi di ogni vestigio regionale, si trasformò in monumenti che fanno
epoca nella storia e sono esenrupio insuperato e insuperabile di quanto,
col divino magistero dell'arte, abbiano saputo creare insieme la
scoltura, l'architettura e la pittura: gli affreschi della Cappella Si-
stina, delle Stanze e delle Logge in Vaticano, e la cupola di S. Pietro.
Così allora e sempre, col dono più amibìto di una gloria universale,
Roma ha saputo rimeritare tutti quelli che accorrendo ad essa, le
hanno consacrato l'ingegno, la volontà e il lavoro. E cosi si dimostra
ancora una volta, come nel mondo nulla di veramente grande è
frutto di opera solitaria; ma è il risultato di una larga e sapiente
collaborazione, nella quale, sotto una guida comune, ognuno tiene il
proprio posto e cerca e raggiunge il proprio fine.
*
• *
Le nazioni sono come gl'individui. Chi non pratica l'insegna-
mento dell'oracolo di Delfo — conosci te stesso — quando pure
ascolti le ispirazioni più elette, non potrà mai misurare con sicu-
rezza le proprie forze e ben difficilmente raggiungerà con l'opera
propria la mèta desiderata. Allo stesso modo una nazione che non
ha la conoscertza esatta dei propri valori materiali e morali, non
può tendere con buona speranza a vera grandezza. Perchè le forze
di una nazione non sono soltanto nelle volontà e nelle attitudini dei
cittadini che la compongono, ma anche e più nel patrimonio ideale
e morale della sua storia, negli elementi etnografici suoi propri,
che sono quelli che presiedettero alla sua formazione e devono per-
petuarsi nei figli suoi. Chi non ha cura di ciò, vien meno al suo
mandato, perde le fattezze originali, e presto o tardi è destinato a
soccombere.
Quanti utili principii, anche co' suoi errori, ci ha insegnato
l'Etruria, e dei quali (possiamo verificare il valore pratico; e quanti
di questi principii Roma ha fatto propri e propagati nel mondof
ETRURIA E ROMA 59'
Ma non potremo «ssere i degni eredi di Roma, se non faremo tesoro»
de' suoi esempi, e se, com'essa ha luminosamente insegnato col fatto,
non ricercheremo con amore le fonti della nostra grandezza in tutte
le regioni che compongono la nostra penisola, in tutte le genti che
abbraccia la nostra schiatta, e quindi anzitutto nella Toscana e nel-
l'Umbria che sono le più antiche e le piti insigni propaggini della
gente etnisca.
Noi felici e ben avventurata la patria nostra, se nello studio
del ipassato sa/premo cercare e riconoscere una parte di noi stessi.
Come aquila che librandosi a volo sulle vette inaccessibili dei monti
abbraccia con uno sguardo le valli sottoposte e tutto nata e distingue,
poi, scelta la sua mèta, fìgge sicura e gioiosa i suoi sguardi nel sole,
così la patria nostra sicura del suo passato e forte della volontà di
tutti i figli suoi, «potrà senza titubanza e per la diritta via affidarsi
a) proprio destino.
Il qual destino, ammettiamolo pure, potrà serbarle qualche de-
lusione e qualche sventura. Ma anche allora il suo patrimonio di
tradizioni e di memorie manterrà intero il proprio valore, perchè,
non solo, come canta il poeta dei Sepolcri,
... dei numi è dono
Serbar nelle sventure altero nome ;
ma dono più grande ancora deìValtero noìne è la podestà di uscir
presto dalla miseria, per cancellare le proprie macchie e riguada-
gnare il tempo perduto. Per merito di Roma e delle sue glorie civili
e religiose già altra volta l'Italia vinse la barbarie delle invasioni
e rinacque a novella vita dalle .oscurità del Medio Evo; e per essa
ancora l'Italia potrà sempre rinsaldare le proprie forze e perpe-
tuarne la maturità nei secoli.
B. NOGARA.
Nota. — Questo articolo, non ostante alcune omiasiomi, riproduce la le-
zione di chiusura del corso di Antichità Etnische, tenuta nel settembre p. p^
presso la Libera Università degli Studi di Perugia.
NUOVI ORIZZONTI NELL'EDILIZIA CITTADINA
L'Edilizia Cittadina è tra le discipline architettoniche una delle
principali, sebbene da noi pochissimo finora coltivata. Certamente
la meno astratta, la più moderna, la più palpitante o^gi, connessa
com'è con tutti i problemi più scottanti e più difficili della vita.
L'Edilizia g^enerale è arte complessa, è arte essenzialmente di
sintesi, abbracciando essa molte altre dottrine: l'estetica, la morale,
la sociologiia, l'igiene, la sicurezza. Anni fa non si sapeva tutto que-
sto : ricordo che un egregio artista, ascoltando i miei (propositi, mi
diceva che per l'insegnamento della Edilizia bastava che un qua-
lunque professore dimostrasse in due o tre lezioni come si fa un
piano regolatore! E per allora fare un piano regolatore significava
semplicemente tracciare sulla carta una fitta rete di strade tutte
uguali, con l'unico intento di dover trovare sfogo in qualsiasi modo
alla costruzione di nuove case.
Così fu fatto per i Prati di Castello in Roma.
Nei centri di grande importanza invéce o di alto interesse arti-
stico, si partiva da un grande monumento antico o moderno e sul
prolungamento del suo asse si disponeva un bello stradone diritto,
senza preoccupazione del suo sbocco, né del suo allacciamento con
le altre arterie principali, né con i quartieri limitrofi.
Così, sempre nella nostra -povera Roma, sull'asse delle Terme
di Diocleziano, fu fatta partire trionfalmente la Via Nazionale, per
poi abbandonarla a Magnanapoli, in un precipizio incomodo e in-
decoroso. Peggio per via Cavour. Senza neppure la scusa monu-
mentale, essa s'inizia sull'asse del prospetto laterale della stazione
di Termini, e va ad arrestarsi bruscamente senza uscita contro e
sopra il Foro Romano. Critica piiù feroce non potrà toccare a questa
sfortunata strada, da quando un tramwai elettrico, scendendo a corsa
veloce verso il basso, uscito dalle rotaie che ipiegano seccajnente
verso la via Alessandrina, sbattè contro lo stecconato piantato a di-
fesa del preci'pizio sul Foro!
Oggi si tenta in tutti i modi di riparare, ma è tardi purtroppo,
e il danno e la vergogna quanto la memoria dureranno.
Ma quello ohe è stato è stato : non è da forti piangere sulle pas-
sate sventure. Vediamo invece di far meglio. Ormai è nata La nuova
dottrina; essa è anzi bene e profondamente sviluppata, e dopo il
primo periodo di studi, dopo il -primo cozzo tra tendenze diverse,
tutte unilaterali e individualistiche, oggi finalmente si prospetta ab-
bastanza chiaramente il nuovo orizzonte dell'Edilizia Cittadina.
Tra queste tendenze individualiste la scuola che più si era af-
fermata, quella che unica forse aveva raggiunto vera armonia di
NUOVI ORIZZONTI NELL'EDILIZIA CITTADINA 61
organicità, era quella di Camillo Sifete: scuola eminentemente ro-
mantica, che, schierandosi risoluta contro il sistema atrocemente
americano della scacchiera, vuole ripiegare le strade ora larghe, ora
strette, tutte dissimili tra loro, in dolci curve; sboccarle, con gu-
stose risoluzioni di angoli, in piazze tutte asimmetria, tormentate nel
loro contomo da mille sporgenze e rientranze fortuite, OArvero in
piazzette remote, accessibili attraverso scale rustiche, e circondate
da balaustrate o da muretti, sotto l'ombra dei verdi platani : piaz-
zette dove sorge, padrona, la Cattedrale o il Palazzetto Comunale.
Il Sitte ha profondamente studiato l'ambiente medioevale ita-
liano, ha rilevato innumerevoli raggruppamenti di edifici nei centri
delle nostre (piìi care e più belle città, mille quadri meravigliosi di
senso pittoresco e suggestivo, e su questi modelli ha foggiato le sue
teorie di tracciati di città. La scuola ha avuto fortuna, e tanto più
in quanto combatteva, ed era anzi antagonistica del sistema impe-
rante del rettifilo e della scacchiera, del piano regolatore cioè a pura
base geometrica, concepito e sviluppato freddamente a tavolino; si-
stema venuto a noia e riprovato allora, come ancora, da quanti hanno
senso e amore d'arte.
Applicazioni di questo tipo di piano regolatore se ne sono avute
fuori, nel Nord EJuropa specialmente: ma la teoria divenne mon-
diale, e fu per vari anni il nuovo credo edilizio. La reazione all'ari-
dità del periodo precedente, la seduzione dei quadretti fantastici e
pittoreschi, non fecero vedere l'errore dell'assolutezza di questa teo-
ria. Errore sostanzialmente nella sua natura individualistica. Non
si può concepire un piano pittoresco a priori. Siamo nell'analogo
caso di quei pittori che vogliono essere ingenui; l'ingenuità non può
essere imposta : è un sentimento naturale e istintivo che trae tutta
la sua forza dalla sua incoscienza: quando ci accorgiamo di essere
ingenui, già cominciamo a non esserlo più; figuriamoci poi se vo-
gliamo imporcelo! Così il senso pittoresco non può essere prevoluto
o imposto, 'perchè si fonda essenzialmente proprio sull'impreveduto,
suirinaspettato, sull'occasionale. Le silenziose stradette, i bivi sco-
scesi di Assisi, il succedersi e l'incrociarsi di archivolti e di passaggi
coperti di Perugia, le stradette a denti di Todi come potrebbero es-
sere prevedute da un sol uomo? Una strada così fatta, creata tutta
di nuovo in un tem^po, con le torrette sugli ajigoli in vista, con le
insenature, con le gobbe, sarebbe grottesca, non pittoresca, più
adatta allo svolgimento di una film ohe non a servire ad arteria di
comunicazione di una grande città.
Perchè in sostanza il piano regolatore ha stile, e questo stile deve
armonizzarsi con lo stile dell'architettura ohe lo riveste,
Questa è la grande conquista moderna: questo è il vero punto
fondamentale della nuova disciplina. Non concependosi più. un piano
regolatore come un magro scom'parto geometrico di appezzamenti
di terreni, ma come tutto un organismo estetico e pratico e igienico,
insieme, è chiaro ohe questo piano deve armonizzarsi con le case
che vi si costruiscono sopra. I grandi boulevards alberati di Parigi,
che fanno capo all'Arco di Trionfo, non potrebbero essere meglio
fiancheggiati da quei grandi edificò, dal largo e sontuoso atteggia-
mento neo-classico. La vasta, simmetrica e squadrata Piazza della
Concordia non sarebbe così bella, se non avesse quei palazzoni ari-
'62 NUOVI ORIZZONTI NELL'EDILIZIA CITTADINA
stocratici, a colonne corinzie, serie, allineate, e sormontate dai severi
timpani acuti. Nel fondo, vedete come la Madeleine termina mirabil-
■nnente questo quadro di g^randezza riposata!
Oggi noi ci avviamo sempre più verso un periodo di architettura
modesta: modesta di intenzioni, modesta di mezzi. Parlo natural-
mente dell'architettura di tutti i giorni; e lasciatemi qui insistere sui
limiti dentro cui intendo svolgere questa teoria. Intendo cioè parlare
dell'Architettura comune, di quella che soddisfa ai bisogni continui
della popolazione: intendo parlare insomma del pane quotidiano.
I grandi monumenti e i grandi palazzi, che dovranno pure tro-
var posto nelle nostre grandi città, costituiscono altro argomento.
Troppo grave questo, per essere trattato contemporaneamente e con
brevità, qui in Roma specialmente, dove il terribile passato c'incute
rispetto, venerazione, sgomento. Per i grandi palazzi l'ambiente com-
porta complicazioni maggiori.
Parliamo invece di quanto dobbiamo comiimemente costruire :
alberghi, ospedali, scuole, ma sopratutto case e villette. La pietra
da taglio si rende sempre più rara iper la esagerazione del suo costo,
per la lentezza della sua lavorsizione. Il cemento armato è pratico,
i- sollecito, abbastanza economico. Le case e le villette si completano
in ipochi mesi; si elimiina la eccessiva e inutile decorazione. Il si-
gnore, il privato che commette isolatamente una casa fatta un poco
a suo capriccio, diviene sempre 'pdù raro: sono le grandi società ohe
■costruiscono, le cooperative, gli enti pubblici o privati. Necessaria-
mente la casa va diventando un oggetto industriale, ineluttabilmente
l'Arte dell'architettura si avvia ad industrializzarsi. La personalità
dell'artista gradatamente va scomparendo, e si consolida, si concreta
il sistema, il metodo.
Certo non siamo ancora arrivati a questo, ma siamo sulla via
direttissima che a questo ci conduce. L'arte dell'arohiteito sognatore,
che ha tutta una visione intima dissimile da quella di tutti gli altri,
-cozza terribilmente contro i mezzi organizzati, contro i sistemi ri-
gidi, contro i bisogni impellenti di tempo e di spazio. Per far bene,
questo architetto sognatore ha bisogno di provare, e riprovare; alle
volte di correggere il già fatto. Altre volte una nuova idea, balenata
improvvisamente alla mente ricercatrice in una notte insonne, deve
attendere la sua imatu razione: ma i giorni passano e la costruzione
non può arrestarsi per un'idea d'arte; centinaia di operai non pos-
sono sospendere il lavoro per attendere la trovata dell'architetto.
L'illustre professore Cesare Laurenti, autore, msieme con il Ru-
polo, della nuova Pescheria sul Canal Grande di Venezia, mi rac-
contava a questo proposito, anni fa, che, dovendo dividere la fronte
del suo fabbricato in cinque archi acuti, ne misurò la lunghezza to-
tale a passi e non a metri; e dividendone poi il numero per quello
degli archi, è risultata una disuguaglianza tra le corde dei vari archi,
non visibile, ma sensibile, e tale da attribuire alla costruzione quel
senso di cosa fatta a mano, ohe tanto bene giova a^li edifici antichi
e li caratterizza. Ma un simile metodo ogg-i, applicato alla nostra
prosa architettonica, sarebbe assurdo.
Le casette di oggi, costante in cemento armato, con le solette
a sbalzo sottilissime, se vorranno apparire razionalmente sincere, e
Tìon mascherate con costuvni d'altri tempi, non potranno nascondere
NUOVI ORIZZONTI NELL'EDILIZIA CITTADINA 63
la rigidità, la squadratura, quel non so che di t€so, di metallico, che
loro viene conferito dalla perfezione meccanica dei mezzi d'opera.
Queste casette, per rientrare nel nostro tema, non possono allinearsi
in una stradetta capricciosa, dal senso e dal ritmo, anzi dal non ritma
medievale. Ecco come il nuovo piano regolatore dovrà assumere lo
stile delle sue case, doATà assumere atteggiamenti squadrati ed esatti.
Prevedo già le obiezioni, i dubbi. Queste case allineate, a ripe-
tizione, quasi standardizzate (non spaventi questa parola in cose
d'arte) riusciranno desolatamente nonotone e uggiose. Ebbene, io
non lo credo. Credo invece che una città-giardino così concepita po-
trebbe riuscire deliziosissima. Io credo ohe, mvece di perdersi nel-
l'adattare le vecchie concezioni e visioni personali alle nuove neces-
sità collettive, non solo si ritarda il perfezionéimento di questi nuovi
indirizzi, ma, cosa ancora peggiore, si creano organismà insani e
orribili. Ve ne convincerete subito ricordando le planimetrie, o me-
glio ancora Le prospettive a volo d'uccello, delle tante cittadine di
cooperative, sorte in questi tre anni. Voi vedete cento \illini, tutti
con la immancabile torretta, sparsi sui vari appezzamenti di terreno,
e disposti verso tutti i venti 'possibili e impossibili, come le tombe
nei campi santi, quasf fossero stati malamente gettati dall'alto da
una mano gigantesca, e rimasti lì nella loro posizione di caduta. Ma
sono, è vero, tutti di stile diverso, ognuno risponde, è vero, al gusto
personale del proprietario o della proprietaria, o ricorda a chi l'ha
commesso un c-astello turrito, anumirato di sfuggita in viaggio di
nozze.
Volete esempi visibili ad occhio nudo? Quartiere Caprera, Mon-
teverde, quartiere Appio, e basta per carità!^
Siamo sinceri : non è preferibile a questo caos ignobile, a questo
avanzo miserabile di ipret^ d'arte, di pretesa personalità, una com-
postezza obbiettiva ma ritmica, un'armonia sobria, sinceramente
modesta, adatta alla vita d'oggi ?
In contrasto con quelle bieche visioni, ora ricordate, vorrei lu-
meggiai-vi, così com'io la vedo, la rmova città-giardino: casette
chiare, linde, nude di ornati, ma ricche di loggette, di terrazze, di
t>ergolati. Ne vedo due, una per parte, perfettamente simmetriche,
allimbocco di una breve e stretta via, costruite sul suo limite stesso :
sono la porta della via. Dopo, poco distanti, da una .parte e dall'altra,
arretrate alquanto dal ciglio, tre o cinque casette attaccate (non
venti o trenta), uguali, ma ^mplicemente individuate tra loro da una
linea, da una doccia, dalla lóro stessa logica figura. In fondo, visuale
della via che si biforca, un palazzetto piìi importante, che sovrasta
su gli altri e che esteticamente domina lil quadro.
Un filo di ferro o una siepe di mortella le separa dal pubblico,
e non quelle orribili, pesanti, altissime, mastodontiche cancellate
dei nostri quartieri di villini (dei Prati di Castello, per esempio), che
sembrano voler difendere i passanti dagli assalti di belve feroci. E
ovunque, fiori, arbusti e fontanelle canore.
G4 NUOVI ORIZZONTI NELL'EDILIZIA CITTADINA
*
* •
Come vedete dunque, su questo nuovo orizzonte edilizio l'archi-
tettura vera e propria cessa di avere un'importanza assoluta, per sé
stessa, mia rientra nella estetica cittadina. In altri termini, Vuìiità
di composiùone non è piìi il villino o la casa, ma la strada, e la casa
e il villino passano alla loro volta al rango di subunità, di .frazione
di unità.
Voi vedete la logica serrata di questo fenomeno. L'uomo d'oggi
non ha ipiù — dentro certi limiti — valore personale. Un uomo oggi,
anche di grande ingegno, è un pezzo di un partito ipolitico, qua-
lunque sia questo partito, un frammento di una associazione: e ciò
è vero anche se questa sua essenza di sottomultiplo rimanga soltanto
platonica e astratta. L'uomo isolato, il libero pensatore è scomparso,
0 per lo meno non interessa pili, perohè, com'è costituita la società,
non può più giovare. É la collettività, è l'organismo che avanza, che
vince, che domina. La grande guerra ha dimostrato la verità di
questa affermazione anche nel campo militare.
L'architettura, che specchia più di ogni altra arte la flsonomia
della società, deve forzatamente adattarsi, ipiaccia o no, a questa
nuova condizione di vita. Ed io penso che noi non dobbiamo ostaco-
larla in questo cammino, che l'uccideremmo per semipre, e di essa
si impadronirebbe l'industria non artistica, l'industria puramente
speculatrice.
Persuasi di questi fatti, cerchiamo di svolgere con buon gusto —
oh, è sufficente il buon gusto! — questi nuovi temi, e sopratutto cer-
chiamo di costruire bene, con proprietà, con esattezza.
•
• •
Questa nuova concezione della via ci porta conseguentemente a
tutta una nuova ricerca di ispirazioni d'arte. Finora il nostro inte-
resse in una Città artistica era completamente assorbito dall'ammi-
razione e dall'esame dei grandi monumenti del passato. A Firenze
l'allievo d'architettura ha studiato e svolto il rilievo del Campanile
di Giotto, del Palazzo Medici o della Loggia dell'Orcagna; a Venezia
la Biblioteca del Sansovino e a Vicenza la Basilica Palladiana. La
grande architettura aulica, dunque, le alte vette dell'arte. Bld è chiaro
che quando questo stesso studente ha dovuto poi risolversi alla com-
iposizione di un suo progetto, non poteva non ricorrere a questi su-
blimi ricordi, abbassandoli e avvilendoli nella meschinità del suo
fproblem uccio borghese. Noi tutti, diciamo la verità, fino ad oggi ab-
biamo tenuto questo metodo di studio, e questo stesso metodo nella
visita delle nostre belle cento città.
Mi accuso per primo. Quando, giovanissimo, iniziai la serie dei
concorsa, nell'inseguire l'ispirazione e nel cercare il carattere di una
città, mi attardavo unicamente sui monumenti riconosciuti; ed è con
questo intendimento che asserivo non essere Napoli, per esempio,
una città architettonicamente interessante, perchè povera di monu-
menti insigni.
NUOVI ORIZZONTI NELL'EDILIZIA CITTADINA 65
Più che in questi invece, più che nelle grandi e solenni mani-
festazioni d'arte (che hanno anzi alle volte un minore contenuto
etnico, perchè rispondenti a concezioni di grandezza astratta e più
universali o a voli personali dei grandi geni), io penso dobbiamo
oggi cercare la fonte di studio nella totalità fisionomica della città,
nelle innumeri costruzioni allineate nelle vie ohe fino ad oggi ci sono
sembrate grigie, in una parola neWArcfyitettura minore. Questa, che
poco innanzi ho chiamato la prosa architettonica, deve costituire
il vero quotidiano nostro mteressamento. Così e solo così noi dal
passato potremmo imparare non soltanto le forme già perfette, non
soltanto i |)articolari decorativi già maturi e indissolubili, ma il senso
delle città e degli ambienti, vorrei dire il loro temperamento, la loro
atmosfera estetica. E non altro.
Percorrendo, per esempio, le vie di Firenze, quelle meravigliose
vie strette, via de' Servi, via Ricasoli, via San Gallo, ci sorprende
in quelle fughe di palazzetti, il succedersi a grandi salti di tutti quei
lettoni sporgenti, a proteggere le belle facciate austere e sobrie.
Quando un signore fiorentino commetteva a un maestro-muratore
(così erano chiamati allora, gli architetti) un palazzo modesto, non
gli suggeriva fasti e ricchezze, ma gli ordinava di costruirgli cinque
belle e grandi camere, larghe tanto e alte tanto. E il maestro-mura-
tore costruiva cinque belle camere larghe tanto e alte tanto. Solo
attorno alle finestre, per renderne forti gli spigoli, adattava con
molta semplicità uno stipite di vera pietra, o a fascia o a bugna. E
null'altro. Così nasceva e cresceva la più bella architettura del mondo.
Ed a Firenze è sempre stato talmente insito nell'anima estetica
del popolo questo concetto di impersonalità, che anche nelle vicende
dei vari stili, attraverso i secoli gloriosi dell'arte italiana, cinche
nelle epoche di maggiore audacia e fantasia, anche nel 600, permane
quel senso sobrio e austero della pura necessità oggettiva.
E da Firenze tornando a Napoli (vedete la mia espiazione per
l'antica indifferenza!) voi troverete come tutto il sapore di quella
architettura sia non negli ornati e negli scomparti, ma in quel senso
vago di grandezza e di trascuratezza, in quei balconi sporgenti, spec-
chio chiaro della vita partenopea, tutta estema; in quei cornicioni
bassissimi, schiacciati, di nessuna importanza, per non ombrare il
colorito vario e vivace delle facciate, rosse e asizurre, che cantano
sotto il bacio del sole, riflessi spontanei dell'altera anima popolare.
Queste strade di Firenze e di Napoli, che vi ho citato, come avete
veduto, sono, nella loro completa modestia, di carattere collettivo:
le costruzioni sono di carattere assolutamente impersonale, anonimo.
All'infuori dei grandi monumenti, le costruzioni rispondevano a un
metodo costruttivo, non a un sogno astratto di un artista.
L'esempio delle città pagane è sotto questo punto dà vista an-
cora più significativo. Nell'antica Roma imperiale, la separazione
tra la zona pubblica, stipata di templi e di basiliche, e la zona delle
abitazioni è netta, assoluta, determinata addirittura, sotto Augusto,
da una grande muraglia. In quella, lo sfarzo dei monoliti più son-
tuosi e rari, la ricerca più raffinata d'arte, l'apoteosi della universa-
lità cesarea, in espressioni architettoniche rimaste ancora le più
grandiose e solenni. Nell'altra — per quel poco che si sa — la mera
necessità, l'appagamento puro e semplice delle esigenze, l'industria
5 Voi. CCXVn. seri* VI — 1* marzo 1922.
66 NUOVI ORIZZONTI NELL'EDILIZIA CITTADINA
architettonica insomma. Le pitture al Palatino riguardanti l'Esquilino
e gli ultimi scavi di Ostia, c^n le case a molti piani e i balconi esterni
ricorrenti intorno ai muri periferici, sfrondati dalle poesie, ci dicono
proprio questo. Se Arte, nel senso decorativo e monumentale, si tro-
vava ancora nelle ville private dei consoli e dei senatori, sparse nei
più incantevoli luoghi di delizia e di riposo, da Tivoli a Baia, dal
Tuscolo ad Anzio, non esisteva nelle abitazioni di Roma, densa di
ben due milioni di abitanti.
Analogamente nel medioevo e nella rinascenza accanto al ca-
stello o al palazzo del principe, infinite casette anonime, costruite
nell'uso e nelle abitudini del tempo, costituivano la grande massa
delle oittà e dei borghi. Questa assenza, di pretesa nell'architettura
corrente di tutte le epoche passate, fa risaltare per contrasto la bel-
lezza dei monumenti, ed è la più grande ragione del loro fascino.
Nel secolo scorso, l'avvento della borghesia, con le facili e sol-
lecite ricchezze, con la conquista immediata di ogni potere da parte
di tutti, ha soppresso tutta questa armonia di rapporti, ha cancel-
lato questa subordinazione logica e sottile della vita quotidiana alle
grandi cose, ed ha creato il regno della volgarità tronfia e vuota dei
grandi quartieri moderni.
Ancora nel settecento l'esterno dei palazzi, anche i più signorili,
era semplicissimo, tale da non fare indovinare il lusso e il buMi
gusto dell'interno. Allora la vita era più ritirata, le signore non usci-
vano quasi mai di casa : il fastosissimo conte Archinti — narra Carlo
Porta — si vantava di non aver mai toccato il suolo della sua Mi-
lano. Nelle nuove città invece l'architettura, così detta, è tutta e uni-
camente per l'esterno. Quei cubi giganteschi, carichi di colonne, di
balaustrate, di timpani e di trofei che fanno pensare chi sa a quali
auree destinazioni, si suddividono internamente in mille scatolette
decorate a stampiglia, 'per accogliere la modestia di cento famigliole
borghesi. Così tutto il rettifilo di Napoli, quasi tutta via Nazionale
e via Cavour a Roma, tutta via Dante a Milano. Culmina lo stridore
in Genova, proprio in quella città dove nelle epoche passate erano
state elevate le facciate più nude e più austere che la storia architet-
tonica ricordi.
Oggi questo stridore va cessando. 11 progressivo miglioramento
dell'uomo — che i periodi di bruschi assestamenti non possono of-
fuscare — e la sua riconosciuta eguaglianza sociale e morale var-
ranno a frenare le vanità individuali che tanto hanno nociuto all'ot-
tocento, e torneranno a separare il semplice decoro privato dalle fan-
tasie alate del monumento pubblico. Tornerà — insieme all'aumen-
tato benessere generale — l'amore alla casa, in quanto ci si vive,
non in quanto si vuol mostrarla agli altri, l'amore intimo delle
cose che ci circondano quotidianamente, e che si vogliono belle e
rette da un'armonia semplice e calda. Torna infatti a vivere — e ce
ne accorgiamo ogni giorno più — l'arte industriale, assopita da più
di cento anni, ohe sostituisce e risparmia la vuota ricciiezza delle
facciate, a reazione dell'esibizioniamo di quest'ultima età, nella quale
ognuno ha voluto fare secondo il suo capriccio, nella quale ogni ar-
chitetto ha voluto mettersi in vista, ha voluto esser lui, e lui solo,
e non sentirsi un semplice contribuente alla formazione estetica della
strada.
NUOVI ORIZZONTI NELLEDILIZL^ CITTADINA 67
La t€si può sembrare azzardata, ma se riuscirò a farmi com-
prendere, vi accorgerete che non lo è. Occon*e ben precisare la -por-
tata di questa impersonalità. Io nego la personalità nel senso di as-
soluta indipendenza individuale dall'assieme di un ambienta, nel
senso di caccia all'originalità. Gli antichi di ogni tempo — Dio buono,
occorre pur sempre citarli! — la pensavano così. Per essi, come ab-
biamo visto, la personaJità consisteva nella ricerca della perfezione,
nel distinguersi dagli altri per il riflesso del loro intimo carattere.
Sfumature di differenziazione, che portavano l'cirte alla più divina
raflBnatezza. Non si preoccupavano di apparire nuovi ad ogni costo.
Nella Rinasc-enza esistevano le scuole pittoriche senese, fioren-
tina, ferrarese, romana, ecc. La differenza tra i vari artisti di una
scuola, era nella potenza, nel carattere, non nella maniera, non nello
stile, nel senso generale.
In architettura tale obiettività, tale senso di scuola, di metodo,
è stato rigoroso in tutte le più belle epoche. I Greci e i Romani co-
struivano i templi tutti egualmente, una volta trovata la forma ideale;
ed eguali tra loro erano le basiliche, le terme, gli anfiteatri. Diversità
di grandezza, di raflBnatezza, di -perfezione; mai di stile. È questa
anzi, io credo, la vera superiorità delle grandi epoche d'arte : questa
compatteziza, questa unità di veduta e di indirizzo, che accomuna
tutte le arti e gli artisti tra loro e consente il raggiungimento della
perfezione. Nel senso come s'intende volgarmente, la personalità
non è libertà, è licenza.
È insomma maturo oramai — contemporaneamente a tante altre
restrizioni individuali per il bene universale — il problema della
subordinazione dei diritti privati alla volontà della collettività nello
svolgimento della edilizia. Mi direte: restrizione dunque di libertà
artistica? Imposizione di una estetica ufficiale? Ebbene, estetica uf-
ficiale no, ma restrizione di libertà artistica sì.
Spieghiamoci bene. Per restrizione di libertà artistica io in-
tendo, non già la protezione per una data tendenza d'arte, con con-
seguente disapprovazione iper tutte le altre, e tanto meno quindi la
imiposizione di un dato stile esclusivista; ma intendo il diritto della
popolazione di impedire che la incompetenza o l'eccessivo interesse di
pochi, salvaguardati dai diritti di proprietà, possano conapromettere,
guastare e anche snaturare la bellezza ed il carattere della città. Li-
mitazione della proprietà dunque? Precisamente: e nessuna legge
io credo possa esservi più giusta, più santa di questa. Il senso del-
l'arte che dovrebbe essere posseduto da ogni cittadino, regolatore di
ogni atto della sua vita, di ogni movimento, questo senso, fino ad oggi
trascurato dai più, potrebbe rendere incommensurabili benefici sc-
oiali; solo comprendendo ed amando il bello, si acquista il senso del
rispetto verso sé stesso, verso gli individui e verso. le cose.
Ma come coltivare questa educazione, se non predisponendo
l'ambiente? Come sviluppare questo senso estetico nel cittadino se
non creandogli intomo, nelle strade, nelle piazzse, nei giardini, tutta
68 NUOVI ORIZZONTI NELL'EDILIZIA CITTADINA
un'atmosfera di armonàa e di bellezza? E come ottener© questo ritmo
d'arte, se non si respingono i profanatori, con adeguate leggi?
Vi sono proprietari privati che per dare risalto al proprio com-
mercio, o per ostentare una loro originalità artistica, violano ogni
più elementare rispetto all'ambiente e al decoro e costruiscono, sol
■perchè son proprietari di quelle aree, brutture architettoniche, im-
ponendo perpetuamente alla cittadinanza il disgustoso quadro dovuto
alla loro volgarità.
È questo foi-se usare del diritto di (proprietà? 0 non è piuttosto
un infrangere e calpestare violentemente il diritto pubblico della bel-
lezza della propria città? Il proprietario non può esercitare il « dì-
ritto » di ostentare la sua ricchezza ed il suo cattivo gusto, ma ha il
dovere di non turbare la vista ai cittadini, e di contribuire anzi, con
la sua casa, all'armonia generale della città. Risparmio a questo ri-
guardo gli esempi : quanti e quanti erbori si sarebbero evitati, se la
sana legge fosse venuta in tempo!
Il Monneret de Villard nel suo interessantissimo studio su l'arte
di costruire le città, osserva « che occorre lasciare la massima libertà
al progettista di studiare liberamente il suo disegno, esaminando però
caso per caso, se il progetto sia consono all'insieme architettonico
in cui deve sorgere. Bisogna ben convincersi, egli soggiunge, che
la bellezza di una città non dipende dai (pochi palazzi che in essa
sono sparsi, ma forse ipiù dall'assieme, a cui concorre anche la più
piccola fra le costruzioni ».
Infatti perchè si deve considerare la bellezza di un edifìcio so-
lamente presa per sé stessa? Il valore intrinseco di un'opera archi-
tettonica è puramente accademico: potrà interessare il competente,
ma non il pubblico ignaro. Perchè mai deve il passeggero, soffer-
matosi a riguardare un particolare architettonico, limitare il proprio
quadro di osservazione ad un solo ed unico edifìcio, giudicandone
le virtù senza affatto preoccuparsi degli edifìci vicini? Non è questa
una pura astrazione scolastica? Se in una stessa facciata trovaste ac-
canto due finestre affatto dissimili, una tutta a bugne rustiche e po-
tenti, l'altra quattrocentescamente gentile e delicata, gridereste su-
bito all'orrore, allo sconcio! Perchè non dite lo stesso di due case
vicine che tra loro orribilmente si contraddicono? Come due finestre
concorrono all'armonia di una facciata, due facciate concorrono al-
l'armonia di una strada, e le strade tutte e le piazze all'armonia
unica della cittìi.
Dovremo dunque, mi si dirà, disegnare tutte le case ug\mli e
dello stesso stile? Uguali no, ma la varietà non dovrebbe <
nella arlecohinesca varietà degli stili storici, in questo ineffa
cedersi di enfasi borrominesohe e di parodie medievali! La varietà
dovrebbe consistere nelle movenze delle masse, nel vivace disegnarsi
delle linee terminali, nell'alternarsi di portici, di loggie, di balconi,
di giardini, nel mettere in vista o monumenti antichi o edifìci
blici e con essi accordarsi. E sieno pure questi edifìci dello ^'
stile! Dello stile d'oggi e nostro, sano e poderoso, che non sarà mo-
notono, se ad applicarlo saran sempre chiamati artisti che sappiano
irmprimere le loro proprie peculiarità.
E le nostre piazze? .Mtro non sono, con quei grandi edifici che
fanno a gara per apparire niù ricchi e più carichi di decorazioni, che
NUOVI ORIZZONTI NELLEDILIZU CITTADINA 69
appezzamenti di terreno su cui si è rinunciato a costruire, anziché
essere uno spazio raccolto e adatto alla sosta ed al riposo. Osservate
un umile esempio: Piazza Farnese. Vedete come le case tutte in-
tomo e le decorazioni delle fontane sono subordinate al gran palazzo,
per accrescerne l'imponenza e il prestigio! Guardate invece piazza
Cavour... e poi ditemi se ho ragione!
Eicco come, senza volerlo, siamo entrati nell'argomento principe
della Edilizia Cittadina: neìVambientisnìo. Eicco come, per concate-
namento e deduzione di idee, dalla concezione nuova della via intesa
come unità e non come somma di unità, siamo arrivati logicamente
alla visione chiara e alla determinazione dell'ambientismo.
Per ambientismo oggi dunque dobbiamo intendere non la ripro-
duzione o la continuazione delle forme e dei motivi architettonici,
ma quel senso generale di armonizzare le masse, gli aggetti, i colori,
che vediamo riflessi nella totalità fisionomica della città.
L'ambientismo concepito diversamente da così, concepito cioè
come adattamento nelle piccole nuove costruzioni dei grandi motivi
dei monumenti più noti, porta alla parodia degli stili passati, lo af-
fermo che chi disegna una modesta casa di oggi in stile, dimostra
di non comprendere, di non sentire la grandezza di questo stile. Chi
ha profondamente studiato Fantico, e lo ammira, se ne tiene lontano,
in devota venerazione; e solo ci si avvicina, con religiosa cautela,
quando la grandezza dell'argomento l'esige e lo vuole. Così, e così
soltanto, potremo fare arte sana, e legata non vanamente alla tradi-
zione.
• *
Ma non soltanto a questa teoria di subordinazione estetica della
casa alla via, e conseguentemente all'ambientismo, dobbiamo oggi li-
mitare i nuovi studi della Edilizia generale. V'è ancora tutta una tra-
sformazione radicale — vorrei dire una rivoluzione — da compiere
nel campo vero e proprio del piano regolatore, inteso come divisione
generale e come retificazione di vie.
Ancora gli ultimissimi piani regolatori sono informati sul cri-
terio della separazione completa dei quartieri. E questo rimane ragio-
nevole, quando si pensi alla localizzazione del quartiere degli studi,
del quartiere industriale, del quartiere dello sport; in una parola
di tutti quei quartieri che debbono avere una configurazione intema
affatto singolare, e che hanno anche una destinazione e un uflBcio
del tutto speciale ed autonomo. Ma dove occorre fare diversamente
è nelle zone destinate all'abitazione; che costituiscono poi, specie
nelle città di non grande importanza industriale, la quasi totalità
della superfìcie.
Per questi quartieri di abitazione si è ultimamente adottato il
metodo di dividere le zone destinate a fabbricazione intensiva, cioè
alle case, da quelle destinate ai villini e finalmente da quelle desti-
nate alle grandi ville. Questo è stato fatto per avere una maggiore
uniformità nelle costruzioni di un dato raggruppamento e per im-
pedire lo sconcio estetico di un grandioso villino collocato vicino ad
un grande casone a sette piani, tronco magari alla estremità con un
muro cieco di confine : abbiamo vari casi (a Villa Ludovisi, per esem-
pio) di questa promiscuità di case e di villini, e l'effetto ne è vera-
70 NUOVI ORIZZONTI NELL'EDILIZIA CITTADINA
mente così stridente, di un disordine che sembra attendere eterna-
mente assetto, da giustificare in fondo l'adozione della divisione dei
quartieri. Ma anche volendo ac-cettare questo principio, vediamo che
non lo si è mai bene applicato. Le strade sono state sempre tracciate
dello stesso carattere e della stessa larghezza, indipendentemente
dalla destinazione : mentre che, se per le zone a case sono ammissi-
bili le strade rette perchè più popolate, e larg^he perchè le costruzioni
si elevano a forti altezze sul confine stesso; per le zone a villini in-
vece, poco popolose e con costruzioni basse e distanti dal confine, le
strade possono essere strette, e con andamento curvo o spezzato. Nei
sempre citati Prati di Castello invece e nella contigua (prima parte
di Piazza d'Armi, le vie destinate a villini hanno una superficie glo-
bale eguale alla superficie privata, e quando si rifletta che la super-
ficie copribile è il quarto della privata, ne risulta che la superfìcie
utile è solamente la ottava parte dell'intera zona. E si pensi che trac-
ciare strade inutilmente larghe significa sperpero di area non ven-
duta, sperpero di denaro nella costruzione della strada, nella manu-
tenzione, nella illuminazione, nella sorveglianza; significa estetica-
mente e praticamente creare zone infinite, assolate e deserte, noiose
e incomode quanto brutte.
Ma anche se ben tracciati, questi quartieri staccati e isolati tra
di loro, presentano seri e gravi inconvenienti. Primo di tutti è l'as-
soluto isolamjsnto dei quartieri a villini da ogni comodità e necessità
della vita. Dal quartiere di villini di Villa Patrizi, per esempio, o
dal citeto di Piazza d'Armi, occorre fare non meno di un chiolometro
per raggiungere il mercato, per trovare una farmacia o per poter
spedire un telegramma; chi abita colà conosce il peso di certe ser-
vitù. Tralascio di citare altri inconvenienti di sicurezza e di decenza,
dovuti all'assoluto isolamento notturno.
Dal lato igienico l'agglomeramento di abitanti da una parte e
la rarità dall'altra non è logica né giusta. Finalmente sotto l'aspetto
estetico, queste unitormità di zone o tutte a case (tutte ugualmente
alte perchè tutti oggi sfruttano il massimo delle concessioni regola-
mentari) o tutte a villini, riescono oltremodo uggiose e insignificanti.
Miglior metodo sarebbe, a parer mio, fondere razionalmente le due
zone e formare un'unica zona miste.
Mi spiego subito con un esempio. Attualmente il gran viale No-
menteno è fiancheggiato a sinistra da un vasto e denso quartiere di
case, il Salario; a destra dal nobile quartiere dei villini, detto di Villa
Patrizi. Qui, oltre agli inconvenienti già accennati, si aggiunge la
bruttura estetica di una strada cost^giate da una parte da casoni
e dall'altra da villini. Ebbene, io avrei concepàto l'intero quartiere'
Nomenteno e Salario così : il grande viale Nomenteno largo e retti-
lineo per il traffico continuo dei trams e dei veicoli, fiancheggiato
di qua e di là da case, destinate a uflBci, a ritrovi, ai servizi pubblici,
fomite di ampi negozi a provviste di tutto quanto occorre alla vite
cittadina. Da queste grande arteria se ne dovrebbero staccare altre
ortogonali, come il viale della Regina per esempio, ancora a case e
sempre larghe per le medesime ragioni. Tra queste grandi vie .di
comunicazione, e al di là, strade strette, ritorte, silenziose e tran-
quille, alberate, destinate alle abitazioni private, distribuite varia-
mente in palazzine, in casette a schiera, in villini, con armonici f^
organici raggruppamenti.
%
NUOVI oRizzosn nell'edilizu cittadina 71
In tal modo ogni strada sarebbe esteticamente e praticamente
proporzionata al suo ufficio, si allontanerebbero tutti gli inconve-
nienti citati, e l'assieme del quartiere assumerebbe una gradevole
e completa armonia.
*
• •
Né a questi altri problemi soltanto si potrebbero ancora limitare
e studi e ricerche nuove nel vastissimo complesso campo dell'edilizia.
Altro argomento principale è l'isolamento dei vecchi centri nelle
città artistiche e storiche, e il conseguente sviluppo estemo, non solo
della espansione della costruzione, ma sopratutto dello spostamento
del centro di vita. Studiarne le possibilità e i limiti nei vari casi delle
nostre superbe cittadine di provincia, sarebbe opera interessante e
utile.
Ancora si potrebbe azzardare — oggi che cominciamo a veder
chiaro su quanto si è fatto e su ccone si dovrel)be fare — una revi-
sione delle sistemazioni edilizie dei centri delle grandi città, e ri-
parare, se e dove possibile, ai grandi errori del passato.
Quale maggiore volgarità della Piazza del Duomo di Milano? La
mistica e severa Cattedrale è offesa da quel turbinìo incessante,
rosso e rumoroso, dei cento tramwai che rotano innanzi ad essa,
intorno al monumento del gran Re, e dalla bocca spalancata della
galleria, brulicante di mondo affaristico e teatrale, che sembra veglia
inghiottirla, per far scomparire quell'unica pagina grandiosa di alta
e suggestiva poesia. Forse si potrebbe ricostituire intomo e innanzi
alla bella mole un ambiente di solitudine e di umiltà, lieto e adatto
a restaurarne il prestigio e la grandezza. Appoggiando la visione
prospettica verso Sud, alcune nuove, semplici costruzioni potrebbero
isolare il monumento dalla galleria e dal traffico della via e della
piazza, creando in un quadro unico con il largo avanti al Palazzo
Reale un nuovo spazio, irregolare come gli antichi, ma sempre vasto,
più sproporzionato alla visione e alla comprensione della grande
opera d'arte, e più tranquillo e raccolto per poterla sentire e vene-
rare. Tema difl^ile, ne convengo, ma non del tutto insormontabile.
Più facile, più pratica, sarebbe forse la correzione del centro
di Firenze, Intorno alla grande piazza rettangolare Vittorio Ema-
nuele, i nuovi palazzi speculativi sono generalmente, è bene ricono-
scerlo, sobri, corretti, e sufiBcentemente ambientati. Disastroso è l'ar-
cone centrale all'imbocco di via Strozzi, che sovrasta il meraviglioso
palazzo di Benedetto da Maiano e lo costringe volgarissimamente
come in un cortile secondario.
Labbattimento dell'arcone, e il riassetto dei due bracci laterali,
prospicenti sulla piazza sarebbe, io credo, opera sufficiente per ridare
alla via storica il respiro, e al palazzo superbo la offesa dignità.
Si dovrebbe ancora correggere l'affogamento del teatro S. Carlo
a Napoli, e tanti altri attentati alla infinita bellezza d'Italia.
Di Roma abbiamo già parlato. Solo bisogna riconoscere che qui
una piazza almeno, e la più importante, è stata indovinata. Il 4 no-
vembre dello scorso anno, quando tutti i cittadini e tutta l'anima
della nazione era in Piazza Venezia, vedemmo e ci persuademmo
che questa, delimitata da quelle superbe e magnifiche moli e dal
72 NUOVI ORIZZONTI NELL'EDILIZIA CITTADINA
marmoreo anfiteatro di scalee adagiate sul Campidoglio, quando al
rombo dei cannoni invisibili sembrava che pure il cielo partecipasse
alla austera cerimonia, e quando, nel pomeriggio, i canti e l'entu-
siasmo sembravano inneggiare alla resurrezione del Milite Ignoto, in
quell'ora indimenticabile di commozione, ci persuademmo, dico, che
questa piazza è proprio adatta e "proporzionata alle cerimonie solenni
del nostro grande popolo.
Ma tanti e tanti altri argomenti nuovi, e nuòvi svolgimenti e
nuove applicazioni 'potrei ancora enunciare. Ma occorre ormai fer
marsi, nella speranza di essere riusciti a fissare almeno nelle sue linee
generali la concezione sana e lucida di come dobbiamo intendere
lo svolgimento e la trasformazione delle nostre meravigliose città;
consaipevoli che quest'arte dell'Urbanesimo è forse il più difficile e
il più importante ramo dell'architettura, in quanto assomma in sé
tutti i problemi singoli dell'arte del fabbricare, astratti e pratici, e
in quanto sopratutto interessa l'intero sviluppo della nazione, e te-
nendo finalmente ben presenti alla nostra mente queste due verità:
la prima, ohe un edificio brutto in una bella via rappresenta uno
spiacevole episodio, mentre che una via mal tagliata, all'opposto,
pur se fiancheggiata da belle costruzioni, può distruggere irrimedia-
bilmente il carattere e la bellezza di tutta una città; la seconda, ohe
(sono parole di Antonio Fradeletto) « i fantasmi e le carezze della
bellezza sono l'unica cosa che perduri, mentre tutto il resto cade e
si dissolve, perchè la realtà miuore ad ogni ora e ciò che non muore
mai è l'immagine sua riflessa nello sipecchio dell'arte».
Marcello Piacentini.
1 NUOVI ORDINAMENTI TECNICI
DELLE INDUSTRIE IN RELAZIONE ALL'OBBLIGO INTERNAZIONALE
DELLE OnO ORE DI LAVORO
r
Ho ceduto alle violente istanz^e dell'egregio Franchini, insegnante
nell'Istituto Nazionale di Istruzione Professionale, il quale con dolce
imperio ha voluto che inaugurassi questo corso di lezioni dedicate
all'applicazione della scienza, intesa all'aumento della prosperità
economica.
Ma il mio proposito non è di farvi uno di quei consueti discorsi
sonori, che a tante cose accennano con orgogliosa leggerezza e nulla
conchiudono.
In questa odierna conversazione con voi, tutti più competenti
di me, vorrei iniziare un Istituto, collegante Roma con Milano, al
fine chiaro e preciso di studiare e di applicare i nuovi metodi tecnici,
i quali colla minor fatica materiale notevolmente migliorano i risul-
tati dell'umano lavoro e rappresentano una feconda evoluzione dopo
quella, massima, incominciata alla fine del secolo decimottavo col-
le applicazioni delle macchine, da cui piglia qualità e modo la grande
industria; origine di tante altezze e di tante miserie, ma che segna
un passo sicuro nel progresso dell'umanità. I nomi dei sommi inven-
tori di questi nuovi ordinamenti industriali, di carattere scientifico,
sono già universalmente noti. Appartengono agli Stati Uniti d'Ame-
rica: Taylor, Gantt, Samford, Thompson, allievi di Taylor, Har-
rington, Emerson e altrittali. Taylor si è proposto di sostituire nelle
relazioni fra imprenditori e operai la disciplina del fatto preciso e
della legge scientifica alPimipero della forza e delle ondeggianti opi-
nioni, cercando di formare un codice di norme tecniche, che legano
ugualmente, colla persuasione infallibile della scienza, i direttori
del lavoro, gli impiegati e gli operai. Le conseguenze di questo me-
todo tengono del maraviglioso; si tratta di rimunerare ogni colla-
boratore sulla base del rendimento, di promuovere la selezione scien-
tifica dei lavoratori, l'adattamento alla loro opera, analizzando gli
elementi fondamentali dì ogni industria, facendo lo studio della fa-
tica, fissando i compiti ottenuti da uomini di differenti capacità,
giovandosi dei fattori di riduzione o di sicurezza, che tengono conto
dei ritardi inevitabili nello svolgersi dtelle operazioni compiute da
chi anche nel lavoro, poiché è cosa umana, ha la coscienza ondeg-
giante e diversa.
Il lavoro ottiene questo effetto nuovo di essere meno affaticante e
più produttivo; si prescrivono periodi di riposo, persino modi di ri-
'Creazioni nelle ore di frequenteizione dell'officina: protezione infal-
74 GLI ORDINAMENTI TECNia DELLE INDUSTRIE
libile codesta contro resaurimento nervoso e fisico. Alle <lecisioni ar-
bitrarie dei direttori, dei capi, dei sindacati operai si sostituisce la
chiara luce della scienza, alla quale devono sottoporsi capitalisti e
lavoranti, non più retti dalle prepotenze di capricciose tirannie egual-
mente funeste; gli utii e gli altri hanno voto ugnale nei conflitti, poi-
ché l'arbitro è un fatto tecnicamente chiarito ed escludente i giudizi
mutevoli quasi sempre, quasi sempre violenti, dell'una o dell'altra
parte. Ne esce una produzione più abbondante, più eletta, ottenuta
con minore spesa e che consente di diminuire le ore di lavoro. Que-
sto è l'ideale tayloriano, combattuto, rettificato, discusso, ma nella
sua sostanza resistente a tutte le critiche, parecchie delle quali con-
tribuiscono a migliorare, a far progredire i nuovi metodi.
Voi, egregi colleghi, tutto questo conoscete e sapete insegnare
meglio di me. Ma vi addito un'opera che tengo a vostra disposizione,
in due grossi volumi condensante i rapporti di una Missione d'in-
chiesta deliberata dal Belgio; s'intitola: Le Travati industriel aux
Etats-Unis.
Signori, vi sono dei popoli che occupano un piccolo spazio nella
geografia fisica, ma ne tengono uno grandissimo nella geografia
morale delle Nazioni. Il Belgio, tutto invaso, viveva col suo Re,
col suo piccolo esercito, col suo Governo, in Francia, a Le Havre, e
il 6 aprile 1918, quando i tedeschi ottenevano le loro ultime vittorie
e il Belgio giaceva più che mai oppresso sotto il loro ferreo tallone,
il Ministro degli .affari Economici, che a cagion di onore nomino,
il Barone di Broqueville, inviava una eletta schiera di uomini com-
petentissimi, presieduta dallo Steels, professore all'Università di
Gand, coll'incarico di studiare agli Stati Uniti il movimento cono-
sciuto in Europa col nome di « Taylorismo » e in America con quello
di » Scienti ftc Management ». La Missione belga cominciò le sue ri-
cerche alla fine di aprile del 1918 e presentò il rapporto a Bruxel-
les, nel Belgrio liberato e trionfante, il marzo del 1919. Re, Governo,
Popolo, tutti erano dunque sicuri della imminente redenzione e pre-
paravano al loro paese, uno dei più industriali del mondo, nuovi
elementi di grandezza e di prosperità. Strano riscontro con certe Na-
zioni preminenti che, dopo le mirabili vittorie, sperperano il loro
temjx), le forze morali e materiali in vanissime dispute politiche,
ricordanti quelle dei Bizantini, i quali, mentre i Maomettani da-
vano la scalata alle mura di Costantinopoli, discutevano appassio-
natamente suWomioussius e suWomousius, cioè se la natura divina
era con o senza un «« i ».
In questi volumi, che vi torno a raccomandare, la ricostruzione
si collega con queste più recenti, poderose, continue applicazioni
della scienza ai progressi industriali, con l'elevazione psicologica,
tecnica, economica del lavoro,
L'Uflftcio d'Igiene della citt^ di New York ha questa divisa:
Ogni Nazione determina da sé la misura della sua mortalità.
Si può soggiungere, dice la relazione belga, che secondo il suo
valore operoso o la sua inerzia incompetente, ogni Nazione deter-
mina da sé la misura della floridezza, della moralità, della ci\iltà.
Come noi dominiamo oggi le forze fisiche, bisogna colla scienza do-
minare anche le forze m<orali, e col suo aiuto iniziare una nuova èra
IN RELAZ. ALL OBBLIGO INTERNAZ. DELLE OTTO ORE DI LAVORO iO
di progressi economici, che risolva le terribili questioni sociali, non a
colpi di reazione e di rivoluzione, ma di applicazioni rette, sicure,
pacificatrici del lavoro col capitale, perchè riescono a innalzare con
pari grado la fortuna dell'uno e dell'altro.
Questo hanno compreso, senza aiuti del Governo, alcuni spiriti
eletti di Lombardia, di Piemonte, di Roma. Ne nomino uno a ca-
gion d'onore, per le opere notevoli già compiute, l'ingegnere Fran-
cesco Tessari, che insieme a Mario Signori e ad altri egregi tecnici
si adunano alla Camera di Commercio di Milano, qui rappresentata.
Essi già ottennero notevoli risultati, applicando i nuovi metodi con
studi pazienti e fortunati.
Il mio sogno è di unire gli uomini più competenti in queste ri-
cerche e in queste applicazioni, Roma con Milano; e poiché assistono
a questa adunanza, e noi viviamo in tempi di Decreti-Legge e di corso
forzoso, li obbligherò a parlare, questa volta almeno adoperando la
forza per fare il pubblico bene.
Egregi Colleghi, mi avvìo alla seconda parte della mia conver-
sazione colla promessa di maggior brevità; il Trattato di Versailles, le
Conferenze di Washington e di Ginevra per la legislazione intema-
zionale del lavoro, hanno imposto la giornata di otto ore nelle in-
dustrie di terra e di mare, e si sta discutendo di imporla anche per
i lavori campestri. Come se un contadino che sente il rombo del
nembo lontano quando spirano le otto ore del suo lavoro, dovesse
incrociare le braccia col pericolo imminente di perdere gli attesi
raccolti! Ma lasciando da parte questi punti gravissimi della contro-
versia, è fuor di dubbio che la giornata di otto ore, se non si coordina
coi nuovi metodi scientifici della produzione, contiene il pericolo di
immiserire capitale e lavoro, di nuocere alla prosperità pubblica e
privata. Un illustre economista francese, Raphael Georges Lév\*, ha
affermato che la legge del 23 aprile 1919 sulla giornata di otto ore
ha inflitto alla Francia perdite già calcolate a miliardi (quindici mi-
liardi almeno per anno), con tale aggravio dei prezzi di costo dei
prodotti da minacciare la vita di alcune floride esportazioni. Secondo
lui, la Francia corre alla sua rovina perchè non può lavorare libe-
ramente. Assisteremo fra breve a una grande discussione nella Ca-
mera francese dinanzi alla quale già stanno proposte per modificare,
sospendere o abolire la legge della giornata a otto ore di lavóro;
tanto più che essa si viola già apertamente in Germania con deroghe
concordate fra i capi delle industrie e gli operai. Nelle oflBcine di
Stinnes, Thyssen e dei Fratelli Mannesmann, si è rinunziato alla
settimana legale di 48 ore, si è ristabilito il lavoro parziale e alter-,
nativo della domenica per accordi fra i due fattori della produzione.
Nell'industria tessile si lavora 10 ore al giorno, e mezze giornate di
lavoro si fanno nella domenica e nelle altre feste. Persino nella Ba-
viera cattolicissima, le autorità concedono le deroghe al riposo do-
menicale.
Non voglio, non posso qui discutere, perchè il tempo mi man-
cherebbe, e voi siete stanchi (anche più di me), se sia possibile far
rispettare da tutti gli Stati la legge della giornata di otto ore, se siano
lecite le deroghe generali e parziali di questo o di quel popolo, se
non si intraveda già la egemonia economica dei tedeschi, i primi e
i più sapienti nell'applicare l'ordinamento scientifico del lavoro, a
76 LiLi UKUi.NAAltiMl TECNiU L>tLLt ISui MiUt
questo primato sicuro agigiungendo la violazione del rispetto delle
otto ore, con germanica disinvoltura continuatori nella pace delle
prepotenze adoperate nella guerra. Ma io pongo dinanzi a voi, egregi
colleghi, dinanzi ai socialisti italiani, che come il Colombini, uomo
competente, esitano ad accogliere l'ordinamento scientifico del la-
voro, questo dilemma formidabile : violare la legge delle otto ore o,
per rispettarla, come io desidero, introdurre con sollecitudine i me-
todi scientifici che moltiplicano il prodotto, lo perfezionano, miglio-
rano la salute e innalzano la dignità dogli operai, diminuiscono i
costi, accrescono) i salari e per tal gmsa traggono dallo stesso ferreo
provvedìimento restringente la giornata del lavoro, la necessità di
riforme redentrici.
Noi siamo alla vigilia di nuove aurore economiche; l'èra delle
macchine richiese una legislazione sociale idonea a impedire la de-
cadenza del popolo e si ottenne il gran fine di moltiplicare la ric-
chezza, di rial2iare la salute, la dignità e le retribuzioni del lavoro. Di
fronte alle nuove limitazioni della giornata di otto ore, auguriamo il
trionfo dei nuovi metodi scientifici, che lascino intravedere un'era più
felice per l'umanità, con popoli di lavoratori intesi ad alternare la loro
giornata fra le misurate Fatiche, gli studi, gli onesti passatempi divisi
colle famiglie, ospitate nelle case sane e ridenti, dispensatrici di sa-
lute igienica e morale.
A Voi, professori di scienze fìsiche, esploranti per dominarle,
le forze della natura, a Voi, capitani intrepidi delle nostre industrie,
e vi sono dei capitani anche fra i duci dei lavoratori, spetta l'insigne
onore e il grave onere di propagare col senno, che governa la mano,
la nuova Italia economica e sociale.
Luigi LuzzAirr.
Discorso inaugurale del corso di conferenze su i u Problemi econoiitn i in-
dustriali» tenuto il 26 febbraio nella sede^dcJla R. Scuola di Magiistero in
Roma, coordinata al R. Istituto Nazionale di Istruzione Professionale.
Assistevano S. E. il senatore Corbino, S. E. l'on. Raineri, l'on. Turati,
l'on. prof. U. Ancona, l'on. Luigi Luiggi, numerosi professori e tecnici e i
rappresentanti della Camera di Commercio di Milano. L'ing. Francesco Tefr-
sani, un industriale milanese, e l'on. Luiggi presero parte all'importante di-
. scussione.
NOTE E COMMENTI
Il nuovo Ministero - La Banca di Sconto.
// nuovo Mio/stero.
La formazione del Ministero Facta ha prodotto un senso di sol-
lievo e di soddisf suzione in tutto il paese. L'illustre parlamentare ha
reso un vero servig"io alla vita politica della Nazione, accettando il
grave incarico, ed assolvendolo con rapidità e fermezza. L'on. Facta
gode in Parlamento di una stima e di una simpatia universale, ed
è a ritenere ch'egli saprà valersi di questa sua posizione personale
per dare all'Italia quel governo stabile, forte e fattivo, di cui essa
sente tanto il bisogno in questi momenti.
Senza abbandonarci ad esagerazioni ed a pessimismi di nessuna
specie, tutti dobbiamo riconoscere che l'ora attuale non è delle più
facili, e che la lunga crisi politica che abbiamo attraversata nel mese
di febbraio, non deve restare senza insegnamenti. Essa dimostra anzi
tutto come fosse immatura e precipitata la caduta del gabinetto Bo-
nomi, verso il quale ora si rivolge più sereno il giudizio degli am-
bienti parlamentari. L'on. Bonomi è uscito assai bene da questo suo
primo esperimento di governo, come lo dimostrano le attestazioni
stesse della Camera nel giorno del voto contrario. Né v'ha dubbio
che il suo Ministero avrebbe potuto fare più e meglio, senza le agita-
zioni e gli assalti continui della Camera stessa, che oramai erano tali
da rendere impossibile quasiasi opera di Governo.
Ciò che ora si aspetta dal Ministero Facta è che esso intensifichi
in tutti i rami quell'azione di Stato che è indispensabile ad assicu-
rare e cid affrettare l'opera della ricostruzione nazionale. Perchè que-
sta è la funzione precipua dello Stato italiano dall'armistizio in poi.
Tutti i Ministeri vi attesero, ed è giusto constatare che ciascuno di
essi ha fatto compiere allo Stato un passo in avanti. Ma la strada da
percorrere è ancora lunga, e diventerà più aspra a misura che ci av-
viciniamo alla mèta. Da ciò la necessiià di sforzi sempre più intensi
e più coordinati, perchè sarebbe impossibile rimanere immobili nella
situazione presente.
I problemi principali d'ordine intemo che la vita italiana deve
t>ra affrontare sono:
mantenimento imparziale, ma inflessibile, dell'ordine pub-
blico di fronte a tutti i partiti, con garanzia assoluta della libertà e
della proprietà dei cittadini tutti;
78 NOTE E COMMENTI
rafforzamento dell'autorità e del prestigio dello Stato sia nei
servizi pubblici e nelle amministrazioni governative, come pure nel-
l'andamento delle Provincie e dei Comuni;
restaurazione djella giustizia nelle amiministrazioni e sopra
tutto nei rapporti fra esse e i singoli cittadini;
ravvicinamento del bilancio dello Stato al pareggio nel modo
più largo e più sollecito possibile, sopra tutto mediante economie
e riduzione di spese. A tale scopo giova procedere al più presto a
quella revisione del sistema fiscale di guerra che l'on. Facta pro-
mise nel periodo della campagna elettorale, e che egli potrà attuare
con la competenza tecnic<i e con l'equità che lo distingue. V'ha chi
afferma che, pur mantenendo il principio della nominatività dei ti-
toli, essa sarebbe resa facoltativa sotto pagamento di una deduzione
sui cuponi. Una soluzione siffatta ci parrebbe accettabile. Ciò che
importa è di uscire assolutamente ed in modo organico dallo stato
attuale;
assetto della finanza delle Provincie e dei Comuni. È questo
uno dei maggiori problemi che esige provvedimenti concreti ed im-
mediati. Se di fronte all'azione nulla dello Stato e dei Prefetti —
tranne poche eccezioni — Provincie e Comuni continuano a spen-
dere e spandere nella misura attuale, prepareremo giorni ben diflB-
cili non solo all'economia nazionale, ma persino all'ordine pub-
blico. I contribuenti non ne possono più; allorché il fuoco avvamperà
se ne avranno conseguenze molto dolorose.
V'ha poscia tutto un complesso di provvedimenti economici, in-
dispensabili a ravvivare la produttività del paese; ad attenuare la di-
soccupazione; a ristabilire una più esatta correlazione tra le neces-
sità della produzione e la misura dei profitti e dei salari; a risanare
le Società anonime, alcune delle quali furono un vero flagello per la
nazione; a promuovere l'agricoltura e l'organizzazione della piccola
proprietà, ecc. Ma jyer ora il discorso sarebbe troppo lungo. Molto a
ragione venne asserito che le due necessità urgenti dell'ora presente
sono : ordine e 'pareggio^ essendo questi i primi fattori essenziali del
miglioramento dell'economia nazionale e dei cambi con l'estero.
•
• •
È evidente che la soluzione di questi problemi diventa impossi-
bile senza una maggioranza larga e costante; e che dipende sopra
tutto dalla situazione parlamentare, che oggidì è oggetto di vive di-
scussioni.
V'ha chi crede che la rappresentanza proporzionale e i gruppi
abbiano reso impossibile l'esistenza di un Governo in Italia. Noi »jte-
niamo fuori d'opera discutere su questi punti, perchè il ritorno al
passato non è prevedibile: crediamo invece che i v^xi termini su cui
impostare la questione siano diversi. L'allargamento del suffragio,
la formazione dei partiti, la rappresentanza proporzionale, la costi-
tuzione dei gruppi hanno completamente cambiata la struttura della
vita parlamentare italiana. È su queste nuove basi che bisogna co-
struire i Governi dell'avvenire, i quali saranno tanto più solidi e fat-
tivi, quanto più si accosteranno alle mutate condizioni di fatto del-
l'organismo politico italiano. Giova portare la rappresentanza prò-
NOTE E COMMENTI 79
porzionale dalla Camera al Governo, e dare ad ogni gruppo la de-
signazione dei ministri che debbono rappresentarlo, con forme or-
ganiche, e che offrano sicura garanzia. È questione che abbiamo agi-
tata più volte (1), e che sarà argomento precipuo delle contestazioni
politiche nel prossimo avvenire. Ad ogni modo il semplice fatto che
uomini eminenti come gli on. Giolitti, De Nicola ed Orlando non
hanno creduto nelle presenti condizioni parlamentari di poter co-
stituire un gabinetto forte e vitale, è cosa di tale gravità che deve se-
riamiente impensierire.
Oggidì il dovere di tutti è di cooperare col nuovo Governo per
il bene della Nazione. Speriamo a tale uopo che i singoli deputati ed
i gruppi sentano altamente le responsabilità loro di fronte al Paese.
Due questioni il nuovo Ministero deve subito affrontare:
la sistemazione della Banca di Sconto, che speriamo avvenga
secondo i concetti da noi più volte manifestati;
la Conferenza Internazionale di Genova, di cui tutti augu-
riamo il successo.
Le discussioni e le incertezze che si ebbero finora circa la convo-
cazione di questa Conferenza devono ormai cessare, e dobbiamo au-
gurare il migliore esito. La maggiore garanzia di questo successo sa-
rebbe da tutti ravvisata nella nomina delFon. Tittoni a Presidente
della Conferenza stessa, come ne corse voce in questi giorni. Se l'emi-
nente Statista potrà assumere siffatto incarico, la sua autorità mon-
diale e la sua alta competenza diplomatica costituiranno per il Paese
il più sicuro aflBdamento. Chi ha visto la p)osizione eminente che
l'on. Tittoni seppe ad un tratto acquistare cilla prima assemblea della
Società delle Nazioni a Ginevra, non può dubitare di quanto possano
in lui il valore ed il patriottismo insieme congiunti.
Ci sia per ultimo lecito di constatare con legittima soddisfazione
come la lista dei nuovi ministri contenga in buon numero antichi ed
autorevoli collaboratori della nostra Rivista, e ad essi mandiamo sa-
luti ed auguri cordiali. Dell'on. Schanzer si potrebbe quasi dire che
ha cominciato la sua brillante carriera con i dotti studi pubblicati
in queste pagine, che in tempi diversi accolsero pregevoli scritti de-
gli on. Riccio, Luigi Rossi, Peano, Teofìlo Rossi e Di Cesarò. E fac-
ciamo pure particolare menzione dell'importante studio sulla riforma
della legge elettorale, pubblicato in questa Rivista dall'on. Casertano,
Sotto- segretario di Stato agli Interni, e di un dotto scritto sopra P.
Villari dell'on. Calò, Sotto-segretario alle Belle Arti.
Il Paese attende il nuovo Ministero all'opera. Esso desidera ar-
dentemente un Governo forte e risoluto, che faccia fermamente ri-
spettare l'ordine e la legge, e che assicuri il buon assetto delle ge-
stioni finanziarie statali e locali. L'on, Facta se, come confidiamo,
saprà dare al Paese un Governo siffatto, avrà acquistato un nuovo
titolo alla riconoscenza nazionale.
(1) Spectator, La crisi e V evoluzione delle istituzioni rappresentative -
Bappresentanza proporzionale e Governo, in Nuova Antologia, 16 higlio 1921.
Id., Il governo dei gruppi e la collaborazione socialista, in Nuova Anto-
ìogia, 16 settembr^e 1921.
Meda, Il Governo di coUaborazione, in Nuova Antologia, 16 ottobre 1921.
80 NOTE E COMMENTI
La Banca di Sconto,
Le vicende politiche hanno certamente contribuito a ritardare
una prima e necessaria sistemazione della Banca di Sconto. Le linee
generali dei primi e più urgenti provvedimenti furono indicate in
questa Rivista (1), e siamo lieti di constatare come esse abbiano in-
contrate numerose e autorevoli adesioni. I punti fondamentali si
possono così riassumere:
costituzione imimediata di una forte e sana Banca Nazionale
di Sconto, con un capitale cospicuo, interamente versato a contanti.
Oramai si considera come tramontata l'idea poco felice di costituire
in parte il capitale della Banca con crediti di dubbia o di diflBcile
esazione; il che sarebbe stato un grave errore nelle presenti condi-
zioni dell'economia monetaria in Italia ed all'estero;
liquidazione della caduta Banca di Sconto col minor danno
dei creditori e, se possibile, degli azionisti;
disponibilità immediata a favore dei creditori attuali di una
parte almeno del loro credito, possibilmente fino al 50 per cento;
nessuna garanzia da parte dello Stato e nessun onere a carico
dei contribuenti;
nessuna responsabilità a carico degli Istituti di emissione e
nessun onere a carico loro;
facilitazioni fiscali ed azione morale da parte dello Stato e
degli Istituti di emissione, per promuovere ed agevolare la necessa-
ria sistemazione :
costituzione di un nuovo organismo di credito, sano e forte,
che colla austerità e bontà della sua gestione realizzi tali profitti da
soddisfare i creditori e possibilmente anche gli azionisti della Banca
di Sconto, come fece la Banca d'Italia verso l'antica Banca Na-
zionale.
Oramai su questi punti si va orientando la pubblica opinione,
ed essi possono formare la base di una prima ed equa soluzione. V'ha
soltanto ancora da chiarire il regime di sistemazione dei creditori.
Tutti gli sforzi di questi giorni sono stati diretti a stabilire a
favore dei creditori un metodo graduale di rimborsi successivi fino
ad un massimo del 60 al 70 per cento dei crediti attuali. Noi ci per-
mettiamo di dissentire recisamente da questo sistema di rimborsi,
che non giova né alla Banca, né ai suoi creditori.
Più la Banca rimborsa e più si esaurisce, con danno suo e dei
correntisti. Non ha più mezzi per fare operazioni e per guadagnare i
profìtti indispensabili alla sua vita e alla sua ricostituzione. È la
Banca che divora Se stessa. Dall'altro lato i creditori che hanno real-
mente bisogno di danaro si trovano rimborsati a gocce, con danno
loro e dell'economia produttiva del paese. E chi garantisce loro que-
sto rimborso, ed in qual tempo?
Si è per ciò che abbiamo proposto e continuiamo a proporre che
per impulso del Governo sia istituito un sistema di anticipazioni ai
creditori fino al 50 per cento dei loro crediti, presso le banche ordi-
(1) Aroentarius, La crisi d^ìla Banca Italiana di Sconto, in Nuova .4nf#-
logia. IC febbraio 1922.
NOTE E COMMENTI 81
narie, le casse di risparmio ed almeno come risconto anche presso
gl'Istituti di emissione. Resterà sempre ferma la responsabilità per-
sonale del creditore che certamente nella generalità dei casi non
potrà a meno di essere solvibile per il distacco improbabile che po-
tesse verificarsi tra il 50 per cento di anticipazione e l'ammontare
delle attività realizzate nella liquidazione. Se una banca anticipa il
50 per cento ad un creditore della Sconto, ritenuto solvibile, e la li-
quidazione realizza solo il 40 per cento, è più che probabile che il
creditore possa facilmente rispondere di questa differenza di 10
punti, cosicché una tale operazione di anticipazione non presenta
alcun rischio per qualsiasi banca.
Notizie attendibili affermano infatti che una forte e sana Banca
Popolare ha, da qualche tempo, adottato il sistema di accordare an-
ticipazioni fino al 50 per cento sui libretti della Banca Sconto, come
se si trattasse di un titolo industriale qualsiasi. In qualche città l'af-
fluenza dei creditori fu piuttosto notevole, ma per piccole somme;
il che ci conferma nell'opinione che, anche se adottato in tutta Italia,
un tale metodo non cagionerebbe alcuna seria perturbazione nel mer-
cato monetario italiano. Siccome l'interesse è del 7 per cento, il de-
naro viene attinto dai soli creditori che ne hanno veramente bisogno.
Questa proposta ha avuto l'adesione di massima di un eminente
economista, il senatore Luigi Einaudi, nel Corriere della Sera del
24 febbraio (N. 47), come pure venne propugnata da altri autorevoli
scrittori e giornali. Ci permettiamo quindi di raccomandarla viva-
mente all'attenzione del nuovo Ministero del Commercio, on. Teo-
filo Rossi, che avendo una così larga, esperienza del movimento eco-
nomico nazionale, comprenderà ad un tratto la necessità di una
prima e provvisoria sistemazione della Banca di Sconto. L'on. Be-
lotti, con alcuni utili provvedimenti, ebbe la saviezza di evitare un
fallimento, che avrebbe arrecati danni ben maggiori alla Banca ed
al Paese. Spetta ora ai nuovi ministri del Tesoro e del Commercio,
gli on. Peano e T. Rossi, di promuovere un'opera solida di risana-
mento e di ricostruzione, quale è assolutamente richiesta dalle con-
dizioni dell'economia nazionale. Se, ad esempio, anche mediante la
costituzione di un Consorzio bancario, promosso dal Governo e dagli
Istituti di emissione, si avesse da un capo all'altro della penisola un
sistema di anticipi fino al 50 per cento, noi crediamo che il Paese ne
proverebbe un giovamento immediato. Soltanto occorre fare subito.
Allo stato attuale delle cose, nessuno sa quale sarà l'entità dei
rimborsi, ed in quale tempo si effettueranno. Né ci sembra accetta-
bile, per non dire di più, una promessa di rimborsi che nessuno ga-
rantisce. Tutto ciò crea incertezze e sfiducia nel Paese. Da questa si-
tucLzione bisogna uscire al più presto. Il favore inconsueto che ac-
colse la nostra proposta di anticipo fino al 50 per cento, dimostra che
essa risponde a necessità urgenti. Essa non preclude la via ad altre
soluzioni organiche e forti.
Tol. CCXVII, eeri© VI — 1' marzo 1922.
NOTIZIA LETTERARIA
Due romanza: Stella mattutina di Ada Nbori e Dio Nero di Claricb Tartuvau.
o Stella mattutina » di Ada Negri.
Sulla coperta del libro il Sacchetti ha disegnato una fìgiiretta di
ragazzina non bella, male in panni ed in carni, che vi guarda attra-
verso le sbarre di un gran cancello di villa patrizia, e può dirsi che
tutto il racconto sia lì, in quel gesto di bambina esile e bruna, dallo
sguardo scrutatore e pensoso.
La figura della « portinaretta », vivente più nel giardino della
padrona che nella guardiola della nonna, scontrosa ed orgogliosa, ta-
citurna ed irrequieta, vi rimane nella memoria sempre più, di mano
in mano che salite su, su con lei, attraverso gli anni e gli stenti e
non vi lascia nemmeno quando, divenuta maestrina, la vedete af-
facciarsi alle soglie del mondo, con il diploma tra le mani e la
mamma vecchia da mantenere.
Sicuro, la maestrina, quella stessa maestrina che, molti anni or
sono, con un libro di versi tirati giù con la febbre di creare nei polsi
e la violenza della passione nel cuore, fece meravigliare i critici
più arcigni e severi e si fece da loro consacrare poeta, ad onta ed a
malgrado delle incertezze e dei difetti di una poesia di vent'anni.
E la vita della bimba « scarna, dritta, agile » è rimeista incasto-
nata, più di quanto ella stessa, forse, non creda, e nella maestrina
irruente di anni fa, e nella donna poeta e celebre di oggi.
Si dice soventi che l'artista sia un eterno fanciullo, ed è vero;
ma io credo che vi siano artisti che sono tali, solo perchè sono stati
fanciulli di particolar vita e fisonomia.
Sono quelli dall'anima più semplice ed elementare, per i quali
gli anni di puerizia e di adolescenza rimangono come la fonte di
tutta la loro sensibilità posteriore e della lor vita interiore. In quegli
anni, l'anima, direi quasi, a fior di pelle, riceve in pieno gli stimoli
dell'ambiente, ne risente le sensazioni a mille doppi; la mente loro
scorre su tutto con velocità più che pazza; tutto li fa vibrare e li ine-
bria della sua bellezza, ed essi vivono la loro arte, come si dice, com-
pletamente ed intensamente, ma in superficie; e più tardi, maturi di
anni e di esperienza, stanchi o no, in buona fede o no, ritornano
sulle sensazioni acquistate inconsciamente da adolescenti, scendendo
in profondità, rendendole smaglianti ed evidenti con la perizia che
loro mancava.
E la Negri è, a parer mio, uno di questi artisti dall'anima eem-
plice ed elementare e profondamente lirica, che ha saputo mutare in
NOTIZIA LETTERARIA 83
sangue ed in caime gli eventi di puerizia. « Stella mattutina », la storia
della rag-azzina orfana di babbo, schiva di carattere ed orgogliosa,
tutta intenta alla vita della sua anima e delle cose che le capitano
innanzi, più che la storia della Negri bambina, ci dà quella della
sensibilità molteplice di lei e del come le si foggiò, prima che le
fiorisse tra le mani l'arie di esprimerla. Ella ci dà signorilmente
oggi la chiave dello scrig^no segreto ove è nata e, anche, s'è chiusa
l'anima dei suoi versi e delle sue prose.
E la chiave apre tesori meravigliosi di personalità nella bimba.
La vediamo, avida di racconti, di letture, di cose belle, rima-
nere estatica a fissare, come in sogno, una siepe di gigli bianchi,
fioriti insieme in una mattinata di sole e stendere le mani come per
pregare, ma la voce della proprietaria la richiama brutalmente alla
realtà, imponendole di non toccare i fiori e minacciandola se ne co-
gliesse uno. « Ma ella non voleva toccare. Stava in adorazione sol-
tanto! ». Quest'episodio, che la Negri commenta, aggiungendo al pen-
siero della bambina, la amara domanda se sempre qualcuno non la
chiamerà ladra, quando tenderà le braccia e l'anima verso la bel-
lez2a, ci mostra appunto tutti gli aspetti del poeta, la meravigliosa
sensibilità, l'atteggiamento dello spirito più contemplativo che at-
tivo, il suo profondo lirismo.
E la sensibilità travolgente metterà dopo, nei suoi versi, imma-
gini incalzanti e pittoriche, poiché tutto la fa vibrare; immagini
di cose e di visi, che faran ressa alla i>enna, rendendole insopporta-
bile il vincolo sintattico, che spezzerà soventi con efificacia ed ardire.
Alla bambina contemplante in solitudine il mondo degli uomini
umili in lavoro, l'atteggiamento contemplativo del suo spirito farà
dire, pur intuendo la infinita dolcezza della fraternità : « Come è
bello! » e non: Come è buono!; e ciò, perchè in fondo Dinin è po-
vera come quegli uornini, è vero, ma non può dimenticare di sen-
tirsi e di essere diversa dagli altri per anima ed intelligenza.
Il lirismo infine che la chiude nel suo mondo completamente,
fanciulla d'anni allora ed eternamente tate dopo, le farà rivestir del
suo io, della sua anima le cose del mondo e cantare ed amare le
storie per le storie, l'amore per l'amore, il dolore per il dolore, più
che non le storie perchè di vita, l'amore perchè d'anime e di carne,
il dolore perchè d'uomini.
E vediamo la giovanetta passare le sue ore migliori ad ascol-
tare avidamente di nascosto, fingendo di e^ere andata a dormire, i
romanzi letti alla sera dalla mamma alla nonna; amare tanto le
tranquillità solenni e deserte dei cimiteri, quanto le strade affollate
con gli organetti di Berberia ed il chiasso del transito, osservatrice
taciturna e vibrante; sfiorata dall'amore e dal dolore di quelli che
le vivono intomo, esseme turbata, scossa, ma non corrosa; quasi che
si trattasse di storie d'altri, lontane da lei, quasi che un secreto
pensiero la rattenesse: quello di non volersi troppo lasciare andare
ad essi per non esseme contaminata, mentre invece non è che il suo
spirito, la sua anima che vibra troppo della bellezza di essi, troppo
intensamente se ne bea, godendone e soffrendone le linee grandiose
ed ineluttabili.
Tutto questo Ella ci dice di allora, come se fosse di altri, di
sogno, poiché gli anni di puerizia e di adolescenza si velan sempre
84 NOTIZIA LETTERARIA
di fantastico nel ricordo; ma tutto questo era anche latente nella sua
opera di poeta da «Fatalità» al «Libro di Mara». Ne apparivano
gli sprazzi qua e là, ma non permettevano riconoscere « in toto » la
sua personalità, né ricercarla.
D'altra parte non sarebbe mai stato possibile farlo, se l'autrice
non ci avesse dato, come ha fatto con quest'ultima opera, la chiave
della sua sensibilità.
Le accuse e le critiche che le sono state mosse per il passato, e
il socialismo troppo sentimentale e troppo poco, gli scatti romantici
un po' freddi e rettorici, l'eccessivo cerebralismo dominante anche
là dove il cuore spezza vincoli e leggi, avranno potuto avere la loro
ragion d'essere e la loro giustezza, secondo il punto di vista ed il
tempo in cui furono fatte, ma oggi esse trovan la loro soluzione ed il
loro annullamento completo in questo libro quasi di memorie.
E la storia della fanciulla esile, dal grande animo d'artista,
buona e semplice, che l'A. racconta con una prosa smagliante di co-
lori, volta a volta, poetica ed incisiva; oltre che a mostrare, come ho
detto, completa la vera sensibilità della scrittrice, dice anche e pro-
mette che Ella saprà darci ancora nuove j>arole di bellezza rifacen-
dosi alle basi del suo meraviglioso « io »> di poeta.
« // Dio nero » di Clarice Tartufari.
Se M il mondo, come dice l'autrice, ruzzolava in maniera assai
curiosa » negli anni di guerra, per quel che avveniva alla sua super-
fìcie, purtuttavia esso non aveva per nulla mutata la cadenza del
passo, né tanto meno la via della sua passeggiata attorno al sole con
la luna a compagna fedele e" gradita.
E mentre agli uomini sembrò che tutto dovesse ritenersi chiuso
nell'ambito della guerra e della morte che sovrastava; la vita, che
in un tratto della crosta terrestre era appunto buttata in un canto,
con sorriso o con rabbia, altrove, a pochi chilometri di distanza, si
prendeva rivincite a iosa su quegli stossi uomini, avvincendoli, at-
tanagliandoli in mille guise, donandosi loro completamente, bella e
fascinatrice, leale e perfida, ribelle e docile.
È terribilmente umano ed ineluttabile che accanto alla bara vi
sia la culla, dietro il funere il festino, come dietro il palcoscenico,
ove l'attore e l'aubore trepidano e vivono con l'animo sospeso ai
gesti della folla, vi sia una infinita congerie di gente che vive del
palcoscenico e per la cfuale l'opera che si recita, bella o brutta che
sia, applaudita o fischiata, non rappresenta altro che una cifra di
pili nella partita incassi del libro mastro.
Son leggi queste che conducono gli uomini e lor cose oltre la
loiro stessa vita, ed il loro stesso affannarsi, sono appunto quelle che
l'Antigone del tempo andato chiamava « non scritte ed infallibili
d^li Dei ».
Il mondo ruzzola come una biglia attraverso lo spazio e nulla
ne cambia il cammino, gli uomini rampano sulla sua superfìcie, si
affannano, si odiano, si uccidono, e la vita li riconduce sempre e
presto su nuovi sentieri, poiché l'amore, il dio luminoso, ricostruisce
senza pK)sa ciò che l'odio distrugge.
NOTIZIA LETTERARIA 86
Questo è in breve il filo conduttore, il «poetico" del romanzo
della Tartufari. Negativo dunque nelle sue premesse ed immediate
conseguenze di scetticismo, diventa altamente positivo nelle conse-
guenze ultime, in quanto, ricostruire con gioia e con amore e sempre
più dolce e più durevol cosa che non abbattere con rabbia. E i per-
sonaggi che giocano attorno a questa nonna, che sfilano sull'esile
trama d'amore di due di essi, son gente che segue questa legge e
non sa, e, mentre crede di volger le cose al proprio vantaggio, non
fa che ubbidirvi.
Il romanzo è un racconto di ambiente ove domina il materia-
lismo più smaccato e quattrinaio del retro-fronte, ambiente di guerra;
ma questa è lontana dai personaggi; è lassù, fatta da quegli uomini
in grigioverde presso i confini, a cui essi non n^ano tutto l'ossequio
di frasi infiocchettate di lodi e di esaltazione, mentre che per sé
tengono altro pensiero ed altro vivere.
E la gente, che, come dicevo, vive del palcoscenico e per il pal-
coscenico, per cui tutto si riduce in una cifra o in gioiello, è gente
che, presa nel turbinìo degli eventi che dicono di vivere in fretta,
non può avere che una vita interiore embrionale, agisce, vive, ma
non pensa; forse perchè lassù al confine si vive troppo interiormente
e si pensa e si muore anche troppo.
Il capostazione di paesello, axì esempio, che pieno di intelligenza
e scarso di scrupoli, giocando sul tempo e sul credito, compra e vende
il vendibile e l'acquistabile, diventando in breve ricco a milioni, non
pensa che al suo denaro, al suo tornaconto, poco si cura della moglie
— diafana e bellissima figura di donna buona, condannata dal male
— pochissimo del figlio, meno aixx)ra del gingillo di lusso borghese
che si è comprato per seconda moglie credendo di esseme innamo-
rato; e come lui le figurette di donnine esilissime con l'anima nella
scollatura del vestito, che gli si agitano intomo, il contadino impe-
scecanito e testardo, il tenentino, figlio di pax», imboscato e stupe-
fatto.
E lassù si muore con f>assione, poiché la vita è tutta passione che
brucia, di odio, di rabbia, di dolore, e qui si gode alla frenesia, al
parossismo per il momento e per l'ora, e quelli che tornano sanno e
vedono e, poiché lassù balla « la signora vestita di nulla » e qui le
signore svestite di tutto; s'imbrancano con esse sorridendo amara-
mente per tornar di nuovo al confine, se non soddisfatti, almeno
ubriachi di un'ora pazza e maliarda.
Ma c'è anche chi pensa, o meglio, sente con maggiore intensità
ed ha una vita interiore, simile a quelli che tornavano e partivano
sconfortati, ed è chi ama oltre il confine. L'italiana che, fidanzata a
un tedesco tien serrato il suo amore per il nemico, operando il bene
tra gli amici, cerca di riprendere, a cose finite, l'ordito incominciato
con gioia anni prima. Ma anche ella è stata immersa nella vita che
le turbinava accanto e, se non contaminata, travolta, ne è stata squas-
sata nelle fibre, nel suo stesso amore che ha cacciato in silenzio giù
in fondo all'animo. E quando si ritrovano daccapo, uno con l'orgoglio
della razza, ammaccato dall'onta, l'altra col ciglio secco per aver
troppo serrate le lacrime, non si ritrovano più e devono riconqui-
starsi.
E ciò mentre l'odio, non più fra le trincee nemiche, ma qui, in
86 NOTIZIA LETTERARIA
casa, acceso tra chi vuol ritenere senza stento e chi vuol prendere
senza fatica, fa crepitare le mitragliatrici sulle piazze.
Queste anime tormentate e forti, quest'ambiente in fondo anti-
patico, ma sovranamente vero, fatto di superficialità e di pretese,
è reso alla perfezione, penetrato intimamente dalla prosa svelta,
agile, nervosa, in cui l'autrice, sgombrato il campo da pesantezze di
particolari descrittivi, ha profuso le sue migliori qualità di osserva-
zione e di gusto. Ella non sii indugia a descrivere, ma racconta, non
si ferma a ragionare o riflettere, ma vive con i suoi personaggi, li
segue da presso, infilando a tratti una gugliata di umorismo fine e
tagliente, certe volte amaro, certe volte bonario, ma sempre pene-
trante ed elevato. La realtà non la preoccupa, la occupa, ed il ro-
manzo perciò, lungi dall'essere verista, riesce vero, poiché l'A., con
quel paJi-icolar senso di equilibrio che la distingue, ha saputo tener
corte le redini sui particolari e sfuggire così a tempo il brutto del-
l'eccessiva verità.
Forse l'aver voluto camimrnar si>edita dietro i suoi personaggi,
presi dalla febbre del vivere, questo curarsi poco della loro vita inte-
riore, ha fatto sì che qualcuno le sia uscito di mano un po' troppo
simile a macchinetta e si teme s'abbia a vederlo fermare in tronco,
col gesto a mezz'aria, se la molla si spezzi di colpo o venga a man-
care per un accidente qualsiasi. E mentre vi sono figure di ombra,
schizzate di passata, con calore e con sentimento tutte piene di poesia
vera e umana, non detta ma lasciata intravedere; altre invece di
primo piano, riescono un po' fredde e di disegno duro. Era neces-
sario del resto che così fosse, poiché queste appartengono più al poe-
tico, che alla poesia dell'opra e della vita.
Tra poesia e sogno poetico, intendo, corre la st^sa relazione che
tra fiamma ed alone — magnifiche cose entrambe e meravigliose, tal-
volta più superbo di colori il secondo che la prima — ma l'essenza,
la vita, è tutta lì, in quel misterioso processo che trasforma la ma-
teria in colore e calore; l'alone è altra cosa, è il riflesso della fiamma,
il pensiero e, come tale, ha leggi cui non si può sfuggire, né si deve.
L'A. ha scelto i più bei colori dell'alone e ne ha accettato e reso
tutti gli splendori superando sé stessa, ma era mestieri che lasciasse
la fiamma in un canto, a mandare i colori che le si consentivano.
È questa una peculiare caratteristica dell' A. doppiamente im-
portante perchè donna e scrittrice.
Ella, autodidatta e coltissima, è condotta più a cercar© il perchè
delle cose e degli uomini che a viverne intensamente la vita. Onde
è, che l'opera ne esce quadrata, solida, tutta improntata di forza di
I)ensiero, quasi maschile nella forma e nel contenuto; e l'architet-
tura del libro, l'alone, il sogno poetico, finisce con l'imporsi per le
sue necessità e gravare sui personag^gi, lasciando loro poco tempo
per sentire il calore della fiamma.
Ma questo non conta e nulla toglie al valore indiscutibile dell'A.
che ha saputo metterci innanzi la vita di ieri ed il suo pulsar turbi-
noso, schiava sempre delle leggi ineluttabili che la governano; con
verità insuperata, ripeto, e non con verismo, mostrando con quale
magistero possegga la sua prosa e quale arte abbia per animarla.
G. E. Calapaj.
TEATRO E MUSICA
GIULIETTA E ROMEO
TRAGEDIA LIRICA DI RICCARDO 2AN DONAI
Non SO bene se l'idea sia stata suggerita da Rioc«Lrdo Zandonai
ad Arturo Rossato, o se vi abbia questi pensato, o altri l'abbia con-
sigliato : ad (^Tii modo, avere attinto gli elementi di un libretto sulla
tragedia d'amore di Giulietta e Romeo direttamente dalla novella di
Luigi da Porto, rielaborata poi dal Randello, facendo astrazione
dalla mirabile opera di Guglielmo Shakespeare, era idea buona: se
non altro, dava modo di evitare i raffronti immediati con i molti
spartiti, inspirati dalla trama scenica shakespeariana; e in questi la
geniale ricchezza dell'originale è fatalmente alterata e distrutta nel
necessario schematismo del melodramma, per cui devesi rinunziare
a molti personaggi ed episodi caratteristici, cosicché appare monco
e insufficiente il disino drammatico e lo svolgimento scenico del
libretto per chiunc[ue abbia presente il testo dello Shakespeare. Ma
se il libretto del Rossato merita questa lode, ciò non significa che
possa dirsi un buon lavoro: tutt'altro; e questo non soltanto perchè
la stupenda creazione del grande poeta inglese ha valore definitivo
e non possiamo quindi facilmente sentirci soddisfatti da una diffe-
rente stesura : ma anche perchè manca di intima efl5cacia e non pre-
senta organismo saldo e sano. Scomparsi i personaggi principali e
secondari della tragedia, essendo assommati nel solo Tebaldo tutti
i Capuleti (sono restati i nomi, non le vive persone di Gregorio e
di Sansone), e in un solo Montecchio l'intero parentado di Romeo;
eliminate figure notevoli come frate Lorenzo, la ineffabile nutrice,
Renvolio, il vivace Mercutio, i genitori di Giulietta, il padre di
Romeo; troviamo invece nuovi personaggi, come Isabella, fante di
Giulietta, un Cantatore, un banditore, un Remabò i>adrone di scu-
deria; tipi incolori, che male sosiituiscono gli scomparsi, animati
dal genio possente dello Sheikespeare.
Anche l'amorosa passione dei due giovani, così ricca di ardente
e sana sensualità, assume un carattere ibrido, tra inamidato e con-
venzionale, di un sentimentalismo borghese, quasi da olec^rafia.
Pare che il librettista abbia ceduto a quel superficiale simbolismo
di maniera, che considera emblema di castità le colombe, mentre
quelle graziose bestiole hanno tendenze ben differenti. E tutto quel-
l'animato mondo, riboccante di vitalità, di altissima poesia, di au-
dacie per cui si è scandalizzato quache pudibondo critico tedesco
88 TEATRO E MUSICA
o scandinavo, incapace di sentire e apprezzare la sincerità scevra da
ipocrisie che l'antichità classica ha tramandato allo spirito italico,
Bi è dileguato, per cedere il posto ad un villanissimo, bestiale indi-
viduo, che nemmeno ha la scusa di esser geloso (infatti Tebaldo si
compiace di annunziare alla cugina che essa dovrà sposare un conte
di Lodrone); e ad uno sciame di fanciulle incolori, che giocano al
torchio, giuoco insipido e scimunito quanto mai; e tutti parlano un
linguaggio che vuol essere arcaico ed è soltanto artificioso.
Il primo atto si svolge in una piazzetta in Verona; vi sono due
osterie: in una si adunano i Gapuleti, nell'altra i Montecchi. Tebaldo
incita i primi a stare in guardia, e si allontana con un gruppo di
maschere che si recano al palazzo dei Gapuleti, in cui si danza: i
Montecchi cantano in coro una canzone alquanto sguaiata, ed escono
dall'osteria con ima donna, che va proprio a passare sotto il naso
dei Gapuleti, tanto per dar pretesto ad una rissa fra i due gruppi.
Mentre la zuffa è impegnata e tumultuosa, un uomo mascherato
interviene e fermi, tutti, dominando semplicemente quel putiferio
con la voce : ma ecco Tebaldo, sempre inferocito, a rinfocolare le ire,
calmate questa volta dall'annunzio che giunge la scolta : e tutti fug-
gono a gambe levate. Resta solo Romeo (è il mascherato); Giulietta
si affaccia al balcone : scena d'amore : scalata di Romeo alla finestra,
per discendere presto (è vicina l'alba) dopo interruzione per il pas-
saggio delle maschere essendo finita la festa: raggio di luna e co-
retto interno; Romeo allontanandosi manda un bacio a Giulietta, in-
vestita da un raggio del sole nascente.
Il secondo atto è nel cortile del palazzo dei Gapuleti : Giulietta
e le fanti giuocano al torchio e pare si divertano un mondo: beate
loro! Ma ecco Tebaldo, il quale, con la solita intonazione d'uomo
gratuitamente maleducato, dice a Giulietta (dopo allontanate le fanti)
una massa di male parole, annunziandole il maritaggio combinato
dal padre di lei, per il giorno seguente: Giulietta protesta e svela
aver giurato fede di sposa a Romeo. Una fiera zuffa fra Gapuleti e
Montecchi, che si svolge dietro le quinte, obbliga ad allontanarsi
Tebaldo, che ritiene potere abbattere Romeo. Ma questi è nelle stanze
di Giulietta: essa lo fa venire in cortile (imprudente! perchè non
andar lei in casa?) per dirgli che è disposta a fuggire con lui : ma
toma d'improvviso con la spada in pugno Tebaldo, che ha sorpreso
Isabella mentre faceva la guardia (non molto bene, a quel che pare)
agli sposi amanti: solite insolenze villane, finché Romeo perde la
pazienza, snuda la spada: i due si battono e Tebaldo cade. Invasione
di Gapuleti, che portano via il cadavere, imprecando contro l'ucci-
sore, che è lì, ma nessuno lo vede. Partiti tutti. Isabella suggerisce
a Giulietta il narcotico che la farà creder morta, e le permetterà di
fuggire con Romeo.
La prima parte del terzo atto è a Mantova, mentre l'avvicinarsi
di un temporale fa allontanare la folla raccolta per una Sagra:
giunge un cantore, il quale canta un lamento, allora appreso dai
suoi colleghi di Verona, in morte di Giulietta. Romeo, che è in attesa
del ritomo di un famiglio con novelle da Verona, getta un grido terri-
bile; afferra il cantore e vuole da lui più complete notizie; e gli fa ri-
petere il canto di morte. Ecco anche il famiglio a rinarrare la fine
della fanciulla : Romeo chiede il suo cavallo, balza in sella e cavalca
TEATRO E MUSICA 89
in furia verso Verona, mentre la bufera imperversa. Si riapre il ve-
lario, quando il temporale si placa: appare il chiostro del convento,
ove è la cappella dei Gapuleti : in essa, distesa sopra un'arca. Giu-
lietta, che par morta. Romeo esprime tutto il suo amore, tutto il suo
strazio: chiama a gran voce l'adorata sposa, e ingoia il veleno che
deve unirlo a lei nella morte : ed ecco il risveglio della fanciulla, la
quale si slancia verso il suo amore, fremente, gioiosa. Ma il veleno
compie l'opera sua, lentamente, sì, ma irrimediabilmente: suonano
campane, si levano canti religiosi dal chiostro, canti d'amore dalla
via, mentre Romeo seguita a sentire gli effetti del veleno; Giulietta
esprime la sua disperazione, presa da un delirio pio, e Romeo con-
tinua a soffrire e contorcersi; ancora si riodono le voci dal chiostro e
dalla strada, finché Romeo riesce a morire: Giulietta lo imita, colta
da misterioso malore : e cala la tela.
*
• •
Se il libretto di Giidietta e Romeo non è gran cosa, ha però in
sé ben chiari i due fondamentali elementi drammatici e sentimentali
il cui contrasto ha attirato sopra tutto l'attenzione dei molti musi-
cisti che hanno voluto trattare questo soggetto, scorgendovi viva fonte
di espressività intima ed esterna, di lirismo e di teatralità : l'odio
accanito delle due famiglie rivali — l'amore ardente dei due giovani
che alle due famiglie appartengono. Non è mio compito indagare
quale sarebbe stato il mezzo migliore per determinare musicalmente
tale contrasto : né penso sarebbe stato consigliabile per un musicista
italicino porsi nelle strettoie di un sistema che potrebbe apparire
atto a riprodurre materialmente, plasticamente la lotta affannosa
delle due opposte tendenze: il sistema strettamente tematico wagne-
riano; piuttosto poteva pensarsi ai ricorsi melodici di tipo italiano,
quali usò con tanta efficacia Giuseppe Verdi. Però Riccardo Zajidonai
non ha delineato con tutta la desiderabile forza significativa il con-
trasto profondo che anima la passionale vicenda degli amanti di Ve-
rona : sembra che il fecondo maestro, sicuro di sé per la sua meravi-
gliosa padronanzia di ogni mezzo di espressione sonora, per la faci-
lità prodigiosa della sua penna, abbia affrontato quasi d'improvviso
il lavoro di elaborazione musicale, seguendo e commentando il li-
bretto dal principio alla fine, sotto l'immediato impulso delle singole
posizioni, delle successive manifestazioni di pensiero, di sentimento,
di azione : sembra non abbia accolto in sé, prima di porsi al lavoro,
ed evocato sinteticamente le energie vitali, fondamentali del dramma,
immaginando, creando nuclei centrali cui far capo e da cui irradiare
ogni attività sentimentale e scenica.
Si può obiettare che le violente espressioni di Tebaldo sono sot-
tolineate da un rapido tratto ritmico (una terzina discendente per se-
mitoni), che riappare in altri momenti, quasi debba rappresentare
il substrato dell'odio tra Gapuleti e Montecchi : ma non ha davvero
la consistenza e la forza significativa necessarie per assumere sif-
fatto carattere; e ancor meno ha sensibile valore qualche disegno
ritmico che appare e riappare nelle scene d'amore; né può assurgere
alla efficacia di un simbolo, e di simbolo di così grande passione. Se-
guendo lo svolgimento dello spartito, si può meglio scorgere la man-
90 TEATRO E MUSICA
canza di essenziali punti d'appoggio sui quali imperniare l'opera
d'arte perchè raggiunga organicità perfetta; di temi eloquenti e fe-
condi da cui possano scaturire fremiti di vita.
Le prim* scene del primo atto non mancano di animazione : tut-
tavia non può dirsi che la ^musica che giunge dal palazzo mentre
fervono le danze, abbia festosità o brio; né che abbiano giocondità i
vocalizzi delle maschere che traversano la piazza. Indovinata è in-
vece la canzone intonata nell'osteria dei Montecchi, canzone carat-
teristica nella voluta sua volgarità; animata è la scena della baruffa;
ben sentito il contrasto fra Romeo invocante pace e Tebaldo rab-
bioso; dopo il passaggio, piuttosto funebre, della scolta, si svolge
largamente il dialogo amoroso tra Giulietta e Romeo : la musica pro-
cede per episodi delicati, elegantemente svolti, molto melodici : non
vi sono gli slanci materiati di émioroso lirismo, non gli scatti passio-
nalmente trascinanti, che di momento in momento si attendono e
sperano, quale l'amore fervido dei due giovani sembra promettere:
la scena offre spunti notevoli, che non giungono però a destare vera
conmiozione nel nostro animo, benché ne sia innegabile la nobile
espressione : in fine buon effetto delle voci lontane che intonano uno
stornello, effetto cui nello spartito si ricorre con qualche insistenza,
fino a sembrare una ricercatezza romanticamente manierata.
Il secondo atto si apre con una scena primaverile, in cui il gaio
sciame femminile che circonda Giulietta svolge il giuoco del torchio,
giuoco che sembra diverta molto quelle brave figliuole, ma non in-
teressa eccessivamente lo spettatore, e che si prolunga alquanto, con
un commento musicale spezzato un po' affannosamente; sembra che
nemmeno il musicista sia profondamente convinto del vero signifi-
cato e della portata di questo giuoco; é rimasto freddo e fredda è la
sua musica. La brutalità urtante di Tebaldo, nella sua scena (o sce-
nata) con Giulietta, si esplica con accenti musicali sonori, fragorosi
più che robusti : e il solo episodio in cui un senso di dolcezza si dif-
fonde, nel ricordare che egli fa del tempo della fanciullezza vissuto
con la cugina, si espande in un sentimentalismo alquanto superfi-
iciale, come se si trovassero a disagio certe espressioni gentili in una
bocca usa soltanto a sgarbate violenze. Ed ecco l'eco di una nuova
baruffa; una breve soena'sentimentale tra i due amanti; un dialogo
a contrasto, che richiama alla mente quello del primo atto, pure tra
Romeo e Tebaldo; il duello; la partenza di Romeo e l'accenno al
narcotico che farà apparir morta Giulietta. L'atto è scenicamente
movimentato, più del precedente; e i brevi periodi di stasi valgono
a dar risalto alla agitazione degli altri episodi. Nel complesso però^
il secondo atto appare musicalmente più debole del primo sotto l'a-
spetto dell'invenzione, sebbene i colori orchestrali siano vivaci e
densi.
Nel terzo atto, dopo la scena corale, spezzata da brevi episodi,
sorge il lamento del Cantatore per la morte di Giulietta; canto sem-
plice, spontaneo, commovente: melodia di carattere vagamente po-
polare, affettuosa, signiificativa, che si riode ben volentieri per rin-
novare una sensazione gentile ed eloquente. Ed ecco l'intermezzo
sinfonico: Romeo balza sul cavallo e corre a Verona mentre infuria
la bufera: pagina orchestrale robusta e irruente, anche se dia l'im-
pressione del procedere un po' pesante di un plotone di cavalleria
TEATRO E MUSICA 91
anziché di dtie soli cavalieri, tanto è fréigorosa e densa. La mente
non può a meno di ricordare la meravigliosa corsa all'abisso nella
Dannazione del Berlioz, che produce così profonda impressione con
tanta semplicità di mezzi. La cavalcata dello Zandonai si inizia con
tale intensità sonora da non potere, procedendo, acquistarne di più :
e allora sembra quasi vada perdendo vigore: le voci che chiamano
dolorosamente Giulietta, sono troppo umane nella realizzazione mu-
sicale, e non possiamo considerarle, come vorrebbe il librettista,
voci del cuore di Romeo, del vento, del tuono; non « la tempesta, il
cielo e la terra, gridano il nome disperato », ma una moltitudine che
esclama « Giulietta mia », al pari di Romeo, con non lieve strazio
della buona reputazione di quella poveretta: l'anima inferocita di
Tebaldo pare abbia imma^nato simile offesa. Al turbinìo della tem-
pestosa cavalcata, segue la malinconia accorata del chiostro funereo :
il lamento di Romeo, il risveglio di Giulietta, lo strazio della duplice
morte. E qui il musicista ha voluto carezzosamente plasmare i pal-
piti dei due cuori amorosi, ha voluto lumeggiare i pensieri delle due
menti straziate, avvolgere in un velo d'oro le due anime che amore
terrà unite in etemo : e si è indugiato nella ricerca di espressioni do-
lorosamente flessibili, in cui si uniscano in un indissolubile nodo
amore e morte. Ma non ha trovato il grido sublime, degno dell'alta
tragedia; non il fremito profondo che squassa i due esseri travolti
da un fato inesorabile : forse troppo ha voluto dicessero il librettista,
e troppo ha fatto dir loro il musicista : stringendo, sintentizzando, le
espressioni si eleverebbero e purificherebbero : e gli accenti di morte
dei due innamorati giovani potrebbero levarsi con purezza e inten-
sità avvincenti, se più rapidi e semplici e liberi dalle aggiunzioni
esteme dei cori sacri e profani, ideati al solo scopo di un effetto sen-
timentale, che però turba la tragica purezza della morte amorosa.
Riccardo Zandonai ha, con questo nuovo spartito, confermato
la sua magistrale forza fattiva, di musicista nobile, sicuro, pode-
roso: soltanto confermato, perchè Giulietta e Rom^o non segna un
passo innanzi nella sua vita artistica. Ho assistito al nascere di tutti
i suoi spartiti : e, oltre la soddisfazione di potere apprezzare una così
lieta fioritura di opere d'arte, ho potuto affermare ogni volta che il
maestro fecondo e sicuro, aveva avuto una limpida visione dell'o-
pera d'arte : ogni suo spartito, pur dimostrandosi frutto della mede-
sima pianta robusta, aveva un suo significato, un suo carattere, un
suo colore : dal Grillo del focolare si differenzia profondamente Cow-
chita; e da essi nettamente si allontanano Melaenis, Francesca da
Rimini, La ma della finestra : sono tutti figli dello stesso padre, sani
e ben formati : ma ciascuno di essi ha una fisonomia ben distinta.
Ora ciò non si verifica per Giulietta e Romeo : il nuovo spartito non
si differenzia dalla Francesca da Rimini né per struttura, né per co-
lore, né per indirizzo dramanatico, né per tipo melodico: Giulietta
é troppo sensibilmente sorella di Francesca, e, bisogna riconoscerlo,
sorella minore. In essa si ritrovano tutti i pregi di fattura e di espres-
92 TEATRO E MUSICA
sione della maggior sorella, col difetto fondamentale della ripetizione
di una uguale manifestazione estetica: non è davvero un passo in-
dietro; ma neppure è un passo avanti : e da Riccardo Zandonai que-
sto attendevamo. Ma egli, nella sua equilibrata e organica potenzia-
lità, saprà trovare facilmente nuove parole con nuovo soggetto; e,
meditandoci sopra, senza aver troppa fretta, ci darà quella nuova con-
cezione d'arte che ben sappiamo che egli può offrirci .
Giorgio Barini.
La prima rappresentazione di Giulietta e Bomeo (14 febbraio 1922, Tea-
tro Codtanzi - Roma) è stata allestita e diretta dall'autore, ammirabilmente
coadiuvato dal comm. Carlo Clausetti per la preparazione scenica. Ha avuto
esecutori eccellenti Gilda Dalla Rizza^ Giulietta ideale per azione, canto, voce,
figura ; Michele f leta, Romeo eccellente, che ha saputo con gli splendidi mezzi
vocali e la giovanile foga, dar vita alla figura dell'innamorato giovane, al-
quanto immiserita dal librettista; Carmelo Maugeri, Tebaldo rabbiosLasimo,
dalla voce solida, dall'accento incisivo; il Nardi, prezioso interprete di un
Montecchio e del Cantatore. Il maestro Consoli ha istruito in modo eccellente
la massa corale, il cui compito è nel nuovo spartito di grande responsabilità
e difficoltà. Orchestra diligente, sicura, omogenea, vigorosa ed elegante. Alle-
stimento scenico e costumi alquanto discutibili ; ma ben curati. Movimenti di
attori e masse ben riusciti, animati ed equilibrati. Il primo atto ebbe le più
calorose accoglienze, come era giusto ; il secondo lasciò l'uditorio un po' freddo,
e non pienamente convinto; il terzo atto interessò e fu gustato assai nella
prima parte e sopratutto nell'intermezzo orchestralo; l'ultima parte stancò
alquanto per la sua prolissità non avvivata da vero fuoco di inspirazione: ma
non mancarono applausi, che salutarono lietamente l'autore e i suoi coope-
ratori.
NOTIZIE, LIBRI E RECENTI PUBBLICAZIONI
ITALIA
£ imminente la pubblicazione in un nitido elegante volume su carta ve-
lina, d'oltre mille pagine, di tutte le Poesie di Arturo Graf. Editrice la nota
Casa Giovanni Chiantore di Torino, Successore di Ermanno Loescher.
— Per celebrare il centenario dantesco l'Istituto storico Italiano, un po'
in ritardo per ragioni tipografiche, pubblicherà dentro marzo un numero del
suo Bollettino contenente solo articoli danteschi.' Ekx^one il sommario: 6. Bi-
scaro: Dante a Havenna; F. Torraca: Il fiore; R. Morghen: Dante, il VH-
lari e B. Malispini; P. Fedele: L'attentato d'Anagni.
— CJol titolo di Biographia la Casa Editrice « Scienza ed Arte » inizierà la
pubblicazione di una vastissima raccolta di biografie di tutte le persone illustri
del mondo contemporaneo nonché dell'antichità. La raccolta sarà illustrata da
disegni, tavole in nero e a colori e carte geografiche, secondo lo richiederanno
le circostanze. Le biografie saranno scritte da competenti e corredate da docu-
menti come pure da copiose bibliografie.
— Con quest'anno si è cominciata a pubblicane a Cagliari una nuova
rivista: La Bivista militare italiana, che si propone di contribuire alla for-
mazione della coscienza militare in Italia.
— L'Accademia « Scienza ed Arte » di Trieste, ha organizzato un corso di
Teoria degli elettroni, che fu tenuto dall'illustre studioso di problemi cosmici,
prof. dott. Giorgio Ravasini di Buie d'Istria, noto per la sua scoperta dell'auto-
catalisi e l'altra sulle fasi evolutive d,ella materia. Il corso è terminato verso
la metà del mese scorso.
— Il Circolo universitario di studi storico-religiosi, sorto in Roma un anno
fa, con l'intento di incoraggiare gli studi religiosi in Italia, ha organizzato per
quest'anno un ciclo di conferenze, tenute tutte da professori universitari, su
La preghiera nelle grandi religioni. Tutto il ciclo sarà poi stampato in volume.
H prof. N. Turchi ha inaugurato il ciclo con una dotta conferenza su Mito
e Bito nella religione. Il 2 gennaio E. Buonaiuti ha pronunciato, di fronte
a foltissimo pubblico che ha seguito oon grandissimo interesse l'affascinante
parola òel geniale oratore, la prima conferenza sul tema: La preghiera nei'
Cristianesimo primitivo. Seguirono poi: il 16 gennaio, N. Turchi sulla Pre-
ghiera nelle religioni classiche; il 30 gennaio, G. Levi della Vida sulla Pre-
ghiera nella religione- d'Israele; il 13 febbraio C. Formichi sulla Preghiera nel
Buddismo, e il 27 scorso G. Tucci, sulla Preghiera nelle religioni dell'estremo
oriente.
— Fra le tante riviste sorte col nuovo anno diamo notizia, fra le altre,
di due: Aperusen e Levana. La prima è una rivista di cultura e di letteratura
edita a Foligno, e vorrebbe divenire quasi una guida per tutte le persone colte
attraverso la cultura e la letteratura contemporanea. La seconda è una rivista
di studi pedagogici diretta da E. Codignola e edita da Vallecchi di Firenze. Si
pubblicherà ogni tre mesi in un fascicolo di 100 pagine e conterrà le seguenti
rubriche: La vita della scuola in Italia e all'Estero - Varietà - Recensioni -
Note ed appunti - Schermaglie - Fra libri e riviste.
— In questi giorni si è pubblicato, sotto gli auspici di enti pubblici e privati.
Il mondo a Dante, grande fascicolo-ricordo del seoentenario Dantesco. Questa
ricca pubblicazione raccoglie tutti gli avvenimenti dedicati a Dante in Italia e
all'Estero. Non un nome, non un paese sono stati trascurati. A questa impo-
94 NOTIZIE, LIBRI E RECENTI PUBBLICAZIONI
nente cronistoria vanno uniti scritti di Boselli, D'Ovidio, Del Lungo, Barsilai,
Chiappelli e di altri eminenti dantisti, illustrati da innumerevoli incisioni.
— Tra le novità letterarie più interessanti che la Casa Editrice Monda-
dori pubblica in questo principio di anno — oltre le Memorie di un depu^
tato di Ettore Janni, già apparse in parte sopra una nota rivista ed ora
integralmente raccolte in volume — sono due romanzi di vita contemporanea
della più viva attualità: Il padrone sono me di Alfredo Fanzini e II Cavalier
Mostardo di Antonio Beltramelli. — Nei primi giorni di febbraio è tiscit* il
nuovo romanzo di Alfredo Testoni intitolato II romanzo della signora Catta-
Teina. La pop>olare eroina dei famosi sonetti bolognesi narra in questo volume
le proprie memorie, tracciando un quadro pieno di bonario umorismo della vita
bolognese degli ultimi trent'anni. — G. A. Borgese ha consegnato in questi
giorni all'fMitore Mondadori il manoscritto di un volume di poesie intitolato
La giovinezza, in cui sono raccolte liriche scritte dal 1914 al 1921, le quali pos-
sono considerarsi come un commento lirico al romanzo 2?u6é che G. A. Bor-
gese ha pubblicato la primavera scorsa. — Fragilità è il titolo di un nuovo vo-
lume di novelle di Virgilio Brocchi, che vedrà la luce al più presto e di cui
la Nuova Antologia spera di dare ai suoi lettori una primizia. Virgilio Broc-
chi lavora attualmente ad un nuovo romanzo: Il destino in pugno, che si ricol-
lega all'ultima sua opera: Il posto nel mondo. Sono annunciati, per la prossima
primavera, romanzi nuovi di Ada Negri, Marino Moretti, Michele Saponaro,
Umberto Fracchia, Mario Puccini, Nicola Moscardelli, nonché un nuovo vo-
lume di poesie di Corrado Covoni: Il quaderno dei sogni e. delle stelle, e un
volume postumo inedito di Federigo Tozzi, col quale la Casa Editrice Monda-
dori inizierà la raccolta completa delle opwre del compianto scrittore senese.
— La rivista Novella bandisce, nel suo primo numero di gennaio, un concorso
per una novella che abbia come protagonista, o in primo piano fra i suoi per-
Bonaggi, un bambino. Offre premi per oltre 3000 lire.
— La poesia dialettale sarà arricchita, prossimamente, di due nuovi vo-
lumi dei quali, data la grande popolarità dei loro autori, è viva l'attesa nel
pubblico: Le cose di Trilussa, e II nuovo Can-zoniere Veronese di Berta Bar-
barani.
— A Comegliano Veneto si è epenta donna Maria Dell'Ongaro-Cocuzzi
nipote del poeta patriota Francesco Dall'Ongaro.
— F. Zandonai terminata e, portata in porto l'opera Giulietta e Rom^o,
si accinge a musicare I Marmorari di Svezia, soggetto trecentesco preparato
dal poeta Ottone Schanzer.
— Il ministro Della Torretta ha bandito un concorso a premio per un
libro di lettura ad uso delle scuole elementari italiane all'estero. Il premio sarà
di 10,000 lire e il concorso si chiuderà il 30 settembre 1923.
— Francesco Sapori, l'autore de La Trincea, di Terrerosse, de La pace
degli an'geli, ha consegnato alla Casa Editrice Mondadori il suo nuovo romando
dal titolo: Delitto. Il libro sarà pubblicato il primo di marzo.
Appunti di diritto cnstitnzionale di GAETANO MOSCA, tersa edizione. —
Milano, Soo. Editr. Libr., 1921.
La terza edizione del manuale del Mosca non presenta modifiche so-
stanziali di fronte alle due precedenti: ma n'è l'aggiornamonto diligente e
preciso, ohe tiene conto non solo di tutte le recenti leggi, ma dello stosse pro-
poste e disegni di leggo aventi qualche importanza pel diritto costituzionale.
È conservata la divisione del libro in due parti : la prima, intitolata La genesi
delle costituzioni moderne, ov'è dato molto luogo alla evoluzione ed ai pro-
gressi del diritto costituzionale inglese dalle origini al regno di Giorgio IV ; la
seconda, Lo Statuto Albertino, ch'è l'esposizione sistematica del diritto costi-
tuzionale oggi vigente in Italia: particolarmente accurati e diffusi, in questa
parte, i paragrafi dedicati al Parlamento. Nell'insieme gli Appunti raggiun-
gono pienamente uello che l'A. dichiara suo scopo: «fornire alle persone di
media cultura informazioni precise sui punti fondamentali delle istituzioni che
ci reggono ».
La ▼igiene greca delift vita di A. TILGHER. Quaderni di Bilychnis, n. 6, 1922.
Con la perspicuità e la potenza di sintesi che lo distingue, il Tilgher ci
ha dato in questo volumetto un enunciazione chiara ed acuta di quel che rap-
I
NOTIZIE, LIBRI E RECENTI PUBBLICAZIONI 95
presenta il pensiero greco nello sviluppo di tutto il pensiero umano nella storia.
Conoscitore profondo del pensiero greco, quale ci si era da tempo rivelato
nel suo volume sui Filosofi antichi edito dall' « Atanor » di Todi, l'autore esa-
mina le caratteristiche più salienti della concezione filosofica della vita neUa
Grecia antica, fissandone i vari momenti ed aspetti, nella concezione imma-
nentistica dell'Eterno ritomo, nel dualismo fra l'essere e il non essere che la
informa, nel peòs^imismo che da questa visione doveva derivare e nelle forme
d'ascetismo che caratterizzarono l'ultimo periodo della filosofia greca. Seguono
poi quattro interessanti appendici su Pindaro, Epicuro, la Civiltà del Fato, e
V Amore presso i Greci. L'opera del Tilgher, di non più di 30 pagine, scritta
con profondità ed acume, in una forma viva e piena di forza, non può fare
a meno d'interessare vivamente chiunque si occupi della storia del pensiero
umano, e ai sforzi di determinare in esso la posizione del pensiero contempo-
raneo.
L'ITALIA ALL'ESTERO
Lo scultore italiano Antonio de Francisci ha vinto il concorso per la
scultura del conio del dollaro d'argento americano commemorativo della pace.
Lo scultore prese a modello la moglie.
— La Banca d'Italia di S. Francisco ha chiuso il bilancio del 1921 con un
bilancio di 194 milioni e 179,449 dollari con un aumento, nel corso dell'anno,
sui depositi, di 36,879,064 dollari, assommando i, depositi del 1921 a dollari
177,867,610. L'Istituzione conta l'enorme cifra di 291,994 depositanti.
— A Baltimora il prof. Rudolph Altrocchi, dell'Università di Chicago, ha
tenuto ai soci della Modem Language Aasociation una conferenza su Nicolò
Tommaseo, nella quale dimostra l'insigne scrittore italiano come precursore
col suo romanzo Fede e Bellezza, dei -famosi veristi francesi, Flaubert e Zola.
— La casa editrice John W. Luce e Co. di Boston, ha pubblicato, sotto
il titolo Plays of the Italian Theatre, traduzioni di lavori di Verga, Morselli,
Lopez e Pirandello.
— Wv-the Leig Kinsolving ha pubblicato un gruppo di composizioni poe-
tiche d'ispirazione italiana col titolo The Speli of Italy.
— La Casa Editrice Dood di New York pubblica un interessante volume
su Roma: The color of Rome, di O. M. Potter.
— Nella rivista letteraria deWEvening Post di New York del 3 dicembre,
vi sono interessanti note bibliografiche sui recenti lavori di Ardengo Soffici,
G. Lipparini, Federico Tozzi ed altri.
— Il noto pianista Alfredo Casella, col concorso del violinista Arrigo
Serate e del violoncellista Arturo Bonanni ha tenuto a New York concerti
applauditissimi.
— Il poeta G. A. Cesareo, vecchio collaboratore dell'Antologia, è stato in-
vitato a tenere alla Sorbona a Parigi un corso di letteratura italiana. L'illu-
stre professore, dopo la prolusione terrà un ciclo di conferenze su Dante e poi
svolgerà un periodo della storia letteraria italiana.
L'intellicrence oatholiqne dans l'Italie dn XX siede di VAUSSARD M. —
Paris, 1921.
Crediamo che il lettore più benevolo, chiuso il libro recente che Maurice
Vaussard, ha consacrato alla cultura cattolica italiana, non potrà sottrarsi
all'impressione che il contenuto ne sia sensibilmente sproporzionato al titolo.
Nessuno infatti che abbia seguito senza preconcetti e senza speciali finalità il
movimento della cultura italiana nel primo ventennio del secolo, riuscirà a
capacitarsi che il cattolicismo sia rappresentato in esso unicamente, come vor-
rebbe far credere il Vaussard, dai seguenti nomi: Toniolo, Meda. Sturzo, Ge-
melli, Ferrini, Maffi, Borsi, Papini. Si capisce i)erfettamente che un quadro
sommario di un movimento culturale non può essere tracciato, se non coglien-
done e fissandone le figure rappresentative. Ma è appunto sulla selezione fatta
dal Vaussard per delineare in iscorcio l'operosità culturale odierna dei cattolici
italiani che, ci sembra, possono essere sollevate copiose, e non arbitrarie ob-
biezioni. Specilamente scorrendo le pagine fuori del volume, in cui l'A. tratta
degli eventuali rapporti fra cattolici italiani e cattolici francesi, si ha la vaga
impressione che tutto il libro sia stato suggerito da una particolare preoccu-
pazione: quella di stabilire una salda e cordiale intesa fra quei gruppi cattolici
francesi che prendono più viva parte alla vita politica della Repubblica, © 1©
organizzazioni politiche del cattolicismo in Italia.
LIBRI E RECENTI PUBBLICAZIONI
V. Ciak. Annibal Caro traduttore Generale Filarsti. Eolo - Giano -
delVa Eneide ». — G. B. Paravia e Mercurio. Saggi politici con prefazio-
C, Milano, Roma, Firenze. ne di E. Ciccotti. — Firenze, Val-
La nazione educativa di sé, testa- lecchi. L. 2.50.
mento morale, letterario e politico P. Monelli. Le scarpe al sole. —
di Nioooix) Tommaseo, edito per la Bologna, Cappelli, 1922. L. 8.
prima volta, con proemio di G. Gm- M. Baoiocchi de Pbón. L'educar-
DETTI. — Reggio Emilia, Guidetti, zione del carattere, con prefazione
1922. L. 12. . di A. Anile. — Firenze, 1921. L. 12.
G. Mortara. Prospettive economi- M. Baoiocchi de Peón. Contempla-
che per il 1922. — Città di Castello, zioni. — Firenze, Tipografia Gian-
Società Tipografica (( Leonardo da tino, 1921. L. 7.
Vinci», 1922. (Edizione fuori oom- F. Dessy. Poesie. — Firenze, Ti-
mercio). pagrafia Giuntino, 1922.
A. Bbrn.ardino. Tributi e bilanci E. Levi. La storia della magìa. —
in Sardegna nel primo ventennio del- Todi, <« Atanòr », L. 30.
la sua annessione al Piemonte {1721- A. Ponti. Il Senato Italiano. —
1740). — Torino, Bocca, 1921. Catania, 1921.
A. NoTARi. Teo. Il romanzo del Col W. Frenkel. Amore e Bolscevifmo.
di Lana. — Roma, Alfieri e Lacroix. Talmud e Khamstvo. — Roma, « La
U. Ghiron. Le visioni di Àtropos. Rapida », 1922. L. 4.
— R. Sandron, editore. L. 3.50. P. Pesce-Maineri. 7 pericoli socia^
L. Ventura. Dalla guerra alla li del cinematografo. — Torino, Ge-
scuola. — Milano, Roma, Napoli, nova, Casa editrice « Problemi mo-
Albrighi Segati e C, 1922. L. 4.50. derni» presso S. Lattee e C. L. 5.
Generale Filareti. Danton e Bo- G. Flecchia Im fine del mondo. —
bespierre. (Saggio di psicologia so- Torino, Genova, Casa editrice <« Pro-
ciale). — Milano, Roma, Napoli, Al- blemi moderni » presso S. Lattea e
brighi Segati, 1922. L. 4. C, 1922. L. 4.
PUBBLICAZIONI PERELLA — FIRENZE.
G, A. BoROESG. Resurrezioni. — Le opere di Giuseppe Mazzini aoel-
1922. L. 8. te ed illustrate da F. L. Mannitooi.
G. Carbonera. Pagine di storia e L. 10.
di vita greca. 1921. L. 5. A. Momigliano. Dagli n Sposi Pro-
G. Rensi. Introduzione alla scerpsi messi » ai « Promessi Sposi ». 1922.
etica. L. 30. L. 4.
PUBBLICAZIONI GIANNOTTA — CATANIA.
S. Santanoblo. Dante e i trovato- N. Martoolio e L. Pirandello.
ri provenzali. 1921. L. 10. Teatro dialettale siciliano. Voi. VII.
Mona. S. Romeo. S. Agata V. M. 1922. L. 6.
e il suo culto. 1922. L. 10.
PUBBLICAZIONI STRANIERE.
Q. Matjriac. Le Baiser au Lépreux Le Vili livre des « Stancea » de
— Paris, Grasset, 1922. Fra. 6. Jean Morbas. — Paris, Edition de
G. Ohnet. Tout se paye. — Paris, la douce France, 1922. Fra. 2.
Ollendorf, Frs. 6. M. P. Serva. A AUemanha Saqueck-
G. SouLAGES. L'idylle Vénitienne. da. — S. Paulo, 1921.
— Paris, <(Le Livre», 1921. Frs. 12.
PUBBLICAZIONI PLON — PARIGI.
H. Bordeaxjx. Le vie au thédtre. G. Pérochon Nene. Prix Goncourt
Oinquième et demière sèrie, 1919- 1920. Frs. 8.
1919. — 1921. Brs. 8. L. Dttmxtr. Un caco de genie.
P. BouRGET de l'Académie Fran- Frs. 3.
paise. L'émigré. Fi». 3. L. Baumann. L'immoli. Frs. 3.
Ugo Msssna. Re^vomainìe
Etcm» — Ditta Arnutni <**. Mario Coanier.
FECE DDNQUE BENE FIRENZE A SBANDIRE DANTE?!!
Una quarantina d'anni fa visitai in Firenze un mio caro amico
toscano, che sempre rimpiango, maestro e critico insigne; il quale,
nel donarmi un suo volume dantesco, dopo un lungo colloquio uscì
a dire: « Dante però, sapete, non doveva essere mica un bel carat-
tere; filosofo mal grazioso, dice il Villani». Sorpreso e sgomento,
tanto pili ohe non sarei stato discreto a impegnare quasi sull'uscio
una viva discussione, mi restrinsi a dir quanto segue. — Bisogne-
rebbe sempre distinguere, nella storia come nella vita, il carattere
dal temperamento. Senza voler porre tra i due smonimi un divario
rigido e pedantesco, si può dir ohe il carattere è la somma delle aspi-
razioni e ispirazioni abituali di un uomo, e degli sforzi supremi di
cui egli sia capace nelle occasioni più gravi della sua vita pubblica
o privata; mentre il temperamento importa le abitudini e gli sforzi
più superficiali, procedurali starei per dire, quasi più fisici che mo-
rali. Il carattere definisce il valor morale d'un uomo, ma quel ohe
spesso decide della sua sorte immediata nel mondo è piuttosto il
temperamento. Ecco lì uno semippe intento al bene pubblico, sempre
pronto ad ogni sacrificio, franco, coraggioso, generoso, ed è insomma
un bello o un grande carattere; ma è iracondo, né sa tacere o dif-
ferire le sue censure. Blccone un altro, profondamente egoista, ma
cauto, furbo, mellifluo, lesto a fingere ogni condiscendenza, a far
Ggni favore che non rechi a lui alcun danno, a mostrarsi abilmente
afflitto di non poter fare quel favore che in realtà potrebbe benis-
simo rendere se non vi fiutasse un lontano pericolo di un discapito
proprio anche minimo. Di codesti due uomini il primo rischierà d'es-
sere comunemente qualificato per un caratteraccio, il secondo per
un modello di bontà. Dante era un irascibile, ma le sue opere e la
sua vita ci fanno in lui rifulgere un bello e grande carattere. E quanto
al filosofo mal grazioso, badate bene che noi tutti, che attendiamo
a studiare e a scrivere, proviamo un così vivo tormento se altri in-
terrompe il nostro lavoro, o perfino le nostre peripatetiche rumina<-
zioni, da riuscir difficilmente a nascondere la noia che ci si reca, il
che agl'inesperti, e talora anche a quei che non tollerano d'esser
seccati loro, ma si scordano di ciò quando gli fa comodo di seccare
gli altri, fa l'impressione di un'indole sgarbata e scompiacente. Al-
lora poi gli uomini di studio erano più rari, e più frequente perciò
nella turba il sospetto oh'ei fossero sprezzanti — .
Appena fui in istrada, rimasticando quell'improvvisa sentenza
dell'amico, mi si riatfacciarono alla mente iparole consimili ohe avevo
udite nei begli anni di Pisa da miei condiscepoli e da altri, le quali,
dette così tra il serio e il faceto, in quel modo tanto familiare all'ar-
7 VoL CCXVII. serie VI — 16 inam> 1922.
98 FECE DUNQUE BENE FIRENZE A SBANDIRE DANTE?!!
guto spirito dei Toscani, m'eran parse niente più ohe scherzi. E poi
ripensai anche a un periodo di un illustre letterato e gran brav'uomo,
Emmanuele Repetti. E ancora mii tornarono alla memoria certe sgar-
batezze che alcuni cinquecentisti toscani, nella questione della lin-
gua, non avevano risparmiate al divino poeta: benché allora, meno
male, la controversia stessa le rendesse più perdonabili. E mi chiesi :
— ma dunque ancor oggi ribollono in alcuni corregionali di lui certi
rancori, e fa capolino una certa velleità d'insinuare che non ebbero
tutti i torti i concittadini a liberarsi d'un uomo molesto per indole?
E chi meno t'aspetteresti scappa a dire in privato quel che forse in
pubblico per buoni riguardi non direbbe? —
Gli è proprio cosi. Tutta la glona che colui ha data alla sua
patria, e tutta la pietà che ispira la sua vita infelice, non son bastate
a prosciugare del tutto una sottile vena d'umori acri tramandatasi
nei secoli, pur in mezzo alla maggiore e migliore tradizione toscana
tutta amore e pentimento verso il grande esule.
Ultimamente tali umori hanno ottenuto una specie di ripresa e
un nuovo coonestamento da certe speculazioni sulla storia fiorentina,
per le quali quella democrazia così destra nell'accresoere la sua pro-
sperità economica e nel tener duro contro chiunque paresse minac-
ciarla, è decantata come un portento di aita sapienza politica, e il
povero Dante è finito col sembrare un uomo inetto a comprendere
l'avvenire, un utopista incomodo alla patria : la quale, via, non ebbe
tutti i torti ad averlo in uggia! La teorica del materialismo storico,
non del tutto falsa, ma unilaterale, miope, iperbolica, faziosa, è riu-
scita a suscitare una superlativa ammirazione per la ricchezza, un
entusiasmo più o meno fittizio, il quale è in perfetta antitesi con la
nobile esagerazione dei moralisti puri, che nella vita e nella storia
tengon vòlto l'animo soprattutto alle virtù morali, e nell'eccesso
della ricchezza scorgono più ohe altro il pericolo della corruzione.
E quell'entusiasmo penetra talvolta nei giudizi storici anche di co-
loro che nella vita attuale sono ben lontani dal considerar soltanto
il fattore economico. Ci s'aggiunge che, come il nazionalismo cat-
tolico neoguelfo fece che al Balbo e ad altri riuscisse ostica la fiducia
di Dante nell'Imperatore tedesco ed il culto per il Sacro Romano
Impero, così il nazionalismo odierno tutto laicale è propenso ad
ammirare ogni resistenza guelfa all'Impero, senza troppo conside-
rare il valore intrinseco dei motivi della resistenza e il valore effet-
tivo dei fini con essa conseguiti. E così per tre impulsi si mormora
qua e là contro il poeta per divino ch'ei sia : il dispiacere che quel
continuo compatire che si fa il suo esilio tomi in perpetuo rimpro-
vero a Firenze antica, e un ipo' -quasi di rinfaccio ai discendenti di
quella; l'illusione di saper guardare con più acuto e più moderno
criterio storico la strabocchevole ricchezza che disgustava il poeta
moralista; la credenza che un alto e giusto sentimento nazionale
fosse la vera ragione dell'atteggiamento che Firenze tenne contro
Arrigo.
•A-
• •
Comunque, di una parte almeno di quest'ordine d'idee rispetto
al grande fiorentino ci viene da Firenze un saggio molto facondo e
vivace : l'opuscolo del professore Ermenegildo Pistelli intitolato Per
FECE DUNQUE BENE FffiENZE A SBANDIRE DANTE?!! 99
la Firenze di Dante (Sansoni editore, 1921, pag. 46). Nel quale due
persone son però prese specialmente di mira: un grande antico,
buono e generoso, il Boccaccio; ed un buon uomo contemporajieo,
che son io. Sono stato sempre alieno dal far repliche polemiche,
anche in gioventù, che qualcuna n'ho dovuta fare per forza; ed ora
poi non v'è nulla "che più mi pesi, tanto che spesso mi astengo dal
leggere quel che altri scrive contro di tne per non aver la noia di
sentirmi risonare nella mente quel che «potrei risponderò se volessi
rispondere. Ma il valoroso paladino m'ha investito per un discorso
tenuto da me nella seduta solenne dei Lincei avanti ai Sovrani, ed
io debbo, almeno una volta tanto, difendere, più che me stesso, l'alto
pulpito dal quale parlai.
Prima che con altri però, il Pistelli se la piglia un poco col mae-
stro bolognese Giovaimi del Virgilio, che, innamoratosi di Dante,
in un'egloga a lui rivolta accennò all'esilio come a un disonore per
l'ingrata città, ingratae dedecus urbi; e nell'epitaflao che compose
quando Dante morì, disse che l'ingrata Firenze, patria crudele, a
questo figlio suo non arrecò altro frutto che triste, l'esilio:
...Hnic ingrata tulit tristem Florentia fructum,
Exilium, nato patria oruda suo...
L'epitcìflBo, ricordiamolo in iparentesi, non fu mai inciso; ma, quando
dopo più anni fu fatta una tomba definitiva, vi fu inciso l'esastico
ohe ancor c^gi vi si legge, e che anch'esso batte su quel chiodo:
« Qui son chiuso io Dante, esule dai patrii confini, cui generò Fi-
renze, madre di scarso amore » :
... Hic claudor Dantes, patriis extorris ab oris,
Qnem genuit parvi Florentia mater amoris...
E non sarà stata una mera reminiscenza delle parole del primo epi-
grafista nella mente del secondo : egli è ohe questi, il Canaccio, espri-
meva il sentimento tradizionale in Ravenna forse più che altrove,
come quegli, il del Virgilio, aveva espresso il sentimento non solo
suo proprio, ma di quanti ammiravano in quella contrada adriatica
il povero esule, e di coloro più particolarmente che in Ravenna gli
stavano attorno e gli volevan bene, né sapevan quindi capacitarsi
che la città che lo aveva generato lo tenesse per forza lontano da sé.
E il Pistelli avrebbe fatto bene a rammentarsi che da tutt'altra parte,
da un pistoiese che insegnava a Siena, la morte di Dante era stata
subito compianta in una canzone il cui commiato è ben altrimenti
ac-erbo per Firenze, che non le due epigrafi suddette, che alla fin
fine si restringono ad accennare il fatto nella sua semplice e inne-
gabile sostanza. Messer Gino dic-eva:
Canzone mia, a la nuda Fiorenza
oggimai di speranza, te n'andrai-...
e la speranza non è già quella che Fiorenza nutrisse di rivedere un
giorno il suo poeta, come sulle prime può parer che intenda; ma
vuol dir che Firenze non isj>eri più di divorare Dante.
Gino si riferisce alla profezia messa in bocca a Brunetto, che la
fortuna riservi a Dante quest'onore, ch^e l'una e l'altra fazione in cui
100 FECE DUNQUE BENE FIRENZE A SBANDIRE DANTE?!!
Firenze era divisa avrebbe avuto del iptiri la smania di divorarlo,
ma non ci sarebbero riuscite. E però continua:
di' che ben può trar guai,
ch'ornai ha ben di lungi al becco l'erba.
£000, la profezia che ciò sentenza
ben è compiuta, Fiorenza; e tu '1 sai!
Se tu conoscer hai,
il tuo gran danno piangi, che t'acerba!
E quella savia Ravenna, che serba
il tuo tesoro, allegra se ne goda
(oh'è degna!) per gran loda.
Così volesse Iddio che, per vendetta,
fosse diserta l'iniqua tua setta!
È inutile: come la gratitudine per Ravenna era ed è naturale
in chi amò ed ama Dante, così la riprovazione per Firenze; ed è vano
cercare i capiscuola di tali sentimenti. Di Gino da Pistoia cajpisco
che si può dire che fu amicissimo di Dante, ohe fu esule anche lui
e per colpa della stessa iniqua setta; ma a buon conto ecco lì un
altr'uomo insigne, bene informato dei fatti, che prima del Boccaccio
e come in fondo tutta la posterità, censurò aspramente la patria
crudele al figlio suo.
Il Pistelli pone questa tesi, o, com'ei dice, regola: «che l'in-
vettiva contro Firenze prorompe sdegnosa soltanto quando l'ammi-
razione per Dante è appassionata e piena » ; e un riscontro ne scopre
nel fatto che il Petrarca invece, parlando a denti stretti di Dante
perchè obbligatovi dal Boccaccio, si contentò di accennare con pa-
rola misurata aWingiustizia dei Fiorentini, con tutto che del mede-
simo bando fosse stato vittima pure suo padre ser Petracco. In ve-
rità io non vedo a che giovi quella tesi o regola, che insiste sopra un
fenomeno tanto naturale, tanto ovvio. Si sa bene che più si ama e
si ammira una persona, e più ci si sdegna contro chi l'ha malme-
nata. Ci (potranno bensì essere dei casi, come per esemipio quello dì
due coniugi che, senza che se ne sappia il perchè, da un giorno al-
l'altro si siano aspramente separati, e gli amici del marito buttino
a priori la colpa sulla moglie e gli amici della moglie sul marito;
e allora gli uni e gli altri sono parziali e parlano a passione. Ma nel
caso di una pubblica condanna così notoria nei suoi motivi, a che
serve il rilevare ohe più biasimò la condanna chi più era tenero per
il condannato? Tirare poi in ballo il Petrarca iper controprova è toc-
care un tasto pericoloso. In quella lettera al Boccaccio con la quale
avrebbe dovuto smentire la sua invidia per Dante, il Petrarca nwi
riesce a dissimularla. Il nostro Carducci non se ne volle persuadere,
il che ci commuove se pensiamo che la ritrosia a persuadersene mo-
veva da un sentimento simile a quello che spinse il Boccaccio a pro-
vocare la lettera: l'affetto per il Petrarca. Ma ebbe tanto più ra-
gione il Foscolo a riconoscer l'invidia in quel Petrarca che anch'egli
studiava e amava. Oltre il resto, il Boccaccio e gli altri contempo-
ranei, a prescindere da <^ni manifestazione aperta e positiva d'in-
vidia s'avevan a sentir offesi dal semplice fatto negativo, che non
vedevano il Petrarca riscaldarsi iper il grandissimo predecessore
quanto si sarebbe per tutte le ragioni aspettato da lui.
FECE DUNQUE BENE FIRENZE A SBANDIRE DANTE?!! 101
Intanto mi sia lecito di far di passata un'osservazione. Nel Pe-
trarca l'invidia nasceva non solo dall'indole sua ambiziosa, ma era
alimentata e forse aveva avuta la prima mossa da ricordi e affetti
domestici. Tra Dante e ser Petracco non ci saranno stati rapporti
unicamente amichevoli, chi pensi al modo sdegnoso con cui Dante
accennava a tutti in complesso i suoi compagni d'esilio. Messer Fran-
cesco avrà sentito in casa critiche, e magari rancorose, per questo
o quell'atto o scatto dell'Alighieri; e si vede che di lui era un po'
geloso anche per conto di suo padre. E certo il figlio ci fa sorridere
là dove dice che tra i due amici e compagni di sventura v'era stata
molta somiglianza di studi e d'ingegno {studiorum et ingenii multa
similitudo) , senonchè il padre per sacrificarsi tutto alla famiglia
aveva lasciato andare e Dante aveva trascurato la famiglia e tutto
il resto per badar solo alla fama. Figuriamoci! Se ser Petracco avesse
persistito negli studii, altro che Divina Commedia avrebbe saputo
irar fuori! quell'egoistaccio di Dante si sarebbe potuto andar a ri-
porre! Pare incredibile ohe il Petrarca non s'accorgesse ohe col fare
un paragone di quel genere egli dava addirittura nel puerile (1).
Comunque siasi, il Petrarca non solo «portò il segno della sua in-
feriorità a Dante, invidiolilo », come scultoriamente disse Cesare
Balbo; ma, ipur avendo grande nobiltà d'animo, non s'int«nerì ab-
bastanza per il predecessore povero e travagliato, che la parzialità
per il «proprio padre e le mormoréLzioncelle udite in casa gli avevano
infuso una certa preconcetta antipatia e gelosia.
Che dunque, per tornare al nostro proposito, il Petrarca all'esilio
di Dante abbia alluso con parola piuttosto mite, è naturale: tanto
più che ser Petracco nell'esilio era riuscito a farsi uno stato, e lui,
messer Francesco, ci aveva fatto fortuna; e molto tardi si degnò d'an-
dar a conoscere la città di Firenze, né oi si volle stabilire, e in cc»i-
clusione non aveva esperienza diretta dello strazio d'un esule nelle
condizioni di Dante, e non aveva quindi alcun impulso a toccarne
altrimenti che con tepore. Del resto, l'andamento stesso del discorso
non lo menava a soffermarsi su quel punto; eppoi il civium. iniuria
dice alla fin fine quanto è necessario, tanto che al Pistelli non piace
interamente, sicc;hè vi soggiunge : « e fu così più nel vero » : dove
quel più sembra insinuare che il Petrarca avrebbe fatto meglio a
non parlar nemmeno d'iniuna! Leghiamocela al dito.
(1) Dove dice che in quel totale abbandono di Dante al desiderio della
fama illum, satis mirari et laudare vix valeam, quem non civium iniuria, non
exiliuìti non paupertas, non simultatum aculei, non amor coniu-gis, non nato-
rum pietcbs, ab arrepto semel calle distraxerit , ci si sente l'onda delle prime pa-
role d'Uliese del XXVI AeW Inferno, e una precisa reminiscenza nei due accenni
alla famiglia, il che è notevole per altri rispetti e a noi qui importa perchè ha
l'aria di una ritorsione, d'un' applicazione all'autore stesso di ciò ch'egli aveva
scritto per uno dei suoi dannati. Non bisogna certo calcar la mano, ne voler
fiutare una malignità grossa in una impalpabile finezza d'intenzione e di stile;
ma tutti quei non, che voglion parere altrettanti omaggi alla fermezza di Dante,
posson mai essere sinceramente tali in tutto e per tutto, messi come sono a ri-
scontro dell'abnegazione di ser Petracco alla quale il figlio era sicuramente grato
e accennava con intento indubbiamente laudativo?
102 FECE DUNQUE BENE FIRENZE A SBANDIRE DANTE?!!
•
Ma passiamo al maggior colpevole, al Boccaccio. Con le sue
esagerazioni retoriche egli avrebbe rappresentata la condanna di
Dante come un torto all'individuo, mentre ei fu bandito con una
turba di più centinaia di altri che nessuno si piglia l'incomodo di
compatire; e come un torto a cui la stessa sua grande autorità e le
eccezionali benemerenze sarebbero state incentivo, laddove, continua
il Pistelli, gli uffici esercitati da Dante furono in quella democratica
repubblica adempiuti da tanti altri e non meno efficacemente.
Non nego che alcune delle esagerazioni boccaccesche siano ar-
gutamente osservate dal Pistelli, e che una tara debba farsi all'ine-
vitabile ma ingenuo preconcetto dei posteri, che Dante fosse già pei
contemporanei e pei concittadini tutto quello che è per noi, e ci vo-
lesse quindi una superlativa malvagità per travolgerlo in quel tur-
bine di guerra civile, per non eccettuarlo da quelle espulsioni in
massa. La censura a un tal preconcetto non è nuova, e, per non
cercar altro, ricorderò ohe Vittorio Imbriani v'insistè molto un mezzo
secolo fa. Ma io ripeto al Pistelli quel che allora andavo dicendo
airimbriani. Sfrondiamo, signorsì, le involontarie iperboli, rettifi-
chiamo gli errori di prospettiva, mettiamoci nei panni dei contem-
poranei, sforziamoci di ridurre Dante alle proporzioni che aveva
rispetto a coloro quando a trentasei anni fu sbandito, e anche quando
fino ai cinquantasei anni fu lasciato sempre fuori dell'ovile; ma guar-
diamoci pure dal rimpicciolirlo troppo e dal figurarci i contempo-
ranei più ottusi e più storditi che non erano. -Sta bene, quando fu
sbandito ei non aveva scritta la Commedia, ma era pui* l'uomo ca-
pace di scriverla, l'uomo il cui ingegno e la cui magnanimità dove-
vano già apparire e farsi per forza notare; l'uomo che del resto era
già conosciuto come gentil poeta d'amore, come autore d'un libello
così splendido quale la Vita Nuova, che in una città dove abbondava
il naturale ingegno, il gusto fino, il gusto per la poesia, non era po-
tuto passare inosservato; e dove la sua popolarità fu anche forse
accresciuta dall'esser qualche sua lirica musicata da Casella. E negli
uffici che aveva tenuti, per comuni che fossero a molta gente co-
mune, avevan pur dovuto brillare le sue doti più caratteristiche; e
nella resistenza contro il papa, dalla quale ^li stesso, che non era
un megalomane, ci dice essergli derivata tanta odiosità in Corte di
Roma, doveva essersi fatto veramente onore, tanto da non rimaner
oscuro nemmeno in quella quasi ateniese democrazia che di Aristidi
non voleva saperne. Né certo come un quidam, fu inviato proprio
lui a capo dell'ambasceria a Bonifazio, e da questo trattenuto presso
di sé. Compiangiamo dunque tutti quelli che furono sbanditi con
lui, riconosciamo che in una procella di quella fatta {civili lyrbine
a dir del Petrarca) difficile era per chicchessia il salvarsi; ma non è
lecito considerare il poeta come uno dei tanti, sperduto nella folla,
scacciato come un Bianco e nulla più, da chi fosse del tutto incon-
sapevole di scacciare un uomo di singolare levatura. No : vi fu man-
canza di riguardò all'ingegno e alla virtù, ed anzi acre gusto di non
lasciarsene imporre e di levarsi di tomo un uomo incomodo; e se i
FECE DUNQUE BENE FIRENZE A SBANDIRE DANTE?!! 103
soverchiatori non s'accorsero di offendere il Dante dei secoli, furon
però di certo lieti di ferire il Dante che 'per altezza d'ingegno già
superava la -turba. Compiangiamo, ripeto, i suoi compagni di sven-
tura, ma non ci scandolezziamo di cosa tanto naturale qual è che i
posteri si siano impietositi soprattutto (per lui, che è l'unico vicino
al loro cuore, l'unico di cui sanno il cuor ch'egli ebbe; e per lui so-
prattutto maledicano ^li autori di quella sventura. Le ire e le cru-
deltà partigiane spiegano tante cose che parrebbero inesplicabili,
ma in fin dei conti non bisogna considerarle come fossero un cieco
flagello della natura, un terremoto o un ciclone; poiché invece sono
un trionfo di tristi pensieri, di biasimevoli sentimenti, ribollenti in
quei dati uomini, in quella certa classe, in quella città, in quel
tempo. E se un giovane come Dante potè essere così semplicemente
sbandito, e non mai richiamato neppur quando quelli che gli stavan
vicino lo riverivano come un vecchio venerando, ciò non fa punto
onore a chi governò la città, né alla città che lasciò fare.
Fin da un mezzo secolo mi son ribellato alla moda che vi fu,
massime per colpa del Bartoli e dell'Imbriàni (che in ciò congiura-
vano sebben tutt'altro ohe amicamente), di screditare il Boccaccio,
come un inventore o spacciator di frottole circa la vita di Dante.
Sicuro, in lui il genio del novelliere scatta su non appena la materia
gliene dà un lieve appiglio, come dove a proposito del matrimonio
di Dante si stempera in tutta quella monellesca cicalata contro il
prender moglie. Il talento del narratore lo sospinge poi spesso a
colorire con acoessorii troppo precisi qualche fatto di cui egli non
poteva conoscere se non la linea principale. La domestichezza con
le declamazioni accademiche lo trascina qua e là a divenir prolisso,
vacuo, declamatorio. Ma egli era oltre il resto un uomo molto dotto,
e capace di esercitare anche la critica, e per Dante aveva tale un
culto, che toma assurdo supporre che inventasse delle fole o acco-
gliesse senz'ombra di giudizio ogni storiella che altri gliene raccon-
tasse. Tutto questo ho predicato sempre, e presto ho avuto in ciò
molti compagni; ma non mi sarei mai aspettato ohe sarebbe venuto
un giorno che avessimo a difendere il Boccaccio dall'accusa d'essere
stato troppo parziale per Dante, e d'aver suggestionato gli altri a
biasimare aspramente il suo esilio !
Tra i pedissequi sarei io, che scrissi : « Ahimè che quello ch'è
il più bel vanto della Toscana e dell'Italia, l'aver dato a sé e al mondo
un tale poeta e un tale uomo, è insieme e sarà sempre la maggior
vergogna dell'Italia e della Toscana, poiché questa non seppe ohe
scacciarlo, irremissibilmente scacciarlo, e quella non seppe ricettarlo
e onorarlo se non assai scarsamente; e non gli avrebbe offerto nem-
meno quella cotal placidità di tramonto, se la cara Ravenna non
fosse stata... ». Or, per quanto mi ripugni di star ad analizzare pa-
role mie, parecchie cose ho da notare. Se scrissi Toscana anziché
Firenze, di che il Pistelli si adombra, non fu perchè io ignori la di-
versità dei rapporti di Dante con le diverse città di Toscana, ma
perché di tutte egli fu scontento e nessuna seppe avvincerlo a sé e
divenirgli una seconda patria; e piìi di tutto perché mi piacque nel
nome generico della regione sottintendere la città nativa, senza pro-
clamare bruscamente il nome di questa in un momento solenne.
Parimente, un'attenzione delicata ebbi nel mentovare la Toscana
104 FECE DUNQUE BENE FIRENZE A SBANDIRE DANTE?!!
avanti aìVItalia nel vanto d'aver generato il sommo poeta, e invece
Vìtalia avanti alla Toscana nella vergogna dell'averlo mal compreso.
La cortes© malizia di codesto chiasmo non sarebbe sfuggita al sot-
tile spirito del mio critico, se questo non fosse stato velato dalla
passione d'una tesi. Ei si sarebbe accorto che il tirare in camipo
l'intera regione e l'intera nazione, e con qued pietoso invertimento
di prospettiva, e il finir poi col contrapporre Ravenna all'Italia
anziché direttamente alla Toscana o a Firenze, era un risparmiare
il pili possibile la città madre nel giorno che si celebrava il maggior
suo figlio; era un far intravedere che la colpa di quella si atteneva
all'indole dei tempi, alle condizioni dell'Italia d'allora, e che non
sarebbe giusto raffigurarsi per quel secolo una Firenze tutta spietata
in mezzo ad un'Italia tutta carità e dolcezza. Credo dunque d'essere
stato e giusto e umano; e che umano sarei stato, non giusto, se avessi
detto, come fa il Pistelli, che il caso di Dante «fu una disgrazia,
non fu una colpa, non è una vergogna ». Sarebbe, sì, stata una mera
disgrazia, se, per esempio, su un documento abilmente foggiato da
un falsario nemico personale di Dante, il Comune l'avesse in buona
fede creduto reo di perduellione e l'avesse punito. Ma punire un
nobile e innocente cittadino, con tanti altri, per semplice impeto
e interesse fazioso, fu colpa, sia pure ohe la colpa si possa attenuare
coi cattivi esempi che quella generazione aveva ereditati dalle gene-
razioni anteriori, coi costumi violenti di quei tempi, e con quant'altro
si voglia. Fu una colpa ed è una vergogna. La vergogna del resto è
un fatto, né si dissipa a forza di sottigliezze; e può avpr inM<.f. ìw.r.
fino dove non vi sia una vera e propria colpa.
C'è talvolta, dice il poeta, cosa che l'uomo non deve lare, ^jcru
che senza colpa fa vergogna! Il nostro caso poi è questo : il mondo
celebra a coro un grand'uomo, e intanto è costretto a pensare che
questi é morto lontano dalla patria, struggendosi dalla brama di ri-
vederla. Che volete? fosse anche ciò avvenuto per una mera fatalità
(e mera fatalità non fu), per la sua patria é sempre una vergogna !
0 perchè Firenze ha più volte tentato di ottener da Havenna almeno
le ossa dell'esule? Gli é che ha sempre sentito che l'esiliarlo fu una
colpa, e che ad ogni modo, ancorché si potesse questa giustificare,
il sussistere quel perenne ricordo dell'esilio che è la tomba di Ra-
venna, é un perpetuo rimbrotto a Firenze, una macchia che pdaxje-
rebbe scancellare. E poiché il mondo intero celebra quell'uomo, non
é punto inopportuno che dall'Italia stessa sorgan sempre voci ohe
riconoscano la vergogna e col ipostumo ^pentimento 1' fAmi^..rinn
Per questo non esitai a dir quel che dissi.
Dispiace aRresì al Pistelli ohe oggi si ripetano cene ei-pressioiu
amare di Dante contro la cupidigia e l'epicureismo dei suoi concit-
tadini, e dice che « usare i colori di Dante é lecito soltanto a lui »,
e severamente ammonisce me e un altro che quei colori « staccati
così dal quadro non hanno ipiù significato». Or lasciamo stare die i
colori tolti da un quadro tornerebbero meri colori, laddove le frasi
tolte da un poema cxjnservano il lor significato, oltreché richiaman
subito tutto il pensiero del poeta. Io però riconosco volentieri che
mentre certe frasi anche staccate dal contesto non perdono nulla
del significato che hanno in esso, altre invece più o meno si trasfi-
FECE DUNQUE BENE FIRENZE A SBANDffiE DANTE?!! 105
gurano portate via di là {!). E allora è scon^■eniente o ingenuo ap-
propriarsi e spendere gli spiccioli del verso dantesco. Se qualcuno,
sdegnato d'uno sgarbo ricevuto da alcuni Fiorentini, li chiamasse
bestie fiesolane, se non lo facesse per celia, commetterebbe una so-
lenne goffaggine. Ma (juando a noi, spettatori e vittime di certi spo-
stamenti sociali, torna spoijtaneo alla mente che
La gente nuova e i subiti guadagni
Orgoglio e dismisura han generato,
e in queste parole troviamo effigiata a puntino la condizione odierna,
e immaginiamo ohe, salvo certe dissomiglianze, il fatto che nau-
seava il poeta doveva rassomigliar molto al fatto presente, e a que-
st'ultimo applichiamo la poetica formula, e col presente sentiamo
più vivo il passato, chi o che cosa ci può vietare tutto ciò? Che Fi-
renze ad ogni modo si dilatasse, prosperasse, traricchisse, fosse così
meglio in grado di elevare quei mirabili edifìzi che ancora oggi ci
anrmialiano, e che" tali maraviglie non fossero neppure impedite da
tutte quelle civili discordie, da quei bandi crudeli, da quelle zuffe
sanguinose, può ad alcuni parere che sia uno spettacolo storico così
bello e grandioso, da far dimenticare le mormorazioni di Dante, la
cui assenza per nulla nocque a quell'incremento, e da far sembrare
petulanti e temerari e anacronistici i paragoni che altri osi fare tra
quei tempi e i nostri. Ma chiunque riguarda molto anche nella storia
al senso morale, e quindi nella cronaca fiorentina dal giorno che i
Bianchi furono spodestati fino a quello della discesa d'Arrigo, scorge
uno dei più disgustosi drammi umani, ove nessuno (Tincorrotta vir-
tude atto si scopre, quegli ripete più docilmente, e non come un
(1) Colgo quest'occasione pter dir di passata alcune cose che non servono
alla mia polemica. Io credo che il rimpianto di Cacciaguida per la ristretta
cerchia antica, e il malumore pel troppo dilargarsi di questa, non rappresentino
a rigore il preciso sentimento del poeta, quantunque le parole attribuite a
un'anima santa debbano sostanzialmente contenere di solito ciò che il poeta
opina esser la verità ; bensì credo che col suo abituale fino umore drammatico il
poeta abbia inteso di dare al trisavolo l'atteggiamento naturale ai vecchi a cui
dà noia l'eccessiva mutazione della città quale i primi ricordi la rendevano ad
«sei cara. Non già che il nipote si rallegrasse tropj» neppure lui di quel feb-
brile allargamento, ma insomma una parte di questo era familiare a lui dalla
nascita e costituiva inevitabilmente un dolce ricordo dei suoi primi anni ; ma
egli vuol soprattutto che il trisavolo abbia l'aria del ìaudator temporis cu:tiì
Così soggiungo in via di confronto, vi è chi trova che l'elogio di San Francesco
nel Paradiso non sia così caldo e così schiettamente eloquente come parrebbe
che dovesse uscire dall'anima di Dante per un personaggio che gli doveva esser
sommamente simpatico; ebbene, dico io, gli è che l'elogio è messo sul labbro
di San Tommaso, e deve perciò avere un non so che di compassato, di mona-
stico, di scolastico, di eloquenza sacra, di Pange lingua! Così, nello stupendo
episodio di Stazio dei canti XXI e XXII del Purgatorio, dov'è tanta grazia e
tenerezza e lepore, i discorsi di Stazio peccano di prolissità ; ma chi abbia fa-
miliarità con la Tebaide può accorgersi prima o poi (o anche mai, giacche vedo
die nessuno ci ha finora badato) che in Stazio ombra il poeta deve aver oon-
traffatto la caratteristica prolissità di Stazio autore. Ma non è qui il luogo
di ripigliare quest'ordine di considerazioni sul quale ho tanto insistito altrove,
e torniamo in carreggiata.
106 FECE DUNQUE BENE FIRENZE A SBANDIRE DANTE?!!
semplioe sfogo d'un fuoruscito, le accese «parole del moralista Dante;
e non teme di commettere un crimine di lesa fiorentinità affermando
che, se la troppa povertà facilmente trascina alla colpa, la troppa
ficchezza è per altra via e in altro modo non meno male suada, e
che il prosperoso rigoglio d'una città, sia pure accomipagnato dal
magnifico fiorire delle arti, non è cosa del tutto lieta e ammirevole,
se majcc-hiata da crudeltà, da ingiustizie, da vendette feroci, da abi-
tuale turbolenza.
•
* *
Il contegno poi dei Neri di fronte ad Arrigo, che aguzzò tanto
l'ira del poeta, al Pistelli par degno d'ammirazione. In ciò non gli
manca un certo ajppoggio di storici autorevoli, quali appassionati
nemici dell'idea imperiale, cfuali vogliosi d'essere equanimi e dare a
quel che vi fu di accorto e di giusto nell'azione del governo fioren-
tino un rilievo non minore di quello che meritano le nobili illusioni
di Dante. E mi affretto a dire che su questo punto il Pistelli scrive
pagine eloquenti, e, salvo qualche trascurabile eccezione, o intera-
mente giuste, o giuste se il discorso si arresta là dove a lui piace
di arrestarlo. Egli ha senza dubbio ragione di dolersi che, forse
affascinati dal pensiero netto e dalle parole impetuose di Dante, gli
uomini colti non sogliono rendere piena giustizia a Firenze, in ciò
che il suo sforzo contro Arrigo ebbe di energico, di preveggente, di
tenace, di vittorioso. Sennonché il fascino non emana" solo dalle pa-
role di Dante, ma altresì da quello che affascinò Dante stesso, cioè
dal fatto che quel buono e bello imperatore discese in Italia con la
pili sincera intenzione di pacificare gli animi e col proposito di con-
tenersi ^me un padre amoroso. Orbene, che questo attraesse non
solo il classicista' memore dell'Impero Romano, e il pensatore che
sognava un tutore supremo della giustizia in terra, e il fuoruscito
che con l'aiuto di lui sperava rimpatriare, ma attraesse pure tante
città e popoli e signori, e quasi soltanto in Firenze non destasse la
menoma simpatia, anzi la più rabbiosa renitenza, è proprio una
cosa così bella in tutto e così magnanima come pare al nostro va-
lente critico? Lasciamo da parte le speranze utopistiche di Dante,
ma Siam noi sicuri che se Arrigo fosse riuscito nell'impresa l'Italia
non ne avrebbe avuto che danno? Qui davvero temo che si cada in
un anacronismo, considerando Arrigo coi suoi Tedeschi come un
imperatore berlinese o viennese con tutto il loro corteo di oppres-
sioni e d'altro. Il caso era molto diverso, né vuol dir poco che lo
stesso Petrarca in fatto di Sacro Romano Impero non si straniasse
molto dal concetto dantesco, quantunque vi rimanesse men fido, più
pronto a cedere ad altre seduzioni più concrete. Chi può dire che
cosa sarebbe potuto nascere dall'insediarsi in Roma, e lontano il
Papa in Provenza, un brav'uomo e bene intenzionato, col titolo di
Re dei Roman; ed Imperatore, e dal rinnovarsi cosi con qualche
divario il caso di Federico II? La storia, lo so, non si fa' con l'im-
maginazione, sicché non conviene asserire che Arrigo avrebbe av-
verata almeno una parte delle speranze di Dante; ma neanche è
lecito giurare che le avrebbe in tutto deluse: com'è d'altra parte
innegabile che quell'Italia che risultò dal fallimento di Arricro. cioè
FECE DUNQUE BENE FIRENZE A SBANDIRE DANTE?!! 107
dal trionfo dei Fiorentini, e che mise capo alle tante miserie dei due
secoli ulteriori e di tutta la nostra storia, non fu tal cosa da farci
benedire quel trionfo. Né essi trionfatori miravano molto lungi,
sicché si possano encomiare quali precursori magnanimi e non in-
consapevoli delle future rivincite del sentimento nazionale italiano
contro l'oppressione straniera. Se Dante, idealizzando troppo l'im-
pero di Roma antica e troppo fantasticando sulla reviviscenjza di
esso nel mondo, spingeva lo sguardo troppo in là nel passato e troppo
in qua nell'avvenire, in modo da travedere un po' sul presente, i
suoi nemici, chiaroveggenti rispetto al presente, riuscirono a vincere
il loro punto, ma non per questo si possono magnificare senz'altro i
loro motivi e i loro fini. Perchè s'inviperirono contro Arrigo? Perchè
questi, il missionario delle pacificazioni, voleva ch'ei facessero pace
con Arezzo, e perchè prescriveva ad ogni città di riaiprir le porte
ai fuorusciti ! Se per suscitargli contro, col danaro e coll'astuzia,
altri nemici, stuzzicavano in questi anche l'orgoglio italiano verso
i barbari, non è però supponibile che soprattutto un ombroso senti-
mento di dignità nazionale governasse l'anima di quei Fiorentini
che pochi anni innanzi avevano così abiettamente messa la città
loro in mano di un regio avventuriero di Francia, come non avevano
recalcitrato alle sopraffazioni d'un pontefice ambizioso e violento,
parso invece intollerabile all'Alighieri e ad altri Bianchi. In realtà,
nel loro superbo puntiglio, che li trasse anche a ingenerosamente
schernire l'improvvisa morte dell'Imperatore, essi mirarono ai loro
interessi commerciali e industriali che li avvincevano alla Francia
e al Reame angioino. E diipoi, nella non lunga durata della libertà
fiorentina, non balenò mai un pensiero alto, un impulso generoso
che trascendesse quella vita municipale e regionale. Solo il povero
Machiavelli si levò finalmente al più alto ideale patriottico nazio-
nale. L'aspro duello con Arrigo appagò dunque l'orgoglio e aumentò
la forza di Firenze, ma la posterità non lo ha idoleggiato perchè
non vi scorse mai né un motivo generoso, degno di gareggiare col
nobile proposito di Arrigo, né il fulgore della gloria militare, né
l'uso di mezzi sempre lodevoli, né effetti chiaramente e sicuramente
benefici per l'Italia. Anche dopo la calda apologia di cui discor-
riamo, l'ammirazione vera resterà sempre per Dante, che si lasciò
sedurre dalle aspirazioni magnanime d'un principe buono, dalla
speranza che questi pacificasse la discorde e sbattuta Italia, e, come
il Pistelli medesimo ampiamente riconosce, dall'ideale di un grande
passato, dall'intuito vago di un perenne miraggio dell'umanità.
Che il governo dei Neri non interrompesse il rigoglio di Firenze,
e riuscisse (lasciamo stare se con vantaggio o no dell'Italia) a di-
sfare un imperatore, è cosa certamente notevole, ma che non può
far dimenticare che lo scempio dei Bianchi fu scempio della parte
più moderata, alla quale appartenevano i cittadini migliori, e i più
di quelli che oggi soglion dirsi gl'intellettuali. Non vorrei errare per
insufficienza di dottrina storica, ma non credo che la parte dei Neri,
così ricca di gente cattiva e facinorosa, avesse nessuno da contrap-
porre, non dico a Dante, ma a Guido Cavalcanti, a Dino Compagni,
a Sennuccio del Bene, a ser Petracco e ad altri. Non si parla ohe di
Giovanni Villani, che però si mostra spesso così equanime e così
poco partigiano, da far venire la voglia di qualificarlo piuttosto
108 i-t'.t ui .NyLE BENE FIHEìNZE A oBANJiiit iMNIE?!!
grigio che nero. Ogni partito buono ha la sua zavorra, s'intende,
come ogni partito cattivo ha eccezioni onorevoli; ma, tutto sommato,
la rivoluzione in cui Dante fu tra^^olto, e il Compagni a stento si
salvò, fu un sormontare del partito più violento, più rozzo, più
senza scrupoli, più senza dignità cittadina, contro il partito più
savio, più colto, più mite, più buono. Dato e non concesso che
■potesse dirsi disgrazia e non colpa l'essere Dante stato vittima di
quella rivoluzione, la rivoluzione stessa fu colpa, ed è un'onta per
la città che i peggiori vi potessero schiacciare i migliori. Non vi
riuscirono senza complicità d'un tristo pontefice e d'uno straniero
crudele, né bisogna certo dimenticare giammai ohe in ogni città o
nazione molta parte degli uomini è più o meno irresponsabile, stru-
mento o vittima degli atti e delle passioni di quel numero più ri-
stretto d'uomini che fa la ipolitica d'un paese e ne ha il vero merito
o la vera colpa; ma la storia, ohe sottintende tutto questo, bada alla
somma degli avvenimenti e delJe loro cause, e dei fatti gloriosi o
malvagi la gloria o l'ignominia attribuisce al paese ove i fatti si
compirono. La cacciata feroce dei Bianchi è un'ignominia per la
Firenze di quegli anni, e una ignominia nell'ignominia è che tra.
quei cacciati ci fosse un Dante Alighieri.-
Né, aggiungiamo, è facile ammettere che quell'espulsione di
cittadini migliori sia stata senz'alcun danno per l'avvenire morale
della città. Nel suo componimento Poeti di parte bianca il Carducci
fa dire a un signore:
... O cieca
E diserta Firenze, or ohe ti resta
Altro che frati e bottegai!
Ma codesti son colori carducciani, e io mi guarderò bene di ra.-
sparli dal suo quadro; e solo ne colgo il destro per insistere sul
danno ohe Firenze dovette avere, se non per il suo sviluppo edilizio,
ma forse pel suo procedimento morale e letterario, dall'esser la Re-
pubblica divenuta sempre più cosa di banchieri, di mercanti, d'in-
dustriali, e dall'aver essa amputato da sé e Dante e virtualmente il
Petrarca ed altri ed altri più o men degni di far loro compagnia.
•
• *
In cambio di chieder conto a chi oggi ripeta quel che è il senti-
mento generale circa l'esilio di Dante, da Giovanni del Virgilio e
Cine da Pistoia fino ai giorni nostri, deve, chi voglia difender Fi-
renze, chieder lui venia di poterla difendere senza cJie subito gli si
gridi contro, e ha da circoscrivere la difesa a sfrondare l'offesa di
ciò che in essa vi fu o vi è d'iperbolico e di gonfio. « La colpa è »,
dice il Pistelli, «d'una lunga tradizione letteraria ohe arriva fino
al Carducci »; ma non so perchè ei si fermi al Carducci, quando la
tradizione sopravvive intatta a quel così alto poeta e critico, e co-
desta e antichità e perennità, codesta comunanza a non toscani ed a
tojicani è la più bella prova che un sentimento così universale e così
istintivo può venir bensì temperato con riflessioni equanimi, non
già soffocato con argomentazioni non tutte spassionate né scevre di
sottigliezza.
FECE DUNQUE BENE FIRENZE A SBANDIRE DANTE?!! 109
Non SO se di quella tradizione il' Pistelli abbia avuto presenti
al 'jjensiero due campioni per diverse ragioni particolarmente note-
voli; ad ogni modo mi piace di rifarli presenti a me e ai lettori.
L'uno è, intanto, Michelangelo Buonarroti, l'anima più dantesca
che sia nata in Firenze dopo Dante, e insieme uno dei cittadini più
devoti e più benefici alla patria, che egli s'adoprò a difendere contro
un tu tt' altro imperatore che quello onde il poeta era stato seguace.
In due sonetti, con quella sua ipotente durezza che diremmo quasi
alfieriana, egli scalpellò aspri versi contro Firenze. Non sono men
fieri nella forma a cui li ridusse il nipote omonimo, ma giova richia-
marli in quella che dagli autografi ristabilì Cesare Guasti (Firenze,
Le Monnier, 1863, pag. 153-5), e non nuoce trascrivere in nota la pa-
rafrasi che egli ne fece.
Dal ciel discese, e col mortai suo, poi
Che visto ebbe l'inferno giusto e '1 pio
Ritornò vivo a contemplare Dio,^
Per dar di tatto il vero lume a noi:
Lucente stella che co' raggi suoi
Fé' chiaro, a torto, el nido ove naqqu'io;
Ne sare '1 premio tutto '1 mondo rio:
Tu sol, che la creasti, esser quel puoi.
Di Dante dico, che mal conoeciute
Fur l'opre sue da quel popolo ingrato,
Che solo a' justi manca di salute.
Fuss'io pur lui! e' a tal fortuna nato,
Perl 'aspro esilio suo, con la virtute.
Dare' del mondo il più felice stato (1).
Quante dime si de' non si può dire,
Che troppo agli orbi il suo splendor s'accese;
Biasmar si può più '1 popol che l'offese,
Cai suo men pregio ogni maggior salire.
Q|uesto discese ai merti del falline
Per l'util nostro, e poi a Dio ascese:
E le porte che '1 ciel non gli contese.
La patria chiuse al suo giusto desire.
Ingrata, dico, e della sua fortuna
A suo danno nutrice; ond'è ben segno
Ch'a' più perfetti abbonda di più guai.
(1) Dal cielo discese (lo spirito di Dante); e poiché, «nito al corpo, ebbe
visitato l'Inferno dove punisce i rei la giustizia, e quello dove gastiga la Mise-
ricordia divina (cioè il Purgatorio), ritornò al Paradiso, essendo ancora in vita,
a contemplare Dio; affinchè potesse dare a noi ndtizia vera delle cose che sono
fuori di questa terra. E tal lume di scienza potè egli darci, essendo come una
splendida stella; la quale fece illustre quella patria di ciò immeritevole, in cui
pure io, Michelangelo, sono nato. Ma la -patria non era sufficiente a retribuirlo,
se tutto il mondo, malvagio com'è, non sarebbe stato a lui premio condegno : no,
tu solo, o Dio, che creasti quell'anima grande, potevi essere la sua retribuzione.
Io parlo di Dante, e dico che l'opere sue vennero mal oonosciute, o guiderdo-
nate, dall'ingrato popolo fiorentino, che a tutti dà favore, tranne i giusti. Ma,
ciò non di meno, io vorrei essere Dante; ne m'importerebbe di correre la sua
stessa fortuna ; perchè, quando avessi la sua virtù, non vorrei cambiare il suo
duro eeiglio col più felice stato del mondo.
Ilo FECE DUNQUE BENE FIRENZE A SBANDIRE DANTE?!!
Fra mille sue ragion sol ha quest'una:
So par non ebbe suo esilio indegno,
Simil uom né maggior non nacque mai (1).
L'altro campione è nientemeno che il decantato cronista dei Neri,
il Villani. Già nel capitolo necrologioo (IX, 136) aveva detto : « E '1
suo esilio... fu per cagione, che quando messer Carlo di Valois della
casa di Francia venne in Firenze l'anno 1301, e caccionne la parte
bianca,... il detto Dante era de maggiori governatori della nostra città
e di quella parte; bene che fosse guelfo, e però sanza altra colpa, colla
detta parte bianca fu cacciato e sbandito di Firenze ». Né, per non
parere un pan^irista dovendo accennare ai difetti dell'esule, diceva
altro se non : « Questo Dante per lo suo savere fu alquanto presun-
tuoso e schifo e isdegnoso, e quasi a guisa di fìlosafo malgrazioso
non bene sapea conversare co' laici ». Ma più tardi, giunto ai fatti
posteriori di quasi un quarto di secolo alla morte di Dante (XII, 44),
il caro uomo uscì in tali elogi che paiono incredibili da parte di un
Nero, perfino da parte di lui che tra i Neri era una mosca bianca!
Dopo aver biasimata l'ingratitudine di Firenze verso i Pazzi e i To-
singhi, e i Rossi, continuava: « Di (juesto torto fatto per gli reggenti
del popolo a' sopraddetti gentili uomini, con lo inzigamento degli
altri grandi per invidia, avemo fatta menzione per dare assemplo a
quelli che verranno, come riescono i servigi fatti allo ingrato popolo
di Firenze; e non è pure avvenuto a' detti, ma se noi ricogliamo le
ricordanze antiche di questa nostra cronica, intra gli altri notabili
uomini che feciono per lo comune si fu messer Farinata degli Uberti,
che guarentì Firenze che non fosse disfatta; e messer Giovanni Sol-
danieri, che fu capo alla difensione del popolo contra al conte Guido
Novello e agli altri ghibellini; e Giano della Bella, che fu comincia-
tore e fattore del secondo popolo; e messer Vieri de" Cerchi^ 'e Dante
Alighieri, e altri cari cittadini e guelfi, caporali e sostenitori di que-
sto popolo. I meriti e guiderdoni ricevuti, i detti e loro discendenti,
dal popolo, assai sono manifesti pieni di grandissimo vizio d'ingra-
titudine, e con grande offensione a loro e ai loro discendenti, sì d'e-
silio e disfazione de' loro beni e d'altri danni fatti loro per lo ingrato
popolo maligno : che disceso de' Romani e de' Fiesolani ab antiquo,
ancora, se leggiamo l'antiche storie de' nostri padri romani, non veg-
giamo tralignare». E quindi si volgeva a toccar dell'ingratitudine
(1) Non ai può dir mai di Dante quanto se ne dovrebbe, perchè il suo
splendore soverchiò tanto le viste da rimanerne ciechi: ed è più facile dir male
del popolo che gli feoe ingiuria che salire qualsivoglia gran dicitore a celebrare
degnamente il suo minor pregio. Egli discese nei luoghi dove si rimeritano con
giuste pene le colpe, per darcene utile ammaestramento, e p>oi salì fino a Dio:
e il cielo non isdegnò d'aprirgli le porte, mentre la patria gli chiuse le sue quan-
tunque egli desiderasse giustamente di rientrarvi. Patria ingrata, che a proprio
danno nutrisce le cagioni della sua sventura (cioè, del suo cadere da libertà
discorde in misera servitù): del qual suo prepararsi la rovina da se medesima
è argomento certo, che agli tiomini più eccellenti (come l'Alighieri) ella sia più
larga di guai. E fra le mille ragioni che si potrebbero addurre, dirò questa
sola: Che, se non vi fu mai esilio indegno come questo, neppure nacque mai
uomo pari o maggiore di Dante.
FECE DUNQUE BENE FIRENZE A SBANDIRE DANTE?!! Ili
del popolo romano per Camillo, per Scipione Africano, per Giulio
Cesare, e dopo altre malinconie concludeva scusandosi della digres-
sione, cui era tratto « per le opere degli straboccati \-izi de' nostri
rettori ». — Non rianderò io le davvero straboccate osservcizioni del-
rimbriani {Sltcdi danteschi, pagg. 110-13) volte a dar dell'ingenuo
al Villani, ma non negherò che nelle parole di questo si ravvisi
l'uomo che aveva familiari le opere di Dante, e l'ammiratore disposto
a guardarlo già al modo della posterità, ed altresì lo storico che pre-
sume di levarsi a riflessioni sintetiche con enfasi e pessimismo di
moralista. Sennonché, badiamo, egli era sempre un contemporaneo
di Dante, potè perfino averlo conosciuto (ancorché non si voglia dar
peso a sospette testimonianze che ciò affermano) ; c'era in lui un sen-
timento intimo e vivo delle cose e delle persone quale in nessun mo-
derno ci può mai essere. È ad ogni modo un bel caso il trovar Dante
così glorificato e così compassionato da chi apparteneva al partito
che lo esiliò. E allora, per aver un giudizio equanime sull'esilio del
poeta bianco non resta che ricorrere a Corso Donati o a Gante dei
Gabrielli! Ma, in verità, che peccato che in quella Firenze non ci
fosse qualche Villani di più e qualche villano di meno!
•
* •
Più volte, nello scorrer queste calde pagine del Pistelli, vien da
chiedersi : ma insomma vuol egli addirittura che Firenze facesse
bene a scacciare Dante o a non riammetterlo mai più? C'è di quelli
che lo scaccerebbero anche oggi se risorgesse? Ma lasciamo questa
seconda ipotesi, astratta e impossibile, giacché né Dante può risor-
gere, né oggi un Gomoine può esiliar nessuno; e non istiamo (juindi
neppure a replicare che, se oggi Firenze perfidiasse nel rimanere Fi-
renze, tutta Italia, per Dio, diverrebbe Ravenna! Restringiamoci
dunque alla nostra domanda più generica. Ebbene, ad essa sembra
aver risposto implicitamente, e nel modo più inaspettato, il Pistelli
con questa dedica messa in fronte all'opuscolo : « Ad Antonio Gar-
BASSO con l'augurio che lui gonfaloniere Firenze ritrovi la coscienza
e gli spiriti della Firenze di Dante ». La Firenze di Dante?! cioè quella
che Dante biasimò e da cui egli fu scacciato? Se l'augurio dicesse che
Firenze ritrovi la ricchezza dei tempi in che pai>a Bonifazio potè de-
finirla la fonte delVoro e Dante deplorava che producesse e span-
desse il maledetto fiorino, manco male. Firenze, come tutti i grandi
Comuni, ha dopo la guerra da smaltire "più milioni di disavanzo, e
per il gonfaloniere o sindaco sarebbe gran fortuna il ritorno alle
condizioni di sei secoli fa. Ma l'augurio è che Firenze ritrovi quella
coscienza e quegli spiriti, e allora sarebbe stato più semplice rievo-
care la Firenze dei tempi di Bonifazio Vili o di Clemente V, o che
so io, e non tirare in ballo il povero Dante. Meglio scordarsi di lui
nel momento che il desiderio era rivolto a una Firenze senza Dante
e contro Dante. Capisco, è il suo centenario, ed è spontanea la ten-
tazione di rendergli omaggio : ma un omaggio di tal fatta è illusorio,
è meramente acustico, e si direbbe quasi canzonatorio se non fosse
sdrucciolato dalla penna di un dantista. Intanto, poiché è venuto in
campo il sindaco di Firenze, soggiungo essermisi riferito che, quando
il 20 settembre, in Campidoglio, si udì il bel discorso di Corrado
112 FECE DUNQUE BENE FIRENZE A SBANDIRE DANTE?!!
Ricci, quegli, nelle poche parole che ebbe a pronunziare come rap-
presentante di Firenze, toccò del non intjiuslo esilio, sicché poi molti,
finita che fu la solennità, attorniarono il Ricci per domandargli se
d:awero il sindaco avesse pronunziate quelle parole o loro avessero
udito male. Or qui si vede ancor una volta quanto siano pericolosi
i paradossi, che, inducendo negli animi una persuasione nuova o
contraria al sentimento generale, li sospingono a sfidare un tal sen-
timento pur senza alcuna necessità e pur quando meno sarebbe il
caso di farlo. Che bisogno aveva l'illustre e valente scienziato subal-
pino, parlando in nome di Firenze, di toccare ad ogni costo quel
tasto doloroso dell'esilio, e che convenienza può avene scorta nel
toccarlo proprio lui in tal maniera da parer quasi di ribadire uflBcial-
mente la secolare condanna fiorentina che il mondo ha tanto con-
dannata? Ahimè, ben altrimenti parlava, come ognun può vedere
nel bel libro di Isidoro Del Lungo, Dell'esilio di Dante (pagg. 25,
196, 197), il Cionsiglio comunale di Firenze quando nel deliberare,
il 4 maggio 1864, che s'implorasse da Ravenna la restituzione delle
ceneri di Dante, incominciava : «< Considerando esser debito de' ne-
poti, il fare ammenda pei torti degli avi con sanarne, quanto è da\
essi, gli effetti; Considerando che il sacro deposito delle ossa di
Dante Alighieri in Ravenna è a un tempo stesso testimonianza e per-
petuazione dello iniquo esilio patito dal massimo Cittadino; Consi-
derando che la città di Firenze, nel disporsi a celebrare il sesto cen-
tenario di Dante, non può astenersi dal rinnovare il voto già antica-
mente espresso, e poi rimasto sempre vivo negli animi, di sanare
quel permanente effetto di un torto avito; Delibera, ecc.». Chi fa-
ceva da gonfaloniere, nel rimettere codesta deliberazione al sindaco
di Ravenna, dichiarandola conforme al sentimento dell'intera citta-
dinanza, non imitava per l'appunto la magnanima umiltà dei suoi
colleghi, e la temperava scrivendo come i Fiorentini volessero « ripa-
rare, più che ai torti dei loro maggiori, alla tristezza dei tempi nei
quali vissero ». Forse gli parve un dovere della sua carica smerzare
un poco le tinte, e dignitosamente insinuare una scusa pegli antenati;
ma infine non negava la tristezza e solo la ributtava sui tempi, e non
istonava dal coro di quelli in cui nome scriveva. Ora siamo arrivati
al non ingnusto esilio, cioè ad una frase che sembra rimbeccare per
dritta opposizione la parola accorata di Lui che diceva che per aver
troppo amata Firenze ei pativa inffiìisto esilio, e la formula extU iin-
meritìis che si trova in cima alle sue epistole. E quest'affronto ci vo-
leva proprio nella solennità secentenaria? e proprio in Campidoglio?
Ma l'esilio, bisogna dirlo, se amareggiò l'uomo, fece viepiù gi-
gantesco lo scrittore. Grande educatrice è la sventura; un grande raf-
finatore, non che degli animi, ma degl'ingegni, è, dentro certi limiti,
il dolore! Eppoi col peregrinare fuor della terra nativa gli si dilargò
l'orizzonte intellettuale, l'esperienza e degli vizi ìtmani e del valore,
la conoscenza dei varii costumi e dei diversi linguaggi d'Italia; vide
da vicino altre forme di democrazie o di signorie; conobbe altri paesi
e monunnenti, altri paesaggi e spettacoli di natura, più belli o più
grandiosi o più orridi che non quelli della leggiadra regione sua, ove
anche le cose sembrano parlar toscano, tanto soglion essere ordinate,
misurate, gentili. La lontananza dalla ristretta cerchia della patria
regionale giovò a Dante, come al Petrarca, al Boccaccio, e (già lo
FECE ^...^ .L BENE FIRENZE A SBANDIRE DANTE?!! 113
notò il Chiappelli) al Carducci; e come al più autoctono dei moderni
poeti toscani, al Giusti, giovò perfino una breve dimora a Milano,
donde tornò capace di scrivere il SanC Ambrogio. Sicuro, senza l'e-
siliò la Comedìa difficilmente sarebbe divenuta ciò che chiamiamo
la Divina Commedia; o chi sa se neppure sarebbe stato scritto un
poema con quel titolo. Abbiamo perciò a ringraziarne la crudeltà
della patria? L'Imbriani (op. cit., 113) scovò un poeta avellinese,
Francesco Murena, che il 1830 concludeva un non disprezzcibile so-
netto così:
« Che, di pleiade cassa e di consiglio,
Fiorenza ingrata, tu gravavi al fondo
D'c^ni miseria lo maggior tuo figlio!
Pur se a quel vasto immaginar profondo
Fu nerbo l'ira dell'ingiusto esiglio.
Di tanta colpa oggi t'assolve il mondo ».
Ma son modi di dire codesti, estri momentanei, non veri giu-
dizi, né stabili. Simili considerazioni possono attenuare un poco
l'acerbità del rancore o del rimorso, ma di assoluzione non è da par-
lare. Gli effetti buoni dell'esilio furono imprevisti, preterintenzio-
nali, e solo i cattivi furon voluti, evidenti, immediati, continui; e
imperdonabili. Imperdonabili nel senso che abbiam ripetutamente
detto e che non vorrei ripetere per la centesima volta. Nei princi-
pianti o negl'inesperti d'ogni maniera, l'idea che Firenze scacciò
Dante suscita il fantasma d'una città intera in cui nobili e plebei,
uomini e donne, giovani e vecchi, si levassero a gridare dalli dalli,
e contro a un uomo che già avesse i meriti che aveva il giorno della
sua morte : come se insomma Torino avesse a quel modo scacciato
Camillo Cavour nel maggio 1861, o Milano Alessandro Manzoni nel
maggio del 1873. Anche ad uomini non semplici può lì per lì, alla
stordita, presentarsi in confuso un'immaginazione pressappoco si-
mile. Ma essa non è che una i)arodia della realtà, una tragica cari-
catura. Sennonché una parodia in senso opposto è un concepire la
realtà in modo da rappresentarsi l'esilio di quel grand'uomo come
una pietra caduta in capo ad un ignoto in mezzo ad una folla tumul-
tuante. Il fatto storico, purgato delle iperboli compassionevoli e fan-
tastiche, e d'altra f«.rte non schiacciato dalle allegazioni in prò di
Firenze, si riduce a questo, che però non è poco : i cittadini peggiori
sopraffecero i migliori, e tra essi l'ottimo; e ciò con le più velenose
intenzioni, e con le più violente maniere. E verso quell'ottimo perfi-
diarono fino all'ultimo, e fin oltre la morte; e ci vollero altri vent'anni
perché fossero abilitati i figli a ricuperare i beni del padre, qualifi-
cato sempre coi titoli regalatigli da Gante dei Gabrielli. Solo nel 1350
i Capitani della Compagnia di Orsanmichele commettevano al Boc-
caccio, che si recava a Ravenna, di consegnar dieci fiorini d'oro a
suor Beatrice in quel monastero di S. Stefano dell'Uliva. Tali largi-
rioni soleva quell'opera pia fare, tra le altre, a religiosi poveri; e que-
sta sarà stata suggerita dal Boccaccio medesimo. Nonostante ciò, e
benché non si tratti d'uno slancio affettuoso della città o dei suoi reg-
gitori, ci riesce comimovente che da Firenze partisse finalmente un
sesmo di devozione, sia pure indiretto, per la memoria del poeta, e
vòlto aa quella Ravenna dov'egli giaceva da ventinov'anni, e destinato
8 VoL OCXVII, «erte VI — 16 marzo 1922.
114 FECE DUNQUE BENE FIRENZE A SBANDIRE DANTE?!!
a quella figliuola che con senso teneramente poetico aveva monacai)
dosi assunto il nome della donna spiritualmente amata e cantata dui
padre, e che intennediario dell'elemosina fosse il Boccaccio. Da ul-
timo, nell'agosto 1373, a petizione dei cittadini chiedenti la esposi
zdone morale e retorica del poema, il Comune ne instituì la pub
blica lettura, affidandola al Boccaccio, che prese a farla in santo St<.
fano di Badia, e pur troppo ci morì sopra. Sempre il buon Boccac-
cio in campo a rendere e far rendere onore al grande esule; ma son
pure in campo una buona volta i cittadini e i reggitori stessi della
città, e la solenne lettura è, secondo l'uso d'allora per le gravi adu-
nanze pubbliche anche non pie, in una chiesa, forse altresì per amor
dell'indole morale e religiosa del poema. E così dopo più che mezzo
secolo fu infine amnistiato Dante, o perlomeno ei Dante!
*
Vorrei giungere subito alla conclusione, nua mi convien prima
rifarmi un momento al mio vecchio colloquio fiorentino da cui ho
preso le mosse. Là io consentii che Dante avesse qualche difetto di
temperamento, di quelli che più nocciono nel mondo e più spiegano
il naufragio d'un grande carattere. Oggi, fuor delle strette d'una ra-
pida polemica a tu per tu, e dopo tant'anni di più mature riflessioni,
sarei meno corrivo ad ammettere la gravità di quei difetti. Senza
dubbio, l'irascibilità se l'attribuisce egli stesso, per il modo onde s'at-
teggia nel Purgatorio col partecipare alla pena degl'irosi; il Boc-
caccio, con espressioni di quelle sue un po' strabocchevoli, lo rap-
presenta come intollerantissimo, in Romagna, nelle discussioni po-
litiche. Or senza negare quel che anche le molte sfuriate del poema
e delle altre opere dimostrano, giova che si consideri quanti e quanti
sentimenti gentili, delicati, teneri, sereni soprabbondino in tutte le
opere sue, e quanto buon umore anche e comicità e fine arguzia (ne-
gata solo da quelli che d'arguzia non s'intendono), e arguzia adoprata
pure contro sé stesso, che è il più bel segno d'un'indole ilare e bo-
naria: cose tutte ohe smentiscono il concetto di un Dante sempre più
o meno arcigno, che fosse tutt'al più un burbero benefico, capacis-
simo bensì di sentimenti dolci nel suo intimo, ma tutto punte al di
fuori. E poiché il caso mi ci porta, noto un particolare significativo.
Quel passo del 'Convivio (IV, 14) ove sdegnandosi contro i/n'altrui
opinione esce a dire: fispondere si vorrebbe non con le parole ma col
coltello a tanta bestialitade, è spesso addotto, talora lepidamente,
qual massimo segno d'iracondia; ma niuno credo abbia portala l'at-
tenzione sulla natura dell'opinione che lì è causa dello sdegno. Non
si tratta d'un errore di geometria o di loica, ma egli insorge contro
quelli che per chiamar nobile un oggetto o un animale esigono che
sia buono, e per dir nobile un uomo dicon che la bontà non c'entri,
e basti si sia dimenticata la bassa condizione degli antenati. La vel-
leità dunque di risponder con una coltellata moveva da quell'acuta
ribellione del suo senso morale contro chi nel definire la nobiltà
umana non richiedeva la bontà attuale. L'impeto, incruento, non è
senza una ragione profonda, non è segno d'una abituale, sia pure in-
nocua, bruschezza di maniere. Ed è notevole che mentre nel Pvr-
gatorio, ripeto, fa in modo di partecipare alla pena degl'irosi, e dice
FECE DUNQUE BENE FIRENZE A SBANDIRE DANTE?!! 115
che a\Tà poco bisogno di purgarsi dell'invidia, ma piuttosto della
superbia, nel pantano dello Stig"e invece mette un Eibisso tra sé e gli
orgog'liosi-invidiosi, come Filippo Argenti e i suoi compagni, e si fa
abbracciare ed esaltare da Virgilio quale alma sdegnosa, come per
protestare solennemente che l'inclinazione sua allo sdegno e -al di-
sdegno ha radice in sentimenti nobili ed è il preciso opposto della
fastosità superba e sprezzante degli uomini mondani e trivialmente
iracondi di ira mala. La superbia che egli si ascrive in Purgatorio,
certo di carattere veniale, è quel po' di vanagloria che difficilmente
l'uomo di studio riesce a schivare, e la ritrosìa ad umiliarsi a chieder
favori, che nell'esilio dovè dargli tanta tortura. Del rimanente, tutta
l'affettività buona e ingenua della Yita Nuova, rammirazione entu-
siastica e tenera pei grandi scrittori, l'amicizia deferente e cordiale
per Guido Cavalcanti e per Gino, il rimorso vivissimo tutto spon-
taneo per colpe contro le sue idealità, ci rivelano un'anima, benché
altera, non altezzosa. La sventura lo inasprì ma non lo guastò, e l'ar-
dore del bene fu l'ispiratore delle sue collere come delle sue dol-
cezze. Ovunque non fu buon vino, fu buon aceto; così mi diceva un
giorno il D'Ancona, convenendo meco nel condannare certi dubbii.
Sarebbe fatuità creder Dante infallibile ed impeccabile, ma un'as-
serzione peggio che gratuita sarebbe che alla superfìcie egli fosse
così scabro, da potersi con ciò spiegare tutta o quasi tutta la sua
jx)ca fortuna.
Quanto all'animo di lui rispetto alla forma di governo e alla po-
litica del suo Gomune, si può dir che vi fosse una naturale antipatia,
benché latente fino agli anni della catastrofe. Aristocratico per finezza
d'ingegno e d'animo e per coltura, e contento d'appartenere a una
famiglia antica dove c'era stato anche un cavaliere, si era pure ac-
conciato, guelfo per tradizione domestica, a servire il guelfo Co-
mune, con le armi e nelle magistrature civili. Sennonché, già nel 1294
non gli sarebbe, pare, dispiaciuto di seguire altrove un principe.
Questo viene, insomma, a significare ciò che egli si fa dire da Carlo
Martello :
Assai m'amasti, e avesti ben onde,
Chèj s'io fossi giù stato, io ti moetraya
Di mio amor più oHre che le fronde.
Non di largizioni poteva trattarsi, cosa volgare per un Dante e per
il paradisiaco incontro, ma doveva esserci stato almeno un vago ac-
cordo per il quale il giovane poeta sarebbe andato in Provenza o a
Napoli in corte del giovane principe, salito che fosse al trono o anche
prima. Codesta anticipata disposizione a quella vita di uomo di
corte, che poi nell'esilio ebbe più volte a fare o sperare, qualcosa
significa; quantunque sia da riconoscere che allora i Fiorentini vo-
lentieri cercavan fortuna altrove, e in tal numero da poter Boni-
fazio VII! definirli il quinto elemento dell'universo, senza che ciò
possa interpretarsi come un desiderio che tutti e ciascuno avessero
di fuggire lo spettacolo della vita pubblica fiorentina. Ma insomma
quel che fu costretto a fare alla men peggio nell'esilio era proprio la
sua vocazione: vocazione nell'ordine pratico, s'intende, oltre quella
ideale di scrittore. E ciò si scorge ben chiaramente dal magnificare
che fa nel poema e nelle prose la liberalità di certi principi della pas-
116 FECE DUNQUE BENE FIRENZE A SBANDIRE DANTE?!!
sala generazione e la loro smania di circondarsi d'uomini sapienti
e virtuosi; dal flagellare l'avarizia e la grossolanità dei più dei prin-
cipi contemporanei; dal celebrare con quEisi eccesso di gratitudine
quelli che, come i Malaspina e pochi altri, gli si fossero mostrati
cordiali. Si vede che quello sarebbe stato il suo mondo, purché non
fosse, come a lui pareva, degenerato. E di quelle istituzioni fiorenti-
nesche delle quali era stato spettatore, partecipe e vittima, egli era
stomacato. I disastri toccati a lui e alla sua parte, gli avevano dato
incentivo a riflettere sopra di quelle, ma il dolore provato lo aveva
tratto a riflessioni disinteressate, degne d'un pensatore per natura
sua schivo del disordine, della irrequietezza, volubilità, ingiustizia,
violenza, che s'accompagnavano a quella forma di governo. Come
Socrate non sapeva darsi pace che, mentre nessuno saflBderebbe ad
un barcaiuolo inesperto, la nave dello Stato avesse a esser guidata
dal primo venuto; così a Dante pareva assurdo il modo di governarsi
della sua città : alla quale avrebbe voluto tornare per necessità do-
mestiche e per l'affetto che stringe l'uomo al suolo nativo, ma non
certo per cacciarsi in quella trista politica, e trovarsi di nuovo agnello
tra i lupi. Significativo è, fra tanti altri, quel passo del Convivio
(IV, 27), ove dice che nella vecchiezza l'anima nobile è prudente,
giusta, larga, affabile, e che per la giustizia appunto il reggimento
delle città fu commesso ai vecchi, al Senato; e soggiunge : « 0 mi-
sera, misera patria mia! quanta pietà mi stringe per te, qual volta
leggo, qual volta scrivo cosa che a reggimento civile abbia rispetto! ».
In quella democrazia, ove poco posto poteva trovare il rispetto al
valore personale, all'esperienza dell'età provetta e ad ogni altro me-
rito di tal genera, egli ravvisava la realtà più diametralmente op-
posta al proprio ideale (1).
(1) Come un aegno di prosunzione alcuni rammentano il Giwsti son duo ma
non vi sono intesi {Inf., VI, 73) che egli si fa dire da Ciacco, cui ha domandato
se iu Firenze alcun v'è giusto (ibid., 62). Ma quello è uno dei versi più fraintesi
del poema : nel suo spirito, dico, non nel suo senso materiale. Ab antico, presosi
il duo alla lettera, ci s'è vista una lusinghiera allusione che il poeta, per boooa
d'un personaggio espertissimo del mondo fiorentino, facesse anzitutto a sé me-
desimo, e si è quasi da tutti cercato chi fosse l'altro che nell'allusione avesse
l'onore d'essergli accoppiato; e, com'è naturale, si pensò subito al Cavalcanti
principalmente, o al più al Compagni, o ad altri. Ingenue tali <lesignazioni, per
ragioni speciali, accennate da altri pel Cavalcanti, e io potrei indicarne pel
Compagni, se ne valesse la pena; ma l'ingenuità maggiore è di aver creduto
che qui ci fosse una veiata coppia di nomi da svelare, laddove il duo simboleg-
gia senz'altro un numero indeterminato. Posto in oonnessione con l'alcun della
domanda, il quale nell'uso d'allora poteva significare anche semplicemente «no,
viene a dire non altro che più d'uno. Non s'è badato che qui Dante pensava al
suo Geremia, dove esordisoe (cap. V): ((Girate per le vie di Gerusalemme, e
guardate, e considerate e cercate per le sue piazze, se trovate un uomo che fac-
cia quello che è giusto, e che cerchi di esser fedele, ed io farò a lei misericor-
dia». Il quale Geremia pensava alla sua volta al Genesi (XVIII, 23 segg.),
dove Abramo, tentando ottener da Dio che non stermini Sodoma e non isperda
il giusto per il peccatore, gli chiede se perdonerebbe alla città ave si trovaasero
cinquanta giusti, e Dio glielo concede, e lui ne approfitta per discendere a qua-
rantacinque e poi a quaranta, a trenta, a venti, a dieci, e Dio fin li seguita a
concedere ; ma invano, poiché non vi si trovò che un giusto solo, e Sodoma fu
distrutta! Con Geremia il Signoro si oontentenebbe^ notò 6. Girolamo, di un
FECE DUNQUE BENE FIRENZE A SBANDIRE DANTE?!! 117
• •
L'apologista di Firenze conclude con queste parole : « Lecito è
affermare che l'unica creazione di Dio degna desser pvaragonata a
Dante fu ed è proprio la sua Finenze. Nessun'altra città del mondo
era altrettanto degna d'un figliuolo come Dante ».
Parole grosse, molto grosse! Tuttavia a me in fondo paiono vere.
Solamente, confesso che, se io fossi più o men fiorentino, lascerei che
le dicessero Italiani d'cdtre contrade : per esempio, nativi della città
in cui furono scritti i Promessi Sposi, ed eretto quel duomo che fu
battezzato l'ottava maraviglia. Ma tiriamo via; anzi confessiamo
un'altra cosa : è un così bel campanile quello di Giotto, che bisogna
tollerare aequto arùmo un po' di campanilismo in chi sia nato o vis-
suto all'ombra di quello. Piuttosto, chi volesse analizzare il con-
cetto fondamentale del brano surriferito pK>trebbe osservare che, es-
sendo Dante il primo e più alto di tutti, ed unica la sua grandezza^
come l'autore stesso dice, ed essendo perciò della gloria di Firenze
parte grandissima appunto d'aver generato Dante, quelle parole so-
lenni vengono dunque in sostanza a dire, che solo la città che fu
capace perfino di generare un Dante era degna di generare Dante! E
messa la cosa in tali termini, Dante viene ad essere quel che in un
bilancio si chiama una partita di giro. Ma tiriEimo via anche su que-
sta possibile critica, che avrebbe un tanto di giusto e di serio, ma ha
troppo l'aria d'essere una sofisticheria e uno scherzo; e senza piìi pe-
danteggiare guardiamo francamente la cosa in sé stessa. Sicuro, per
l'acume dell'intelletto, per la finezza del gusto, per l'arguzia, per il
senso dell'arte, per la plasticità dell'immaginativa, per la felice vena
idiomatica e stilistica, e per altri rispetti ancora, non si può imma-
ginare una madre più degna di quel figlio, un figlio più somigliante
solo gitisto. Il poeta^ dunque, per cui Firenze è paragonabile a quelle bibliche
città incorse nell'ira del Signore, chiede geremiacament« a Ciacco se v'è almeno
un giusto in Firenze, e Ciacco risponde che non uno ma parecchi ve ne sono,
sennonché restano inascoltati. Strano sarebbe che in tutta intera una città, sia
pure limitandosi alle così dette classi dirigenti, si Toleese cirooscrivere la retti-
tudine a due sole determinate |>ersone! A quegl' interpreti poi i quali riconoscono
come il duo valga un numero indeterminato, ma s'accordano nel ripetere che
secondo Ciacco i giusti sono dunque in Firenze ben pochi, io dico che invece
non bisogna lasciarsi trasportare dal solito uso che oggi facciamo del due per
indicare una quantità minima (come in far d/ue passi, non vai due soldi, ha^ta
un paio di volte, e sim.), bensì aver l'occhio sempre al contesto, al Se alcun
v'è giusto, e insomma che Ciacco vuol anzi dire non esser poi tanto pochi i
giusti, ma non aver voce in capitolo. E si noti questo ma, che può avere un
valore pieno e opportuno soltanto nel caso che Ciacco dica che di giusti ve n'è
in Firenze una certa quantità, poiché se dicesse che ve n'è proprio due o pres-
sappoco, sarebbe troppo naturale che in tutta una città non trovassero ascolto,
e la congiunzione avversativa non sarebbe troppo a suo luogo. Che poi Dante si
reputasse uno di quei giusti che in Firenze non mancavano, e comprendesse
anche sé stesso nel generico accenno di Ciacco, diavol fallo! ; ma chi ih casi
simili non include anche sé? e chi può tacciar di superbia Dante perete credesse
sé giusto? Il cantore della rettitudine chiamò sé altrove, per lasciare il posto di
poeta dell'amore a Oino, e per dar risalto alle proprie canzoni morali; © anche
li non v'é che ridire.
118 FECE DUNQUE BENE FIRENZE A SBANDIRE DANTE?!!
a quella madre. Ma per altre virtù, come l'adorazione della giustizia,
la passione del bene, la profondità del sentimento, il rispetto filiale
ai vecchi, la deferenza agli uomini superiori per ingegno o per virtù,
la tendenza speculativa, si può dire che egli avrebbe potuto benis-
simo nascere, e forse anche meglio, altrove. Gli uomini grandi so-
glion esser in parte i più tipici rappresentanti del natio loco, ma in
parte aver qualità individuali, che li avvicinano più ad altre stirpi;
e non è punto il caso di dire che di codesto fatto non sia anche Dante
un esempio cospicuo, e pdr entrambi i rispetti. Certo che dopo il
gran triumvirato la letteratura toscana non brillò molto per valore
morale. Senza dimentic^ire il Passavanti e gli altri scrittori pii, né
quelli essenzialmente morali come il Palmieri e l'Alberti, né altri
autori dabbene, lo storico non può non provare una specie di avvi-
limento a vedere la divina lingua toscana sprecata in molte futilità,
aridità, leggerezze. Nulla di simile, per molti e molti décennii, a
quella letteratura nobilmente civile di cui diede p)oi saggio, poniamo,
il Piemonte dall'Alfieri al Balbo, la Lombardia dai Verri e dal Par
rini al Manzoni. E quando si viene al Machiavelli e al Guicciardini,
c'è da ammirare il realismo politico e la grande perspicacia, ma c'è
da sgomentarsi della crudezza di quel realismo, eccetto che il Ma-
chiavelli ci allarga il cuore col suo ardente patriottismo unitario.
Conviene, è vero, tener conto della differenza dei tempi, e di quella
delle varie influenze europee, ma diciamo per intenderci alla meglio.
E perché poi questo non sia un frantenderci, mi preme dir su-
bito che non v'è in codeste mie riserve la menoma intenzione d'irri-
verenza verso la città e la regione ove Dante nacque, o di ripicco
verso chi la difende con soverchio calore. Quella irriverenza sarebbe
SEicrilega da parte di ogni Italiano, e da, parte mia anche contradit-
toria, assurda. Nessuna delle genti italiane ha contribuito alla for-
mazione, allo sviluppo, all'innalzamento dell'intelletto nazionale,
quanto la Toscana. In ciò essa supera, e di gran lunga, tutte le altre;
e a nessuna si deve da queste altrettanta gratitudine : anche perché
di solito si guarda bene dal rinfacciare alle stirpi sorelle il gran de-
bito che hanno verso di lei. E quanto a me, la Toscana fu come la
terra promessa della màa adolescenza, e la lontananza in cui dopo
ne son dovuto stare mi'é stata causa di una perenne nostalgia. Credo
che quei pochi che hanno letto ciò che io sono venuto in tanti anni
pubblicando, non che quei non pochi amici che ho in riva all'Amo,
possano far fede della gran veracità del sentimento che qui ho
espresso. E una cosa stavo per dimenticare che m'affretto a dire, o
meglio a ripetere, poiché m'avvenne anni sono d'insistervi: la rico-
noscenza cioè che noi tutti d'altre regioni dobbiamo avere per il
dolce rifugio che nello scorso secolo i patrioti italiani, sbanditi dagli
altri Stati e staterelli aspramente governati, trovarono nel cuore stesso
della Penisola, in grazia della mitezza del Governo granducale, che
a conti fatti vuol dire della gentilezza che era propria del popolo to-
scano. Se dunque ho arrischiata qualche considerazione che può
parer pungente o maliziosa, è solo perché la sincerità del discorso lo
richiedeva, e come ai nobili personaggi così alle nobili stirpi ogni
riguardo è dovuto fuorché l'adulazione. E francamente concludo : sì,
Firenze fu degna, degmissima, e miagari la sola degna, di generare
quell'incomiparabile poeta ed artista; ma non si mostrò degna di ri-
FECE DUNQUE BENE FIRENZE A SBANDIRE DANTE?!! 119
Cattarlo. È un fatto la prima cosa, è un fatto la seconda. Se vi piace
inorgoglire, ben legittimamente, del primo fatto, rassegnatevi a ri-
pensare con la debita umiltà al secondo! Altrimenti c'è il caso di
sentir cavillare in senso opposto : che Tuomo nasce qua o là per mero
caso, che il grand'uomo è un'eccezione dappertutto, che da Firenze
un solo Dante p'è venuto, che quando un uomo è concepito dalla ma-
dre la città non ne sa nulla, non vi partecipa colla sua volontà, e
non c'è merito dove non c'è volontà. Un groviglio paradossale, s'in-
tende, ma. che pure, benché, o forse perchè tale, troverebbe chi lo
pigliasse sul serio.
Oltre a tutto il resto c'è una considerazione da fare. La tradizio-
nale riprovazione di certi vecchi peccati, come di famosi errori o
delitti giudiziarii, ha un valore amnronitivo, parenetico; e può riu-
scire ad un fine pratico. Certo, sarebbe ingenuo illudersi che un tal
fine sia facile a ottenere, e che la storia sia a tal s^no maestra della
vita da bastare il ricordo dei delitti antichi a impedire del tutto i
nuovi; come d'altra parte sarebbe una strana ingiustizia che per non
perdere i buoni effetti che possan derivare dal pentimento per un'an-
tica crudeltà si volessero soffocare delle prove lampanti che per ina-
spettata scoperta mostrassero l'insussistenza di quella crudeltà. Ma
se tutto si riduce a stiracchiare quel che tutti sanno, a buttar cenere
sul fuoco, a cercar di attutire la schietta impressione che da secoli
desta in ciascun animo un'enormità come quella d'un gran cittadino
scacciato dalla patria di cui egli è la gloria più fulgida, codesto non
è che appagare un malinteso amor proprio retroattivo, ed è rinun-
ziare a un ammaestramento insostituibile, ad un memento formida-
bile. Il quale insieme con gli altri simili ha giovato e giova entro
certi limiti a mitigare i costumi politici. Anche la condanna di So-
crate è in parte spiegabile, e a spiegarla ci aiutano proprio le apo-
logie stesse di Platone e di Senofonte, ma che perciò? La morte di
quel giusto è un'eterna macchia, e la più grossa, della democrazia
ateniese. Tutte cotali macchie son come un'eredità dolorosa della
civiltà umana, e tutte insieme le inculcano d'esser nell'avvenire guar-
dinga.
E qui mi soccorre in buon punto il suffragio d'uno statista no-
bilissimo, che nel culto di Dante trovò sempre ispirazione e conforto,
Sidney Sennino; il quale, chiudendo la sua conferenza sul VI del
Paradiso^ diceva: «Ed al sentimento, che proviamo tutti, di intensa
gratitudine verso chi ha arricchito di tanta vera e purissima gloria il
nome d'Italia, verso chi è stato così efficiente strumento del risorgi-
mento nazionale, e ci ha dati, a tutti noi, tanti elementi di godimento
dello spirito e di maggior dignità della vita, si mescola pure, se ben
scrutiamo il fondo del nostro cuore, un senso come di rimorso, quasi
un desiderio di espiazione, per quella parte di comune responsabi-
lità che pur ricade sui figli per le colpe dei padri, dell'ingiusto e cru-
dele trattamento che il più grande degl'Italiani ebbe a soffrire di
mano dei suoi concittadini » . « Non vi è morale più commovente di
cfuesta», esclama il poeta Lowel, «che il riconoscimento, per parte
dei suoi contemporanei, di una natura così streiordinariamente do-
tata e così degna, si debba riassumere nel bando di Firenze: Igne
comburaluT sic quod inoriatur: sia arso col fuoco, così che muoia».
Questa morale non s'indirizza a voi, gentili signore, che della cosa
120
FECE DUNQUE BENE FIRENZE A SBANDIRE DANTE?!!
pubblica non vi occupate, ma volge il taglio a noi, uomini politici,
traducendosi, per tutti i tempi, in un solenne ammonimento di tol-
leranza e di carità » ,
Nell'inaugurare il racconto delle peregringizioni di Dante disse
il Balbo: «L'Italia è ab antico la terra degli esilii ». E già il Man-
zoni diciassettenne, a Francesco Lomonaco, un meridionale che pei
fatti del '99 era emigrato nella Cisalpina e vi aveva pubblicato una
Vita di Dante, indirizzava quel sonetto così bello nel tutto insieme,
così incisivo nelle terzine, così potente nella chiusa, il quale inco-
mincia :
Come il divo Alighier l'ingrata Flora
Errar fea per oivil rabbia sanguigna...
Eìsule egregio narri, e tu pur ara
Duro esempio ne dai...
E termina:
Tal premj, Italia, i tuoi migliori, e poi
Che prò se piangi, e '1 cener freddo adori,
E al nome voto onor divini fai?
Sì da' barbari oppressa opprimi i tuoi,
E ognor tuoi danni e tue oolpe deplori,
Pentita sempre e non cangiata mai.
E dopo centovent'anni non si può dire che l'apostrofe del precoce
sapiente sia divenuta del tutto inopportuna, mero ricordo di tempi
andati, senz'alcun riscontro nella realtà odierna. Sennonché i tanti
pentimenti accumulatisi nella nostra storia qualche cangiamento
han pure portato; e almeno le ingiustizie traducentisi in atti di fe-
rocia ovvero indefinitamente protratte, sono oramai fuori d'uso.
Ma non perchè in qualche modo è cangiata, deve la patria nostra
cessare d'esser pentita dielle colpe antiche; tra le quali è sempre delle
più orrende quella per cui dovè ramingare povero e dog"lioso per le
terre d^Italia il gran padre dell'Italia futura!
Francesco d tniiiio.
IL DIO DEI VIVENTI
ROMANZO
Durante la notte la sua mano si gonfiò, prese una forma strana,
quasi ridicola.
— Sembra la mano di un prete grasso, — egli pensò, accostan-
dola all'altra ch'era rimasta magra e sottile. — Adesso le donne!
Non gli doleva e quindi non se ne dava pensiero. Ricordava
che poco tempo prima una scheggia gli aveva fatto gonfiare un piede;
e da ragazzo era abituato a continui guai causati da spine, da sassi,
da chiodi; più di una volta aveva ricevuto calci di cavallo senza
risentirne gran danno.
Quella mano gonfia gli dava solo un ipo' di noia per l'inquietu-
dine che ne provava la madre; bisognava cercare di nascondergliela;
e anche alla serva.
Sebbene fosse appena giorno, le donne èrano già alzate, e si
sentiva il fruscio della scopa e il mormorio del macinino del caffè.
Belila che dormiva in una vasta stanza terrena, con la finestra verso
il cortile, aprì le imposte, vide la serva che spazzava sotto la tettoia
davanti alla stalla.
— Rosa, — le gridò — comincia a mettere la sella al puledro;
voglio subito andare fuori, con questa bella giornata.
Nella stalla i cavalli scalpitavano, quasi chiedendo anch'essi di
andare presto fuori, con quella bella giornata; ma la ragazza con-
tinuò la sua faccenda come se non avesse sentito.
Come fare per nascondere la mano? pensava Belila; e ricordava
di aver tante volte saltato quella finestra per uscir fuori di casa di
nascosto della madre.
— Rosa, sei sorda? Hai sentito o no? Puoi preparare la bisaccia
col pane per due pasti.
La ragazza lo guardò di laggiù, dalla penombra della tettoia;
ed egli ebbe l'impressione che ella indovinases il suo ;pensiero.
Anche la ma'dre uscì nel cortile, col grembiale colmo di orzo che
cominciò a spargere alle galline; i suoi occhi un po' gonfi si rivol-
gevano alla finestra.
— Belila, e la mano?
— Ma niente, — egli disse, senza però mostrare la mano. —
Dite a Rosa che selli il puledro.
— Il puledro no. il puledro no, figlio mio; lascialo a casa : prendi
la cavalla.
Egli accondiscese subito; e Rosa andò a staccare la mansueta
122 IL DIO DEI VIVENTI
cavalla che serviva anche per le donne quando andavano in cam-
pagna.
— Il babbo non s'è ancora alzato? — domandò Bellia, sempre
dalla finestra.
— Adesso porterò su un po' d'acqua tiepida e gli laverò i piedi,
— disse la madre che usava fare quasi ogni giorno questo lavacro;
e lo faceva con affetto, anzi con una specie di religione: perchè
l'uomo cammina per il bene della famiglia.
— Adesso lei va su, e Rosa torna a scopare — pensò Bellia, —
ed io me la svigno.
Aspettò un momento e sentì la madre salire pesantemente le
scale, ch'erano attigue alla sua camera; allora usci, attraversò fur-
tivo il corridoio, entrò nella cucina.
E subito come un fantasma vide davanti a sé zia Annia; e gli
occhi vivi di lei si fermarono sulla mano gonfia.
— Che hai fatto a quella mano?
Il suo accento era di rimprovero, come s'egli si fosse fatto male
per colpa sua.
— Ma niente, — egli disse, nascondendo il dorso della mano
contro il fianco, e tentò di uscire nel cortile.
La vecchia lo seguiva come un'ombra.
— Fammi vedere quella mano, Bellia. Bada che è brutta.
Anche la serva sentì; sporse il viso aguzzo. Era finita: bisognava
abbandonarsi alle donne. E d'altronde egli ne provò un certo sol-
lievo, perchè si accorse che in fondo anche a lui la cosa dava pensiero.
— Eccovi la mano, — disse rassegnato. — Fatemi fare il ballo
di scongiuro come i>er il morso della tarantola.
La vecchia s'asciugò le mani rugose col grembiale, prima di
prendere quella di lui: e la guardò, la volse, la rivolse, toccò con
la punta dell'indice i segni rossicci della morsicatura che erano sulla
parte carnosa verso il pollice : poi prèmette il dito qua e là sul dorso
gonfio che cedeva cdla pressione e tosto si risollevava.
— Ti duole?
— Macché!
— La mano è brutta, — ripetè la vecchia. — Sta a casa, Bellia,
non sforzarla, le faremo un bagno d'aceto.
Quando la madre ridiscese, col catino dove aveva lavato i piedi
al marito, vide zia Annia che a sua volta lavava con una pezzuola
la nnano di Bellia. E depose subito spaventata il catino, mentre il
figlio volgeva il viso ridente e diceva:
— È forse la prima volta che mi si lavano le zampeff
Egli dunque rimase a casa, anche perchè non sapeva dove an-
dare. Sebbene di natura allegra e spensierata, non aveva amici, non
pensava ancora all'amore, non aveva vizi né pretese, gli piaceva solo
chiacchierare e scherzare, specialmente con le donne, ed era un po'
vanitoso.
Do^o la morte dello zio, la certezza di esser l'unico erede di
tutta la proprietà Barcai, gli riemijDiva il cuore di gioia, non perchè
fosse avido di danaro o pensasse di vivere senza lavorare, ma per la
considerazione della gente. Il dubbio che l'eredità fosse iniqua non
lo preoccupava e non gl'im/portava nulla che l'amica o il presunto
figlio dello zio gli serbassero rancore; per conto suo egli non odiava
IL DIO DEI \t\t:nti 12^
nessuno, non odiava, ma neppure amava; in fondo era un pò insen-
sibile ed egoista.
Si meravigliò che il più ad inquietarsi per l'affare della mano
fosse suo padre. Ecco che scendeva dalla sua camera al piano supe-
riore, già col cappottino corto indosso, per il lutto, e in mano una
forbice da potare.
Nel veder Belila seduto a tavola a far colazione con gli avanzi
della cena, il suo viso, al solito, si rischiarò; era come se un raggio
di sole lo illuminasse, ogni volta che vedeva il figlio; come se la fre-
schezza e la bellezza del giovane si riflettessero sul suo viso torvo.
Ma subito distinse la mano gonfia, che zia Annia aveva giudi-
cato bene di non fasciare, e riprese la sua maschera scura : e comin-
ciò a sgridarlo invece di confortarlo.
— Tu fai le cose sempre di tua testa, come se non abbi un pa-
dre né una madre. Se ieri non inforcavi quella maledetta bestia non
ti accadeva nulla : se non avevi fretta di recarti lassù, in quel male-
detto luogo, non ti succedeva questo guaio. Ma a te non importa
nulla di dar dispiacere ai tuoi, pur di fare il tuo piacere: mentre
noi, se occorre rischiamo anche l'inferno per te.
Belila continuava a mangiare tranquillo, solo abbassava gli oc-
chi per guardare la sua mano, come se i rimproveri del padre fos-
sero rivolti a lei sola.
Per conto suo la mano pareva si sforzasse a servirlo con pre-
mura un po' goffa, tutta mortificata di essere la causa del male,
oggetto di discordia.
— Non ho da dipingere né da scrivere, anche se sto qualche
giorno così — disse finalmente Bellia — e mangiaj-e vedo che mangio
senza difficoltà. Se non fate presto a mettervi a tavola non vi lascio
nulla.
Ma il padre non aveva voglia di mangiare. Uscì nel cortile e
disse sottovoce a Rosa:
— Sta attenta se passa il dottore e chiamalo perchè guardi la
nmno di Bellia.
Il dottore stava poco distante dalla casa dei Barcai e tutti i
giorni lo si vedeva passare e ripassare per le sue visite.
Rosa guardò il padrone negli occhi, coi suoi occhi acuti di lince,
e gli disse anche lei sottovoce, come fossero d'intesa su qualche cosa
che non si poteva dire a voce alta :
— Non sarebbe meglio andare a prendere un fazzoletto o un pan-
nolino di quella donna per scongiurare il male?
Sulle prime egli rimase colpito da queste parole che avevano un
accento misterioso, e fu per rispondere di sì : poi s'irritò.
— Va' al diavolo con le tue credenze; e guarda piuttosto se passa
il dottore.
Poi lui stesso fu vinto dall'idea che un pò di malefìzio c'entrasse,
nella disgrazia del figlio, e che Lia poteva scongiurarlo.
Bisognava tornare da Lia : non durante la giornata però, per non
dare nell'occhio alla gente, se la gente ci vede già tanto di notte e
attraverso i muri, figuriamoci di giorno e all'aperto.
Infatti, quando egli più tardi uscì, s'accorse che tutti, anche
i monelli della strada, lo seguivano con gli occhi. E gli sguardi di
tutti, uomini e donne, gli sembravano i raggi di una lanterna che
r24 IL DIO DEI VIVENTI
si proiettavano su di lui per scrutarlo bene fino all'anima: tutti
volevano sapere cosa egli pensava, dove andava, ohe intendeva di
fare.
E fra di sé reagiva, imprecava il suo prossimo curioso: ma
istintivamiente cercava di nascondersi e cajimiinava rasente i muri,
nell'ombra; a occhi bassi sebbene a testa dritta.
Del resto non andava in nessun luogo segreto, andava a far l'af-
far suo, a far aggiustare dal vecchio fabbro la forbice per potare.
11 vecchio fabbro, che era anche maniscalco e arrotino, abitava
in un luogo strano, nella sagrestia di una piccola chiesa in rovina,
qualche centinaio di metri distante dal paese.
Anni prima, sebbene vecchio già, era andato anche lui in Ame-
rica (anzi era stato poi lui a consigliare il marito di Lia, suo appren-
dista, di imitarlo), ed era ritornato con un sacchetto di monete d'oro,
quasi ricco quindi; la notte stessa del suo arrivo il sacchetto gli
venne rubato: e adesso viveva nelle rovine della chiesetta e della
sua vita.
Ma non parlava mai, se non interrogato, della sua disgrazia.
E del resto viveva abbastanza bene col suo guadagno, tanto più
che in America aveva imparato diversi mestieri, e sapeva aggiu-
stare gli strumenti a molla, le macchine da cucire e perfino i gioielli
delle donne.
Una quiete infinita regnava intomo alla sua dimora : l'erba cre-
sceva altissima intomo agli avanzi dei muri della chiesetta, che sem-
bravano i muri di un cortile a ridosso della vecchia sagrestia — e
davanti si stendeva un prato, così coperto di fioralisi che pareva
riflettesse l'azzurro intenso del cielo di maggio.
Sotto una tettoia primitiva che funzionava da officina, il vec-
chio piccolo e tozzo e un po' sciancato, con un testone calvo dal
quale pareva che i capelli fessero caduti per fermarsi in una lunga
barba grigia, lavorava silenzioso davanti alla sua incudine : un muc-
chio di strumenti e di ferramenta era per terra.
Nel vedere Zebedeo non si mosse, non smise di lavorare, ma
parve anche lui uscire dalla sua indifferenza per guardarlo con una
certa curiosità.
Zebedeo trasse di sotto il cappotto la forbice e gliela porse: il
lavoro da farsi era minimo, si trattava di cambiare solo la molla
rotta, e il fabbro poteva farlo lì per lì, ma nonostante le premure del
cliente mise lo strumento sul mucchio e disse:
— Bisogna, aspettare il turno, puoi venire a prenderla domani
sera. Oh, bada poi che io non assumo nessuiM, responsaJoilità se
viene rubata.
Zebedeo lo sapeva, era una condizione che il vecchio faceva
a tutti.
— Zio Michele, — gli disse, — vi lascio qualmente le forbici;
se le rubano non sarà un danno come quello che fecero a voi quella
volta.
Il vecchio sollevò il viso, lo guardò torvo, poi riprese a lavo-
rare: ma Zebedeo non se ne andava: pareva provasse gusto, quella
mattina, a ricordare al fabbro la sua disgrazia.
— Zio Michele, voi non avete saputo mai nulla del fatto?
IL DIO DEI VIVENTI 125
— Se ne avessi saputo qualche cosa non me lo avresti doman-
dato. In questo paese le cose si sanno da tutti, persino dai gatti.
— Ma la giustizia non s'è occupata di lar ricerche?
— La giustizia? 11 fuoco la bruci. Io credo che siano stati loro,
quelli della giustizia, a rubarmi il sacchetto, tanto poco si sono oc-
cupati a ricercare il colpevole.
— Io, fossi stato in voi, non mi sarei dato pace. Avrei cercato
per conto mio, avrei venauta l'anima al diavolo pur di sapere qual-
che cosa.
— Ho cercato, ho cercato : ho fatto fare il gioco delle carte, sono
stato dalla fattucchiera, ho promesso una novena a Sant'Antonio se
riuscivo a sapere qualche cosa. E qualche dubbio ce l'ho; ma come
si fa, senza prove, senz'aiuto? Non mi resta che maledire. Oh, que-
sto si : quando tu mi vedi così tranquillo a lavorare, io recito un ro-
sario di maledizioni : che ti si marcisca la mano con la quale mi hai
spogliato, e l'altra mano ancora, e ogni giuntura ti si rallenti; che
tu possa essere divorato vivo dai vermi, e ogni moneta rubata a me,
frutto del mio sudore, ti serva a comprare medicamenti, e ti ca-
schino gli occhi, e tua figlia e i suoi figli siéino dispersi membro per
membro, ro^i dalla malattia e dal cancro, davanti a te impotente ad
assisterli.
— Eh, basta! — disse Zebedeo. — Ce n'è per tutti gli assassini
del mondo.
— No, non basta figlio mio. È il mio unico conforto, e se mi to-
gli (juello è come che mi derubi un'altra volta.
— Dio non vuole, a maledire così.
— Se non voleva, non doveva lasciarmi derubare. Non solo
vuole, ma sono certo che è lui a farmi imprecare così : e le maledi-
zioni cadono, Zebedeo, cadono! Vedrai che un giorno o l'altro la leb-
bra coprirà il corpo del mio assassino, ed ^li ven^^ a chiedermi per-
dono. Ma io non perdonerò no : né a lui, né a sua madre, né ai suoi
figli.
Zebedeo lo ascoltava un pò ironico: eppure provava un miste-
rioso senso di terrore: pensava sempre alle maledizioni di Lia, alla
mano morsicata di Belila, e ripreso più a fondo dalla sua inquietu-
dine, tornò indietro, passò per le strade dove poteva incontrare il
dottore.
Le strade erano tranquille, e tutto il paesello, steso al sole fra i
prati fioriti, si godeva il bel mattino di maggio; sui davanzali delle
piccole finestre e sulle loggie di legno fiorivano entro recipienti rotti
e vasi di sughero, garofani e viole.
Gli uomini erano già al lavoro, e anche le donne sfaccendavano
dentro casa; solo in un angolo della piazza, davanti a una rivendita
di vino, i grossi proprietari trattavano i loro affari o chiacchieravano
di cose inutili.
Altre volte anche lui usava frequentare quel posto, quella com-
pagnia: adesso passò dritto, duro, salutando appena con la testa: e
di nuovo si sentiva seguito dallo sguardo di quegli uomini che gli
sembravano nemici sebbene tutti suoi amici e parenti.
Ed ecco che senza volerlo spinto da una forza invisibile, si
trova davanti alla porta di Lia : la strada faceva gomito colla piazza,
ed era una delle più popolari e povere del paese, sterrata, con casu-
126 IL DIO DEI VIVENTI
pole basse che parevano tane: la casa di Lia, a un piano, tinta di
bianco, con la porta nuova e un balconcino di ferro pareva un pa-
lazzo fra tanta miseria.
Sul balconcino stava un ragazzetto smilzo e nero con un libro
in mano: i suoi lunghi e dolci occhi neri scintillarono nel vedere e
riconoscere il passante. E il lassante se ne accorse; e quello sguardo
lo punse più che tutti gli altri.
Perchè il ragazzetto era il figlio del povero Basilio.
• •
Da una di quelle casuipole appunto usciva il dottore: così alto
che doveva piegarsi per passare nella porticina.
Aveva già dei larghi pantaloni estivi di tela grezza ohe gli ri-
cadevano a canbpana sui piedi enormi, e un capjìelìo di paglia suJla
grossa testa bruna ricciuta. Anche la barba era crespa. Coi suoi occhi
grossi bruni un po' fìssi e il naso camuso egli ricordava un agnel-
lone, eppure piaceva immensamente alle donne, che erano felici se
si ammalavano, per essere visitate da lui. Ecco che tutte si affaccia-
no adesso alle porticine e ai finestrini per salutarlo; egli risponde
con un largo gesto della mano che pare una benedizione, senza guar-
dare nessuno, e mette la mano sulla testa dei ragazzetti della strada
per fermarli e non investirli, mentre ascolta distratto Zebedeo, che
lo ha raggiunto e gli cammina duro a fianco; duro in apparenza,
in fondo umiLe e supplichevole.
— Mi capita questo, — diceva sottovoce. — ieri il mio ragazzo
è stato morsicato alla mano da un puledro; e la mano s'è gonfiata.
Bisognerebbe che tu me lo guardassi.
Gli dava del tu perchè lo conosceva da ragazzetto, e dopo tutto
era figlio di un antico suo mezzadro.
— Vieni subito, Antonino? Siamo quasi vicino a casa: fai presto;
uno sgnardo e basta.
— La mano gli duole?
— Lui dice di no; ma forse lo dice per non inquietare la madre.
Il dottore camminava distratto e pensieroso; quando furono allo
svolto della strada invece di prendere a destra verso la casa del
Barcai si diresse a sinistra.
— Non vieni? — disse Zebedeo fermandosi; poi riprese a seguirlo
perchè sapeva che prima di andare dov'era chiamato il dottore si
faceva molto pr^are.
— Dopo tutto sei un antico guardiano di capre, villanzone ri-
fatto che non badi se non ad accumulare quattrini : ed hai lasciato
morire di stanti tuo .padre — pensava.
— Antonino, — supplicò di nuovo, — vieni per l'amor di Dio.
Per la madre, che è molto preoccuipata.
— Ho da fare altre due visite urgenti, prima, — gridò allora il
dottore. La sua voc« richiamò ancor più l'attenzione delle donne e
tutte adesso oltre ohe guardar lui guardavano con curiosità Zebedeo.
E Zebedeo dovette tacere umiliato; ma continuò a seguire il
dottore, aspettandolo fuori della porta dei malati.
IL DIO DEI VIVENTI 127
Lultima delle visite era fortunatamente in una casa poco di-
stante dalla sua; e si trattava di un caso straordinario che servì a
svagarlo alquanto.
Si trattava, dunque, di una donna benestante ma idiota presa
da convulsioni isteriche perchè, dato convegno nientemeno allo
stesso Sant'Antonio della parrocchia, qualcuno era venuto davvero
la notte prima a visitarla camuffato da Santo; e mentre lei serviva
il vino e le altre cose buone preparate per lui, ecco sopraggiungere
San Pietro con le chiavi, per chiedere spiegazioni ad Antonio del
come era uscito senza permesso dal paradiso chiuso. Dopo un taffe-
ruglio più umano ohe divino i due santi se n'erano poi andati por-
tandosi via il vino e le altre cose buone, e lasciando la donna tra-
mortita.
Dal cortile, dove anche Zebedeo era penetrato col dottore, si
vedeva attraverso una finestra aperta la disgraziata donna stessa su
un divano; agitava le gambe e rantolava, con la bocca storta e vio-
lacea, gli occhi gonfi chiusi; due vicine di casa, piegate su lei la tene-
vano ferma e le dicevano parole di conforto, ma di tafito in tanto
si scambiavano uno sguardo e stringevano le labbra per non ridere.
— Lasciatela, — ordinò il dottore, e le prese il polso e trasse
l'orologio.
Calmata dalla sola presenza di lui, ella mise giù i piedi sul pa-
vimento e sedette composta.
— Raccontami il fatto, — egli disse rude e assieme indiffe-
rente, chinando un po' la testa come per ascoltare i battiti del polso.
— È stato così, — cominciò una delle donne.
— Lascia dire a lei, — ^li urlò; ma anche nel suo sdegno era
freddo, lontano.
La malata cominciò a parlare con voce bassa e turbata come
quando si confessava. Era giovane ancora col viso acuto scuro e gli
occhi ardenti.
Zebedeo, appoggiato al davanzale estemo della finestra, l'ascol-
tava con più interesse del dottore.
— Il fatto è questo. Io andavo tutte le sere a pregare in chiesa;
irimanevo fino a tarda ora, finché non c'era più nessuno. E lui, San-
t'Antonio, mi guardava coi suoi occhi di stella e pareva movesse le
labbra d'oro per dirmi qualchecosa. Sì, nii diceva qualche cosa; e
io mi avvicinavo e parlavo con lui. Sono una donna sola, senza com-
pagnia : sono idiota e tutti si burlano di me. Nessuno mi vuol bene.
Se non avessi da vivere mi toccherebbe di chiedere l'elemosina, e
forse mi prenderebbero a sassate. Ma Dio e i santi parlano con noi,
semplici : la gente c'invidia per questo. Così io dissi a Sant'Antonio :
Sant'Antonio mio. perchè non venite a farmi visita? E diglielo oggi,
diglielo domani, finalmente promise che sarebbe venuto ieri sera.
Ed è venuto; piano, piano è venuto, senza far chiasso; ed io l'ho rice-
vuto nella mia casa indegna di lui. Avevo preparato qualche cosa,
si capisce, e lui si degnava di accettare il mio buon cuore... Ed ecco...
no... il resto non lo posso raccontare... non posso, non posso...
Ricominciò ad agitarsi; il dottore la tenne ferma con la sua
mano muscolosa.
— Guardami in faccia — le impose — e continua.
La donna non poteva davvero raccontare il resto; era troppo
iZ-> IL DIO bbi \ìm;.NT1
•penoso per lei : ma cominciò a piangere, d'un pianto caldo infantile
che la sollevò.
2Iebtxleo si turbava sempre più; un tempo avrebbe riso: adesso
che il dolore toccava anche lui, adesso che l'ombra di un misterioso
potere camminava accanto alla sua, era quasi propenso a creder©
vero il latto accaduto alla donna.
E si sdegnò per la brutalità con la quale il dottore parlava.
— Ascolta, Rita: quei due malandrini non ti hanno portato via
quattrini per caso? No? Tanto meglio. Ma il vino le paste e l'arrosto
t« li hanno portati via ,accidenti a loro! Si vede che anche in para-
diso c'è carestia. Senti, io ti darò una medicina per calmarti; ma
ricorda bene ogni cosa: è necessario che tu dica tutto, perchè qui
c'entra anche il delegato di pubblica sicurezza.
Ella piangeva sempre.
— 'Che può il delegato contro i santi? La colpa è tutta mia, che
ho fatto disobbedire Sant'Antonio : ma la mia intenzione era buona;
era per sola amicizia che volevo la sua visita.
— Com'era il viso del Santo malandrino sopraggiunto?
Al solo accenno a questo santo malandrino la donna trasaliva
tutta e straltunava gli occhi.
— Non lo so, non lo so; non l'ho veduto... non posso ricordarlo.
— Ma, e quello di Sant'Antonio lo ricordi? Com'era?
— Era il suo viso, liscio e bello come una rosa: come volete
che fosse?
— Ci son tanti mascalzoni col viso liscio e bello come la rosa, —
egli osservò, continuando il suo interrogatorio crudo più da giudice
che da medico. Poi ordinò una pozione calmante e disse alle donne
di non abbandonare l'isterica.
Quando ritrovò Zebodeo nel cortile ad aspettarlo parve lo ve-
desse solo allora: si lasciò ripetere di che si trattava, e finalmente
accondiscese ad accompagnarlo.
Trovarono Bellìa a trastullarsi nel cortile; aveva preso per le ali
una piccola pollanca che pareva una colomba e le metteva un na-
strino rosso alla zampa. "Tutto era tranquillo intomo, come se la
morte non fosse di recente passata, sebbene la serva preparasse sotto
la tettoia una caldaia di liquido nero per tingere i fazzoletti da lutto.
Nel vedere il dottore anche lei arrossì e cercò di nascondersi, tanto
egli le piaceva : poi piano piano si fece avanti, si avvicinò, lo fissò
in viso. Egli esaminava la mano di Bellìa con una certa cura; s'era
animato perchè il caso lo interessava; sbottonò il polso della camicia
e denudò il braccio bianco e muscoloso del giovine; glielo sollevò,
lo palpò, parve guardarlo attraverso la luce.
Tutti stavano a guardare con ansia silenziosa, allacciati l'uno
all'altro dal filo dello stesso pensiero; lui solo, Bellìa, sorrideva un
po' beffardo un po' stupito, e abbandonava la mano gonfia al dottore
come non fosse la sua. In fondo era inquieto anche lui, non tanto
per il male suo quanto per l'aria grave del dottore.
E gli dava fastidio raccontare com'era andata la cosa : anche lui
non ricordava con precisione il modo col quale la bestia indiavolata
lo aveva morsicato.
— Correva più di un cane: per fermarlo mi lasciai andar giù
afferrandolo per la criniera : è allora ohe mi ha morsicato, ma lì per
lì non me ne accorsi.
IL DIO DEI VIVENTI 129
— E dopo di questo, — intervenne il padre, — non volle la-
sciarsi fasciare la mano.
— Hai fatto male, figlio mio, c'è senza dubbio un po' d'infezione;
avete in casa qualche disinfettante?
Non avevano nulla, ma zia Anna disse con presunzione di aver
lavato lei la mano con l'aceto. '
Il dottore non le badò : e questo la offese.
Zebedeo invece era contento che il dottore prendesse sul seria
la cosa; solo gli pareva che, mentre con la donna isterica s'era mo-
strato brutale, qui assumesse un'aria quasi di mistero. 0 forse si
trattava di una cosa molto grave?
Fatto sta che il dottore volle Bellìa con sé per disinfettargli bene
la mano; e non si pronunciò oltre.
Zebedeo li accompagnò.
/ *
' -k-k
La casa del dottore era ancora una povera abitazione da con-
tadini, col cortiletto recinto di un muro basso; nella stanza terrena
•ove egli riceveva uno scaffale con libri rilegati, un armadio a vetri
una lunea tavola dov'egli faceva stendere i clienti erano i soli ar-
redi della sua professione.
Egli guadagnava moltissimo, perchè oltre ad aver la* condotta
per i poven, si faceva pagare dai ricchi, ed era chiamato anche in
altri paesi per consulti e operazioni : possedeva inoltre terreni e be-
stiame: eppure viveva miseramente sempre più avido di denaro.
Mentr'egli disinfettava la mano di Bellìa, le galline e il cane
si affacciavano liberamente alla porta della stan.^a che dava sul cor-
tile, e pareva osservassero quel che avveniva là dentro: e a sua volta
Bellìa si divertiva a guardare i gattini neri saltellanti intomo alla
g'ovine madre distesa al sole che offriva loro le mammelle color
viola.
D'improvviso un ragazzo spinse con violenza il portone ed entrò
di corsa fino alla stanza.
— Che il dottore venera subito, — disse ansando, eppur guar-
dando intomo curioso, — il vicario sta molto male; ha vomitato tanto
sangue.
— Vomita ancora? — domandò con ironia il dottore.
— No: adesso ha cessato.
— E allora va'. Verrò fra poco: va': chiudi il portone.
Il ragazzo guardava la mano di Bellìa e non se ne andava.
Allora Zebedeo lo spinse verso il cortile, irritato; perchè avrebbe
voluto che non si sapesse del male del figlio.
Il dottore, divenuto improvvisamente loquace, sparlava del vi-
cario.
— Speriamo si decida una buona volta a crepare. È lì. asrerap-
pato aUa cassetta della chiesa come un naufrago alla sua tavola.
Vuol rifarsi del sangue che vomita col denaro che succhia ai po-
veri. E poi facesse il suo dovere: auando lo cercano per le funzioni
sacre sta male: quando si tratta di ritirare la prebenda sta benissimo.
— Avrà bisogno, di denari, — disse Bellìa.
E il dottore, mentre gli fasciava la mano, si mise a discorrere
seriamente con lui.
9 Voi. CCXVir, eerie VI — 16 mano 1928.
130 IL DIO DEI VIVENTI
— Mac-ehè bisogno! È solo, non ha madre né padre né parenti,:
ne ha anche troppi di denari. Cento volte gli dissi: ma ritirati, va'
in riva al mare, fa' una cura, — Già, e allora i soldi della prebenda
chi se li piglia? E allora crepa. I denari, credi pure, Aglio mio, sono
la rogna del mondo.
— Ma senti chi parla! — pensava Zebedeo; mentre Belila diceva
ridendo :
— Oh io per me quanti ne ho tanti ne spendo. Il guaio è che
non ne ho.
— Li avrai anche tu un giorno; ne avrai troppi anche tu; spe-
riamo te li godrai.
Zebedeo sentiva voglia di fargli le fiche sotto gli occhi, ma in
fondo era soddisfatto che egli trattasse bene Bellìa. Sia contento
Belila, tutto il resto non importa.
E mise la mano sotto il risvolto del cap'pott9 per trarre il por-
tafogli; in quel momento era felice e avrebbe pagato la visita anche
cento lire, se il dottore glie le avesse chieste.
— Quanto è per il tuo disturbo Antonino?
Il dottore rimetteva In ordine i suoi strumenti; non rispose.
— Antonino... — insistè l'altro.
— E andate, c'è tempo! — gridò allora di mala maniera.
— C'è tempo, — pensava Zebedeo rabbuiandosi, mentre se ne
andava col figlio. — Dunque il nfiale può continuare.
•
• •
Il male forse non sarebbe continuato senza un incidente avve-
nuto nel frattempo in casa Barcai.
Il fuoco che la sen'a aveva acceso sótto la tettoia, come ella
usava sempre che doveva far bollire la caldaia, s'era questa volta
attaccato ad un mucchio di frasche imprudentemente accatastate lì
accanto: le fiamme salivano alte e furiose e minacciavano di incen-
diare il tetto e la stalla attigua.
Già la gente accorreva da ogni parte, mentre Belila e il padre
uscivano dal cortile del dottore: e Zebedeo indovinò subito una
nuova disgrazia poiché vide la nuvola di fumo che saliva dalla sua
casa. Si mise a correre, e cominciò a urlare quando il portone spa-
lancato gli apparve come la bocca di un forno; le 'fiamme pareva
scaturissero di sotterra e si slanciavano e volavano via con grandi
ali rosse.
Attraverso il fumo soffocante che riempiva il cortile figure nere
correvano qua e là con secchi d'acqua.
— La mia casa s'è mutata in inferno, — egli urlò fuori di sé,
togliendosi la berretta e sbattendola come tentasse di smorzare con
essa il fuoco.
E dimenticò ogni altra cosa. Corse al pozzo dove Rosa e la pa-
drona, rosse e sudate attingevano l'acqua e la versavano nelle sec-
chie, e prese due di queste; e per qualche minuto non fece altro che
correre dalla tettoia al pozzo e dal pozzo alla tettoia e lanciare acqua
sul fuoco. Anche gì: altri, uomini e donne, facevano lo stesso; i vi-
cini di casa portavano l'acqua dai loro pozzi, i bambini aiutavano;
e lutti pareva si divertissero. Ma l'incendio continuava e anche le
IL DIO DEI VIVENTI 131
fiamme avevano qualche cosa di allegro, alimentate anziché abbat-
tute dagli sputi dell'acqua.
I cavalli nitravano e scalpitavano nella stalla; già una trave
della tettoia dapprima annerita fumava e s'accendeva in cima come
un sigaro.
Allora Zebedeo, acciecato dal fumo © dall'angioscia, s'accorse
che Belila aveva appoggiato una scala di fuori e smovera le t-egole
del tetto.
— Largo, — gridava. — Adesso smuovo la trave e la faccio an-
dar giù.
Tutti si accostarono, coi secchi in mano guardando in alto: in
breve s'udì uno schianto; una nuvola di polvere si mischiò a quella
del fumo; il tetto cadeva soffocando il fuoco con le sue macerie.
La tettoia era rovinata, ma la stalla e la Casa erano salve.
Cessato il pericolo cominciarono le recriminazioni.
— Sei stata tu, — gridava il padrone a Rosa. — E chi pagherà
il danno, adesso?
La ragazza, buttata per terra e mezza morta per la stanchezza
e lo spavento, si guardava le mani scorticate dalla corda del secchio
per attingere acqua e sing-hiozzava.
— Sono stata io, — dissse infine. — Ebbene, fate quello che vo-
lete : o cacciatemi via o tenetemi al servizio fino a scontare il danno.
Questa sottomissione non calmava Zebedeo; perchè non era al
danno della tettoia che egli pensava; pensava alla mano di Bellìa
che nello sforzo s'era sfasciata e gonfiata di più e prendeva un colore
scuro come annerita dal fumo.
E avrebbe voluto richiamare subito il dottore, ma non osava.
Per calmarlo Bellìa disse che sarebbe andato lui a farsi nuovamente
fasciare la mano, e stava per uscire quando il dottore stesso arrivò :
aveva saputo dell'incendio e degli sforzi del giovane e lo sgridò con
asprezza, cosa che fece grande piacere a Zebedeo.
Bellia cominciò ad annoiarsi.
— Se mi tormentate così — disse appena andato via il dottore —
mi nascono e non mi vedrete per una settimana.
— Nasconditi pure, purché lasci in pace la tua mano.
Allora Bellia andò a coricarsi sul suo lettuccio nella camera ter-
rena e si addormentò prof ondarne te : la madre entrò in punta di
piedi e chiuse la finestra e tutti stettero in silenzio per non distur-
bare il sonno di lui, come quando era bambino.
•
• •
Nei giorni seguenti Zebedeo ebbe molto da fare per lo sgombero
e il riattamento della tettoia : uno dei servi del povero Basilio e anche
Rosa tutt'ora stordita sebbene avesse bevuto un'acqua contro lo spa-
vento preparata dalla fattucchiera, aiutavano i muratori.
A Bellia non veniva permesso neppure di avvicinarsi : Rosa
stessa, che esagerava sempre i suoi sentimenti, avvertiva il padrone
se il giovane accennava a fare qualche cosa.
E Bellia scrollava le spalle e si metteva a sedere accanto alla "
porta di cucina con la mano sostenuta da una fcLscia legata al collo,
triste, preoccupato, non per il male, ma per la sua forzata inazione.
132 IL DIO DEI VIVENTI
Di tanto in tanto la madre o la vecchia gli mettevano un impacco
sulla mano che cominciava a venire in suppurazione, ed egli lasciava
fare inerte con negli occhi già così freschi e vivi un'espressione di
indifferenza; e pareva che le sue palpebre si appassissero come petali
di gardenia. Anche la bocca era violacea e arida: una lieve peluria
gli cresceva sopra il labbro e sulle gote ed egii non se la radeva piìi,
non solo, ma quando la madre gli diede i denari perchè andasse dal
barbiere disse con dispetto;
— Non li voglio. Voglio lasciarmi' crescere la barba finché vivo.
Il dottore era la sola persona che riusciva a scuoterlo e confor-
tarlo seobene non si pronunciasse mai chiaramente circa la natura
e la durata del male.
Ecco che entra dopo aver picchiato forte col bastone sul porton-
cino aperto per avvertire ciie viene; la serva fa di tutto per avvici-
narsi, lo guarda alle spalle, sul collo, arrossisce e instintivamente si
erge sul busto e dondola i fianchi per farsi notare da lui.
Anche Zebedeo e le donne gii vanno incontro e mentre la madre
lo guarda con fede e speranza zia Annia l'osserva fredda diffidente
e non gli rivolge mai per prima la parola. Belila s'irrita per tutta
quell'accolta di persone intorno a lui; abbandona la mano all'esame
rapido del dottore e prova un gusto cnjdele se la mano ha peg-
giorato.
Un giorno disse freddamente:
— Se verrà la cancrena bisognerà tagliarla.
— Tu sei pazzo — gridò il padre.
— Perchè ti metti in mente queste scempiaggini?
— Ma io non ho paura di nulla : tanto, da campare ce n'ho.
E tornò a sedersi accanto all'uscio di cucina, tirando calci alle
galline e ai gatti che tentavano di passargli davanti.
Neppure Ladrone il buon cane di guardia col quale erano amici
da tanti anni riusciva piii ad avere la sua simpatia : invano gli si
aggirava intorno scodinzolando, guardandolo con. occhi dolci e lu-
centi, invano tentava di leccargli la mano sana: egli lo scacciava
col piede, voleva star solo col suo male e col suo pensiero segreto:
un pensiero che egli non voleva rivelare intero neppure a sé stesso.
Così un'afa pesante e un'ambra grigia gravavano nella casa un
giorno tanto serena,
L#a stessa figura di Zia Anna vi portava qualche cosa dd estraneo,
di misterioso; era come l'ombra lunga del morto rimasta lì a ricor-
dare che un'iniquità era stata compiuta, che Dio forse voleva punire
la famiglia avida col male del figlio, con le disgrazie che accade-
vano: perchè alla caduta della tettoia erano succeduti altri guai;
l'afta s'era sviluppata nel bestiame lasciato dal povero Basilio, e già
due vacche erano morte : altro bestiame era stato rubato. Una sera
Zebedeo decise di tornare da Lia. Ella non s'era fatta più viva, anzi
a quanto riferivano le donne del vicinato viveva ritirata e lavorava
in casa senza voler ricevere nessuno. Zebedeo tuttavia non si fidava
di quella quiete apparente.
Questa volta trovò anche il ragazzo accanto alla madre che cu-
civa: tutti e due seduti su piccoli sgabelli, presso la tavola, sotto
la luce diretta d'un lume ad olio; e il riflesso dorato dei capelli di
IL DIO DEI VIVENTI 133
Salvatore faceva contrasto con la massa opaca della testa di Lia
avvolta in un fazzoletto nero.
Zebedeo non aveva pensato di poter trovare il rageizzo e la sua
presenza lO turbò : quegli occhi vivi e astuti, dolci e intelligenti gli
penetravano fino all'anima.
D'altronde pensava che quello che aveva da dire alla madre po-
teva sentirlo anche il figlio, e se quei due penetravano a fondo nella
sua pena e ne provavano pietà tanto meglio, o se ne provavano gusto
tanto meglio ancora : egli veniva lì per frugare nella sua piaga e cer-
care dolore per conforto.
luttavia prese un tono scherzoso rivolgendosi al ragazzo.
— Studi ancora, a quest'ora? E mettilo a dormire, quel libro:
non vedi che è stanco di essere letto? E tu va fuori a giuocare coi
ragazzi.
— Il mio Salvatore non va mai fuori, la sera — disse seria la
madre alzandosi per accostare una sedia a Zébedeo. — Siedi.
— Non va fuori per obbedirti; ma i ragazzi devono sempre di-
sobbedire.
— Tu dicevi così al tuo Bellia?
— Non glie lo dicevo ma lo pensavo. I ragazzi che obbediscono
non sono veri ragazzi sani. Sai che cosa sono, Salvatore?
Il ragazzo lo guardava con gli occhi luminosi, tanto che Zebedeo
non sapeva distinguere se in quello sguardo vi fosse più ostilità o
benevolenza, befTa o malizia; ma fu contento nel veder ridere Sal-
vatore quando egli disse:
— Sono ragazze.
Lia credette che l'uomo volesse parlare da solo a solo con lei, e
per questo consigliasse il ragazzo ad uscire.
— Va a dormire. Salvatore.
Allora fu Zebedeo a pregarla di lasciarlo ed il ragazzo abbassò
gli occhi sul libro, ma per quanto leggesse non voltava mai la pagina.
Anche Lia cuciva: e Zebedeo vedeva le sue mani e l'ombra delle
sue mani sulla tela e l'ago e l'ombra dell'ago ficcarsi nella tela con
un movimento misterioso; e aveva paura che la donna mormorasse
fra di sé maledizioni e scongiuri.
— Non sono più venuto, Lia, perchè in questi ultimi giorni le
disgrazie mi sono fioccata come la grandine. Una sventura non viene
mai sola. Forse saprai già dell'incendio.
Il viso di lei pan e farsi più acuto per un lieve sorriso di scherno.
— Che cos'è una tettoia per te, Zebedeo Barcai? Se ti lamenti
per questo! 0 forse devi venire da me per prestarti cento scudi per
accomodarla?
— Beffami pure — pensava Zebedeo — se ciò ti fa piacere e
sminuisce il tuo odio, beffami pure.
— Eppoi ho il bestiame malato, e anche il mio Bellia ha una
mano malata. (Sapeva Lia o fìngeva di non sapere? Il suo viso s'era
abbassato e si nascondeva. Bisognava dirle tutto? Bisognava). Gliel'ha
morsicata il puledro del povero Basilio, e pare ci sia un po' d'infe-
zione. Domani il dottore gli deve fare un taglio per portar via la
materia.
— Il dottore? Il fuoco lo bruci. Tu dai retta al dottore? Egli taglia
134 IL DIO DEI VIVENTI
la carne viva ai cristiani per trame del denaro. Io se avessi un male
non nni lascerei neppure toccare da lui.
— Tu vuoi impressionarmi per ritardare l'operazione e far ve-
nire la cancrena. al mio Bellia, — pensava Zebedeo, eppure la donna
gli sembrava sincera e già le sue parole gli destavano un senso di
diffidenza contro il dottore.
— Non gliela far toccare la mano, a tuo figlio. Lascia che il
male si maturi da sé: poi basta che tua moglie lo punga con un
ago e tutto è fatto. Basta la punta di un ago. Ti ricordi (ella pun-
geva la tela per dimostrare come andava fatto) ti ricordi quando il
povero Basilio ebbe quell'ascesso al collo? Il dottore diceva di ta-
gliare : egli taglia sempre, quel figlio di boia; ma Basilio diede retta
a me. Bastò la punta di un ago per farlo guarire.
— Ma che cosa credi che abbia da fare il dottore? La lancetta
non è che un grosso ago.
— A volte... — ella disse a bassa voce — a volte sono loro, i
dottori, che avvelenano la lancetta per far continuare il male e poi
prendersi la grossa paga.
— Lia! Una donna saggia come tu sembri non dice queste cose.
— Perchè? Sono angeli, i dottori? Sono uomini; amano il denaro
e quindi sono anche essi capaci di tutto.
QuéìY anch'' essi turbò Zebedeo: accennava a lui? Accennava a lui.
— Salvatore, senti che dice tua madre? per fortuna tu non credi
a queste cose.
Il ragazzo sollevò gli occhi dal libro ma non rispose : ci credeva
o non ci credeva?
— Tu fai male, Lia, a far credere al ragazzo queste cose — disse
l'uomo abbassando anche lui la voce.
— Quali cose? Che ci sono uomini senza scrupoli? Purtroppo
lo imparerà poi da sé. Basta che sia buono lui e che il male resti fuori
di lui.
— Senti, Lia — riprese Zebedeo — io non credo ch'esista tanto
male nel mondo. Lo pensiamo noi; pensiamo che gli altri possano
fare tanto male, ma è fantasia nostra. Ed é peggio che essere cat-
tivi noi.
Edi parlava così perché il ragazzo sentisse: non sapeva perchè,
ma ^ndesso la sua pena maggiore era che Salvatore lo credesse col-
pevole.
— E anche se lo tocchiamo con le dita, il male, dobbiamo «sempre
crederlo minore di quello che é: ai ragazzi poi non bisogna parlarne.
Ne avranno l'esperienza, si, ma c'è tempo davanti a loro. Lasciamoli
godere finché possono. Io al mio Bellia non ho mai detto; il tale fa
questo male, il tale fa auest'altro. Per miesto è cresciuto buono lui :
a sedici anni è ancora come un bambino.
— Il tuo Bellia è nato in un letto di rose e la fortuna gli è stata
madrina; per questo è ancora bambino e sarà sempre bambino; ma
altri nascono col flore della sventura in mano e non hanno ancora i
denti che l'esperienza della vita li ha fustigati: non parliamone —
ella concluse aggrottando le sopracciglia. Allora Zebedeo cambiò
discorso: raccontò della donna che aveva rice\iito la visita di San-
t'Antonio, con barzellette che fecero sorridere Salvatore: però gli
sembrava strano che il ragazzo non parlasse mai.
IL DIO DEI VIVENTI 135
— Ma ìa lingua non ce l'hai? — domandò quasi irritato di quel
silenzio. — II maestro non t'insegna a parlare?
— II maestro m'insegna a tacere — rispose il ragazzo; e parlava
ul serio, eppure sembrò a Zebedeo che quel moccioso si burlasse
-1 lui.
— Bello, quel maestro! È solo lui che vuol {)arlare? Digli da parte
mia che lui {>arla per tre, per trenta anzi, se a tutti voi trenta scolari
v'insegna a tacere. E se gli darete retta diventerete tutti idioti. Ta-
cere! È qucindo l'uomo non sa parlare che tutti gli saltano addosso
come le mx)sche sull'asino senza coda. E se viene incolpato di qualche
malanno e non sa difendersi lo schizzano in aria come un masso
spaccato dalla mina.
— Se non fa del male nessuno lo incolpa — disse Salvatore.
L'altro replicò; e parlava animatamente e pareva fosse venuto
solo per questo, per discutere col ragazzo. La madj-e guardava il suo
Salvatore con ammirazione; le pareva Cristo fanciullo di contro ai
dottori cavillosi del tempio.
•
• •
Certo era intelligente, Salvatore: a dieci anni si sentiva già su-
'^•eriore a Zebedeo e lo conskierava con compatimento: ma in fondo
t^ntiva uit vago terrore di lui {)erchè lo credeva colpevole: non lo
odiava, non calcolava materialmente il danno che gli veniva fatto,
con una fiducia superba nel suo valore di ragazzo studioso che sa-
rebbe andato avanti da sé; ma quell'uomo torvo dalla figura diabo-
lica rappresentava per lui un mistero che lo rattristava nella pro-
fondità del suo essere, una forza «dia quale solo Dio può resistere:
rappresentava il male.
Eppure, nel sentirlo parlare come parlava, era 'propenso a cre-
derlo innocente; no, non aveva distrutto il testamento, come la madre
affermava; e questo penderò e le affermazioni di Zebedeo che nel
mondo non esiste poi tanto male, gli davano un senso di gioia.
La madre però vigilava; sentiva ciò che passava nell'anima del
ragazzo e di tanto in tanto lasciava cadere nel discorso qualche pa-
rola che distruggeva l'effetto di quelle di Zebedeo, senza accennare
mai all'eredità, evitando anche di nominare il povero Basilio che
pareva non ricordasse più. Ma l'uomo non s'illudeva: Basilio era
= :mpre lì, presente, e parlava con la voce di lei.
•
• *
— Sai che Pietro Paolo mi ha scritto? — disse lei d'improvviso.
Pietro Paolo era il marito.
— È una lettera curiosa; adesso te Ig. farò leggere. Dove l'hai
messa Salvatore?
Salvatore cercò la lettera nel cassetto della tavola, e mentre Ze-
bedeo la leggeva si scostò alquanto e finalmente si mise anche lui a
leggere davvero il suo libro.
Per qualche momento un silenzio profondo regnò nella cucina
pulita e ordinata come una stanza da ricevere : e quei tre parevano
una famigliola raccolta, quieta intomo al lume domestico.
136 IL DIO DEI VIVENTI
La lettera di Pietro Paolo era lunga, scritta su uno di quei grandi
fogli a quadratini ohe usavano un tempo i commercianti. Egli diceva
di aver saputo della morte di Basilio, e invece di compiacersene fa-
ceva le sue condoglianze a Lia.
« So pure che non ti ha lasciato nulla, e questo mi fa meraviglia;
ma tutto è possibile nei mondo, e le cose meno credibili sono quelle
che più di frequente succedono. Chi per esempio mi avrebbe un
giorno detto che io finivo così, e che mi sarei rassegnato a tutte le
mie disgrazie?
« È che Dio ci dà la vita, ci dà la disgrazia, ma ci aiuta sempre.
Così i miei affari grazie a Dio vanno bene: il mio negozio s'è ingran-
dito. Ho due commjBSsi, e le ordinazioni crescono di giorno in giorno.
Devo confessare che anche il tempo mi ha aiutato; perchè avevo molta
roba in magazzino e adesso il ferro ha preso un prezzo d'oro. Dunque,
ti volevo dire questo, Lia: mettiamo una pietra sul pwissato, e scu-
sami se qualche volta ti ho scritto in quel modo: ma era la passione
e la rabbia che mi trasportavano. Con tutto il mio guadagno, io faccio
una vita miserabile, sulla sedia a ruote, spinto da una serva come
un bambino. Adesso poi questa donna, sebbene in casa mia sia lei
la padrona, e s'abbia messo un gruzzolo a parte, mi vuol lasciare:
ha trovato un marito più giovane di lei che le mangerà tutto, si ca-
pisce; il mondo è fatto così: i pesci groq^ divorano i piccoli.
« Io in casa ho bisogno di una donna che mi aiuti e poi sono
stanco di star solo, di non voler bene a nessuno. Ho pensato sempre
al tuo ragazz.ino, e sempre pensavo: se Dio ci avesse dato qiwsto
figlio prima della mia partenza tutto sarebbe andato meglio : Lia non
mi avrebbe tradito.
<( Basta con le parole. Il fatto è questo : se tu vuoi tornare con
me io non ti farò più cenno del passato. Qui è un paese dove tutti
lavorano, e quindi non si occupano dei fatti altrui.
«Nessuno troverebbe strano che noi ci si riunisse: anzi tutti
me lo consigliano, il tuo Salvatore avrebbe in me un vero padre.
Sento che è un ragazzo studioso: lo faremo studiare. Pensaci bene,
Lia, io credo che tornando tu a casa mia, con le tue cure, con la i>ace
nell'anima e il benestare io migliorerei in salute. E anche se non
avessi da campare molto, ad ogni modo il tuo avvenire sarebbe as-
sicurato perchè lascierei tutto a te. Rispondimi e credimi sempre il
tuo affe2Ùonatissimo marito
Pietro Paolo»
« P. S. Vorrei far venire qui anche il vecchio Michele Pala, quello
che mi ha insegnato il mestiere. Con la sua abilità, gli farei guada
gnare molto. Gli ho scritto; ad ogni modo ti prego di recarti da lui
e pregarlo di rispondermi».
A misura che leggeva, Zebedeo provava un senso di sollievo. Se
Lia tornasse cól marito e sgombrasse il paese e la sua coscienza'
Ma subito, dal modo noncurante con cui la donna lasciò che egli K
porgesse invano la lettera e poi la rimettesse sulla tavola, e sovra-
tutto da un lieve sogghigno che le torceva la bocca, si accorse ch'ella
pensava in tutt'altro modo.
E perchè ella non indovinasse il suo intimo pensiero prese anche
lui un'aria canzonatrice.
IL DIO DEH VIVENTI 137
— Ha buone intenzioni il valentuomo! •
— Buone intenzioni sì, malanno al resto della sfua persona! Mi
vuole per tirargli la carriuola poiché la serv^a lo abbandona. Ma io
gli tiro il collo, se «vuole, non la carriuola.
— Ma ha molti quattrini — arrischiò Zebedeo — e un mezzo pa-
ralitico come lui muore presto.
La donna lo guardò di sotto in su con uno sguardo che gli passò
sul viso come una vampata.
— Non mi son valsi i denari di chi mi voleva bene, e come pos-
sono dunque valermi quelli di chi mi odia? — ella disse : poi accennò
con gli occhi a Salvatore. — La mia eredità è una sola, e quella nessun
ladro me la potrà togliere.
Zebedeo sentiva .voglia di sbuffare, di pestare i piedi. Ma perchè
dunque non se n'andava? Ck)sa era venuto a fare? Cosa era venuto a
fare? Sì, d'un tratto ricordò : era venuto a offrire denaro alla donna
per aiutarla a vivere; ma era venuto anche spinto dal bisogno di un
aiuto che gli facesse sormontare la sua pena segreta.
E l'aiuto era quello : di soffrire, per espiare, per placare la donna
e sopratutto la sua propria coscienza.
Allora andò incontro al rancore di Lia stuzzicandola ma a viso
coperto come quando andava per raccogliere le api nell'alveare.
— A me, tuo marito mi sembra guidato da buone intenzioni.
Parlo nel tuo interesse, Lia, e nell'interesse del ragazzo. E lui scrive
schiaro; (riprese la lettera e lesse) : « Ad ogni modo anche se avessi
da campare poco, il tuo avvenire sarebbe assicurato perchè lascerei
tutto a te». Tutto sta a vedere se questo suo famoso negozio è così
bene impiantato e così lucroso come lui dice. Certo poi tu dovresti
fare le cose per bene e scrivergli : sì sono disposta a venire, ma tu
garantiscimi sul serio le tue promesse.
Lia non rispondeva, non sollevava più gli occhi, pareva non
l'ascoltasse neppure; e anche il ragazzo leggeva adesso e Zebedeo si
sentì isolato lontano da loro.
— Capisco che tu sei giovane, — ricominciò tuttavia con un'in-
sistenza che maravigliava lui stesso. — Legarti a un uomo così già
mezzo morto è una cosa poco allegra : però ci sarebbero tanti van-
taggi e sempre la probabilità che egli ritomi presto nel seno del
Signore.
— Se non ci pensa lui, a tornar presto nel seno del Signore, ci
penserò io, — ella disse allora sottovoce con accento d'odio profondo :
— ch'egli smetta di tormentarmi! Io non lo cerco; non l'ho più cer-
cato da tanti anni. Se voleva uccidermi doveva farlo subito: se
non poteva lui poteva mandare un sicario, ma poiché mi ha lasciato
vivere, allora, che mi lasci dunque vivere adesso. Mille volte mi ha
scritto di aver giurato sul Cristo, mentre il sacerdote benediva il ca-
lice della santa messa, che mi avrebbe ucciso. E chi mi assicura che
adesso tutto questo non sia una commedia per farmi andare da lui
e vendicarsi? Ma io lo consacro al diavolo, prima! E può darsi che
egli abbia delle buone intenzioni davvero, ma io non posso credergli :
e forse questo è anche il mio castigo. La gente dice che sono stata
io a fargli paralizzare le gambe; se Dio mi darà ascolto gli farò pa-
ralizzare anche le braccia e la lingua.
— Lia, come sei odiosa!
138 IL DIO DEI VIVENTI
— Odiosa, sì, per cHi mi fa del male. Io non faccio del male a
nessuno. Se male ho fatto l'ho fatto a me stessa e che dunque mi si
lasci in pace: anche le vipere se non sono stuzzicate non mordono.
Ma se io odio, odio con ragione; e allora Dio mi aiuta nella ven-
detta, e mi manda fino in casa la mia soddisfazione. Vedi come...
(Zebedeo pensò : come io sono qui!) questo furfante mi scrive. Dopo
avermi diffamato per tutto il mondo dicendo che sono una stregona,
e dopo avermi minacciato di morte mi manda a dire ohe è infelice.
Ma schiatta dunque; il dolore si paga solo col dolore.
— È vero, — disse Zebedeo; e chinò la testa davanti a lei.
Tacquero di nuovo: e di nuovo qualche cosa li univa sotto la
quieta luce del lume : una parentela di errore di pena di espiazione.
•
Grazu Deledoa.
[Continita).
i
»
A PROPOSITO DI UNA NUOVA RACCOLTA
DI LETTERE MAZZINIANE
Or è qualche mese sono state pubblicate a Londra (1) le belle in-
teressantissime lettere che l'esule genovese scrisse, a suo conforto,
alla famiglia Ashurst, la più grande famiglia amica che egli avesse
sul suolo inglese, negli anni all'annosi delle sue peregrinazioni d'ol-
ir'Alpe. Tali lettere, dopo una serie di vicende sfortunate che le ten-
nero per lunghi anni nell'ombra, vengono finalmente presentate al
pubblico, dando, con la naturalezza ed il brio onde sono animate, un
nuovo palpito di realtà e di vita al carattere di quel grande che tanto
ci interessa oggi, per rav\'erarsi di molte sue profezie, in questo
caotico dopo guerra. La figura morale del Mazzini, piena di impeti
e di passione, balza chiara e netta nelle confidenze che egli fa a
questa che fu la sua « seconda famiglia», come egli la chiama, alla
quale commenta la situazione italiana proprio quale essa è, nel suo
continuo alternarsi di eventi fortunosi ed avversi, di scoramenti e
di speranze, in quegli anni sacri al nostro Risorgimento.
Ma ohi sono questi Ashurst? Come li conobbe il Mazzini? L'ori-
gine di questa amicizia risale al tempo del famoso scandalo della
Posta Inglese, la quale, aprendo clandestinamente le lettere sug-
gellate che dall'Italia venivano inviate al Mazzini, si rese indegno
strumento della politica reazionaria borbonica ed asburghese fino a
portare alla fucilazione due martiri purissimi : i fratelli Bandiera.
Che in quel fermento insurrezionale degli anni precedenti il '48, con
scarso senso pratico incoraggiati dal Mazzini, i Bandiera vi ebbero
parte attivissima, ma le rivelazioni fatte da Lord Aberdeen e da
altri spioni all'Austria, e specialmente la violazione di quelle lettere
per mezzo delle quali il Mazzini veniva messo al corrente dei loro
piani, prepararono la condanna. Tutto questo suscitò in Inghilterra
una terribile indignazione contro il Governo disposto a rendere agli
Stati esteri servigi di un tal genere. Garlyle, quel grande scettico che
pur fu legato al Mazzini da vera simpatia spirituale, scrisse al Times
una nobile lettera di protesta, ed al medesimo tempo, quasi per un
istintivo bisogno di riparazione, molti tra i solitari ammiratori del-
l'esule, e gli Ashurst tra i primi, gli si strinsero attorno a confor-
tarlo con le manifestazioni più cordiali di amicizia e di stima. Assai
(1) Mazzini' s, Lettera to an English family, 1844-1854, edit and with an
introduction by E. F. Richards. London, J. Lane, 1920.
140 A PROPOSITO DI UNA NUOVA RACCOLTA DI LETTERE MAZZINIANE
bella e simpatica fu quella gara la quale commosse profondamente
il Mazzini, e gli fece sentire, con le gioie .più pure dell'amicizia, un
senso nuovo e più forte di fiducia nella vita. Le amicizie che si an-
darono così formando ebbero quasi tutte una caratteristica loro spe-
ciale. Quella del Carlyle, per esempio, fu assai strana e bizzarra,
perchè nata tra individui animati da un credo filosofico così diverso
per non dire opposto; ma c'era in comune una grande levatura mo-
rale e li affratellava il culto di Dante. Così, per quanto le contese e
lo dispute fossero assai frequenti e penose tra loro, per quanto il
Mazzini si eccitasse a volte nella discussione fin quasi alle lacrime,
rimanevano buoni amici lo stesso, e a rinsaldare vieppiù quell'ami-
cizia provvedeva il tatto squisito e fine di una nobile donna, della
signora Carlyle, che tanto il Mazzini ebbe ad ammirare e a stimare.
E ipoi c'era William Shaen, l'angelo salvatore degli esuli, colui
al quale il Mazzini confidava i più intimi suoi pensieri, e che tanto
lavorò a formare intorno all'esule la cerchia cara di amici devoti :
0 i Craufurd, cui furono indirizzate tutte quelle lettere mazziniane
assai note in Italia; e gli Stansfeld, imparentati agli Ashurst, e
Margherita Fuller la quale, per quanto dapprima fosse mal disposta
verso il Mazzini, dopo che ebbe visitata la sua scuola per i piccoli,
suonatori girovaghi, iniziò quell'amicizia che doveva di poi tanto
rinsaldarsi nei giorni della Repubblica Romana.
Ma la sua più grande famiglia amica fu la famiglia Ashurst
«cara buona e santa famiglia», come egli la chiama, «che mi cir-
condò di cure amorevoli tanto da farmi talora dimenticare se la me-
moria dei miei, morti senza avermi a lato lo consentisse, l'esilio».
Una delle ragazze, Carolma, sposò appunto un amico del Mazzini,
James Stansfeld. Essa era pel Mazzini un tipo ideale di femminilità;
un'altra, Emilia, andò sposa al Hankes, ed in seguito a divorzio, al
Venturi, un operaio francese che pur seppe dare alla moglie intel-
lettuale e colta la felicità che invano essa aveva ricercato nel primo
infausto matrimonio. Emilia fu donna che uni alla forza logica tutta
maschile il profondo intuito femminile, ed e^be carattere così equili-
brato e saldo che il Mazzini più volte scrisse a lei invocando resi-
slenza morale e coraggio, laddove a Carolina chiedeva quiete pel suo
spirito affaticato e stanco, ed alla signora Ashurst la materna bene-
dizione. Ma, senza nominare tutti i membri della famiglia a cui il
Mazzini scriveva con tatto e finezza tale da non lasciare quasi scor-
gere quali tra essi fossero i preferiti, ricorderò, ancora soltanto Gu-
glielmo Ashurst, uno di quegli uomini che lavorano attivamente nel-
l'ombra e che riuscì a fondare assieme con lo Stansfeld, col Taylor,
con lo shaen la « Lega Internazionale del Popolo » e successivamente
'< L'Associazione tra gli amici d'Italia».
In queste lettere inglesi, dallo stile intimo ed affettuoso, appare
chiaro il bisogno che egli sente di interessarsi della vita di questi
suoi lontani e di interessarli della propria in tutte le sue varie e
mutevoli vicende.
È questa una corrispondenza dalla quale il Mazzini ritrae gran-
dissimo sollievo e benessere morale per l'influsso che quella brava
gente di casa Ashurst, gente quieta, ma sensibile e buona, lontana
da rancori e da ire di parte, esercita sullo spirito forte e dolorante
del grande veggente. Quella che più fortemente esercitò quest'in-
A PROPOSITO DI UNA NUOVA RACCOLTA DI LETTERE MAZZINIANE i41
flusso fu Emilia, per la quale il Meizzini ebbe vera predilezione fra-
terna, ed essa comprese il suo spirito tanto da divenire la migliore
autorità del suo credo politico e religioso. Peraltro tale influsso ripo-
sante e benefico il Mazzini lo ritrasse inconsapevolmente non sol-
tanto dagli amici Ashurst, a lui carissimi, ma da tutto l'ambiente
inglese, tutto fatto, a dire il vero, di schietta e larga ospitalità, e
vorrei dire, dal paese stesso, pieno di tranquillo benessere e di sano
vigore come il verde rigoglioso dei suoi pascoli grassi.
Assai diversa è, peraltro, questa corrispondenza con gli Ashurst
quando la si paragona, mettiamo, con quella dei Craufurd. Le let-
tere agli Ashurst dallo stile calmo e profondo, sono tutte dense di
pensiero, tutte vibranti di póissione e di amore; quelle ai Craufurd,
invece, affrettate e concise come il bollettino di un uomo daffari,
riflettono uno stato psicologico oppresso da una sola, grande preoc-
cupazione, la scarsezza dei mezzi. Ma come poteva il povero Maz-
zini sognare associazioni segrete, scuole e Comitati d'azione senza
sognare nel medesimo tempo quattrini, quattrini e quattrini? Come
proteggere i profughi bisognosi di protezione e di lavoro all'estero,
come fondare giornali e riviste patriottiche, come preparare il lievito
della rivolta in Italia e fuori d'Italia senza far circolare sottoscri-
zioni benevole, mercè l'attiva collaborazione di amici veri e fidati?
Questa ricerca affannosa, assillante di denaro fa sì che quelle lettere
siano tutte riempite di una terminologia affaristica a base di quote,
fondi, stato di cassa, spese in corso, tale che non si direbbe, al primo
vederle, scritte da un uomo così nutrito di idealità e di sogni. An-
cora oggi, rileggendo quelle pagine che ricordano ad una ad una
tutte le lire versate dalla carità inglese per la nostra causa, e ripen-
sando alla questua umiliante che quel nostro Italiano dovè fare in
terre straniere per riunire quelle migliaia che la nostra classe bor-
ghese apatica e sonnolenta non seppe procurargli, ci si sente umiliati
e depressi. Ma la virtù non è in coloro che custodiscono l'orgoglio,
ma in quelli che sanno farne rinuncia per un fifie alto e puro al-
l'infuori di sé stessi.
Nelle lettere agli Ashurst si parla invece di avvenimenti politici
e di idealità lontane da ogni richiamo alla spinosa realtà economica.
Chi non conosce la storia del nostro Risorgimento la impara e credo
non la dimentichi più, poiché ai dati minuziosi ed ai pettegolezzi
diplomatici su cui s'intessono le vecchie storie (vecchie nella fattura,
non nel tempo) vengono sostituiti pochi commenti larghi e profondi
che gettano luce schietta e pura, tanto sullo sipirito retrivo delle
Corti europee della prima metà dell'SOO, quanto sulla delicata situa-
zione morale italiana di quei decenni. Non credo peraltro affatto
che il Manzini, scrivendo agli Ashurst, pensasse di abbozzare sotto
forma epistolare una storia d'Italia riguardante quel periodo, ma
certo esse formano per sé stesse un magnifico diario della evoluzione
politica e psicologica d'Italia dopo il '40. In queste egli appare, a
volte fiducioso e forte, a volte sconfortato e mesto, ma sempre sen-
sibile alla dolce nota degli affetti intimi e famisrliar: che vibrano
nell'animo suo forti e tenaci ogni qualvolta egli scriva a qualcuno
di loro.
Sono dolente — scrive ad Elìsa — di non essere pratico della vostra
lingua, poiché vi devo dire che ove scrivessi bene il solo giudizio che possa
142 A PROPOSITO DI UNA NUOVA RACCOLTA DI LETTERE MAZZINIANE
arrecarmi un coniorto infinitesimale . ma sempre un conforto, è quello delle
domie, ossia delle >poohe donne ohe eUmo.
E a Carolina:
Ancora una parola oggi, cara Ceirolina. Essa mi semJQra l'unica cosa dolce
nella vita. Lo scrivere a voi, ad Emilia, a tutta la vostra cerchia affettuosa, è
per me come ral)l>andono di un fanciullo dolorante in grembo alla sua TTìanuDa.
Ma non md fraintendete, io non sono né accasciato oè vigliacc£tmente ma^
lìnconico.
E continua riferendosi ai falliti moti di Milano del '53:
Io mi addoloro per la cosa in sé, la <|uale, sebbene da pochi soltanto sarà
creduta, o capita, (fu cosi prossima al compimento. Ventiquattro ore di resi-
stenza a Milano avrebbeo'o fatto tutto; l'accensione di un fuoco universale
attraverso l'Italia e ventiquattro ore di resistenza hanno dovuto essere subor-
dinati a così piccole circostanze. Voi saprete tutto più tandi e vedrete che io
non fui né un matto né un sognatore come tutta l'Italia mi cii>ede oggi. In
<Iuanto a me individualmente, nella impossibilità in cui mi trovo di spiegare
e di svelare i fatti, ogni parte attiva nella direzione è finita. Per conseguenza
mi dimetterò subito, scioglierò il Comitato Nazionale, consegnerò tutti i poteri
alla Direzione Centrale dn Roma e ne uscirò...
La questione Romana, la più seria iper lui dopo quella dell'Unità,
lo agita e lo fa dubitare di sé stesso. Scrivendo ad Emilia il 2 mar-
zo '49:
...Parto questa notte per Roma, ho tutte le vostre lettere, fino al 22 feb-
braio 1849, ma mi è stato impossibile lo scrivere. Scriverò da Roma, e, in
tutti i modi, riceverete da me dei giornali. Sto bene ma piuttosto malinconico
e senza alcun senso di forza dentro di me, desiderando l'azione materiale
sulle barricate o altrove a qualunque altra fornw. di attività. Qui lo scontro
non sembra ancora in vista, poiché i nostri uomini mantengono la i>osizione
senza che vi sia avanzata dal lato opposto. Ma non credo, che passi il mese
senza che avvenga la crisi. Tutti, l'Austria, Napoli, la Francia, l'Inghilten-a
sembrano esserci contro, ma noi faremo tutto quel che potremo. La stampa
estera ci è vergognosamente ostile, tutti gli articoli che vedo a caso sui vostri
giornali, un tessuto di bugie...
Una delle cose di maggior rilievo è il contrasto tra la volontà
del Mazzini, che cova l'azione, e l'inerte mollezza della classe media
italiana, la quale lascia pietosamente disperdere le più belle dispo-
sizioni del nostro popolo. È questa un'idea assillante che lo tormenta
e lo esaspera:
...La cosi detta classe intellettuale è rovinata dallo scetticismo, dalle in-
gannevoli speranze, dai calcoli errati e dalla ostinata inerzia del Medici e degli
uomini d'arme. (Si riferisce al tempo dei martiri di Mantova). Il favore che
gode l'alleanza austriaca e l'azione combinata della Francia e dell'Inghilterra
contro la Grecia, aggravano la situazione. Io ho momenti di vera disperazione.
Per altro non sono impaziente e smanioso di azione a tutti i costi, e ove tro-
vassi giusto il loro ragionamento, e la massa del popolo inaidatta alla situa-
zione, mi sentirei certamente rassegnato, e mi metterei a scrivere, a stampare,
a educare; ma la massa del popolo è buona, volonterosa e pronta, tanto che,
se potessi trovarmi tra quella liberamente ed essere al medesimo tempo dap-
pertutto la guiderei e poi penserei al resto. Invece son lontano, incapace di
A PROPOSITO DI UNA NUOVA RACCOLTA DI LETTERE MAZZINIANE 143
agire se non a mezzo di intermediari, a mezzo di quella stessa classe che è
aàsolutamente riluttajite.
(Dalla Svizzera o dalla Frootiera Italiama, 5 maggio 1854. Ad Emilia).
Poiché in quel tempo ferma è in lui la convinzione che
l'insorgere d'Italia sia un fatto relativamente facile, ora che l'idea si è diffusa
nelle masse, ed è amaro — dice — il vederle ostacolate dai miei migliori
amici, dagli stessi uomini ohe crederlo avessero acquistata la coscienza della
forza italiana a Venezia, a Roma ed altrove.
(A Carolina, dalla Svizzera 22 febbraio 1853).
Ma tali uomini appunto il Mazzini li giudica fiacchi, d'intel-
letto mediocre, incapaci di sfruttare il momento fatale facendo da
leva sul popolo. Onde il suo insoddisfatto bisogno di azione che lo
fonde in ispirito con Garibaldi nell'ansia di raggiungere il vagheg-
giato intento. Egli, che alla mentalità comune è apparso solitario
f»ensatore, segregato dal mondo, lontano da ogni fremito di vita
reale, vuole morire «col tricolore italiano sul petto, e non con un
attacco di paralisi sulle carte e sui libri». (A Carolina, Front. Ital.,
11/2/ 1853). Non questa sola ma tutte le sue lettere inglesi dalle espres-
sioni incisive e scultoree pulsano di vita e di ardore ad ogni accenno
della questione nazionale, come il polso accelerato dell'ammalato in
attesa della crisi. La crisi che viene infatti a coronare gli sforzi degli
audaci e degli eroi realizzando finalmente il grande sogno del Maz-
zini: l'unità d'Italia.
Ma vi sono moltissimi altri profili interessanti in queste lettere
come i suoi apprezzamenti sui francesi, sempre a proposito della
Repubblica Romana:
I Francesi hanno deciso che la Repubblica non si muoverà finché non è
uccisa da apoplessia; in quanto alle altre specie di morte, morte lenta per tisi,
morte per vergogna e via di seguito, abbiajno abolito tutto ciò. Essi sono mal-
menati, picchiati, insultati a destra e a manca; au nom de la République, essi
combattono contro le Repubbliche, essi sono privati della libertà di stampa,
del diritto di riunione, i loro soldati rossi au nom de la liberté du vote sono
mandati in Africa, i loro eroi, i fondatori della République, languono a Dou-
blens, Vincennes, Mont Saint Michel, trasportati, uccisi, le loro elezioni a
SaóJis e Loire annullate, la loro diplomazia legata all'Austria in Svizzera.
Anche aperti e schietti sono i suoi giudizi sulla politica estera
in rapporto all'Italia, a proposito dell'intervento o non intervento
delle potenze europee nella faccenda italiana, e specialmente quelli
riguardanti il Regno Unito. Dice il Mazzini sul diritto di autodeci-
sione del popolo romano nel riammettere o no il papa dopo i fatti
del '49 :
L'Inghilterra dovrebbe ora insistere a che il popolo avesse a scegliere
liberamente il suo Governo; fu questa una solenne promessa francese, ed è
ima vergogna per l'Inghilterra il permettere alla Francia di sedere come una
potenza conquistatrice in Roma.
Ma chi può sperare generosità dal vostro Governo? Tuttavia fate che gli
amici nostri facciano quel che pcesono. Qui l'opinione è così unanime che,
ove fosse debitamente consixltata, non permetterebbe più al papa di ritornarvi.
La grande Inghilterra, sebbene proclamasse con ispirazione
evangelica l'uguaglianza civile dei popoli e il diritto sacro alla li-
144 A PROPOSITO DI UNA NUOVA RACXZOLTA DI LETTERE MAZZINIANE
berta, quando si venne al dunque si chiuse nel suo magnifico isola-
mento lasciando che oppressi ed oppressori se la sbrigassero tra loro.
In una lettera del 6 agosto '49, scritta ad altro amico inglese, la
quale è contenuta nel volume « Regalità e Repubblicanismo in Italia»
dice appunto il Mazzini:
Essa non ha sentito che la lotta a Roma serviva a tagliare il nodo gor-
diano della servitù morale contro la quale ha vanamente opposto le sue So-
cietà bibliche, le sue alleanze cristiane ed evangeliche, e che li stava per
aprirsi, ove avesse porto un braccio fraterno nella sommossa, larga strada al
pensiero umano. Eìssa non capi che la pexola coraggiosa: rispetto alla libertà
di pensiero, opposta al linguaggio ipccrito del Governo francese, sarebbe stata
sufficiente ad inaugurare l'èra di una nuova politica religiosa e a conquistarle
un tiscendente decisivo sul Continente.
Era questo un assenteismo causato oltre a tutto da ignoranza
delle cose nostre e dalla svalutazione delle qualità intrinseche della
nostra razza. Appunto su ciò scrive ad Elisa:
...La vera causa dell entusiasmo inglese sulle fatte o progettate riforme
del Papa è questa: essi non ci slimano, essi ci commiserano. I loro sentimenti
verso di noi sono tutti nutriti di carità cristiana : la carità, cosa sacra quando
Cristo pel primo ne parlò, cosa peccaminosa ora, in relazione ai miei senti-
menti. Essi sinceramente desiderano che noi si sia meglio nutriti, meglio ve-
stiti, meglio alloggiati, più comodamente sistemati nell'insieme. In quanto al-
l'Unità, alla Nazionalità, missioni da compiersi in Europa e per l'Europa,
queste sono trattate come sogni alle quali non abbiamo diritto.
Ed il Mazzini che ebbe tanti modi di constatare questa benigna-
zione Inglese su l'Italia si sdegna al sentirsi felicitare per le elargi-
zioni di Papa Pio IX nel '46. Eki in altra sua, alla stessa, le dice con
impeto di franchezza:
Ce l'ho a morte coi vostri connazionali. Non posso incontrare conoscenti
inglesi per la strada senza sentirmi rallegramenti e felicitazioni con « guarda
un po' il Papa! Il Papa ha perdonato, il Papa ha diminuito II dazio sul cotone
e siilla seta grezza. Dunque via, potete sentirvi felici. Il giorno luminoso della
rigenerazione italiana è cominciato », e così di seguilo con frasi giornalistiche
del genere. Quasi potessimo rivestirci l'anima di cotone e di perdono per i
peccati fatti dagli altri popoli. (Manchester, settembre '46).
Ma questa dolorosa svalutazione delle nostre qualità morali,
per cui tanto si infiammava d'ira l'anima di Giuseppe Mazzini,
questa ignoranza profonda del processo evolutivo della Nazione
italiana che gli scettici ed i pessimisti non vogliono ammettere,
esiste tuttavia oggi in Inghilterra. Pare impossibile, chi l'avrebbe
creduto alloral Si valga o non si valga, si facciano o non si facciano
progressi cogli anni, gli Inglesi, salvo poche eccezioni, non sono
disposti a considerare l'Italia all'infuori dei suoi musei, delle sue
gallerie d'arte, dei ruderi del Foro, dei paesaggi pittoreschi! Nem-
meno l'attivo intervento nostro nel conflitto europeo ha scosso quello
stato di cristallizza-iione intellettuale in cui permangono ostinati a
dispetto di tutti i cataclismi del mondo.
La cosa non è allegra, tutt'altro. Ma è proprio tutta colpa nostra
se agli Inglesi occorre tanto tempo per levarsi dalla mente che fra
Diavolo vive solamente nelle fiabe che ancora si raccontano ai nostri
bimbi. Angelina Tommasi.
ARMONIE SOCIALI
I.
PACE.
Fioretti XXI.
Disse Francesco: « Vieni, frate Lupo; —
e fece il segno lui di santa croce —
da la parte di Cristo io ti comando
che a niun vivente tu non sia feroce ».
10
E il Lupo a quel comando ed a quel segiio
chiuse la bocca, la corsa affrenò;
si trasse mansueto ai pie del Santo
e come agnello docile posò.
Disse Francesco : « Frate Lupx), in questa
terra gran danni e malefìzi fai;
senza di Dio licenza, oltraggi e guasti
a creature sue facesti assai;
e non pure a le bestie, ma protervo
anche agli uomini osasti arrecar guai,
ed ei son fatti a immagine di Dio.'
Però 3ei ladro ed omicida ornai
degnissimo di forca, e vanno intomo
le grida di venfletta e gli alti lai.
Ma io vo', frate Lupo, che sia pace
fra te e costoro, sì che tu non mai
gli offenda più. Prometti a me che sempr»
ciascun vivente per amico avrai?
E il Lupo a dimostrar ch'aveva inteso
rizzò gli orecchi, il corpo dimenò
e chinando la testa, ad obbedienza
facile e pronto l'animo mostrò.
VoL OOTVn. •eri» TI — li
19tt.
146 VERSI
Disse Francesco : « Frate Lupo, in cambio
di questa pace avrai quebe le brame;
ti nutrirà la gente della terra
né più a peccare t'indurrà la fame:
ma tu prometti ohe non più malvado
persone o bestie farai viver grame.
E il Lupo arruffò il pelo, e quasi al fiuto
sentisse carni e sangue imputridir,
diede segno di schifo e fé' a le nari
alzate rinnovante aria sorbir.
Disse Francesco : « Frate Lupo, intendo
che di tal patto tu mi faccia fede,
perch'io me ne riposi ». E sì parlando
tese la mano come Tuom che chiede.
E queUo si levò per sua risposta
e nella tesa man depose il piede.
Come i frati minor vanno per via
mossero entrambi verso la città,
e il Lupo andò a giurar pubblicamente
che il patto deUa pace osserverà.
Disse Francesco : « Popolo di Dio,
questo è il Lupo che v'ha pieni d'orrore;
ei molto fu crudele e fece intomo
con i denti e con l'unghie assai dolore.
Ora viene tranquillo a chieder venia
che oprò per fame e non per malo core;
d'ora innanzi vuol esservi fratello
e voi l'amate in nome del Signore.
E il Lupo trasse fuor molle la lingua,
snodò la coda, i fianchi si battè,
e con lento girar degli occhi fulvi
sembrava offrire e domandar mercè.
Disse Francesco : « E voi fate ppomeaaa
che il cibo della vita gli darete,
perchè in parola andai mallevadore
che non debba soffrir fame né sete,
VERSI 147
ed ei sarà senz'irà e senza frode
mansfueto con voi come voi siete.
Frate Lupo, starai verso tai patti
con ogni creatura, in pace e quiete?
E il Lupo s'appressò, piegò i ginocchi,
prontamente il pie dritto sollevò
e premendo così la man del Santo
il patto della pace suggellò.
IL
PANE.
Grandi, col muso roseo fumante,
l'occhio socchiuso, a passi gravi e lenti,
in fila i buoi trascinano l'aratro
tesi a lo sforzo i muscoli pazienti.
Il vomere, nemico a ogni erba impura,
squarcia la fredda oscurità profonda
e trae la zolla al bacio della luce,
che la scalda coi raggi e la feconda.
Ritto sul tronco, quale re sul trono,
l'uomo brandisce il pungolo e comanda;
e legno e ferro e buoi gnida nel solco
ove del seme la virtù si spanda.
Lento spunta dal germe un filo verde
che il sol nutrisce, la rugiada irriga,
e s'allung'a e s'ingrossa, finché piena
e bionda porge al mieti tor la spiga.
Giù dalla rupe con fragor che assorda
cade il torrente; per la balza oscura
biancheggiano le spume e vorticose
pomponsi a valle a l'urto delle mura.
Stride girando rapida la pietra
e morde e spezza e stritola e riduce
in bianca polve la preziosa messe
con la forza che l'uom cerca e conduce.
148 VERSI
Pur n^li avanzi suoi, distrutto, infranto
quel seme accoglie la virtù nativa,
che negli effluvi del bollor s'espande
nel fermento del lievito s'avviva.
Industre man li plasma e in nuova forma
gli offre del fuoco a le carezze arcane,
e rilucente nella crosta d'oro
spira l'odore e l'allegrezza il Pane.
Per te, o Pane, simbolo di vita,
han le braccia vigor, vibra il cervello;
tu ci raccogli al desco di famiglia
soggetti al padre, eguali col fratello.
Chi mai, sdegnoso della propria parte,
con bieca invidia ti può dir: sei mio?
Madre di tutti, dei tesori l'arca
t' aprì Natura e ti promise Iddio,
III.
LAVORO.
Fu creduto condanna: Iddio sdegnato
l'avea prescritto in pena del peccato.
Dagli alberi non più
senza fatica l'uomo avrebbe i frutti
né la terra darebbe il cibo a tutti
per innata virtù.
Ed il Lavoro fu legge agli umani.
Dal primo di quei secoli lontani
sino a l'ultima età
il comime Lavoro unì e protesse;
il campo arato maturò la messe
e sorse la città.
L'uomo scelse nel fondo dei torrenti
pietre angolose, ciottol' taglienti,
la creta radunò;
e quelle usò per ascia e per martello,
di questi fece ruvido coltello,
con Tal tra edificò
VERSI 149
e ne plasmò li fianchi a le capaaine,
che intessute di vimini e di canne
hanno nell'accfue il pie.
Pure è pietoso nella mente acerba
e in un vaso d'argilla il cener serba.
di chi vita perde.
Il Lavoro s'accrebbe. Generosa,
come a l'amplesso dell'amor la sposa,
la terra il seno aprì
e sul dorso dei monti e per le valli
il balem'o di lucidi metalli
l'occhio umano ferì.
Oh il lieto giorno che le braccia nude
rovente il ferro attorsero e l'incude
squillante risonò!
un fabbro eletto, ai primi raggi aflBso
della bellezza, il vago paradiso
dell'Arte contemplò.
Lavoro ed Arte. — Furon marmo ed oro
il portico, il teatro, il tempio, il foro,
i palazzi dei re;
ma quei resti ricordano la pena
dello schiavo, cui strinse la catena
ferocemente i pie.
Libertà venne; e furono famiglie
concordi a l'opra; furon meraviglie
di rinato fulgor
il battistero, il ducono, il camposanto,
per accoglier con gioia, fede, pianto
chi nasce, \'ive e muor.
Né il miracolo cessa. L'immortale
Genio ch'agita il mondo drizza l'ale
a più sublime voi:
rompe i suggelli al libro dei misteri,
e i sogni del pensier splendono veri,
come risplende il sol.
Lavoro e Scienza. — Vanno in densa schiera
a l'oflBcina, ai campi, a la miniera
di mille le tribù,
non più per affrontar travagli immani
o gemere a lo sforzo delle mani
come al tempo che fu;
160 VERSI
ma guide accorte a docili strumenti,
che arcana forza in macchine sapienti
costringe ad obbedir.
La mente e il braccio in armonia serena
saldan gli anelli d'aurea catena
e ride l'avx^enir.
IV.
AMORE.
S. Matteo V.
Gesù ristette sul pendio del monte.
Le rame rinascenti degli olivi
mt^veva il vento e inai^gentava il Bole.
Confusamente
la varia moltitudine sedea
su l'erba verde al pie dei tronchi ombrosi
in silenzio, in attesa; i visi intenti,
fìssi gli sguardi
in Lui che da^li azzurri occhi soavi
mandava raggi di superno lume.
Sotto il cielo sereno scintillava
tranquillo il mare.
E Gesù, aperte a benedir le braccia,
disse : « Beati i mansueti e quelli
che pace e carità nutron nel core.
Novella luce
splende a voi nelle tenebre e vi desta
a rinascenza di novella vita;
nuovi destini vi prepara nuova
legge d'amore.
Amatevi l'un l'altro; sia divelto
da le radici il mal germe dell'ira.
Ed anche allora che prostesi offrite
presso l'altare.
VEBSI
se mai vi punga il cor subitamente
ricordo acerbo d'un fratello offeso,
correte a lui; più grata andrà l'offerta
dopo la pace.
Pu detto a voi : sia giusta la misura
della vendetta pei sofferti danni;
ma io vi dico: perdonate, e in cambio
amate ancora.
Fu detto a voi: pei prossimi sia vivo
l'amore sempre e pei nemici l'odio;
ma io vi dico: amate ognuno, e prima
ohi v'è nemico.
Siamo chiusi gli orecchi a la nefasta
voce che ad opre disumane istiga;
l'albero infetto addensa nei suoi frutti
veleno amaro.
Chi rinacque all'amore in fermo sasso
fonda la casa, e per cader di piogge,
soffiar di venti e straripar di fiumi
rimane immota;
Ma i protervi e i malefìci la casa
fondan su arena instabile: le piogge,
i venti, i fiumi infuriano ed è grande
la sua rovina».
151
Festante un coro d'angeli dal cielo
cantò: «Incomincia il r^no dell'Amore».
Dal monte un coro d'uomini rispose :
«E così sia».
Giulio Navone.
IL CANTICO
Don Lorenzo spinse la bussola della chiesa: e lo scroscio della
Dora colmò l'aria azzunra. Di sopra ai bassd tetti del municipio le
creste candide del Monte Bianco splendettero nel sole.
Gli occhi del parroco, turchini come pallide genziane, scesero
dalle vette d'oro candido sulla fronte del giovane maestro che lo se-
guiva uscendo dall'ombra con la sua aria leggermente trasognata; e
sorrise anche a lui.
— Ho ragione? — disse: — Quando il settembre è bello, è più
bello del luglio a Courmayeur. Che limpidezza! Smaglia.
Adriano Davetti non rispose, ma dall'alto della scalinata si volse
a sinistra, e risalì con lo sguardo dal fondo della valle alla cima del
Grammont: i prati fulgevano, le foreste fasciavano alla base le rupi
violacee, spolverate d'oro, le creste tagliavano il cielo, le vette s'im-
mergevano nel turchino, e tutto era preciso e luminoso nella traspa-
renza cristallina dell'aria. Sussurrò :
— Sarebbe il paradiso ad aver l'anima tranquilla.
— Si è stancato troppo, figlio mio?
— Non credo! — rispose il ma;estro; ma le mani e le braccia
gli tremavano, come se uno sforzo eccessivo le avesse fiaccate sulla
tastiera dell'orgaino.
— Ed io ho paura di sì. Monsignore l'ha mandato qui a riix>sare,
ed io abuso della sua bontà... Non ci mancava altro che le facessimo
insegnare la messa cantata ai ragazzi di padre FulgenziI
— No, don Lorenzo! — protestò dolcemente il maestro. — Mi fa
tanto bene!
Dietro a loro la porta della chiesa fu spinta, ne uscì una schiera
di fanciulli; ciascuno d'essi passando salutava: ultimi vennero due
chierici; uno dopo l'altro baciarono la mano al vecchio parroco, e
scesero la scalinata.
— Fra pochi giorni sarà finita anche questa, — riprese il par-
roco. — La colonia alpina ritornerà a ToriiK>: i villeggianti si sper-
deranno per l'Italia: non ci saranno più né funzioni, né accademie
in chiesa...! Non ci sarà altra musica che quella dei campani e delle
Nota. — Dobbiamo alla cortesia dell'editore Mondadori il permeaso di
pubblicare queste pagine che formano un capitolo di Fragilità, il nuovo vo-
lume di Virgilio Brocchi d'imminente pubblicazione.
IL CANTICO 153
mandrie ohe scendono dai pascoli. Sentirà ohe pace! Perchè lei si
fermerà con noi, vero?
— Se loro non mi mandano via!
Don Loren^io lo guardò con quel suo sguardo azzurrino pieno di
sorriso e insieme di rimprovero, e disse :
— Sa che cosa ci farà sopportare la pena della sua partenza, a
me e a Sidonie, quando lei se ne dovrà andare? Il pensiero che sarà
proprio guarito... Prima no, figlio mio! Me lo promette?
— Sto tanto meglio; ma glielo prometto.
— È vero — ammise il vecchio parroco, — lei sta molto meglio :
pare um altro! — E lo guardò. Alto, ma esile, il musicista portava
le spalle erette quasi a fatica: i suoi occhi larghi, del color dell'ac-
ciaio, si turbavano facilmente sotto l'altrui sguardo: e il rossore
improvviso gli correva e dileguava sul pallido volto. Ma quel pallore
s'era bronzato di sole, e la fronte si era spianata; sorridendo la bocca
s'invermigliava sotto l'arco dei bafiB un po' spioventi : né più egli si
curvava sul bastone come un convalescente che trema sulle gambe.
— Si ricorda — sorrise Don Lorenzo — quando Pian Goret le
pareva troppo lontano? Non vedo l'ora che una bella nevicata ci
spiani il dorso della montagna per fare con lei una volata sugli sci
dal col Ghécrui al Portud. Non è proprio stanco. Facciamo una visita
agli alveari?
— Non deve andare all'arrivo della diligenza?
— Manca un'ora. C'è tempo.
Gli si mise innanzi per un sentiero che tagliava la strada, s'iner-
picava dietro la chiesa, attraversava il prato e spariva più su nella
foresta. Camminava col passo duro e lento delle guide alpine, le spalle
poderose spinte innanzi; e al sole la testa nuda brillava d'argento.
Quando fu al limite del bosco, sd volse per attendere il suo giovane
amico, e la bella faccia placida venata di rosso gli si illuminò dello
sguardo ingenuo e chiaro come lo sguardo d'un bambino.
— Corro troppo?
— Mi scusi : pensavo.
Il parroco non gli chiese che cosa pensasse; ma lo prese a braccio
senza aver l'aria di sorreggerlo e affondò tra i larici; uscì dalla fo-
resta, per affrontare il terreno franoso, a ciufiB d'erba. Sul cancelletto
aperto nel recinto rustico del suo orto botanico, disse con ingenuo
vanto :
— Non è certo il giardino dell'abate Chanotux: non ci sono
le rarità delle Ande e dell'Himalaya; ma le api ci trovano i fiori delle
nostre Alpi, e li preferiscono.
Dagli scheggioni ohe rivestivano le grotte cascavano a ciuflB le
sassifraghe rosee; nella aiole cinte di sassi stellavano, trapunte d'ar-
gento, le rose alpine del Col di Jula, della Téte del Liconne, del Col
d'Amdant; tremolavano all'aria i fioretti aromatici dell'/ra e del Ge-
nepy; lucevano come lampadine elettriche le genziane turchine, le
genziane violacee del Grammont e del Cormet fulgevano i soli aran-
ciati delle arniche, i papiaverini gialli del Piccolo San Bernardo; sui
pratelli rabbrividivano le negritelle odorose di vainiglia, e ridevano
le faccette delle viole tricolori: erti sulle placche rocciose si rizza-
vano violenti di turchino gli stocchi velenosi degli aconiti; si arric-
ciavano su gli steli i fiori carnosi dei gigli screziati : e da per tutto
154 IL CANTICO
sospiravano fragili, pallidi, senza foglia, fioritura iperborea, colchici
lilla ohe i montanari chiamano freddoline.
Un ruscelletto piombava cantando da una rupe; si allargava in
un limpido seno orlato di ranuncoli e dei candidi ciuffetti piumosi
che impennacohiiano gli alti acquitrini; ne rifluiva per rivoletti tutti
niiurmuri e gorgogli, tra il ronzìo operoso delle api che mettevano
nell'aria, sui fiori i miìle baleni delle alucce. Gli alveari, come pa-
lazzetti di legno, si allineavano al sole, di là del bacino, contro la
mui-aglia rocciosa, sopra la bassa foresta sfiorita dei rododendri
contorti.
Le api, come se avessero riconosciuto don Lorenzo, ronzavano
vibrando intomo al capo d'argento; egli si chinava, mondava, get-
tava con gesto uguale e pacato: solo quando alzava il coperchio
d'un'amia, soffiava dalla grossa pipa, che s'ora tratta dalla sottana,
uno sbuffo: e nel tumulto improvviso delle pecchie la sua faccia
spariva tra il fumo come tra i nuvoli gli Dei omerici dinanzi al
fragore e allo scompiglio della battaglia.
In disparte il maestro Davetii ascoltava la musica delle acque
e delle api, curvo su di sé come sopra una caverna armoniosa: ed
era così assorto che sussultò quando don Lorenzo gli sorse dinanzi
dicendo :
— Ce n'è del miele quest'anno!... Pia sarà contenta.
— Chi?
. — Mia nipote: Pia Runa, la figlia di nostra sorella...
— La signora che arriva oggi?
Il prete accennò di sì; si curvò sul laghetto, si lavò le mani di-
guazzando; poi le scosse violentemente e le tese al sole per asciu-
garle: quando furono asciutte, trasse dal taschino il grosso orologio
d'argento, e disse :
— É ora.
Uscendo dal cancelletto riprese: Capisco ohe lei abbia paura
d'ogni novità, e che la spaventi l'idea d'un ospite tra noi; ma io non
sarei contento anche per lei che mia nipote si fermasse. La vecchiaia
è conteigiosa; e i giovani hanno bisogno di gioventù...
— Fossi giovane io come lei e la signora Sidonie...!
Il parroco non raccolse l'interruzione, e compì il proprio pen-
siero:
— Ma è impossibile che suo marito ce la lasci a lungo. Pensi
che è sposata da pochi giorni... La sua visita potrebbe essere una
tappa del viaggio di nozze.
— Viene con suo marito, dunquel — esclamò rannuvolandosi
Adriano Davetti.
Anche don Lorenzo si rannuvolò :
— Già...! — disse, — dovrebbe. Ma pwune di no... Anzi è certo
che viene sola. Ad ogni modo stia tranquillo, maestro: Pia è una
creatura che tien poco posto; non le darà disturbo.
Uscirono dal bosco; s'affacciarono al prato, squillò lontano sulla
strada del Verand tra una nuvola di polvere la tromiba della corriera:
il parroco gridò :
— Venga pur piano lei!
A gran passi scese attraverso il pendìo, saltò giù dal muricciolo,
costeggiò la chiesa e spari.
IL C\MTICO iÒÒ
• •
Il Davetti si arrestò: era veramente infastidito come se la sua
vita in canonica da un momento all'altro stesse {>er diventare intol-
lerabile; e il mondo intomo gli si fece cupo come la sua ipocondria.
L'ultimo raggio di caldo sole moriva sulla vetta violacea del Cram-
mont; e dalla Giorassa alla guglia del Flambeau la chiostra gigan-
tesca del monte Bianco si illividiva sui ghiacciai spenti.
Provò tale sconforto che non ebbe più né desideri né pensiero;
una cosa sola desiderò, ma vagamente, quasi senza coscienza: es-
sere chi sa dove, ma lontano, ma solo; e non dover vedere visi nuovi,
ascoltare, parlare, offrire la propria faccia all'altrui curiosità, la pro-
pria tristezza all'altrui commiserazione.
Sussultò come se udisse realmente la voce della signora Sidonie
rispondere a una domanda che non aveva voce che di vento confuso,
— È nostro ospite : ce l'ha mandato il vescovo di Novara ohe fu
compagno di seminario dello zio. Dicono che sia un bravo musicista
— è maestro di cappella — ma per passione, non per bisogno : è un
signore.
Il vento confuso sussurrò qualche cosa, a cui rispose la voce
nota:
— Poverino, è malato. È malato anche nell'anima. Volle guidare
liii un'automobile; aveva con sé la moglie sposata da pochi mesi :
forse non era pratico: ruzzolò giù per una ripa... Quella povera ra-
gazza ebbe una gran scossa: le nacque il bambino troppo presto; e
non lo potè allattare perchè... perchè pare tocca ai polmoni. La do-
vettero ricoverare in un sanatorio della Svizzera; e c'è da due anni.
Lui, poverino, fu per qualche mese tra la vita e la morte perchè la
macchina gli si rovesciò addosso. Ma la malattia più grave l'ha nel-
l'anima, perchè si è messo in testa che è colpa sua se la moglie è...
e se il figlio è debole, debole come un cardellino nato in gabbia.
Chi sa se gli vive!
Con un gesto di dolorosa pazienza Adriano si strofinò la mano
sulla fronte. Sotto di lui, balzando a lato della chiesa, il campanile
vetusto s'aguzzava in aria e spiava dalle finestrelle vuote il gran
cerchio dei monti e la valle: le campanine, soavi come campani di
mandrie lontane sugli alti pascoli, lo chiamavano: egli sentì il pro-
prio nome nella loro voce, e la dolcezza lo placò.
Scese lentamente, entrò nella chiesola; s'inginocchiò dinanzi alla
balaustrata; pregò. Il pensiero di sua moglie, il pensiero del suo
piccino si congiunsero nella sua preghiera, si dilatò nella fiducia in
Dio: e la speranza lo compose in quiete. Si fece il s^no della
croce, attraversò l'aitar maggiore, la sacristia e uscì dalla portic-
ciola dell'abside. Di là dalla scalinata che scendeva sulla piazza,
s'apriva l'androne della ca.nonica, sprofondato verso il buio.
— Eiccolo — esclamò giocondamente la voce di Don Lorenzo
appena egli apparve sul gradino della chiesa.
Egli sussultò: aveva dinanzi il parroco, la signora Sidonie; e
una giovinetta infagottata tra scialli e mantelli, affogata da Un alto
cappello a campana, sotto cui s'arrotondava una faccina «< spaurita
e patita».
156 IL CANTICO
— Mia nipote, — presentò la signora Sidonie; — e questo è il
maestro Davetti di cui ti abbiamo parlato.
Allora il cappellone a campana parve rovesciarsi all'indietro;
je dall'ombra due occhioni guardarono umidi di pietà.
Sopraggiujigeva un alpigiano curvo sotto tre grosse valige; chiese
affannoso nel suo aspro dialetto :
— Dove le metto giù, signor curato?
Nello stesso dialetto, ohe non somigliava né al francese né al
piemontese, don Lorenzo gli rispose:
— Venitemi dietro.
Le donne e il facchino lo seguirono. — L'androne buio e largo,
tra la cucina a. sinistra, la sala da pranzo e l'ufficio parrocchiale a
destra, nascondeva in fondo tre gradini che si spezzavano girando
per raggiungere un pianerottolo: dal pianerottolo la scala, incassata
tra le pareti, saliva verso la luce, ad un corridoio lungo, bianco,
disteso da finestra a loggia, tra una doppia fila di usci, come una
corsia di convento: e ciascun uscio portava appesa un'immagine
litografata o un crocefisso o una piccola croce nuda. Nell'angolo
della finestra si drizzava contro il muro un fascio di sci, sormontato
da un cappellone floscio che quasi toccava il basso soflBtto : nel mezzo
del corridoio, tra due usci, sporgeva una rastrelliera su cui si sten-
devano piccozze e fucili; e ne pendevano un sacco da montagna,
due boraoce e grossi mazzi di fiori secchi.
Pia si guardò intomo e il suo sospiro si mutò in sorriso : sorri-
deva agli sci e ai fiori, alla loggia aperta a cui si affacciava la Téle
d'Arpe aguzza e dorata: salutava ecco la cameretta di zia Sidonie;
e, attraversando il corridoio, si avviava dritta all'uscio che seguiva
l'uscio di don Lorenzo, col respiro stanco e pur ampio di chi giunge
finalmente al suo rifugio. Ma la zia Sidonie le disse :
— Più in là, piccola.
E lo zio quasi scusandosi seguitò :
— Non ti aspettavamo: non volevamo mettere troppo lontano
il nostro mialato: gli demmo la tua stanza.
— Ti rincresce, piccola?
Sì, le rincresceva: le rincresceva come se avesse trovato occu-
pato il proprio posto anche nel cuore degli zii; e rimase un attimo
sbigottita, ma don Lorenzo ripetè con vxxse accorata :
— Ti rincresce, piccola?
Ekl ella sorrise :
— Ma no, ma no! Un passo più in là o più in qua è proprio la
stessa cosa.
Il facchino depose sul pavimento della cameruccia le valigie,
ringraziò il « signor curato » ed uscì. I suoi scarponi rumoreggia-
rono lenti sulle tavole del corridoio e si smorzarono a poco a poco
sulle scale. Pia sollevò il cappello che le copriva d'ombra la faccia
e lo depose sul letto; abbracciò stretta la zia e le posò il capo sulla
spalla con un respiro affannato.
— Avrai bisogno di metterti in libertà...! — disse esitando don
Loren2».
— Non te ne andare! — pregò Pia : — ti devo chiedere un con-
siglio.
fi chiuse l'uscio.
IL CANTICO 157
Di là dalla parete si l€fvò una, sommessa voce d'armionium: un
sospiro profondo, che pareva velato dai sordini, ma pur g^iungeva
così gonfio di pianto, che ac^x)rava.
•
• •
Era il maestro Davetti. Chiuso nella sua camera, suonava cur-
vandosi sulla tastiera screpolata, quasi per impedire che le voci si
dilatassero spaziando fuori del suo petto : e sfiorava appena gli avori
per non liberare gli squilli. Ma a poco a poco scordò sé e gli altri,
scordò il tempo che passava, l'oscurità che gli addensava lentamente
velo su velo, finché una nocca picchiò all'uscio e dallo spiraglio lu-
minoso s'affacciò don Lorenzo dicendo con vope in cui era spenta,
ogni giocondità:
— Signor Adriano, vuol scendere a cena? È pronto.
Egli si alzò di scatto.
— Eccomi!
In quell'attimo si ricordò con fastidio l'ospite nuova: la vide
con la faccina insignificante sepolta nel gran cappello piumato, e
pensò:
— Ha un visetto da buona; ma é tanto bruttina!
Certo era bruttina o quasi; ma cjuando egli la rivide a fronte
nuda, sotto la lampada, seduta accanto alla zia, stretta tra la coda
del pianoforte e la mensa rotonda, quasi non la riconobbe : i capelli
neri pesanti le fasciavano la faccia involare, troppo tonda, col
naso troppo corto, col mento troppo diviso; ma sotto la fronte un
po' angusta lucevano due grandi occhi vellutati che non si rassegna-
vano a sospirare : e la giovinezza le dava una freschezza rosata che
il viaggio e il dolore non avevano appannata.
Pareva che inghiottisse a fatica le cucchiaiate di brodo, e rispon-
deva con pallidi sorrisi a don Lorenzo e a zia Sidonie che le parla-
vano sommessamente, pietosamente, come a una piccola malata che
si vuol confortare pur con la carezza della voce; ma di tratto in
tratto, come se dimenticassero che bisognava esser tristi, gli occhi
di Pia mandavano un guizzo e le labbra si accendevano d'un riso
vero. Ci fu un momento in cui una risata le zampillò fresca dalla
gola: la mozzò di subito rannicchiandosi mortificata. Ma allora lo
zio e la zia presero a parlare a voce naturale, e più francamente la
esortarono a bere, e le colmarono il piatto; ed ella mangiò e bevve;
poi rise di nuovo e non abbassò più la fronte; e parlò calma, som-
messa, ma senza tremore; e la sua voce aveva risonanze così dolci,
una vibrazione così armoniosa, che il musicista d'un tratto la guardò
e le chiese:
— Lei canta, signora?
— Canto...! — ella rispose con un accento e una sospensione
che significavano : « canto come un'operaietta che impara le canzoni
della strada » . E c'era nel suo volto, in tutta la sua personcina tonda
tanta ingenua e fresca e contagiosa giovinezza che Adriano le sorrise.
Chi sa come, non c'era più su loro la desolazione, o almeno non
accorava più: anche Sidonie respirava alleggerita. Ma dof>o cena^
invece di caffè volle dare alla nipote una chicchera d'iva che con-
cilia il sonno, e poi le disse:
158 IL CANTICO
— Devi essere stanca, piccola! Andiamo, andiamo a dormire!
Si chinò ad abbracciarla: c'era nella sua persona, ohe si pie-
gava così sulla seggiola, il ricordo dei lontanissimi anni in cui,
bimba. Pia lasciava ciondolare sulla tavola la testolina assonnata,
ed ella se la prendeva in braccio sussurrando: « Dà la buona notte
a don Lorenz»! ». E poi la sollevava stringendosela contro il petto
per salire le scale.
— Buona notte!
— Buona notte.
Venne la domestica e sparecchiò in silenzio.
In silenzio Adriano Davetti guardava pendere dalla parete, sopra
il pianoforte, il ritratto del papa appena morto, il ritratto del papa
appena eletto, e in mezzo, dentro una cornice dorata, Aò/re Dame
de la guérison ritta sui gradini della sua eh lesola, il braccio teso
contro il ghiacciaio della Brenva precipite sotto i dirupi e le guglie
vertiginose del Monte Bianco. Don Lorenzo trasse dalla credenza
una bottiglia dorata e la piantò, ritta tra due bicchierini, sulla ta-
vola; tolse dal cassetto, di sotto al tappeto, un mazzo di carte, e si
mise a mescolarle lentamente, distrattamente. Chiese versando il
liquore :
— Un genepì?
Poi accese la pipa; posò la mano sul mazzo delle carte, e dopo
una breve esitazione mormorò :
— Lei è ormai di casa : mi pare giusto di dirle subito come
stanno le cose. Mio cognato è debole, ma ostinato: sarà un bravo
negoziante, ma non ha mai concepito che sua moglie e sua figlia
abbiano un'anima. Il suo socio è peggio di lui, anche perchè è più
vecchio. Per perpetuare la loro società, decisero d'unire in matri-
monio i figli: e non furono più possibili discussioni. Né io né Si-
donie approvammo le nozze, e tanto meno le approvava nostra so-
rella, la mamma della ragazza, anche per la differenza d'età d^li
sposi: Pia ha poco più di vent'anni; il Runi ne ha quasi trentasei.
Soffiò qualche buffata come quando affumicava le api, poi ri-
prese con voce più sorda :
— Però Pia aveva il cuore libero; non amava il fidanzato, ma
non amava nessun altro. Lui invece... Fecero un breve viaggio non
lieto... Ieri tornarono a Torino; e quel disgraziato confessò a sua
moglie che aveva già... un l^ame: oh legittimo no! né dinanzi a
Dio, né dinanzi agli uomini; ma... un legame, ecco. Il padire aveva
vietato al Runi di sposare quella donna, pena la miseria; egli aveva
obbedito; ma ne aveva due figli...
— Povera signora Pia! — esclamò il Davetti.
Don Lorenzo assentì alzando ed abbassando pian piano il capo
e sospirò:
— Ah, sì, povera Pia! Dire tutto a suo padre? Voleva dire af-
frontare una coercizione intollerabile alla coscienza. Rifugiarsi tra
le braccia di sua madre era come schiantarle il cuore inutilmente.
Si è ricordata dello zio. È venuta qui per rifugio, poverina, e a chie-
dere se non si possa annullare il suo matrimonio.
Adriano lo guardò in faccia sospeso; il parroco scoese il capo per
rispondere no, di no, di no: poi riprese:
— Forse la legge degli uomini può annullare un matrimonio
IL CANTICO 159
che fu un tradimento, ma per la legge della Chiesa il matrimonio
in ogni caso è indissolubile, perchè Dio non congiunge solo i corpi,
ma le anime.
— Anche (juando uno dei diie non poteva giurare senza sacri-
legio?
Dolorosamente, ma sicuramente il sacerdote rispose:
— Anche! La promessa celebrata dinanzi a Dio annulla ogni
altra promessa. E d'altra parte — aggiunse — il matrimonio non
è un contratto che cessa d'eesere valido quando uno dei contraenti
manca al proprio impegno.
Il maestro sussurrò ancora:
— Povera signora!
— Sì, povera Pia! Ma il Signore le ha dato il dono della rasse-
gnazione. Quando temevo che si sarebbe disperata, si rasserenò in
volto: e sa che cosa disse?... « Pazienza; farò conto d'essere una ra-
gazza che ha rinunziato a sposarsi. Dopo tutto non è una gran di-
sgrazia vero zia Sidonie? ».
Allora Adriano provò una pietà così grande ohe sospirò per
quella poveretta come per una sorella di pena.
— Scopa? — domandò don Lorenzo. Prima che il maestro ri-
spondesse, gli gettò dinanzi ad una ad una le carte, ed esortò :
— Su, un sorso di genepìi
•
• •
I villeggianti emigrarono a poco a poco: prima le ville, poi gli
alberghi si chiusero; ma il cielo continuava a risplendere mirabil-
mente limpido; talora un vortice di tormenta impennacchiava ap-
pena d'aria argentea la cupola del Monte Bianco, e spariva; una nu-
vola bianca, gonfia di luce s'affacciava al colle del Gigante; ma il
vento che l'aveva spinta su dalla Francia la dissolveva nella sma-
gliante azzurrità del cielo, e la soffiava via soflfioe verso la Svizzera.
Le api ronzavano ancora dalle amiche alle genziane, dall'iva alle
negri tei le; e le amie traboccavano di miele.
Poi dagli alti pascoli tra il Gol de la Seigne il Pré de Bar, dal
Fresney, dal Bruillard, e dalle Jorasses; dal Grand Goliaz e dalle
Grandes Rocheres, per le alte \-ie della Testa Bernarda, della Saxe,
del Mont Fortin e del Ghécrui, con la Dora della Val Venis con la
Dora della Val Ferret, le mandrie scesero nella conca fulgida di
Courmayeur, e la invasero, fiumana di rosse groppe ondeggianti,
che coprì col suo fragore di mugli e di campani, l'incessante fragore
del fiume sbalzante tra i macigni verso gli sbocchi.
Pia aiutava lo zio a smelare, la zia a rassettare la casa; e nascon-
deva all'uno e all'altra la malinconia mortificata che talvolta, quando
era sola, le oscurava la fronte, come un soffio di tormenta il Monte
Bianco.
Ella aveva compassione di sé e di Adriano Davetti; e il Davetti
di lei; ma non se lo dicevano: anzi si nascondevano la loro pietà per
verecondia; non mostravano neppure, a parole, di conoscere l'uno
la sventura dell'altro per il timore di rincrudirla rispecchiandola;
ma ciascuno sapeva che l'altro sapeva e gli era grato del riserbo; e
con un sorriso talvolta lo ringraziava.
160 IL CANTICO
E quel sorriso scambiato così per simpatia di riconosc>6nza si fa-
ceva meno melanconico e più schietto, man mano che la familiarità
cresceva, e con la familiarità il desiderio di alleviare l'altrui dolore
dividendolo sia pure nel segreto del proprio cuore. Così l'inconsa-
pevole sforzo di parere sereni per rasserenare, addolciva le inquie-
tudini e insensibilmente in qualche ora le assopiva nell'oblìo.
Una sera tarda zia Sidonie accompagnò nella sua camera Pia;
spinse le lunghe persiane che dal soffitto al pavimento s'aprivano
sulla loggia di legno: e la loggia, alta sul pendìo del prato, con-
giungeva esternamente le camere occidentali della casa. Guardò il
cielo e gettò un'esclamazione di meraviglia:
— Che stellato! Pia, vieni a vedere. Sigiior Adriano, signor
Adriano venga a vedere che cielo 1
Il Davetti si rimise la giubba e aprì la sua porta; dalla finestra
più in fondo si affacciò, sbattendo le persiane contro le pareti, don
Lorenzo; e gli ciltri tre si accostarono a lui.
Le costellazioni ardevano il cielo: grandi, fulgide, fìtte fìtte co-
privano l'azzurro di grappoli, di monili, di strisce, di pennacchi,
scintillando vive con un palpito, un tremolìo che dava le vertigini:
pareva ohe inghirlandassero di scintillii le torri del Monte Bianco e
brillassero come cascate di gemme ardenti sul candore dei ghiacciai.
Pia e il Davetti si guardarono come se temessero di sognare:
ma don Lorenzo disse:
— Domani piove : è troppo bello.
La mattina seguente la valle fu colma di nebbie: il monte fu-
migava: colonne inwnense di vapori foschi sormontavano dalla Fran-
cia, si rovesciavano incontro ai vortici neri che traboccavano dal Gol
Ferret, dal Gol della Seigne, che salivano più fìtti, più opachi dalle
due Dorè. Il Monte Bianco scomparve, scomparvero il Crainmont,
la Téte d'Arpe^ lo Chetif^ i colli più vicini, tutto: la caligine colmò
la conca; non ci fu nella foschia cupa che il sordo, ovattato fragore
del fiume.
Il tuono rotolò da vetta a vetta; i lampi squarciarono la nuvo-
laglia: piovve.
Le vette riapparvero; ma si videro attraverso i rovesci dell'acqua :
il cielo flagellava la terra; i dorsi delle montagne diventarono preci-
pitosi letti di torrenti; ogni canalone fu una cascata, ogni sporgenza
una doccia, ogni fenditura un ruscello, ogni dirupo una cateratta;
in fondo alla valle, nera e tremenda, la Dora precipitava rombando,
si scagliava contro le rive ed i ponti, sbalzava urlando tra i macigni,
come un'orda furibonda di belve impazzite.
Poi la furia delle piogge si quetò : un cerchio d'azzurro si aprì,
si dilatò intomo al Maudit, invase il cielo dalle Guglie della Brenva
al Dente del Gigante; ma sotto il ghiacciaio della Brenva, di là dalla
confluenza delle due Dorè, il villaggio d'Enlrèves chiedeva aiuto con
la voce affannata delle sue campane : vedeva i vortici rovinosi sradi-
care i larici, rotolare i macigni, scagliarli contro la diga e i piloni
dell'unico ponte che lo congiunge alla vita: e dal Verand, da Do-
lonne, dal Villair, da tutti i paeselli di Courmayeur i valligiani ac-
correvano al soccorsol Accorse con essi don Lorenzo, e guidava la
•lotta contro l'impeto irresistibile del fiume che saettava gli alberi
come catapulte, li gettava di traverso tra spalletta e piloni per sbar-
IL 6ANTIC0 161
rare g^li archi, colmarli di rupi, scavalcare il ponte, travolgere la
diga, invadere la valle.
Courmayeur era deserta: invano Adriano Davetti s'affacciava
dalla finestra della canonica per chiedere notizie a qualcuno che pas-
sasse. Inginocxzhiata sopra una sedia, curva sul pianoforte zia Sidonie
pregava Sótre Dame de la guérisoii: il muglio cupo della Dora rin-
tronava come un incessante tonare.
Cadeva la sera : Pia non reggeva più all'inquietudine, disse :
— Vado a vedere.
Si gettò sulle spalle una majitella col cappuccio: senza parlare
il Davetti la seguì. Presero la via della Saxe. Sotto, il piano era tutto
pozzanghere, stagni e fango; ne emergevano truci gli scogli rotolati
giù dalla montagna. Il rombo della Dora cresceva man mano che
essi si accostavano all'irrompere dei due bracci nella confluenza,
dove i flutti neri urtandosi si scagliavano in alto come cavalloni
flagellati dal tramontano contro la scogliera.
— Povera gente! — mormorò Pia pensando all'ansia di tutto un
paese minacciato, che portava in salvo i bambini e le bestie su per
la montagna.
— Forse il pericolo maggiore è passato! — le rispose Adriano.
— Da molte ore non piove; la piena deve scemare.
— Dio volesse!
Gli uomini, scaglionati lungo il torrente dal ponte verso la valle
alta, con lunghi ramponi arroncigliavano gli alberi — foglie e radici
— saettati dalla corrente e li traevano a riva : don L#orenzo e gli altri
valligiani dall'alto delle spallette e dal parapetto si protendevano con
pertiche salde per deviare i tronchi sfuiggiti ai ramponi perchè non
cozzassero il pilone né ingombrassero le arcate: e le acque si sca-
gliavano sotto il ponte, con l'impeto e il fragore d'un treno.
Ma lentamente, lentamente scemavano.
Il parroco v^ide la nipote e il Davetti scendere verso di loro, s'in-
filò la veste che aveva affagottata sopra un paracarro, e corse incontro
ad essi:
— Figlioli miei, — disse, — non è luogo da donne e da malati:
tornate a casa.
— C'è ancora pericolo?
— Non credo: l'acqua è più chiara: le fraiie son finite; sia lo-
dato il Signore.
— Sia lodato il Signore! — replicò fervidamente Adriano, E Pia
respirò.
— Allora, zio, — ella aggiunse, — puoi tornare a casa con noi.
I contadini si aggrupparono intomo a loro a capo del ponte; una
vecchia guida disse con brusca riverenza:
— Avete lavorato tutto il giorno, signor curato: andate a ripo-
sare; ormai basta che restino i giovani a guardia.
I>on Lorenzo si sporse ad osservare il fiume a monte; esitò un ai-
timo, poi sussurrò religiosamente :
— Cade la notte, la nostra guardia diventa inutile; lasciamo che
ci guardi il Signore. Ma se torna il pericolo, — aggiunse più forte,
— ch'amatemi.
Sulla strada alta l'ombra della montagna si faceva cupa; lon-
11 ToL CCXVn. «erie VI — 16 mano 192».
162 IL CANTICO
tano, di qua e di là della Dora, lucevano le costellazioni elettriche
dei villaggi.
Adriano aveva freddo; un brivido gli scosse le spalle; Pia lo
vide, disse con voce piena di rammar'co:
— È uscito senza mantello!...
E gli gettò sulle spalle la sua mantellina.
— Oh no! — egli si schermì. — Non è possibile che io lasci lei
al freddo!
I loro occhi s'incontrarono con la stessa preghiera :
— La tenga! — esortò don Lorenzo : — Pia la riparo io.
— Si tolse il pastrano e ne copri insieme se stesso e la nipote,
cingendola col braccio.
La mantella era tepida del calore di Pia : egli se ne avvolse e la
morbida stoffa gli fasciò la faccia con una carezza in cui languiva
un tonuissimo profumo: e gli parve di riconoscerlo.
Tornò il sereno, il gelo strinse i ruscelli : gli alberi scheletriti si
vestirono di fìlograne d'argento :" poi anche in valle nevicò: nevicò
senza interruzione il giorno, la notte, i giorni che seguirono. I monti,
le case trasparivano attraverso la danza dei fiocchi; il paese, con un
gran cuscino di neve sopra ogni tetto, pareva in letargo come le tane
delle marmotte; ma gli uomini vegliavano inerti accanto alle donne
laboriose dentro le stalle senz'aria, tra i fiati umidi delle bestie.
Don Lorenzo appoggiava la fronte ai vetri deUa canonica e
pensava :
— Ohe il Signore sia benedetto anche per la neve! Stende le
coltri sulle biade e soii fieni; le salva dai bruchi e dal gelo: ricolma
le sorgenti dei fiumi; alimenta le fontane, rinnova la vita...
Sidonie sferruzzava le maglie e le calze; Pia intrecciava il refe
sugli spilli del tombolo; tendeva l'orecchio alla voce deW harmonium
che cantava sotto le mani del Davetti, e seguiva dentro di sé il tenue
filo della musica sacra; talvolta il filo melodico diventava piena onda
dentro di lei e traboccava.
Un giorno dall'andito egli l'udì cantare e s'avvicinò sulla punta
dei piedi sull'uscio chiuso: ascoltò stupito riconoscendo la propria
musica.
Componeva allora in armonia, a guisa d'oratorio, un passo di
San Bernardo, ardente parafrasi del cantico dei cantici in cui il mi-
stico amore si effondeva con passione quasi dolorante d'ascesi, an-
siosa d'annientamento.
Nel sacro spasimo di quella divina ebbrezza Adriano aveva ten-
tato di versare il proprio tormento che batteva le ali anelando a dis-
solversi nell'oceano luminoso dell'estasi.
II salmo non aveva parole per Pia: s'effondeva nella sua voce
come musica pura; ma il musicista, ascoltando, dava al canto le
sillabe latine dileguanti a fior di labbro: «...l'infiammato, il vee-
mente amore, quando essere contenuto non può, trabocca e non bada
con qual ordine, con qual legge, con quali parole... ».
Inconsapevolmente spinse l'uscio. Pia lo vide e di subito tacque
arrossendo; confuso egli le domandò :
IL CANTICO 163
— Perchè non continua?
— Ma se non so neppure quello che canto!
Gli zii le erano accanto, sorrisero: egli balbettò;
— Credo che sia un cantico di san Bernardo...
— Lo suonava lei suìV armonium. Credevo che fosse musica sua...
La canticchiavo pian piano per non sciuparla troppo.
Adriano ebbe la tentazione di confessarle « Non, avrei creduto
che la mia musica fremesse così »; ma non ebbe l'ardire; disse solo:
— Lei ha una voce religiosa: dovrebbe imparare quel cantico.
— Glielo insegni! — esclamò don Lorenzo.
— Se la signora Pia me lo permette... volentieri!
— Ma so appena appena leggere la musica!... Le farei perdere
la pazienza di sicuro.
— Provate! — incoraggiò zia Sidonie.
Provarono, ma il pianoforte strideva scordato, e ronzava di corde
spezzate.
— Impossibile! — si dolse il maestro. — E poi bisogna che la
nota non si rompa, ci vuol proprio VaTmonium. — Arrossì aggiun-
gendo: — È meglio che saliamo tutti... a provare colVarmonium.
•
• •
Tanto nevicò che Pia imparò la musica e le parole latine del
sermone mistico di san Bernardo.
Quando la notte non riusciva a prender sonno, le cantava silen-
ziosamente dentro di sé; e la pace interiore le si colmava d'estasi.
•Poi volle capire anche il significato letterale del cantico; un giorno
pregò lo zio di tradurlo, sottolineò la musica e il latino con le parole
italiane, e pazientemente le imparò a memoria con nuova e puris-
sima gioia spirituale. Ma quando, raccolta nel suo tettuccio, e s'era
fatto silenzio nella camera vicina, le cantò tacitamente a se stessa,
il cuore le si mise a battere, a battere e poi parve fermarsi in un lan-
guore di svenimento.
La mattina dopo lo zio battè all'uscio:
— Affacciati! C'è il sole!
Pia aveva dormito poco; ma balzò dal letto e spalancò le per-
siane della loggia ritraendosi abbagliata. Il candore sfavillava: dal
fondo della valle alle cime del Monte Bianco la conca era un candido,
soffice fulgore.
Lo zio giocondamente si strofinava le mani, e rideva:
— La mère de giace è scesa dal Monte Bianco; ha invaso il
mondo. Tutta la valle, tutti i colli fanno una pista meravigliosa.
Mettiti il maglione e il berretto : io preparo gli sci.
Pia l'udì picchiare alla porta vicina e ripetere:
— Su, anche lei, Adriano! Facciamo una sciata facile dal Pian
Goret al Verand : c'è un pendìo di seta.
Ella rimestò nei cassetti; cinse sulle gambiere una gonna corta
tutta pieghe; infilò la maglia ruvida, ghermì berretta e guanti, ed
uscì. Usciva in quel momento dalla sua camera Adriano, la guardò,
arrossì, disse:
— Buon giorno! — E balbettò: — Pare un ragcLzzino!
Ma ella si sapeva modellata dalla maglia; arrossì a sua volta;
164 IL CANTICO
e per nascondere quel rossore corse dallo zio e lo aiutò a legare il
fascio degli sci.
Julien OUier, la guida, si bilanciò sulle spalle il fascio delle snel-
lissime gondole flessibili, e dei bastoni da neve; poi precedette il
pendìo del Pian Goret: don Lorenzo davanti a loro a grandi passi
scarponava nella neve e ogni sua orma serviva da tacca, a chi lo se-
guiva. Quando furono sulla spianata meridionale del colle, Julien
gettò il fascio sulla neve e disse :
— È di zucchero. Vuole che l'aiuti, signor maestro?
— Ma io so appena reggermi, — disse Adriano.
— E dopo tanto tempo — sorrisa Pia — io non so se nemmeno
mi reggo.
Ma appena ebbe allacciati gli sci alla solida scarpa, molleggiò
su l'uno e sull'altro piede, si bilanciò, si die la spinta, e saettò via
dritta per il pendio dolce della soffice conca.
— Piano, pianol — le gridò lo zio: — aspettami: non fidarti
a saltare, dirigiti sul Pussey.
Invece Pia si curvò appena sul fianco e volteggiando con largo
giro gli ritornò accanto; e per non cascare s'accucciò ridendo:
— Come mi tremano le gambe! — Ma si rialzò di scatto e riprese
il volo.
Il curato sussurrò al Davetti :
— Se fosse ardita di spirito come è temeraria della persona, suo
padre non l'avrebbe piegata; ma ha l'anima troppo dolce.
Si die la spinta e balzò con una precisa linea dritta sulla scia
serpeggiante della fanciulla, la sfiorò, la sorpassò, si volse per aiu-
tarla a fermarsi.
— Aspettiamo Adriano, — le disse.
Era tutta rosea; la corsa le aveva acceso il sangue di veemenza
e d'allegria: gli occhi le splendevano, il petto le si gonfiava: eretta
sulle anche pareva piìi alta e più snella; anche la voce vibrava di
giocondità gridando:
— Coraggio, signor Adriano! Bravo, bravo! Si sciolga; si lanci
da solo!
Alto alto, curvo sugli sci il Davetti oscillava come la terra gli
fuggisse di sotto, e si reggeva alla guida, rinfrancandosi a poco a
poco. Quando fu vicino. Pia gli rise:
— Bravo, bravo, così! Dia una mano allo zio e una mano a me...
Butti il bastone... Via!
Congiunti a braccia distese, tutti e tre per la morbida conca del
Verand scivolavano sulla neve con velocità d'ali. Adriano si sentiva
sospeso e ansava col fiato mozzo; ma Pia s'eccitava con la crescente
rapidità e rideva:
— Più forte, più forte! Un altro poco, e poi saltiamo i tetti del
Verand...
Ma nella veemenza della corsa, d'un tratto il vento le spazzò via
il berretto.
— I capelli, i capelli! — ella gridò ridendo.
Nel volo le trecce rotolarono giù, si sciolsero, ondeggiarono/ e l8
si avvolsero in selvaggia criniera intorno alla faccia.
S'arrestarono : ella rideva ancora :
1
IL CANTICO 165
— Come faccio adesso? Poveretta me, le mie forcine...! Chi me
le ripesca...?
Le ripescarono ad una ad una, disseminate per il campo di neve,
Julien Ollier e lo zio.
Pia se ne stava come inginocchiata sugli sci ai piedi del Davetti
che si puntellava sul bastone a rotella; ma ella si sentiva bella negli
occhi di lui, con quella sua splendida chioma nera che le fasciava il
mento e il collo, incorniciandole il volto fresco di gioia; e lo guar-
dava e sorrideva; e indugiava a raccogliere i capelli per imprigio-
narli sotto quel berretto che ora oscillava all'aria nelle mani di Julien.
Le risonò inconsapevolmente sulle labbra la parola e la musica
del salmo « Dilectus meus mihi et ego illi! » : udendo trasalirono stu-
piti : ella si morse un labbro per troncare il canto, ed arrossì. Anche
Adriano si fece di fuoco. Lentamente si girò verso la valle, quasi
volgendole le S{>alle: e con un corruccio improvviso. Pia s'alzò, si
gettò dietro il dorso i capelli, li divise, li attorse, li annodò, vi calcò
il berretto; e fuggì per non essere veduta così brutta.
ViRGiLio Brocchi.
METODI E CONDIZIONI PER IL RIPRISTINO
DELLA CIRCOLAZIONE NORMALE
L'Europa ebbe in retaggio dalla guerra mondiale tre dolorose
eredità. Uno stato d'animo sommamente travagliato, anzi convulso,
per cui si i>assa dall'una all'altra crisi senza saper trovare un ri-
medio ohe non sia pur esso un'incentivo, un'impulso a nuove per-
turbazioni, a nuovi sommovimenti. Una tendenza a giudicare, se
non leciti, tollerabili certi atti di brutale ferocia con cui si attenta
alla vita umana e cinicamente la si sopprime, tendenza del resto
propria, come bene ha avvertito il Tocqueville nei suoi Souvenirs,
ad ogni periodo od* epoca di rivoluzione. Infine un disordine mone-
tario, la cui gravità non ha misura possibile di confronto, né per
la sua estensione, né per la sua importan2^, né infine per gli effetti,
disastrosi del pari per le fortune degli Stati come per quelle dei pri-
vati. Lascio al filosofo e alio storico lo studio delle due prime infer-
mità. Modesto economista, senza pretesa di dir cose nuove, mi ac-
cingo a riassumere taluni fatti suggeriti dalla osservazione pili re-
cente intomo ai modi più opportuni, non dirò per sopprimere, ma
almeno per attenuare i mali dell'odierna patologia della circolazione.
I.
Il terribile conflitto, di cui fummo spettatori, ha dimostrato, che
le singole manifestazioni degli strumenti dello scambio, si risolvano
esse nell'uso d'una moneta vera o d'una moneta fittizia, trovano la
loro reale misura — per quanto si riferiscono all'oro come al metallo,
che nella cerchia delle nazioni civili ha conseguito la preminenza
adeguata all'importanza dei pagamenti che vi si effettuano — in una
espressione di valori intemazionali. Ed invero quando si considera
la moneta legale d'un paese rispetto a quelle degli altri si stabilisce
una condizione di parità, in cui ciascuna moneta, calcolata nella
consistenza del suo peso, viene determinata dal rapporto di valore
in cui essa si trova di fronte all'oro come mezzo d'acquisto di eeeo.
Certamente sulle variazioni di siffatto rapporto agiscono cause col-
legate a fatti nazionali e cause collegate a fatti intemazionali, ma
l'espressione del rapporto è obbiettivamente una espressione di valori
internazionali.
Tra le cause connesse a fatti nazionali si registrano quelle che o
alterano la domanda o modificano l'offerta della moneta, sia questa
METODI E CONDIZIONI 167
costituita da masse metalliche o da titoli di credito, che intendano
sostituirvisi. Nell'uno e nell'altro caso va tenuto conto della quan-
tità della moneta in circolazione e della rapidità della circolazione.
Così, a pari quantità, il biglietto di banca al portatore ha maggiore
rapidità di circolazione del check e questo della lettera di cambio.
Però, quando si studiano i fatti nazionali agenti sul valore della mo-
neta, si prescinde dal considerarne la domanda, assegnandole più
che altro il carattere d'una causa modificatrice d'una data condizione
d'offerta. Perciò i fatti nazionali, che si studiano come agenti sul-
l'offerta, sono in qualche modo polarÌ2Kati sul simbolo assunto per
moneta, anziché sugl'interni rapporti di scambio che il simbolo è
chiamato a rappresentare.
Alle leggi relative al commercio intemazionale sono legate le
cause connesse a fatti intemazionali. Da un lato queste agiscono per
ciò che si riferisce ai rapix)rti di credito o di debito fra le varie na-
zioni, in quanto questi rapporti hanno la loro manifestazione in una
equazione di simboli monetarii. Dall'altro esse operano altresì per
ciò che si attiene alla distribuzione dei metalli preziosi, cioè della
moneta, da paese a paese.
Rispetto al primo punto è noto come il valore intemazionale
d'una merce, e quindi anche dei metalli, sia piìi o meno alto a
seconda dell'ampiezza, anzi della preminenza della quantità in va-
lore dei crediti del paese, di cui si tratta, sulla quantità dei cre-
diti dell'altro paese con cui avviene lo scambio. L'oro del Messico,
più volte si disse, a\Tà un valore intemazionale tanto più alto per
l'Inghilterra quanto meno il Messico avrà bisogno delle merci inglesi,
quanto più l'Inghilterra dovrà ricorrere alle merci messicane. Ed in-
versamente. Il valore intemazionale d'una merce è essenzialmente
dominato dalla rispettiva preminenza della domanda reciproca d'un
paese per le merci dell'altro.
Rispetto al secondo punto, cioè rispetto alla distribuzione dei
metalli preziosi, e quindi della moneta, ciò che decide, come splen-
didamente ha esposto lo Chevalier, è la produttività dell'industrie
nei singoli paesi. Quanto più varia è la produzione d'un paese, sia
questa agricola, industriale o commerciale, tanto più a minor costo
vi affluirà l'oro e quindi minore per tal paese sarà il sacrificio per
l'acquisto di esso. Né, aggiungo, si dovrà dare importanza soltanto
all'ampiezza della produzione ed alla sua varietà, ma altresì al pe-
riodo di rigiro del capitale in una ide-ntica unità di tempo. Perciò vi
sarà maggiore produttività dell'industrie e quindi più pronto il ri-
chiamo dell'oro quanto minore sarà l'intervallo del ritomo in siffatta
unità di tempo. Il che dimostra la prev^alenza da questo aspetto dei
popoli commerciali sugl'industriali e sugli agricoli, degli industriali
sugli agricoli.
Ora, quando si sttudiano le monete, le une di fronte alle altre, in
quella parità che ne esprime la reale potenza d'acquisto in rapporto
all'oro, noi ci troviamo di fronte ad una espressione di valori inter-
nazionali, sia in quanto si riflettono nell'equazione della domanda
reciproca le mutazioni dei rapporti di credito d'un paese di fronte
all'altro, sia, eventualmente, per ciò che concerne la produzione del-
l'oro e la sua conversione in moneta nel mercato internazionale, sia
infine rispetto alla distribuzione dell'oro in relazione alla produtti-
168 METODI E CONDIZIONI
vita dei singoli paesi. Certamente tali espressioni di valori intema-
zionali sono modificate dai fattori agenti sull'offerta della moneta
nelle singole nazioni, restandone inalterata la domanda. Anzi una
modificazione nell'offerta, sia in senso di accrescimento, sia in senso
di riduzione della massa adibita a moneta altera quella espressione
di valori intemazionali, riducendo o aumentando ia potenza d'acquisto
della moneta nazionale di fronte all'oro. Ma siffatta consacrazione
non è possibile in sino a quando tutti gli elementi internazionali di
siffatta espressione non ne abbiano risentita l'influenza talché la de-
finitiva manifestazione rimane pur sempre un fatto internazionale.
D'altronde, per quanta imp>ortaiiza abbiano i simboli, l'elaborazione
operante suJe variazioni, da cui dipende tale definitiva manifesta-
zione, è strettamente legata ai fattori che agiscono profondamente
sulla condotta degli elementi economici, così di produzione come di
-scambio.
Deriva da ciò che il disordine monetario, specie se da lungo
tempo protratto, non può esser considerato come un fatto sporadico
o quasi accidentale. I fenomeni esteriori, che più arrestano l'atten-
zione dei profani, sono appunto connessi a que' fattori, remoti ed
immanenti,/ ed essi operano sulla particolare asprezza ed intensità
dei fenomeni, sulla loro continuità, in una parola sul loro modo di
agire e sul corso rispettivo di effettuazione. Se quindi si vuoù curare
il disordine monetario non conviene prescindere dallo studio di tali
fattori, non altrimenti di quanto avviene per quelle malattie più
ostinate, che non danno tregua se non si dispone una terapia razio-
nale e ricostituente.
II.
Il disordine monetario fu provocato e diffuso in tutti gli Stati
civili, sì belligeranti che neutrali. Si produsse con intensità più per-
sistente e perniciosa presso le nazioni in gnerra quanto più si pro-
cede dagli Stati anglosassoni alla Francia, all'Italia, alla Germania,
alla Czeco-Slovaochia, alla Russia, alla Polonia, all'Austria. I carat-
teri principali di siffatte manifestazioni si possono riassumere nei
seguenti :
1" Progressivo indebitamento delle nazioni belligeranti verso i
paesi fornitori di materie prime, di prodotti alimentari e di mate-
riale bellico. Il semplice sguardo alle statistiche del movimento com-
merciale dell'Italia, della Francia ed anche della Gran Bretagna di-
mostra quale enorme deficit nella bilancia dei pagamenti si sia for-
mato, in particolare di fronte all'Unione Nord-Americana, negli anni
decorsi dal 1914 al 1919. A questo deficit si aggiungano i prestiti co-
lossali, collocati in gran parte nell'Inghilterra e negli Stati Uniti, e si
comprenderà agevolmente quale bilancia dei pagamenti si sia for-
mata tra i paesi creditori e i paesi debitori. Non ne furono colpita,
soltanto le quote dei rispettivi redditi complessivi, ma altresì le basi
di redditualità proprie alle singole categorie del capitale nazioi
2° Eccesso nella offerta della moneta legale rispetto alle e
zioni di prodiittività delle singole economie nazionali. Il fatto si ve
riflcò così nelle nazioni belligeranti come nei paesi neutrali. In questi
PER IL RIPRISTINO DELLA CIRCOLAZIONE NORMALE 169
ultimi la immigrazione della moneta metallica determinò un note-
vole aumento nei prezzi e con esso un'accrescimento nelle emissioni
dei biglietti di banca o di Stato (1). Fosse tendenza a giovarsi di un
mezzo di cambio apparentemente più economico o preoccupazione
di trattenere in paese una più forte massa metallica, o infine il pro-
posito di tesaurizzare quanto di per sé l'intrinseca produttività non
avrebbe attirato, il fatto è dovunque costante. Così la Spagna, che
il 1° agosto 1914 aveva un contante metallico [cash) di 50,991,000 di
sterline ed una emissione di 77,557,000, il 19 novembre del 1921 aveva
in cassa 125,186,000 e una circolazione di 169,433,000 di sterline. Del
pari nella Svizzera, neL'Olanda, nella Svezia, nella Norvegia, nella
Danimarca. Inutile poi riferire gli aumenti prodottisi nei paesi bel-
ligeranti, naturalmente nella circolazione fiduciaria e di Stato, al
fine di sopperire, senza troppo sforzo d'invenzione, alle spese di
guerra e alle sue conseguenze. In totale da uno studio pubblicato
nello Statisi di Londra del 26 novembre 1921 è dimostrato, che, dal
luglio-agosto 1914 al settembre-ottobre 1921, la circolazione degli Stati
belligeranti e neutrali e del Giappone, non calcolando né la Russia,
né l'Austria, né l'Ungheria, né la Turchia, è aumentata di 165 mi-
liardi e 668 milioni di lire italiane!
3° Il corso dei cambi tanto più sfavorevole quanto -più diffuso e
profondo U disordine monetario. Registrare a quali corsi sieno saliti
il dollaro, la sterlina, il franco svizzero, il tallero olandese presso le
nazioni belligeranti, il ricordare come nei paesi neutrali all'immi-
grazione della moneta abbia fatto seguito l'aumento dei prezzi e come
l'arresto o almeno la riduzione della esportazione abbia in essi creata
una oscillante situazione della bilancia dei pagamenti, che a sua
volta riflette le sue ripercussioni sui corsi del cambio, j>armi opera
inutile o almeno superflua. Certo si è che qui pure i profondi fat-
tori, a cui sono legate le variazioni nel valore della moneta, hanno
esercitato la loro efficacia in relazione alla diversa preminenza del
loro modo d'agire. Si consideri p. e. la condizione dell'Austria. La
guerra vi ha distrutto enormi masse di capitali. Da ciò una produt-
tività dell'industrie minima, quasi nulla. Se vi si aggiunge, che il
distacco dall'Ungheria ne riduce le fonti dell'alimento mentre la crea-
zione della Czeco-Slovacchia ha tolto alla sua bilancia commerciale
una partita attiva di considerevole importanza, si comprende la cre-
scente depressione della corona austriaca. Uguali, o non dissimili,
considerazioni si potrebbero ripetere per il rublo russo, p>er il lei
i-umeno e per la corona polacca. In ogni caso p)erò le cause fonda-
mentali di corsi di cambio così permanentemente sfavorevoli sono
l'estremo disequilibrio della bilancia dei pagamenti intemazionali e
la svalutazione della moneta derivante dall'eccesso della circolazione.
4° La mutabilità delle oscillazioni dei cambii. Se si considera
la curva dei cambii, p. e. per l'Italia dal 1914 ai nostri giorni, essa
é indiscutibilmente progrediente. Ma vi sono delle fasi di ritiro, di
arresto e di ripresa, a cui si connettono rilevanti oscillazioni. Alcuni
attribuiscono siffatte variazioni all'azione della speculazione. Né que-
sta si può negare! Specie di quella, le cui fila sono mosse da gruppi
(1) Bellissime osservazioni sugli effetti dell'immigrazione dell'oro in Olanda
ha il C. A. Verrijn Sttjabt nell'iJcon. Journal del marzo 1919.
170 ^ METODI E CONDIZIONI
prevalenti o coalizzati nei grandi centri monetarii e bancarii. Però
la speculazione può spiegare mutamenti di poca importanza, altalene
di qualche linea, certo non per questo meno pregiudicevoli al com-
mercio. All'opposto le cause più frequenti delle oscillazioni si trovano
negli avvenimenti sociali e politici. Per essi non di raro è scossa la
fede nella consistenza e nella vitalità dei singoli Stati o di date com-
binazioni politiche, nelle preoccupazioni onde s'allarma e su cui lucra
la borsa, in una parola in quei fattori psicologici, a cui egregiamente
si riferisce Ad. Wagner come ad elementi di turbamento dell'aggio
in tempi anormali (1).
III.
È noto come la dottrina abbia tentato di ooordinao^ intomo a due
metodi, l'uno opposto all'altro, i varii modi adottati per ricondurre
la circolazione alle sue condizioni normali. Per l'uno si riduce la
moneta legale al valore, a cui è scesa la moneta reale per effetto della
sua svalutazione [devalvation). Per l'altra si promuove una eleva-
zione, una rivalutazione della moneta legale in modo da ottenere che
il corso reale della moneta pareggi la sua impronta legale. Il primo
metodo si disse adottato in quei paesi, nei quali il corso forzoso dura
da moltissimo tempo: ivi, si aggiunge, l'aggio sull'oro ha ridotto così
il valore della moneta reale da assegnarle un apprezzamento penna-
nen temente inferiore al suo valore legale. Il secondo al contrario
parve più proprio di quei periodi economici nei quali la differenza
fra l'uno e l'altro valore in relazione all'oro non è consacrata da un
lungo intervallo di durata.
In realtà, a parte le difficoltà proprie al ripristino della circola-
zione normale, predominano sulla preferenza da assegnarsi piuttosto
all'uno che all'altro metodo considerazioni essenzialmente giuridiche.
Difatti, quando un alto aggio ha durato lunghi anni, i prezzi delle
merci si sono adattati alla diminuzione nel valore della moneta. In
siffatto evento tutte le obbligazioni sono misurate sull'unità mone-
taria diminuita di valore, amenochè non sia espressamente pattuito
il loro pagamento in metalli. In tale condizione il riportare, dopo
un decorso di 30 o di 40 anni, il valore reale della moneta, così da
lungo tempo deprezzata, al suo valore l^ale, significherebbe un'in-
giusto aggravio pel debitore ed un'illegittimo arricchimento per il
creditore (2).
Vi hanno esempii dell'uno e dell'altro metodo. Nei più vicini
cicli della storia moderna, in cui il corso forzoso per la prima volta
si riferiva a biglietti di banca anziché ad altri artificii di moneta-
zione, prevalse la devalvation. Così venne applicata nel 1781 negli
Stati Uniti d'America alla moneta continentale, introdotta per le esi-
genze della guerra di indipendenza e deprezzata in tal modo da ar-
rivare al rapporto 1 :500 di fronte al denaro metallico. Fu riscattata
(1) Die rusxische Papie.rwàhrung , pag. 91. E cita fatti avvenuti in Rusia
nel 1866 e nel 1867.
(2) Lexis, Pajnergeld, pag, 997 del II voi, delVHandwdrterbuch der Staats
tcis-tcnscìiaften. Iena, 1910.
PER IL RIPRISTINO DELLA CIRCOLAZIONE NORMALE 171
al rapporto 1:20 con l'emissione di certificati fruttanti interesse. Del
pari nell'impero Austriaco nel 1811 : le bancozettel emesse nel 1796
vi vennero affrancate al quinto del loro valore nominale. Né diver-
samente si operò in Russia in forza ^éWukase del 1° luglio 1839,
dando in cambio di 3 i/2 rubli assegnati un rublo argento (1). A sua
volta non attuò un difforme procedimento l'Argentina con la legge
4 novembre 1899, convertendo tutta la quantità dei biglietti di cre^
dito emessi a corso legale in moneta nazionale d'oro, al cambio d'un
I)eso moneta nazionale di corso legale per quarantaquattro centavos
di peso, moneta nazionale d'oro battuto.
Il metodo della elevazione del valore della moneta fiduciaria o
forzosa ad un valore uguale al suo valore legale è il metodo dei po-
poli più ricchi, moralmente e politicamente piìi sani. Lo applicò an-
zitutto l'Inghilterra, seguendo le inspirazioni di Ricardo nella fa-
mosa polemica con Bosanquet, quando fu approvato l'atto di Peel
del 1819. Per esso la Banca d'Inghilterra doveva rimborsare i suoi
biglietti al tasso di 4 lire e 1 scellino l'oncia d'oro dal 1° febbraio al
1* ottobre 1820, al tasso di 3 lire 19.6 dal 1° ottobre predetto al
1° maggio 1821, infine al tasso di 3 lire 17 scellini e 4 1/2 denari dal
1° maggio 1821 al 1" maggio 1823, giorno in cui il cambio era alla
pari anche di fronte all'oro monetato. È del resto noto come la realtà
delle cose abbia anticipati i corsi preordinati dalla legge. Più presso
a noi ne diedero pure esempio gli Stati Uniti d'America nel 1865,
quando, per avviarsi all'abolizione del corso forzoso, il Congresso
sancì la proposta del Segretario della tesoreria, Mac CuUoch, di riti-
rare lentamente dalla circolazione una quantità sempre maggiore di
biglietti di banca. Nonostante che la esecuzione della proposta dopo
tre anni sia stata sospesa, fu successivamente ripresa e forma il
nucleo principale di varii provvedimenti per elevare il valore della
moneta e renderne possibile il riscatto alla pari, quale si ottenne
nel 1879. La Francia a sua volta non ebbe bisogno di proclamare
metodo siffatto nella crisi susseguita dopo la guerra del 1870-71; ma
lo vide attuarsi da sé quasi insensibilmente. Difatti, già nel 1873,
app>ena 2 anni e mezzo da quando lo Stato era ricorso alla Banca
per p^restiti aumentandone la circolazione, il premio sull'oro diminuì
in modo rilevante e cessò in via definitiva nel 1875. Non può dirsi
del pari che non abbia mirato ad una elevazione del valore reale della
moneta l'Italia nel tentativo di abolizione del corso forzoso intrapreso
nel 1881. Certo non intese di procedere ad una riduzione del valore
legale. Rimarchevoli esempii si hanno altresì nell'Austria e in Russia.
Non è che in Austria nel 1892 si abbia voluto decretare l'aboli-
zione del corso forzoso, che vi durava, pressoché ininterrotto, da
56 anni, bensì tutto il sistema della riforma monetaria ebbe in mira
di preparare le condizioni per il ritorno ad una circolazione normale.
Fu perciò sostituita al bimetallismo una forma di monometallismo
zopfK) al fine di sottrarre la circolazione almeno alle oscillazioni de-
rivanti dalla depressione nel valore dell'argento. Venne inoltre auto-
rizzato un prestito di obbligazioni di rendita fruttante il 4 % in oro
per ricavarne i 218.4 milioni necessarii al riscatto dei biglietti di
(1) De^Iocca, La circolazione monetaria e il corso forzoso in JRussia. Ann.
di statistica, voi. 24, pag. 119.
172 METODI E CONDIZIONI
Stato (1). Infine fu rivolta allo stesso intento l'assidua cura intesa ad
aumentare le riserve metalliche della Banca Austro-Ungarica, a coor-
dinare alla riforma i civanzi attivi della bilancia commerciale e le
sorti migliori della finanza pubblica, a ridurre sempre più le quote
del debito pubblico esistente all'eslero.
Quanto aLa Russia non si può dire, per il fatto che la legge
fondamentale del 3-16 gennaio 1897 abbia stabilito il rapporto tra
il rublo d'oro e il rublo credito da 1:1.50 o, che è lo st^so, abbia
uguagliato il rublo credito a 66 2/3 copechi d'oro, che con ciò si sia
inteso di voler applicare il metodo della devalvation. In effetto i
quattro grandi ministri, Abaza, Bunge, Wischnegradski e Witte, che
presiedettero per oltre tre lustri all'ordinamento della riforma, pur
consentendo una misura transitoria di ragguaglio di prezzi di fronte
al lungo tempo da che durava il corso /orzoso, ebbero per intenzione
di promuovere una completa ripresa dei pagamenti metallici. Da ciò
la formazione d'una scorta speciale di 500,000,000 di rubli d'oro per
una circolazione complessiva al 1° gennaio 1897 di 1,067,856,000 di
rubli credito, pur prescindendo dal rimanente ammontare dei fondi
aurei, spettanti per varii titoli al tesoro e alla Banca Imperiale, in
ulteriori 312,950,524.76 di rubli d'oro (2).
È evidente, del resto, che il metodo della devalvation non può
trovare applicazione presso nazioni che intendano mantenere e con-
solidare il loro credito pubblico. Né esso risponde all'intimità sempre
più stretta, che lo sviluppo dei fatti e degl'istituti economici ha creato
nell'odierna società internazionale.
Niuna cosa abbatte al nulla il prestigio economico e finanziario
d'uno Stato quanto la mancanza alla fede pubblica, quanto la offesa
ai patti che esso ha giurati. Direi quasi che la coscienza collettiva
subisce, certo a malincuore e a contraggenio, le violazioni dei trattati
politici, non può adattarsi ad atti, che disconoscano le garanzie eco-
nomiche, su cui riposa l'autorità e l'esistenza stessa dello Stato. Ciò
spiega l'isolamento economico dell'impero Austriaco dopo il 1816,
nonostante la sua preminenza politica sull'Europa di quel tempo.
Ciò vale a confermare l'importanza via via assunta dalla Prussia,
che non ha avuto mai bisogno di ricorrere al corso forzoso lungo il
secolo XIX. Più ancora ciò vale a legittimare il predominio commer-
ciale, non ancora scosso, non ancora vulnerato, dell'impero Britan-
nico! Nemmeno nei momenti più calamitosi della guerra mondiale
esso si rassegnò a proclamare al mondo l'inconvertibilità della sua
moneta fiduciaria.
V'ha di più. Certe violazioni, certe lesioni sono possibili nei
cerchi ristretti di piccole economie nazionali, dove la vita economica
si svolge quasi in modo indipendente da rapporti intemazionali,
dove la complessità delle relazioni è così scarsamente progredita da
potersi affermale che la Bjg^Te^Qi7.\<ynQ sociale vive assai più sui
proprii sforzi che non sai quelli di altre comunità. Appena il ciclo
delle relazioni si allarga, appena i nodi si complicano e i rapporti
intemazionali diventano una condizione dell'attività economica della
(1) Relazione Stunbach citata dal Loriki, La questione della valuta in
Austria-Ungheria, paj?. 448.
(2) Cf r. LoRiNi, La riforma monetaria della Russia.
à
PER IL RIPRISTINO DELLA CIRCOLAZIONE NORMALE 173
nazione, questa non può mancare ai proprii impegni, nemmeno nel-
l'apparenza. Altrimenti è reciso lo stame della sua esistenza e il fu-
turo non può preparai'le che o la distruzione materiale con l'isola-
mento economico o la distruzione morale col servag-gio politico.
IV.
Nonostante la prevalenza del metodo della rivalutazione, non è
da credere che la soluzione del problema sia agevole e quasi intui-
tiva. In ogni caso un siffatto procedimento di politica economica
difficilmente potrebbe attuarsi in breve tempo e quasi all'improvviso.
D'altro canto non dobbiamo abbandonarci alla sfiducia, né conviene
trasportare nel giudizio della vita degli Stati e sopratutto delle na-
zioni il pessimismo, che possiamo nutrire nel corso della vita indi-
viduale. Siamo pure pessimisti per noi stessi; non per il nostro paese,
non per le nazioni giovani come l'Italia, la Francia, la Germania, la
Czecc^-Slovacchia, gli Stati Balcanici. Per esse dobbiamo alimentare
quell'ottimismo, che trova d'altronde nelle potenti energie delle co-
munità moderne il più valido rinfranco.
Onde rendere possibile la; rivalutazione della moneta conviene
tener conto di due categorie di fattori. Una categoria si collega a
quelle condizioni di ambiente economico, a cui opportunamente si
riferiva il compianto Lorini, così benemerito di questi studi, nono-
stante l'eccessiva esuberanza del suo stile ed anche talvolta l'indeter-
minatezza. La seconda categoria comprende i provvedimenti finan-
ziarli, in cui si risolve una concreta azione per la rivalutazione della
moneta.
Fra le condizioni favorevoli di ambiente economico vanno regi-
strate :
1. V aumento della produzione. Nell'Inghilterra, durante gli
anni 1815, 1816 e Ì8i7, i copiosi raccolti provocarono una minore di-
minuzione di valore del biglietto di fronte all'oro, talché i direttori
della Banca d'Inghilterra intrawidero la possibilità di riprendere i
pagamenti in denaro (1). Del pari nella Russia. I ricchi raccolti del
1888, del 1889, del 1893-94, lo stesso sviluppo delle industrie, che
accettarono di buon grado più alto saggio d'imposizione sui loro
profitti, aiutarono l'energica opera del Witte. Né diversamente, per
quanto parzialmente, nell'Austria negli anni anteriori alla riforma
monetaria. In alcune provinole vi fu una certa corrispondenza fra
l'aumento dei salarli e la diminuzione dei prezzi; il che accennerebbe
ad un qualche incremento nei salarli reali. Però l'indagine in tempi
di corso forzoso é troppo difficile e malsicura per arrivare a conclu-
sioni concrete e definitive. Oltre a ciò è un postulato ormai univer-
salmente accolto, che gli effetti dell'aggio, sia in senso di incremento,
sia in senso di riduzione, agiscono dapprima sui prezzi all'ingrosso,
indi su quelli al minuto e soltanto nell'ultimo stadio sui salarii (2).
(1) Andreades, Eistoire de la Banque d'Angleterre, voi. I, pag. 330.
(2) Relazione Simonelli sul corso forzoso in Italia. Stringher, Sulla
estinzione del corso forzoso in Italia. Annali dell'Industria © del Commer-
cio, 1879, n. 8.
174 METODI E CONDIZIONI
2. Il mifflioramento della bilancia dei pagamenti internazio-
nali. In questa espressione vanno compresi tutti quegli elementi di
incremento o di compensazione, che completano la parte attiva della
bilancia commerciale. Non vi è dubbio però che il nucleo principale
della bilancia dei pagamenti è costituito dalle quantità delle merci
comprese nel movimento delle importazioni e delle esportazioni. Ri-
spetto ad esso non si può dire, che soltanto un'eccedenza attiva tem>-
poranea delle esportazioni sulle importazioni possa rendere possibile
la ripresa dei pagamenti metallici. Certo egli è, che l'insuccesso ita-
liano del 1881-83 è parallelo ad una persistente deficienza delle espor-
tazioni di fronte alle importazioni (da 154,732,145 lire nel 1879 sale
a 180,360,942 nel 1883), né esisteva allora così copioso l'afflusso delle ri-
messe degli emigranti. Del pari, negli Stati Uniti d'America. La co-
raggiosa iniziativa di Mac Culloch trovò contro di sé non soltanto
l'opposizione degl'industriali speculatori, pronti a chiedere il rinno-
vato assenzio delle emissioni, ma altresì una bilancia del commercio
non ancora definitivamente favorevole. Essa segna nel 1866 un'ecce-
denza a favore delle importazioni di dollari 85,952,544 ed anche con
numeri più alti in seguito, finché si muta nel 1874 in una eccedenza
di esportazioni che da 18,876,698 dollari arriva nel 1878 a 257,786,964
dollari (1). In genere però la ripresa dei pagamenti metallici si ac-
compagna o é preceduta se non da una bilancia permanentemente
attiva, da un miglioramento nei traffici verso l'estero. Il Porter (2)
ricorda, che nel 1815 vi fu nella Gran Bretagna una ripresa del mo-
vimento commerciale, specie nell'esportazione di prodotti di lana.
Così i filati e tessuti di cotone, che uscirono dal Regno Unito nel pe-
riodo decorso dal 1810 al 1816 con una media di 436 milioni di fr.,
lo furono dal 1817 al 1826 con una media di 613. E, venendo a tempi
più vicini, nella Francia, dopo il 1870, il movimento commerciale
aiutò potentemente l'economia nazionale a liberarsi dal regime anor-
male della moneta. Ricorda L. Say, nel suo splendido rapporto sul
pagamento dell'indennità di guerra, che, mentre negli anni 1870
e 1871 vi fu un'eccesso d'importazioni sulle esportazioni rispettiva-
mente per 65,300,000 e per 694,200,000, immediatamente dopo, nel
1872 e nel 1873, s'avvertì il fenomeno inverso portandosi l'eccedenza
dell'esportazione sull'importazione in que' due anni a 191,300,000 e
a 326,700,000. Ne é un segreto per alcuno, che l'incremento nelle
esportazioni dei cereali ha segnato per l'Argentina altrettante tappe
nel miglioramento della sua situazione monetaria. Da parte sua la
Russia nei quinquennii 1885-90 e 1891-95 andò a rappresentare con
una media di 255.6 milioni di rubli nel primo periodo e di 171.7 nel
secondo l'eccedenza del valore delle merci esportate sulle importate.
Infine nella monarchia Danubiana la bilancia commerciale appare
attiva sino dal 1874. Nel quinquennio 1-886-1890 l'eccesso delle espor-
(1) Sono queste 1« cifre citate dallo Stringhi» «ralla base del Quaritrìy
Report of the Chief of the bureau of statistios del 30 giugno 1878 Però l'olla
gato n. 16 del rapporto di Mac Culloch del 1866 porta per gli anni 186.5 e 1866
una eccedenza delle esportazioni sulle importazioni rispettivamente di dollari
102,202,936 e 127,786,040. Esso si riferisce però a cifre di valore lordo {gro$$
value).
(2) Progrks de la Grande Bretagne, traduc. francese.
\
PER IL RIPRISTINO DELLA CIRCOLAZIONE NORMALE 175
tazioni vi si segna per 159.4 milioni di fiorini. Il che invogliava di
per sé ad una riforma razionale della valuta.
3. Uinizio del risanamento delle finanze. Non vi è dubbio, che
la abrogazione dell'atto di restrizione del 1797, attuata nell'Inghil-
terra mediante l'atto di Peel del 1819, è contemporanea ad un note-
vole sollievo di quella finanza. Nel discorso tenuto dal Reggente alla
Camera dei Comuni nel 1819 fu rilevato che, mentre nel 1818 le en-
trate superavano già le spese di 1,500,000 di sterline, nel 1819 si
avrebbe avuto un'avanzo di 3 milioni, I successivi energici provvedi-
menti intesero a ridurre le spese e ad introdurre nuove imposte (1).
Un mirabile esempio di sistemazione finanziaria offre la storia del-
l'Unione Nord-Americana per gli anni immediatamente successivi
alla fine della guerra di secessione. Difatti, mentre gli esercizi 1862
iLsque 1865 si chiusero con deficit spaventosi procedenti da 423 a
602,601 e 956 milioni di dollari, coperti per intero da accensioni di de-
biti, nell'esercizio 1866, cessati i pagamenti di guerra, le entrate, giun-
te a dollari 558,032,620.06 riescono a coprire tutte le spese ordinarie,
comprese in esse gl'interessi del debito pubblico divenuto per quei
tempi imponente (2,783,425,187.21 dollari) ed a lasciare un'avanzo
di 37,281,679.58 di dollari (2). Quanto alla Francia le discussioni ivi
sorte sul bilancio del 1874, sia nella sua prima forma, sia nelle suc-
cessive rettifiche, fra il ministro cessante L. Say e il suo succes-
sore M. Magne non concordano sui risultati contabili e in particolare
sul modo di sopperire al fondo degli ammortamenti. Però esse ac-
cennano ad un notevole assestamento delle finanze francesi, che
avrebbe potuto mantenersi ed accrescersi se il severo indirizzo finan-
ziario inaugurato da Thiers e da Leon Say non avesse trovato contro
di sé la competizione irosa dei partiti e l'inesorabile spinta alle
spese (3). Non ugual giudizio può farsi per l'Italia nel periodo 1879-
1882, in cui essa si sforza di abolire il corso forzoso. Se invero nel-
l'anno 1879 ha un'avanzo accertato di 41,964,069 e nel 1882 un'avanzo
presunto di 28,854,171 di lire, negli anni 1880 e 1881 registra un
deficit per 14,957,189 e 32,229,816. La Russia, invece, salda i bilanci
del 1892, 1893 e 1894 con avanzi rispettivamente di 43.4, 159.6 e 77.6
milioni di rubli. Che se nel 1895, alla vigilia della riforma, l'eserci-
zio si chiude con un eccesso di passività di 102.7 milioni, ciò non
dipende, né da difetto di entrate ordinarie, che anzi salgono a 1255.8
milioni, né da esuberanza di spese ordinarie ridottesi a 1,137.8 mi-
lioni, bensì da un notevole aumento nelle spese straordinarie. Lo
stesso si dica per l'Austria-Ungheria. Ivi fu predisposta la riforma
monetaria con Vanimo intento a consolidare il bilancio mediante un
proporzionale riordinamento delle imposte e Vaspirazione ad un
lungo periodo di pace (4). Ed invero i bilanci austriaci del 1889 e
(1) Pebrer, Histoire financière et statistique generale de VEmpire briian-
nique, I, pag. 131.
(2) Allegati n. 7 ed 8 al Beport of the secretary of the treasury on the
state of the financy for the year, 1866.
(3) L. Say, Discorsi del 17 marzo, 14 dicembre 1873 e 7 novembre 1874, rao-
oolti nell'opera Les finances de la France sous la troisième république, voi. I.
(4) Così il Ganseb nello studio: Die Valutaregulierung in Oest.-Ung., ci-
tato dal LoRixi, La questione della valuta neW Austria-Ungheria, pag. 169.
176 METODI E CONDIZIONI
del 1890 si chiudono con avanzi di 11.1 e di 22.2 milioni di fiorini e
quegli ungheresi degli anni 1889, 1890 e 1891, del pari con differenze
attive di 2.6, 27.0 e 30.3 milioni di fiorini.
4. La progressiva riduzione del debito pubblico all'estero.
Troppo corrisponde al fine questa condizione per poterne contestare
la legittimità. Taluni Stati del resto, come l'Inghilterra e la Francia,
erano troppo potenti per sé stessi per dover calcolare su prestiti al-
l'estero. Altri, ad. es., l'Austria, lasciarono parte notevole del proprio
conolidato su mercati non strettamente nazionali (1). Checché sda
di queste ed altre eccezioni la persistenza d'un grande debito all'e-
stero urta contro soverchi scogli per non promuoverne una lenta, ma
progressiva eliminazione. E fosse pure il debito ingente giudico più
cauto un qualsiasi regolamento, anche a lunghissima scadenza, an-
ziché una presuntuosa dimenticanza onde sarebbe aggravata senza
pietà la condizione del popolo debitore di fronte al popolo creditore.
Questo poi avrebbe cento occasioni per far pagare ad usura, o nei
prezzi delle materie di suo monopolio o in una più limitata domanda
dei prodotti esportabili, il mancato impegno. In particolare poi la
sistemazione e, possibilmente, la riduzione del debito all'estero por-
terebbe con sé il benefico effetto di restringere il materiale incendia-
rio delle speculazioni di borsa, tanto più pronta a combattere con le
sue manovre il risanamento della moneta, quanto più sono incerti i
rapporti finanziarii fra gli Stati e oscillanti le valutazioni del mer-
cato dei titoli pubblici (2).
Tra i provvedimenti finanziarii, intesi a promuovere una pro-
gressiva rivalutazione della moneta, vanno in particolare considerati
i due seguenti, qui sotto esposti. La loro azione va però considerata
insieme e contemporaneamente in quanto gli effetti si accumulano e
s'incrociano nel rispettivo svolgimento.
1. Il processo di limitazione della quantità della carta moneta.
Per quanto il Bullion Report avesse vigorosamente confutato l'opi-
nione dei direttori di banca e di altri commercianti pVofani, giusta
la quale il ribasso nel corso del cambio fra Londra, da una parte,
Parigi, Amburgo ed Amstef'dam, dall'altra, sarebbe dipeso da un
accrescimento del valore dall'oro, anziché dal deprezzamento nei bi-
glietti di banca in causa della loro eccessiva quantità, nessun prov-
vedimento inteso a limitare tale quantità si trova contenuto nell'atto
di Peel del 1819. La ragione di tal fatto si spiega con la lentezza con
cui le teorie ricardiane, accolte nel Bullion Report^ avevano guada-
gnato l'opinione pubblica anche dei cosidetti tecnici. Oltre a ciò nel
periodo 1815-1820 lo sviluppo degli affari era stato tale da neutraliz-
zare con l'aumento nella domanda della moneta, almeno nei primi
anni del quinquennio, gli effetti d'una offerta ancora eccessiva. Ed
invero, stando ai dati del Pebrer, la circolazione, che al 31 dicem-
(1) Tali i mercati di Berlino e di Franooforte.
(2) Notevole a questo proposito l'abilità con cai il Co. Witte seppe sot-
trarre ai fiochi di borf^a la vendita e l'acquisto di tratte sull'estero, fissandone
l'alionnzione da parte drll'amministrazione finanziaria al nuovo rapporto fra
il rublo d'oro © il rublo credito, come pure l'energia con cui seppe respingere
le domande di nuove emissioni nel 1896. V. su tutto ciò Lorini, op. cit.,
pag. 74 e 133.
PER IL RIPRISTINO DELLA CIRCOLAZIONE NORMALE 177
bre 1814 era di 26,074,570 sterline sale, alla stessa data, nel 1815, a
26,129,040, nel 1816 a 28,915,940. Però al 31 dicembre 1817 discende
a 26,005,240, nel 1818 a 23,910,800, nel 1819 a 23,278,000. Infine, e
ciò è rimarchevolissimo, nel 1820, anno in cui si comincia ad appli-
care l'atto di Peel, viene ridotta a 18,515,920 e d'allora diminuisce
sempre più talché nel 1830 arriva a 16,282,060 sterline (1). Se quindi
la riduzione non vi fu nella legge, ebbe però la sua completa consa-
crazione nei fatti.
Dicemmo già come il concetto fondamentale, a cui s'inspirava il
Mac Culloch nel preparare la ripresa dei pagamenti metallici nel-
l'Unione Nord-Americana, si difflnisse nel ritiro delle legai tender
notes. Tanto risulta dai suoi rapporti del 4 dicembre 1865 e del 3 di-
cembre 1866. Perciò il segretario della tesoreria con l'atto 12 mar-
zo 1866 venne autorizzato a ritirare dalla circolazione una quantità
corrispondente a 10 milioni di dollari entro sei mesi e, successiva-
mente, un'importo di quattro milioni di dollari al mese. In defini-
tiva le legai tender notes, che al 1° gennaio 1866 ammontavano a
425,839,319 di dollari erano ridotte due anni dopo a 356,000,000. L'o-
pinione degli uomini d'affari, troppo angustamente interessata, era
però contraria a siffatte limitazioni. Perciò sotto la pressione di quella
corrente il Congresso sospese la riduzione della circolazione. Essa si
mantenne negli anni seguenti nell'importo di 356, salvochè nel 1874
giunse fino a 382 milioni. Però la circolazione complessiva (banche
nazionali e di Stato, legai tender notes e fractional currenaj) andò
diminuendo dal 1867 al 1874, specie tenendo conto dell'aumento
della popolazione (2). Ci volle la violenta crisi del 1874 perchè il
resumption act fissasse al 1° gennaio 1879 l'epoca della cessazione del
corso forzoso mediante il riscatto delle legai tender notes ridotte già
ad un'importo di 346 milioni.
Non si può dire che in Francia la limitazione della circolazione
sia stata fra gli atti, che portarono come effetto il ritorno alle con-
dizioni normali. Ivi il corso forzoso, deliberato il 12 agosto 1870,
avrebbe consentito alla Banca di Francia quel massimo di emissione
che il decreto 15 luglio 1872 aveva determinato in 3,200,000,000 di fr.
Però, la circolazione, che nel 1871 ammontava a 2,075,206,000 con
una riserva di 551,500,000, sale nel 1878 a 2,338,996,000 con una ri-
serva di 2,072,700,000 (3). In realtà l'indirizzo della Banca di Fran-
cia rimase costantemente quello di accrescere il suo fondo metallico
e di aumentare la circolazione in proporzione di quell'incremento.
Il che — diversamente per l'Italia — le era consentito dalla natura
e dallo sviluppo del movimento commerciale della Francia e dalla
massa di crediti, sia per tratte, sia ner investite in titoli, che auesta
nRzione era in 2:rado di collocare all'estero. Quindi nel senso di una
limitazione della circolazione, più della riduzione della quantità,
valse in Francia l'incremento nel rapporto fra l'ammontare della ri-
serva e quello della circolazione. ^
(1) Op. cit., I, pag. 299 e segg.
(2) Stringhtkr, scritto citato, pagg. 49-50.
(3) CotJRTOis, Eistoire de la Banque de France. — SAiwT-GBins, La Ban-
ft»e de France.
13 ToL CCTVII, serie VI — 16 mano 1922.
1T8 METODI E CONuiZiuNI
Lasciando da parte di considerare, se all'insuccesso italiano del
1881-83 abbia cooperato anche il difetto di qualsiasi nonna relativa
alla riduzione dei biglietti propri! ai singoli istituti d'emissione, a
cui si conservò anche il corso legale, aggiungiamo alcune considera-
zioni intorno alla politica adottcìta nei riguardi della limitazione
della circolazione dalla Repubblica Argentina e dall'impero Russo (1).
La legge argentina 4 novembre 1899 conteneva al suo art. 7 una
prescrizione, che fu argomento ad ampia discussione e a vivaci cri-
tiche. In forza di quell'articolo la Gassa di conversione aveva facoltà
di emettere e di dare, a chiunque ne facesse domanda, biglietti di
corso legale in cambio d'oro nella proporzione d'un peso di corso
legale per quarantaquattro centavos d'oro e di versare del pari, a
chiunque lo domandasse, dell'oro in cambio di moneta di carta all'i-
dentica ragione di cambio. Questo ordinamento avrebbe potuto pro-
muovere il ritomo al baratto fra oro e biglietto quando non fossero
stati mantenuti i due pesos e, a tal fine, si fosse ridotta, sia pure len-
tamente, la quantità del peso carta. L'aver conservat^o ambidue i sim-
boli ha esposto il rapporto a tutte le oscillazioni dei raccolti e del mo-
vimento commerciale, mentre la possibilità di farlo non poteva sot-
trarre la Cassa alle tentazioni di nuove emissioni. Così avvenne che
negli anni successivi al 1899 il riscatto si arrestò, né si riprese il ba-
ratto se non quando una copiosa esportazione accrebbe il fondo me-
tallico.
Più razionale fu il procedimento adottato dalla Russia. Esso si
svolge in un periodo di quindici anni, cioè dal 1881 al 1897. Narra
il Lorini che fu primo il ministro Abaza con ukase del gennaio 1881
a iniziare il ritiro e la distruzione d'una parte dell'eccesso della cir-
colazione. Gli segue il Bunge, che nel 1886 trasmette al Wischne-
gradski una circolazione ridotta per 317 milioni di rubli. Certo si
è che la circolazione effettiva di biglietti di credito dal 1881 al 1891
discende da 1,085,050,000 di rubli a 907,416,000. Che se essa dal 1891
al 1897 risale a 1,067,856,000 ciò avviene per il contemporaneo au-
mento del fondo metallico, che, nei due anni, innalza il rapporto tra
oro e biglietti dal 23.31 al 46.82 per cento.
2. La progrediente costituzione d'un fondo metallico. Non pre-
scrizioni di leggi e nemmeno artificiosi espedienti provocarono incre-
mento del fondo metallico negli anni anteriori o posteriori all'aboli-
zione del Restriction Act, ma il corso naturale dei fatti economici, lo
stesso afflusso dell'oro derivante dalle rinnovate fonti dell'esporta-
zione. Ed invero nel quinquennio 1811-1815 la media del valore depo-
sitato in verghe presso la Banca d'Inghilterra era appena di 2,932,312
sterline. Invece nel quinquennio successivo raggiunge l'importo di
7,480,116 sterline e nel 1821 tocca le 11,233,590 sterline, né si allon-
tana da tal cifra in tutto il decennio (2).
Anche negli Stati Uniti d'America l'aumento del fondo metal-
(1) Nell'Austria la circolazione complessiva (tesoro e banche) fu nel 1892,
anno della riforma, di 834 milioni di fiorini contro una riserva di 302 milioni.
Il rapporto era perciò del 36.13. Si disse già ohe la riforma dolla valuta in-
tendeva soltanto a preparare le condizioni per il riscatto della carta moneta
a tempo da destinarsi.
(2) Pebrer, op. cit., I, pag. 3.
\
PER IL RIPRISTINO DELLA CIRCOLAZIONE NORMALE 179
lieo riuscì certamente di grande contributo al risanamento della cir-
colazione. Esso però dipese da cause naturedi, troppo evidenti. Giusta
i dati, riassunti con diligenza e con precisione dallo Stnngher, la
produzione dell'oro dal 1845 al 1865 vi fu di 875,561,769 di valore in
dollari. Dal 1866 al 1875 vi si aggiunge un importo di 448,225,000. In-
fine, negli anni 1876-1878 la produzione dell'oro s'accrebbe di dollari
92,326,000. Naturalmente dall'insieme di queste cifre bisogna de-
trarre la differenza fra l'esportazione e l'importazione del metallo,
che fu considerevole, in quanto, per ambidue i metalli^ ammontò nel
solo periodo decorso dal 1862 al 1878 a 863,680,403. Certo si è che la
riserva metallica del tesoro come quella delle banche nazionali andò
sempre aumentando nel periodo decorso dal 1866 ai 1879. Secondo
i calcoli del direttore generale delle zecche, la situazione dello stock
d'oro al 30 giugno 1878 — fatte le dovute detrazioni per esportazioni
e per consumo del metallo per scopi artistici ed industriali — era di
dollari 244,353,390. In definitiva al 1° ottobre 1878 il direttore gene-
rale delle zecche accertava un deposito metallico complessivo di
358,443,947 dollari, di cui 259,353,390 in oro (i).
Abbiamo già rilevato quale importanza abbia avuto l'incremento
delle riserve metalliche nel riordinamento dei rapporti tra Banca e
Tesoro in Francia dopo il 1870. A questi rapporti in fondo si ridure
la storia del corso forzoso di sifTatto periodo. Le riserve metalliche vi
costituiscono la garanzia fondamentale di tutto il sistema normale
dell'ordinamento del credito, non già l'avviamento alla ripresa dei
pagamenti. Questa è troppo favorita dalle condizioni d'ambiente per
aver d'uopo di siffatti spedienti.
Inversamente in Italia. Tralasciando di considerare, se il pre-
stito dei 644 milioni, di cui 400 in oro, deliberato con la legge 7 apri-
le 1881, n. 133, fosse suflBciente ad agevolare la conversione dei 940
milioni di biglietti consorziali, pei biglietti proprii dei singoli isti-
tuti il rapporto tra la riserva d'oro e la circolazione, anziché aumen-
tare, negli anni più prossimi all'operazione andò sempre più dimi-
nuendo. E valga il vero (2);«
Smw M \mM « Imi e U
Ani MiJ « vWa h Mti #isdM
1878 815,821,351
1879 853,160,146
1880 911,840,526
1881 861,739,444
È alquanto incerta la consistenza del fondo metallico apparte-
nente alla monarchia Danubiana negli anni più prossimi alla riforma
monetaria. Le affermazioni di Ottorino Haupt, che forse meglio di
altri approfondì questo argomento, non sono accolte da tutti gli scrit-
tori, né i confronti e rilievi enunciati dal Lorini in argomento rie-
(1) Stringhi», scritto citato, pag. 152.
(2) Dall'aspetto economico del problema non è il caso di tener conto del
fondo metallico in argento, metallo che nei quattro anni andò sempre più
diminuendo di valore di fronte all'oro. E cioè: 1: 17.19; 17.96; 18.39; 18.06.
Cfr. SoETBEER, Materialien, ecc., pag. 20.
Wtatra €*n
■WMrti
79,364,616.30
9.72%
80,427,468.70
9.43%
77,618,700.50
8.51%
71,304,720.50
8.27%
180
METODI E CONDIZIONI
scono sempre aJddisfacenti. A chi scrive sembra però preminente il
fatto, che quanto più ci avviciniamo al 1892 la riserva della Banca
Austro-Ungarica aumenta e il rapporto di essa con la circolazione,
specie nell'ultimo anno, tende a diventare più alto. Veggansi i se-
guenti dati in fiorini di valuta austriaca (i) :
Aail
1885
1890
1891
1892
litcrva t ossa
198,736,036
219,523,506
221,080,997
282,185,484
ma
10,242,126
24,966,862
24,850,245
16,969,983
hiàt
209,038,161
244,490,368
245,931,242
299,155,467
OmUtltw
363,6U3,000
445,934,240
455,222,220
477,987,590
UnMte
57.47
54.82
54.02
62.59
Furono due le fonti principali, a cui si rivolse la forte intelli-
genza dei ministri russi per la costituzione di un poderoso fondo
metallico. L'una, propria ad un paese di miniere, la produzione del-
l'oro dalle sabbie dei fiumi e dai monti Urali e Baikal, l'altra, possi-
bile per ogni Stato, il pagamento in oro dei dazi di confine. Difatti
la produzione dell'oro vi sali da 17,245 chilogrammi d'oro fino nel
1881 a 43,478 chilogrammi nel 1895. Da parte loro i dazi di confine
dal 1877 al 1895 diedero un prodotto di ben 1348.2 milioni di rubli
d'oro, confutando con così potente contributo le obbiezioni opposte
da P. Leroy-Beaulieu a questo modo di formazione dei fondi metal-
lici (2). Qualunque sia, ad ogni mojo, la via prescelta per la costi-
tuzione d'una riserva — e quelle due adottate dalla Russia vanno col-
locate, almeno in ordine di preferenza, in un grado più eminente
del ricorso a prestiti all'estero — sifTatto provvedimento è ormai con-
sacrato così nella pratica come nella dottrina dalle maggiori auto-
rità (3). Le seguenti cifre additano come abbia progredito la costitu-
zione del fondo metallico in Russia nel periodo più prossimo alla
riforma. Vi è palese altresì l'importanza sempre minore della scorta
d'argento e la prevalenza acquistata dall'oro monetato suL'oro in
verghe.
Mii^Iiaia
di rubli me
talliri
ArraoRtare conp'essivt
ku\
Oro In mcnete
Oro il verihe
Arg ut*
it.L scorta nrta.l ca
1881 . .
. . 139,943.8
30,392.6
1,136.1
171,472.6
1886 . .
. . 133.972.4
36,373.7
1,126.4
171,472.5
1891 . .
. . 187,465.7
22,913.6
1,125.7
211,505.0
1893 . .
. . 296,038.0
64,341.4
1,125.7
861,505.1
1895 . .
. . 350,8130
1,125.7
351,938.7
1897 . .
. . 600,000.0
600,000.0
V.
L'esposizione dei fatti, ora raccolti, ci porta forse a concludere,
che la ripresa dei pasramenti metallici sia un vano e disperato tenta-
tivo là dove non esistano rigogliose quelle condizioni naturali di ri-
sveglio economico, di cui ci offersero un saggio l'Inghilterra nel 1815-
(1) Da prospetti riprodotti dal Lorini, op. cit., pag. 78.
(2> Science de$ financex, 3» ediz., voi. II, pag. 692.
(8) Pareto, Cout» d'economie politique, pag. 825.
PER IL RIPRISTINO DELLA CIRCOLAZIONE NORMALE 181
1819 con l'improvviso fiotto della sua produzione industriale e la
Russia con l'invidiabile opulenza delle sue miniere?
Non mi sembra di dover sottoscrivere una sentenza così severa.
Certamente così nella vita politica degli Stati come in quella
economica delle Nazioni non conviene dare la preferenza agli spe-
dienti meccanici sulle forze organiche, da cui il processo sociale con-
segue e moto e svolgimento. Troppo è complessa la struttura e la
azione della società umana, anche se oggetto di studio in una sola
nazione, per supporre che uno stato morbido così profondo, quale
quello d'una circolazione inquinata, possa trovar scampo per effetto
di temporanei artifici, piìi o meno improvvisati. All'opposto è giuo-
coforza tener sempre presenti le condizioni generali e particolari del
circolo d'interessi e di forze, su cui si opera. Occorre coordinare le
singole provvisioni, che a quello son proprie e quasi connaturali. Né
vale il violentare, sotto la pressione del desiderio del bene, il pro-
cesso dei fattori predisposti a coordinare l'azione politica e legisla-
tiva, ma giova promuovere un lento, ma progressivo, adattamento di
quanto si va divisando al loro corso normale. Solo in tal guisa il di-
segno iniziato troverà in quelli conforto e sicuro compimento.
Ferma tale premessa una risposta all'angoscioso dubbio, sopra
formulato, non si può dare se non tenendo conto del grado di svi-
luppo delle singole nazioni e della intrinseca efficacia delle forze na-
turali, etniche e storiche, su cui si può contare per il loro avanza-
mento futuro. Considerare uguali tutte le nazioni, prescindendo dai
caratteri differenziali proprii al loro svolgimento storico, è cozzare
contro la realtà. Non altrimenti se si volesse, con un metodo compa-
rativo ormai superato, identificare il processo biologico d'un corpo
animale con l'evoluzione della società uméma. Vi sono d'altronde, e
vi furono, popoli così stazionarii e decadenti da non potervisi rico-
stituire un regime monetario al di sopra del grado di corruzione o
di depressione, in cui esso era caduto. Ma, allorquando la popola-
zione col suo movimento riproduttivo può compensare ogni perdita
e fiancheggiare ogni espansione, quando la genialità della razza crea
nuove forme di lavoro e di produzione, quando la terra può dare un
reddito nazionale, anche superiore agli sforzi fatti per rinnovarlo,
quando, nonostante tutte le subite delusioni, si comprende la forza
della accumulazione e del risparmio, quando vi è nel popolo una
energia collettiva tanto salda da saper mantenere e difendere la pro-
pria indipendenza politica, non è da dubitare che così fermo volere
non riesca altresì a preparare e a secondare le vie più opportune e
pili efficaci per riconquistare con la rinnovata purezza del sistema
monetario anche la indipendenza economica.
Giulio Alessio.
i
LE TASSE SULLE VENDITE, SUL LUSSO
E SULLA CIFRA D'AFFARI ALL' ESTERO ED IN ITALIA
I.
La legislazione tributaria del periodo della guerra, elaborata
sotto la pressione delle sue formidabili esigenze finanziarie e nella
urgenza di sopperirvi, si volse da una parte ad aggravare, con pro-
gressivi inasprimenti, i tributi esistenti, e dall'altra a crearne dei
nuovi.
Questi possono distinguersi in due categorie ben diverse fra di
loro. Alcuni ebbero carattere di veri e propri tributi straordinari di
guerra, e sono essenzialmente quelli che colpirono coloro che realiz-
zarono per causa della guerra profitti straordinari o che godettero
di esenzioni dagli obblighi personali della mobilitazione. Altri, in-
vece, rappresentano nuovi tributi di carattere ordinario che colpi-
scono manifestazioni economiche che prima andavano esenti e che
le maggiori esigenze fiscali hanno reso necessario di chiamare a con-
tributo.
I primi rappresentano nel nostro firmamento tributario stelle
filanti : i secondi vi costituiscono invece vere costellazioni perma-
nenti, destinate a rimanervi per fronteggiare una situazione, nella
quale al declinare delle risorse straordinarie dei tributi di guerra
che prelude alla loro non lontana estinzione (1), non si accompagna
la cessazione dei carichi e degli oneri che la guerra ha lasciato dietro
di sé in duro retaggio, quali gli interessi del gigantesco debito pub-
blico, il carico delle pensioni di guerra, le spese delle ricostnizioni
delle terre devastate.
Tra questi nuovi tributi, creati affrettatamente sotto l'incalzare
del fabbisogno, principalissimi per la entità del rendimento, sono
le tasse sui pagamenti, sulle vendite, sugli scambi, sul lusso, ec-c.,
che sotto diversi nomi e con vario ordinamento, sono state introdotte
nelle legislazioni finanziarie di molti paesi, e che ovunque vanno ora
(1) Le entrate per imposte sui sopraprofitti di ;guerra e sugli aumenti di
patrimonio per causa di guerra cominciano col primo semestre del corrente
esercizio 1921-22 la loro parabola discendente. Esse infatti che erano ammon-
tate nel primo semestre dell'esercizio 1920-21 a lire 807,461,076, nel secondo
semestre dello stesso esercizio salirono a lire 1,097,061,403 per discendere nel
primo semestre del corrente esercizio 1921-22 a lire 99i8,433,201.
LE TASSE SULLE VENDITE, SUL LUSSO 183
trasformandosi dal loro primo imperfetto ordinamento, e assumendo
un assetto più stabile ed una sistemazione più organica ed ampia.
Ck)sì principalmente avvenne in Francia, colla recente istituzione
della tassa sulla cifra di affari in sostituzione delle precedenti tasse
sui pagamenti e sulle vendite.
Non è compito di questo studio un'indagine teorica sulla natura
di tali tributi, che rappresentano forse un ibrido tra le tasse sui con-
sumi, quelle sugli affari, e le imposte sui redditi : ma che di fatto
colpiscono il reddito in quanto è speso dal contribuente o nei con-
sumi di lusso, se la tassazione è ancora limitata a questi, o anche nei
consumi normali, dove ha essa già assunto una base più larga ed
estensiva, la quale però ovunque non comprende i consumi di carat-
tere alimentare e di più stretta necessità per la vita.
I redditi risparmiati sfuggono invece completamente a questa
imposizione, che ha in ciò una giustificazione di ordine economico
particolarmente apprezzabile nell'attuale situcizione di eccesso di con-
sumo sulla produzione, oltre alla giustificazione di ordine finanziario
riposta nelle cospicue risorse di cui siffatta imposizione può essere
feconda, a rimedio di situazioni finanziarie, così profondamente dis-
sestate da non potere trovare adeguato conforto nei consueti ritocchi
finanziari di limitato rendimento. Non vi ha dubbio che si tratta
di un'imposta che mal resiste alla critica scientifica astratta, poiché
essa non ha alcun contenuto di progressività, né di personalità: e
anzi prescinde affatto dalla capacità contributiva del cittadino. È
una specie di taglia, di falcidia, compiuta in occasione di un atto
di acquisto o di un affare attraverso il quale si sorprende e si col-
pisce il contribuente. La giustificazione di queste tasse è essenzial-
mente pratica, in relazione alla situazione così desolata dei bilanci
statali, e risiede nel fatto che esse, potendo avere una base molto
larga, sono suscettive di un rendimento cospicuo anche con aliquote
mod^e, e senza eccessive diflBcoltà di accertamento e di riscossione.
Questi tributi consentono, infcitti, di colpire i consumi di earat-"
tere generale che non siano ancora soggetti a quelle particolari tas-
sazioni di fabbricazione, di consumo o di vendita, che colpiscono,
ad es., il caffè, lo zucchero, il vino, i generi di monopolio, ecc. ecc.
Il che rende evidente la loro notevole potenzialità di rendimento,
pur mantenendone moderate le aliquote.
II.
La vicenda legislativa di queste tasse si presenta particolarmente
caratteristica in Francia. Un primo disegno di legge in data 12 giu-
gno 1917, presentato dal ministro delle finanze Thierry, diretto fra
l'altro a stabilire un'imposta sulle vendite effettuate da tutti i com-
merciajiti, non ebbe fortuna. Ma poco dopo la legge 31 dicem-
bre 1917, accanto ad una tassa di venti centesimi per cento franchi
per tutti i titoli di qualsiasi natura constatanti pagamenti o versa-
menti di somme, sia a commercianti per causa diversa dall'esercizio
del loro commercio, sia a non commercianti, istituiva all'art. 23 una
tassa di venti centesimi per cento franchi sui pagamenti per vendite
184 LE TASSE SULLE VENDITE, SUL LUSSO
al minuto o al consumo di ogni merce, derrata, somministrazione od
oggetto qualunque, quando i pagamenti superano i 150 franchi, e
su tutti i titoli da consegnarsi dai venditori in prova di pagamenti
inferiori ai 150 franchi, ma superiori a 10 franchi. Infine la stessa
legge (articolo 27) stabiliva una tassa del 10 per cento sul pagamento
delle merci, derrate, somministrazioni ed oggetti qualsiasi, classifi-
cati di lusso e venduti al minuto o al consumo sotto qualunque forma
da commercianti o da non commercianti, e una tassa del 10 per cento
(art. 28) sulle spese relative all'alloggio o al consumo sul posto di be-
vande 0 derrate alimentari, fatte in stabilimenti classificati di lusso.
La legge entrò in vigore il 1° aprile 1918 e il ministro delle fi-
nanze Klotz, nella sua relazione presentata alla Camera il 13 no-
vembre 1917, ne presumeva un provento erariale di 1,300,000,000 di
franchi. 11 gettito fu invece di franchi 210,000,500 nell'anno 1918, di
franchi 629,144,500 nell'anno 1919 e di franchi 804,432,000 nel 1920,
anno nel quale dal 1° luglio cominciò ad essere applicata l'imposta
sulla cifra di affari sostituita a quella di cui agli art. 23 a 28 della
legge 31 dicembre 1917.
L'imposta sulla cifra di affari fu istituita con l'articolo 50 della
legge 25 giugno 1920, nella misura dell'I per cento, oltre ad un de-
cimo a favore dei comuni, sulla cifra di affari, quale è definita dal-
l'art. 62 della legge; salva la elevazione al 3 per cento per l'alloggio e
i consumi in stabilimenti di seconda categoria, al 10 per cento per
l'alloggio e i consumi in stabilimenti di prima categoria, e per le
vendite di oggetti o somministrazioni di lusso (articolo 63). Un de-
creto del 27 giugno 1920 stabilì la classificazione degli oggetti e som-
ministrazioni di lusso, e il regolamento 25 luglio stesso anno dettò
le norme per la esecuzione della legge. Sono esenti dalla tassa le ven-
dite di cose destinate alla esportazione: vi sono invece soggette le
cose importate dall'estero nella misura dell'I. 10 per cento o del 10
per cento a seconda della loro natura, se di uso comune o di lusso,
in quanto dirette a privati, e invece sempre dell'I. 10 per cento se di-
rette a commercianti per il loro commercio.
La legge 31 luglio 1920 previde per quell'anno un introito rli
franchi 2,084,333,000 dalla imposta sulla cifra di affari : ma le riscos
sioni non salirono che a franchi 942,187,500. Per l'anno 1921 la pre-
visione fu stabilita in franchi 4,998,000,000: senonchè, vista la poca
corrispondenza del prodotto, con la legge di finanza 30 aprile 1921
la previsione venne ridotta a franchi 2,900,000,000 oltre franchi 12
milioni per la tassa sul lusso a decorrere dal 1" aprile; però a tutto
novembre 1921 le riscossioni non avevano dato che 1,724,219,000
franchi.
È interessante seguire l'andamento delle riscossioni, che segna
un costante regresso, solo arrestatosi negli ultimi mesi, che invece
denotano una sensibile ripresa.
Tra i proventi mensili, i seguenti dimostrano tale curva di ri-
scossione:
Settembre 1920 . . fr. «92,791.500 Giugno 1921 . . , fr. 146,699,000
Dicembre 1920 . . ^ 203,175,000 Settembre 1921 . . „ 167,:^80,0(X>
Marzo 1921. .... 147,628000 Novembre 1921 . „ 171,894,000
E SULLA aFRA D'AFFARI ALL'ESTERO ED IN ITALIA 186
La riscossione nel 1921 fu in complesso di franchi 1,897,457,000,
con una deficienza di quasi tre miliardi sulla previsione originaria,
e di 1,002,543,000 sulla previsione rettificata il 30 aprile 1921. Per
l'esercizio 1922, nel bilancio presentato agli uflBci della Camera nella
seduta dell'S luglio 1921, il ministro delle finanze Paul Doumer, per
fronteggiare il disavanzo di 3 miliardi nel bilancio ordinario, pro-
pose il raddoppio della aliquota della tassa sulla cifra degli affari,
portandola dall'i al 2 per cento e ripromettendosene così un provento
totale di franchi 5,600,000,000. Ma le Commissioni parlamentari non
approvarono la proposta, e respingendo ogni maggiore imposizione,
ritornarono il bilancio al Governo, perchè provvedesse a eliminare
il disavanzo con economie.
Questa deliberazione fu da alcuni additata come esempio all'Italia.
Esempio però assai pericoloso poiché alla realtà di un sacrificio dei
contribuenti, sia pure grave ma efficace a migliorare decisamente
la situazione del bilancio, fu preferita la speranza, se non la illusione,
di economie, le quali anziché far respingere la proposta del nuovo
aggravio, avrebbero potuto — se attuabili — concorrere con esso ad
affrettare il risanamento di quella finanza statale, che non comprende
nel suo bilancio normale o ordinario oneri e carichi cospicui, come
quelli delle pensioni di guerra e delle ricostruzioni, che hanno per
contropartita le riparazioni dovute dalla Germania.
III.
Le caratteristiche principali della leg^e francese sulla imposta
sulla cifra di affari sono le seguenti:
Essa si uniforma al sano principio di una moderata aliquota e
di una larga base, requisiti fondamentali per un elevato gettito. È
vero che per le vendite delle cose di lusso la aliquota si eleva fino al
10 per cento e sale anzi per i vini e liquori fino al 15 per cento e al
25 per cento, ma il rendimento di gran lunga maggiore della tassa è
dato dagli affari colpiti colla aliquota minore, e cioè coll'l.lO per
cento ivi compreso il decimo per i comuni. La tabellina seguente ben
lo dimostra per il primo semestre del 1921.
Al 1.10% A1S% Al 10% Totale
Gennaio 1921 .... 152,4Q0.800 2,283,176 28,713,785 183,487,763
Febbraio 1921. . . . 128,783.370 2,00>J, 74 20,90P,083 151,695,134
Marzo 1921 .... 125,934,830 2,474.885 J9,fi92,640 148,102,362
Aprile 1921 .... 132.494,730 2.884,641 22.2.35,5»- 8 157,574,939
Maggio 1921 .... 121,391,070 2,213,410 22,231,148 146,969,191
Tale distribuzione del gettito della tassa bene si spiega ove si
rifletta che essa, nella sua aliquota dell'I. 10 per cento, colpisce tutti
coloro che abitualmente od occasionalmente acquistano per riven-
dere o compiono atti inerenti a professioni assoggettate all'imposta
dei benefici commerciali e industriali o esercitano imprese; e che la
cifra d'affari sulla quale viene liquidata la tassa é data, per i vendi-
tori di merci, derrate, oggetti qualsiasi, dall'ammontare della ven-
186 LE TASSE SULLE VENDITE, SUL LUSSO
dita, e per gli altri contribuenti dall'importo dell© provvigioni, sen-
serie, prezzi di locazione, interessi, sconti, aggi e altri profitti.
Vanno esenti dalla imposta le vendite e gli affari relativi al pane,
ai prodotti monopolizzati, ai servizi pubblici a tariffa controllata, alle
assicurazioni, ed inoltre quelli già colpiti da imposta speciale, come
le operazioni di borsa, gli affari conclusi da società di capitalizza-
zione e quelli relativi agli spettacoli e divertimenti. La tassa del 3 per
cento colpisce le? somministrazioni di bevande e derrate alimentari
negli stabilimenti di seconda categoria, e quella del 10 per cento le
vendite al minuto o per il consumo, di merci e oggetti classificati di
lusso e le somministrazioni di bevande o derrate alimentari negli
stabilimenti di prima categoria. Sono inoltre colpite col 15 per cento
e col 25 per cento rispettivamente le vendite di bottiglie di vini e di
liquori.
Caratteristica veramente peculiare della costruzione di questa
imposta e della sua riscossione, è che essa colpisce propriamente la
cifra d'affari complessiva del contribuente, quale risulta dai suoi re-
gistri, e non mai l'atto singolo di vendita, neppure per le vendite
al diretto consumatore e nemmeno per le categorie di vendite col-
pite colle aliquote più alte. Di conseguenza la tassa non deve mai
essere pagata dal compratore, né quindi mai deve constare il suo
pagamento da registrazione sulla fattura rilasciata al compratore, o
da apposizione di marche da bollo su di essa. La tassa diventa un
elemento del costo, un coefficiente del prezzo di vendita.
Tale grande semplificazione a tutto vantaggio del compratore e
del pubblico è però duramente sentita dal commerciante, sul quale
si aggrava il controllo fiscale diretto a fronteggiare la maggiore faci-
lità delle frodi. Ogni commerciante deve, infatti, avere contabilità che
permettano di determinare l'importo delle sue transazioni, e tenere
libri su cui segnare l'importo di ciascuna vendita o affare, giorno per
giorno, e deve, oltre a fornire agli agenti fiscali tutti gli elementi oc-
correnti, rimettere ogni mese agli uffici finanziari un estratto indi-
cante l'importo totale degli affari fatti durante il mese precedente,
distinguendo gli affari in base alle categorie. Su questi estratti si li-
quida l'ammontare delle tasse mensili corrispondenti alle diverse ali-
quote. Gravi' penalità assicurano l'osservanza di questi obblighi.
Il concetto di tale ordinamento è evidentemente quello di fare
dei commercianti gli agenti percettori della tassa per conto dello
Stato, evitando ogni molestia al pubblico dei compratori, ma non a
torto si è detto che una delle ragioni per cui il rendimento della im-
posta si è mantenuto cosi inferiore alla previsione, è forse appunto
quella che i commercianti mal volentieri si prestano a questo com-
pito, ed hanno inoltre un interesse diretto e immediato — anziché
solo quello indiretto di favorire il compratore, come da noi — nel
sottrarsi al pagamento della tassa.
Tale è nelle sue grandi linee generali l'ordinamento della im-
posta sulla cifra d'affari, quale esiste in Francia, e che differisce pro-
fondamente dal sistema adottato dal legislatore belga nella legge 28
agosto 1921 che crea nuove risorse fiscali (1), La tassa istituita nel
Belgio con tale l^ge, più che una imposta sulla cifra d'affari, è una
(1) Moniteur Belge, 30 settembre 1921, n. 8442.
E SULLA CIFRA D' AFFARI ALL'ESTERO ED IN ITALIA 187
vera e propria tassa sulle vendite, poiché essa colpisce colla aliquota
dell'I per cento sull'importo del prezzo « ogni vendita o scambio di
merci, ogni trasmissione tra viventi, a titolo oneroso, di beni mobili
per loro natura » .
È notevole però che sono esenti dalla tassa, oltreché le vendite
di derrate alimentari, e quelle di prezzo inferiore a 30 franchi o
anche di 150 se riguardano prodotti delle masserie, delle coltiva-
zioni, dell'allevamento e del commercio del carbon fossile, anche le
vendite « qualunque ne sia l'importo, fatte dai bottegai, dai venditori
al minuto direttamente ai privati per uso loro personale e per uso
famigliare » (art. 49, n. li). Questa restrizione limita evidentemente
la portata della imposizione sàie sole vendite fra commercianti, poi-
ché quelle fatte ai consumatori rientrano nelle esenzioni di cui al
nimnero 11.
Il sistema, di riscossione è profondamente diverso da quello fran-
cese, in dipendenza diretta della diversa costruzione della tassa. Non
è più il complesso degli affari del contribuente che è colpito, ma ogni
singola vendita, per cui la tassa non è più dovuta dal solo commer-
ciante, venditore, ma invece solidamente dal venditore e dal compra-
tore. Inoltre la tassa non si riscuote già in base alle risultanze com-
plessive dei registri del venditore, ma invece per ogni singolo atto
di vendita e mediante apposizione obbligatoria di marche da bollo
sulla ricevuta del pagamento, il cui rilascio è anch'esso obbligatorio.
I registri non servono che di controllo, e a tale scopo sono prescritti,
cioè « per assicurare la riscossione della tassa» (articolo 33).
L'istituzione così recente di tale tassa non permette di rilevarne
e commentarne i risultati, che però certo devono essere proporzional-
mente inferiori a quelli della imposta sulla cifra di affari in Francia,
data che questa colpisce, mentre quella esenta, le vendite al dettaglio
ai consumatori fatte nelle botteghe.
Tasse analoghe sono state introdotte anche in altri paesi. In Ger-
mania fu dapprima istituita colla legge 26 giugno 1916 una tassa
sulle operazioni commerciali, liquidabile sull'ammontare dei paga-
menti ricevuti da commercianti. Tale tassa colla legge 28 giugno 1918
fu trasformata in tassa sulla cifra d'affari, la cui aliquota fu nel di-
cembre 1919 portata all'I, i/2 per cento, come tariffa generale, ina-
sprita fino al i5 per cento per alcune merci di lusso- Caratteristica di
tale ordinamento, affatto sua particolare, è che vi sono anche sog-
getti gli esercenti le professioni liberali, i quali invece sia in Francia,
che nel Belgio vi sono esenti. La tassa inoltre colpisce non solo le
vendite, ma anche gli affari, le locazioni di appartamenti, la custo-
dia dei valori e oggetti preziosi, ecc. ecc. Anche in Germania, come
in Francia, una parte dei proventi é destinata ai comuni, ed altra ai
bilanci degli stati particolari. Questa tassa nel 1918 diede un gettito
di 150,588,000 marchi, nel 1919 di 686,800,000, nel 1920 di 3,102,000,000.
Attualmente la Germania nel progetto di risanamento della finanza
dell'impero, presentato alla Commissione delle riparazioni, ne eleva
le aliquote al 2 per cento.
Anche in Serbia esiste una imposta supplementare sulle case di
commercio, diretta a colpire il giro degli affari in genere. Essa deter-
mina una previsione di gettito di 400 milioni di dinari.
Nel dicembre 1921 nel Portogallo venne pure istituita una « tassa
188 LE TASSE SULLE VENDITE, SUL LUSSO
sopra il valore delle transazioni » che colpisce tutti coloro che eserci-
tano qualsiasi commercio, professione, arte od affari. Tale lassa col-
pisce colla aliquola del 4 per cento gli affari di vendita di gemme e
di cose di lusso, del 3 per cento quelli degli alberghi e ristoranti di
primo ordine, del 2 per cento quelle degli alberghi e ristoranti di mi-
nore importanza, gli spettacoli pubblici quando vi si rappresentano
produzioni straniere e con artisti stranieri. Inoltre colpisce con tale
aliquota tutte le transazioni sui beni mobili, su oggetti qualsiasi,
sulle forniture allo Stato. Colla aliquota dell'i per cento sono colpiti
tutti gli altri affari, ivi compresi i profìtti bancari. La imjwsta è pa-
gata mensilmente dal venditore. Questa costruzione è evidentemente
ispirata al tipo francese, salvo la diversità delle aliquote.
Progetti di legge in senso analogo sono in corso di elaborazione
in Romania e in Czeco Slovacchia.
In Inghilterra invece l'istituzione di questa tassa fu nettamente
respinta i>er la considerazione che la tassa su^li affari colpisce anche
chi ha perduto, e che inoltre questa tassa danneggerebbe il commer-
cio di mediazione, così fiorente in Inghilterra, aggravando le provvi-
gioni.
La Svizzera preferì a questa tassa una nuova imposta straor-
dinaria di guerra (28 novembre 1920) suppletiva a quella statale
del 1915.
IV.
L'attuale legislazione italiana è in questa materia frammentaria,
inorganica e incompleta. Numerose leggi regolano svariate imposte
che colpiscono singole categorie di vendite ed affari, con diversità di
sistemi di riscossione, e disparità di aliquote, talvolta complesse e
defatiganti. Gli inconvenienti di una tale situazione sono gravi e si
riassumono in un gettito limitato, non avendo l'imposta larga base,
né carattere estensivo, e in complicazioni moleste per l'amministra-
zione e per i contribuenti.
L'ordinamento vigente fu preceduto da una fase di legislazione,
che non ebbe applicazione, ma che deve essere ricordata. Con de-
creto legislativo 24 novembre 1919, n. 2163, venne istituita una tassa
di bollo sulle vendite di oggetti di lusso e comuni fra commercianti
e privati consumatori in ragione del 10 per cento del prezzo per i
primi, quali enumerati in appositi elenchi e del 2 per cento per i se-
condi. Da tale tassa erano solo esenti i prodotti alimentari di prima
necessità, i combustibili, il sapone da bucato, le merci e generi di
uso comune fino al prezzo di lire cinque, ed inoltre le merci soggette
a speciali tasse, come le gemme, profumerie, bottiglie di vino e li-
quori. La tassa era a carico dell'acquirente che doveva pagarla all'atto
dell'acquisto a mani del venditore, che era tenuto a versarla all'uf-
ficio del registro col sistema dell'abbonamento annuale. Il canone di
questo era fissato senz'altro per le vendite e somministrazioni di
lusso nel doppio del reddito netto di categoria B, accertato nell'anno
precedente agli effetti della ricchezza mobile, e nel quinto di tale red-
dito netto per le vendite e somministrazioni di cose di uso comune.
Per coloro che esercitassero promiscuamente la vendita di cose di
E SULLA CIFRA D'AFFARI ALL'ESTERO ED IN ITALIA 183
lusso e comuni, il commercio all'ingrosso e quello al minuto, quello
di cose soggette alla tassa e di cose esenti, il canone doveva deter-
minarsi dall'intendente di finanza sulla base del riparto del reddito
netto fra le diverse branche del commercio esercitato dal contribuente.
Agli agenti fiscali veniva data la più ampia libertà d'ispezione sui
libri del commerciante.
Tale tassa — il cui difetto essenziale era quello del criterio affatto
arbitrario preso a base del canone di abbonamento, senza alcun reale
riferimento alle somme effettivamente pagate a titolo di tassa dai
compratori al venditore — avrebbe dovuto andare in vigore il 1° gen-
naio 1920. Ma col decreto 8 gennaio 1920, n. 3, fu procrastinata al
i" febbraio 1920, e fu stabilito, fra l'altro, che il potere deirintendente
di finanza, per la fissazione del canone, dovesse essere integrato da
una commissione composta di funzionari finanziari e di rappresentanti
dei commercianti. Ma nemmeno con queste modifiche, tale tassa, così
congegnata, doveva entrare in applicazione, perchè poco dopo, e cioè
col decreto-legge 26 febbraio 1920, n. 167, veniva profondamente mo-
dificata e trasformata nell'attuale tassa di lusso e sugli scambi.
La nuova tassa differisce sostanzialmente dalla precedente sotto
vari aspetti, e fra questi, due essenziali : il primo che la tassa vi-
gente, a differenza di quella del decreto 24 novembre 1919, non
colpisce la vendita di cose di uso comune fatta al consumatore, ma
invece solo la vendita di cose di lusso, mentre per le cose di uso co-
mune colpisce unicamente gli scambi fra commercianti; il secondo
che non è piìi ammesso il sistema dell'abbonamento, ma invece la
tassa si esige sulle singole vendite o scambi, mediante l'apposizione
e l'annullamento di marche da bollo.
Sostanzialmente il decreto legge 26 febbraio 1920 stabilisce an-
zitutto la tassa sulla vendita ai consumatori ed acquirenti di cose di
lusso, il cui prezzo non sia inferiore a lire cinque, nella seguente
misura :
vendite da lire 5 a lire 30, lire 0.10 per ogni lira o frazione di lira;
vendite da lire 30 a lire 100, lire 0.50 per ogni 5 lire o frazione di 5 lire;
vendite da lire 100 a lire 1000, lire 1 per ogni 10 lire o frazione di
10 lire;
vendite da lire 1000 a lire 6000, lire 5 per ogni 50 lire o frazione di
60 lire;
superiori a lire 5000, lire 10 per ogni 100 lire o frazione di 100 lire.
Merci di lusso sono considerate Cfuelle enumerate in due tabelle,
di cui una comprende le merci di lusso per se stesse e cioè indipen-
dentemente dal loro prezzo e l'altra quelle che sono soggette alla
tassa solo in quanto il valore supera il minimo indicato. La tassa è
a carico dell'acquirente che deve pagarla all'atto dell'acquisto, col-
pisce anche le merci importate dirette a privati e anche quelle espor-
tate da privati. Per quelle esportate da negozianti o commercianti
la tassa non era dovuta per le spedizioni di valore superiore a lire
mille, limite che ora venne soppresso con recente decreto- La tassa
si riscuole colle marche da bollo doppie apposte a un libretto di scon-
trini a madre e figlia, numerati progressivamente, con obbligo del
commerciante di rilasciare lo scontrino per ogni vendita. Solo per le
190 LE TASSE SULLE VENDITE, SUL LUSSO
vendite di valore superiore a lire 6000 la tassa di bollo si versa al-
l'ufficio del registro mediante banco giro postale, i cui estremi de-
vono indicarsi sullo scontrino. Penalità severissime colpiscono le in-
frazioni fraudolente e disciplinari alla legge.
Tale tassa cominciò ad essere applicata solamente col mese di
marzo 1921, e non appena entrata in riscossione, avrebbe dovuto es-
sere raddoppiata in forza della legge sul prezzo del pane 27 feb-
braio 1921, se l'attuazio'ne di tale raddoppio non fosse stata sospesa
col Regio decreto 26 giugno 1921, n. 963.
Collo stesso decreto-legge 26 febbraio 1920, n. 167, venne inoltre
istituita la tassa sugli scambi in sostituzione di quella sulle vendite
delle cose di uso comune stabilita col precedente decreto 24 novem-
bre 1919. Questa tassa sugli scambi delle cose non di lusso costituisce
per la sua larghissima base negli altri paesi la maggiore entrata di
questa categoria di tributi, malgrado la sua minore aliquota. Dai
dati avanti esposti risulta che in Francia essa contribuisce per oltre
i 4/5 nell'importo complessivo della tassa sulla cifra d'affari. Non
così da noi e ciò per due ragioni : la prima che questa tassa riguarda
e colpisce solo gli scambi e le vendite fra commercianti, e non quelle
da queste ai consumatori, la seconda che l'aliquota ne è fissata solo
nel 0.30 per cento anziché nell'i per cento come in Francia.
A tale tassa del 0.30 per cento, comprensiva di quella comune e
generale di bollo, va soggetto ogni scambio di materia prima, pro-
dotti e merci intervenuto a causa dell'esercizio industriale e commer-
ciale tra industriali, commercianti ed esercenti, non risultante da
scrittura registrata. La tassa è a carico del debitore, si riscuote con
applicazione di marca da bollo, non colpisce le vendite di merci
esportate o importate, salvo che la ditta estera mittente o destinata-
ria abbia una sede nel Regno, applicandosi in altro caso la tassa
normale di bollo in ragione del 0.20 per cento. Sono esenti gli scambi
di prodotti alimentari di prima necessità, di combustibili, saponi da
bucato, generi di monopolio. La responsabilità del pagamento è so-
lidale tra chi acquista la merce e chi la vende.
A lato di queste due tasse principali altre ne esistono nella nostra
l^slazione che colpiscono singole categorie di vendite o di affari.
Così le note e i conti degli alberghi, locande e pensioni e quelle
dei ristoranti, trattorie e caffè sono colpite con due tasse separate e
distinte fra di loro, con aliquote diverse e complicate-
I ristoranti, trattorie e caffè sono distinti in cinque classi, e cioè:
di lusso, di prima, seconda, terza categoria e minori. La tassa col-
pisce diversamente tre quote dell'importo del conto per ciascuna per-
sona: e cioè con una tassa fìssa di lire 0.10 per l'importo del conto
fino a lire 10; con una tassa di lire 1 per la classe di lusso, di lire 0.60
per la prima categoria, di lire 0.40 per la seconda, di lire 0.30 per la
terza, per una seconda quota dell'importo del conto fino a lire 20
per ciascuna persona per le prime due classi e fino a lire 15 per le
altre due; e finalmente con una tassa di lire 0.50 per ogni cinque lire
la quota dell'ammontare del conto eccedente le lire 20 per le prime
due classi, le lire 15 per le altre due. Per gli esercizi di entità infe-
riore la tassa è limitata a quella di bollo di line 0.05, raddoppiata
per i comuni superiori a 25 mila abitanti.
E SULLA aFRA D'AFFARI ALL'ESTERO ED IN rTAUA 191
La complicazione di tale tariffa determinò un decreto minista-
riale 16 febbraio 1921, num. 244, col quale si stabilì che la tassa debba
applicarsi sempre nella misura stabilita sino a lire 20 per le prime
due classi, o a lire 15 per le due successive, se anche il conto ecceda
le lire 20 o le lire 15. Successivamente la tassa fu ancora ridotta.
Per gli alberghi la tassa è stabilita in una misura più semplice,
e cioè per quelli di lusso in lire 0.50 per ogni 5 lire o frazione di 5
lire, per quelli di prima categoria in lire 0.30 per ogni 5 lire o fra-
zione di 5 lire, per quelli di seconda categoria in lire 0.20 per ogni 5
lire 0 frcLzione di 5 lire, per gli altri in lire 0.05 fino a lire 5 e lire 0.10
per ogni 100 lire o frazione fino a lire 1000, o in lire 0-20 per ogni
lire 100 oltre le lire 1000. Il diverso regime di tariffa per i conti degli
alberghi e quelli dei ristoranti, mentre non si fonda su alcuna ra-
gione essenziale, porta con sé gravi complicazioni o incertezze, come
nel caso dei grandi alberghi cha hanno un servizio separato di risto-
rante alla carta, e come in quello di consumazioni di bottiglie di
vino soggette a speciale tassa di lusso perchè di prezzo superiore a
lire 8; complicazione o incertezze aggravate ancora dal fatto ohe a
questa tassa già complessa altre se ne sovrappongono, e cioè le addi-
zionali per mutilati, quella turistica e la tassa di soggiorno.
Un'altra tassa speciale colpisce la vendita delle gemme e dei gio-
ielli, regolata dal Testo unico 6 gennaio 1918, n. 135, modificato col-
l'articolo 11 del Regio decreto 26 febbraio 1920, n. 167. La tassa è del
10 per cento sul prezzo degli oggetti di argento, di prezzo superiore
a lire 25, ed è del 15 per cento sul prezzo degli oggetti d'oro, e sulle
gemme. La tassa è pagata dal compratore, e del pagamento deve ri-
sultare sia dalla fattura, il cui rilascio è obbligatorio, che dai libri
del commerciante. Anche questa ta'^a avrebbe dovuto essere raddop-
piata in applicazione della legge sul prezzo del pane, ma la contra-
zione che essa ha dimostrato nel suo rendimento, e la facilità delle
frodi, eccitate dalla elevatezza delle aliquote, hanno consigliato di
sospendere tale misura.
/ profumi sono pure soggetti ad una tassa speciale, riscossa me-
diante bolli apposti agli oggetti stessi, e che attualmente dopo varie
vicende e modifiche e rimaneggiamenti è stabilita nel 10 per cento
fino al prezzo di lire 5, nel 20 per cento da oltre lire 5 fino al prezzo
di lire 100, nel 30 per cento per i prezzi superiori (Regio decreto 21
ottobre 1921, n. 1526).
Le specialità medicinali conservano il trattamento fiscale del 10
per cento, che avevano i profumi, prima del detto inasprimento.
/ vini, li{uori e acque minerali in bottiglie pure essi sono assog-
gettati ad una tassa di vendita regolata dai decreti-legge 24 novem-
bre 1918, n. 2086, 23 febbraio 1919, n. 255, 22 giugno 1919, n. 1142, e
dal Regio decreto 24 novembre 1919, n. 2177. Anche di questa tassa
fu stabilito il raddoppio con la legge sul prezzo del pane 22 feb-
braio 1921, raddoppio che fu sospeso col Regio decreto 26 giugno 1921,
n. 953, finché col Regio decreto 21 agosto 1921, n. 1260, venne stabi-
lita la attuale tariffa che colpisce la vendita in ragione del 10 per
cento del prezzo della bottiglia- Dalla tassa sulle acque minerali,
sono esenti quelle che si usano solo dietro prescrizione medica e in
dose definita : e così le saline purgative, le sulfuree, le bromoiodate,
192
LE TASSE SULLE VENDITE, SUL LUSSO
le arsenicali. Sono del pari esenti le acque potabili messe in com-
mercio, le gazzose soggette ad una tassa propria, e le acque di seltz.
Un altro tributo, che, pure essendo teoricamente stabilito sulla
produzione, si riscuote però sulla vendita da parte del fabbricante,
e col sistema delle marche da bollo, è quello che colpisce i tessuti di
lusso, i merletti e i guanti, in ragione del 10 per cento del prezzo di
fattura. Questa tassa, stabilita col decreto luogotenenziale 24 novem-
bre 1919, n, 2165 (allegato A), fu modificata con Regio decreto 8 gen-
naio 1920, n. 8, e andò in riscossione il 1° febbraio 1920.
V.
Riassunta così la legislazione nostra in materia, occorre breve-
mente esaminare quale sia stata la portata finanziaria di tali tributi,
in relazione sia alle previsioni fatte, sia a quelle che possono farsi
per l'avvenire, ove non si addivenga a un razionale, organico assetto
dei tributi stessi, allo scopo di estenderne la base, di semplificarne
la riscossione e di reprimerne le frodi.
La tassa sul lusso e sugli scambi nella quale rientrano anche le
riscossioni delle tasse sui conti degli alberghi e ristoranti, esclusi
quelli minori, andata in riscossione nel marzo 1921, ha dato i se-
guenti introiti :
Febbraio (1) 1921.
Marzo „ .
Aprile ri
Maggio , .
Giugno „ .
Luglio „ .
691 ,050
23,541,727
I7,120,2r>8
13,l92,8rt4
n,'>64,340
11,128,409
Agosto
Settembre
Ott.)ì)re
Novembre
Dicembre
Gennaio
1921.
1922
14,332,521
17,572.K74
22,698.206
IM, 149,968
2:^,274,523
13,501,226
In complesso quindi nei suoi primi undici mesi tale tassa ha
fruttato lire 186,640,523 e nel primo semestre dell'esercizio 1921-22
lire 107,170,105, di fronte ad una previsione per l'intiero esercizio di
350 milioni.
La tassa sui gioielli e pietre preziose ha date le riscossioni se-
guenti :
Esercizio 1917-18 . . L. 4,3ȓ8 430 Esercizio 1920-21 . L. 24.097/(21
1918 19 . . 7,»>tì2,728 1» semestre 1921-22 . » 8,029,i;45
» 1919-20. . . 17,887,200 Qonnaio 1922 . » 1,828,304
In complesso nei primi 7 mesi dell'esercizio 1921-22 furono ri-
scossi per la tassa sui gioielli lire 9,857,949 con una diminuzione di
lire 5,215,268 in confronto ai corrispondenti 7 mesi dell'esercizio
1920-21. La previsione per Tesercizio 1921-22 fu stabilita in 35,000,000
di lire.
La tassa sulle profumerie e specialità medicinali ha dato la se-
guente riscossione:
Esercizio 1917-18 . L. 17,649.315 Es^roixio 1920-21 . • 43,016,848
1918 19 . . 22 14^,510 1» semestre 1921-22 . . 21,44R,^80
1919-20 . . 39,237,522 Gennaio 1922 . . 4,022.217
(1) Per vendita anticipata di marche.
E SULLA CIFRA D'AFFARI ALL'ESTERO ED IN ITALÌA 193
In complesso nei primi sette mesi dell'esercizio 1921-22 furono
riscosse lire 25,470,797 con una diminuzione di lire 2,068,055 in con-
fronto dei corrispondenti 7 mesi dell'esercizio 1920-21. La previsione
per l'esercizio 1921-22 era stata fatta in lire 50,000,000.
La tassa siti conti di trattorie, osterie e caffè che riguarda solo
gli esercizi di minore importanza, i cui conti sono soggetti a un bollo
fìsso di cent. 0.05, raddoppiato per i comuni di popolazione superiore
ai 25,000 abitanti, ha dato i seguenti gettiti:
rcizio
1918-19.
. L. 3,808,039
1° semestre
1921 .
. L. 2,514,390
>
1919-20.
. » 4,619,801
Gennaio
1922 .
. > 571,661
*
1920-21,
. » 5,38tì,974
In complesso nei primi sette mesi dell'esercizio corrente sono
state riscosse lire 3,186,051 con una diminuzione di proventi in con-
fronto al corrispondente periodo dell'esercizio scorso di lire 173,016.
La previsione per l'esercizio corrente fu stabilita in lire 10,000,000.
La tassa di bollo sui vini, liquori, acque minerali in bottiglia ha
dato i seguenti risultati :
Esercizio 1919-20 . L. 14,220,655 1» semestre 1922 . . L. 11,920,647
1920-21 . » 21,537,183 Gennaio 1922 . . . 2,947,364
In comiplesso nei primi sette mesi dell'esercizio corrente sono
state riscosse lire 14,868,011 con un aumento nelle riscossioni del
corrispondente periodo dell'esercizio precedente di lire 698,551. La
previsione per il 1921-22 era stabilita in lire 35,000,000-
Finalmente la tassa di fabbricazione sui guctfiti e tessuti di lusso
ha dato nell'
esercìzio 1919-20 (4 mesi) L. 28,145,830 1° semestre 1921-22 . L. 22,037,910
1920-21 . . » 71,664,782 gennaio 1922 . » 3,953,558
In complesso nei primi sette mesi dell'esercizio corrente questa
tassa ha dato un gettito di lire 25,581,345 con una diminuzione di
ben lire 18,773,658 sul corrispondente periodo dell^esercizio prece-
dente. La previsione per l'esercizio corrente fu stabilita in 100 milioni.
Da tali dati già risulta che tutte queste tasse palesano una note-
vole contrazione nel loro rendimento, salvo la tassa sulle bottiglie,
che ne va esente sia per la natura stessa di questo consumo, più re-
sistente alla crisi economica ed alla elevatezza delle aliquote, sia per
il recente rimaneggiamento della sua tariffa.
La deficienza delle riscossioni è anche più grave e impressionante
in confronto alle previsioni del corrente esercizio le quali erano state
fatte in relazione alle riscossioni degli esercizi precedenti, ed a una
supposizione di progressivo incremsento delle riscossioni stesse. La
deficienza sulle previsioni si rileva nelle risultanze del 1° semestre
dell'esercizio corrente, ed essa risulta chiaramente dal seguente pro-
spetto :
13 Voi. OCXVn, ««rie VI — 16 mano 1922.
ìì
194 LE TASSE SULLE VENDITE, SUL LUSSO
PreTiaioni Riscoaslone
semestre 1931-22 effettiva
1. Tassa di lusso e scambi 175,000,000 108,170,105
2. Tassa sui gioielli 17,500,000 8,029,W5
3. Tassa sulle profumerie e specialità medicinali 25,000,000 21,i48,580
4. Tassa sui conti di trattorie 5,000,000 2,614,890
6. Tassa sulle bottiglie di vini e liquori . . . 17,500,000 11,920,647
6. Tassa sui guanti e tessuti di lusso. . . . 50,000,000 22.087,910
Totale . . . 290,000,000 173,121,277
La deficienza sulle previsioni nel semestre è perciò di 116,787,723
lire ed essa si accentua ancora ove si abbia riguardo alle riscos-
sioni del niese di gennaio. Di fronte al sesto della previsione seme-
strale, pari a lire 48,333,000, le riscossioni furono le seguenti :
Tassa lusso . . . . L. 13,501,226 Conti trattorie . . . L. 571,661
Gioielli » 1,828,304 Bottiglie » 2,947,364
Profumerie .... » 4,022,217 Quanti e tessuti lusso . » 3,953,558
ossia complessivamente L. 26,924,330, con una deficienza perciò sulle
previsioni di lire 21,509,000, che se si mantenesse tale quale nei pros-
simi cinque mesi — arrestandosi cioè la tendenza alla diminuzione
— rappresenterebbe per il secondo semestre dell'esercizio una defi-
cienza in confronto alle previsioni di line 129,054,000. Con che la de-
ficienza sulle previsioni per l'intero esercizio sarebbe di circa 246 mi-
lioni sui 580 previsti.
VI.
Dai dati sovra riassunti risulta quanto esiguo sia nel nostro paese
il contributo che questa categoria di imposte dà alle esigenze finan-
ziarie dello Stato, e come questo contributo tenda anche a decrescere.
Di ciò una causa irisiedé indubbiamente nella crisi economica
che contrae e riduoe i consumi di lusso: ma non è certo questa la
causa maggiore.
La ragione principale della constatata esiguità di tali riscossioni
deriva invece principalmente dall'ordinamento vigente di tali tri-
buti, inorganico e incompleto, poiché mentre la tassa scambi non
incide su quella larga base d'imposizione, che, pure con modeste ali-
quote, assicurerebbe cospicui gettiti; d'altra parte i tributi sui con-
sumi di lusso hanno un assetto frammenterio, che presenta inutili e
moleste complicazioni, ed ingiustificate diversità di sistemi di ri-
scossione, di guisa da ingenerare stanchezza, da determinare resi-
stenze, da dare pretesto a legittime ed illegittime rimostranze di con-
tribuenti.
Le ri.'iltanze sovra esposte dimostrano pure che ove la propor-
zione che esiste in Francia fra le somme di tassa riscosse per le ven-
dite di cose di uso comune e quelle riscosse per vendite relative ai
consumi di lusso potesse pure avverarsi da noi, lai^hi gettiti si rea-
lizzerebbero. Infatti le tasse sulle vendite di lusso che rappresen-
tano in Francia una parte minima sul complesso delle riscossioni,
E SULLA aFRA D'AFFARI ALL'ESTERO ED IN ITALIA 195
ne costituiscc^no invece da noi, comprendendovisi beninteso quelle
sui gioielli, profumi, bottiglie, la principale parte. Infatti la tassa
sugli scambi, sia per la tenuità della aliquota, sia sopratutto per la
sua non solida costruzione legislativa e per la mancanza di suflBcienti
difese e controlli, dà un gettito esiguo.
Ora l'esame della situazione di bilancio, l'altezza a cui sono
giunti i tributi esistenti, la deficienza di altra materia imponibile, la
potenzialità di questo tributo, se riformato e riordinato, profittando
anche dell'esperienza fattasi altrove, convincono che da esso sola-
mente possono ancora trarsi nuove cospicue risorse, tali da potere
affrettare quell'equilibrio e quel pareggio, a cui la nostra finanza si
avvia con tanti sforzi, ma che indubbiamente diverranno anche più
faticosi nel colmare le ultime deficienze, quando cioè si saranno
fatte le possibili economie, e le entrate avranno raggiunto il massimo
limite di sforzo.
Non vi ha dubbio che anche da noi un'imposta sulla cifra di
affari, riordinata e organicamente costruita, senza vessazioni, ma
con tutte le difese, può dare un gettito non minore di un miliardo,
somma che costituisce appena la metà di quella che è la affettiva ri-
scossione attuale in Francia malgrado tutte le delusioni avute in con-
fronto a previsioni molto superiori,
È vero anche che una imposizione di cpiesto genere che colpisca
anche i trapassi delle cose di uso conrmne, pure escludendo i generi
alimentari di prima necessità, potrà costituire un coefficiente degli
alti prezzi : ma mentre dall'una parte le imposte dirette non presen-
tano margine di ulteriori inasprimenti — specialmente con la pros-
sima attuazione della riforma generale delle imposte sui redditi, che
ad alte aliquote accompagna la eliminazione di ingiuste esenzioni di
intere categorie di contribuenti — , d'altro lato ogni imposta più o
meno direttamente si ripercuote sul costo della vita. Questo del resto
ne resterà influenzato in misura minima e tanto più insensibile, in
quanto col ricostituirsi dei tessuti economici lacerati dalla guerra,
coll'incremento della produzione, col miglioramento dei cambi, colla
ripresa della solidarietà economica intemazionale, anche il costo
della vita dovrà pure man mano attenuarsi, riprendendo il corso di
quella parabola discendente, il cui inizio già si era delineato e che
ebbe poi a subire un arresto, che si deve ritenere transitorio.
L'attuale miglioramento dei cambi, ove abbia a persistere ed a
proseguire, come fanno sperare alcune ragioni — e principalmente
il diminuito fabbisogno di valute estere per importazione di generi
alimentari, e specialmente di grano e zucchero di cui il paese è prov-
visto fino al prossimo raccolto, o quasi — non potrà non ripercuotersi
favorevolmente a non lontana scadenza sui prezzi. Già i cereali hanno
iniziato il periodo del ribasso, colla riduzione del prezzo di cessione
del grano statale, in relazione alle condizioni del mercato e del cam-
bio, da L 128 a L. 115.
VII.
Con questi obbiettivi, di incremento del cespite tributario, e di
sistemazione degli attuali sistemi di riscossione, lo scrivente, come
ministro delle Finanze, ha elaborato e presentato alla Camera, alla
196 LE TASSE SULLE VENDITE, SUL LUSSO
seduta del 16 febbraio, un disino di legge, che riprendendo in esairip
tutta questa materia tributaria, la regola sistematicamente, con tra-
sformazioni sostanziali e innovazioni radicali.
Una prima parte di tale disegno di legge sopprime l'attuale tassa
sugli scambi tra commercianti, e vi sostituisce una tassa sulla cifra
d'affari, costruita sul tipo di quella francese, e che differisce sostan-
zialmente dalla precedente tassa sugli scambi, sotto tre punti di vista
essenziali :
a) che l'aliquota è elevata dal 0.30 all'uno per cento, aliquota
peraltro non eccessiva, né superiore a quella praticata negli altri
paesi. Tale aliquota è comprensiva anche della addizionale per mu-
tilati, il che implica una notevole semplificazione;
6) ohe la nuova tassa non colpisce solo le vendite e gli scambi
dei commercianti fra di loro ma anche quelle dal commerciante al
consumatore, salvo che per i generi alimentari di più largo consumo,
combustibili, sapone da bucato, ecc., e salve le merci di lusso le quali
sono colpite dalla tassa maggiore loro particolare regolata dalla se-
conda parte del disegno di legge;
e) che la tassa non colpisce solo gli affari consistenti nelle ven-
dite, ma anche tutti gli affari compiuti da quanti compiono atti di
comjnercio per sé o per altri, e così anche quelli dei mediatori, inter-
mediari, locatori di cose mobili, banchieri, imprenditori di ser-
vizi, ecc. Bene inteso che per le banche la cifra di affari non è data
dalla somima capitale del loro movimento, e delle operazioni coni
piute, il che sarebbe eccessivo, come neppure è data dalla sola diffe
renza fra i tassi corrisposti ai depositanti e correntisti, e quelli rea-
lizzati nei reinvestimenti, differenza che rappresenta non la cifra di
affari, ma il solo profìtto lordo. Essa è data invece dall'ammontare
degli interessi, scamibi, aggi realizzati, così come per i venditori è
data dall'ammontare dei prezzi riscossi nelle vendite.
Non è chi non veda che con tale ordinamento la tassa vorrà ve-
ramentt^ ad assumere una larghissima, base, dalla (|uale solo può ri-
promettersi quella cospicua cifra di riscossione clip il bilancio ne at-
tende.
Anche per quanto riflette il sistema di riscossici k^ m modificazione
è comtpleta, perchè questa tassa non si riscuoterebbe più sul singolo
atto di vendita, colle marche da bollo, il che sarebbe eccezionalmente
N-essatorio per il compratore, una volta che la tassa è estesa anche alla
vendita al dettaglio al consumatore, ivi conupresa la vendita delle
cose di uso comune. Invece la tassa è dovuta dal venditore in base
alla cifra complessiva, risultante dai registri che egli è obbligato a
tenere, degli affari stessi, e alle denunzie periodiche che deve fare
della loro entità.
Queste denuncie secondo la legge francese devono farai ogni
mese, ma ciò parve una eccessiva molestia, ragion per cui tale ob-
bligo venne invece nel nostro progetto reso trimestrale, salvo per le
banche a regolarlo con norme e termini speciali, adatti alle partico
lari esigenze di tali contribuenti, delle quali potrà pure tenersi conto,
al fine di regolare in modo a loro adatto, la materia delle registra-
zioni degli affari. Anche il pagamento della tassa verrà fatto a tri-
mestri all'ufficio del registro.
E SULLA CIFRA D'AFFARI ALL'ESTERO ED UN ITALIA 197
Queste le caratteristiche principali di tale tassa, i cui partico-
lari dettagli, risultanti dal testo del disegno di legge, non è qui il
caso di illustrare.
Basti accennare che le esenzioni oltreché le matBrie alimentari e
di prima necessità per la vita (combustibili, saponi, ecc.), compren-
dono anche il gas e la elettricità, nella considerazione che essi, se
venduti per forza motrice, sono un elemento della produzione delle
cose la cui vendita sarà poi soggetta alla tassa, e se venduti per illu-
mina zi<me sono già sc^getti a speciale tassazione sul consumo. Be-
ninteso che su tali \endite esentate dalla tassa sulla cifra d'affari, si
applicherà la tassa di bollo normale. Sono altresì esenti da tale tassa
gli affari relativi ai generi di monopolio, le imprese di trasporto a
tariffa controllata, gli affari relativi ad assicurazioni, quelli riguar-
danti spettacoli pubblici, alberghi, ristoranti e trattorie, questi ul-
timi perchè regolati separatamente.
Sono soggette alla tassa le merci importate dall'esteiro, a chiunque
siano dirette, e così anche al privato consumatore, non potendo evi-
dentemente in tal caso perseguirsi per il pagamento della tassa il
venditore straniero. Sono però esenti le reimportazioni di merci non
vendute. Sono esenti da tassa le merci esportate all'estero da n^o-
zianti. Inoltre, per favorire maggionnente tale esportazione, si è anche
disposta la riduzione della tassa di bollo normale sulle note, conti,
fatture relative a materie, prodotti, merci da esportarsi.
La tassa è abbuonata totalmente o parzialmente in caso di an-
nullamento delle vendite, del rifiuto di accettazione, di ribasso del
prezzo per diversità della merce consegnata da quella contrattata,
per restituzione di imballaggi. I libri da tenersi dal coninerciante,
sono ridotti al minimo assolutamente indispensabile per l'esistenza
stessa della tassa, e cioè ad un rostro di controllo nel quale devono
registrars' giorno per giorno le singole operazioni di vendita o gli
affari, e i loro estremi. Per le operazioni di valore inferiore a lire
cento basta una scritturazione complessiva in blocco a fine giornata.
La seconda parte della legge regola la tassa sulle vendite ai con-
sumatori delle cose di lusso, la cui aliquota viene stabilita nel 5 %.
Tale attenuazione della attuale aliquota del 10% corrispcmde al con-
cetto ispiratore della riforma, che è quello di sostituire a tassa a
base ristretta, con aliquote elevate, tasse a base larga, con aliqfuota
modesta. Per le ragioni sovTaesposte, e per la stessa esperienza fatta
dalle attuali aliquote, si ritiene che il rendimento di tale tassa, non
verrà a diminuire, per il compenso derivante dal diminuito incita-
mento alla frode. Un esempio basterà a dimostrarlo. Golia attuale
legislazione le calzature sono soggette alla tassa di vendita del 10%
solo se il suo prezzo supera, lire 150. Se il prezzo è inferiore a tale
cifra non vi ha tassa. Gol nuovo sistema tutte le calzature, qualunque
ne sia il prezzo, pagheranno una tassa di vendita in ragione dell'I %,
che sarà elevata al 5 %, se il prezzo supererà le L. 150. È ben evidente
che la riscossione sarà maggiore, essendo moltiplicata la materia
imponibile, e diminuito l'incentivo di fraudolenti simulazioni di
prezzo.
L'aliquota del 10 %, che è ogg^i quella generale per le vendite di
lusso, si applicherà invece solo più per le vendite di vini e liquori in
bottiglia, di gemme, gioielli e cose preziose e di profumerie, venendo
198 LE TASSE SULLE VENDITE, SUL LUSSO
COSÌ ad essere unificate e semplificate tutte le relative tasse e ricon-
dotto ad identità di aliquota e di sistemi di riscossione. Con ciò viene
ad app)ortarsi in qualcl|e caso una diminuzione su quella che è la
misura attuale della tassa, — e così per i gioielli e per le profumerie
— ma d'altra parte l'eccessiva elevatezza delle aliquote, ohe è il mag-
g-iore ostacolo al rendimento della tassa, e la convenienza della uni-
ficazione, consigliano tale provvedimento. Da tale maggiore aliquota
vanno però esenti le acque minerali e le specialità medicinali, che
saranno colpite con quella nonnaie per le cose di lusso del 5%.
La riscossione della tassa sulle vendite delle cose di lusso viene
regolata in modo diverso da quella della tassa sulla cifra d'affari per
la sostanziale differenza della tassa stessa e per la maggiore eleva-
tezza della aliquota. Men/tre la tassa sulla cifra d'affari, pur rica-
dendo in definitiva sul consumatore, colpisce più direttamente il
commercianite, quella sulle vendite di lusso, come tributo suntuario e
rivolto a colpire direttamente il consumatore, da questo deve essere
pagato all'atto della singola vendita. D'altra parte colla solidarietà
dell'obbligo del pagamento nell'acquirente e nel venditore e col du-
plice controllo dei libri del venditore e dello scontrino da rilasciarsi
al compratore, si possono fronteggiare meglio le frodi. Per cui per la
tassa di vendita sulle cose di lusso rimane fermo il principio che la
tassa è a carico del com/pratore che deve pagarla a mani del vendi-
tore, il quale è però responsabile solidalmente del suo pagamento.
Eiasa continuerà ad applicarsi col sistema delle marche da bollo
applicate allo scontrino, o agli oggetti, a seconda dei casi, salvo il
caso di vendita di oggetti di lusso d'importo superiore a lire 6000,
nel qual caso rimane fermo il pagamento all'ufficio del registro. È
data però facoltà al Ministro delle finanze di modificare i sistemi di
riscossione non esclusa la facoltà di consentire abbonamento, colle
dovute garanzie, il ohe permetterà quelle modificazioni e quelle age-
volazioni, che la praticai consiglierà ad evitare ogni inutile vessazione.
Anche per tale tassa vale la norma ohe vi sono soggetti gli og-
getti ilmportati <^lai consumatori, semprechè non siano oggetti personali
d'uso. Gli oggetti importati dai commercianti per uso del loro com-
mercio sono invece soggetti alla tassa dell'i % sulla cifra di affari, se
anche di lusso. Gli oggetti esportati dai commercianti sono esenti da
ogni tassazione.
La tassa di lusso sugli alberghi e ristoranti viene pure radical-
mente modificata e semplificata. Infatti in sostituzione delle attuali
svariate tasse viene stabilita una percentuale unica e complessiva su
tutte le somministrazioni di qualsiasi genero, e cioè sull'importo
complessivo del conto, esclusi naturalmente i rimborsi di spesa. Tale
aliquota è identica j>er gli alberghi e per i ristoranti, ossia secondo
l'importanza degli stabilimenti va dal 2% per quelli di minore im-
portanza, al 5% per quelli di prim'ordine, al 10% per quelli di lusso.
In tale unica percentuale sono comprese le addizionali e la tassa tu-
ristica. La semi>lificazione è quindi radicale sotto ogni aspetto, to-
gliendo ragione a lagnanze e proteste oggi forse non completamente
infondate.
Sul nuovo ordinamento di queste tasse sono ancora da fare due
rilievi :
E SULLA CIFRA D'AFFARI ALL'ESTERO ED IN ITALIA 199
il primo che si sono attenuate le attuali penalità, ritenendosi
che maglio convenga alla serietà della legge il contenere le multe in
limiti ragionevoli che non l'elevarle a culmini così elevati da renderle
praticamente inesigibili;
in secondo luogo si è stabilito che un deoimo dei proventi delle
due tasse sulla cifra d'affari e sulle vendite di lusso vada, a vantaggio
dei Comuni, ripartito fra di loro in ragione di popolcizione. Si con-
corre così con un noa indifferente contributo a risolvere le diflacoltà
in cui si dibatte la finanza locale con un mezzo ohe sembra doversi
preferire a quello richiesto da vari Ck>muni di estendere il dazio con-
sumo anche alle materie assoggettate invece alla tassazione erariale,
e che non potrebbero sottrarvisi senza privare lo Stato di una cospicua
fonte di proventi. Non è stabilita a favore dei Comimi alcuna percen-
tuale sulla tassa relativa agli alberghi, esistendo già a loro profìtto
la tassa di soggiorno.
Le vicende parlamentari non hanno consentito allo scrivente di
portare alla discussione della Camera tale disegno di legge, che dando
un ordinamento organico a tutta questa categoria di tributi, oggi
frammentariamente regolati, e togliendo ragione o pretesto ad op-
posizioni e agitazioni di contribuenti, ed allargando la base della
imposizione, può assicurare nuove cospicue entrate al bilancio e con-
correre in notevole misura ad avviare la nostra finanza al suo ne-
cessario risanamento, che rappresenterà il compenso più sicuro e ri-
muneratore al sacrifìcio che ancora si richiede ai contribuenti.
Ove tale progetto non venga mantenuto, rimarrà come un mo-
desto contributo di studio al grande problema della ricostruzione
della finanza nazionale.
Marcello Soleri.
vt
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To. — Fireni. , Le Mounier. L. 5.50.
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ne e note di L. de Anna. — Firen-
ze, Le Mounier. L. 6.50.
Molière. L'avare, con introduzio-
ne e note di L. de Anna. — Firen-
ze, Le Mounier. L. 5.50.
G. Milanesi. Eva mari va. — Ro-
ma, Mondadori. L. 8.
V. Bondois. Settantacinque milio-
ni e altre cose. — Firenze, « La Vo-
ce », 1922. L. 7.50.
C. Alvi. In vita perfetta godere.
Romanzo. — Todi, « Atanòr ». L. 8.
N. Vaccalluzzo. L'esule. — Ca-
tania, Giannotta, 1922.
A. Marsicati. Piccolo romanzo di
una vela. — Milano, «Alpee». L, 7.
G. P. Della Sanguigna. Il natale
di Boma. Mistero. — Firenze, Car-
pigiani e Zipoli, 1922, L. 4.60.
G. P. Della Sanguigna. Le ma-
schere e i guerrieri. Fantasia vene-
ziana. — Firenze, Carpigiani e Zi-
poli, 1922. L. 6.
C. Dadone. (riannetto impara a vi-
vere. Racconto - galateo per la gio-
ventìi. — Torino, Società Editrice
Intemazionale. L. 7.50.
La conquista de le vie aeree nel
mondo. A cura della compagnia di
navigazione aerea. — Roma. L. 4.
H. Ellis. Ia) scopo d*Ua Eugenia.
— Roma, « Ijeonardo da Vinci »>,
1922. L. 2.20.
G. SoiALHUB. Du€ versi Danteschi:
« Pape Sataii, pape Satan aleppe ».
« Bafel mai amech zabi almi ». —
Livorno, Arti Grafiche, 1922. L. 2.50.
R. QuAZZA. La politica europea
nella questione valtellinica. — Vene-
zia, 1921.
O. Folco. Decadenza e perenzione
nei procedimenti ammini.ttrativi con
prefazione del prof. P. Cogliolo. .—
Napoli, Joveno. li. 20.
L. Antonelli Calfus. Il paradiso
delle rose. — Milano. Aliprandi
L. 6.
E(A DE QuBVioz. La città e le mon-
tagne. Traduzione di G. Db Medici.
— Firenze, BattLstelIi. L. 6.
G. Scotti. Marco Marini, orienta-
li.'<ta Bresciano del Cinquecento. Per
nozze Marini-Scotti. — Pavia, Ti-
pografia Artigianelli, 1921.
L. Cappiello. Di un influsso pro-
venzale nel parlare sorrentino. —
P'ontana, 1921. L. 5.
A. Dolce. A piedi nudi. Teatro
sintetico senza veli. — Cropani,
Velletri, 1922. L. 0.76.
V. Sapienza. Della traduzione «
dell'arte di tradurre. — Francavill»
■( Gens nostra ». L. 5.
UQO Mbssiki. Uespanaaìnie
Aom» — Ditt* Arm»ni d< Mario Otwrrtor.
L )
ENRICO CASTELNUOVO
Volati ormai — attraverso una guerra furibonda e una pace con-
vulsa — volati sette anni da quella rig^ida e mesta mattinata d'in-
verno in cui Venezia celebrava, con disegnale solennità di corteo
ma con pari riverenza d'anime, due funerali. Nell'ora medesima le
erano stati tolti un Nestore quasi centenario del nostro Risorgimento,
recante inciso nei malleoli il solco della catena nemica, e un emi-
nente cittadino, osservatore acuto e fine narratore, pubblicista, mae-
stro ajnato e onorato, giunto alla vecchiaia con giovanile calore d'ita-
lianità: Luigi Pastro, Enrico Gastelnuovo (1). Figure profondamente
diverse, eppure tali da poter essere congiunte nel culto della patria,
massime in quei giorni gravi e trepidi in cui i nostri cuori palpita-
vano nell'attesa della suprema risoluzione. Perchè Luigi Pastro era.
un glorioso superstite di quel manii)olo di congiurati, d'eroi, di mar-
tiri, che avevano infuso nell'anima popolare ancora torpida il lievito
sacro della ribellione allo straniero; ed Enrico Gastelnuovo un degno
rappresentante di quella borghesia larga di pensiero, eletta per col-
tura, liberale in politica, liberista in economia, ch#' trovò la sua
guida sapiente ed agile nel Conte di Cavour. Bene dunque la Dante
Alighieri, che accoglie nel nome del poeta profeta tutte le forme
dell'idealità nazionale, portò l'iride del suo vessillo dall'una all'altra
esequie, dalla bara del cospiratore sfuggito per miracolo al capestro
austriaco a quella del cittadino immacolato, dello scrittore e maestro
fervidamente italiano che qui commemoriamo.
Rievocando la ssua immagine, io non adempio solo a un alto
dovere; obbedisco a un intimo sentimento personale.
La pagina più candida d'un antico libro caro ad Enrico Castel-
nuovo, i Ricordi di Marco Aurelio, è quella in cui l'imperatore ri-
pete dagli Dei la grazia di avere avuto tante persone che gli vollero
bene e gli fecero del bene. Oggi, questa religione della gratitudine
ha poco seguito, non dirò tra i Sovrani filosofi che sono scomparsi,
ma tra la comune degli uomini, i quali corrono troppo frettolosa-
mente per concedersi la sosta gentile dei raccoglimenti e delle me-
morie. Ma io che non appartengo alla schiera dei frettolosi, voglio
rimanere fedele alla vecchia religione. E ricordo che quando salii
(1) Enrico Gastelnuovo, il geniale novellista e romanziere, così caro al pub-
blico italiano, fu per molti anni collaboratore prezioso della Nuova Antologia.
Ma fu anche insegnante valentissimo e Direttore deUa R. Scuola Superiore di
Commercio di Venezia. Siamo pertanto lieti di pubblicare la Commemorazione
che dell'eminente scrittore e maestro tenne nella Scuola stessa, domenica 22
gennaio, il senatore prof. Antonio Fradeletto.
14 Voi. OCX VII, aeri© VI — 1* aprile 1922.
202 ENRICO CASTELNUOVO
per la prima volta questa cattedra, giovane ignoto, incerto dell'av-
venire, Enrico Castelnuovo mi venne incontro e mi rivolse alcune
di quelle parole buone che sono per l'anima giovanile un viatico e
alle quali seguì un'affettuosa amicizia, durata ininterrottamente Ano
alla sua morte. Lo ricordo dopo quareintun anni di vicende care
ed amare e ripeto ancora come in quel giorno: « grazie, maesitrol ».
•
• •
Ho la fortuna di poter raccogliere le notizie della sua vita dalle
memorie ch'egli scrisse fra i 72 e i 73 anni, sotto il titolo Divaga-
zioni senili, memorie non destinate alla pubblicità, ma che la fiducia
del figlio suo mi permise di consoiltare.
Era nato a Firenze l'S febbraio del 1839. Una grande sventura
s'abbattè sulla sua infanzia. Il pvadre abbandonò la famiglia e l'Italia,
quand'egli aveva appena diciotto mesi, andò a riparare in Egitto, né
più ricomparve. Sua madre ritornò allora a Venezia e seppe compen-
sare il fanciullo di quel crudele abbandono con duplice virtù di te-
nerezza operosa. Trascorsero alcuni anni difficili; ma grazie ad aiuti
di parenti ed amici, grazie all'economia materna, si potè provvedere
alla sua prima educazione. Aveva nove anni, quando scoppiò la ri-
voluzione del 1848. « Serbo memoria del gran trambusto che ci fu
« nei giorni 18, 21, 22 marzo e del gran giubilo con cui fu salutata
« la partenza degli austriaci e la proclamazione della Repubblica,
« che agli anziani pareva la resurrezione della Serenissima » (tram-
busto, giubilo, illusioni che echeggiano nel romanzo Dal primo piano
alla soffitta, dove la rivoluzione veneziana ci comparisce di tra le
quinte dell'intimità domestica).
Ed eccoci ad uno di quei contrasti fra la spontanea vocazione
e le pratiche necessità della vita che s'incontrano così spesso nelle
biografie degli uomini superiori, durante gli anni giovanili. Finito
il corso elementare, egli avrebbe potuto seguire gli studi classici,
verso i quali si sentiva inclinato; ma dovendo mettersi in grado di
guadagnare e di guadagnar presto, scelse la via degli studi tecnici.
Anche in questi, tuttavia, la vocazione si palesava. « Ero uno dei
primi in lettere italiane e il professore mostrava di tenermi in gran
concetto ». Entrato nelle Scuole Reali (l'attuale Istituto Tecnico), vi si
trovò a disagio e fu sempre stentatamente promosso, per l'invincibile
inettitudine a comprendere la matematica, per la scarsa disjwsizione
alle materie scientifiche in genere, e per l'incapacità d'imparare il
disegno (riuscì soltanto a stilizzare un profilo di micio e di questo
capolavoro, che andava volentieri riproducendo, si compiaceva con
uno di quei tratti d'ingenuità che sono propri dell'ingegno fresco e
sincero). Perpetrò allora, com'egli scrive, i suoi primi « delitti poe-
tici » : una ballata sentimentale e un poemetto in ottava rima d'ar-
gomento classico ed eroico. Gli Orazi e Curiazi, presto interrotto,
perchè lo sgomentò l'ampiezza del tema.
Il bisogno costrinse il poeta esordiente a darsi al commercio.
Sulla fine del '54, a quindici anni e mezzo, entrò nel Banco di suo
zio Della Vida, con un assegno così modesto come umili erano gli
uffici a lui affidati. Questi gradatamente si elevarono, l'assegno au-
mentò, ma la fiamma della passione non s'accese. Coscienzioso per-
ENRICO CASTELNUOVO 203
altro scrupoloso fino all'estremo nell'adempimento di ogni suo do-
vere. Procurava, intanto, di ampliare la sua istruzione, dedicandosi
particolarmente alla letteratura italiana, alle lingue straniere, un po'
anche cdl'economia politica; ma gli nuoceva la scarsa preparazione
fondamentale, né certo lo incorava il sentirsi spesso ripetere : « Amico
« caroy se vuoi diventare un brav'uomo d'affari^ non perdere tempo
a siti libri n. Preconcetto angusto ma allora assai difihiso, contro il
quale doveva cominciare la lotta fra noi, un ventennio dopo, con la
prox-vida fondazione di questa Scuola.
Maturavano ormai le fortune della patria. I giovani della bor-
ghesia colta ardevano di spiriti patriottici; non pochi varcavano la
frontiera, correvano a ingrossare lo stuolo d^li emigrati, s'inscrive-
vano in Piemonte all'Accademia Navale e al Colico Militare. Quando
poi, sul principio del '59, la guerra augurata parve sicura, cominciò,
irruento, l'esodo dei volontari. « Io mi trovai allora in un altro di
« quei momenti critici della vita in cui l'uomo è combattuto fra do-
« veri sacri del pari e sente che a qualunque partito s'appigli, sarà
« travagliato da rimorsi e rimpianti ». Non gli reggeva l'émimo d'ab-
bandonare sua madre, di cui era l'unico sostano e che, senza di lui,
sarebbe stata costretta a vivere di carità. « Leggevo ne' suoi occhi
«una tacita desolata preghiera... Non mi lasciare... e mi pareva si
« svolgessero davanti a me le pagine della sua vita dolorosa... Ma
« il non poter dire oggi, vecchio e presso alla morte, fui anch'io sol-
« dato dell'indipendenza, il non poter dire questo, è per me una
« grave pena » . Oh nobile anima, questa pena che tu confidavi alle
intime carte è la riprova più commovente della tua alta sensibilità
di cittadino, che nemmeno la pietà di figlio valeva ad acquetare!
Nella vita d'allora, di tanto più semplice e raccolta della nostra,
sbocciavano facilmente tra congiunti e amici d'infanzia quelle sim-
patie che poi si traducono in vincoli d'amore. Così nell'autunno
del 1861 il giovine ventiduenne si fidanzò con una sua cugina, Emma
Levi, da lungo tempo diletta. Egli scrive che quel periodo fu tra i
più felici della sua vita. Gioia breve. La sposa morì quattro anni
dopo le nozze, lasciandogli nel cuore e nella casa un vuoto straziante,
consolato col volgere del tempo dai due figliuoli, Guido e Bice: l'uno
dei quali doveva rivelare in sommo grado le disposizioni scientifiche
negate al padre, riuscendo matematico insigne, e l'altra ereditare
dal padre una vena del suo senso artistico, portandola in un campo
frescamente appropriato all'ingegno femminile, nella pittura floreale.
Durante gli ultimi anni della dominazione austriaca nel Veneto,
s'era formato un gruppo di giovani d'alto intelletto e di moderna
coltura, i quali impresero un'efficace propaganda politica ed econo-
mica, con l'intento ideale e pratico di tenere sempre vivo lo spirito
di libertà e d'italianità e di preparare i concittadini, nell'imminenza
preveduta del riscatto, al degno esercizio dei nuovi doveri. Erano
tra essi Antonio Tolomei, Emilio Morpurgo, Alessandro Pascolato,
Alberto Errerà, e primeggiava un uomo destinato ad esercitare nella
vita pubblica italiana un'opera infaticabile di elevazione e di soli-
darietà sociale, Luigi Luzzatti. Enrico Gastelnuovo s'affratellò a quel
gruppo, legandosi al Luzzatti d'intima amicizia, che poi si convertì
in parentela. Liberato il Veneto, egli non tardò ad aggregarsi all'ala
estrema del partito liberale-moderato (la parola estrema aveva in
204 ENRICO CASTELNUOVO
quegli annd e sopra tutto in quel caso un significato ingenuamente
mite che oggi ci fa sorridere). Erano i così detti azzurri, lontani egual-
mente dal conservatorismo rigido e dal radicalismo con origini e
tendenze repubblicane. Il Gastelnuovo scrisse dapprima sparsamente
nei giornali d)i Venezia, di Padova, di Treviso; nel 1869, iniziatasi
la liquidazione della Gasa di Commercio Della Vida, di cui era di-
venuto procuratore, si diede a collaborare alla Stampa, organo ap-
punto degli azzurri, diretto da Alessandro Pascolato, al quale suc-
cedette l'anno appresso. Egli propugnava le idee degli amici con
chiarezza e vigore, senza trascendere mai in contumelie o in volga-
rità; ma si doleva dell'ambiente angusto, pettegolo, irascibile, liti-
gioso, troppo diverso insomma dal suo spirito equilibrato pur. nel-
l'ardore della polemica. Ed una di quelle polemiche lo trascinò a
un duello, dal quale uscì ferito nella mano con indelebile segno.
Egli sorrideva delle così dette «soluzioni cavalleresche», perchè
quando non hanno effetto cruento riescono ridicole, e quando l'hanno,
sono anacronisticamente disumane; ma in quel momento, da quel
posto, di fronte all'ingiusta violenza dell'attacco, stimò dover suo
piegarsi alla consuetudine. E col dovere, fosse gradito o increscioso,
approvato o meno dalla logica pura, egli non transigeva mai.
Il 1870 segna l'esordio della sua produzione geniale e feconda
d'artista. La Nuova Antologia pubblicava // colpo di stato di Cla-
Tina, primo suo rEicconto, affettuoso, ingenuo, con trasparenti allu-
sioni alla malinconica vedovanza dell'autore. Nel '72 La Perseve-
ranza di Milano apriva le sue appendici alla fortunata novella //
Quaderno della zia (suggeritagli forse, lontanamente, dalle Confes-
sioni di un ottuagenario di Ippolito Nievo): gentile e mesta nar-
razione autobiografica, inquadrata nella cornice di grandi avveni-
menti storici, dal crollo della Serenissima a quello delle fortune
napoleoniche. La collaborazione letteraria del Gastelnuovo al grande
giornale milanese durò circa vent'anni, cessando solamente nel 1891
col romanzo Troppo amata. Mentre uscivano i capitoli de 11 Qua-
derno della zia, Enrico Gastelnuovo conobbe Emilio Treves, l'acuto
e accorto editore, il quale, poco appresso, venne riproducendo in
nitidi volumi i romanzi che comparivano ne La Perseveranza e le
novelle inserite nella Nuova Antologia e nella Illustrazione italiana.
Dal Treves egli si allontanò più tardi, ma ritornò a lui con le due
ultime pubblicazioni, perchè — diceva scherzosamente — anche in
fatto di editori (( Von revient toujours à ses prerrUères amours».
Sul cadere del 1872 (ormai il giornale La Stampa era morto
d'inanizione) Francesco Ferrara, il sommo economista, primo Diret-
tore di questa Scuola, invitava il Gastelnuovo ad assumere l'inse-
gnamento delle Istituzioni commerciali: scelta felice, perchè alla pra-
tica della materia, coscienziosa se non appassionata, egli congiun-
geva la facoltà d'una limpida esposizione; eppure non s'indusse ad
accettare che dopo molta incertezza, l'indole sua essendo tale da
troppo diffidare di sé piuttosto che da troppo presumere. Insegnò
per oltre quarant'anni e nel 1905 fu chiamato, con unanime fiducia,
a reggere la nostra Scuola. Gome egli abbia saputo tenere la sua
cattedra e il governo di questo Istituto, dirò più innanzi e saranno
cose vive nella memoria e nella gratitudine nostra. Nel febbraio
ENRICO CASTELNUOVO 205
del 1914 la legge inesorabilmente pareggiatrice dei limiti d'età lo
collocava a riposo. Non se ne dolse, ma sentì profondamente la ma-
linconia degli ozi forzati. Meno d'un anno dopo, il 22 gennaio
del 1915, la fibra robusta cedeva ad una breve acuta malattia e il
nobile spirito ammutoliva per sempre.
•
• •
Il ritratto dell'uomo di pensiero e del cittadino balza dalle pa-
gine da cui ho attinto le sue notizie biografiche ed è perfettamente
conforme all'immagine che hanno potuto farsene anche coloro ai
quali non toccò la ventura di conoscerlo, ap{)ena abbiano posto mente
agli stati di coscienza che traspaiono da' suoi libri d'immaginazione
e ai concetti informatori de' suoi studi sttorici e critici. Prova lumi-
nosa di veracità. In religione : agnostico, convinto che la scienza non
varrà mai da sola a squarciare il gran mistero della vita e della morte
e perciò tollerante, rispettoso d'ogni credenza, massime di quelle che
inducono ad umiltà di cuore. In politica: amico di libertà, fedele
alle instituzioni monarchiche come presidio di consistenza unitaria,
avverso ad ogni connubio con lo spirito confessionale, pronto ad ac-
cogliere le meditate riforme, nemico delle avventate improvvisazioni.
In sociologia: alieno per istinto e per coltura da ogni forma di so-
cialismo, da quello statale e burocratico come da quello sindacale e
rivoluzionario; persuaso che lo Stato deve bensì integrare le defì-
cenze sociali e favorire le nuove energie del cooperativismo, ma che
la soppressione o anche la mortifica2Ìone delle iniziative individuali
rappresenterebbe un funesto impoverimento di forze e di capacità
produttiva. Seguace, insomma, di quelle idee tem{)erate e mediane
che un giorno prevalevano nella vita pubblica, che rimangono an-
cora il patrimonio di piccole minoranze intellettuali, ma che non
possono convenire ai partiti di massa, i quali vivono di formulazioni
sintetiche meglio che d'analisi, di aspirazioni e di passioni meglio
che di ponderata ragione, e, appunto perchè partiti di massa, non
sanno adeguatamente apprezzare le virtù autonome dell'individuo.
Riandando il passato, Enrico Castelnuovo si rendeva lucido
conto del grande rivolgimento di cose e d'anime, di idee e di co-
stumi compiutosi intorno a lui, e paragonando le nuove genera-
zioni alla propria, amava chiamarsi, senza querimonie, non però
senza malinconia, « un superstite » e anche « un postumo » . Ma d'una
cosa si diceva felice e fiero: d'aver potuto assistere, attraverso una
laboriosa vicenda di lotte, di errori, di sventure, di glorie, all'ascen-
sione d'Italia. Nella sua fanciullezza, l'aveva veduta misera, lacera,
contristata da tirannie straniere e domestiche; ora poteva salutarla
libera, raccolta ad unità, debole talvolta ne' suoi governi, sana e ro-
busta nel suo popolo, circondata forse dall'invidia di altre genti,
non più dalla loro commiserazione o dal loro disdegno. Patria! — è
l'ultima parola che suona in quelle pagine. Patria! — fu l'ultimo
battito di quel cuore, alla vigilia della grande guerra di rivendica-
zione.
206 ENWCO CASTELNUOVO
Una memore, commossa attrattiva ha per noi la sua persona
morale.
Quante volte 16 apparenze e le abitudini sono in disaccordo con
l'intima essenza dell'uomol Quante volte dietro un atteggiamento
esteriore che parrebbe annuncio di sincerità e di fierezza si rim-
piatta un'anima pusilla o falsa, e dietro un aspetto remissivo vibra
im'anima battagliera! Vi furono arditi lottatori e demolitori spirituali
che sembravano i più timidi fra gli uomini; ultimo, a memoria della
mia generazione, ilmesto Renan. Così, se il nostro indimenticabile
estinto fosse stato giudicato soltanto dalle abitudini, si sarebbe detto
una tipica figura di piccolo borghese, inappuntabilmente metodico.
Sempre le stesse cose alle stesse ore: la sveglia, lo studio, il lavoro,
i pasti, le passeggiate, le visite, il sonno. Senonchè questa non era
la metodicità vuota e melensa da lui stesso denunciata e derisa; era
semplicemente la veste consuetudinaria de' suoi rapporti con gli altri
uomini e con le esigenze della vita comune e non implicava alcuna
timidità, alcuna pigrizia morale, alcuna rinuncia all'indipendenza
dello spirito.
Lo spirito era spregiudicato, nel senso psicologicamente migliore
della parola: rifuggente, cioè, dagli aforismi dogmatici, dalle con-
venzionalità stereotipate, da quelli ohe io chiamerei clichés intellet-
tuali e sociali. Egli aveva abbracciato il principio dell'universale
relatività : un principio che domina la scienza moderna, ma che può
anche, in qualche punto e per qualche aspetto, accostarsi ad un mo-
nito dell'antica saviezza, quello dell'imiversale vanità.
« Da ogni fonte d'insegnamento può scaturire così il bene come
il male; bene e male sono costantemente intrecciati e inseparabili;
spesso il dolore mette capK) alla letizia e la letizia ha un fondo re-
condito di dolore; spesso l'amore contiene una contraddizione fatale
per cui lascia dietro a sé uno strascico d'odio; spesso coscienza ed
azione si rivelano in antitesi con la dottrina professata e il cristiano
ortodosso e osservante può essere praticamente uno scettico, come lo
scettico per teoria può essere praticamente un cristiano».
Data questa fondamentale concezione, quali sono i più logici at-
teggiamenti del nostro giudizio?... Sono Vindulgenza e Vironia. Ed
ecco i due tratti caratteristici della visione morale di Enrico Castel-
nuovo. L'odio, l'accanimento, gli erano ignoti; compativa le debo-
lezze; gli pareva che la Pietà, la quale non ignora e non mente ma
comprende e i>erdona, fosse superiore alla Verità, che denuncia bru-
talmente le cose come furono, e alla stessa Giustizia, che ne ricerca
e pesa le cagioni. Non gli riusciva peraltro di vincere la propria
antipatia contro le forme aride e grette del carattere, contro la pe-
danteria, contro l'ambizione senza cuore, contro quelle virtù arcigne
che consistono nel soffocare ogni palpito d'umana passione. Questi
i difetti morali a cui si mostrava più avverso nella vita e che più
volentieri pungeva con l'arte.
E quanto il pensiero era agile e libero, altrettanto schietto e leale
il carattere. Ignorava, o disdegnava, le viziature proprie dei lette-
ENRICO C.\STELNUOVO 207
rati, la posa, Va.\iio-réclame, il mutuo incensamento; s'adombrava
I>erfino della lode, specialmente se parevagli poco misurata. Era ri-
belle a qualunque forma di lusinga e d'ipocrisia, anzi, mentre il più
fra g-li uomini inclina a blandire in faccia per ferire alle spalle, egli
seguiva la via opposta. Poteva essere rude con voi; era benevolo, o,
almeno giudice mite, dietro di voi. « Burbero benefico » avremmo
voluto chiamarlo, se l'animo suo e la sua parola non avessero rive-
lato virtù squisite di gentilezza e di affettività lontane dalla psico-
logia sommaria del tipo goldoniano.
• *
Un uomo simile doveva essere uno scrittore irreprensibilmente
sincero.
In teoria, egli si dichiarava eclettico: ricercatore e adoratore della
bellezza, qualunque fosse la sua veste. In pratica, cioè nell'arte nar-
rativa, alla quale s'era istintivamente volto perchè la più arrende-
vole al suo spirito d'osservazione, egli si mantenne sempre un rea-
lista. Ma un realista temperato, il qucde, rifuggendo non solo dalla
rappresentazione ostentata delle brutture ma dalla glaciale imper-
turbabilità, amava ravvivare il suo racconto con una vena d'umo-
rismo, ch'era per lui non una moda letteraria d'accatto, ma la forma
spontanea del connubio fra i due tratti che dissi caratteristici della
sua visione morale : indulgenza e ironia. Vena interamente originale,
dunque?... Ecco: io non posso disconoscere ch'egli abbia risentito
l'influenza del romanzo inglese, come la risentirono altri scrittori
italiani. Lo stesso Giacinto Gallina, così domesticamente nostro, non
ricorda qua e là in Così va il mondo, bimba mia! i Tempi diffi-
cili di Carlo Dickens?... Ma l'umorismo di Castelnuovo ha un fondo
personale e italianamente pacato; non è mai né troppo acre e mor-
dente, né troppo sentimentale; non trascende nella caricatura; non
si compiace di smorfie grottesche per poi irrorarle di lagrime. Imma-
ginate un uomo buono e arguto, che vigili su se stesso e non voglia
né comprimere il ^o cuore né di continuo esibirlo, né rinunciare
alla sua arguzia né abbandonarvisi immoderatamente : ne uscirà un
compromesso tra il senso caustico che punge e il sentimento morale
che compatisce. Tale l'umorismo di Enrico Castelnuovo.
Tre doti, organicamente collegate, spiccano nel novellista e nel
romanziere: schietta sensazione degli ambienti paesani, come pochi
l'ebbero in Italia; acume d'osservazione intomo alle cose e alle anime;
rappresentazione felice di tipi. L'ambiente da lui preferito e più in-
timamente sentito era quello veneziano, con la sua pittoresca sceno-
grafìa e con le abitudini tradizionalmente radicate di casa, di piazza
e di caffé. La sua facoltà d'osservazione si esercitava direttamente
sulla realtà, senza passare attraverso i filtri delle reminiscenze let-
terarie, e se non discendeva fino ai torbidi fondi della natura umana,
ne coglieva con agile sicurezza le manifestazioni normali. Quanto ai
tipi, egli .usava trarli dalle persone con cui era in maggiore consue-
208 ENRICO CASTELNUOVO
tudine (di molti fra essi ci è facile ravvisare gli originali), filandovi
intomo sorriso di celia o lume delicato di poesia.
Folta, varia, viva, genuinamente italiana ed umana la famiglia
► che s'aggira e passa in quella trentina di volumi! Penso che potrei
ripartirla in gruppi, secondo le varie affinità e sfumature morali,
intomo ai due poli opposti deWabiiegazione e déiVegoismo. L'ora
me lo vieta. Ck)nsentitemi soltanto d'accennare alle^fìgure da lui ma-
nifestamente preferite. Sono gli esseri per i quali èi la vita non ebbe
dramma, o il dramma della vita anziché giungere a maturità alla
luce djel sole, rimase latente, ravvolto nell'ombra, mutilato o com-
presso: creature ohe vivono quasi sempre assorte in un compito di
devozione. Non vi ritorna dinanzi, col suo passo svelto e leggero di
solerte massaia che tutto prevede e a tutto provvede, l'Angela Ter-
ralba di Nozze d'oro, vittima per poco della sua instancabile e in-
compresa missione famigliare? Non rivedete la zia Clara de / Mon-
Qalvo, che pensò il giusto e operò il bene, dimentica di sé per gio-
vare agli altri? E salendo dalla vita casalinga a un ordine spiritual-
mente elevato, non vi si affaccia la stanca immagine di Don Giusto.
che datosi alla Chiesa per delusione d'amore e per devozione filiale,
assiste al quotidiano sgretolarsi della propria fede e soffoca nell'in-
timo dell'anima, fino all'ultima ora, la spietata tragedia?... Nel ri-
trarre codesti tipi Enrico Castelnuovo tocca l'eccellenza, fors& perché,
accostandosi per qualche lato alla sua indole morale, permettevano
alle attitudini dell'artista di concordare appieno con le spontanee
inclinazioni dell'uomo.
All'artista fu mosso appunto per certe improprietà e negligenze
di lingua e di stile. Critiche talora giuste; talora pedantescamente
spigolistre o fondate sul preconcetto ohe la forma abbia un intrinseco
pregio d'affezione, indipendente dal contenuto e dal tòno del conte-
nuto. Si potrebbe piuttosto notare ne' suoi romanzi qualche squilibrio
di misura, come la prolissità di alcuni dialoghi, o, per contro, la
scarsità di svolgimento data a situazioni stupendamente immaginate.
Non dimenticherò mai la pagina del romanzo Dal primo piano alla
soffitta, in cui il vecchio patrizio rovinato, maniaco, illuso di pos-
sedere ancora una miniera d'oro che dovrà ristorare la sua fortuna,
comincia a raccontare alla nipotina arrampicatasi sulle sue ginoc-
chia una storia in cui le reminiscenze delle fiabe udite da fanciullo
si mescolano alle sue illusioni : la storia di un re e d'una regina che
avevano una bimba bella come il sole e d'un mago il quale aveva
scoperto dei filoni d'oro e fabbricata con quell'oro una casa grande,
grande, dove mettere dentro la bimba... quando, fiilminato da una
sincope, il vecchio s'interrompe improvvisamente e piega la fronte
nell'aureo bagliore di quel sogno, mentre la fanciulla si ostina a ri-
petere «nonno dorme, nonno dorme». Scena potenzialmente mera-
vigliosa, ma più che svolta, accennata. — Questa, io credo, la ragione
per la quale egli rieiice più d'una volta artisticamente superiore nella
novella, la natura e i limiti di codesto componimento implicando
una ponderata economia di sviluppo. Ed egli medesimo lo avvertiva,
scrivendo nelle memorie autobiografiche che alcune tra le sue no-
velle gli sembravano « meno indegne di sopravvivere».
Cronologiciimente, la produzione di Enrico Castelnuovo può di-
ENRICO CASTELNUOVO 209
vidersi in due periodi. Le opere pubblicate dal 72 all'SS, da II gita-
derno della zia a Due eonvinzioni corrispondono in gran parte ad
una vita oltrepassata : quella ohe precedette la rivoluzione ncLzionale
e quella che immediatamente la seguì : la prima, vita di aristocra-
tici retrivi e di gaudenti spensierati in alto, di folle per lung-o tempo
servili o indifferenti in basso, di ardite personalità ed esigue mino-
ranze incitatrici nelle classi medie; la seconda, vita borghese, eco-
nomicamente modesta, moralmente semplice, intellettualmente ri-
stretta forse ma equilibrata. Nelle opere, invece, che vanno dal 1888
al 1908, dal romanzo Filippo Bussini jitniore all'ultimo e di più
largo volo / Moncalvo, noi cogliamo echi e riflessi di condizioni di-
verse, economicamente vistose e spenderecce, moralmente senza scru-
poli, intellettualmente più larghe e meno savie: echi e riflessi che
consistono, sebbene misuratamente resi, nella m-aggiore libertà del
costume, nell'arrivismo sfrenato e sfrontato, nell'avidità affaristica
e bancaria, nell'abbassamento dei caratteri a paragone dell'ingran-
dimento progressivo del mondo. — « Che importa — dice Giacomo
Moncalvo, e con questo lamento si chiude il romanzo — che im-
« porta che la scienza estenda ogni giorno il suo dominio sulla nar
« tura, che ogni giorno si allarghino i confini del sapere, se l'uomo
« non cresce in bontà e dignità, ma diventa più piccolo in un mondo
« più grande? » .
Codesta evoluzione era fatale, e gli effetti della guerra, impre-
veduti dal maggior numero, dovevano accelerarla ed esasperarla;
ma la fatalità del fenomeno non ci dispensa da un giudizio. Inevi-
tabili le tendenze; insopprimibile lo spirito informatore; deplorevole
l'infrazione voluta d'ogni limite, onde siamo trascorsi da quanto po-
teva parere ingenuità o timidità in una specie di parossismo e di
tumultuaria anarchia.
E come è sempre accaduto nelle crisi storiche — alle quali con-
corrono in varia guisa e con azione reciproca elementi materiali e
morali, realtà e stati d'animo o di fantasia — la letteratura co' suoi
recenti indirizzi è in parte conseguenza, ma in parte anche causa di
questi squilibri ed eccessi.
L'opera letteraria di Enrico Gastelnuovo s'allontanava volentieri
dal convenzionalismo scolastico e moraleggiante (basti ricordare
certe pagine deliziose e crudeli del Fallo di una donna onesta), ma
obbediva a una norma di misura e di saviezza; la letteratura oggi
in voga sembra perseguire l'ideale senza dubbio più comodo e più
gradito del libero godimento; la prima era dimessa nella veste, la
seconda si adorna di tutte le preziosità verbali; la prima poteva pec-
care p>er negligenze d'arte, la seconda manca di umana e commossa
spontaneità. E quando io sento la nuova borghesia, la borghesia fa-
stosa degli arricchiti, scagliarsi contro il sovversivismo politico e
sociale, non posso a meno di sorridere amaramente della cecità con
cui essa alimenta un 3o\^ersivismo più a\^-elenato e avvelenatore,
quello che da troppi volumi ricercati e festeggiati nei salotti sti'la a
goccia a goccia nel sangue e nello spirito di chi dovrebbe illuminrire
e dirigere le classi inferiori.
A questa pietra di paragone, l'opera del nostro scrittore ci ap-
parisce documento ammirevole di probità personale, artistica e civile.
210 ENRICO CASTELNUOVO
• •
Ma io non commemorerei qui Enrico Gastelnuovo, se il suo
nome, oltreché alla novellistica e al romanzo, non rimanesse peren-
nemente leg-ato alla storia di Ca' Foecari.
Il senso ideale e il senso pratico che costituivano due tratti si-
miultanei della sua fisionomia, per cui l'autore patetico o tenuemente
sarcastico di tante pagine d'immaginazione era insieme il sindaco
d'una Banca, scrupoloso nell'adempimento del suo uflBcio di controllo,
quel duplice diverso ma non opposto senso ebbe modo di esplicarsi
felicemente nella sua attività scolastica, quale professore e quale
direttore.
Le Istituzioni di Commercio, introdotte da Francesco Ferrara e
insegnate da Enrico Gastelnuovo per oltre quarantanni, formavano
una specie di corso preparatorio, a fine di dare ai giovani un'idea
del meccanismo dei traffici e di avviarne la mente allo studio delle
m^aterie economiche e insieme alle esercitazioni del banco modello.
Le nozioni svariale di questo corso dovevano necessariamente riap-
parire nell'economia politica, nella ragioneria, nel diritto conuner-
ciale, nello stesso banco, ma era opportuno che al principio degli
studi esse si presentassero, raccolte e coordinate in un tutto orga-
nico, agli allievi ancora ignari. Le lezioni di Enrico Gastelnuovo ve-
nivano pertanto riassumendo lo svolgimento storico e illustrando il
funzionamento tecnico de' vari istituti. Erano lucide e piacevoli nella
forma, coscienziosamente precise ne' raggua^gli, libere da minuzie
ingombranti, né si scompagnavano mai da un alto intendimento
morale, perché egli credeva che la rettitudine e il senso dei limiti
si traducessero anche nel campo degli affari in sicuro e durevole
tornaconto. Gosì, in uno de' suoi primi discorsi, egli rivolgeva ai gio-
vani queste nobili parole : « Apprendete fino da ora a contare sul-
« l'opera vostra giudiziosa e perseverante e non sui capricci del caso.
« Non vi lasciate vincere da impazienze colpevoli, non vi lasciate
« accecare ddla sete del guadagno. Le ricchezze onestamente acqui-
« state sono legittime e sante, ma il culto della ricchezza é vile. Di
«tutti gli idoli che la credulità umana, in tutti i tempi, ha sollevato
«sugli altari, nessuno é più vano di quest'idolo d'oro. Gh'esso non
«possegga mai, o giovani, il vostro cuore». E tanti anni dopo, sulla
fine del suo limpido Manuale, accennando alle crisi da cui la nostra
società è travagliata, egli insisteva sul concetto medesimo di mode»-
razione economica e morale. « Per diradare le crisi, per attenuarne
«gli effetti, occorrerebbe vincere una malattia del secolo, la smania
« di arricchire e di arricohir presto. Liberato da questa febbre divo-
« ratrice, l'uomo troverebbe quel senso della misura che anche per
« gli affari è inestimabile elemento di successo, perché, insegnando
« a preferire i resultati lenti e certi al miraggio delle improvvise for-
« tune, contiene la speculazione entro giusti confini. Ciò che equivale
« a dire che se fossimo più savi, più temperati nei nostri desideri,
«eviteremmo gravissimi danni. Verità elementari, vecchie quanto il
« mondo, ma che non é inopportuno ripetere alla chiusa di un libro
« scolastico » .
Direttore, noi potemmo ammirarne la sagacia, la diligenza con
cui attendeva ai suoi laboriosi doveri, l'amorevolezza patema di cui
ENRICO CASTELNUOVO 21 i
era largo verso gli studenti — « cara e balda gioventù, al contatto
« con la quale la nostra vecchiaia si rinfranca e par che rallenti il
« suo fatale cammino » — amorevolezza non disgiunta, occorrendo,
da risoluta fermezza. Né le molteplici cure didattiche e amministra-
tive gli facevano dimenticare le sue qualità di fine scrittore. Lo atte-
stano le bellissime Relazioni ch'egli leggeva qui, all'aprirsi d'ogni
anno accademico. Ai dati statistici e comparativi, alla disamina dei
problema scolastici, all'esposizione delle provvidenze legislative e delle
norme regolamentari, egli usava alternare le sue note personali di
arguzia e di gentilezza. Talora una pagina di riflessioni severe era
interrotta dal frizzo repentino che richiamava sulle nostre labbra un
sorriso o le apriva alla prorompente ilarità. Tal'altra, i>arlando dei
nòstri amati allievi o ricordando i defunti colleghi, egli suscitava
intorno a sé un dolce consenso d'affetti, un'onda mesta di rimpianti.
Durante il periodo in cui Enrico Gastelnuovo resse la nostra
Scuola, questa subì ima decisa evoluzione, che venne allontanandola
dall'originario concetto di assoluta autonomia, propugnato da' suoi
fondatori e per lungo tempo risi>ettato. Fu evoluzione conforme a
tutto quanto l'indirizzo della nostra vita pubblica, la quale, anziché
continuare ad inspirarsi al culto geloso delle libere iniziative, venne
accettando in misura sempre più larga, o addirittura reclamando,
l'ingerenza e la disciplina dello Stato. Per vero, la legge del 20 mar-
zo 1913, che riiordinia e consolida gli Istituti sup>eriori commerciali,
riconferma in linea di massima la nostra autonomia; in pratica, per
altro, la circoscrive entro angusti confini, che gli articoli del Rego-
lamento restringono anche più. Quest'indirizzo non poteva corri-
spondere all'intimo convincimento di Enrico Gastelnuovo, il quale,
come ricordai, apparteneva ad una generazione che sia per coltura,
sia per reazione ai governi dispotici, diflBdava dell'azione statale, o,
per ripetere le parole di im grande liberista, presumeva contro di
essa. Ma il suo spirito positivo non poteva disconoscere, riguardo alla
nostra Scuola, le imperiose necessità di siffatta evoluzione, perchè,
da una parte, l'intrinseco valore dei nostri studi correv-a il gravisr
Simo pericolo di rimanere menomato, qualora non fossero stati sug-
gellati da un titolo uflBciale, e, dall'altra, gli Enti locali non erano
più in grado di sopperire da soli ai nuovi, crescenti bisogni. Egli
accettò pertanto, lealmente, questa nuova condizione di cose, adope-
randosi a che il nostro Istituto, il più anziano e il più completo pe'
suoi ordinamenti che esista in Italia, non ricevesse detrimento dalla
concorrenza di altri più recenti, ma potesse attingere dall'azione di-
sciplinatrice dello Stato copia adeguata di mezzi ed eflBcaeia di prov-
vedimenti.
• *
Né a ciò si limitava la sua tranquilla e metodica operosità.
Tra i romanzi e le novelle, tra le cure didattiche e amministra-
tive, tra le pubblicazioni scolastiche, trovavano posto altri e diversi
scritti : poesie e traduzioni poetiche, commemorazioni di uomini
insigni, commenti e giudizi intorno ad opere straniere, saggi su Ve-
nezia nostra.
212 ENRICO CASTELNUOVO
Le poesie, composte quasi tutte per occasioni nuziali, non aspi-
rano certo a spiccata originalità; esse esprimono nobiltà di sentimenti
civili, gentilezza d'affetti domestici, con una limpida verseggiatura,
dove risuona qualche eco del Foscolo e del Leopapdi. Le traduzioni
poeticele dall'inglese e dal tedesco hanno pregi di fedeltà e anche di
grazia disinvolta. Bellissime le commemorazioni, perchè egli sapeva
com,porre in armonia i diversi tratti e momenti delle virtù e dell'opera
dei cari e illustri perduti, senza mai cadere in quelle iperboliche
apologie che scemano il consenso o provocano addirittura le riserve
di chi conobbe e sa.
Cenno più ampio meriterebbero, se il tempo lo permettesse, le
letture che il Gastelnuovo veniva facendo all'Istituto Veneto intorno
a pubblicazioni straniere. Alcune riguardano la poesia e l'arte, come
quelle sulla concezione estetica di Leone Tolstoi da lui respinta,
perchè informata esclusivamente a criteri etici e religiosi, sopra un
poemetto di Guglielmo Wordsworth, il dolce poeta laghista, su Rud-
yard. Kipling, il poeta apostolo della forza, su Rabindranatah Ta-
gore, il poeta-veggente indù, su Paolo Heyse, il novellatore gentile e
fervidamente innamorato d'Italia. Altre trattano di materia politica,
come la critica della democrazia moderna dell'Ostrogorski, le vicende
e le impressioni del nostro Risorgimento nelle lettere della Regina
Vittoria, il diario e la corrispondenza di Lady John Russell, la figura
del principe di Bismarck nei ricordi di un pittore inglese. Altre, in-
fine, si riferiscono a soggetti di psicologia sociale, come l'analisi delle
opinioni americane sulla forza e sulla ricchez2a, nella Vita strenua
di Teodoro Roosevelt e nel Dominio degli affari di Andrea Gamegie.
La grande varietà di codeste materie attesta la versatile coltura
dello scrittore; ma attraverso a quella varietà alita il suo spirito co-
stante di misura e di equilibrio. Egli ammira l'energia, ma è avverso
all'imperialismo tracotante, né sa aderire al soverchio dispregio de'
deboli; nella vita, accanto all'operosità pratica assegna un alto po-
sto alla pura contemplazione, come nell'arte la assegna alla pura bel-
lezza; e condannando il demagogismo, non esita tuttavia a ricono-
scere l'universalità ineluttabile e benefica del movimento democratico.
Monografìe e discorsi dotti e attraenti gli inspirò Venezia. Egli
ritrasse con fine garbo una libera e colta gentildonna del settecento,
Caterina Dolfin Tron, pubblicandone lettere inedite e ricollocandola
nella cornice di quell'età gaudiosa e spensierata; compendiò la storia
della nostra poesia vernacola in una sintesi giudiziosa, sebbene ne-
cessariamente incompleta, perchè, quand'egli scriveva, non erano an-
cora sbocciati i fiori più freschi e fragranti di lirica dialettiile che
mai spuntassero sul margine delle lagune, intendo i versi di Riccardo
Selvatico; riprese a trattare con erudizione viva il periodo storico
che quarant'anni prima gli era servito di sfondo j)er // quaderno
della zia, periodo politicamente mutevole e moralmente depresso, che
seguì il crollo della Serenissima e vide avvicendarsi l'oc-cupazione
francese e il giacobinismo municipale, la dominazione austriaca, il
ritomo dei francesi e nuovamente la signoria dell'Austria; glorificò,
in un discorso rimasto ancora inedito, la figura magnanima di Da-
niele Manin. lE in tutte queste pagine, come nei romanzi d'argo-
mento o colorito veneziano, trasfuse il suo amore per l'incompara-
ENRICO CASTELNUOVO 213
bile Città, per le sue tradizioni secolari, pe' suoi cispetti pittoreschi,
pel suo popolo argutamente bonario o scettico nelle giornate comuni,
argutamente rassegnato e stoico nelle giornate di passione.
*
• *
Può dirsi che Venezia abbia mostrato d'apprezzare adeguata-
mente l'alto valore di quest'uomo?...
La mia risposta non sa essere affermativa, se almeno ricordo il
gelido silenzio con cui la stampa cittadina accoglieva quei racconti
che radunavano a circolo le famiglie attorno alla lampada notturna,
che spictnavano con un sorriso tante rughe, che a tante anime affa-
ticate recavano ristoro e conforto. Basta a spiegarci questa noncu-
ranza l'indole del Gastelnuovo, schiva e ritrosa, come ce la descrisse
con la sua consueta finezza d'analisi e nobiltà di {)arola, Giovanni
Bordiga? {!)• Non basta, perchè anzi l'eccesso della modestia indivi-
duale provoca, nella collettività consapevole, una reazione compensa-
trice. Altre e più generali le ragioni, che si palesarono anche in altri
casi. Intanto, le grandi città storiche, che assistettero pel corso di se-
coli ai più straordinari avvenimenti, hanno un po' tarda e pigra la
corda dell'ammirazione verso l'ingegno che non si esplichi in forme
vistose e clamorose. Poi, in una città come la nostra, artisticamente
superba ma socialmente angusta, mancano le prospettive necessarie
ai sicuri giudizi, e ne consegue una specie d'inversione delle leggi ot-
tiche, per la quale uomini e cose superiori facilmente rimpiccioli-
scono, mentre uomini e cose minori facilmente grandeggiano. E lo
stesso Gastelnuovo, pur così modesto, esprimeva confidenzialmente,
nella forma dubitativa di un forse, il rimpianto di non essere cre-
sciuto in una scena più vasta...
Ma se a lui venne meno quella consacrazione uflBciale che può
desumersi dalla larghezza de' pubblici onori e dalle esaltazioni della
stampa, ne fu risarcito dall'estimazione profonda, affettuosa, di una
schiera di concittadini illustri. Ricordo: — Giacinto Gallina, il mira-
bile commediografo che ravvivò velandolo di malinconie l'estro gol-
doniano, Riccardo Selvatico, il fine poeta e nobile magistrato citta-
dino, Glotaldo Piucco, critico penetrante della scena teatrale e della
scena politica, Carlo Combi, profugo, erudito, maestro, rivendicatore
eloquente dell'italianità dell'Istria, Rinaldo Fulin, ricercatore inter-
prete coordinatore originale e sagace dei nostri vetusti documenti,
Paulo Fambri, poligrafo arguto e inesauribile, Alessandro Pascolato,
che allo studio del diritto e della storia alleava le eleganze letterarie.
Clemente Pellegrini e Marco Diena, insigni e austeri giuristi, Leo-
poldo Bizio, versatile poliglotta e agile traduttore. Renato Manzato,
che la modernità del pensiero scientifico ornava di coltura umani-
stica, Pompeo Molmenti, lo storico geniale e avvivatone dell'arte e
del costume veneziano; e basteranno questi nomi, tutti, ahimè, fuor-
ché i due ultimi, di amati defunti, per misurare la statura intellet-
tuale di quella generazione. Erano uomini diversi di tempra, di dolr-
trina, di predilezioni spirituali, di tendenze politiche, ma tutti con-
(1) 6. Bordiga, T>i Enrico Gastelnuovo. N^Ii Atti del R. Istituto Veneto
di Scienze, Lettere ed Arti. Tomo LXXV. Parte prima.
214 ENRICO CASTELNUOVO
cordavano nell'onorare, nell'amare in Enrico Gastelnuovo l'acume
dell'ingegno, l'efficacia dell'insegnamento, l'integrità dell'animo, la
dignità della vita. Sono queste le attestazioni morali ohe più confor-
tano, perchè indubitabilmente sincere. Non oserei dire altrettanto
delle pubbliche lodi, che spesso, anche se non siano in qualche guisa
contrattate, si regalano per opportunismo o si distribuiscono con ap-
parente spontaneità, ma con la secreta speiranza di un abbondante
ricambio.
* •
L'uomo che durante tutta la sua vita pareva mirasse a restrin-
gere il suo posto fra gli altri uomini, informò a quest'abito mentale
e morale anche le disposizioni riguardanti il suo dopo-morte, e pre-
scrisse, fra altro, che, qui non gli fosse eretto alcun ricordo. La pre-
scrizione sembrò a noi così dura che non sapemmo rassegnare ici.
Come? Nel recinto di Cà Foscari, presso le immagini dei nostri bene-
meriti, non avrebbe figurato quella di lui, che fu tra i benemeriti
maggiori? Obbedendo a quel divieto, non avremmo disobbedito ad
un alto dovere educativo? La bontà de' suoi figliuoli comprese questa
pia reluttanza e si arrese ed nostro voto. Ma nel tempo stesso l'ar-
tista squisito che s'era disinteressatamente assunto di eseguire il caro
ricordo (1), ne attenuò le forme plastiche, quasi per un gentile com-
promesso fra la ritrosia dell'estinto che voleva abolite le proprie sem-
bianze e la nostra gratitudine che reclamava di perpetuarle.
La sua effigie voi la vedrete fra poco: scolpita a bassissimo ri-
lievo, con lo sguardo che sembra velato, con un sorriso interiore che
spunta a fior di labbra, e vi ritorneranno alla memoria le parole che
egli proferiva nel congedarsi dalla nostra Scuola; vi parrà di riudire
l'inflessione come di blanda carezza ohe prendeva la sua voce, accom-
pagnata da un ritmico gesto della mano.
Rileggiamo insieme religiosamente quelle parole. Sono il suo te-
stamento spirituale.
« Ho finito. Sia di settimane o di mesi, un intervallo brevissimo
mi divide dal giorno in cui lascerò per sempre la Scuola... Tra-
< smessi i poteri al successore, che il Corpo Accademico e il Consiglio
e il Governo si decideranno di darmi, entrerò nella zona grigia ove
s'aggirano le ombre malinconiche dei collocati a riposo... Ivi, assi-
stendo al rapido volatilizzarsi della mia piccola scienza, non più
tenuta in eserciz,io dalle consuete lezioni, mi abbandonerò alle fan-
tasticherie degli sfaccendati; subirò anch'io, ma solo per un istante,
:< lo strano fenomeno di sdoppiamento, onde ci accade di considerare
la nostra vita come cosa distinta da noi, di rinfacciarle quello ch'essa
« non ci ha dato, e di dirle: — Era un'altra la vita che ci voleva per
me. — Così talora un antico sogno d'amore, evocato dalle profondità
< oscure della memoria, turba la pace serena di due coniugi ormai
presso la mèta del viaggio comune, desta nei due cuori il rimpianto
di un bene non potuto raggiungere, porta all'orlo delle due bocche
l'aspra parola: — ì^on eri tu... — Frenatela in tempo l'aspra, l'in-
cauta, la vana parola. Chi ci assicura che l'antico sogno d'amore
(1) Lo scultore Pietro Canonica.
ENRICO CASTELNUOVO 215
« non si sarebbe risolfco in un disinganno crudele? Sappiamo noi di
« quante delusioni, di quante ^amarezze sarebbe stata intessuta Valtra
« vita, la vita che ci era parsa sì bella nelle febbrili vigilie dell'ado-
« lescenza?... Bando, dunque, alle inutili querimonie. Non guardiamo
« con occhio ostile il nostro i>a^ato. Cerchiamo di spremerne il succo
«prezioso che ogni passato racchiude, la poesia dei ricordi. Soave,
« divina poesia, in cui sa fondono le ombre e le luci, e sovente si tra-
« muta in dolcezza ciò che fu prima dolore! Sii tu la consolatrice del
« mio tramonto, popola di care visioni la mia solitudine, richiama
« intomo a me le figure domestiche de' miei compagni di lavoro, degli
« illustri e degli umili, di quelli che invecchiarono meco, di quelli
« ohe caddero lungo il cammino, di quelli che mi si posero a fianco
<t più tardi e a' quali arridono ancora le liete promesse deira\^enire.
« Ma sopra tutto, o divina poesia dei ricordi, fa che sino all'ultimo
« giunga al mio orecchio la nota gaia, squillante della giovinezza. Per
«oltre quarant'anni essa mi incitò all'opera quotidiana; rompa, ora i
« silenzi monotoni delle oziose giornate, e non cessi che cpiando mi
« av\olga un silenzio più grande » .
Pagina che sarebbe dovunque ammirevole, ma che panni unica
nella nostra oratoria scolastica, più incline a certa compostezza to-
gata che a libertà d'abbandoni umani. Bontà! Ironia! Voi ci ricom-
parite ancora dinanzi. Soltanto, l'ironia trascorre di volo, è verbale
non sostanziale, si ripiega scherzosamente sullo scrittore, altri non
investe e non punge. Ciò che domina è la bontà. Bontà discreta di
psicologo, la quale tutta si palesa nel gesto commosso con cui egli
depreca la dura parola che starebbe per rinnegare una lunga convi-
venza domestica; bontà fervida di maestro, pel quale la scuola rias-
sumeva le più dolci memorie del passato ch'egli aveva vissuto, le più
promettenti speranze di un avvenire ch'egli non avrebbe veduto. Av-
viandosi al sonno senza fine, Enrico Gastelnuovo udiva ancora, udiva
con gioia, risonare intomo a sé il festoso clamore giovanile che aveva
allietato tante ore della sua veglia mortale. Ricambiatelo, o giovani,
voi che lo avete conosciuto ed amato, voi che lo conoscete ed amate
attraverso i suoi libri; e posando l'occhio sul bronzo che ne ritrae le
miti sembianze, volgendo il pensiero all'umetta che laggiù nell'isola
solitaria racchiude le sue ceneri, levando l'anima verso la sfera delle
nobili idee ove alita il suo spirito, ripetete la memore riconoscente
parola: «grazie, maestro! »,
Antonio Fradeletto.
i
IL DIO DEI VIVENTI
ROMANZO
Nell'andarsene egli si sentì alquanto sollevato.
Aveva messo la mano sulla testa di Salvatore, con rimpressicme,
al contatto di quei capelli fini e tiepidi, di carezzare una tortora o
una pernice di- nido.
— Non studiare troppo, che ti fai venire male alla testa; — disse,
e questa volta convinto di quello che diceva. — Addio.
— Addio e buona notte.
Gli parve che il ragazzo gli fosse meno nemico: e anche Lia
prese senza parlare il biglietto di cento lire piegato in otto che egli
furtivamente le mise in mano quando ella lo accompagnò alla porta.
Poi respirò profondamente. Era contento che Lia prendesse i
denari : forse gliene aveva già dato un po' troppi, in così breve spazio
di tempo; e gli sarebbe dispiaciuto oh'ellà ci prendesse l'abitudine :
ma era come un'offerta a un santo dal quale si vuole ottenere una
grazia.
Intanto invece di dirigersi a casa sua andava dalla parte opposta
verso la piazza : sentiva bisogno di camminare, di sfuggire ai propri
pensieri. Avesse almeno avuto come tutti i suoi amici e parenti la
consolazione di bere, gli fossero almeno piaciute le donne: nulla,
non aveva vizi e quindi neppure il modo di sfuggire almeno momen-
taneamente a sé stesso.
Cammina oamimina arrivò in fondo al paese, arrivò davanti alla
chiesetta rovinata e al grande prato dei fioralisi : la luna al suo ul-
timo quarto spuntava laggiiì, lucida, dorata a nuovo; e i fiori e i
cespugli già si specchiavano nella loro ombra. Il cuculo si lamentava,
ma pareva lo facesse per finzione, per darsi a credere infelice e quindi
intenerire chi lo ascoltava e farsi amare nonostante la sua lugubre
fama.
Zebedeo non si inteneriva, o meglio s'inteneriva, ma irritandosi
contro il suo sentimento; oramai conosceva gli uomini e le cose e
gli sembrava che tutti fingessero perchè fingeva lui.
Nella tettoia del vecchio fabbro c'era luce: una fiammella ardeva
da sola come un fuoco fatuo.
Avanzandosi Zebedeo vide il vecchio seduto scalzo in un angolo
con gli occhiali sul naso curvo ad aggiustare un oggetto misterioso;
e gli pareva uno stregone intento a fare qualche diavoleria: ma av-
vicinandosi meglio vide che si aggiustava le scarpe.
IL DIO DEI VIVENTI 2l7
Nel ravvisare il visitatore il vecchio non smise la sua faccenda,
solo allungò uxia mano dietro di sé e dai mucchio degli strumenti
sempre lì abbandonati per terra prese le forbici da potare, e gliele
porse,
Zebedeo fece scattare il gancio che le chiudeva forte ed esse si
aprirono acute e minacciose; la molla nuova flessibile come un bruco
funzionava benissimo.
— Non sono venuto prima — disse — perchè m'è accaduto un
sacco di accidenti; l'avrete saputo.
Il vecchio l'aveva saputo, ma non gliene importava niente: ca-
desse il mondo il suo pensiero non poteva essere distolto dal suo punto
fìsso,
— Fate anche da calssolaio, a quanto vedo — osservò Zebedeo.
— Arrangiarsi bisogna; Dio ci ha dato le mani per far di tutto.
— Anche per rubare.
Il vecchio rispose come l'eco alla voce del cuculo.
— Anche per rubare.
E ficcava forte la lesina nel cuoio.
Zebedeo lo guardava pensando a Lia che pur essa lavorava di
notte e sperava vendetta dalla forza del suo odio,
— Zio Michele, se permettete mi metto a sedere qui sul ceppo
ove ferrate i cavalli; è una sedia che non tentenna. Ah, che vedo dietro
il vostro sgabello? Una bottiglia di vino. È una buona compagnia,
beato voi. Si sta bene qui; passa il venticello; pare che gli angeli
sbattano le ali qui intomo. Dunque io non sono venuto solo per le
forbici, sono venuto anche per domandarvi se avd-e ricevuto una
lettera di Pietro Paolo, il quale vi domanda se volete andare a lavo-
rare da lui. Voi non gli avete ancora risposto: perchè non gli ri-
spondete?
Egli si aspettava uno scatto del vecchio, per la sorpresa di sentir
proprio lui a far da intermediario al suo antico apprendista; ma SI
vecchio continuò a lavorare.
— Non c'è niente da rispondere.
— Perchè non c'è niente da rispondere? Quello vi propone un
ottimo affare, quasi la sicurezza di una fortuna, e voi continuate a
punger la lesina sulle vostre scarpe logore che non reggono più nep-
pure i punti.
— Il mio posto è qui.
— Perchè? Per imprecare contro i ladri del vostro sacchetto? Ma
potete imprecarli ancora là. Dio ci ascolta ovunque.
— Tu ce l'hai coi ladri del mio sacchetto : pare che tu fossi della
compagnia, — disse allora il vecchio non senza cattiveria.
2iebedeo imprecò; poi guardò pensieroso le forbici che teneva in
mano e riprese a parlare serio.
— Ascoltatemi, zio Michele: c'è una persona che ha interesse che
voi andate da Pietro Paolo almeno per qualche tempo. Se questa per-
sona vi offrisse un'indennità, nel caso che non possiate trovarvi con-
tento, una indennità e il modo di ritornare e di ristabilirvi qui, che
ne direste? *
— A che scopo dovrei andare?
— Ebbene, voglio parlarvi chiaro; siete un uomo di carattere e
potremo capirci. Si tratta di andare presso Pietro Paolo per assicu-
15 V<d. CCXVU. serie VI — 1' apiile 1922.
218 IL DIO DEI VIVENTI
rarsi anzitutto so davvero egli possiede la fortuna di cui si vanta, e
poi per conoscere i suoi veri sentimenti verso la moglie.
Il vecchio aveva già tutto capito.
— Anche a me egli ha scritto che vuol riunirsi alla moglie, e
prenderebbe anche il ragazzo; io credo che quella donna farebbe
molto bene a ritornare con lui e rimettersi così nella via del Signore.
— Ohe voi siate benedetto, zio Michele. Voi parlate come un
vecchio santo che siete, — disse Zebedeo con sollievo. — Ma il guaio
è che la donna non vuol sentirne neppure a parlare : ha paura che
il marito l'attiri per ucciderla.
— E se l'uccide fa bene: non lo ha peggio che ucciso, lei? Lo
ha ridotto come un bue sgarettato; coma e disgrazia; ed era un buon
ragazzo, Pietro Paolo, tutto amore per lei; per lei è andato in cerca
di fortuna e mentre lui faceva questo lei gli rendeva i bei servizi che
tutti sappiamo.
— Siamo tutti soggetti all'errore, — disse 2iebedeo sospirando,
quasi volesse scusare Lia. — T\itto sta a sapervi rimediare.
— Non è vero; Dio ci ha dato un'anima viva, e sta in noi fare
il bene e il male : noi siamo nel mondo solo per questo.
— Ma non. sempre si discerne qual'è il bene e quale il male.
— Non è vero; si disceme sempre : basta imterrogare la propria
coscienza. Dio ci parla per mezzo di lei.
— Voi siete un santo, — esclamò Zebedeo, riprendendo il tono
earcastico di prima, — ma torniamo al nostro argomento. Vi parlo
francamente: io e la mia famiglia abbiamo interesse che Lia tomi
col marito; anche perchè la gente finisca col dimenticare la sua con-
dotta scandalosa col povero Basilio. Voi dovreste andare presso Pietro
Paolo: dii là scrivete come stanno le cose, persuadendo la donna a
fare il suo dovere.
Era una parte quasi nobile, quella che Zebedeo gli proponeva,
eppure il vecchio scuoteva la testa, accennando di no, di no, alla
scarpa che teneva in mano. No, vecchia scarpa, tu continuerai a sop-
portare i punti delle mie vecchie dita e a far compagnia al mio
vecchio piede: ma io non voglio prendere parte all'impresa lucrosa
che mi propone 2iebedeo iBareai : il perehè lo so io.
E Zebedeo sentiva queste parole non pronunziate e se ne irri-
tava: avrebbe voluto bastonare il vecchio, mentre lo guardava con
venerazione.
A
Il giorno dopo Bellia si recò dal dottore per l'operazione alla
mano. Il padre lo accompagnò : voleva andarci anche la madre, ma
egli protestò vivamente.
— Neppure quelli che partono per la gnerra vengono accompa-
gnati così! Lasciatemi andar solo.
Il padre lo seguiva silenzioso, deciso a sorvegliare il dottore,
contro il quale sentiva germogliare il seme della diflSdenza sparso
dalle parole malvagie di Lia.
Ma tutto andò bene. Bellia era un po' pallido e stringeva i denti
per frenare un lieve tremito ohe gli agitava la bocca; però non sentì
dolore quando la punta della lancetta gli spaccò la carne molle e
IL DIO DEI VIVENTI 219
bianca nel punto della mano ove s'era formatta la materia : e questa
schizzò gialla e rossa fino al viso chino del dottore.
Il dottore non a.veva paura di nulla: operava in modo ancora
primitivo, senza gxianti, senza eccessive precauzioni, e solo aveva
cura di disinfettare bene gli strumenti; e parlava per distrarre il
malato.
— Sono stato fino adesso dal maresciallo per l'affare di Sant'An-
tonio e di San Pietro. Io sono del parere che l'isterica abbia avuto
un'allucinazione, con subcoscienza di averla. Tu non capisci cosa
vuol dire? Ecco, lei stessa, saf>endo di desiderare, nella visita del
Santo, una cosa impossibile, ordisce con la sua inunaginazione l'av-
ventura grottesca. L'ordisce in modo che Sant'Antonio rappresenti
la parte fantastica e San Pietro la parte reale del dramma. Sant'An-
tonio è la sua fantasia. San Pietro è la sua coscienza deUa realtà : ed
ella evita di parlare di questa seconda parte dell'avventura, mentre
è quella che più la tormenta. Del resto succede un po' a tutti, e più
spesso che non crediamo.
Belila non capiva, e non si curava di caipire, mentre il padre,
che s'era seduto in un angolo e cercava di nascondersi il più possi-
bile, capiva i)erfettamente : e accorgendosi della poca comprensione
del figlio, pensava che Salvatore invece avrebbe ribattuto e discusso
le chiacchiere del dottore.
Eppure gli piaceva ohe Bellia fosse così.
Il dottore continuava a premere la mano e pareva volesse vuo-
tarla di tutto il suo sangue; premeva, poi asciugava con pezzi di
ovatta che buttava insanguinati entro un catino,
— . L'affare è che il majesciallo non capisce : non solo, ma crede
che io mi burli di lui. Non è escluso che egli creda che uno dei due
malandrini sia stato io!
Questo sì, fece ridere Bellia, ma a guisa dei bambini quando
vogliono piangere: qualche cosa gli ronzava in gola, come im'ape
prigioniera; il riso gliela cacciò fuori, ed ^li si sentì sollevato più
che se avesse pianto.
— Non ridere, sta fermo. Fermo! Se no non ti dico quello che
penso di fare aJ maresciallo,
— Me lo dica! — implorò Bellia.
— Te lo dico, ma prima dimmi tu quale dei due dovrei essere
stato io : Antonio o Pietro?
Bellia credette di fargli un complimento :
— Sant'Antonio.
— E perchè poi? Mi credi un idiota? I santi sono tutti idioti.
— Ma anche San Pietro è un santo.
— È vero: ma questa volta si è mostrato furbo. A dire il vero
s'è mostrato furbo anche la prima volta, quando se la squagliò al
canto del gallo, e per questo Gesù lo preferisce : tanto è vero che gli
ha affidato la portineria del paradiso, e in tutte le storielle ove si
racconta di viaggetti di Gesù in terra, vediamo che il Signore si fa
sempre accompagnare da Pietro.
Zebedeo pensava sempre a Salvatore. Pensava che il ragazzo
avrebbe adesso prontamente risposto « le storielle le hanno inven-
tate gli uomini » e avrebbe voluto dirlo lui, ma non osò.
— E anche in queste storielle Pietro rappresenta l'uomo pratico.
220 IL DIO DEI VIVENTI
ruomo ohe per la sua esperienzaa e la sua prontezza s'è guadatalo
pienamente la fiducia di Dio e quindi le chiavi del paradiso. Se lui
non vuole non lascia uscirne neppure Dio: e se lui vuole può farci
rientrare Lucifero, nel paradiso. Non mi dispiacerebbe dunque di
fare la parte di Pietro; eppure, a pensarci bene, preferisco quella di
Antonio.
— Perchè? — domandò Bellia disorientato.
— Perchè Antonio è più felice. Il nostro, s'jntende, Antonio l'ere-
mita, Antonio del porchetto. Mi piace perchè è buono, perchè può
vivere solo, perchè infine un giorno che ha voglia di far baldoria,
può ammazzare e arrostire il porchette. Ecco che ridi ancora. Ridi
pure adesso; il nemico è fuori di te.
— Sai — disse poi fasciandogli di nuovo la mano — voglio far
credere al maresciallo che uno dei due sono stato io per una espe-
rienza mia scientifica sulla donna. Vedrai ohe quello mi mette dav-
vero al fresco.
E mentre ripuliva bene i suoi strumenti, si volse a Zebedeo.
— E adesso sentite, zio Zebedeo; al fresco bisogna portare questo
ragazzo, al vero fresco: al mare.
Zebedeo s'era alzato tutto di un pezzo e stava lì rigido e tuttavia
con qualche cosa di cascante in tutta la persona, come un burattino.
— Al mare?
— Al mare, a respirare un po' d'aria buona. Non subito; prima
deve guarir bene la mano: più in là, in giugno, in luglio, anche
agosto se occorre. Perchè mi guardate così? Non avete bisogno di pre-
starvi i denari o di rubarli per fare questo viaggio.
E a Zebedeo pareva ohe il dottore ammiccasse malignamente.
•
• •
In giugno la mano di Bellia non era ancora goiarita. Dopo cjualche
miglioramento si gonfiò di nuovo; quindi nuovi impacchi, nuovi
tagli. Lo stesso dottore si mostrava impressionato e diceva franca-
mente che mai gli era capitato un caso eguale.
Intanto Bellia deperiva magro pallido melanconico, 'e non voleva
più uscire di casa neppure per recarsi dal dottore, nel quale anche
lui aveva perduto la fiducia.
Stava tutto il giorno in cucina, seduto presso l'uscio, e s'interes-
sava solo ai fatti delle donne. La sua vittima era Rosa, che soppor-
tava pazientemente i suoi rimbrotti e i suoi schemi : ma anche lei
aveva la sua idea fissa, di procurarsi un oggetto p>ersonale di Lia,
un fazzoletto o una pezzuola, per avvolgere la mano del padroncino
e scongiurare il male misterioso.
I padroni le avevano proibito di salutare Lia; e lei non si fì
d'incaricare della faccenda una terza persona che poteva non \v
il segreto; aspettava però un'occasione favorevole che finalmente si
presentò.
Era la vigilia di San Giovanni. Dopo una notte calda e afosa,
Bellia non volle alzarsi di letto; si sentiva fiacco, stroncato dall'in-
sonnia e dallo scirocco, e diceva di aver la febbre: la madre cacciò
via dalla stanza le mosche col suo grembiale, poi chiuse gli scurini
IL DIO DEI VIVENTI 221
e andò anche lei a buttarsi come un sacco vuoto sulla sedia ove il
figlio soleva passare le sue ore di ozio e di noia.
La vecchia zia Annia era andata a, messa : Rosa accorse verso la
padrona come volesse porgerle aiuto.
— Sta male, Belila?
— Sta male sì, dice che ha la febbre. Questa malìa non passa
mai — mormorò la padrona con grande stanchezza. — E le lagrime
le corsero sul viso solcato d'inquietudine.
— Il dottore non vale a nulla — pros^uì. — Adesso abbiamo
pensato con Zebedeo di condurre il ragazzo da un professore. Se
occorre si andrà anche a Roma; purché questa pena possa finire.
— Eppure... Il cuore mi dice che il rimedio è forse più vicino
ohe non si creda.
. — E dimmelo, tu! Io ho fatto celebrare sette messe per le anime
del purgatorio: ho dato una vitella a Sant'Antonio, sette scudi a
Santa Lucia : ma lui non guarisce.
Rosa si fece coraggio.
— Bisogna togliere qualche oggetto a Lia, volete sentirlo? Ve-
drete che il male passerà : e staremo meglio tutti perchè qui si tratta
di malìa : non vedete che anche il padrone, vostro marito, non è più
lui? Ha cambiato umore come dal giorno alla notte; è tutto scuro e
tetro come un monaco in p>enibenza. E tutte le disgrazie che vi suc-
cedono? Il bestiame che muore, il frumento che si è seccato prima di
granire, le cavallette che barino invaso la vigna? Non vedete persino
le galline sono malate... Nessuno osa dirvelo, ma tutti credono che
qui si tratti di malìa. La strega, la fattucchiera è lei : bisogna tro-
vare lo scongiuro.
La padrona piangeva in silenzio.
— Mandatemi da lei, — implorò la serva piegandosi con le mani
giunte e declamando alquanto la sua parte. — Una sera io vado là
di nascosto e le tolgo l'oggetto; in nome del padre, del figlio, dello
spirito santo, tutto andrà bene. Mandatemi da lei con qualche cosa.
^ — Ci ho pensato anch'io, a mandarle qualche cosa: ma l'ao-
cetterà?
— Quella? Quella accetta tutto : salvo magari a maledire lo stesso,
ma accetta ogni cosa.
— E come le dirai?
— A questo ci penserò io: state tranquilla, saprò fare la mia
parte. Io stasera andrò fuori : dirò a zia Annia che vado col vostro
permesso a bagnarmi i piedi al fiume e cogliere le erbe di San Gio-
vanni. Anche quelle son buone per lo scongiuro: voi lasciatemi an-
dare, al resto p>enserò io.
Allora discussero sul regalo da portare a Lia: qualche cosa che
le piacesse, che la placasse almeno per un poco. Ma bisognava non
destare sospetti in zia Annia, il cui odio era irriducibile; e zia Annia
sa tutto quello che c'è in casa. Pensa e ripensa decisero di offrire a
Lia del danaro.
— Ma si offenderà.
— Quanto siete semplice, padrona mia! Voi datemi il danaro; al
resto penserò io.
Tutto il giorno Belila dormicchiò nella sua camera, ove il caldo
faceva penetrare dall'attigua dispensa un odore di formaggio grasso
222 IL DIO DEI VIVENTI
e di conserve, e dal cortile la puzza della stalla; le mosche ronzavano
nel buio, gli i>assavano sulle mani e sul viso, gli destavano un brivido
nervoso; insistevano specialmente isulla mano malata e pareva voles-
sero penetrare sotto la fasciatura e succhiargli la piaga.
Egli dormicchiava, ma ogni tanto aveva l'impressione di cadere
dal letto e si svegliava di soprassalto. Non voleva alzarsi, non aapeva
neppure ìxà perchè; si sentiva cattivo con una voglia crudele di far
dispiacere ai suoi e specialmente alla madre, che ogni tanto veniva
a guardarlo a toccarlo a domandargli come stava.
— Fa molto caldo oggi, Bellia, è il primo giorno di caldo e
perciò sei stordito: ma febbre non ne hai; verso sera starai meglio.
Tuo padre tornerà dal podere e porterà i fichi e le mele dd San Gio-
vanni.
Avrebbe voluto dirgli « andrai anche tu fuori, nei prati, a ba-
gnarti i piedi nel fiume », ma desiderava ch'egli non si mettesse dav-
vero in mente l'idea di uscire : era bene ohe nessuno di casa uscisse
quella notte tranne la iserva.
Bellia pensava al podere, alla vigna e ai pascoli dello zio: là
tutto era fresco; i grandi alberi stormii vano al vento, le lepri corre-
vano rapide da un cespuglio all'altro con le orecchie dritte e gli occhi
spaventato. L'anno avanti, proprio di quei giorni, c'era stato con lo
zào: ricordava però che lo zio non lo conduceva con molto entu-
siasmo nella sua proprietà : pareva non volesse fargliela inutilmente
desiderare. E per questo egli l'aveva desiderata; non per il suo grande
valore, ma perchè era bella.
Ed ecco che era sua, e non poteva godersela. Pareva ohe il pu-
ledro maledétto l'avesse condotto là, quél primo giorno, come il ca-
vallo del diavolo per fargli vedere il paradiso e poi cacciarvelo fuori
per sempre.
Per sempre? Sì, per semipre; perchè lui aveva il presentimento
di morire presto. Si sentiva venir meno giorno per giorno come una
cosa che si scioglie, come oin fiore che appassisce; e podchè doveva
morire non amava pdù di muoversi, di vedere la luce.
Verso sera si sentì meglio come aveva predetto la madre. Il vento
di ponente rinfrescava l'aria cacciando via verso il mare l'afa e i
vapori ardenti; e da questi sorgeva la luna, dapprima gonfia e rossa
come avesse corso attraverso un deserto infuocato, poi sempre più
piccola e chiara, di un pallore di ghiaccio che si diffuse sulla terra
febbricitante.
E la terra si assopì in un sogno ohe risentiva ancora della febbre
del giorno; e ogni cosa ogni pietra ogni tegola del paese ogni canna
e ogni foglia dei prati prese una forma diversa e cominciò a lucci-
care o a farei nera, e a odorare.
La madre entrò nella camera di Bellia e apri la finestra: egli
rivide il cielo azzurro sopra la linea della tettoia nuova, sentì lo
scalpitare di un cavallo nella stalla e l'odore del fieno e dell'asfodeJo :
anche l'incubo si sollevò da lui e andò a volar fuori coi pipistrelli
del cortile.
— ■ Alzati, — disse la madre. — Adesso toma tuo padre e sai
come gli dispiace vederti così. Perchè vuoi farti ammalato quando
non lo sei?
Egli si alzò e uscì nel cortile.
IL DIO DEI VIVENTI 223
Sì, eg-li lo sapeva ohe il padre soffriva, che soffriva più di lui : da
qualche tempo non diceva più nulla, il padre, a proposito della mano
malata, ma parlava sempre di andare al mare. Ci sarebbe andato
anche lui. Andare, andare. Aveva una smania di muoversi, di andare
lontano; tutti i giorni scendeva al podere a lavorare coi servi e quando
tornava girava sempre per -il paese; pareva avesse paura di stare a
casa.
Ecco il passo della sua cavalla, nella, strada ove risona un brusìo
di voci femminili e un canto di bambini che ballano e giocano.
Tutta la gente del paese è fuori attirata dal chiarore del crepu-
scolo e della luna; e tutti sembrano pr^ da una specie di ubria-
chezza, tutti chiacchierano e ridono felici come se abbiano abbando-
nato per sempre i loro tuguri caldi e fetidi per abitare la grande e
luminosa casa della notte lunare.
Il cane si slancia a grattare il portone ed ha un mugolìo di pro-
testa perchè solo la casa dei suoi padroni è chiusa come una prigione.
Rosa lo chiama dall'uscio di cucina, gli parla come ad un uomo,
gli gitta da un piatto alcimi ossi che rimbalzano contro il selcialo
del cortile: ma anche lei è irrequieta, con gli occhi lucidi, e d'un
tratto sa slancia verso la legnaia con un urlo di rapina e afferra entro
il pugno una lucciola volante; poi va ad aprire al padrone.
Il padrone entra a cavallo nel cortile; la sua figura tutta nera ar-
riva fino alla luna che spunta sopra il muro e l'ombra sua e del ca-
vallo oscurano la notte ckivanti a Belila.
— Ck)me va? — grida, mentre Rosa con una mano gli tiene la
briglia e con l'altra stringe la lucciola.
Bellia ha veglia di rispondere :
— Male, muoio, son già morto.
Le sue labbra si rifiutano di parlare; il suo silenzio però è più
triste delle sue parole : e non lo scuote neppure il grido di Rosa che
guarda dentro la bisaccia del padrone.
— Sa icu, sa icu!
•
• *
Nessuno all'infuori di lei aveva veglia di godere di quei primi
frutti del podere. Zebedeo non mangiava mai frutta, percliè frutta
e dolci son cose da donna, e anche la moglie e zia Annda non erano
golose: e Bellia non aveva voglia di nulla; o sì, aveva voglia di cose
rare e se si riuisciva a procurargliele non le voleva più.
— Dovreste mandarlo al dottore, quel cestino di fichi, — disse,
quando la madre lo pregò di mangiarne. — Non gli mandate mai
nulla.
— Egli non ne ha di bisogno; ne ha più di noi.
— Che importa? È per fargli vedere che siamo grati. Tutti gli
mandano regali, e noi niente.
— Per quello che ti fa! — disse zia Annia.
— Mi fa quello che può, — rispose Bellia esasperato. — Non è
Dio, lui, per potermi guarire. Dio solo può guarirmi e Dio non vuole.
— Che hai stasera? — domandò il padre.
Ma ancora una volta Bellia non gli rispose. Pareva l'tì.vesse pro-
224 IL DIO DEI VIVENTI
prio con lui, col padre; e il padre lo sentiva e ne provava un'an^iscja
pungente.
— Ebbene — disse anche lui irritato, — se vuoi portarglielo, il
cestino dei fichi, portaglielo pure: altro che cestino di fichi ci vorrà,
per lui : cestino di monete, ci vorrà.
— E dategliele! Dal tenerle nascoste nel muro al darle a lui o al
diavolo è lo stesso.
— Se non stai zitto ti dò uno schiaffo, uno, ma uno!
— Che avete stasera tutti? Vi punge il diavolo con la lesina? —
disse la serva ricoprendo con foglie di vite il cestino. — Stasera in-
vece bisogna vivere con Dio: è la vigilia di San Giovanni; bisogna
lavarsi al fiume per battezzarsi di nuovo. Io ci vado.
— Tu faresti molto bene a stare a casa, — disse Zebedeo, — lo
sai ohe siamo in lutto.
E anche zia Annia espresse la sua opinione contraria al desiderio
della ragazza; ma quando sentì che lui invece, Zebedeo, sarebbe
uscito, corrugò le sopracciglia e cambiò parere.
Dove andava Zebedeo quando usciva così la sera? L'istinto non
la ingannava; e solo la sua grande prudenza e un senso di atteaa e
di cieca fede nella giustizia di Dio le impedivano di parlare.
— La padrona me lo ha promesso, non vado a far del male:
San Giovanni mi vede.
— Tu glielo hai promesso davvero?
La padrona era una donna passiva e debole e non aveva mai nes-
suna iniziativa; forse per questo si rispettavano da tutti di casa i suoi
pochi voleri. Rispose di sì, e Rosa ebbe il permesso di uscire.
*
• •
Prima di uscire andò a lavarsi i piedi nel catino di pietra ac-
canto al pozzo, perchè voleva tuffarli già mondi nel lavacro religioso
del fiume; poi salutò tutti come per un lungo viaggio e si avvolse la
testa nel fazzoletto nero che si tirò sugli occhi.
Belila uscì sul portone per spiarla, e vide ch'ella camminava ra-
sente al muro dove c'era l'ombra e non si mischiava ai gruppi delle
altre donne che andavano al fiume. Un desiderio di andare anche lui
coi fanciulli che correvano scalzi e con le ragazze che ridevano d'amore
lo prese alla gola, lo fece singhiozzare. Perchè non andava? Se an-
dava, se immergeva la mano nell'acqua del fiume forse guariva. Chi
gli proibiva di andare? Il lutto? Il male? La volontà del padre e quella
della madre? Egli conf.ondeva tutte queste cose in una sola, con ran-
core profondo. Ed ebbe voglia di ribellarsi, di uscire dalla prigione
della sua casa e della sua tristezza, di fuggire, fuggire.
Si mavvicinò all'uscio di cucina ma non entrò. Vide il padre che
fumava la pi{)a; fumava con rabbia stringendo forte fra i denti il
cannello e come cercando di velarsi il viso col fumo : vide la madre
che sbrigava silenziosa e furtiva le faccende che avrebbe dovuto far
Rosa; vide aia Annia che filava, distante dagli altri, grave e assente
come una parca: nessuno badava a lui. Lo tenevano dentro di loro,
e quindi lo credevano al sicuro; ed egli tornò al portone, lo chiuse
piano piano dal di fuori e se ne andò anche lui nella notte luminosa.
Il lume della luna era così chiaro che le cose si disegnavano più
I
IL DIO DEI VIVENTI 226
nettamente che alla loice del sole, più compatte, con un contrasto fra
il bianco e il nero ove non si sapeva quale dei due vincesse.
Anche dentro di sé Belila sentiva questo contrasto: ombra e
luce, dolore e gioia. Lo stesso pensiero del suo nuale e quello di es-
sere destinato a morire presto accrescevano questo suo senso di feli-
cità dolorosa. Perchè vivere a lungo? Per soffrire di più? Era già an-
noiato di tutto; ma perchè? ma perchè? Il perchè lo sapeva bene
anche lui, in fondo; sapeva che la vita oramai per lui aveva una
piaga come la sua, misteriosa e inguaribile, aveva la mano destra
morsicata dall'iniquità del castigo, e non valeva la pena di viverla.
Intanto camminava, nascondendo bene la mano entro il fazzo-
letto scuro perchè gli sembrava che la fasciatura bianca splendesse
alla luce; e senza volerlo anche lui raisentava i muri cercando l'ombra
come sulle tracce di Rosa,
E senza volerlo fece la stessa strada e coi passi delle sue gambe
lunghe fu per raggiungere la serva; ma vide ch'ella si volgeva in-
dietro sospettosa e anche lui per non essere riconosciuto si tirò in-
dietro, scantonò : ai fermò all'angolo della strada, poi tornò in avanti.
Rosa era sparita. La luna illuminava la casetta bianca la porta ver-
niciata la loggia della casa di Lia; e anche quella facciata, fra le
casette scure, aveva un chiarore strano come di luce propria.
BeUia ebbe subito il sospetto che Rosa fosse entrata lì : a far che
non sapeva: si sa mai quello che fanno gli altri? E d'un tratto fu
preso dalla necessità di sai)ere se Rosa era là dentro, e dal desiderio
di picchiare, entrare, assicurarsene.
Giunto alla porta non osò. In fondo aveva paura di Lia perchè
(x>me 2Jebedeo per Salvatore per lui quella donna rappresentava il
male.
Non picchiò, ma si divertì a urlare: un urlo usato dai pastori
per spaventare i ladri nelle notti di tempesta, gutturale e fischiante,
con una nota diabolica che pareva scaturisse di sotterra.
Poi corse di nuovo a nascondersi dietro un muricciuolo un po'
più avanti della casa di Lia.
Di là \ide Rosa uscire guardinga; la strada era deserta e la ra-
gazza stette un attimo incerta se andare avanti o tornare indietro:
andò avanti; arrivata al muricciuolo aprì il pugno, e dal pugno parve
abocciare un gran fiore bianco: un fazzoletto che eUa aveva rubato
a Lia,
Bellia saltò sul muricciuolo e ripetè il suo urlo, e parve il dia-
volo balzato fuori da ima scatola.
*
• •
Rosa si mise a correre in avanti a&nza. gridare. Mai aveva pro-
vato un terrore simile neppure al momento dell'incendio; il cuore le
saltava in testa, e le pareva di correre a cavallo tanto correva.
Si riebbe appena si trovò in mezzo a un gruppo di donne in fondo
al paese.
— Ho veduto il diavolo, — disse ansando.
— Non avete sentito il suo urlo?
— Dove, dove?
— Là... là... vicino alla casa di Lia.
226 IL DIO DEI VIVENTI
Le donne si misero a ridere.
— Sarà stato Sant'Antonio, invece.
Ridevano ma con brivido di paura; qualcuna propose di tornare
indietro per vedere il Diavolo, ma Rosa ricominciò a correre in avanti
esagerando adesso il suo terrore.
Altre donne e molti ragazzi si trovavano già nel sentiero che at-
traversa i prati dopo la chiesetta rovinata.
Il vecchio fabbro stava sotto la tettoia, ma quella sera non lavo-
rava: il chiaro di luna illuminava la sua officina e l'incudine aveva
un riflesso d'argento.
I ragazzi si divertivano a molestarlo ed ^li lasciava fare seduto
tranquillo come un eremita col rosario in mano, sullo afondo lunare
della sua tettoia.
In un attimo la notizia che la serva dei Barcai aveva veduto il
diavolo si sparse nel prato : i ragazzi attorniarono subito Rosa tiran-
dola per il grembiale e per le vesti finché non seppero tutti i partico-
lari; allora tornarono indietro di corsa tutti spavaldi ma uniti in
gruppo per farsi coraggio.
Nella strada investirono Belila che se ne veniva verso il prato;
anche lui era allegro; gli pareva di aver cacciato via di corjx) coi suoi
urli qualche cosa di malefico.
Arrivato in fondo alla strada ormai deserta perchè le donne erano
tutte andate in avanti vide una bambina ohe piangeva: sulle prime
la credette un bamibino, perchè aveva i capelli corti e un viso maschio,
ma fermatosi a chiederlo cosa faceva lì sola e come si chiamava la
sentì rispondere fra i singhiozzi :
— Ella Bella. Fratellini lasciato Ella. Correre. Diavolo. Paura
Ella.
— Vienii con me — egli disse prendendola per mano — non devi
star© qui sola. E tua madre ti lascia andare così?
— Uscita Ella. Fratellini lasciata.
— Ma tua madire dov'è?
— Casa.
— Ah, sei scajppata? Eh già, e io non sono scappato? Anche
mamma è in casa e non sa dove sono.
La bambina si lasciava condurre, anzi aveva smesso di piangere
e trascinava i suoi piedini nella polvere prendendo gusto all'avven-
tura.
E Bellia le stringeva la manina calda e umida di lagrime e le sem-
brava di stringere nel pugno un uccellino.
— Adesso troveremo qualche donna ohe ti riconduca a casa; ohi
sa quante ne prenderai staisera di sculacciate. Ma tante!
Ella approvava, pronta a tutto.
— Sculacciate Ella tante.
E d'un tratto si fermò, si chinò, diede un piccolo grido di gioia;
raccoglieva qualche cosa di meraviglioso.
— Fammi veder© : cos'hai preso?
Ella fece vedere ma con diffidenza, con paura che l'oggetto pre-
zioso le venisse portato via; era un pezzettino di vetro.
— Buona notte, zio Michele, — salutò Bellia davanti alla tettoia
del fabbro. — E che fate? Siete lì in agguato aspettando il passaggio
di un cinghiale? Venite a bagnarvi i piedi.
IL DIO DEI VIVENTI 227
Il vecchio lo guardò poi guardò la bambina che a sua volta lo
fissava incantata.
— È tua sorella?
— Magari! — esclamò sinceramente Bellia, — almeno mi di-
vertirei con lei.
— Figlio di chi sei?
— Di mio padre e di mia madre; — ma poi si pentì : — non
mi conoscete? Sono Giovanni Maria Barcai, figlio di Zebedeo.
— Cos'hai a quella mano?
— Un male. — E Bellia si meravigliò che da qualche momenta
non pensasse più alla sua mano.
— E questa bambina di chi è?
— Non lo so; credo dei Bellei. Era sola nella strada e l'ho presa
con me: cercherò qualche donna ohe la riconduca a casa.
— A casa, — ripetè Ella già un po' stanca e impaurita, e lo tirò
per la mano.
Allora egli la prese in braccio, sul braccio sinistro, e stette in-
certo se andare nel prato o tornare al paese.
— Dice ch'era coi fratellini, che l'hanno lasciata in mezzo alla
strada.
— E i genitori la lasciano andare così?
— Se non ci lasciano andare andiamo lo stesso! — egli disse
facendo saltare sul braccio la bambina : ed Ella ricominciò a diver-
tirsi; rideva e i suoi dentini e i suoi occhi parevano di perla. Due
fosisettine profonde le scavavano le guance rotonde dorate. Era bella
come un frutto, e nonostante le vestine sporche odorava di ciliegia.
Bellia sentiva voglia di morderla appunto come si morde un frutto,
per voluttà.
Perchè i genitori non gli avevano dato fratellini e sorelline? Gli
davano solo terre e terre, e lui si sentiva sfperso nel loro deserto.
Cominciò a giocare davvero con la bambina; si passavano la
guancia una sull'altra, si morsecchiavano, volgevano il viso fìngendo
di guardar lontano, di non vedersi più, e poi lo rivolgevano l'un
verso l'altro con un grido di sorpresa, per spaventarsi a vicenda.
Il vecchio li guardava.
— Quanti anni hai? — domandò a Bellia.
— Sedici.
— La creatura ne avrà tre. Sei troppo vecchio per poterla
sposare.
E Bellia provò un senso misterioso di gioia, come per una ri-
velazione. Sì, »poteva un giorno sposarsi, aver figli anche lui: ci
aveva ,pensato già qualche volta ma vagamente solo per calcolo o
per uno stimolo sensuale; adesso era altra cosa. Gli sembrava di
abbracciare nella bambina una donna ch'era insieme sua moglie e
sua figlia; che gli destava piacere e tenerezza assieme.
— La sposerò lo stesso! — gridò. — Vero che ci sposiamo? Mi
vuoi, Ella? Ti piaccio?
— Piace, Ella.
— Va bene; allora manderò zio Michele a chiederti in isposa
per me. Intanto, che facciamo? Andiamo al fiume?
— Sta qui, — disse il vecchio quasi diflBdasse a lasciarli andar
228 IL DIO DEI VIVENTI
soli, — torneranno i fratedLini a cercarla. Ecco due radazzi laj5giù;
forse son loro.
— Io non veglio dargliela più; l'ho trovata ed è mia.
Ella già profittava della sua .potenza; gli tolse il berretto e se lo
mise in testa.
— Rimettimi subito il berretto in testa!
— Noe.
— Subitol Altrimenti ti metto giù e ti faccio mangiare da zio
Orco; vedilo lì l'Orco; lo vedi?
Allora Ella reclinò la testina sulla spalla e lo guardò lusinghiera.
— Regali berretto Ella?
— Ah come sei furba! E prendilo (pure. Tanto tutto quello che
è mio sarà tuo.
Due ragcLzzetti intanto s'avanzavano, ma non erano i fratellini
di Ella; e non avevano l'aria di monelli; s'avanzavano con calma
discutendo di cose astruse; ed erano vestiti bene ben calzati ct.m posti
come se andassero a scuola.
Belila strinse a sé la bambma come per farsi riparo di lei contro
un pericolo indefinibile; perchè nel più piccolo dei diae amici rico-
nosceva Salvatore.
• *
Salvatore a sua volta lo riconobbe e si strinse istintivamente al
compagno' pareva che i due cugini più cht odio avessero paura
l'uno dtll '^Itro. E Salvatore sarebbe passato dritto senza essere mo-
lestato da Rellia se il compagno non si fo.sse fermato nel riconoscere
la bambina.
— Raffaella, che fai qui^
A Bua volta la bambina gli tendeva le braccia e lo chiamava
— Pape, pai^e, — perchè egli era un suo parente e sempre che la
vedeva giocava con lei.
Belila la stringeva forte sebbene il ragazzo non intendesse pren-
derla per non sciuparsi il vestito nuovo; Ella ci si divertiva; cominciò
a strillare e Salvatore guardò ostile e beffardo il cugino.
— Ma mettila giù — disse l'altro ragazzo, — perchè la tieni così?
— La tengo così perchè mi pare e piace, — rispose Bellia fis-
sando con odio Salvatore.
E avrebbero litigato senza il sopraggiungere di altri ragazzi fra
i quali i fratellini di Ella: anch'ossi volevano la bambina, ma questa
si era di nuovo attaccata al collo del suo salvatore e non intendeva
di lasciarlo.
Allora 1 fratelli, affannati per la corsa, proposero im accomo-
damento; andare tutti assieme in compagnia al fiume; e Bellia si
lasciò trascinare, con la bambina in braccio. Era il più grande e il
piiù alto di tutti; la sua ombra lo seguiva lunghissima sull'erba grigia
del prato ed egli sentiva Salvatore, che gli veniva appresso, diver-
tirsi a calpestare quell'ombra.
— Fa pure, — diceva fra sé; — ma la roba di zio Basilio ce
l'ho io.
IL DIO DEI VIVENTI 229
I raga25zi parlavano del diavolo apparso a Rosa e uno affermava
di aver veduto una « puppa » (1) dietro un muriociuolo.
— Ma va alla Mecca! — disse beffardo il compaio di Salva-
tore, e bastò questo per farli tutti ridere. Le loro voci stridevano nel
silenzio del prato fra il coro dei grilli; Bellia solo taceva e pareva
il padre di tutti; e sarebbe stato felice, col dolce peso della bambina
sul suo petto e sull'omero, senza l'ombra di Salvatore sulla sua om-
bra: e tinche Salvatore pensava che se fosse stato solo a fare quella
passeggiata, avrebbe potuto poi svolgere un bel tema « La notte di
San Giovajini » col quadro di quei prati fantastici ove ogni stelo
scintillava e cantava, dove i fiori dei cardi e dell'asfodelo parevano
rose e gigli, dove le fanciulle legavano con nastri di seta i cespugli
del tasso per segnarne la proprietà e coglierne all'alba i fiori per gli
amuleti; e la bontà del cielo stesa sulle cose terrene.
Finalmente arrivarono al fiume ridotto a un filo di acqua con
pozzanghere qua e là stagnanti fra gli oleandri fioriti sul greto che
I>areva ima strada sabbiosa e fresca.
II chiaro di luna, l'incrociarsi delle ombre con le macchie e i
cespugli, gli sfondi azzurri e argentei, le figure che camminavano
scaJze sulla rena e andavano a bagnarsi le mani il viso i piedi e a
farsi il segno della croce con l'acqua corrente, tutto infine, dava al
luogo una bellezza fantastica.
Rosa si riallacciava le scarpe seduta per terra sul margine del
fiume quando vide Bellia con la bambina in braccio e appresso Sal-
vatore. Sognava? 0 impazziva quella notte?
— Bellia! — gridò balzando nel gruppo dei ragazzi che si strin-
sero intomo a lei interrogandola di nuovo sull'apparizione. — Ma
sei Bellia davvero? E perchè sei uscito? E perchè hai quella creatura
in braccio? Sei diventato pazzo?
— Sono uscito per vedere dove andavi, — egli disse aspramente,
irritato perchè lei gli parlava in quel modo davanti a Salvatore. E
lei si fece bianca in viso, stralunò gli occhi e cadde ripiegandosi su
se stessa come si fosse d'un tratto vuotata.
Era svenuta. I ragazzi si scostarono, fecero un circolo intomo a
lei; nessuno osava toccarla. Ma già accorrevano altre donne; le tol-
sero il fazzoletto di testa, le sciolsero la cintura e le spruzzarono il
viso d'acqua. Ella non rinveniva, bianca alla luna come un cada-
vere; e Bellia, che aveva messo giù la bambina, guardava ansioso
per paura che fosse morta. Anche Salvatore si sporgeva a guardare,
ma con una curiosità fredda e beffarda: fu lui a raccogliere il faz-
zoletto nero da testa e un piccolo fazzoletto bianco che le donne
avevano lasciato cadere dalla cintura di Rosa.
— É svenuta perchè ha veduto il diavolo, — dicevano i ragazzi :
— adesso è certo che l'ha veduto.
— Ma statevi zitti! Ero io che volevo farle paura, — gridò Bellia.
Quel grido parve scuoterla: sospirò, aprì gli occhi.
Salvatore taceva : sapeva già tutto, lui, perchè la madre lo aveva
mandato nella sua camera mentre confabulava con Rosa; e aveva
sentito l'urlo, di fuori; e adesso capiva tutto. Taceva perchè il mae-
stro gli aveva insegnato così : ma si accorse che il fazzoletto bianco
(1) Fantasma.
230 IL DIO DEI VIVENTI
con un'S rossa era un fazzoletto ch'egli aveva dimenticato sulla ta-
vola di calcina, e se lo rimise in tasca; poi lo trasse di nuovo e lo
buttò davanti a Rosa assieme col fazzoletto nero, col gesto di uno
<3he butta una borsa d'oro.
• •
Dopo quella notte anche Rosa cominciò a star male. Invano ri-
corse di nuovo alla donna ohe sfaceva «la medicina dello spavento»;
lo spavento le rimaneva nel .sangue, la faceva svegliare di sopras-
salto e sobbalzava ad ogni fruscio, ad ogni sofRo d'aria. Ogni giorno
verso sera le veniva un po' di febbre, e dimagriva a vista d'occhio
afflitta da un male interiore indefinibile; aveva l'impressione di do-
ver fare sempre qualche cosa ohe non riusciva a fare; di dover cer-
care una cosa smarrita. o restituire una cosa rubata.
Il fazzoletto! Lo teneva ancora lei, sotto il guanciale; e sognava
di vederlo ingrandire, ingrandire, diventare un lenzuolo, il lenzuolo
che l'avvolgeva che le dava tanto caldo ohe la stringeva fino a sof-
focarla.
Alla padrona disse di aver perduto il fazzoletto nel trambusto
dello svenimento; ed era una specie di vendetta contro Bellia.
Una notte i padroni furono svegliati dalle sue grida: da^pprima
Zebedeo credette fossero entrati i ladri in casa e balzò nudo dal
letto, si armò di fucile e corse nelle scale : ma di giù Bellia gridava
per rassicurar^ i genitori :
— È quella pazza che sogna.
Anche lui s'era alzato, del resto, tutto in sudore coi capelli irti :
poiché il rimorso di aver spaventato la radazza e d'essere causa del
suo male lo agitava, e i gridi di lei gli parevano l'eco del suo urlo
diabolico.
E i gridi continuavano. In breve tutti di casa, andie zia Annia,
furono nella camera della serva. Ella stava seduta sul suo lettuccio
basso disfatto : piegata su se stessa si tirava in giù le trecce lunghe
come due corde nere.
Quando i padroni la circondarono cominciò a dondolarsi tutta
esclamando :
— Gh© ho veduto io! Che ho veduto io! Che ho veduto io!
— Avrà sognato l'inferno, — disse Bellia deridendola; perchè
aveva l'impressione ch'ella recitasse una commedia.
La ragazza cadde in ginocchio sempre tirandosi in avanti le
trecce che arrivavano fino a terra; e cominciò a piangere.
— Ho sognato che morivo, — raccontò poi, calmata dalle sue
lagrime e dalle carezze che la (padrona le faceva sulle spalle; — il
Rettore in persona era venuto per confessarmi; sebbene anche lui
agonizzante; s'era alzato, per venire a confessarmi : mi mostrava tre
immagini e in una vedevo bene le anime del purgatorio e nell'altra
il diavolo che portava sulle spalle un grappolo d'uva nera e ogni
acino era un peccatore, ma la terza non riuscivo a vederla, era come
un vetro toccato dal sole che non si lascia guardare e avevo paura
di essa. Il Rettore mi disse: è l'immagine di Dio; se chiudi gli occhi
la vedi bene. Io chiusi gli occhi, ma vidi solo i miei peccati, e co-
minciai a confessarmi. Ho rubato ai padroni, mi sono compiaciuta
IL DIO DEI VIVENTI 231
del loro male e li ho calunniati; se non potevo altro dicevo ohe non
mi davano da mangiare o che erano avari e superbi mentre è il con-
trario; ero la loro nemica domestica eppure fìngevo anche a me stessa
di essere ima buona serva. Sono andata a rubare un oggetto dalla
casa di Lia per disfare la malia da lei fatta al mio padrone piccolo.
Ho rubato un feizzoletto; ma poi non l'ho dato alla mia padrona; non
l'ho dato per cattiveria, per vendicarmi dello spavento procuratomi
da Bellia: e sono contenta del male di lui perchè lui ha causato il
mio male; ma anche perchè è il mio padrone. Ma non trovo pace:
ho ipaura di morire e che il giorno del giudizio Dio riveli ai miei
padroni quello che ero io.
I padroni ascoltavano, stupiti e silenziosi come fossero davvero
nella scena del giudizio universale; Bellia era un po' beffardo seb-
bene turbato anche lui mentre la madre sentiva voglia di inginoc-
chiarsi accanto alla serva e piangere con lei, e Zebedeo provava un
senso confuso di paura : gli sembrava che la serva fosse pazza : solo
una pazza può fare così. E zia Annia in fondo con la sua grande
figura nell'ombra pareva giudicasse tutti come il fantasma del tempo.
Rosa continuava:
— Il Rettore allora mi disse: i tuoi peccati non sono grandi;
sono peccati comuni a tutti gli uomini; ma il tuo peccato grande è
quello della finzione : farti credere 'quello che non sei. Spagliati
della finzione e Dio ti perdonerà ti aiuterà ad essere migliore e con
questo ti renderà la pace. Allora tu riuscirai a vedere l'immagine
di Dio. Poi aggiunse : perchè il giudizio universale è su questa terra
a tutte le ore e Dio non è il Dio dei morti ma il Dio dei viventi. Al-
lora ho cominciato a strillare per farvi accorrere e dirvi tutto.
Sospirò profondamente poi si piegò a terra e baciò il pavimento.
I suoi gesti erano composti, adesso, calmi e coscienti : si sollevò,
gettò indietro sulle spalle le trecce, baciò la mano alla padrona.
Teneva la testa bassa e gli occhi chiusi.
Bellia tentò di scherzare.
— E adesso lo vedi, Iddio?
Ma il padre lo respinse e ritirò bruscamente la mano che Rosa
gli baciava.
•
Questa scena impressionò vivamente Zebedeo. Egli non era stato
mai un uomo eccessivamente religioso, ma onesto e quasi vanitoso
della sua rettitudine, con un fondo di suiperstizione : quella super-
stizione paesana tradizionale tìhe supplisce tante volte alla religione
vera.
Di giorno in giorno si convinceva sempre più che Dio lo casti-
gava per l'appropriazione ingiusta dei beni del fratello; ma non per
questo si decideva a restituirli : anche perchè sapeva che il mondo
anziché approvarlo avrebbe riso di lui. E i suoi affari andavano male,
il raccolto delle fave e dell'orzo ch'era una delle sue maggiori ren-
dite fu scarso e di qualità scadente; quasi tutto il bestiame ereditato
dal fratello era morto d'afta epizootica. È vero che moriva anche il
bestiame degli altri proprietari ma questo non lo consolava. Del resto
quello che lo tormentava di più era il male del figlio, la piaga ohe
232 IL DIO DEI VIVENTI
non si chiudeva; ogni tanto si ripeteva l'ascesso e bisognava tagliare
di nuovo; e il carattere di Bellia diveniva strano, con alternative
di torpore e d'indifferenza, di nervosità e di cattiveria. Si parlava
sempre di far venire un professore o di condurre Bellia da lui; si
aveva però soggezione del Dottore. Il Dottore poteva offendersi e
diventare un nemico pericoloso; già si mostrava ostile perchè non
venivano eseguite le sue ordinazioni; allora si pensò seriamente di
condurre Bellia. al mare; di là si poteva fare una scappata in città
e consultare il Professore senza ohe nessuno venisse a sa^perlo.
Zebedeo scrisse ad un suo amico che possedeva una casa in riva
al mare; l'amico offrì subito ospitalità: bisognava però che i Barcai
si contentassero di due camere e una cucina perchè il resto era oc-
cupato dalla famiglia dell'ospite.
L'idea di cambiare vita sollevò Bellia; anche la serva rideva da
sola per la gioia, poiché non aveva mai veduto il mare e lo imma-
ginava tutto liscio e quadrato come uno specchio.
Alla madre invece il pensiero di muoversi dava quasi un senso
di angoscia; il viaggio le sembrava interminabile pieno di difficoltà
e pericoli, e il mare le destava terrore; aveva paura che Bellia s'an-
negasse, ma ap'punto per essergli sempre vicina, per sorvegliarlo e
salvarlo da ogni male era pronta ad andare anche nelle altre parti
del mondo.
La sera prima della partenza Zebedeo andò a trovare Lia.
Nonostante il caldo la porta e la finestra erano chiuse; Lia lavo-
rava accanto al lume e Salvatore leggeva, questa volta però leggeva
un giornale e con grande attenzione.
Egli s'era abituato alle visite di Zebedeo, sapeva che Zebedeo
portava denari alla madre e trovava tutto naturale; e in fondo al-
l'anima sperava che in un modo o nell'altro lo zio gli avrebbe resti-
tuito i beni del padre : quindi aveva sospeso di giudicarlo pure guar-
dandolo come attraverso un velo nero.
Zebedeo sedette al solito pK>sto, senza che nessuno lo invitasse;
guardò il giornale e domandò che notizie c'erano.
— Finalmente hanno fatto la pace, — rispose List. — Era tempo.
— Sì, è tempo che il mondo si rimetta in ordine, — egli disse
e gli pareva di parlare suo malgrado. — Non vedi che anche il tempo
pare diventato pazzo? A primavera abbiamo avuto un caldo terri-
bile e adesso dopo tutto quel vento indiavolato dei giorni scorsi
fa quasi fresco. I diavoli girano per il mondo.
— Chi sta dentro casa come me non se ne accorge, — ella disse
sempre con un senso nascosto nelle sue parole; — per chi è povero
e lavora il tempo è sempre eguale vale a dire senmpre brutto, — ag-
giunse con un lieve sorriso che lasciò vedere i suoi piccoli denti di
faina. — Meno male ohe si aspetta sempre il tempo bello.
Zebedeo si sentiva continuamente mordere dalle parole di lei e
gli sembrava di odiarla. Senza il fanciullo una volta o l'altra l'a-
vrebbe strangolata, ma il fanciullo era sempre lì quieto dritto e
luminoso come la fiammella del lume: l'uomo si rivolse a lui:
— Ebbene, che faranno adesso questi accidenti di tedeschi? Sta-
ranno a casa loro finalmente; e meno male si rimetteranno a lavo-
rare, rifaranno aghi con la punta buona, e per te Salvatore l'inchio-
stro buono, e aspetteranno anch'essi il bel tempo.
IL DIO DEI VRTENTI 233
Salvatore rispose serio:
— Faranno invece la rivoluzione, e la faranno fare a tutto il
mondo.
— Non ci manca che quello! E il tuo maestro cosa dice?
— Io non l'ho più veduto perchè sono stato esonerato da tutti
gli esami e dal giorno di San Giovanni non vado più a scuola.
— E allora, prendi, comprati le ciliege.
Aveva pescato dal taschino del suo corpetto, ove teneva alla
rinfusa i denari, una carta da cinque lire e gliela porgeva. Salvatore
guardò la madre e a un cenno d'assentimento di lei prese il biglietto,
ma lo mise sulla tavola fermandone un angolo col lume.
Zebedeo osservò che quella mano era magra e bianca e non osava
dire che il domani la sua famiglia andava al mare perchè gli sem-
brava che anche Salvatore aveva bisogno di cambiare aria.
— Di tuo marito non hai saputo più nulla?
Pareva ch'ella aspettasse questa domanda perchè smise di cucire,
si raddrizzò sulla schiena e lo guardò dritto neeli occhi.
— Sì, ha scritto ancora proprio ogsri. Io non eli avevo risxx)sto,
ma pare srli abbia scritto maestro Michele il fabbro: che cosa gli
abbia scritto non so; ma la lettera di Pietro Paolo adesso è curiosa :
non posso fartela le'^gere perchè l'ho data ad un'altra persona per
chiederle consisrlio. La lettera di Pietro Paolo. — riprese scandendo
le parole — è tutta piena di Dio. Dice che si sente ogni giorno venire
meno le forze e che ha paura di morire presto. E mi domanda per-
dono di tutto : dice di sapere eh© il ragazzo ha preso buoni punti
e che se ne rallegra; e infine conclude così : o muoio in breve e la-
scerò tutto al ragazzo o campo e se tu lo credi lo assisterò negli studi.
Zebedeo si sentì battere il cuore. Sollievo? Vergogna? Invidia di
Pietro Paolo per il suo atto generoso? Tutte queste cose assieme e
assieme il dubbio che Lia mentisce iper provarlo. Ma no, non era
possibile che ella mentisse davanti a suo fielio.
— A chi hai dato la lettera? Si può sapere? — domandò un po'
geloso.
— Al Rettore. Sta male, il Rettore, vomita, vomita sangue; ma
appunto perchè sta per morire ho fede in lui e farò quello che mi
consiglierà. Se lui me lo consiglia vado anche ad assistere Pietro
Paolo.
Zebedeo ricordò il sogno di Rosa e d'un tratto gli venne voglia
di andare anche lui dal Rettore. Eppure si mise a parlar male di lui.
— È da cento anni che sta per morire e non si decide mai.
È troppo attaccato ai denari per potersene spiccicare. Bisogna sen-
tire quello che il Dottore dice di lui.
— E lui, il Dottore, chi lo giudica? — replicò Lia con asprezza.
— Anche tu saprai un giorno chi è il Dottore.
— Oh io l'ho bell'e giudicato! Siamo nel mondo per questo;
per giudicarci gli uni con gli altri come nel giorno del giudizio uni-
versale.
— Sarà Dio, allora, a giudicarci.
— Dio ci giudica tutti i giorni, — egli disse ripetendo le parole
del s(^no della serva, — perchè Dio non è il Dio dei morti ma il Dio
dei viventi.
16 Voi. OOXVn, eerte VI — 1* aprile 1922.
234 IL DIO DEI VIVENTI
E dette queste parole si senti il coraggio di aggiungere, come
cambiando discorso :
— Domani andiamo al mare. Bellia ne ha bisogno, e la madre
lo accompagna perchè ha paura che gli accada qualche disgrazia.
Andrò ad accom'pagnarli; poi tomo qui: non posso trascurare gli
affari, che vanno male. Tutto va alla malora quest'anno. E adesso
anohe i servi sembrano punti dal diavolo: non hanno voglia di la-
vorare e chiedono il doppio di paga. Anche i fratelli gemelli che sono
nel mio podere non sembrano più loro : onesti fino allo scrupolo,
erano, e laboriosi: adesso stanno sdraiati all'ombra e imprecano se
io laccio loro qualche osservazione.
E stava per dire come aveva loro perdonato il debito verso il
povero Basilio, ma ne ricordava la causa e si vergognò.
Grazu Deledda.
{Continita).
GIOVANNI VERGA
Lo conobbi una diecina d'anni or sono, a Catania, nella sua casa
semplice e signorile: libri, qualche segno d'arte alle pareti, e la
sua figura canuta, ma diritta e giovanile, in un'atmosfera di luce:
una gran luce di primavera. Semplice e signorile anch'egli, come
tutto attorno; e la sua voce cordiale, patema, come le frasi che gli
venivano alle labbra, schiette, limpide, incisive, piene d'esperienza
^ di saggezza. Pensavo, ascoltandolo, a un padron 'Ntoni colto e
cittadino, e lo stesso p)ensiero ebbe un giovine musicista, che m'era
compagno in quella visita.
Lo rividi frequentemente per alcuni giorni. Una volta, chieden-
dogli che cosa preparasse, mi rispose:
— Attendo finalmente a un'opera bella: faccio l'anmiinistratore
dei miei nipoti.
Era, nel sorriso bonario, la tranquillità della sua coscienza
d'uomo e l'intima gioia — mi si lasci dire siciliana — dell'oscura
x)pera familiare che compiva.
Ma un'altra volta si rabbuiò e uscì, insolitamente, in queste
parole:
— Per chi dovrei scrivere? Di ciò che ho scritto sopravvive sol-
tanto la Cavalleryi rusiicana, né per virtù mia, ma di Pietro Ma-
scagni. Le porto, quelle paginette, come un cappio al collo.
Amarezza, ma dignitosa, rassegnata, indulgente.
«Per chi dovrei scrivere?». Giovanni Verga si sentiva, ed era,
dimenticato. Alcuni sì, ma pochi, che ne sapevano appieno il va-
lore, ne pronunziavano il nome con reverenza, e scrivendone, lo
chiamavano maestro: l'autore di Mastro don Gesualdo, l'autore de
/ Malavoglia. Voci sperdute, che sembrava non ci fosse più posto
in Italia per quel nome: guizzava di tratto in tratto, qua e là, e
spariva rapido, per anni. L'Italia era occupata e assordata da un
altro nome ben più celebrato, Gabriele D'Aimunzio; da altre op^re
più lette e in ben altro tono esaltate, quelle di Gabriele D'Annunzio,
grande scrittore anch'egli, ma di altra razza. Gcibriele D'Annunzio
aveva, senza volerlo, c«c<;iato nell'ombra lo scrittore siciliai.o. il
quale stette in quell'ombra, magnifico nel suo sil-^nzio pensoso, ad
amministrare il patrimonio de' suoi nipoti.
Né agli Italiani, poi, si può dare torto di quell'inconcepibile
oblìo. Raro mutano le predilezioni e i gusti del pubblico, e fra due
scrittori di natura sì radicalmente diversa quali il D'Annunzio e il
Aderga era indubitabile che l'uno dovesse oscurar l'altro. E Gabriele
236 GIOVANNI VERGA
D'Annunzio oscurò Giovanni Verga, che ne era rantitesi. In tutto.
Sempre così, più o meno, in casi analoghi, se diamno uno sguardo
— ma non voglio istituire raffronti, badiamo! — alle vicende della
nostra storia letteraria: dall'Alighieri possente e ignudo — quasi
dimenticato fra i seguaci e i ripetitori di Francesco Petrarca polito
e fioriti) — . a Giacomo Leopardi, possente e ignudo, sommerso dal
romoi-e che sollevavano le strofe di Vincenzo Monti, constellate d'im-
magini e di pomposa sonorità. Voglio dire che sembrò povero agli
Italiani l'autrre de / Malavoglia e di Ma^ibro don Gesualdo): povero,
legnoso, ispido rispetto alla magnitìcenza letteraria e stilistica di
Gabriele D'Annunzio. Nel D'Annunzio acutezza e sapiente sfoggio
di analisi, delle carni e dello spirito, nel Verga un succedersi inin-
terrotto di scorci e di sintesi rivelatrici; nel D'Annunzio un lussu-
reggiare abbacinante di coiori e di splendori, nel Verga assenza del
più lieve tocco descrittivo, che non sprizzi dal dramma stesso che
si svolgo; nel D'Annunzio la linea è la musicalità incomparabili del
suo fastoso periodare, nel Verga un linguaggio semplice, umile, che
sgorga improvviso coi sentimenti delle sue creature; nel D'Annunzio
la sua prepotènte e iuN^adente personalità etica ed estetica; nel Verga
nessuna traccia di lui, invisibile nella vita assoluta dei suoi perso-
natrgi; nel D'Annunzio l'amore nelle sue manifestazioni più com-
plicate e sensuali, nel Verga nessun compiacimento di passioni mor-
bose: accenni esrenziali e giù nelle anime: amore in quanto deter-
mina un dramma; il dramma di qiK'L'annore; Gabriele D'Annunzio
presente, sempre, col romanzo vario e interessante della sua stessa
vita, Giovanni Vergia assente, sempre, quasi non esistesse, o mai fosse
psistito. La grande massa del pubblico — - uomini e donne, maschi
e femmine — non potevano che dimenticarlo, e lo dimenticarono per
decenni. E Icr dimenticarono anche la maggior parte dei critici. « Per
chi dovrei scrivere?».
I critici. L'ho già detto: «grande scrittore» e via, con viva e
frettolosa ammirazione. Molti di essi non sapevano perdonare forse
a Giovanni Verga la lingua e la sintassi da lui adoperate. Passando,
in verità, dal.a scuola con la sua categorica precettistica a — per
esempio — / Malavoglia con l'apparente dispregio dei più venerandi
precetti scolastici che ad ogni pagina vi si osserva, non è a meravi-
gliare se si resti, sulle prime, perplessi e disorientati. Dove un « bel
periodo», non so, latineggiante e solenne nella sua soda ed ampia
architettura, e coi verbi, con gli aggettivi collocati sapientemente
così e così? Dove un saggio solo di quella tal cosa, che scolastici e
accademici dotti e severi addimandano stile fiorito? Siamo, in un
certo senso, al senno nisticus. Fiori, sì, ouanti volete coglierne, ma
di cam.po, di bosco; fiori selvatici, che mettono inaspettatamente fra-
granze e tinte — macchie d'oro, macchie vermiglie — tra zolla e
zolla, tra pietra e pietra, tra quercia e quercia, in mezzo a ortiche,
a felci, sul muschio, ai crepacci delle vecchie case: le anime vergini
ne hanno una gioia ineffabile, non cosi le persone ingentilite nelle
consuetudini delle città civili e popolase e che prediligono, su tutti,
i rari e aprpariscenti fiori di serra. E poi, a dirla proprio come sta,
pareva fossero nel vero, allorché alcuni giudicavano asintattica la
GIOVANNI VERGA * ' 237
prosa di Giovanni Verga. Bisog^nava intendersi, però: intendersi un
po' con Fautore; più, anzi, che con lui, con le creature de' suoi ro-
manzi.
Il problema infatti, è tutto qui. È arbitro uno scrittore di pre-
stare uno stile prestabilito o il suo proprio stile alle creature della
sua fantasia? Altri l'ha fatto e vi persevera tra larghi e vivaci con-
sensi. Giovanni Verg-a, nel meglio della sua opera, no. Gliene hanno
fatto, nei modi più rispettosi, un torto; ma il torto, a rifletterci, era
più dei censori che dello scrittore, il quale, nonostante tale censura,
ed anche — vorrei dire — per la ragione ond'essa è nata, prende
posto fra i maggiori maestri dell'arte narrativa. Fra i maestri — ri-
peterò cose d'un mio discorso sul Verga — che non eccellono soltanto
nel tempo in cui vivono, ma che stampano orma inc-ancellabile nella
storia letteraria d'un popolo. Letteraria, dico, per intenderci, che
Giovanni Verga è il meno « letterato » fra qu-anti novellatori, roman-
zieri e commediografi son degni di questo nome; ma io non so quanti
letterati abbian dato all'arte opere di compiuta bellezza come quelle
sbocciate dalla fantasia creatrice di Giovanni Verga. Penso a Benve-
nuto Cellini, che non essendo letterato, lasciò una prosa di persona-
lissimo stile e che s'impronta — agile, nervosa, fremente — della
sua vita stessa. Né fu letterato Carlo Goldoni, pel quale ancor oggi
l'Italia può vantare un teatro comico. Teatro, come il romanzo, come
la novella, è fondamentalmente e innanzi tutto vita di anime : creare
persone vive, ciascuna delle quali, nel pensiero e nell'atto, obbedisca
a una propria legge, a un particolare ritmo interiore determinato da
una somma di sentimenti sp>esso fra loro in contrasto e che cercano
di prevalere l'uno sull'altro, che un'anima umana è già in se stessa
un campo di lotta fra la ragione e il sentimento, fra sentimenti di-
versi, se non pure opposti; un campo di lotta fra quel tanto d'ani-
malità e quel tanto d'umanità che si combattono dentro ciascuno di
noi, e l'uomo, spiritualmente ed eticamente, non è se non il risultato
di questa lotta sorda e incessante, per la quale egli oscilla perpetua-
mente tra il bene e il male — il dramma fino al suicidio o al parri-
cidio — ; tra il parere e l'essere — la commedia fino alla risata più
schietta e all'umorismo più amaro; e in tanto ci si rivela il suo
carattere, in quanto l'atto, la parola, il suo urlo, i suoi silenzi ci
fanno avvertire, volta a volta, nel modo più diretto e immediato,
quel che c'è dentro. Attraverso una frase, una parola, un urlo, una
pausa, poter dire: avviene questo, e così dev'essere, perchè que-
st'uomo è fatto così, e dunque deve proporre questo, risponder que-
sto, far questo; è naturale che gioisca, è naturale che soffra, e che
faccia gioire, o che faccia soffrire, e che si appigli al bene, o che
generi il male, che si uccida, o che uccida. Avvertire continuamente
la presenza del carattere, giacché allora soltanto una creatura d'arte
è viva e vitale, allorché si compie, cioè si individua, in un carattere.
Carattere : segno esteriore logico — il più intonso e caratteristico —
di ciascun attes-giamento interiore che la creatura d'arte assume in
ciascuna contingenza della realtà; e, insieme, la risultante logica di
tutti gli atteggiamenti che essa è venuta assumendo nelle varie con-
tingenze della realtà : logica, naturalmente, rispetto alla particolare
psicologia di quella data creatura, inconfondibile con la psicologia
di un'altra: don Abbondio, nella sua miracolosa analisi, o, non so.
238 • GIOVANNI VERGA
Francesca, nella sua sintesi miracolosa. Contenuto, finalità etica,
lingua, tutto è accessorio e secondario. Creare iimanità : è questo il
presupposto della compiutezza e dunque della vitalità della novella»
del romanzo, del dramma, del poema. La letteratura italiana ha
poemi melodiosi di bei versi e di nobilissimo eloquio, ha novelle e
romanzi di elegantissimo stile, lia comedie e tragedie dall'impecca-
bile periodare e magari spigliate nel dialogo e ricche di quella mer-
cantile virt-ìi che si addimanda effetto teatrale, ed ha poemi, novelle,
drammi dove con generosità di propositi, son trattati gravi problemi
sociali, ma cosa morta. Lo scrittore, coi suoi gusti letterari, con le
sue tendenze filosofiche, col suo ideale civile, politico, umanitario
deve annullarsi nella vita assolutamente libera e indipendente dei
suoi personaggi: padre e insieme estraneo delle sue creature. Più
egli fa sentire la sua presenza, meno logica è la vita di quelle crea-
ture, che non saranno più loro, ma il loro autore; il quale con questa
sua intrusione, potrà svolgere, sì, una tesi filosofica o sociale a lui
cara, potrà colorare, cesellare o scolpire irreprensibili pagine di
prosa, potrà dimostrarsi il galantuomo, il birbone, lo stilista o il
purista che egli è, ma avrà ucciso il carattere dei suoi personaggi.
Pochissime, a contarle, le opere che hanno vinto il tempo, e lo hanno
vinto soltanto quelle opere, nelle quali lo scrittore è riuscito alla
creazione del carattere. E Giovanni Verga vincerà il tempo, perchè
nelle persone della sua fantasia ha sempre trasfuso un'anima. Vita dei
campi. Novelle rusticane, I Malavoglia, Mastro don Gesualdo, Dal
tuo al mio, sono un mondo, o tanti piccoli mondi, dove ad ogni passo
ci imbattiamo in esseri viventi, ciascuno con la propria fisonomia,
con la propria anima, con le proprie passioni, le quali si estrinsecano
non altrimenti, se non obbedendo con fedeltà vigile e inesorata alla
legge del carattere. Nell'atto della creazione lo scrittore più non
esiste, esistono creature, dentro, nella sua fantasia, che si atteggiano,
che si muovono, che parlano. E si atteggiano, si muovono, parlano
in quel dato modo, non perchè voglia così lo scrittore, ma perchè
così avviene dentro, nella fantasia; lo scrittore diventa quasi spet-
tatore: le osserva, le segue, le ascolta e viene segnando sulla carta:
segna quelle parole, che sostanzialmente debbono esser quelle e non
altre, perchè così quelle creature si esprimono e perchè così espri-
mendosi — e così solo — sono nella loro legge. Quei vocaboli, quella
sintassi, quello stile insomma. In questo senso, sì — colore, calore —
lo stile è l'uomo. leli il pastore non può esprimersi diversamente,
non può esprimersi diversamente Nedda, né padron 'Ntoni, né com.-
pare Alfio Mosca, né Mena, né Rosso Malpelo, né la Lupa, né mastro
don Gesualdo. Direi quasi che ogni carattere umano rechi in sé, coi
propri sentimenti e con le proprie passioni, i vocaboli e la sintassi
per esprimerli. 0 il carattere si altera. Massima aderenza tra il sen-
timento e la parola e la sintassi, onde quel carattere si esprime:
parola che non vesta, che non adomi, che non si sovrapponga, che
quasi non si avverta, perché ignudo più che si possa ci giunga il
sentimento nel suo manifestarsi, ignudo e vivo e caratteristico quale
esso rampolla alla scaturigine prima.
È quel che è avvenuto, salvo differenze estrinseche, nei pochi
creatori di caratteri, fino al Manzoni, del quale Giovanni Verga è
consanguineo. Meno, se v<^liamo, euritmico e certamente meno let-
GIOVANNI VERGA 239
terato, ma i difetti della sua opera migliore sono compensati da un
senso di freschezza insolito da secoli nell'arte narrativa italiana:
l'apparizione nella nostra letteratura di Vita dei campi e di Novelle
ruslicane parve l'improvviso irrompere d'un primitivo, che mirasse
uomini e cose con occhi e con anima nuova, e tutto impregnato, tutto,
a dir così, insaporato di muschio, di sole, di salsedine. Per questo
rispetto Giovanni Verga trova i suoi simili tra i novellatori più rap-
presentativi deUa letteratura russa.
Poche 'parole spenderò su quel tale verismo, dal cui tronco non
pochi critici vollero germogliasse l'ultima opera, cioè la definitiva,
di Giovanni Verga, che la sua prima produzione si confonde senza
quasi personalità con la produzione romantica, che infestava l'Italia,
annegandovi. Verista nel significato attribuito a questa parola Gio-
vanni Verga non fu mai. Egli stesso, del resto, lo aveva detto. Dopo
qualche periodo che si colorava del linguaggio critico di quel parti-
colare momento storico, Giovanni Verga scrisse : « Intanto io credo
che il trionfo del romanzo, la più completa e la più umana delle
opere d'arte, si raggiungerà allorché l'affinità e la coesione di ogni
sua parte sarà così completa, che il processo della creazione rimarrà
un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane; e che l'armonia
delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così
evidente, il suo modo e la sua ragion d'essere così necessari, che la
mano dell'artista rimarrà assolutamente invisibile, e il romanzo avrà
l'impronta deira\"venimento reale, e l'opera d'arte sembrerà essersi
fatta da sé, aver maturato ed essere nata spontanea come un fatto
naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore; che
essa non serbi nelle sue forme viventi alcuna impronta della mente
in cui germogliò, alcuna ombra dell'occhio che la intravide, alcuna
traccia delle labbra che ne mormorarono le prime parole come il
fiat creatore; ch'essa stia per ragion propria, pel solo fatto che è come
dev'essere ed è necessario che sia, palpitante di vita ed immutabile
al pari di una statua di bronzo di cui l'autore abbia avuto il coraggio
divino di ecclissarsi e sparire nella sua opera immortale » .
Parole di chiarezza solare e nelle quali è tutto De Sanctis e tutta
l'opera di Giovanni Verga. Non asservirsi, dunque, supinamente al
vero, come era vezzo di molti cosi detti veristi, ma creare opere che
sembrino « essersi fatte da sé » « come un fatto naturale » e che stiano
« per ragion propria ». Non trasportare nell'opera d'arte il vero quale
esso cade sotto i nostri sensi, ma — che è ben altro — attraverso « il
misterioso processo della creazione» riuscire ad opere d'arte, che
rechino il segno della vita reale. Implicitamente è proclamata la ne-
cessità dei caratteri umani. I critici, intanto, per decenni : « maestro
del verismo! ». Classificavano e via, paghi d'avere sentenziato, non
curando di approfondire se novelle come leli àJ pastore o romanzi
come / Malavoglia nel loro lirismo drammatico tanto più intenso
quanto più contenuto non costituissero per avventura il fatto lette-
rario più squisitamente spirituale dell'epoca in cui sorsero, fuori e
sopra ogni andazzo di scuole, di « maniere » e di mode fugaci. Ghe
se questo del Verga fosse verismo, veristi sarebbero tutti quanti i
creatori di caratteri, da Omero a Sofocle, da Shakespeare ad Ales-
sandro Manzoni. Ma ecco: il verismo, come tante altre «maniere»,
240 GIOVANNI VERGA
è tramontato da un pezzo e l'opera definitiva di Giovanni Verga è
e resterà lì, col popolo delle sue creature che gioiscono, che soffrono,
che invocano amore, pietà o morte con voci che saranno eterne, per-
chè immutabile per mutare di eventi sarà il cuore dell'uomo e iden-
tico, tra mutevoli circostanze esteme, il dramma travaglioso del-
l'umana esistenza. Popolo di creature: Nedda, leli il pastore. Rosso
Malpelo, mastro don Gesualdo, la Lupa, Nanni, compar Alfio, San-
tuzza, Turidu — giacché quel che son venuto dicendo della novella
e del romanzo vale pel teatro di Giovanni Verga — e tutti quanti i
Malavoglia, lì, con in centro padron 'Ntoni, e attorno la sua famiglia,
nella « casa del nespolo » con le loro piccole gioie e coi loro grandi
dolori — chi nasce, chi muore — ; ed esseri buoni ed esseri cattivi
s'innestano nella vita intima di quella famiglia di lavoratori, che il
sogno iniziale d'un domani men di!ro segna d'un sinistro fato: esseri
buoni, esseri cattivi, tutto il villaggio parla, ciarla, pettegoleggia, si
muove, vive la sua vita oscura e caratteristica mescolandola conti-
nuamente — onda nell'onda — con la vita di Bastianazzo, della
Longa, di 'Ntoni, di Luca, di Mena, di Alessi, di Lia e del caipo di
quella famiglia, padron 'Ntoni, il vecchio pescatore, il dabben uomo,
che fa la volontà di Dio e pronunzia parole di saggezza, levandosi
ognor più vivo ed alto tra le ventate nemiche, che scuotono la « casa
del nespolo » — casa dèi Malavoglia — e « la Provvidenza » — la
barca dei Malavoglia — : vive, l'una e l'altra, come creature umane.
Tutto il bene, tutto il male della famiglia passano per quel vecchio
cuore e si propagano per le viuzze, per le casette del villaggio, che
ne riecheggian tutte; e bene e male, eventi lieti o tristi, la figura del
vecchio domina gigante, su tutti : sulla famiglia e sul villaggio. E
più il fato si accanisce e fa strazio della carne e del nom© dei Mala-
voglia — e il villaggio comenta e ne partecipa, sempre — più gigan-
teggia la figura biblica di padron 'Ntoni, che mai sembrò così alto
e gigantesco come il giorno in cui, all'ultima mazzata di quel sinistro
fato, lo si vede piegare, grande arco logoro, su se stesso per non
drizzarsi mai più. Spentosi padron 'Ntoni, sembra sia spenta la fami-
glia intera e che anch'esso il villaggio si spenga, tanta la rispondenza
— simpatia o repulsione — fra tutte quelle anime, fra tutte quelle
vicende, fra tutte quelle cose: vita molteplice ed una: d'uomini,
d'eventi, di luoghi, animati, tutti nell'attimo stesso, come fronde
d'una selva al maestrale, senza mai una discontinuità, senza mai
una pausa che non fosse piena di significato. E se qua e là son tocchi
descrittivi del cielo, della terra, del mare, si ricongiungono alla vi-
cenda tragica come elementi essenziali di essa: la natura che par-
tecipa agli eventi : quei faraglioni ferrigni e selvaggi, nella notte
paurosa del naufragio, hanno anima e voce umana. E così l'ululo
del mare. E tutte le pennellate così, sempre: non decorazioni descrit-
tive, ma vibrazioni della tragedia. Romanzo, sì, tragedia di sempli-
cità e di potenza greca, ma — insieme, come già ebbi ad osservare —
sinfonia dai temi innumerevoli, ciascuno in sé netto e chiaro, ma
che si fonde e si confonde con gli altri, conferendo ad essi e riceven-
done eloquenza più viva: questo romanzo illustre è anche uno scoh-
finato organismo sinfonico.
Non so quante altre opere l'arte narrativa italiana possieda così
gagliarde, compiute e originali.
F. P. Mule.
RICORDI DAL MARE
A TOMMASO QALLABATI SCOTTI.
Pensando a lei, nel 1918, scrissi d'Alessandro Pperio il primo di
questi Ricordi; e tornando a lei con affettuoso pensiero m'avviene ora
di raccoglierli tutti. Ma il pensiero del terzo va anche al professore
di Storia del Cristianesimo, Ernesto Buonaiuti.
I primi due sono dei due più insigni poeti italiani del secolo xix
combattenti per la libertà della patria e morti combattendo; il terzo
è del gran Padre e Dottore africano del secolo v, che consacrò l'in-
gegno e la vita, purificandosi, alla giustizia e alla vita della Città di
Dio e, facendola paragone alla Città del mondo, ne descrisse le ori-
gini e le vicende nei secoli. A Lei dunque, che ha combattuto a fianco
del generale Luigi Cadorna, e al sacerdote romano che professa la
storia di quella divina Città peregrinante nel mondo, essi vengono
naturalmente, come di uomini che sentirono l'umanità intera, e però
aprirono il cuore « alle acque della Pace », che (come confessa Dante)
« dalleterno Fonte son diffuse ».
II primo scritto è ricordo d'Alessandro Poerio : raccoglie cioè il
segreto della sua vit^ e della morte affrontata nella difesa di Venezia
e avvenuta il 4 novembre 1848; e particolarmente, negli ultimi versi,
porta alla luce il presagio che ebbero e la madre di lui e lui un lùese
appunto prima ch'egli cadesse nella sortita, di Mestre del 27 ottobre.
La madre, il 22 settembre, gli scriveva da Napoli : « Questa notte ho
sognato che eri entrato nella mia stanza. Ti sei seduto sul mio letto.
Mi parevi di perfetta salute; ma solo, afflitto e piangente per una let-
tera che avevi in mano. Ti sei accinto a leggerla mettendo gli oc-
chiali fissi. Io ti confortavo a tranquillarti, dicendoti che nei tempi
presenti bisognava esser superiore a qualunque dispiacere. Il mio di-
scorso è stato tanto energico che mi ha fatto destare senza poter sa-
pere cosa conteneva la lettera; ma tu stavi bene, ed eri curioso con
gli oc<!hiali fissi ». Il sogno della madre eroica era vero; perchè, tre
giorni dopo ch'ella ne scrisse, Alessandro, che non aveva ancora rice-
vuto la lettera di lei, comp>oneva que' suoi ultimi versi (che Vittorio
Imbriani pubblicò come Voce dell'anima) ai quali affidava veramente
la « voce libera e divina » che gli annunziava la morte imminente, e,
con l'idea della « vera eternità » e con quella della « sventura, gentile
espiatrice », lo preparava ad affrontarla con coraggio e allegrezza
242 VERSI
senza la « superba vanità » che gli avrebbe chiuso il cuore allo Spi-
rito di Dio.
Ippolito Nievo, il poeta garibaldino, e veramente combattente
con Garibaldi, nella guerra del '59 e nella spedizione dei Mille, è ri-
cordato qui principalmente com'erede, per gli affetti e le idee, dei
Martiri di Belfiore. Poiché egli, poco più che ventenne, partecipò alla
cospirazione mazziniana, che portò uno di quegli uomini alla fucila-
zione e dieci alla forca, ed ebbe da loro, e particolarmente da Enrico
Tazzòli, Tito Speri e Pier Fortunato Calvi, il ricordo incancellabile
deWallegra morte, che fu luce al desiderio profondo dell'anima sua,
raggio di Dio che gl'illuminò la vita; ma, come qui si dice, egli ebbe
anche in quella prima gioventù inoculato il veleno del dubbio su-
perbo e della menzogna che confonde l'uomo con Dio, che altera mor-
bosamente e gonfia di presunzione lo spirito umano, e che a lui fece
mancare il terreno stabile, la ferma pietra, su cui corre la ferma via
della vita vera. Egli che, mosso dall'esempio degli Undici presente
sempre al suo spirito, aveva fatto solenne proposito di vita integra e
austera per prepararsi alle battaglie della Patria, nel giorno deside-
rato si trovò, non libero della mente e del passo, ma servo de' suoi
istinti e dei sensi, schiavo d'una funesta passione d'amore, legato di
«roseo laccio » funesto a una vita che non poteva esser sua. E questa
fu la causa della sua morte immatura e paurosa, poiché, dopo es-
sersi esposto alle imprese più arrischiate « per andar incontro alla
morte », l'ansia di rivedere la donna che lo aveva rapito a se stesso,
lo fece fatalmente, a Palermo, salire suWErcole, legno oramai impo-
tente a reggere il mare, che affondò con tutto il suo equipaggio e i
passeggeri, probabilmente nelle acque di Capri, la mattina del
5 marzo 1861.
Nulla dico del terzo ricordato dal nostro mare, che bagna il lido
tirreno e Sardegna e Sicilia: dove S. Iacopo in Acquaviva ricorda
il suo passaggio dinanzi alla Gorgona, Ostia il sublime colloquio
con la Madre impendente die quo ex hac vita erat exitura, Cagliari
la sua stazione tra Italia e Africa, e Siracusa l'esempio di Lucia,
della vergine magnanima che a lui, a Tommaso d'Aquino e a Dante
svelò il segreto dell'animo forte e dell'intelletto chiaroveggente di-
nanzi al martirio dell'ignominia patito senza il consenso della mente :
miai or animus, com'egli disse nella Città di Dio (I, 22), qui pò test
judicium vulgare prae conscientiae luce ac puritate contemnere. Né
aggiungo parole a spiegare come il « Vate d'Eleusi », cioè Eschilo,
ai Greci e agl'Italici antichi, e « Giacomo » Leopardi agl'Italiani mo-
derni, siano testimoni della storia funesta delle colpe umane che
risale, secondo l'espressione di Virgilio, alla prisca fraus, e come
anch'essi abbiano veduto, non meno di Dante, la fiumana paurosa
che corre tra le fosche ombre della valle della morte, a differenza
dai filosofi superficiali che considerano l'uomo quale dev'essere e non
qual è.
VERSI 243
Ippolito Nievo.
Dalle acqtte di Capri,
Figlio del mare, Ippolito, l'invito
da te mi vien, di qui con te posare,
qui presso il Fiume del Perdono, al lito
sacro che dato non ti fu toccare.
Ti vedo, escluso dal volgar convito,
regger puledri indómi e saettare,
e cercar libertà nelllnfinito
oltre l'immensa linea del mare.
Ahi, perchè, come serpe, in sé rivolto
si chiuse il cuor? né l'infinito Bene,
né l'alta Verità patria del core
Ti si svelò nell'ineffabil volto
di Chi dal legno, sotto ingiuste pene,
il grido t'insegnò dell'Uom che muore?
II.
Pur non freddo chiaror fosforescente
di lucciolette per campestre via,
ma ben destava in te, fanciullo ardente,
lo spirito di vita un'armonia.
Se ti parlavan lungo il rio corrente
fiori di solitaria prateria,
o il sol che in grande incendio cadente
fuor da nembosa nuvola s'avvia.
Ma un dì, stanco del non curar di tutti,
ai ciechi istinti del tuo cuor ti désti
che ti travolser via nella bufera.
E il mare irato, coi giganti flutti
rovesciò seco il legno a cui credesti
e chiuse te nell'alta notte nera.
244 VERSI
III.
Ma quando il tuo gelido corpo accolse
l'inviolato talamo profondo,
forse in alba celeste a te si volse
l'angel che vide Calvi moribondo.
E d'un sorriso il doloroso sciolse
nodo, che ti stringeva al triste mondo;
ma lo spirito incerto si raccolse
e tremò d'esser nudo e vagabondo.
Quand'ecco, al senso dell'arcano segno
raggiante di martirio e di vittoria
nel fondo del tuo cor come in sua stanza.
Il Re t'apparve dell eterno Regno:
dolce allor fu del bene la memoria,
e l'ali lampeggiar della speranza.
IV.
Mare, profondo mar, terribil mare,
sì procelloso nell'adriaco seno,
che il mistero di Dio, senza svelare,
narri col sol cadente nel Tirreno,
Apriti al Re trafìtto e fagli altare
il fondo ove ora vive il Giel sereno!
Ei della Città eterna al limitare
far via l'abisso sa, col suo baleno.
La Madre d'Agostino, un dì gemente
or sorridente ali ineffabil Riso,
e quella d'Alessandro a Mestre infranto.
Con la Madre che or sul Mincio sente
il fìgliuol suo dagli occhi suoi diviso,
offron per lui di mille madri il pianto.
VERSI 245
V.
E, come stelle, nel divin fulgore
venner gli undici martiri all'amico.
Disse, tornato sacerdote, Enrico:
— Da Lui la Vita, dal regal suo cuore. —
E Piero : — Solo, Egli è Liberatore;
ombre i re vostri, ombre d'un sogno antico.
E Tito: — Il primo Amore io benedico,
che m'insegnò come d'amor si muore.
E come può con le sue forze inferme
edificar la Patria, o Amore eterno,
l'uom che g'alza e ricade, ignudo verme?
Ben distruggere può, schiuder l'inferno. —
Vinto il tuo cuore a Lui si diede inerme,
e ti fu via l'abisso al dì superno.
Aless?^ndro Poerio.
Dall'isola di S. Angelo a Venezia.
l.
Certo vi fu. chi della tua sventura
ebbe pietà, non so se in terra o in Cielo,
e il cuor, che la virtù superba indura,
intenerì, sciolse di morte il gelo.
«Ascolta, o Padre, l'umil créatura
dal fondo del suo cuor piagato e anelo!
dammi il fuoco che purghi ogni sozzura!
ecco: la piaga mia più non ti celo».
Allor vedesti l'ineffabil volto
di Lui ch'ebbe pietà, che tutto volle
patire, e aperse ai miseri le braccia;
Allor dal gelo il duro cor fu sciolto,
e pura per rossor, di pianto molle,
allor celasti sul suo cuor la faccia.
246 VERSI
II.
E attingesti a quel palpito potente
il Ver che dà di libertà l'aroma,
che le virtù del cuor fiaccate e spente
e dal giogo del mal l'anima doma
Rende alla vita: e quell'ardor lucente
lieve ti fece la tua dura soma,
e dal sonno levò te combattente,
rese lo jonio cuor figlio di Roma.
Allor sentisti il pianto del fratello
che il Tedesco stringea senza difesa,
sgombro alfin delle nubi aride e vane.
Cadesti. E un popol del tuo sangue bello
nacque, fedele a immacolata Chiesa,
che sola abbraccerà le genti umane.
III.
Fratello, oh come torna dolce al forte,
per te, la voce libera e divina
di Chi ti disse un dì : — Soffri e cammina,
entra con Me nell'ombra della morte. —
Quel dì, mirar con le pupille assorte
la fatai carta, o mente peregrina,
la Madre tua ti vide, la eroina
cieca dinanzi a quelle oscure porte.
Ella non lesse, tu leggesti : il fato
tuo, di Venezia, dell'Italia madre,
la Voce santa scritta era in quel foglio :
— Alba del Ciel la morte e arcano amato;
ma ahi, per mani fratricide e ladre,
quanto sangue a purgar l'antico orgoglio! -
VERSI 247
Agostino di Tagaste.
Dal mare tra Cagliari e Cartagine, da Ostia
tiberina, e da s. Jacopo in Aequaviva a Li-
vorno presso l'antico Porto pisano.
I.
Nato dell'arsa terra ove Cham cela
le piaghe e l'onte (ahimè!) del suo peccato,
tu il Mister, che di favole si vela
lungo il Nilo e l'Ilisso, hai meditato,
E la luce, onde al cuore Iddio si svela
Padre, hai coi i>adri italici ascoltato:
ond'Ei ti trasse all'Uom che il Ver rivela,
amante più d'ogn'altro ed. odiato.
Or le genti onde Roma ebbe il governo,
colme le valli e umiliati i monti,
queirUom raccoglie tutte in un Ovile;
mentre barbari nuovi un nuovo inferno
fan della terra. Oh tu schiudi le fonti
del Vero a noi col tuo romano stile!
IL
E te condusser due celesti Scòrte
fuor dell'empia città della sozzura.
La Madre, che del cor t'aprì le porte
a presentir la voluttà ventura;
E la sicula Vergine che, forte
di coscienza nella luce, e pura,
non paventò l'ignominiosa morte;
ma nell'ardor di carità sicura
Il giudizio volgar sdegnò serena.
Esse l'occhio ti dièr, che le lontane
acque del mare senza fondo sceme
E il rio fuggente tra l'accesa arena:
e udisti il pianto delle cose umane
fugaci, e il canto delle cose eterne.
248 VERSI
III.
Veleggiava tornando il mare immenso
e il sol mirava al fin del suo viaggio;
ma, quando in mar si spense ogni suo raggio,
e si velaron cielo e mare al senso,
— Eccomi sol con te — disse — che penso,
invisibile Oceano in cui viaggio,
a cui son terra e cielo in lor passaggio
come al sol lieve nuvola d'incenso. —
E pregò pace dopo tanta guerra
ei, che conobbe irrequieto il core
fin che non ponga nell'Eterno stanza,
E passò peregrin sopra la terra
da un'esultanza piena di tremore
a un dolor grande pieno di speranza.
IV.
— Ch'io mi conosca e te conosca! — Oh grido
che mandò dalle viscere profonde,
Monica, il tuo figliuolo. E gli risponde,
esperta e umil, dal suo più caldo lido
Italia madre: ed ecco, dal suo nido
d'Aquino, un Sol che luce e ardore effonde;
ecco salir dalle beate sponde
sotto l'occhio di Dio, veggente e fido,
Vico, che il carme delle antiche leggi
e dell umana storia il corso arcano
raccolse, a onde, e in nuovo libro scrisse.
Tu che dai legge a ogn'uomo e il mondo r^gi,
tu Lume aggiungi al fioco raggio umanol
E lui beato che in tal Lume vissel
VERSI 249
V.
— Ch'io mi conosca e te conosca! — E vide
quel che il Vate d'Eleusi avea già visto:
l'uom sotto il pungol di colui che uccide
pagar del fuoco il temerario acquisto.
Ebra d'un sogno che bugiardo ride
offrir di sé diletto breve e tristo
vide la donna; e furie omicide
temprarie il sozzo vin di fiele misto.
Vide quel che tu, Giacomo, vedesti
ix)i che dalla vietata arbor funesto
frutto d'amare lacrime cogliesti.
Ma sulla croce di Prometeo, mesto
Uomo pietoso dei fratelli mesti
vide, e Dio lo adorò, venuto a questo.
VI.
E vide, come in tenebroso seno,
il cuor dell'uomo nell'error sommerso,
e frutti uscir maligni di veleno
dalla radice dell'amor perverso.
Vide, spezzato di ragione il freno,
• ciechi istinti rapir via di traverso
lui, che nei piedi, nelle man, nel pieno
petto, il coltello avea del male immerso.
Luogo d'infermità gli si scoperse
il mondo, e cupa valle ove alto suona
nel fondo il fiume della colpa umana...
Ma nuova luce al palpito s'offerse:
infinita Bontà ch'ama e perdona
rende ai mesti il sorriso e li risana.
7 Voa. COXVII, serie VI — ,1* aprile 1922.
260 VERSI
VII.
Qual dei mortali vide Iddio? Risplende
vago infinito Bene anche all'infante
che cerca il latte: e l'alta nota rende
la mente al Padre nel suo primo istante,
e intende e sa, sorriso e amor!... Ma offende
solo in sé stesso il cuore; ajhi, solo ostante
trova sé stesso al Cielo, e a sé contende
la Vita sua, la Luce inebriante.
Volgiti, 0 cuore! esci di te! che sei
misero, ed hai nel fondo una ferita
fetida, ch'é del male aperto segno.
Guarda il volto dell'Uom giusto tra.i rei;
mira la Via, la Verità, la Vita
in Lui: t'affida! avrai la pace e il Regno.
Vili.
Qual dei mortali vide Iddio? ma splende
alba di Vita e tema al desiante,
eco del Cielo; e il santo Nome rende
la mente al Padre, tacita adorante.
Oh beato colui che ode e apprende
e viene a te. Sole velato, amante,
e ti conosce, ed adorando prende
il vivo Pan dalle tue mani sante!
Padre! chi sa la Fonte della Vita?
il mistero del tuo Verbo nei Cieli
e l'infinito Amor ch'è Vita eterna?...
Verità, l'amor tuo Gesù m'addita,
e il Figliuol tuo. Tu, Padre, in Lui riveli,
il Verbo tuo che terra e Ciel governa.
VERSI 261
IX.
Oh beata Colei che il dolce Frutto
portò nel grembo, Madre immacolata!
che nel suo cuor l'immenso umano lutto
raccolse, e offerse alla Giustizia amata,
Ostia Ella accetta e puro specchio in tutto
della Giustizia a Dio figlia increata
che, a restauro dell'alto ordin distrutto,
in Lei vestì la carne desiata.
Oh beata la Donna umile e pura,
desiderio dei secoli gementi
e principio d'un novo ordine d'anni!
La Pia che rende all'uom l'alta ventura,
la cui dolce Beltà splende alle genti
visione di pace tra gli affanni.
X.
E viva dello Spirito, nel mondo
va peregrina e nell'esilio spera
la celeste Città, ch'Egli dal fondo
leva a quel Sol di nova primavera.
0 Sol che irradii e muovi il cor profondo,
che ci dai pace in mezzo alla bufera,
spira quel Fuoco tuo dolce, giocondo,
di pianto è di sorriso, di preghiera
E di virtìi, che scioglie il piede al passo,
la mano all'opra, e non è stanco mai
finché al tuo Cuor la tua Città raccoglie;
Che la toglie dal mondo orrido e basso
alla Vita che Tu, Tu solo, dai,
ed in divina libertà si scioglie!
252 VERSI
LA LUCE CHE CREA.
A im picxol» naseiUiro.
Onde verrai? nel sangue gentile che forma il tuo velo
quale Parola spira un raggio oh'è riso di Cielo?
Quando la prima voce dedl'inquieto desio
dica che un cuore umano è, vivo alla luce di Dio,
E il ben che lo quieti e il latte d'un tepido petto
fatta più forte ohiajni; ohi mosso avrà l'intelletto?
Quando alla Mamma, prima, vedendola, sorriderai,
per quale arcana luce dirà quel lampo, che sai?
Quando, due voci in una congiunte in un nome, volgendo
l'occhio, ah babà dirai, con canto novo e stupendo.
In quale arcano Nome ohe ancor non sai, ma che senti,
fiderà l'intelletto degli occhi sicuri e ridenti?
E quando il pianto e il grido faran risonare la stanza,
quale desìo deluso diran, quale ignota speranza?
Pianto e sorriso, oh voce, oh luce dell'anima, oh amore
d'un ineffabil Bene del sempre trepido cuore!
Oh spirito anelante, volente una gioia infinita,
te il Nonno dolce orante chiamò desiderio di Vita.
Le voci che la lingua pronunzia fedele, l'amore
congiunge, fuoco vivo tornante all'ignoto Fattore
Che è la Vita, il Bene che illumina ogn'uomo, con voce
di Luce, onde la sua creatura a sé riconduce.
Luce di Vita ignota che illumini ogn'uom veniente...
di dove?... e peregrino... a quale Patria?.-, e morente,
Luce, ineffabil Luce, che Amor solo sa, radiante
in me, che a me mi sveli infermo e lontano vagante,
Luce, Parola eterna. Bellezza ineffabile, crei
Tu sola, e per Te siamo, per Te pensiamo, che SEL
Vien, creatura nova, infante che parli e che sai...
Che sai?... nulla del mondo, che poi pur troppo vedrai.
Ma pur ti chiami Amtore, ma pur ti movi ed ascendi,
e amor parla dal Cielo con voce che al Padre tu rendi.
Giulio Salv adori.
LE SCOPERTE ARCHEOLOGICHE
DEL PROF. INNOCENZO DALL'OSSO A MONTE MARIO
Per avere un'idea chiara della importanza singolare delle sco-
perte fatte sul colle di S. Agata, a nord di Monte Mario, dal prof.
I. DciirOsso, scoperte di cui più o meno esattamente hanno parlato
i quotidiani di Roma, sarà bene premettere — per istruzione del
grande pubblico — alcune brevi notizie sui popoli che occuparono il
territorio di questa parte del Lazio, e su gli avvenimenti preistorici
che prelusero il sorgere di Roma.
Due popoli di razza diversa erano stanziati sui monti e sui colli
su cui poi doveva svilupparsi il popolo latino: gli Aborigeni (curo
ÒQoq Yirve<T&ai ), nati sui monti (identificati negli Ausones, Osckis,
Enotri) e gVItalici. I primi, di origine achea-micenea, imttnigrati
dalla Grecia nell'Italia meridionale nell'epoca del bronzo, sarebbero
risaliti (cfr. Timeo, Antioco, Filisto) dalla Campania nel Lazio al-
l'epoca della caduta di Troja (xn a. G.) e occuparono la riva destra
del Tevere. Essi per insediarsi in queste loro nuove sedi ne avevano
espulsi i Siculi, popolo dell'età della pietra, dei quali si sono sco-
perte le sepolture a scheletro rannicchiato a Sgurgola, Gantalupo,
Mandela, ecc. I secondi, gl'Italici, occupanti i colli Albani, popolo di
origine nordica (forse Europa Centrale) con l'esclusivo rito della cre-
mELzione, provenivano dalla Valle del Po — derivazione dei popoli a
, cui sono attribuite le terremare emiliane — e si erano stabiliti nel
LcLzio, secondo il Pigorini, verso il 1000 a. C.
Gli Aborigeni risalendo, come si è accennato, dall'Italia Meri-
dionale forse lungo il tracciato antichissimo della Via Appia, ave-
vano attraversato il Tevere a Tor di Quinto, ove il Tevere è più
stretto, e, dopo una breve tappa in località Due Ponti — ove si sono
rinvenuti parecchi avanzi di materiale analogo a quello ora scoperto
a S. Agata di Monte Mario — avevano lungo il torrente di Acqua-
traversa (spurgo del lago di Bracciano) asceso il colle e si erano fìs-
sati sull'estremo pendìo del Gianicolo « Longo Janiculi jugo » [Mar-
ziale, Satire). Ma qui comincia la guerra d'invasione degli Etruschi
contro i popoli del Lazio. Gli Etruschi, che erano un popolo di origine
orientale proveniente, secondo Erodoto, dalla liidia, già evoluto tanto
da avere un'arte propria e una costituzione politica quasi perfetta,
sviluppatissimo nei commerci esercitando relazioni di affari con
tutti i maggiori popoli dell'oriente, forte di potenti armi, maestro
di guerre, concepirono un vero piano di occupazione delle sedi la-
ziali. E gli Etruschi di Vejo — città fìorentissima, a poco più di 10
km. dal Gianicolo — assalirono da nord-ovest gli Aborigeni e li re-
264 LE SCOPERTE ARCHEOLOGICHE DEL PROF. INNOCENZO DALL'OSSO
spinsero sliUa sinistra del Tevere occupando le antiche sedi dei vinti;
da sud-est gli Etruschi di Caere (Cerviteri) si spinsero contro gli
Italici di Alba, i quali invocarono l'aiuto degli Aborigeni. In tal guisa
questi due popoli di razza, diversa, ma stretti ora da uno stesso peri-
colo, popoli semplici viventi di pastorizia, vedendosi incalzati da
uno stesso nemico più forte, si unirono in alleanza e per difendere le
loro antiche e fertili sedi e per infrenare le continue rapine, stabili-
rono di costituire un vero propugnacolo sul Palatino, che fu occu-
pato dagli Albani, da cui nasce la leggenda cihe Roma sorga da una
colonia di Albalonga. Questa ipotesi — o meglio deduzione — si
fonda sul fatto che tanto la famosa necrofKìli arcaica rinvenuta dalla
sagace dottrina di Giacomo Boni nel sottosuolo del Foro, alle falde
del Palatino, e l'altra dell'EsqUilino, dovuta agli antichi abitatori del
Quirinale, gli Aborigeni, respinti colà dagli Etruschi, non risalgono
oltre il IX sec. a. G. Non basta, perchè nella necropoli del Palatino
si sono trovate tombe di rito misto, cioè, cremati (forse gli Albani) e
inumati (forse gli Arcadi di Evandro, che si erano stabiliti su quel
colle sin dall'età del bronzo). Ora la necropoli dell'Esquilino (Abori-
geni) non ha mostrato che sepolcri ad inumazione distesa, secondo
il rito preellenico.
In conclusione : verso il 1000 noi abbiamo questa situazione : Sul
Gianicolo e su' monti Albani gli Etruschi che stringevano i popoli
della valle centrale del Tevere in un cerchio di ferro, gli Aborigeni
sul Quirinale, gli Albani sul Palatino.
Venuto a Roma il prof. Innocenzo Dall'Osso, circa un anno fa,
chiese ed ottenne da S. E. Rosadi — e va dato merito grandissimo
all'illustre parlamentare — di iniziare ricerche sulla Roma primi-
tiva. Si conoscevano le necropoli degl'Italici sui colli Albani per gli
scavi eseguiti a Gastel Gandolfo ed a villa Gavalletti, ma nulla si sa-
peva ancora delle sedi e delle necropoli degli Aborigeni.
Il Dall'Osso, con geniale intuizione, rivolse subito le prime inda-
gini sul Gianicolo, per il fatto che lo stesso nome dato al Colle in
onore di Giano assumeva per lui un significato specifico. Nelle Mar-
che e negli Abruzzi, campo esteso e fecondo di scoperte per l'illustre '
archeologo, come vedremo in altro articolo, aveva osservato che do-
vunque si fosse scoperta qualche necropoli od abitato preellenico, ivi
sd avevano tracce del culto di Giano (fiume Giano, monte Giano, Fa-
briano [da Fhater Janus], S. Patrignano, ecc. ecc.). Era quindi assai
probabile che il Gianicolo, colle di Giano, conservasse tracce dello
stanziamento di popoli preellenici. Iniziò quindi sul basso Gianicolo,
a Monte Verde, le sue ricognizioni, ma, non essendovisi fatti rilevanti
movimenti di terra, i frutti furono scarsi e insufficienti. Però, avendo
saputo che sul colle di S. Agata, prolungamento del Gianicolo, a nord-
ovest di Monte Mario, si compivano dei grandi lavori di sterro per
l'edificazione delle case- destinate al personale delle Poste « Casa No-
stra », il Dall'Osso andò a vedere, se avesse potuto trovar tracce si-
gnificative per i suoi studi. E il suo intuito archeologico fu allietato
da pieno successo, perchè ricercando tra il terriccio di scarico, ri-
trovò dei frammenti di vasi antichissimi di argilla dipinta, di bue-
caro etrusco, e di quell'impasto rozzissimo, detto italico, fatto di
grossolana argilla oonuniista a tritumi di rocce, impasto che dagli
A MONTE MARIO 256
archeologi viene fatto risalire all'ultima età del bronzo o ai primis-
simi tempi del ferro.
Il Dall'Osso non ebbe più dubbio sulla esistenza in quei paraggi
di un abitato preistorico di quell'epoca; e proseguendo attentamente
. le ricerche, s'imbattè in certi tagli, eseguiti sul terreno tufaceo, a V,
tagli riempiti di terriccio scuro con cocci di varia epoca.
Esaminati bene questi scavi, seguitone la varia sezione, pre-
sane la lunghezza, larghezza e profondità, ne dedusse che que' tagli
dovevano costituire dei fossati di capanne preistoriche. Però il Dal-
l'Osso, messa innanzi simile ipotesi di lavoro, volle spiegarsi la na-
tura di quel genere di scavo affatto nuovo, non trovando lì per lì plau-
sibile che quelle specie di trincee, profonde da 3 a 5 metri, senza
un piano di posa, potessero aver servito da abitazioni. Ma prose-
guendo nelle osservazioni notò una serie di fatti che chiarirono il
suo presupposto. Furono, innanzi tutto, trovati qua e là i piani dei
focolari, conservanti ancora tracce di cenere e carboni, poi i buchi
per i pali, allineati lungo i margini dei lunghi tagli a V, non solo,
ma quel che valse a dare la completa spiegazione di quel genere di
capanne, fu un dente scavato lungo tutto il p)ercorso dei due tagli *■)/-' ,
dente sul quale il nostro archeologo capì che dovevano poggiare le
testate delle travature di legno, che riunite dovettero costituire gli
assiti della lunga e ampia capanna eretta su questo assito di legno
a doppio tetto spiovente. Questa interpretazione, ormai evidente, fu
confortata da altri particolari studiati in seguito, cioè, da frammenti
di argilla rinvenuti disposti a strati, che avevano servito — come fu
osservato anche nelle terremare di Listione nel Parmigiano — per
spalmare l'assito stuccando le fessure delle travature che formavano
la piattaforma. Oltre tutto questo, quasi a dare la fìsonomia completa
della vita familiare di quei capannicoli, presso il focolare, all'esterno
dell'assito, si trovarono sempre sul posto entro appositi incavi cir-
colari, larghi freimmenti di grandi doli, anch'essi allineati lungo i
margini della capanna, forse per raccogliere l'acqua piovana del tetto.
Stabilita così in modo indiscutibile la configurazione e la fun-
zione delle capanne, fu evidente che simili grandiose abitazioni do-
vevano servare per la vita delle gentes che costituivano la tribù Ro-
rnnUia, prima tribù rustica. Finora si sono identificati una cinquan-
tina di questi fossati, ma è probabile che se ne possano rinvenire
altrettanti — sono appena 2 mesi che durano le ricerche! — così da
formare il numero di 100, ossia tutto il villaggio delle 100 gentes che
costituivano la tribù. Questa prima singolarissima scoperta, assume
la maggiore importanza, ricordando le giuste deplorazioni dell'insigne
Maestro, senatore Pigorihi, che al Congresso archeologico di Padova
del 1908 lamentava il fatto che ancora s'ignorasse la struttura delle
case dei Latini al fiorire di Albalonga e al sorgere di Roma.
È da notare poi che molto materiale si è raccolto finora tra il ter-
riccio di riempimento di questi canaloni, tanto che con esso si è po-
tuto formare — in una misera baracca — un piccolo museo composto
in gran parte — com'è naturale — di frammenti di stoviglie, d'im-
pasto rozzo, caratteristico della prima età del ferro, pareti e fondi
di vasi, anze a bugna ed a rocchetto proprie di quell'epoca, o ad anello
assottigliato al centro con ingubbiature di argilla rossastra con tracce
< evidenti di lisciature a stecca, caratteristiche dell'età del bronzo.
256 LE SCOPERTE ARCHEOLOGICHE DEL PROF. INNOCENZO DALL'OSSO
framinenti di orci con beccuccio, difeso da un diaframma bucherel-
lato, usati per fare il formaggio, in tutto simili a quelli rinvenuti in
istazioni dell'età del bronzo. Vi sono poi in grande abbondanza cocci
di buccaro fine e grossolano di vasi protocorinzi in uso nel sec. vu
o VI a. G. Singolari alcune griglie di fornelli portatili di argilla assai
rozza a tre o quattro piedi. Sopra tutto notevole un grosso mucchio
di schegge di selce, rifiuti di frecce e coltellini con parecchi rognoni
pure di piromaca di vario colore con tracce di scheggiatura artifi-
ciale per la lavorazione di armi e strumenti di silice. Il Dall'Osso, e
chiunque abbia la necessaria competenza, desume da questi avanzi
silìcei l'alta antichità del villaggio preistorico di Monte Mario, per il
fatto che la lavorazione della selce andò cessando con l'età del bronzo.
Se in quel luogo esistevano così numerose abitazioni degli Abo-
rigeni, dovevano di necessità essere in quei pressi le relative tombe,
la scoperta delle quali poteva dare la controprova di tutte le dedu-
zioni fatte, col mostrare il rito sepolcrale caratteristico e il mate-
riale non più frammentario ma integro. Le aspettative del prof. Dal-
l'Osso furono coronate da pieno successo. Secondo l'antico uso co-
mune, il sepolcreto avrebbe dovuto essere scavato a sud-est dell'abi-
tato, ma da quella parte ogni ricerca fu vana. Le indagini furono
portate dal lato opposto, cioè alle falde di un vasto pianoro a forma
di mamimiellone situato a nordovest dell'antico villaggio. Quivi il
Dall'Osso fu attratto da un sicuro indìzio, dalla presenza di una
grossa mola di tufo greggio, ritenuta come un'antica macina da
grano; ma l'acuto ricercatore si avvide subito che si trattava di un
cippo o stele sepolcrale. Iniziato lo scavo in quel punto, vennero in
luce tre altri cippi simili con umboni rilevati al centro, assai bene
conservati. Non vi era possibile dubbio, colà, sepolta dai secoli, do-
veva giacere una necropoli etnisca importantissima. Continuando
le escavazioni entro uno dei soliti trinceroni a V, a metà dell'altezza,
sopra una piattaforma di terriccio battuto, sì rinvenne — con grande
sorpresa — un notevole gruppo di tombe etrusche, costruite a bloc-
chi di tufo squadrati, completamente sconvolte e devastate. L'odio
nemico era giunto sino a' sepolcri, perchè certamente i Romani, ri-
conquistando il colle già abitato dai loro avi, erano penetrati nelle
tombe dei nemici, l'avevano devastate e saccheggiate, sapendo che
gli Etruschi seppellivano i loro ricchi morti con tutto il loro tesoro.
All'altezza dèi piano della tomba, forse ancora in posto, si osserva
metà di un letto funebre di tufo, sicuro indizio di una tomba a ca-
mera. Dal lato occidentale della grande trincea, incavati nel riem-
pimento artificiale ben compresso, epperò quasi divenuto compatto
come il tufo, si rinvennero due ordini di loculi per la deposizione
dei cadaveri, ma comjpletamente privi non soltanto dei corredi fu-
nebri, ma di ogni traccia di ossa, forse disperse al vento per odio di
razza. In un altro grande scavo aperto a pochi metri nella stessa di-
rezione, venne in luce un enorme cumulo di massi squadrati di tufo,
in parte di cava locale, altri importati dalle cave di Campagnano,
sconnessi e sconvolti così da parere conseguenza di un sonwnovi-
mento tellurico. Anche qui l'odio e la rapina dei vincitori erano pas-
sati con la furia di un cataclisma. Un enorme mucchio di frammenti
di vasi di bucchero finissimo rimanevano in fondo al cavo, solo ri-
cordo di chi sa quale magnifico corredo funebre, poicàè certamente
A MONTE MARIO 267
una tomba così monumentale non poteva appartenere che ad un lu-
cumone, o ad altro altissimo personaggio. Prova evidente di ciò si
ebbe nel rinvenimento di un cranio di cavallo presso il fianco setten-
trionale della tomba, testimonianza del sacrificio fatto del nobile
animale sulla tomba del padrone.
Proseguendo gli assaggi più ad ovest si ebbe la fori-una di sco-
prire una tomba a caanera con lungo dromos, ancora intatta, ma spo-
gliata di ogni corredo. Su di un ripiano, alto dal suolo circa 80 cm.,
sotto uno strato di nera poltiglia dovuta alla lenta infiltrazione del-
l'acqua, giacevano i resti del cadavere : il cranio, parte dei femori e
delle tibie.
Sarebbe lungo ed inutile continuare qui a dar notizie — in gran
parte uniformi — di altri numerosi sepolcri tornati in luce in quella
parte della necropoli; è importante però accennare ad una tomba ad
inumazione, costituita da una cassa di quadroni di tufo, ricoperta da
tegoloni pur di tipo etrusco e ad una bellissima umetta di buccaro,
a forma di vaso rotondo, munita di suo coperchio con elegante po-
metto al centro, rinvenuta nel lato est del grande incavo.
Se le ricerche avevano avuto buon esito fin qui, avevano però
mostrato le tombe di sovrapposizione etnica, cioè quella degli Etru-
schi, insediatisi sul colle dopo averne scacciati gli Aborigeni. Dove-
vano perciò venire in luce anche le tombe arcaiche. E a questo in-
tento furono rivolte le ricerche del Dall'Osso.
Sul declivio del detto mammellone, e precisamente sul versante
sud-est e nord-ovest, dopo accurate indagini, vennero in luce final-
mente le tombe degli Aborigeni, costituite non dalle solite fosse col
morto dentro, fosse sepolcrali, di cui non si è trovato esempio a
Monte Mario, ma da grotticelle riunite in numero di due, tre e di-
vise da pilastri quadrangolari, scavati nello stesso tufo. In una di
tali grotte oltre ad avanzi di ossa umane ed a cocci di vasi, si è tro-
vato, ancora al posto, un piatto concavo, e in un'altra un bellissimo
askos di argilla giallognola di tipo assai arcaico e in ottimo stato di
conservazione. Ora la forma ad askos è comune anche nel sepolcreto
dell'Esquilino, la seconda sede degli Aborigeni.
È bene qui ricordare, a dimostrazione di quanto si è detto, che
tale tipo di tombe a grotticelle si è trovato negli scavi del Pelopon-
neso: a Nauplia, a Sparta, risalenti al periodo arcaico dall'vin al vn
sec. av. C, ossia nella regione da cui gli Aborigeni inunigrarono in
Italia.
Per la stessa ragione che aveva indotto il Dall'Osso a cercare le
necropoli avendo prima trovato l'abitato arcaico, così, trovate le
tombe etnische, ne dedusse dover esser vicino anche l'abitato; e con
quella sagacia che lo ispira, essendo le tombe a nord-ovest del citato
mammellone, pensò che l'abitato dovesse sorgere a est. E in quell'o-
rientamento furono iniziate le ricerche, a un 100 metri di distanza.
L'aspettativa non fu delusa, perchè sondando accortamente, si sco-
prirono i muri di un'intera insula etrusca, sul genere di (juella sco-
perta dal Brizio a Marzabotto, l'etnisca Misanum. La costruzione è
caratteristica: vennero in luce una serie di mura, formate di bloc-
chi di tufo a secco, della lunghezza di 60 cm. interrotti da altre
mura a normale con le prime, in modo da formare delle celle da
metri 3.50 x 3 in media. All'estremità sud-est di detta instUa si è
258 LE SCOPERTE ARCHEOLOGICHE DEL PROF, INNOCENZO DALL'OSSO
identificata la porta e un largo foro quadrangolare, che serviva al-
l'infìssione di uno dei grossi pilastri in legno che sostenevano la tra-
beazione. È bene, in proposito, ricordare che le abitazioni etnische
— forse per ragioni antisismiche — erano formate di una sottostrut-
tura di massi di tufo, su cui si erigeva poi la casa in legno. Se ne
sono scoperte evidenti tracce n^li scavi di Vejo e di Gerviteri. Que-
ste case poi avevano — come quelle di Marzabotto — il pavimento
di terracotta e il tetto a tegole ed embrici dipinte in rosso, special-
mente nella parte anteriore del tetto; anche qui se ne ha la prova in
alcuni frammenti di tali tegole dipinte in rosso, rinvenute in quei
pressi. Non è da credere che il Pagus etntscus di Monte Mario si li-
mitasse a questa sola insula, altre tracce di altre insule si dovranno
certamente trovare nel proseguimento dei lavori.
Ciò che a parere del Dall'Osso costituisce un caposaldo nelle de-
duzioni che si possono trarre da queste singolari scoperte, è il fatto
che le mura etnische sorgano su di uno dei grandi trinceroni delle
capanne degli Aborigeni, perchè avendo, anche per suggerimento
dell'on. Rosadi, che di recente si è recato a visitare gli scavi, fatto
esplorare uno di questi fossati a V sottoposto al piano delle mura
etrusche, si è trovato — prova di somma importanza — che fra il
materiale ceramico raccolto non esiste alcun coccio di vaso che possa
riportarsi ad un'epoca inferiore al vi sec. av. G. Giò che dimostra ap-
punto che lo stanziamento degli Aborigeni su quel colle è anteriore
alla invasione etnisca, e che la dominazione dei Tarquini comincia
circa il 618 a. G. Gosicchè in questi scavi noi troviamo una, sintesi
dell'antica storia di Roma. Le tracce de' popoli arcaici. Aborigeni
con le loro abitazioni sopra elevate sui trinceroni, poi gli Etnischi
che scacciano dalle loro sedi gli Aborigeni, e sulle loro tombe e sui
loro sterrati edificano le tombe proprie e le proprie insule, sopra gli
Etruschi le evidenti tracce della dominazione romana, con la distru-
zione e col saccheggio dell'abitato e dei monumentali sepolcreti
etruschi. Non basta, in parecchi punti si sono trovate piattaforme di
calcestruzzo, su cui dovevano sorgere edifici romani. Tre popoli,
dunque, l'uno sull'altro, come tre colossali marosi sovrapponentisi
nel vasto oceano temipestoso del tempo.
Tra le scoperte avvenute in questi ultimi giorni è da segnalare
quella di uno scheletro maschile, fornito *del relativo corredo fune-
bre; e cioè: una grande anfora ad un solo manico, un piattello di
argilla chiara, una kilix a vernice nera, di sagoma assai svelta ed un
orciuolo di tipo arcaico; tutto materiale che non può essere di molto
inferiore al v sec. Dato il singolare carattere di questi scavi, non si
può nemmeno immaginare quel che ne può venire in luce. Certo si
è che ci troviamo dinanzi ad una di quelle veramente geniali sco-
I>erte, che costituiscono un rinnovamento della nostra storia, pari a
quelle fatte dal Pigorini con le terremare e dal Boni nel Foro e nel
Palatino.
Più recentemente ancora furono scoperte tre dronwi accanto ad
una capanna a fondo concoide, che immettono in altrettante tombe a
camera. Due sono state già esplorate e, come si prevedeva — avendo
rinvenuto il letto demolito — si sono trovate saccheggiate. Del ricco
corredo funebre, che sogliono contenere le tomtie etrusche, non si
sono trovati ohe alcuni cocci di vasi precorinzii e frammenti di una
A MONTE MARIO 259
(Mnocoe trilobata di bucearo, di uno skifos, di un cantaro, ecc.
Questi oggetti, però, bastano per dimostrare trattarsi di tombe del vi
sec. a. C, cioè della stessa epoca, situate a nord-ovest dell'abitato ca-
pannicolo. Una singolarità di queste tombe è nel fatto che lungo i
dromoi (corridoi) sono scavate due piccole tombe, forse dei familiari
del capo.
Questi scavi, della cui singolare importanza il lettore si sarà già
reso conto da quanto sono venuto esponendo, furono sospesi per la
stagione inclemente, ma si dovranno riprendere su più vasta scala
e con più larghi mezzi, e — oserei dire — con una maggiore libertà
di azione per colui che li dirige. A questo proposito è giusto qui
lodare lo spirito moderno e antiburocratico della Direzione Generale
delle Belle Arti, e della Soprintendenza agli scavi di Roma, le quali,
appena veggono che un ispettore, con nobile iniziativa e con speri-
mentata competenza, riesce a fare delle scoperte importanti, lo met-
tono in condiziono di valersi di quella indipendenza di lavoro, ohe
sola può incoraggiare l'opera personale scientifica. E così, ci augu-
riamo, si farà col Dall'Osso.
Il quale — sappiamo — non soltanto si ripromette di risolvere
i problemi di architettura domestica che si sono presentati in questo
primo perìodo di scavo, ma di procedere ad una più vasta esplora-
zione delle tomibe etnische e preetrusche, cioè delle tombe a grotti-
cella di cui finora non si sono avuti che pochi esemplari. Inoltre
egli intende estendere le sue ricerche alquanto più a nord presso il
torrente di Acqua Traversa, ove crede di poter rintracciare le primi-
tive sedi degli Aborigeni dell'età del bronzo.
Ma ora conchiudiajno intorno a quanto abbiamo fin qui esposto.
Gli scavi non servirebbero a nulla, se da essi non si traessero
— come dalla più eloquente documentazione — delle deduzioni sto-
riche. Ora da queste scoperte del prof. Dall'Osso si desume :
I. Che Roma non fu una colonia di Albalonga, ma il frutto
di una commistione demografica ed etnografica di due popoli di
razza diversa: gl'Italici Albani e gli Aborigeni;
II. Che la ubicazione di Roma sulla sinistra del Tevere più che"
sulla destra, è dovuta all'invasione Etnisca;
III. Che Romolo non fu, come si è già detto, il fondatore di
Roma, ma un tipo etnico, vindice di quella nuova civiltà latina che
si andò formando con la cennata fusione;
IV.' Che anche dopo che Romolo riconquistò il Gianicolo e che
ricacx^iò gli Etruschi a VeJo, i Romani non furono sempre indipen-
denti, ma che in un certo periodo essi subirono una sconfitta dagli
Etruschi di Tarquinia, per effetto della quale i Tarquiniesi imposero
ai Romani la dinastia dei Tarquini e forse lasciarono nella città una
guarnigione etnisca; certo che l'introdussero nella tribù Romulia,
donde il 'pagus con la relativa necropoli etnisca, scoperta dal Dal-
l'Osso;
V, Che dopo l'espulsione dei Tarquini con la proclamazione
della repubblica, anche la tribù Romulia si liberò dalla guarnigione
etrusca, come dimostra il fatto, che non furono trovate a Monte Ma-
rio tombe posteriori al sec. vi a. C, data appunto dell'espulsione dei
Tarquini.
I. M. Palmarini.
PROIBIZIONISMO
In una relazione del novembre scorso, il senatore on. Wesley L.
Jones di Washington descrive gli effetti del proibizionismo nazio-
nale sulla delinquenza., le psicosi alcooliche, la laboriosità, i risparmi,
l'economia, ragricoltura, la vita di famigLia, le cure dei figli e la
salute pubblica in America.
Le maggiori città degli Stati Uniti, con più di venti milioni d'abi-
tanti, (hanno segnalato dopo il 1917 la diminuzione del 65 % negli ar-
resti per ubriachezza. Soltanto a New- York, la meno americanizzata
•delle città americane, i reati comuni sono diminuiti da 15,885 a 10,614.
Gli omicidi sono diminuiti a Chicago del 52 % in un solo anno. Le
carceri di Boston che avevano albergato due anni prima 72,900 con-
travventori all'ubriELChezza, ne accolsero il 1920 soltanto 19,897. Nel
Massachusetts la delinquenza è complessivamente ridotta alla metà.
L'Istituto del Lavoro nell'Ohio potè chiudere quattro Ricoveri
di mendicità e vagabondaggio, una volta aboliti i bars e le bettole
che trasformavano i cittadini d'America in oziosi e vagabondi. La
città di Pittsburg provvedeva nel 1910 al mantenimento di 14,684 car-
cerati, ma chiuse le distillerie e birrerie, si nidussero l'anno scorso
a 4721.
« Le statistiche criminali americane sono più consolanti di quelle
europee. Nella sola Inghilterra i delitti fomentati dalle bevande al-
cooliche aumentarono dopo il 1914 del 65 %. A Washington gli ar-
resti erano saliti a 6458 nel 1916, ma scesero a 5582 nel 1917, venendo
limitato il numero delle liquorerie, e continuarono a diminuire a
3232 nel 1918, dopo esteso il proibizionismo, e si ridussero a soli 833
nel 1920. A Louisville nel Kentucky, le condanne per ubriachezza e
immoralità, dopo un anno di proibizionismo, diminuirono deir85%.
Nella città di Milwauhee, già satura di birra tipo Monaco, da quando
fupon chiuse le birrerie, gli arresti e le condanne per abbandono della
famiglia si ridussero del 38%, e quelle per condotta immorale del
59%. Nei quattro anni di proibizionismo, la popolazione di Rich-
mond aumentava del 27 %, mentre gli arresti per disordini e scan-
dali dovuti ad ubriachezza scemavano del 75 %.
« Ciascuno dei Neal Insiitutes curava mensilmente circa 30 po-
tatores, malati di psicosi alcoolica; adesso non sorpassano il f)aio.
E fu constatato che i guariti dall'alcool non cascano nel vizio delle
droghe stupefacenti. La Scientific Temperance Fedearation registrava
687 morti per alcoolismo nel 1917, soli 98 nel 1920. La Home for
Drunkards di Chicago aveva ricoverato fino al 1919 non meno di
921 ubriaconi, tra i quali il 56 % soccombeva, mentre nel 1920 sopra
PROIBIZIONISMO 261
125 alcoolizzati i colpiti dal delirium tremens furono 3 soltanto. Il
dott. Pollock, nella sua statistica ospedaliera, nota che due anni di
proibizionismo bastarono per rendere superflui gli « Asili per ine-
briati » .
« I depositi nelle Bajiche del Massachusetts raggiunsero nel 1920
i 92 milioni di dollari; nelle Casse di Risparmio i versamenti furono
in media di 465 dollari a persona, con 145,068 nuovi depositanti;
202 Banche cooperative incassavano 174 milioni di dollari. Le Banche
dell'Ohio, durante l'anno fiscale chiuso il 30 giugno 1921, gestivano
un capitale superiore ad un miliardo e mezzo di dollari. Il giornale
dei metallurgici — Iron Age — nota che, per effetto del proibizio-
nismo, gli operai dell'acciaio, compresi vecchi, donne e bambini,
hanno risparmiato in media 550 dollari ciascuno.
« Il ì<ìew Orleans Times segnala il 30 % di aumento nei risparmi,
oltre l'utilizzazione dei locali di 1800 liquorerie rimaste disponibili,
oltre lo stimolo alla operosità, alla diligenza ed alla gaiezza dovuti
al proibizionismo. La Washington Post dell'S novembre 1921, rias-
sume il bilancio di 623 Istituti di Risparmio sociale dell'Est che,
malgrado la depressione economica e la disoccupazione, hanno piìi
di 5 miliardi e mezzo di dollari in deposito. La legge sul proibizio-
nismo fece crescere i risparmi, aumentare il numero dei depositanti
ed il valore medio delle somme risparmiate.
•
• •
« Le prime vittime dell'alcoolismo dei genitori sono i bambini.
La Society for the Prevention of Cruelty to Children del Massachu-
setts segnala nel 1921 una diminuzione del 63 % nel numero dei casi,
molti dei quali sono provocati dall'ubriachezza.
« Nei distretti dà Franklin e di Fail River, la protezione della
infanzia fu richiesta per meno d'un quinto del numero dei bambini
soccorsi negli anni precedenti. « Diminuita l'ubriachezza dei geni-
tori, i bambini americani hanno avuto più da mangiare, più da ve-
stirsi, più cure famigliari». Il presidente Eliot della Università di
Harvard constatava a Boston, il 29 ottobre 1921 : Il proibizionismo
risana le famiglie, specialmente le fémiiglie operaie; le infermiere
furono le prime ad accorgersene negli ospedali. Il dottor van Ingen,
in Mother and Child del luglio 1921, attribuisce alla legislazione an-
ti-alcoolica la salvezza di 25,000 neonati. Alla stessa causa viene at-
tribuita dalla Sopraintendenza del Pennsylvania Eospital di Phila-
delphia la rapida diminuzione dei colpi di sole durante l'estate più
cocente. Constatato un minor numero progressivo di tubercolosi a
Chicago, il commissario Robertson awerie che la diminuzione si
nota in tutti gli Stati Uniti da quando la cittadinanza mangia e dorme
meglio e beve meno. La mortalità per alcoolismo è diminuita in Ame-
rica dopo il 1917 deir84 %. Le cirrosi del fegato sono ridotte alla metà.
<( Nell'ospedale psicopatico di Boston (Mass.), secondo i rapporti
del primario Harlan Paine, le psicosi dovute al bere scemarono dopo
il divieto delle bevande alcooliche del 74%. Negli ospedali dell'Illi-
nois, di New-York e della California, dove i casi di pazzia aumen-
tavano più che non crescesse la popolazione, l'aumento cessò. The
California Lunacy Comtmission calcola che dal 1919 il numero dei
262 PROIBIZIONISMO
colpiti da demenza è stato inferiore di 4094 a quello prevedibile e,
costando ogni pazzo i800 dollari, i contribuenti annericani rispar-
miano due milioni di dollari all'anno in un solo Stato dell'Unione,
per sole spese di manicomio.
•
• •
« Nel corso di pochi- anni, gli Stati Uniti di America, grande la-
boratorio sperimentale di proibizionismo, produrranno una razza
immune dal veleno alcoolioo, immune da una delle maggiori cause
di degenerazione folle, idiota e deficiente. I buoni effetti diverranno
palesi dopo una generazione, ma il minor numero di ricoverati per
malattie cerebrali è indizio che il divieto di rovinarsi la salute paga
da sé le spese che richiede. Ogni deficiente criminale, ogni delin-
quente di meno è tanta maggiore' energia salvata alla Repubblica.
« Gli Stati Uniti diventeranno economicamente la Nazione più
forte, conservando quel vigore, che altre Nazioni disperdono nelle
bevande. Più di 2 miliardi di dollari risi>armiati ogni anno del de-
naro che veniva speso in liquori, rappresentano un bel capitale, ed
aggiungendo una egual sonmfia prodotta da maggiore laboriosità e
diminuito sperpero, avremo l'idea di cosa rappresenti il proibizio-
nismo.
« La frequenza nelle scuole dell'Unione è aumentata del 10 %.
Una popolazione intelligente è essenziale per l'avvenire della demo-
crazia.
« Il proibizionismo benefica la salute ed accresce la vitalità; i
medici non si stancano di rip>etere che le bevande alcooliche sono
una continua minaccia per il popolo; che liberata da queste bevande
la vita famigliane diventerebbe migliore e più felice; che centinaia
di migliaia di fanciulli sarebbero meglio custoditi e meglio allevati;
che la vita politica nazionale si purificherebbe, e le leggi emanate
per il bene pubblico non dovrebbero sottostare alla censura dei li-
quoristi; alla censura che una Commissione giudiziaria denunciava
quale strumento di boicottaggio anti-americano.
« Una politica onesta sublima il popolo ohe sa governarsi ed è
abbastanza coraggioso e morale per non temere le false interpreta-
zioni, le contumelie e gli schemi; rafforza il popolo americano ed
incoraggia le altre nazioni a seguirne l'esempio. Liberi da bevande
alcooliche, gli Stati Uniti d'America diventano la potenza finanzia-
riamente, politicamente e moralmente più grande del mondo».
•
Con queste parole di incondizionata fiducia nell'avvenire della
grande Repubblica che si estende dall'Atlantico al Pacifico, l'onore-
vole Wesley L. Jones chiude la sua Relazione al Senato di Wa-
shington sugli effetti del proibizionismo nazionale in Ameirica.
VrnsATOR.
SOLENNITÀ PER IL CINQUANTENARIO
DELLA BANCA POPOLARE DI NOVARA
Gloria a Voi, popolo di Novara, che avete educata nel silenzio
operoso una magnifica istituzione, onore della nostra Patria!
Vi reco qui il saluto riconoscente non solo della Federazione delle
Banche Popolari italiane, ma anche delle consorelle del Belgio, della
Svizzera, dei tre popoli scandinavi, della Francia, della Germania
dove, per iniziativa di un liberale eminente, che fronteg-giò sempre
il Principe di Bismarck, lo Schulze-Delitzsch, sorsero nel 1851 le
mutualità di credito, alle quali attinsi inspirazione ed esperienza per
scrivere dieci anni dopo il libro Sulla diffttsicme del credito e sulle
Banche Popolari, e per votarmi a una incessante propaganda. La mia
avanzata vecchiaia è lieta di alzar dinanzi a Voi questi immacolati
simboli della cooperazione europea, poiché la Banca Popolare di No-
vara ben merita questo saluto.
Sorta sul finire del '71, per iniziativa di pochi volonterosi, fra i
quali ritrovo il mio indimenticabile amico, Carlo Cerniti, con un
capitale di lire quarantasei mila quattrocento, registrava nel 1921
più di ventisei milioni con oltre tredici milioni di fondo di riserva e
con depositi di varia forma, nei quali prevalgono quelli a risparmio
medio e piccolo, nell'inisieme oltrepassanti i duecento e ottanta mi-
lioni; si potrebbero aggiungervi altri duecento milioni rappresen-
tanti il disponibile fra i conti correnti attivi e passivi, tutto difeso e
coperto da cambiali a breve scadenza e da titoli di Stato facilmente
liquidabili... La Banca Popolare di Novara per la intensa e felice di-
stribuzione del credito è la prima di Europa, superando le consorelle
(pur potenti) d'Italia e di Germania.
Voi forse lo ignoravate, o cooperatori di Novara, e ve lo dico
perchè sento che persisterete nella modestia, pur sapendo che l'opera
vostra onora la Patria. E, oltre le vostre potenti consorelle, quella
di Milano (che fondai nel 1864 e ha sempre il mio cuore coopera-
tivo), di Cremona, di Lodi, di Bergamo, di Mortara (rappresentata
dal mio eminente amico, senatore Bergamasco), di Pavia, di Padova,
di Venezia, di Alfedena (pur qui rappresentata dell'egregio senatore
De Amicis), dell'Emilia e di tante altre, interpreto l'animo vostro,
mandando un saluto patriottico alle Banche Popolari venete, che si
Nota. — La Banca Popolare di Novara ha festeggiato il 19 marzo il sno
cinquantenario, essendo stata fondata nel 1872 dietro ispirazione di Luigi Luz-
zatti. Aderendo all'insistente invito dei Novaresi, S. E. Luzzatti vi ha pro-
nunciato questo discorso.
264 SOLENNITÀ PER IL CINQUANTENARIO
salvarono dalla feroce invasione straniera e, tornate nel caro nido
natio, oggi rifioriscono.
Di fronte ai recenti disastri bancari che offesero, senza dimi-
nuirlo, il credito nazionale, abbiamo il diritto e il dovere di additare
al mondo civile le nostre Casse di Risparmio, centenarie piene di
vita nuova, le nostre migliori Banche Popolari, cinquantenarie esu-
beranti di giovinezza, le quali comprendono mirabilmente la loro
missione civile, sociale ed economica, dando battaglie continue e vit-
toriose alle multiformi usure. È noto al vostro intelletto di coopera-
tori che le tre più malvagie forme di usura si affrontano e si vincono
colle sane applicazioni della mutualità redentrice; accenno all'usura
del denaro, all'usura delle vettovaglie, all'usura delle pigioni : tutte
tre mirabilmente combattute e punite nel Vangelo. Quelli che sfug-
gono al castigo quaggiù espieranno nella vita futura! Non è Gesù che
condanna i mutui feneratizi, le ricchezze impudiche, mal tolte? Non
è Lui ciie nella preghiera di ogni giorno ci insegna a invocare col
pane dello spirito il nostm salubre pane cotidiano? 0 quando, cac-
ciato da Samaria rifiutante per paura di compromettersi coi Farisei,
al divino Maestro stanco, brevi ore di riposo. Egli alzò quel grido
pieno di immortale melanconia, ripetuto oggidì dai senza-tetto di
tutta la terra: Le volpi hanno delle tane e gli icccelli dell'aere de' nidi;
ma il Figliuolo delVuomo non ha par dove posi 'l capo?
La Banca Popolare, come noi l'abbiamo creata e voluta, le isti-
tuzioni cooperative alimentari, quelle intese a edificar le case di un
infinito popolo di disagiati, i quali non sanno dove riposare lo stanco
capo, hanno un'origine sacra, che innalza, spiritualizza il loro uf-
ficio. Mai devono pigliare la ispirazione dalle artificiali moltiplica-
zioni del denaro, ma dalle austere e sublimi virtù additate dal mi-
stico libro! E sieno più volte^maledette le istituzioni, che invocando
il nome del popolo, lo tradiscono! Una Cassa di Risparmio, che ha
cent'anni di vita, una Banca Popolare che ne novera cinquanta, sono
colonne fondamentali della Patria economica; bisogna custodirle colla
gelosa cura usata verso i capolavori dell'arte, ereditati dai nostri
maggiori, confondendo gli uni e gli altri in uno stesso palpito di
amore verso l'Italia, poiché, secondo la definizione etema dfeU'El-
lade: la bellezza è lo splendore della verità e della bontà.
E poiché Voi, insigni amministratori della Banca Popolare di
Novara, nomino fra gli altri per cagion d'onore, il benemeritissimo
Bernini, il competentissimo Giardini, e mando una pia e affettuosa
memoria al precedente Direttore Generale, il Bardeaux (a cui vorrete
consacrare con grato animo un particolare ricordo... ei dovette supe-
rare le difficoltà della nascente gestione), e poiché voi siete disposti
ad accogliere i consigli di un vecchio (iniziatore di queste istituzioni
non solo in Italia, ma anche in Francia, nel Belgio e, traverso le
inchieste inglesi, in Egitto e nell'India), salvatevi, astenetevi da^li
affari che hanno brillante appmriscenza, ma concentrano troppi fidi
su poche teste privilegiate. Queste possono costituire la clientela delle
Banche finanziarie; la vostra missione ò di distribuire il credito con
equità, di approfondirne le ricerche in quegli oscuri strati sociali
dove ancora s'annida l'usura, di dare con amorose cure gli aiuti alla
terra materna, che, come Virgilio ha mallevato nelle Georgiche, man-
tiene con fedeltà gl'impegni assunti, e dopo le erranti delusioni di
DELLA BANCA POPOLARE DI NOVARA 266
tanti affari campati in aria, è, fu e sarà la riparatrice costante dei
nostri errori.
E un'altra raccomandazione vi rivolgo: raccogliete sempre più
intensamente intomo a Voi gli artigiani, i piccoli industriali, i la-
voratori umili, congiungeteli in fide mutualità, insegnate, prepa-
rate fra loro i nuovi ordinamenti tecnici, sorti e illustrati negli Stati
Uniti e, come premio di questi oscuri sacrifizi, di queste sottili pre-
videnze, fate rilucere sulle loro teste un credito benefico conceduto a
miti saggi, consolatore, fecondatore; sono benemerenze codeste oh©
prolungheranno la vita secolare delle nostre istituzioni, le quali de-
vono aspirare, come la Patria che le ospita, le educa, le onora, al-
l'inmiortalità.
So, so e nessuno ne ha l'animo più rattristato del mio, so che si
traversano ore diflBcili nell'esercizio e nell'uso del credito; quasi,
quasi si direbbe talvolta col divino Poeta:
La gente nuova, e i sùbiti guadagni,
Orgoglio e diamisora han generata
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni.
Fiorenza di Dante è, o m^lio fu, in qualche buia giornata l'Italia
di oggidì.
Ma non è né colle leggi improvvisate (per le quali si tormentano
i buoni e si salvano gli astuti), né colle vigilanze delle burocrazie
incompetenti, né colle imposte che perdono l'equità e hanno il sapore
della vendetta, che ci libereremo da questi vizi ereditari; bisogna ope-
rare il bene, contrapponendolo al male.
E restringendoci nel nostro campo del credito, pieno di torbide
concorrenze di ogni specie, politiche, sociali e religiose, la gente nuova
e i sùbiti guadagni, denunziati da Dante, cercano avidamente i ri-
sparmi del popolo laborioso nei villaggi oscuri, nelle campagne soli-
tarie, offrendo interessi sempre più alti, contratti equivoci come quelli
dei comodati, col principale intento di togliere i STidati peculi dai nidi
dove le onorate fatiche li generano, per gittarli nelle voragini della
Borsa... La nostra missione, Banche Popolari di Milano, di Novara,
di Lodi, di Bergamo, di Pavia, di" Padova, di tutta Italia, è quella
di stringersi sempre più nella nostra Federazione consacrata alle
istituzioni combattenti colla voce e cogli atti, per smascherare, per
denunziare, per vincere tutte queste falsificazioni, adulterazioni, so-
praffazioni del credito malsano. E si dica pur di noi col divino
Poeta:
E cortesia fa in Ini esser villano.
Bisogna sperdere dal mondo questi falsi banchieri, abbiano essi il
popolo sulle labbra od osino invocare gl'interessi della Patria. E come
dissi a Venezia, dove mi vollero per celebrare il centenario delle tre
prime Istituzioni italiane, ripeto qui il grido per un accordo sicuro
e nazionale fra le Casse di Risparmio e le Banche Popolari, nella
trasmissione del denaro, nei reciproci aiuti, fronteggiando colla con-
correnza del bene ogni altra insidia allettatrice. Urge persuadere i
nostri semplici risparmiatori a non attendere le rapine dei loro de-
18 Voi. CCXVn, Berle VI — l* aprile 1922.
266 SOLSmiTÀ PER IL CINQUANTENABIO
positi per dimostrar una tarda fiducia alle sane istituzioni locali.
Hanno sul lii<^o dove lavorano, trafficano, costruiscono, guadagnano,
soffrono e sperano gli istituti offrenti la fida ospitalità al loro pe-
culio, ne conoscono gli amministratori e le operazioni; perchè, perclu'
si lasciano strappare i sudati frutti del proprio lavoro da banclie
lontane, randagie, tentatrici, che col rumore delle lodi accattate pren-
dono il loro denaro e lo impilano in complicate operazioni? Come
non comprendono questi incauti che l'uno, il due per cento di mag-
giori interessi dovrebbero bastare per destar i legittimi sospetti, per
contentarsi del fido ostello natio promettente con prudenza e rimbor-
sante con esaltezza? Combattiamo, combattiamo tutti questi Enti av-
venturosi, assillati dall'ansia dei sùbiti guadagni e mettiamo innanzi
questa massima che dettai sin dal 1863: Banche che dicono di gua-
dagnare miolto paiono sospettabili come quelle che troppo perdono;
degne di fiducia sono le istituzioni di credito con tempeirata cautela
idonee a raccogliere i benefìzi continui e modesti, fìgU della prudenza
e non dell'avventura.
Quando, più di cinquant'anni or sono. Paolo Boeelli e chi ha
l'onore di parlarvi, collaborammo con Quintino Sella per introdurre
in Italia le Gasse di Risparmio postali, dichiarai apertamente che
prestavo l'opera mia a quel grande Maestro a patto di integrare e
non di sostituire la libera previdenza delle Gasse di Risparmio e
delle Banche Popolari. Quintino Sella, innamorato della sua crea
zione, desiderava allargare troppo i limiti nei versamenti dei risparmi
agli Uffici Postali, segnatamente alzando la ragione dell'interesse. Di-
scepolo fedele e fervido del sommo Maestro, mi opposi, e lasciatemi
dir qui, giunto a quell'età della vita quando nulla si teme e nulla si
spera dalla politica e dall'ombra vana delle piccole lusinghe, nella
controversia, narrata in un mio libro, l'insigne statista biellese, che
aveva debellato il disavanzo, rappresentava al Governo il Ministro
risoluto nel '70 all'acquisto di Roma, e fu il cooperatore massimo
nell'applicazione della scienza alla prosperità dell'economia nazio-
nale. Quintino Sella non si isentì un vinto accostandosi al mio pen-
siero. Erano quegli uomini di Stato i veri eredi di Cavour; servivano
e non sfruttavano la Patria, soffrivano e non godevano il potere. E
io che gli succedetti (insigne onore!) più volte nel Governo del Te-
soro, non volli mai che l'interesse dei depositi postali oltrepassasse
il 2.50 o il 2.70 per cento. Gli effetti furono notevoli, un po' anche
per colpa dell'esuberanza di carta moneta; i depositi delle Gasse di
Risparmio Libere e delle Banche Popolari oltrepassano insieme gli
undici miliardi e quelli delle Gasse di Risparmio postali oltrepas-
sano gli otto miliardi. Grande, nobile ammonimento a tutti i veri,
sani e savi istituti di credito, i quali devono sottrarsi alle tentazioni
di un'avida concorrenza, fatta a colpi di alti interessi. E Voi, Nova-
resi, che ammiraste il grande Apostolo del pubblico bene. Quintino
Sella, che lo amante come vostro concittadino, associatevi a me, man-
diando per tutta Italia, segnatamente a Biella ch'Ei tanto amò, un
saluto alla sua memoria, anche e perchè fondatore delle Casse di
Risparmio postali.
Agli amministratori insigni della Banca Popolare di Noviara, ai
fedeli amici miei delle lianohe I^opolari Lombarde, Elmiliane, Venete.
del Mezzodì e da tutte le altre parti d'Italia, vivamente naccom&ndo
DELLA BANCA POPOLARE DI NOVARA 267
di non dar l'esempio di fratelli ingelositi fra loro; è giunto il nio-
mento di far sentire la vostra possanza cogii effetti della fida con-
cordia. E poiché vi piacque di eleggermi Presidente della vostra Fe-
derazione, s'intende (com'è mio costume) senza alcun vantaggio tranne
quello di sentirvi uniti, applicate alle nostre Banche il detto eccelso
di un grande Ministro italiano degli Affari Esteri : indipendenii sem-
pre, isolali mai.
Oggi gl'insigni capi della cooperazione inglese, svizzera e di altri
grandi paesi, annunziano il loro disegno di fondare istituzioni di
credito e per l'acquisto di materie prime, di sostanze alimentari col
metodo cooperativo e di carattere intemazionale. Ditemi che inter-
preto l'animo vostro affidando quegli amici stranieri e rettissimi che
l'Italia parteciperà a queste iniziative redentrici.
Dopo la guerra terribile e liberatrice di tante genti oppresse,
troppi monopoli di materie prime si strinsero col nome abusato della
civiltà, nelle mani di alcuni potenti; troppe correnti bancarie privi-
legiate si affannano a dominare i cambi, a inasprirli, a signoreggiare
le maggiori vie internazionali del credito e degli affari. Se potremo
opporre a queste forze ora benefiche e ora moleste le salutari in-
fluenze della cooperazione intemazionale, l'Italia non mancherà al
glorioso appello. Intendo le diflBcoltà di queste vittorie; io dissi un
giorno al maggiore miliardario americano che md parlava con sim-
patica diffidenza della cooperazione: anche noi cooperatori avremo
le nostre alleanze finanziarie mondiali e ci mostreremo capaci di
raccogliere le centinaia di milioni. Ed ei mi notò fra l'incredulo e
l'ammirato : ma nei grandi affari dove basta la mia sola volontà,
occorreranno a voi le migliaia di consensi. Sì, io gli risposi, questa
è la nostra debolezza, ma anche la nostra forza.
Al di sopra di queste pugne feroci di armi, di capitali, di vio-
lenze del lavoro, che tormentano il mondo, si inizia, si svolge oggidì
una pugna evangelica, a cui concorrono tutte le povertà buor^, tutte
le colture cercanti la scienza investigatrice della ragione delle cose,
pugne che non umiliano alcuno, illustrano il vinto al pari del vin-
citore; la cooperazione intemazionale deve prendere il suo posto in
queste falangi di eletti, di pacifici. E poiché noi non vogliamo la
m^orte del peccatore, ma il pentimento, questa mondiale rinascita
della bontà umana può costringere a migliorarsi, a temperarsi, anche
quelli che paiono onnipossenti, troppo orgogliosi, curanti sinora sol-
tanto le egemonie soverch latrici. Su questo diluvio universale non
sognano coloro che intravedono nella bontà l'arca della vera salvezza!
Con questa speranza, consolatrice della mia vecchiaia, vi rinnovo
il saluto paterno, o Novaresi.
In quanto a me che nulla chiedo, nulla temo e piìi dispero d^li
uomini politici meglio mi affìsso in Dio, senza adulare né la coope-
razione, né i suoi sodalizi, confido nella salutare efficacia della loro
immacolatezza, e sarei contento se sulla mia tomba modesta le fide
mutualità potessero scrivere questa epigrafe: Qià giace un uomo, il
quale traverso gVinevitabili errori della vita pubblica, ha serbato
fede a coloro che lavorano e soffrono. E le lagrime votive di qualche
pio viandante, dopo quelle della mia famiglia, conforteranno l'urna
solitaria!
Luigi Luzzatti.
VINCENZO MONTI E IL PRINCIPE DI CARIGNANO
Il 17 ottobre del 1821 Vincenzo Monti scriveva da Milano a suo
nipote Fedele in Ferrara: ««Partirò con Perticari alla fine del mese.
Faremo il giro de^li Stati Veneti per Brescia, Verona, Vicenza, Bas-
sano, Padova, Venezia. Saremo verso la metà dell'entrante in Fer-
rara; indi subito a Fusignano, ove spero che in poche parole ci ag-
giusteremo con Giuseppino [fratello di Fedele]; e risoluto l'affare
moveremo per Pesaro » (1).
In queste poche parole è tracciato l'itinerario del viaggio che il
Monti, in compagnia del genero, compì di fatto nel novembre di
quell'anno, per rivedere suoi carissimi amici e farli conoscere al Per-
ticari, allora nel massimo della sua fama: ««beatissimo viaggio»,
dov'ebbero a godere «« di cento allegrezze » , perchè «« accolti dapper-
tutto con amorevolezze, cortesie e gara di ogni genere di amicizia ».
Partiti il lunedì 5 novembre da Milano, giunsero in Brescia la sera
dello stesso giorno, ospiti di Camillo Ugoni; in Verona, il 7, « super-
bamente alloggiati, festeggiati, onorati senza misura » dalla contessa
Glarina Mosconi, da Ippolito Pindemonte e da altri egregi; l'il, in
Vicenza, passando quindi a Bassano, a Possagno, a Padova, a Ve-
nezia; poi di nuovo a Padova, dove, il 25, quei dotti vollero «« a tutti
i patti onorarli in im geniale banchetto», e — dopo l'acconcio d^li
interessi del poeta co' suoi nipoti in Romagna, a cui prese parte non
lieve il Perticari — arrivando finalmente *in Pesaro « allo scocco del-
l'Avemmaria » del 6 dicembre, «« con immensa gioia della loi^ Go-
stanza » (2).
Se non ohe, mentre i due insigni ed ammirati uomini gxxievano
delle più schiette e cordiali gioie dell'amicizia e attendevano anche
di provvedere a' loro interessi, un solerte informatore indirizzava
con ogni probabilità al direttore generale della polizia in Venezia
il seguente rapporto confidenziale, scritto da Bassano o da Vicenza
tra il 17 e il 18 novembre: «Potendo interessare le viste di lei, mi
permetto informarla confidenzialmente di aver inteso da persona di
(1) Epittolario di Vincenzo Monti (voi. VI delle Opere). Milano, presM)
Giovanni R«snati, 1842, pag. 119 e seg.
(2) Cfr., per tutto ciò, Epistolario, pagg. 271-276 e Lettere inedite e
sparse, raccolte, ordinate e illustrate da A. Bertoldi e Q. Mazeatinti. To-
rino, Roux FrasBati, 1893-96, voi. II, pag. 341 e eeg.
VINCENZO MONTI E IL PRINCIPE DI CARIGNANO 269
qualità che il ag-. Vincenzo cav. Monti di Verona, domiciliato in
Milano, ebbe un carteggio col principe di Garignano al momento
della rivoluzione in Piemonte, e dubitando che la commissione re-
centemente istituita in Milano per oggetti di Stato, venendo infor-
mata di detto cart^gio ch'egli asserì puramente letterario, assog-
gettarlo potesse a qualche misura, si determinò di far un viaggio
in queste provincie e poscia passare il carnevale in Pesaro, affine
di cUstrarsi dalla molestia che recavagli un tal timore e che influiva
perfino ad alterare la sua salute » (1).
Il Biadego, che primo pubblicò il documento surriferito, termi-
nava col chiedersi : « Quanto v'ha di vero nell'affermazione della
polizia che il Monti ebbe carteggio col principe di Garignano? A
questo non so rispondere». Ora, a tale domanda posso rispondere
io in senso affermativo: carteggio letterario certamente, ma non
senza qualche riposto fine politico.
Quando nel 1896 fu pubblicato il secondo volimie delle su citate
Lettere inedite e sparse del Monti, Giosuè Garducci, il 5 agosto, mi
scriveva, tra l'altro, da Madesimo : « È sfuggita una lettera impor-
tantissima : quella ad Alberto Nota, in cui il poeta canta gli augurii
del principe di Garignano, poi Garlo Alberto: fu pubblicata dal
Gualterio nei documenti agli Ultimi rivolgimenti d'Italia » (2) .
Ma questo fu un facile equivoco, uno spiegabilissimo inganno
della memoria del grande maestro. In tutte le edizioni del Gualterio,
in fatti, non una lettera del Monti al Nota, ma si legge una lettera
del Giordani eil Monti, che lo prega di scrivere al Nota per il Gico-
gnara. È il documento che porta il numero GLXXI, dove si leggono
queste parole davvero importantissime, e che mostrano — annotava
il Gualterio medesimo — « meglio d'ogni ragionamento come per
istintivo impulso i cuori de' migliori cittadini in Carlo Alberto le
speranze loro riponessero » : « Fagli dunque sapere come nel continuo
nostro parlare dell'ottimo e veramente desiderato principe, nacque
in me il pensiero che il nostro amico Leopoldo, come uno dei mi-
gliori che abbia oggi l'Italia, facesse omaggio della sua grande ed
immortale opera a S. A.; la quale si sa che ama di cuore tutto ciò
che è bello e grande. E poiché egli è unica speranza della povera
Italia, si vorrebbe che fin da ora gli fosse ossequioso tutto ciò che
l'Italia piena di guai e di speranze ha di meglio. Ma Leopoldo non
doveva presentare la sua opera a S, A. senza farla pregar prima a
volerla gradire: del quale uffizio ^li prega il valoroso e cortese si-
gnor Nota; e tu vieni in appoggio alla preghiera del tuo amico. Ap-
pena ricevuta la risposta, che si spera graziosa, saranno spediti i
tre magni volumi. Senti anche un'altra cosa. Io vo sempre pensando
che tutte le speranze dell'Italia infelice sono in questo principe; e
per dio, staremo mille anni prima che ne venga un altro di egual
potere e buona volontà. Ma alle volte io temo che egli si disperi che
in Italia, così mal condotta e incancherita, si possa far del bene. A
dargli coraggio e consiglio pare a me che gioverebbe assai la bel-
lissima opera del nostro Sismondi. Pare a te che ti stesse bene dame
(1) Cfr. GiTTSEPPB BiAOBGo, Letteratura e patria negli anni della domi-
nazione atirstriaca. Città di Castello, Lapi, 1913, pag. 259 e segg.
(2) Lettere di G. Cabdtjcci. Bologna, Zanichelli, 1911, pag. 337.
270 VINCENZO MONTI E IL PHINUPE DI CARIGNANO
un. cenno al signor Nota (poiché tu hai confidenza seco), ed egli
forse troverebbe occasione di gittarne un motto a S. A.? Pensaci. Io
per me ho pure un. gran desiderio che il principe legga quell'opera,
per conoscere bene l'Italia, e amarla e compassionarla, e volerla soc-
correre, e confidarsi di poterne egli essere il glorioso ristaum-
tore» (1).
Il Gualterio diede questa lettera come scritta « innanzi il 1821 »;
ma può assegnarsi, senza tema d'errore, al 1818, sia perchè in que-
st'anno furono compioite, a Venezia, in tre volumi in folio, la stampa
della Storia della scuLtwra di Leopoldo Gicognara, iniziatasi nel 1813,
e, a Parigi, in sedicd volumi in 8°, quella deìYHis taire des répubR-
ques italiennes du moyen àge di Sismondo Sismondi, iniziata a Zu-
rigo nel 1807; sia, e soprattutto, perchè, sempre in quest'anno e sol-
tanto per pochi mesi, il Nota fu segretario particolare di Carlo Al-
berto (2).
Il Monti scrisse veramente al Nota? Non sembra possibile du-
bitarne, anche perchè egli aveva conosciuto il Nota di persona fin
dal 1810 in Milano, e ne aveva lette e lodate due commedie: La
dorarla ambiziosa e II filosofo celibe. S'aggiunga che, proprio per
intromissione di lui, nella primavera di quel 1818 venne rappresen-
tata in Milano stessa l'altra commedia del Nota: La Itts^inghiera (3).
Né sarebbe a meravigliare che la lettera del Monti non sia conosciuta,
giacché del periodo 1818-1821 nessun ricordo rimane nelle carte del
Nota, probabilmente perchè il Nota medesimo volle tutto distrug-
gere (4).
•
• •
Sia quel che può essere, ciò che è ben sicuro si è che il 27 gen-
naio del 1821 il Monti spediva direttamente, con lettera accompa-
gnatoria, copia della terza edizione della versione dell'/ftarfe a Carlo
Alberto, e questi ne lo ringraziava il 14 febbraio con la seguente
lettera tutta autografa e inedita, ohe traggo dalla collezione Cain-
pori dell'Estense di Modena:
Spdacemd assaissimo signor cavaliere, che funa malattia d'alcuni giorni,
da cui sono pur ora convalescente, non m'aibbia i>erme6So di rispondere più
presto al gentilissimo e gratiseómo di lei foglio del 27 scorso gennaio. Con
qfuanto piacere io abbia ricevuto l'invàalomi esemplare della terza edizione
che si lece in Milano della celebratissima di lei vensione della Iliade, ella
il può inmiaginare cosi dal sommo conto, in cui hen giustamente tengo tutto
ciò che esce dalla dotta ed elegante di lei perniai, come dal raro pregio che
(1) Gli vltÌTM rivolgimenti d'Italia - memorie storiche di F. A. GtTALTSRio,
con documenti inediti, terza edicioive, Napoli, Angelo Mirelli, 1861-62, voi. Ili,
pag. 31, e voi. IV, pag. 330 e seg. — L'edizione del Minalli è in sei volumi,
e non è che una riaiampa della seconda edizione del Le Monnieo: (Firenze, 1862),
in quattro.
(2) Cfr. Onorato AliìOCCo-Ca stellino, Alberto Nota: ricerche intomo Ut
vita e le commedie, con lettere inedite, ritratti e appendice. Torino, Lattee,
1912, pag. 43 e a^g.
(8) Cfr. Alloooo-Cabtkllino, Op cit., pagg. 40, 164, 216.
(4) Cfr. Allooco-Cabtbluno, Op. cit., pag. 46.
VINCENZO MONTI E IL PRINCIPE DI CARIGNANO 271
racchiude in ee stesso un sì gran poema della cui lettxira tanto sempre mi
compiaccio. Ne nniceva pertanto signor cavaliere carissimo di questo di lei
dono la protesta di tutto il mio gradimento e riconoscenza. Risp>ondo pur
anche al signor (Borghesi per accusargli la rice\'uta e ringraziarlo del secondo
volume delle tavole Capitoline, ohe ella mi ha pure cortesemente spedito
unitamente a lettera del medesimo. Mi compiaccio intanto nell' accogliere i
di lei voti e rinnovarle i miei soliti sentimenti.
Torino. 14 febbraio 1821.
Suo affezionatissimo
Alberto di Savoia.
Dalla chiusa di questa lettera, se non sempre italianamente cor-
retta, per varie ragioni così notevole, appar manifesto che il Monti
aveva scritto qualche altra volta al principe, e che anch'egli, rispon-
dendo, gli aveva significati sentimenti di alta stima. Ma dove si ce-
lano queste lettere montiane, o almeno quella sicurissima del 27 gen-
naio? Ne sono state fatte invano, per me, ricerche diligenti e cortesi
nell'Archivio di Stato, nella Biblioteca del Re e nel Museo Civico di
Torino, e m'auguro — poiché non vorrei pensare a una distruzione
— che altri sia di me più fortunato. Certo sarebbe assai importante
conoscere una tal lettera e specialmente i voti del poeta che il prin-
cipe si compiacque accogliere: voti che, dato il carattere del libro
offerto, e il personaggio a cui eran diretti, e anche quel gran cuore
del Monti, che fin dal '97 aveva sinceramente pregato ai « fratelli » :
Una, deh!, sia la patria e ne' perigli
Uno il senno, l'ardir, l'alme, le vite^
non poterono che riferirsi a un migliore avvenire d'Italia.
Alfonso Bertoldi.
PER UN TEATRO DI MARIONETTE
Non è ifacile determinare il carattere delle nostre emceioni este-
tiche: difficilissimo questo processo di chiarificazione, a teatro.
Noi ci rechiamo ad uno spettacolo qualsiasi e ne usciamo con
la sensibilità leggermente turbata e lo spirito inquieto. Quel tanto
di realizzazione poetica che ci ha commossi è giunto fino a noi at-
traverso un siffatto groviglio di sensazioni eterogenee, che non ci è
più dato ritrovare l'unità e La purezza dello stato di grazia artistico,
disperso frantumato e violentato nelle molteplici materializzazioni
cui la scena assoggetta la creazione d'arte. Chi può dire quanti bran-
delli di sé la nostra intuizione lirica di una conmiedia shakespea-
riana lasci, con stridente lacerazione, uncinati alle quinte di cartone
ed ai jais luccicanti delle m^^ime e ballerine?
E se si parla di melodramma poi?
Ahimè ! il fatto è questo : che dalle gambe delle coriste alla
capellatura del direttore d'orchestra, dalle approssimative sceno-
grafie alle esigenze dell'acustica, dalla voce chioccia del primo at-
tore alla truccatura palese della prima donna, è tutto un disgre-
garsi della primigenia e salda visione del poeta, la quale pur tut-
tavia in quel martirio deve umiliarsi per esprimersi totalmente. Mi-
seria dell'arte rappresentativa che di tutte le arti è la più complessa
e la meno completa...
Può anche accadere che la nostra attenzione ed il nostro spiri-
tuale consenso siano a tratti rapiti senza riserve da ciò che avviene
in palcoscenico: e che deliziosamente la nostra anima s'inunerga
nella dolce infantile illusione di quel giuoco fragile. Ciò non vuol
dire: dopo, il dubbio spunterà maliziosamente dal fondo della no-
stra coscienza di esteti, e ci porrà il quesito: e come quell'atten-
zione si disperdeva poi con tanta leggerezza da un polo all'altro
della scenica rappresentazione? e come quel consenso andava ora
alla musica, ora ai cantanti, ora allo scenografo, ora al suggeritore,
e talvolta anche al poeta?
Nessuno saprà mai quanto (possa influire la nostra vicina di posto
nella comprensione di uno spettacolo d'arte in teatro !
Il guaio è anche che noi quasi sempre ci trasciniamo dietro,
un po' dappertutto, qualche problemuccio teorico che ci affanna. Sì,
qttesto è bello, ma in che rapporto sta con il sistema di cui mi onoro?
In parole povere, ttUto ciò che io ora, con tanto luminoso rilievo,
vedo ed ammiro, è possibile secondo le estetiche possibilità che io
da anni vado determinando? E se poi rum fosse possibile?!
PER UN TEATRO DI MARIONETTE 273
Tali ansie che caratterizzano uno spirito vigile coscienzioso ed
austero di fronte alle più ardue od alle più sottili ed ambigue ma-
nifestazioni d'arte, si moltiplicano ed accentuano, com'è evidente,
se lo spettacolo è d'eccezione.
Così è arrivato a Torino un teatro di marionette, il « Teatro dei
PiccoLi ».
Questo piccolo luogo di incantesimi ingenui e di misteriose raf-
finatezze può interessare mirabilmente anche i « grandi » .
Ma sarebbe troppo il pretendere che costoro intraprendano la
loro iniziazione a tale minuscola e squisita attività artistica, senza
qualche dubbio.
È giuste che i « grandi » siano presi di fronte alle marionette
da un timore, che li turba ed agita gravemente : ma e se queste ma-
rionette compromettessero la nostra serietà?
■k
**
Dunque vi fu ohi naturalmente provò un certo disorientamento
di fronte all'inconsueta rappresentazione; e ricercandone con arguta
indagine la causa, credette di rintracciarla in quel vagare dell'at-
tenzione, in quell'irrequietezza dello spirito x>osto a contatto di forme
d'arte che stanno insieme per miracolo: tendenze contrastanti ohe
con violenza vorrebbero svincolarsi dal giogo arbitrario cui sono
costrette in apparente unità.
Ma, e qui sta il punto, la cosa non è nuova, giacché è antica
quanto il teatro, è del teatro la storia stessa, del teatro in genere e
non di questo o quel teatro in particolare.
Teatro è riunione di arti, musica parole plastica attori, che dal-
l'intuizione totale del poeta (la quale è ipoi nella sua spirituale pu-
rezza l'unico e verace fatto estetico) sono richieste necessariamente
per la completa estrinsecazione di quell'intuizione appunto, che re-
sterebbe inespressa senza il concorso di tutti i mezzi fisici di cui
il teatro dispone.
Conflitto di estetica e di pratica, che a priori è diflBcilmente con-
ciliabile, ma che non impedisce poi meravigliose e commosse rea-
lizzazioni d'arte, anche con la più assurda delle messe in scena. Con-
ciossiacosaché la migliore soluzione della teoria più intricata, é an-
cora quella che spontaneamente nasce dal superamento della teoria
stessa, attraverso un'espressione, magari ingenua ed illogica, ma
intima e adeguata, della fantasia creatrice.
Ne risulta che a determinare la bontà di un fenomeno estetico
è inutile indagare il come esso si manifesti, per quali accidenti
transitori si sviluppi, é nocivo soffermarsi sulla sua esteriorità.
La materia nella quale un artista foggia il suo sogno importa
poco: ciò che importa è n sogno. Non si domandi dunque in qual
modo ad un teatro di marionette é possibile raggiimgere il suo scopo,
ma se raggiunge il suo scopo.
Ora quel certo disagio estetico di cui sopra, lo si prova di più
in un teatro di marionette che in un teatro di uomini? Mah! forse
meno...
Si potrebbe affermare che le marionette presentano molti van-
taggi su qualunque altro teatro, vantaggi di tecnica teatrale. Scene
274 PBB UN TEATRO DI MARIONETTE
ridotte, suscettibili delle ipiù delicate armonie e combinazicMii, per-
sonaggi fabbricati appositamente con tutte le risorse sintetiche del-
l'artefice che le plasma, e via dicendo. Ma ciò lasciamo ai tecnici
del teatro, che in fondo non vuol poi dire gran che.
Ciò che vuol dire è l'elemento nuovo che la marionetta porta
sulla scena.
Si è parlato óeìVmdi/ferenza spirituale dei fantocci. Forse in
confronto di quell'ardenza di interiori comprensioni per cui le nostre
prime attrici nei drammi borghesucci, ove sono costrette a rammen-
dare calze dal primo all'iiltimo atto, si adattano a non comparire in
velliUo d'argento con décolleté pronunciaùls sindo? Ma a parte i con-
fronti, sempre uggiosi, perchè una marionetta dovrebbe essere indif-
ferente? forse perchè è di legno?!
Il fatto è che noi nella marionetta dobbiamo vedere non l'imi-
tazione o la caricatura dell'uomo, ma una creatura a sé, viva di una
sua vita misteriosa e diversa, capace di emozioni rare e sconosciute,
stranamente sorridente sui limiti inquietanti di un mondo chime-
rico, mondo eccelso di poesia vagamente presentita ed ineffabil-
mente aberrante dalla cinematografabile realtà quotidiana, mondo
dal quale la marionetta viene evocata, per sortilegio di qualche can-
dido artista, a guisa di magica figurazione, un po' trasognata e leg-
germente sfuggevole, bizzarra ed animata sorella minore dei grandi
iddii di marmo, delle bianche statue: come Anatole France affer-
mava. Di questo mondo di bellezza, palpitante con fugaci lampeg-
giamenti nella penom'bra ded sogni velati, la marionetta è annun-
ziatrice, rozza come certi legnosi santi delle età mistiche, raffinata
come quei cherubini (sottili e inafferabili forme) che trasvolano mu-
sicalmente nei miti dell'anima.
Mondo dell'anima vera/mente : e Gordon Craig, che tutte queste
cose ci ha spiegato con arguzia dolorosa, lo dice mondo della Morte :
in realtà mondo di immagini pure, di simboli, e di luci irreali, ove
si sublima l'essenza della nostra spiritualità, ove, al di là della no-
stra esperienza, si creano le verità della poesia e del sogno.
A questo mondo le marionette appartengono naturalmente in
quanto da esso nacquero, figlie immediate del primo fantasticajre
umano, come tutti gli idoli della morte e della vita. Piccoli idoli
anch'essi, sprigionatisi spontaneamente dal vivido germinare del-
l'anima che brancola in oscure profondità.
Tutto ciò è infantile e forse divino.
E se poi la marionetta piacevolmente scimmiotta le prime donne
nel gorgheggio o le iprime ballerine nell'aereo sgambetto, queste
amabili ironie non devono distoglierci dal vedere in lei una crea-
tura eccezionale, inimitabile, irriducibilmente singolare, non stu-
pida e inerte ma capace di far vibrare in noi quelle apparizioni im-
provvise del nostro essere invisibile, cris msystiqites, qui n^ajrpartien-
nent pas à la vie extérieure de ces poèmes au de ces tragèdie s... E
Maeterlinck così parlando accennava appunto a quei capolavori del
teatro che, secondo lui, furono scritti con sacrifìcio grave dell'anima,
la quale solo a tratti balena, e che poi, sotto la corpulenta recita-
zione dei migliori attori, soffoca inesorabilmente. Perchè i migliori
attori recitano troppo bene per interpretare le più alte opere della
poesia, ohe sono, sì, eloquenza, ma anche candore e canto sommesso,
PE» UN TEATRO DI MARIONETTE 276'
e richiedono il pdù delicato strumento per risuonare a lungo nei
silenzi attoniti.
Rivelatrici di antiime, sintetiche e profonde nella loro estatica
espressività, poetiche solenni ed argute nel loro schematismo, le
marionette ressemblent à des hiérogly-phes égypHen^, hanno in sé
qualcosa di sacro, di ricco, di ^possentemente enigmatico che le fa
interpreti eccellenti di un Maeterlinck, e, «perchè no? di un Shake-
speare o di un Escihilo.
Ma, ecco, qui si dice: la Marionetta è comica, non è tragica.
Ohibò! Sarebbe bene provarlo. Dirlo così perchè più o meno sì
ritiene, a priori, che automatismo e comicità si identifichino, e che
non si possa dare gesto marionettistico senza parodia del gesto
umano, e cioè senza meccanismo e freddezza, è alquanto azzardato.
Intanto qui molto sta nella sensibilità individuale : il non scoprire
elementi di tragedia là ove altri li scorge è forse insuflBcienza no-
stra; ed è insuperabilmente arduo determinare regole generali, e
sapere fino a qual ipomto per me o per Tizio Caio Sempronio dal-
l'automatismo scaturisca la comicità, e dove incominci da quello
stesso angoscioso ripetersi di un gesto allucinato a diffondersi un
dolorante stupore.
E poi non vi sono cose comiche, eternamente comiche, e cose
tragiche,^ eternamente tragiche, per definizione.
Ma ciò che in un'atmosfera spirituale spinge al sorriso, può di
colpo in una nuova e diversa atmosfera divenire terribilmente tra-
vagliato dallo spasimo.
Senza contare ohe noi scoppiamo a ridere 'per quell'automatismo
che si sovrappone impensatamente al movimento abituale di una
persona che noi sappiamo o -immaginiamo tuttora agile disinvolta
flessuosa: da ciò la sorpresa e l'irresistibile senso di comicità.
Il che non è della marionetta, per la quale avremmo torto a
riportarci all'uomo come a .punto di riferimento.
Tragica la marionetta, di quella tragicità complessa che va dal
patetico al grottesco, dall'ironico al fantastico, potrà dirci forse quelle
parole, voci dell'Invisibile quotidiano, che gli uomini generalmente
non dicono o non sanno dire, e che ad ogni sopraffazione di atteg-
giamenti passionali e melodrammatici, svaniscono in un tremito.
E ohi potrebbe negare senz'altro ciie le marionette siano minu-
scole occulte deità, degne di metterei in comunicazione con i più
alti misteri della vita, della morte e della bellezza?
A
Tutto sta a trovare per le marionette il repertorio adatto.
Problema interessantissimo non solo per gli impresari che mi-
rano a soddisfare i gusti del pubblico, ed ottimo in quanto ci ricon-
duce direttamente al mirabile teatro romano.
Per esempio: l'opera in musica. C'è chi dice sia impossibile
adattarla ad un «Teatro dei Piccoli».
Ed invece il « Teatro dei Piccoli » ha fatto anche questo.
Certo non ha scelto il Tristano od i Maestri Cantori. Ha scelto,
poniamo, la Gazza Ladra di Rossini. Scelta che pur non essendo
fatta a caso, può dar luogo a cordiali discussioni. Ed intendiamoci ;
276 PER UN TEATRO DI MARIONETTE
si parla della Gazza non perchè sia un caso capitale nella fortuna
del « Teatro dei Piccoli » (che sarebbe affrettato giudicare tutta l'isti-
tuzione dairesame di una sola sua manifestazione), ma si iparla della
Gazza per l'occasione, che ne porge il destro (con la Gazza queste
marionette hanno debuttato a Torino), e perchè il caso speciale può
lumeggiare alcuni curiosi aspetti del problema nella sua generalità.
La musica rossiniana è qui di una freschezza vivacità scorre-
volezza incomparabili. Giuochetti e grazie languide, accenti melo-
drammatici, un po' d'enfasi, qualche sereno e patetico dilagare di
melodie e poi ritmi saltellanti, recitativi spigliati, ritornelli mali-
ziosa, danze adorabili di festività: ed in conclusione, dal principio
^la fine una verve indiavolata e travolgente, che non vi dà tempo
di soffermarvi su questo o quel iparticolare, che commenta con spi-
rito le vicende comiche, e dà un tono brioso a quelle drammatiche,
rilevandone con sorridente ed appena appena commossa simpatia
il vario movimento, gli atteggiajnenti, l'intreccio ora lacrimoso, ora
violento, ora giocondo. Comédie larmoyante fu detta giustamente
^juesta storiella buffa e malinconica di una gazza che quasi manda
alla morte una povera servetta : e la musica ne rispecchia bene l'es-
senza: musica deliziosa, ma a fior di pelle, che riesce con la sua
olivina e gioiosa spontaneità a circonfondere di un pulviscolo lumi-
noso questo banale libretto. Non musica quindi caratterizzante pre-
cisi e sanguigni tipi umani, né suscitatrice di emozioni intensamente
drammatiche e realisticamente passionali, ma piuttosto ondeggiante
tra la gaia dolcezza del vivere e la diffusa tristezza che garbatamente
nasce dai romanzi a lieto fine, che ci fanno soffrire un poco, ma ohe
poi si chiudono in un sorriso.
Ora in questo ambiente le marionette, come in una bella fiaba,
possono agire con grazia perfetta, intonandosi al flusso musicale,
che, aereo e gentile, non genera commozioni così nettamente con-
crete e pregne di attiva umanità, da stridere con l'eccezionale modo
di essere dei cari fantocci.
Anzi l'esecuzione marionettistica riuscirà con sottilissima e bo-
naria ironia a farci superare quegli episodi melodrammatici, con-
venzionalmente rettorici ed intimamente falsi, che sono oramai così
lontani dalla nostra sensibilità; mirabilmente diffonderà quel senso
di serenità un po' accorata col quale certi nostri avi contemplavano
sognando l'eterna commedia della vita; e di quel sogno ci comuni-
cherà il fascino remoto.
E non si dica ohe non sono commoventi le marionette !
C'è nella Gazza un duettino incantevole.
Ninetta, la povera servotta, vittima innocente del Fato avverso,
è in prigione, e Pippo, l'amico suo verace, viene per recarle con-
forto. Sulla porta vigila il carcenere con qualche indulgenza, grot-
tesca immagine dell'uomo che esegue un suo compito crudele ad
insaputa della sua anima, che forse piange.
Eld in quella composta armonia di luce crepuscolare, oasi di
purezza, le due creaturine si gettano l'una nelle braccia dell'altra.
E si parlano, e si dicono cose comuni, ma con tanta ingenuità di
gesti elementari, ma con sì dolce abbandono, che attraverso quelle
parole voi sentite vibrare due anime, finalmente. Due anime che si
.cercano oltre la brutale realtà, due animule trepide ed attonite che
PER UN TEATRO DI MARIONETTE 277
si levano dall'oscura miseria del mondo verso un'ignota felicità.
Raramente la fragile pochezza e l'infinito delle anime che sognano,
libere dai ccjppi carnali, fu espressa con tanta delicatezza. Vi pare
un simbolo ed è cosa viva. Sono fantocci, e quegli occhioni si spa-
lancano sul mistero indicibilmente.
Sarei facilone e ingiusto se dicessi che due ottime cantanti, un
po' grassoccie e sapientemente truccate, stenterebbero a (procurarmi
lo stesso tenue brivido di commozione.
A
Ma il repertorio del « Teatro dei Piccoli » è vasto.
Vi sono opere comiche, fiabe, leggende, e farse per i più piccini.
C'è di che meditare sulle possibilità di una rappresentazione
marionettistica.
E i piccoli possono trovarvi gioie innumerevoli e lievi palpiti:
possono assaporarvi l'incanto delle belle immagini e delle semplici
armonie che scendono al cuore, infantilmente ignaro, per la prima
volta.
Ma i bimbi, i bimbi... non saranno poi indifferenti a tutto que-
sto? vi è chi mormora.
E chi oserà entrare con sicurezza nella psicologia di un bimbo,
e dire : è così o così ?
Non si nega che un bimbo possa divertirsi enormemente con
qualche brutta scipitaggine (come avviene ai « grandi » del resto) :
ma è una ragione questa per non abituarlo a divertirsi al contatto
della bellezza?
Eki i « grandi » sanno forse con quanta spontaneità un bimbo
possa comprendere quella viva bellezza, ohe attraverso teoretni e
corollari appare ad essi « grandi » tanto diflBcile ed ardua ?
I bimbi guardano questo loro teatrino, come guarderebbero,
curiosi e meravigliati, entro un nido di fate, pieno di prodigi: ed
un ipoco della dolce visione li accompagnerà fors'anche a lungo,
come il ricordo vago di un bene lontano tra il molto male della vita
di ogni giorno.
E non è detto che, se un piccino può anche trastullarsi con una
goffa puppattola imbottita di stracci, si debba, noi «grandi», fare
a pezzi i più bei giuocattoli, le spilendide bambole di Norimberga.
Francesco Bernardelli.
I
CARLO CAHANEO E U SOCIETÀ DELLE NAZIONI
« La Società giuridica primitiva fu la famiglia : la finale sarà
la union© giuridica dei popoli civili ». Così ha sentenziato un nostro
illustre maestro del diritto intemazionale, il Fiore; ed ha detto bene.
Infatti la storia ci prova l'ascensione dalla famiglia alla tribù,
a sempre più larghe convivenze, sino a quello che Giambattista Vico
ha chiamato il mondo delle nazioni. Le rivalità fra Stato e Stato fu-
rono già fra città e città, fra rione e rione, fra parrocchia e parroc-
chia. Nel medio evo non si sarebbe concepito come Genova non do-
vesse rallegrarsi della sconfìtta di Venezia o di Pisa.
È dunque una ascesa evidente da cerchi di rapporti ad altri sem-
pre più vasti, sinché si avveri l'ideale simboleggiato neWunum ovile
et unus pastor. L'unità del genere imiano, intravveduta come una
astrazione dai filosofi antichi, specie dagli stoici, adombrata nella
concezione religiosa della repubblica cristiana, deve tradursi in ef-
fetto con la conquista veramente civile ed umana della civUos gen-
tiwm; e questa ha da essere fatto compiuto, non più semplice aspira-
zione o presupposto filosofico e religioso da catalogare a pari della
pietra filosofale o dell'elisir di vita perpetua.
Attraverso l'immane conflitto, che arse non più fra Stato e Stato
ma fra larghi gruppi di Stati, si è andata elaborando {ad anglista per
angusta) la Società delle Nazioni, sebbene rimanga ancora un desi-
derio l'invito del vecchio re Latino che Giangiacomo poneva in fronte
al Contratto sociale:
foederis aequas
DicaTMU leges.
Quello che era dettame di pensatori va diventando realtà di con-
quista civile. È l'Antropoli, già parsa utopia inaccessibile. Si aprono
le porte della città terrena alle genti a lungo peregrinanti affaticate e
nella ricerca affannosa deviate spesso dietro l'ombra vana di misti-
che Gerusalemmi.
Così nella Società delle Nazioni sotto gli auspici della democra
zia nord -americana e nella invocazione di Giuseppe Mazzini, prende
forme concrete il concetto di quel regime universale, intomo a cui
l'Alighieri sillogizzava nel suo rude latino del De Monarchia, il libro
che parve spregevole ai Balbo e ai Cantù e donde al genio del Maz-
zini nostro balenava la prima favilla della sua repubblica universale.
Ai precursori, ai profeti euccedono gld apostoli armati dell'idea,
quanto più questa si appressi alla realtà. La città del Sole che To-
maso Campanella faceva scoprire da un capitano genovese, l'isola
CARLO CATTANEO E LA SOCIETÀ DELLE NAZIONI 279
d'Utopia di Tomaso Moro emergono dal mare evanescente del sogno,
ora che alle lingue, giusta l'espressione del frate calabrese, succe-
dono le spade, caoè al pensiero l'azione.
Ma le spade debbono gratitudine alle lingue. L'umanità, rien-
trando nel suo retaggio, deve innanzi tutto mostrarsi riconoscente.
Prima che l'universale trovi, come suole, semplice logico naturale
necessario il fatto compiuto, giusto è ricordare quelli che con le loro
intuizioni e i loro insegnamenti resero possibile l'opera grande, crea-
rono questa coscienza generale, questo comune desiderio. Sono i pre-
cursori che sforzarono il destino e abbatterono le porte del tempo con
la loro meditazione audace e la parola sicura. Ad essi principalmente
è dovuto il viver di cittadini che, sia pure attraverso sacrifizi e dif-
ficoltà, noi vivremo o i nostri figli vivranno e godranno più riposato
e più bello.
È dal nuovo e libero mondo scoperto dal ligure ardito, dall'Ame-
rica del Franklin e del Washington che venne alla Francia e all'Eu-
ropa la scintilla e l'esempio della rivoluzione del secolo decimottavo
onde fu mutata la faccia del mondo. L'America, che è ancora la
terra del Washington e del Franklin, comunque siano fallite le spe-
ranze collocate nel Wilson, restituì ora moltiplicato l'aiuto recatole
un secolo e mezzo prima dai volontari seguaci del marchese di
La Fayette. Ma il La Fayette e la stessa rivoluzione francese sono
i figli di Giangiacomo Rousseau e dell'Enciclopedia. La filosofia del
secolo decimottavo, che Carlo Cattaneo non si stanca di celebrare
sublime benefica redentrice, è a sua volta la derivazione e il com-
pendio dei filosofemi di tutti i novatori precedenti, risalendo al no-
stro rinascimento e alle derise utopie del Campanella e del Moro.
Ma la Città del sole, dove i Solani non duellano e non portano
odio ad alcuna gente, e l'Isola d'Utopia, dove non sono eserciti ma
tutto il popolo sa adoperare armi e detesta la guerra, fluttuano nelle
nubi del sogno. È l'abate di Saint-Pierre che nel 1713 cercò di for-
molare il disegno d'una federazione di tutti gli Stati, come sola
garanzia della pace perpetua. Sventurata filantropia dell'accademico
progettista! Invano egli fu così fecondo e prolisso scrittore. Non gli
valse porre il suo progetto sotto gli auspici di principi e re, comin-
ciando dalla memoria di Enrico IV; non lo stenderlo in più volumi
né il compendiarlo in un volumetto tascabile; non il recarsi a Utrecht
per farlo accettare alla conferenza ivi raccolta. Popolarissimo nel-
l'età che fu sua, doveva poi rimanersi conosciuto così poco agli stessi
dotti come se avesse scritto VAugustinus o il De tribus impostoribus;
tantoché illustri professori di diritto delle nostre Università confusero
lui abate Carlo Ireneo Castel de Saint-Pierre che apre il secolo deci-
motta vo (1657-1743) con l'anima mite di Giacomo Enrico Bernardino
de Saint-Pierre che lo chiude (1737-1814). E non mi maraviglia che
anche in questo errore cadesse la scienza troppo multiforme di En-
rico Ferri; mi maraviglio di Lodovico Casanova, che in questo
ateneo professava le civili dottrine intomo ai diritti delle nazioni
nello stesso tempo in cui il Mancini illustrava la cattedra di diritto
intemazionale a Torino; mi maraviglio di Emilio Brusa, di Achille
Loria.
L'eredità dell'abate di Saint-Pierre fu raccolta da Emanuele
Kant. Questo cittadino dell'umanità futura (non oso dire tedesco il
280 CARLO CATTANEO E LA SOCIETÀ DELLE NAZIONI
figlio di un'antica terra lituana, tanto si solleva su tutta la tede-
scheria passata e presente) dettò nella forma e nello stile dei proto-
colli diplomatici, già piaciuti all'abate, un suo disegno di conven-
zione della pace perpetua. Egli vi apponeva una condizione neces-
saria, la federazione repubblicana fra le nazioni. Diciamolo aperta-
mente. Il Casanova al suo tempo doveva attenuare e dire « federa-
zione democratica».
Ma dove la concezione della Società delle Nazioni, uscendo dalle
ambagi e dalle incertezze, acquista precisa determinazione di con-
tomi e il massimo di forza per larghezza di vedute, profondità di
convinzione, splendore di eloquenza nella esposizione; dove sopra-
tutto l'idea diventa azione con insistenza e ampiezza di propaganda
è in Giuseppe Mazzini e in Carlo Cattaneo. In questi due nostri mas-
simi il pensiero fa equazione col fatto, come quello che non è mera vi-
sione iperuranica ma rampolla dalla considerazione positiva delle
esigenze della società contemporanea in relazione al moto infaticato
del progresso. 'La società delle nazioni (non è più un progetto,
una elucubrazione di solitario; è un apostolato. Il pensatore esce dal
silenzio del suo studio, e dominato, afferrato esso stesso dall'idea,
getta l'idea fra le turbe come face ardente ad infiammarle. Ne fa
la ragione stessa della propria esistenza, votato a quella come a una
missione, obbedendo a un imperativo categorico del proprio spirito,
eco e riflesso della coscienza generale che si va maturando. Non è
più il progettista, è il profeta.
Non parlerò del Mazzini. Ne parlano tanto gli altri. E dehl
almeno valesse a temperare gli ormai soverchi ardori dei neomaz-
ziniani la considerazione che si falsa il Mazzini stroncandone dei
brani ad opportunità di causa, mentre è, come egli dice di Dante,
una tremenda unità, e il suo programma internazionale inscindibil-
mente si congiunge al suo credo politico e religioso. Comunque è
consolante che finalmente, dopo mezzo secolo dalla sua morte, co-
mincia a non essere più esule in patria.
« L'ombra sua toma ch'era dipartita ».
Ma l'occasione della conflagrazione non più veduta e non bene
spenta ancora, che accomunando i destini dei popoli più lontani fu
una spinta possente verso la effettiva unità dello uman genere, ri-
chiama un altro grande a cui l'Italia nuova dev'essere obbligata
come a uno dei suoi maggiori profeti, tenuto sinora in bando dal
mondo ufficiale. Gli danno diritto ad essere riconosciuto e accolto
trionfalmente dalla scienza ufficiale (se voglia questa davvero gettare
lungi da sé il giogo teutonico) l'altezza originale della mente, la
vastità enciclopedica degli studi, la novità delle indagini pur in ar-
monia non interrotta con la tradizione italiana, la veste perfetta-
mente superbamente italiana in cui presenta nitido scintillante il
suo pensiero. È giusto che noi rivendichiamo dalla ingratitudine
di Stato la grande ombra del maggior discepolo di Giandomenico
Romagnosi, la pupilla degli occhi suoi (come il Romagnosi stesso
chiamavalo), l'ombra del grande che fu l'anima delle cinque gior-
nate della sua Milano e riassunse il suo pensiero e la sua fede nella
impresa « Stati uniti d'Europa », oggi che il concetto d'una unione
degli Stati del mondo civile, uscita dalla nuvola dell'utopia, s'im-
CARLO CATTANEO E LA SOCIETÀ DELLE NAZIONI 281
pone con la eloquenza dell'antico che chi negava il moto confutava
movendosi.
Gioverà lo studio delle pagine del grande poligrafo milanese,
dove per entro lo stile terso grecamente italiano brilla puro il pen-
siero positivo di questo scrittore che ha tratti e movenze d'un savio
della rinascenza, geometra e poeta nello stesso tempo, di questo cer-
vello figliato direttamente, per la sua lucida comprensività, da Leo-
nardo e da Machiavelli, gioverà a temperare il misticismo di Giu-
seppe Mazzini (è un mazziniano che parla), a far sì che il realismo
non ceda mai al nominalismo.
Mentre Giuseppe Mazzini, estendendo il concetto della sua Gio-
vine Italia, lo completava e integrava con la Giovine Europa, primo
nucleo, rappresentato da pochi esuli, della futura cdleanza dei popoli
audacemente contrapposta alla Santa Alleanza dei despoti, Carlo
Cattaneo maturava non dissimile concetto che doveva concretare
nella formola « Stati Uniti d'Europa». Formola felicissima, che ina-
nellava il nuovo programma della Democrazia Europea alla sua tra-
dizione e alle sue origini, cioè alla dichiarazione d'indipendenza e
alla Costituzione degli Stati Uniti d'America, dichiarazione e costi-
tuzione le quali furono incitamento e modello alla Dichiarazione dei
diritti dell'uomo e alla rivoluzione francese.
Carlo Cattaneo era immerso nei suoi studi rivolti ad abbracciare-
il vasto giro delle scienze, quando lo sorprese la rivoluzione del 1848.
Fu d'un balzo alla testa di essa, e lo statista, l'uomo d'azione riesci,,
come pochi, pari al pensatore. Nella grande crisi di quell'anno
e nelle disillusioni che ne seguirono ebbe ritemprato e nitido il con-
cetto informatore dell'avvenire. Ritrattosi a Parigi, dove U Gioberti
meditava il Rinnovamento, nel settembre stesso di quell'anno dettava
in francese, indi in italiano il libro sull'Insurrezione, dove l'elo-
quenza storica e politica rivaleggia con quella del pensatore e sta-
tista piemontese, ma dove il pensiero lucido e reso in semplice e
rapida evidenza, la dirittura inflessibile della mente, il giudizio
austero e sicuro non hanno altro paragone che Tacito e Machiavelli,
e si sollevano sulla prolissità ridondante e licenziosa del Gioberti
nella quale talora non le sole forme ricomi>ariscono ma altresì gli
spiriti del Bartoli e del Bembo.
In quel suo capolavoro Carlo Cattaneo asseriva:
« La servitiì d'Italia è patto europeo; l'Italia non può esser libera
che in seno a una libera Europa». E concludeva il libro con l'epi-
fonema divinatore di cui oggi vediamo e sentiamo tutta la verità:
«Avremo pace vera quando avremo gli Stati Uniti d'Europa».
Il Mazzini nel 1871, discutendo coi comunisti, rivendicava, com-
piacendosene, al Cattaneo, questo concetto dell'intemazionale solida-
rietà di tutti i popoli, stretti con altro nodo che con quello dell'im-
perialismo, « non colla unità materiale del dominio, ma col prin-
cipio morale dell'eguaglianza e della libertà », e ricordava l'epilogo
profetico di quel libro, che rimase singolare e appartato, non accolto
dai Le Mounier e dal Barbèra nelle edizioni loro degli scritti del Cat-
taneo, tanto siamo ancora lungi da quella rara temporum felicitate,
vantata da Tacito, ubi sentire quae velis et quae sentias dicere licet.
Ormai contemplava come fine non lontano e degno d'essere
proseguito con instancabile propaganda quella Federazione delle
19 Voi. OOXVn. «erie VI — 1* aprii*. 1922.
289 ' CARLO CATTANEO E LA SOOETÀ DELLE NAZIONI
nazioni che pareva riserbare « ai remoti secoli », nel 1843, quando
confutava i sofismi dell economia nazionale di Federico List. Egli
aveva detto : « L'oceano è agitato e vorticoso; le correnti vanno a due
capi: o l'autocrata, o gli Stati uniti d'Europa». Ora sollevava ardi-
tamente la bandiera degli Stati Uniti europei appena chiusa la guerra
regia ded 1848.
È naturale che avendo il moto rivoluzionario della metà del se-
colo scorso fatto capo al cesarismo dapprima napoleonico, dal Catta-
neo tanto avversato, poi tedesco, la figura del nostro innovatore ri-
manesse oscurata e dimenticata; come è giusto che sia tratta in piena
luce oggi che si comincia a riconoscere quanto egli avesse ragione.
L'impreparazione delle moltitudini ineducate permise prevalesse
quanto delle istituzioni medievali era sopravvissuto alla rivoluzione
francese; donde la Triplice Alleanza, proclamata dal suo autore, il
Bismarck, tutela delle dinastie e dell'ordine, cioè della plutocrazia
e dell'elemento conservatore. Con che invece della federazione degli
Stati e della fratellanza dei popoli, si ebbero le rivalità tra i mag-
giori Stati, il disconoscimento delle nazionalità minori, la politica
coloniale.
Così la politica delle Corti e della vieta diplomazia, cui aderiva
l'Italia a ritroso dell'indirizzo a lei predicato dal Gioberti, nonché
dal Mazzini, dal Garibaldi, dal Cattaneo, costituiva una vera rea-
zione velata dalla facilità e frivolezza della vita. Ma le cose, secondo
la degnità del Vico, fuori del loro stato naturale, né vi si adagiano
né vi durano, ed anche nel campo internazionale è destinato a trion-
fare quel principio d'unità federale che ha prevalso nelle scienze bio-
logiche e nelle scienze morali. Tutto in tutto, diceva Anassagora.
Tale invero è la concezione che il genio di Cattaneo ebbe della scienza
e della politica. La federazione era per lui un principio sul quale
poggia il móndo dell'essere e quello del conoscere, la scienza della
storia e della società; principio a cui Gabriele Rosa, altro intelletto
nostro da trarre dall'oblìo, dava, concertato a quello della alterna
rotazione, le più estese applicazioni. Tutto è armonico nel Cattaneo.
Il suo federalismo nel campo del sapere fa riscontro al suo federa-
lismo nell'ordinamento della nazione e delle nazioni fra loro.
Sotto il vigile occhio dell'Austria, sin dal 1840, nella prefazione
al secondo volume del Politecnico invocava la « grande associazione
scientifica dell'Europa e del mondo, perché gli interessi della civiltà
sono solidari e comuni, perché la scienza é una, l'arte è una, la glo-
ria è una». Ma dalla «e nazione degli uomini studiosi» che «é una
sola», dalla « nazione dell'intelligenza che abita tutti i climi e parla
tutte le lingue » prorompeva facilmente l'aspirazione a « l'unione
fraterna di tutti i popoli europei, nel semplice grido del cittadino
e del filosofo: Libertà e verità ».
Pel Cattaneo la scienza non era fiaccola che arde e non scalda;
il sapere doveva, secondo la tradizione nostra italiana, operativa ri-
salente a Pitagora, tradursi in civili ordinamenti. « Giustizia e li-
bertà ad ogni nazione — così ei ripigliava nel 1861 — ad ogni po-
polo e ad ogni famiglia, padrone ognuno in casa sua; e tutti fratelli
e ospiti e amici in tutte le parti della terra ».
Ma già nel 1835 (mentre il Mazzini diffondeva la Giovine Eu-
ropa) il Cattaneo scriveva quel mirabile saggio sulle Interdizioni
CARLO CATTANEO E LA SOCIETÀ DELLE NAZIONI 283
israelitiche, dove le ricerche economiche circa le restrizioni legali im-
poste agli Ebrei sono condotte con sguardo aquilino che contempla
dall'alto le leggi dell'umano progresso. Tutto il penultimo paragrafo
mostra le nazioni procedere dalla dissoluzione feudale e medievale
verso una superiore armonia ed unità, e celebra ed auspica l'ultimo
© più difficile trionfo della progressiva universa equità sociale. « Le
più grandi nazioni — hanno del profetico queste parole — si vanno
disingannando dai sanguinosi delirii della conquista e dell'univer-
sale dominio della terra e del mare. I popoli più ambiziosi e più ar-
migeri si troveranno divenuti in breve tempo i più poveri, i più
ignoranti, i più inoperosi, i più deboli. Le nazioni più modeste e
tranquille, più contente del proprio, più aliene dalla turbolenza di-
plomatica e militare, si troveranno le più illuminate, industri, rioche,
concordi e operose » ,
E prima ancora, nel 1833, studiando le tariffe daziarie negli Stati
Uniti d'America ne traeva intuizioni geniali. Se il Mazzini nel 1865
prevedeva la missione odierna serbata agli Stati Uniti in Europa,
considerando il Cattaneo, nel detto studio del 1833, come l'ameri-
cano, lungi dall'essere un popolo nuovo, risultasse di vecchie razze
europee, spesse volte rifiuto e scolo dell'Europa, persino di sfuggiti
alla giustizia ed alcuni dalla giustizia stessa deportati, rilevò la
bontà delle istituzioni. E concluse che è il vincolo federativo «solo
che forma di loro una nazione possente © temuta, invece d'una greg-
gia di piccole colonie sbrancate, invidiose, nemiche, costrette a vi-
vere coll'armi alla mano perpetuamente, come gli Europei, e a liti-
gare ad ogni istante per qualche spanna di selvaggia frontiera a
guisa dei barbari aborigeni ». E molti anni prima della Capanna
dello zio Tom, maledicendo alla schiavitù dei negri, esclamava:
« Chi ha in cuore un senso di giustizia e d'umanità, deve sentirsi
quasi tentato ad invocar l'orribile ma passeggiero flagello della
guerra, se si può sperare che tolga finalmente questa infamia del
mercato degli uomini ».
Così giustificava la guerra emancipatrice e confidava nelle isti-
tuzioni della repubblica delle stelle quando il Gioberti teocratica-
mente, stante la piaga della servitù, la giudicava insanabile.
Qui certamente il nostro cominciava ad ammirare la forma fe-
derativa, «per la propria virtù che la sublima», che gli farà quin-
dici anni dopo invocare gli Stati Uniti europei.
Il Carducci, grande estimatore del Cattaneo, mise in fronte alla
sua ode La guerra, ad avvalorarne il concetto, una sentenza di lui che
mentre afferma il perpetuarsi della guerra nel mondo, fa procedere
dalle sue stesse conseguenze il diritto delle genti, la società del ge-
nere umano; e bastava voltare la pagina per trovarvi dedotta la legge
storica che « spinge le genti verso una sola e universale associazione,
che è l'attuazione del diritto universale » .
Come accennammo, la dottrina del Cattaneo della federazione
delle nazioni non è isolata, essa si connette perfettamente con tutto
il suo pensiero, non è che un corollario del suo sistema politico e so-
ciale, dal quale germina come frutto da seme. L'idea federale del
Cattaneo merita d'essere illustrata e proposta ad esempio nelle nostre
Università, se devono avere scosso davvero il giogo tedesco. Non dob-
biamo permettere che sia oscurata presso di noi la tradizione verace
284 CARLO CATTANEO E LA SOaETÀ DELLE NAZIONI
della romanità, tanto meno che altri venga dalle terre iperboree ad
insegnarcela o rammentarcela; né possiamo chiedere le forme della
libertà o il segreto per riformare lo Stato e la Società agli Slavi, la
cui vita, come dice il nostro, il cui nome stesso è schiavitù. Giosuè
Carducci, nudrito del pensiero di Carlo Cattaneo, nel discorso su Lo
studio di Bologna, così si domandava : « Oggi che l'Italia, per virtù
del suo lungo martirio, ha inaugurato l'età nuova degli stati nazio-
nali, perchè non potrebbe chiamar quest'età a ricevere ne' nuovi
ideali politici, dei quali irrequietamente ella va in traccia, quanto
del diritto pubblico romano non fu di despotismo imperiale?... Per-
chè da quella Roma che seppe così gloriosamente riunire le genti
non potrebbe l'Italia dedurre ancora i principi che informino e reg-
gano ancora le nuove nazioni e la loro federazione spontanea?».
Il ligure ardito e il gran lombardo, quello rispecchiando nella
democrazia italiana del secolo scorso l'atteggiamento romantico e
idealista, questo il classico e positivo, furono veggenti entrambi.
Entrambi, col privilegio del genio, innalzarono l'occhio delle menti
loro vasto e profondo alla visione della futura umanità. Ciascuno di
essi poteva dire quello che Schiller, da entrambi studiato, poneva
in bocca al marchese di Posa:
Immatura è l'età per l'ideale
De' miei pensieri. Cittadino io vivo
Tra color che verranno.
Se non questa che viviamo, quella che i figli nostri vivranno, si
va disegnando l'età da loro divinata. La costruzione ideale non era
un fantasma od un sogno che l'anima attinge in sé stessa e solo di
sé stessa nudrisce. Era l'ideale che si sprigiona dalle cose, il presen-
timento legittimo della realtà. La Società delle Nazioni non è più
utopia.
Riscontro prezioso della verità. Ad uno stesso vero giunse il
Mazzini dalla concezione trascendente di « Quei che è padre di tutte
1© genti »; donde l'eguaglianza e la fratellanza delle genti stesse; con-
cezione non campata in aria e non mistica puramente, che gli era
stata suggerita dallo studio della storia dell'umanità nelle sue pro-
gressive manifestazioni. Allo stesso concetto giungeva il Cattaneo
dalla comprensione positiva delle scienze, l'insieme delle quali, men-
tre già si andavano svolgendo prodigiosamente, cercò di seguire con
vedute pratiche nel suo Politecnico, solo dolendosi di non potere or-
mai più abbracciare un tale movimento sempre più rapido sempre
più ampio. Così la deduzione e l'induzione, la sintesi e l'analisi ap-
prodarono allo stesso risultato, a questa Lega delle Nazioni, che se-
gnata pallidamente, embrionalmente nel trattato di Versaglia del 16
giugno 1919, rompe i veli dell'utopia e si manifesta come una pode-
rosa realtà che s'avanza. Patuit dea.
Né ci irriti o ci offenda, siaci anzi argomento di soddisfazione e
di compiacenza se alla nuova ara si inchinano e rendono omaggio
molti che sino a ieri si prostravano dinanzi agli altari della cultura
tedesca e non sapevano immaginare scienza qualsiasi, speculativa o
pratica, che non uscisse dalla Selva Ercinia, secondanti i governi che
ci avevano legati al carro di Arminio trionfante. Sorridiamo" e com-
CARLO CATTANEO E LA SOCIETÀ DELLE NAZIONI 285
patiamo. Non si deve volere la morte del peccatore, ma che si con-
verta e viva.
D'altronde già la volpe della favola avvertiva che non ogni uomo
che sa lettere è savio. I barbassori della Dieta di Roncaglia riconob-
bero dinanzi a Federigo i diritti dell'impero sulle comuni libertà,
non meno degli scienziati di Francia dinanzi a Napoleone. Già esi-
tando Luigi XIV, ad onta del suo motto Vétat c'est moi, a adottare
l'imposta del decimo su tutti i beni privati, il padre Le Tellier, suo
confessore, gli tolse ogni scrupolo, se dobbiamo credere alle memo-
rie del Saint-Simon, procurandogli un consulto dei più abili dottori
della Sorbona i quali decisero apertamente che tutti i beni de' suoi
s(^getti erano propri di lui e che quando li prendeva non pigliava
se non ciò che gli apparteneva.
La Società delle Nazioni, che comprenderà domani, coi vinci-
tori, tutti i vinti, è il messaggio che gli Italiani già intesero dal Maz-
zini e dal Cattaneo, il «regno dell'uomo», preconizzato da Bacone,
e che è la sola e vera città di Dio. Ck)me nelle milizie permanenti ve-
deva l'Alfieri il maggiore ostacolo alla libertà, così vi vedeva il no-
stro uno dei principali ostacoli all'effettuazione degli Stati Uniti Eu-
ropei. Egli sosteneva che gli eserciti permanenti, non solo impoveri-
scono le nazioni, ma sono strumento di assolutismo all'interno, fo-
mite di guerra all'estero: ond'egli vagheggiava la nazione armata,
che fa tutti militi e nessun soldato. Questa guerra ha giustificato,
col grande astigiano, il grande milanese, questa guerra, che ha di-
mostrato che le milizie stanziali sono il presidio dell'autocrazia e
dell'imperialismo, senza essere garanzia di vittoria, la quale può ar-
ridere ai popoli che non conoscono coscrizione e caserma.
Sì, è la costituzione degli Stati Uniti d'America, ammirata dal
Gladstone quale capolavoro del genere umano, che si propone a mo-
dello al genere umano. Non temete possa prevalere la barbarie russa.
L'av\'-enire serba i suoi trionfi alla concezione del Cattaneo, verifi-
candosi quella legge del moto storico uniformemente accelerato che
egli divinò ed illustrò. Scriveva invero nel 1856 : « Numeriamo tran-
quillamente in paragone ai secoli i pochi anni che corsero dal tra-
gitto di Lafayette, quando approdò all'Europa il germe d'una libertà
ignota al tempo antico, d'una libertà eguale per tutti, e congiunta ad
una infinita aspirazione di progresso, ad im infinita fiducia dell'av-
venire, una libertà che non guarda indietro come quella delli Spar-
tani, né pensa solo a morire come quella di Catone, ma guarda nel
futuro impavida e serena, perchè vi aspetta di vivere e trionfare ».
Il Cattaneo aveva ragione. Noi siamo alla vigilia, a malgrado d'c^ni
travaglio della crisi di trapasso, di quella vita e di quel trionfo; è
sotto l'esempio dei più liberi popoli del mondo che, come il Cattaneo
prevedeva, si svolgono nuove idee e si preordina un nuovo mondo
civile.
Sposare gli intenti della scienza a quelli della vita civile fu la
mira suprema del Cattaneo nei rapporti nazionali e intemazionali
« La filosofia — scriveva nel 1861 — è il pensiero dell'umanità; la
filosofìa è nella politica comune del genere umano ciò che il pen-
siero è all'azione. E come a compiere le risoluzioni della mente sono
necessarie le forze del corpo, così è necessario che la filosofia per
compiere la sua azione, tragga a sé tutte le forze dell'umanità; il
286
CARLO CATTANEO E LA SOCIETÀ DELLE NAZIONI
che non può faa^e se non elevando all'aHezza sua il pensiero della
moltitudine. Lo scioglimento delle contraddizioni sociali non si può
conseguire in mezzo alla scambievole opposizione e all'eterna op-
pressione de' popoli; esso vuole le loro eguaglianze, la loro libertà;
vuole il trionfo del diritto in tutta l'umanità. Una sola e medesima
l^ge deve legare l'uomo singolo alla famiglia, al popolo, alla na-
zione, al genere umano. Questo è l'ultimo sviluppo della legge unica
della creazione». « Solo la scienza — scriveva sin dal 1852 — può,
nella contemplazione dell'immenso universo, assopir tutte le ine,
disarmar tutte le vendette, stringere in consorzio fraterno tutte le
genti ».
Giova rinfrescare questi eletti fiori della filosofìa civile del Cat-
taneo, pregni di quell'aroma immarcescibile del sapere che è il
solo antidoto contro i conati livellatori di un comunismo asiatico
che seppellirebbe scienza e civiltà.
Giuseppe Macaggi.
TRA LIBRI E RIVISTE
1 nostri editori. La Casa editrice Caddeo — Ancora il centenario di Dante — Renato
Fucini — il tesoro dei Nibelungi — Pico della Mirandola — Originali ed imitazioni —
Giuseppe Garibaldi e la donna — Foscolo e Monti — Novelle di Duhamel — Gran La-
guna fa buon porto — Una vita di Lopez De Vega — Per i Bimbi Balducci.
I nostri Editori.
La Casa editrice Caddeo.
Non si può dire, in verità, che in
Italia, specie dopo la guerra, facciano
difetto le Case editrici. Case per modo
di dire, che, bene spesso, specialmente
nelle piccole città di provincia, non è
raro il caso di veder spuntare una
Casa editrice da una modestissima tipo-
grafia, o un modestissimo tipografo
tramutarsi ipso facto in editore, con la
pubblicazione, sempre s'intende a spe-
se dell'autore, di un centinaio di pa-
gine di novelle più o meno audaci e
insulse, o, il che accade più spesso, di
una raccolta di versi, diciamo meglio,
di parole in libertà di una giovine e
bella speranza della patria letteratura.
E il fatto, in se stesso, anziché dispia-
cere, dovrebb'essere argomento di com-
piacimento : se si stampa, è segno evi-
dente che si legge. E se gli editori si
moltiplicano a dispetto dell' enorme
costo della mano d'opera e del prezzo
favoloso della carta, è segno evidente
anche questo che il mercato librario
fiorisce e l'educazione letteraria e scien-
tifica prospera... Ma qui dobbiamo fer-
marci ; limitiamoci soltanto a chiedere
se tutto quello che si stampa è degno
di essere stampato, e se i divulgatori
di libri sanno sempre, o vogliono sem
pre cernere il grano dal loglio, o non
piuttosto speculare sulla dabbenaggine,
e, perchè no?, sulla morbosa curiosità
e malizia di certo pubblico e di certe
lettrici... Tuttavia editori degni della
loro professione, consapevoli dei do-
veri verso r educazione e la coltura
nazionale e memori delle gloriose tra-
dizioni del passato librario non man-
cano; e noi che abbiamo iniziata nella
nostra Rivista questa rubrica per sug-
gerimento e incitamento di un caro
scomparso, rubrica non di volgare re-
clame ma di onesta segnalazione delle
migliori Case editoriali, diremo di ognu-
na via via le origini, lo sviluppo, l'at-
tività, le particolari benemerenze e le
caratteristiche.
Oggi è la Casa editrice di R. Cad-
deo di Milano che attira la nostra at-
tenzione.
•
• •
Giovine la Casa editrice Caddeo ; e
perciò se essa non ha ancora raggiun-
to quel grado di intensità produttiva
che il fondatore vagheggia e si pro-
pone, è, peraltro, sopra una via che la
condurrà, indubbiamente, alla mèta a-
gognata.
Ebbe origini modestissime nel giu-
gno del 1914, ma scopi e fini assai no-
bili di propaganda nazionale. Infatti,
il primo volume edito ha per titolo:
// Triestino, la Venezia Giulia e la
Dalmazia nel risorgimento nazionale -,
autore un fiorentino di origine inglese,
Lancillotto Thompson. Respinta l'opera
manoscritta da tutti gli editori italiani, è
288
TBA l'IBRI E RIVISTE
questa una indiscrezione che preghiamo
perdonarci, i quali avevano sentenziato
che r irredentismo era cosa oramai
morta e seppellita, e che non era pru-
dente irritare l'Austria, nostra ineflfa-
bile amica e signora di Trento e Trie-
ste!, con un piccolo fondo di 900 lire
(allora i prezzi della stampa non erano
così favolosi come oggi) raccolto tra
amici e giornalisti, fu compiuto il mi-
racolo ; e il libro uscì stampato, circolò,
entrò con falsa copertina a Trieste, e
fece anche un giro non inglorioso in Ger-
mania, come volume di novelle di An-
tonio Fogazzaro! Propagandisti, Naza-
rio Sauro e Cesare Battisti. La Casa
Editrice " Risorgimento ,, (questo no-
me le piacque di assumere) era fon-
data. Ma siffatto sforzo di buon volere
di pochi sarebbe riuscito vano, se,
scoppiata la guerra, la tenacia, la fede
e l'attività di un uomo non avessero
saputo energicamente resistere all'im-
peto travolgente della immane crisi di
ogni e qualsiasi iniziativa; se, poi, a
guerra compiuta, quell'uomo, il Cad-
deo, orientando la sua azienda più
spiccatamente verso la propaganda na-
zionale, non avesse saputo infondere,
con l'aumento anche del capitale so-
ciale (mezzo milione) vigor nuovo di
vita all'impresa.
Oggi la Casa Caddeo può vantare
nel suo attivo una produzione libraria
importante e caratteristica, intesa a por-
tare un valido contributo alla eleva-
zione della cultura nazionale mediante
la ristampa e la traduzione delle mi-
gliori opere della letteratura nostra e
straniera; volta, con nobile sentimento
di onestà, a bandire tutta la letteratura
narrativa scurrile, pornografica e com-
merciale, e a rafforzare con pubblica-
zioni di storia del Risorgimento e di
politica il sacro principio di naziona-
lità negl'Italiani.
Di qui le varie e pregevoli collezioni
iniziate e da iniziarsi : prima la Colle-
zione Universale, che tanto fervore di
assensi ha suscitato tra noi : Poesia,
Romanzo, Teatro, Memorie, Critica let-
teraria e artistica, Storia, Filosofia, ecc..
capolavori d'ogni letteratura e d'ogni
secolo, curati nei testi da competenti
studiosi e scrittori e da essi chiariti
con sobri ed efficaci commenti. Seguono:
la Collezione del Risorgimento, quella
Politica che si propone di far cono-
scere il pensiero degli uomini più noti
della politica nostrana.
S'inizierà, tra breve, una nuova col-
lezione di scrittori comici contempora-
nei e un'altra collezione di cui teniamo
in serbo il nome, per ora, ma che è
destinata senza dubbio a colmare una
grande lacuna nel campo delle scienze.
Or ora è uscito un importante vo-
lume del Battara sulla Svizzera di ieri,
che apre la serie di studi sui paesi
europei.
Né la Casa Caddeo ha dimenticati i
piccoli lettori. Il suo Almanacco per i
Ragazzi è oramai entrato nel pubblico
piccino d'Italia, formandone la delizia.
* *
Concludendo, ci piace di pronosti-
care non lontano il momento in cui
una provvidenziale ventata di sani spi-
riti editoriali spazzi via finalmente dal
nostro mercato librario tutta la merce
avariata che lo contamina e che autori
poco scrupolosi ed editori poco coscien-
ziosi di continuo vi gettano con danno
evidente e non piccolo della morale e
della cultura nazionale. Essi hanno
sfruttato e sfruttano il cattivo gusto
del pubblico..., specialmente femmini-
no..., il che è speculazione indegna.
(/• g)-
Ancora 11 centenario di Dante.
Un altro libro in occasione del Cen-
tenario dantesco, ma è il libro d'un
morto : Discorsi su Dante di N. Tom-
maseo, a cura di N. Vaccalluzzo, G.
Carabba, editore. Lanciano, 1921. Son
14 discorsi sul secolo, la vita, l'amore
di Dante, le rime, la nobiltà di Dante,
Guelfi e Ghibellini, ecc.; e tre saggi
critici: Francesca, Ulisse e Guido di
Montefeltro,il Conte Ugolino. I Discorsi
furon pubblicati dal Tommaseo nel
1865, nell'occasione del Centenario della
TRA LIBRI E RIVISTE
289
l
nascita di Dante e son ripubblicati oggi
opportunamente nell'occasione del VI
Centenario della morte.
A onorare degnamente il Poeta, il
Tommaseo non voleva letture accade-
miche e sbandieramenti. « Qual verso
in quel dì suonerà degno di lui? Quale
oratore oserà le sue lodi ? Meglio can-
tare, valentemente musicati, i versi suoi
stessi... Meglio invitare gli artisti, che
facciano una mostra solenne di dise-
gni ». E altri modi austeri e dignitosi
additava.
Ma, a dire il vero, l' Italia ha com-
memorato con austera solennità la ri-
correnza del VI Centenario della morte
di Dante, a cui tra nuovi e vecchi sono
stati dedicati libri meritevoli di lode.
Tra' vecchi, questi Discorsi del Tom-
maseo sono de' più originali e prege-
voli per acume critico, gusto d'arte,
finezza d'analisi e senso storico: quel
senso storico che rivelò al critico la
poesia di Dante e del suo secolo e
che il Vaccalluzzo mette in giusto ri-
lievo. Il Tommaseo sentì Dante, perchè
dell'esilio provò anch' egli le grandi
amarezze e « la poesia dantesca, così
profondamente e dolorosamente medi-
tata e vissuta, è sopratutto poesia d'e-
silio, la più alta che sia stata mai
scritta da un esule...; e più degli altri
gli esuli, pur a distanza di luogo e di
tempo, ne risentiranno le risonanze
profonde ».
Renato Fucini.
Il libro che sul bizzarro scrittore
scomparso ha pubblicato teste Alberto
Niccolai per i tipi delle Arti Grafiche
di Pisa, non è un libro di critica, seb-
bene non vi manchino osservazioni ,
sull'arte del Fucini; sia favorevolissi-
me, sia talvolta attenuatrici delle lodi
comuni. L'autore, che scrisse quando
il Fucini era vivo ancora, e a lui me-
desimo ne diede a leggere gran parte,
si propose di raccontarne la vita e ri-
cordarne ordinatamente gli scritti; ma
in principal modo presentarne la buo-
na e bizzarra figura. Nel che è felice-
mente riuscito; sebbene un più acuto
esame crediamo che potrebbe modifi-
care alcuna delle fattezze disegnate
dal Niccolai un po' tròppo nella loro
esterna apparenza e quasi cogliendole
indipendentemente dall'intima vita; la
quale nel Fucini non era forse tanto
semplice quanto egli la stima.
Ripetiamo che nel complesso l'au-
tore è, ad ogni modo, riuscito a quel
ritratto che si propose. Le pagine,
molto per merito del Fucini medesimo '
(di cui continuamente son riferiti aned-
doti, motti, versi), ma anche per me-
rito del Niccolai, si leggono d'un fiato,
piacevolmente e utilmente.
Tra le osservazioni spicciole che
abbiamo fatto scorrendole, riferiamo
questa sola, perchè servirà anche a
far sorridere (pag. 41-42). Il Fucini
una volta, racconta il Niccolai sulla
scorta del Biagi, si trovò a sentirsi
rispondere da un maestro, che il più
gran fiume d'Italia era il Può. L'aned-
doto va completato, con grande van-
taggio della lepidezza, in questo modo:
il Fucini, che era ispettore scolastico,
aveva fatto notare al maestro che, in-
vece del toscano pò, terza persona del
presente indicativo di potere, era bene
insegnare ai ragazzi l'italiano può: a
codesta lezioncina grammaticale segui-
rono domande geografiche; e allora il
maestro, temendo di sbagliare, disse:
— Non Po, ma Puoi ve l'ha detto
ora il signor Ispettore!
II tesoro dei Nibelungi.
Con questo titolo suggestivo. Bar-
bara Allason, autrice di un pregevole
libro su Carolma Schlegel e di un noto
romanzo: « Quando non si sogna più »,
presenta al pubblico un elegante vo-
lume edito dalla casa Sonzogno.
E' un tentativo ben riuscito di divul-
gazione della mitologia germanica.
Scritto per i giovanetti, senza grandi
pretese letterarie, con uno stile spon-
taneo e famigliare, l'autrice sa rendere
interessante una materia di per sé ar-
dua e complessa ; così per alleggerire
l'esposizione e togliere l'aria di un
manuale scolastico l'AUason ha ricorso
290
TRA LIBRI E RIVISTE
all'artifìcio delle Mille e una notte:
come nelle novelle arabe, il racconto
si svolge in giornate : è una mamma
che narra ai suoi ragazzi la storia
delle vecchie divinità germaniche. Ma
nella multiforme fioritura di leggende
l'autrice ha saputo scegliere con cri-
terio. La prima parte è dedicata agli
dei dal Valhalla; le avventure di Odino,
il Giove germanico che per bere alla
fonte della saggezza rinuncia ad un
occhio e da quel giorno s'aggira pel
mondo imbacuccato in un tabarro tur-
chino, con un cappellaccio calcato in
fronte, ovunque si soffre, si lotta e si
spera, s'intrecciano con le imprese di
Thor, il forte Iddio, simbolo della ci-
viltà vittoriosa sulle forze cieche della
natura personificate nei giganti. Intorno
a questi due mitici personaggi tutto un
mondo poetico di figure : Lochi, il dio
dall'ingegno duttile e malvagio, Thir,
il Marte germanico, Baldur, il più puro
degli Asi alla cui morte è associato il
crepuscolo degli dei. Frigga, la pru-
dente e saggia moglie di Odino, Lif,
dalla splendida chioma d'oro, Freia, la
bellissima dea dell'amore, Iduna, la lu-
minosa dea della giovinezza immor-
tale.
E lotte con i giganti, combattimenti
con gli esseri sotterranei, i nani astuti
fabbricatori di oro: e per sfondo un
vasto orizzonte fantastico : il paese
delle nebbie, il paese del fuoco, il paese
di mezzi, il frassino Iggdrasil le cui
radici reggono il mondo e i cui rami
si estendono fra cielo e terra.
La poesia delle vecchie saghe del-
l'Edda rivive fresca e spontanea nella
narrazione della scrittrice che ne sa
cogliere il significato mitico e sa pre-
sentarlo, senza l'abito pesante dell'eru-
dizione, alle menti dei giovani stimo-
landone la fantasia allo studio del
passato.
La seconda parte è dedicata alla
storia dei Nibelungi ; il trapasso dalla
teogonia all'epoca germanica dei Ni-
belungi è segnata dalla leggenda del
tesoro e dalla saga dei Wolsuaghi. La
Valchiria Brunilde e l'eroe Sigfrido
diventano il centro dell'azione. Con
Lial, la canzone dei Nibelungi, l'ele-
mento storico prende il sopravvento :
la leggenda dei Burgundi s' intreccia
con quella mitica di Sigfrido ed il le-
game ne è il tesoro dei Nibelungi,
l'oro maledetto, simbolo di morte e di
violenza : su tutti coloro che riescono
ad ottenerlo pesa infatti la Nemesi di
un tremendo destino. Così l' epopea
dei Nibelungi potrebbe definirsi il canto
dell'amore e dell'odio di Crimilde la
fiera sposa di Sigfrido.
Anche di fronte alla grande varietà
di avventure e di fatti che costituiscono
la trama del poema l'autrice ha saputo
mantenere integro il piano originale
dell'epopea, nelle sue grandi linee, e ne
ha lasciato intatto il carattere di poesia
semplice e popolare, schietta e forte.
Non mancano qua e là, intimate sottil-
mente con bel garbo, brevi osservazio-
ni morali, che non sforzano l'unità lo-
gica della narrazione, ma anzi ne ac-
crescono l'efficacia.
Tentativo dunque ben riuscito, che
ci auguriamo possa in breve essere
imitato da quanti aspirano ad educare
le menti dei giovani con sane letture
e a dischiudere innanzi alle loro anime
i vasti orizzonti del passato.
Pico della Mirandola.
u Post facta resurgo » — così è detto
nel fregio col quale il De Carolis ha
accompagnato l'erudita e brillante mo-
nografia che Giovanni Semprini, uno
specialista in materia, ha teste dedicato
a Giovanni Pico della Mirandola, e la
Casa editrice « Atanor » ha pubblicato,
con la sua consueta e lievemente eso-
tica proprietà tipografica (Giovanni
Ptco della Mirandola. La Fenice degli
ingegni, opera di Giovanni Semprini,
nella quale si raccontano i casi della
vita del principe-filosofo e si espon-
gono i segreti cabalistici magici e astro-
logici della sua esoterica filosofia. Todi,
u Atanor »). E in verità il Semprini ha
fatto del suo meglio par far risorgere
ai nostri sguardi l'enigmatica e tor-
TRA LIBRI E RIVISTE
291
mentata figura del prodigioso contem-
platore, che Innocenzo Vili condannava
solennemente il 5 agosto 1487, e Ales-
sandro VI assolveva, sei anni più tardi,
da ogni censura o nota di eresia. Il
Semprini indaga, con visibile padro-
nanza degli scritti di Pico, l'evoluzione
del suo pensiero, dalla elaborazione
faticosa delle 900 tesi, all'Ettaplo, al
De Ente et Uno, alla crisi religiosa
finale, di cui si colgono tracce così
toccanti nell'epistolario, e di cui si ha
la manifestazione più significativa nel
commento all'orazione domenicale. Una
erudita appendice è consacrata alle
poesie di Pico, sulle quali è pronun-
ciato dal Semprini un apprezzamento
ponderato. In complesso, abbiamo qui
una diligente monografia, dettata con
chiarezza spigliata ed efficace.
Originali ed imitazioni.
Il chimico Laurie, professore nella
R. Accademia di Edimburgo, confuta
il dottor Martin, direttore del Museo
della Haye, che, in una Rivista d'Arte
tedesca, nega l'autenticità di tre fra i
migliori quadri di Rembrandt.
Il prof. Laurie scelse La buona Sa-
maritana, quadro posseduto dalla Wal'
lan Collection, e lo confrontò ad un
altro Rembrandt : l'Adultera, della
National Gallery di Londra, sulla cui
autenticità non si muove dubbio e in-
grandì fotograficamente alcuni parti-
colari delle pitture dove meglio si di-
stinguono le pennellate dell'artista. Il
confronto di questi ingrandimenti fo-
tografici ha convinto il prof. Laurie
che i due quadri sono autentici e pare
che della stessa opinione siano i critici
della IVallan Collection e della Natio-
nal Gallery.
Ma chi ha avuto occasione di vedere
operare il compianto Cavenaghi ed
altri espertissimi nel restauro ed imi-
tazioni delle antiche pitture, sa che
non basta la somiglianza delle pennel-
late sulla criniera d'un cavallo nella
Samaritana con la frangia del vestito
dell'Adultera per provare che i due
quadri sono di Rembrandt, d'un arti-
sta geniale imitabile nella pennellata
da ogni fedele collista od astuto fal-
sificatore, capace di scegliere tele, co-
lori e pennelli e di maneggiarli con
destrezza puramente meccanica o cal-
ligrafica, di un' opera d'arte, ma asso-
lutamente incapace di fare passi avanti^
di animare cioè il tecnicismo con l'ispi-
razione che Rembrandt come ogni altro
vero grande artista sente in continuo
sviluppo.
Il ripetersi scrupoloso e meticolosa
di particolari pittorici e scultori, o sem-
plicemente letterari, è ben altro che
un certificato di autenticità.
Giuseppe Garibaldi e la donna.
Quando nel 1871 il Tevere strari-
pava inondando la città e la campa-
gna romana, e spargendo desolazione
e lutto ; una donna, che del movimento
intellettuale femminile è stata a l'avan-
guardia — Gualberto Alaide Beccari —
col suo animo pietoso e grande volle
venire in soccorso ai sofferenti e pro-
mosse una pubblicazione, invitando le
collaboratrici del suo periodico, La
Donna, a scrivere la vita di un mar-
tire italiano.
Le scrittrici più elette 'corrisposero :
le biografie furono raccolte in volume
ed il ricavato fu destinato ai danneg-
giati poveri dell'inondazione.
Genialissima forma di beneficenza
che, mentre donava pane ai miseri,
destava nell'animo degl'italiani il ri-
cordo di coloro che avevano dato la
vita per la libertà e l' indipendenza
della patria.
A proposito di tale volume Giuseppe
Garibaldi scriveva alla Beccari (Ca-
prera, 20 gennaio 1872):
« Quella mano che generosamente
« mi stendete ve la bacio con affetto
« e gratitudine.
« Il vostro libro, / martiri Italiani,
u che leggerò con tanto interesse è
« una scelta di soggetti che prova la
« squisitezza degli alti sentimenti del-
« l'animo vostro.
292
TRA LIBRI E RIVISTE
« La Donna, che io ricevo regolar-
li mente, fu un concetto vostro vera-
* mente sublime, e non so perchè in
« tutte le cento città d' Italia non si
» pubblica un giornale con gli stessi
« principi e direttamente consacrato al
« sesso gentile, che si chiama debole
« e che io chiamerei onnipotente, colla
« coscienza di non allontanarmi dal
« vero. Sì, onnipotente giacché se le
« donne italiane di sensi liberi e pa-
« triottici, che non sono poche in Ita-
« Ha, si dedicassero come voi all'istru-
« zione degl' ignari, questa Italia no-
« stra avrebbe raggiunto non la potenza
« materiale, che acquistarono i nostri
« padri, ma la morale, ben più profi-
« cua e gloriosa ».
Questo scriveva 50 anni fa il biondo
guerriero che seppe avvincere a sé le
popolazioni, l'eroe che passò risve-
gliando le vittorie romane, il Leone
di Caprera, che dentro il petto racco-
glieva un senso sì profondo di genti-
lezza ; l'avventuriero a cui sì forte sor-
rise l'ideale, ed una visione sì larga
ebbe del progresso umano.
Questo scriveva sentendo tutto il po-
tere che la donna può esercitare su
gli animi, la luce rigeneratrice, che
viene dall' istruzione ; la potenza glo-
riosa che scaturisce dalla forza morale,
la forza incorruttibile ed ineffabile che
dovrà trionfare nel mondo.
Foscolo e Monti.
Il prof. Adolfo Albertazzi e il pro-
fessor Guido Rustico hanno pubblicato
— nella bella collezione biografica del-
l'editore Principato di Messina — due
notevoli biografie: di Ugo Foscolo il
primo, di Vincenzo Monti il secondo.
La biografia del Foscolo ha due
volumetti : la vita e le opere ; quella
del Monti ha per ora soltanto la vita.
L' Albertazzi — ben noto come scrit-
tore elegante, e come critico ed eru-
dito — bene espone la vita del poeta
che morì esule, dando (dall'Inghilterra)
tanto nobile e alto e nuovo contributo
alla critica letteraria italiana, ne de-
scrive gli anni dolorosi e poi ragiona,
con ordine e con dottrina, delle opere:
dalle prime liriche ai Sepolcri ; dalla
prima tragedia, scritta a vent'anni, alla
Ricciarda; dalle Z.«//^r^ di Jacopo Or-
tis ai mirabili discorsi letterari e po-
litici ; dalle lezioni di eloquenza, ai
saggi critici (dall'esilio) sopra Petrarca
e Dante e Boccaccio; daìV Ipercalisse
dAV Epistolario^ il libro dà viva luce
su tutta la vita del poeta e ne mostra
la complessa anima, * vigorosa e ge-
nerosa, che appassiona e ci appassio-
na; che, più ricca di virtù che di vizi,
ci commuove e ci esalta ».
1 due volumetti foscoliani sono feli-
cemente riusciti e giovano e formano
un saggio lodevole e notevole.
Nel Monti, il Rustico narra per ora
solo la vita, e la narra bene e con
cura, con amore, con dottrina, senza
apologie vane e senza denigrazioni
non giuste e non degne. Il Monti è
descritto a Roma — venuto dalla na-
tiva Romagna — nelle prime speranze
e nelle prime fatiche e gare e lotte
letterarie: e ben presto nella gloria
guadagnata con V Aristodemo e la Bass-
villiana (1793) ; poi a Milano nella
Repubblica Cisalpina, e a Venezia nel
breve periodo della « Libera Munici-
palità democratica », poi a Milano di
nuovo, impiegato al Ministero degli
Esteri, combattuto e dilaniato, in lotta
col Saffi, col cattivo Gianni (che Bo-
naparte volle fare deputato... del Ru-
bicone all'Assemblea cisalpina dei Ju-
niori) e col famigerato Lattenzi, altro
deputato nominato da Bonaparte in
omaggio... al diritto dato al popolo
(sulla carta) di eleggere i suoi rappre-
sentanti. Monti e Oliva — due poeti,
uno grande ed uno piccolo — sono
dal Governo inviati in Romagna a
organizzare (!!) il nuovo Stato : e là
essi celebrano a Ravenna la festa in
onore di Dante, da cui il nuovo Stato
doveva prendere gli auspici. Monti
parla sulla tomba di Dante delle opere
politiche dell'esule, del trattato De Mo-
TRA LIBM E RIVISTE
293
tiarchia, e della... Bassvilliana, e ri-
torna a Milano, e si trova contro le
aspre guerre personali, l'accusa di
concussione, e la nobile e forte e bella
difesa di Ugo Foscolo.
Vengono gli Austro-Russi, e per
Monti l'esilio in Francia sostenuto con
dignità, con povertà, con ansie dolo-
rose per la moglie e per la figlia Co-
stanza, che doveva poi — sposata al
conte Perticari — avere vita così piena
di pene e di inique calunnie. Il Monti
della Mascheroniana, tanto importante
per la poesia e per la politica, e della
cattedra di Pavia, precursore dei Fo-
scolo, è bene illustrato : ed è infine
bene rappresentato il poeta delle gesta
napoleoniche, che meritò le lodi di
Foscolo nel Giornale italiano (1806).
E venne la traduzione deWIliade, ven-
ne il sermone sulla Mitologia e la Fé-
romade, mirabile poema, rimasto in-
compiuto, e la eruditissima Proposta,
che non pare opera d'un poeta.
u Beati voi — scriveva il Monti vec-
chio agli amici piemontesi — che ve
drete la redenzione d'Italia: voi avete
il Principe di Carignano. Questi è un
sole che si è trovato sul nostro oriz-
zonte ».
Gli ultimi anni della vita sono ben
dolorosi ; il Monti muore nel 1828
mentre lavora alla Feroniade, e vi
scrive versi di perfetta bellezza per la
figlia adorata.
Lo studio del Bustico è diligente,
sereno, erudito, e fa desiderare il sag-
gio sulle opere del Monti, che deve
integrarlo.
Queste due brevi monografie del-
l'Albertazzi e del Bustico giungono
ora felicemente a illustrare, dopo un
secolo ricco di tanti avvenimenti, le
vicende, le fortune e le opere dei due
grandi poeti italiani della epoca napo-
leonica. Giova ricordare che questa
bella collana storico-biografica, bene
si inizia con la vita di Vittorio Alfieri,
scritta dal Gustarelli, ed è giusto dire
che essa merita successo e lode.
{Luigi Ravà).
k
Novelle di Duhamel.
Ecco, edita dal Mercure de France,
una nuova opera dell' illustre autore
di Civilisation che i nostri lettori ben
conoscono : Gli uomini abbandonati.
Non è più il caso, ormai, di presentare
l'arte di Duhamel: o di spiegare, per
quali profonde e ricche qualità di im-
maginazione e di scrittura, essa si di-
stacchi assolutamente dalle prose che
siamo soliti leggere, francesi o di chissà
dove. Duhamel è uno di quei pochis-
simi che hanno ormai una fisionomia
decisa e precisa: scrive racconti o ro-
manzi o versi o teatro, o, magari, cri-
tica. Nei suoi libri più celebri, quali
la Vie des martirs e Civilisation, fu-
rono ammirati, e s'ammirano ancora,
un'economia rara e una sapiente do-
satura degli effetti : fossero stretta-
mente lirici, fossero drammatici: e
questo pregio di ridurre la sensazione
e semplificarla e scamirla, fino a pre-
sentare il dramma crudemente coi nuovi
libri, Duhamel non lo perde: e anzi,
direi, se ne giova sempre più. Altri
sboccherà, narrando, verso modi e for-
me calde ; ma Duhamel la sua visione
della vita, amarissima, non sa tempe-
rarla affatto: perchè conquisti meglio
il lettore dozzinale. Egh resta sempre,
nonostante la varietà dei temi a cui
s'attacca, un narratore freddo: sogget-
tivo sì, partecipe anche ; ma sobria-
mente e austeramente. Si prendano la
bellissima Épave o quella singolarissi-
ma avventura notturna di postribolo
che s'intitola Le bengali o, se volete.
La chambre de l'horloge. Sono segni
più che parole: tocchi, scorci, segna-
lazioni rapide. Maupassant? Forse; ma
con qualcosa di dentro che frana, che
filtra, che raffredda: un Maupassant
cui nella penna facciano ingorgo espe-
rienze di vita e di pensiero, turgide:
e con una paura degli efi'etti volgari
che io non so oggi quale altro novel-
liere soffra altrettale,
{M. P.).
294
TRA LIBRI E RIVISTE
Gran Laguna fa bon porto.
L'ufficio idrografico del R. Magi-
strato delle acque, inizia la Raccolta
delle opere di antichi scrittori di Idrau-
lica Veneta, dedicando il 1 volume a
Scritture sulla Laguna, di Marco Cor-
naro (1412-1464).
Illustrato con 15 mappe tra le più
antiche, importanti e rare della laguna
veneziana, del suo retroterra fluviale,
dei suoi porti, questo singolare volume
di idraulica lagunare del quattrocento,
riproduce, con grande scrupolo, le par-
ticolarità dialettali che danno al testo
molta freschezza ed efficacia di espres-
sione. 11 prof. Ravanello aggiunse note,
commenti e indici copiosi, degna cor-
nice alla figura di Marco Cornaro,
u dal quale comincia la storia della
idraulica veneziana » con questo vo-
lume. Esso fa grande onore alla De-
putazione di Storia Patria, all'Istituto
Veneto di Scienze, ed a quanti stu-
diano la vita della singolare Repub-
blica, ben degna di occupare uno dei
primi posti nella storia della civiltà
europea, storia alla quale daranno un
prezioso contributo le scritture che il
risorto Magistrato delle Acque intende
pubblicare e dalle quali, intanto, la fi-
gura e l'opera di Marco Cornaro trag-
gono onore novello.
Il dotto commentatore ha identificato
e rischiarato molti passi, di non facile
interpretazione; ha rivendicato al Cor-
naro l'origine del motto : Gran Laguna
FA BON PORTO che già Paulo Fambri
riteneva di origine antica ma che ve-
niva attribuito al Sabbadino, idraulico
del cinquecento, mentre è ormai cosa
certa aver avuto origine almeno un
secolo prima, trovandolo compreso nelle
Memorie sulla Laguna di Marco Cor-
naro, ora così degnamente stampate a
Venezia.
1 Veneziani dovrebbero ricordare
sempre il motto : Gran Laguna fa bon
PORTO e perseverare nella difesa di
quella pianura liquida che la Repub-
blica Veneta voleva rispettata come le
sacre mura della patria e che quanti
adorano Venezia vorrebbero salva-
guardata da nuove offese alla sua
incolumità, vale a dire da nuovi danni
al bene pubblico ; danni ed offese alla
sua bellezza, al maggiore dei beni, la
forma sublime dell'utilità ed attentato
alle funzioni sue vitali di organo re-
spiratorio della città divina e delle
isole sue.
Giorni or sono un chimico eminente,
Sindaco di Venezia, esaminava l'arco-
fotografia presa dal dirigibile dell'iso-
letta di S. Francesco del Deserto e
della Laguna che vista da mille metri
d'altezza sembra un preparato anato-
mico. « Cos'è questo? »» chiese il dottor
Giordano. « Sono polmoni lagunari
ostruiti da catarro fangoso n gli venne
risposto. « Purtroppo è verissimo » —
rispondeva il Sindaco Giordano. —
« qui tra Barano e Torcello, intristisce
una popolazione di novemila esseri
umani, l'85 "/„ della quale è malarica e
cerca un' illusione di benessere e di ener-
gia nelle bevande alcooliche, quando
invece basterebbe un maggior respiro
di acqua marina ai polmoni lagunari
per distruggere l'anofele e far scom-
parire la malaria ».
Gran Laguna fa bon p«rto, ram-
menta da cinque secoli alla patria sua
l' idraulico Marco Cornaro, morto in
pienezza della Repubblica nel Pelo-
ponneso l'anno 1465 « nella pienezza
della propria attività e delle proprie
forze, collaborando alla grandezza della
patria in guerra, come aveva collabo-
rato alla prosperità di essa in pace ».
Una vita di Lopez De Vega.
I successori, di Herraudo — editori
a Madrid — ripubblicano un'edizione
di una vita di Lopez De Vega, dovuta
a Hugo A. Rennert e ad Americo Ca-
stro, il primo corrispondente dell'Ac-
cademia spagnola (ma non spagnolo)
il secondo, professore dell'Università
di Madrid e amico dell'Italia, di data
antica. Rennert scrisse nel 1904 una
vita di Lopez De Vega ; e poiché in
Ispagna non c'era una vita di De Vega
ntA LIBRI E RIVISTE
295
altrettanto maneggevole e moderna, il Per i Bimbi Balducci.
Castro, sollecitato dall' editore Her- a* i^ e t ,nn
, ' . j. , , Maria De Saana L. 100
raudo, si propose di tradurre la nota p^^f. Guido Manacorda 50
e vivace del Professore americano. Ma prof. Lipari - New York .... .200
il Castro, questa fatica, sentì subito Maria Messina 50
che sarebbe restata un po' fredda e Prof. Eugenio Rignano » 100
lontana: e poiché egli da anni stu- Antonio Vallardi - Editore ... .100
diava il Lopez e ne curava edizioni Comm. Angiolo Silvio Novaro ... 100
critiche, con tutti gli elementi che pos- '^^^^ ^^^^^^ Brignardello ..... 25
sedeva, chiestane autorizzazione al ^^'" Galimberti 50
■r» \ T -11 Rosetta Valazza 10
Kennert, rifece il lavoro : e si può «.ti-- -,.
,.,,;.. ^- . *^ . Maria Luisa Farina oO
dire dalle fondamenta. Non siamo in Marchesa Clelia Garibaldi. .... 50
grado di giudicare le due vite, ma Municipio di Alcano 25
questa che abbiamo sott'occhio del Giuseppe Lipparini 25
Castro è, certamente, la preferibile. Ofelia Mazzoni 50
Lopez ebbe una vita movimentatissima Luisa Banal 20
ma era spagnolo, visse in Ispagna, stu- '^^^- Ugo Imperatori ...... . 70
dio gU uomini (e li ritrasse) del suo Famiglia Forges 25
paese. Che nella sua cultura ci fossero J^'"°"^ ^"*°'^°* ; ^
altre infiltrazioni, oltre le locali, è in- q"q * go
negabile ; ma uno spagnolo e di studi Famiglia Cortese ......'.' 19
solidi come il Castro non poteva es- Carlotta Stampolini 10
sere parziale, come parziale non fu. d. Sommo » 10
L'opera è in 15 capitoli assai lunghi N. N 10
e complessi : e vi si studia e racconta N. N • 5
agilmente e vivacemente (ma anche Manzoni 10
con grande copia di documenti) tutta Ascarelh » 10
la vita di Lopez: che fu, come tutti ?;^^^°''' .• * o?
j ,. -^^ • •> j ^ M. Palmarini » 2o
sanno, uno degli scntton più produt- j, j. .50
tivi e fortunati. Amori, matrimonio, i,' piccolo Franco . . . '. . . . ' 30
vita militare, il teatro, gli ordini sa- Alberto Pincherle 50
cri, ecc.: sarebbe lungo seguire il Ca- Prof. Alberto Padula » 20
stro in questa doppia ricostruzione : D. R » 5
di una vita umana e di una vita arti- Dott. Guglielmo Passigli ..... 50
stìca : la quale, punteggiata com' è di ^- Ro'uschi • 5
avventure singolari e di mutamenti di ^ n v .* io
scena, interessa il lettore e lo affa- . *»,'*/-.'u m
' .... Anna Maria Ghe *■ 10
sema : come un romanzo di fantasia. £>ora Danieli » 20
Stupende pagine e, quel che conta, ^dele Marietti • 20
vive, agili, calde. E non mancano, per e. R. T » 3
chi ne abbisogni, anche qui, come in N. N » 1
tutti i lavori critici che si rispettino, E. T » 5
chiose e appendici e richiami e biblio- R- T • 2
grafie e riferimenti : sebbene io creda Renzo Sereno » |
che, letta la vita e conosciuto tanto umilia Donati • l
j . . -1 /- ^ • -ir» Giacomo Donati 1
da vicino, come il Castro riesce, il De " . .2
Vega ogni delucidazione riesca almeno comm? cLladini .' .' .' .' .' .* .' '. •' 10
a lettori comuni superflua : perchè la Lina e Augusto Bragadin ..... 10
figura che ne vien fuori è così viva Recchioni » 15
che non la si dimentica più. L. B » 10
{M. P). Nbmi.
xSiC
LIBRI E RECENTI PUBBLICAZIONI
PUBBLICAZIONI DELLA CASA TREVES.
MILANO.
R. DI San Secondo. Il minuetto del-
l'anima nostra, romaiuso. — 1922.
L. 8.
C. PiONATTi Morano. La vita di
Nazario Sauro e il m/irtirio dell'eroe.
— 1922. L. 16.
E. Thovez. Poemi d'amore e di
mortp. — 1922. L. 8.
M. LiMONCELxi. Foro sema luc€.
Liriche. — 1922, L. 8.
C. Del Soldato. A viso aperto. Rac-
conto.
1922. L. 8.
PUBBLICAZIONI DELLA SOC. ED. « VITA E PENSIERO » — MILANO.
F. Olgiati. Carlo Marx, con prefa-
aione di Fa. A. Gemelli. — 1922.
L. 7.
F. Olgiati. Religione e vita. —
1922. L. 6.
A. D. Sertillangbs. Socialismo e
Cristianesimo. Traduzione di J. Mi-
lani. — 1922. L. 6.
Mons. PoTTiER. La m,orale cattoli-
ca e le odierne questioni sociali. —
1921. L. 5.
M. Ghiri. Pagine intime. Lettere
alla fidanzata e alla sposa. Prefazio-
ne di S. E. il card. P. Maffi. — 1921.
L. 3.
G. ScHRYVBRS. La buona volontà.
— 1921. L. 3.60.
M. Galli. L'antico e il moderno
nell'educazione dei figli. — 1921.
L. 12.
M. Galli. L'istruzione e Veduxazio-
ne religiosa del fanciullo. — 1921. L. 6.
Pierre le Rohu. L'altra riva. —
1921. L. 6.
R. Bazin. Davidina Birot. Roman-
zo. — 1921. L. 6.
G. Morgan. La madonna del sob-
borgo. Romanzo. Traduzione di E.
Battagua. — 1921. L. 6.
D. G. Cardinal Mercier. La vita
interiore. Invito alle anime sacerdo-
tali, 2 voli. — 1921. L. 15.
G. Fell, S. I. L'immortalità del-
l'anima umana. Traduzione dal tede-
sco di G. Schio. — 1921. L. 5.
Gli scritti di San Francesco d'As-
sisi. Con introduzione e note critiche
del P. Vittorino Facchinetti. — 1921.
L. 6.
P. L. Lehmens. S. Bonaventura
cardinale e dottore della Chiesa. Tra-
duzione di G. Di Fabio. — L. 6.
Mons. L. Landrbux. / Vangeli
della domenica brevemente commenta-
ti. — 1921. L. 12.
U. MioNi. Manuale di m^issionolo-
gia. — 1921. L. 12.
PUBBLICAZIONI STRANIERE.
F. Duquesnel. Souvenirs littérai-
res - George Sand - Alexandre Du-
mas. Figures intimes. — Paris, Plon,
1922. Fr. 7.
L. Daudet. Le voyage de Shake-
speare. — Parigi, Plon. Fr. 3.
ToLSTOi. La sonare à Kreutzer. —
Parigi, Plon. Fr. 3.
G. G. AssoM. La question du con-
tróle ouvrier en Italie. Avec un aper-
qn dans k« autres pays. — Paris,
Giard, 1922.
Un livre noir. Diplomatie d'avant-
guerre d'après les documents rf«j ar-
chives ru-sses. Novembre 1910-juilIet
1914. Préface par René Marchand.
— Paris, Libraire du Travail. Fr. 10.
F. DE Vasconcei/)8. / Problemos
Escolares. — Lisboa, 1922.
ViEiRA DE Alheida. BucoUca. —
Lisboa, 1922.
Jaimb Cortbsao. Adao e Eva. —
Lisboa, 1922. Esc. 3.
Ugk) MB88IWI. BetporuaìriU
Roma — Dttt* Amumi d! Mario OoarriM.
riie 192-2
FONDAZIONE ALBERTO CANTONI,,
presso il R. istituto di Studi Superiori pratici
e di perfezionamento in Firenze
(R. Decreto 22 Aprile 191^ ; Bollettino ufficiale del Ministero P. I. n. 22 del 3 Giugno 1915)
Coi fondi assegnati per testamento dall'Ingegnere LUIGI CANTONI di
Pomponeeco (Mantova), a ricorao deU« scrittore Alberto Cantoni suo fratello,
è posto in conferimento un premio di L. 4000 a chi, ben fornito di cultura
classica, dia prova, con saggi a stampa o manoscritti, di attitudine e prepa^
razione a trattare argomenti di letteratura latina medievale, così italiana come
straniera.
E posto altresì in conferimento un sussidio di lire sooo a chi, con eaggi
a stampa o manoscritti, dia prova di attitudine e pieparazione a trattare ar-
gomenti di antica filologia germanica in qualsivoglia delle sue ramificazioni
(tedesco, anglosassone, scandinavo, ecc.).
I concorrenti dovranno trovarsi neUe condizioni volute dall'art. 31 dello
Statuto della Fondazione, che qui si trascrive:
possono ottenere il conferimento di premii e sussidii giovani italiani,
laureati o no, nei quali concorrano i seguenti requisiti :
a) Età non inferiore ai 20 e non superiore ai so anni;
b) Essere non ricchi, e cioè in tale condizione economica che il pre-
mio o sussidio sia particolarmente richiesto per permettere loro di dedicarsi
alla carriera e agli studii per i quali dimostrino di avere meglio promettenti
attitudini.
II premio e il sussidio potranno essere pagati in più rate nel corso di
due anni, che a'vranno principio col giorno successivo al conferimento; sa-
ranno assegnati entro il 31 dlCOTobre 1922, e vi potranno concorrere uomini
e donne.
Gli aspiranti rivolgeremno entro il 31 ottobre 1922 la loro domanda, in
caxta libera, aUa FONDAZIONE « .\LBERTO CANTONI » {Segreterìa del Regio
Istituto di Studi Superiori, Firenze, Piazza S. Marco, 2), corredata dei se-
guenti documenti :
1° Titoli di studio, lavori manoscritti o a stampa, ecc. ecc.;
2° attestato di nascita e certificati delle .autorità comi)etentI, o attesta-
zioni scritte di persone autorevoli che dimostrino nel concorrente la qualità
di non ricco (nel senso voluto dalla disposizione precitata).
A norma poi dell'art. 26 dello Statuto, la Giuria, quando non sieno state
prodotte istanze o domande, o quando quelle prodotte non sieno ritenute me-
ritevoli di accoglimento, può conferire il premio anche a persone che non
abbiano dichiarato di aspirarvi, sempre che concorrano in esse e sieno accer-
tati i requisiti statutaria.
« Le decisioni della Giuria sono prese con assoluta libertà discrezionale
di deliberazione e di giudizio, e con completa insindacabilità nel merito ».
La Giuria — la quale chiederà anche il parere di specialisti — attual-
mente è composta, a norma dell'art. 16 dello Statuto, del prof. Pio Rajna,
eletto daUa Sezione di Filosofia e Lettere del R Istituto di Studi Superiori in
Firenze, del dott. Angiolo Orvieto, rappresentante degli Eredi Cantoni, e del
senatore prof. Girolamo Vitelli, eletto dai due precedenti.
Firenze 1° marzo Idii.
La Giuria
ANGIOLO ORVIETO
PIO RAJNA
GIROLAMO VITELLI
Il Direttore della Segreteria
0. MARINI
16 Aprile i»*iì2
■ ^^Pi^
SOCIETÀ' AllfiLO ROMAnA PER V ILLDNinAZIOHE Di ROMA
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11
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.fiUUlHUriClAKDfllAf
Il dott. Kanleri, Ministro di Afriooltara, 1» ffladlaò ■ op«rs Terunente detna di
•kl ]« Upirò • 1» dlrwM, etmpantfi* prMl«s« di étadii eke onorano la no«tra l«tte-
ratnra telentiflca >. Infatti nel Gitrnai* ili AgriMitura dalla riomanlM da Ini diretta
pabblioò :
« Finalmente poaalamo affermare eon vivo aento di oomplacenia oke la nostra
lettor atara loientifloo-affrarla Tede colmata una sua laeana eon qneeta Knelolopedia
Orticola ehe l'egregio prof, Paeei, eoadinvato anche dal oav. Flaminio Toao, hana*
testé licenziato alle «tampe.
Si tratta di nn lavoro Tolaminoso di oltre 1600 pagine In cruide formato e adomo
41 nnmeroae iUnitrationl ohe aieai bene terroDo a mAggiore eapUoaiione del tetto.
La materia yì A trattata eon rara, eompetenca, esattessa e in nn modo daTTero eaao-
riente. Nen erediame ti «sagarare affermanda aha l'apara è una dalM migliarl ah*
alane aMlte In Europa, dagna di reggerà «ittorioaamanta il paragona aan quella
astare: ferte per «erti rispetti PUD' RITENERSI ANCHE tUPERIORE.
^Mcoltore di profeaeione. il dilettante, l'insegnante di agraria troTeranno nella
Rnr- :opedia Orticola, nna vera miniera di atiilssime informasioni ehe sino ad ora
aeaolut&meute maucava in Italia. Noi stessi ehe seriviamo ebbimo più volte a deplo-
rare qneHta laonna ed ora con viva eoddisfailone ealntiamo la comparsa dal lavoro
del prof. Pnooi *. eee., ees.
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34.r.45 835 —
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airaoiaaìaBaj Ordinari >
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Conti (Cai.Prar.IatpL,
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Lit.
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SOO 000 000.—
90 000 000 —
760,128 833 15
3,394 887 870 95
34,258,239.45
166 844.396.30
102.6^4 970 85
93,181 5 9 80
3.132.913.80
42,005,181.55
4,967,093,95185
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giorni; Bomme maggiori oon 6 giorni.
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Disponibilità: L. 3.000 a viltà; L. i.MA oon
nn giorno di preavriso; L. 10.000 aon 3 giorni;
aomme m&geiori oon 5 giorni,
•■bratti di risparmia al Z%%.
Disponibilità: L. 3.000 a yiata; L. fi.lM aon
nn giorno di pre&rvieo; L. 10.000 aon S giorni;
somme maggiori con 10 giorni.
-ibrettl di plecolo risparmio al 3%.
Disponibilità: L. 1000 a rista; somme mag-
giori con 10 giorni di prearriso.
Libretti di depositi vinoolati : di anno in anno
al 3^%; di dae anni in dne anni al 3>4%.
1 in facoltà del depositante di effettaare,
in aggiunta a quello iniziale, altri versa-
menti, i quali si ritengono vincolati sino
alla scadenza del depoeito iniriale e godono
dello stesso intereeee. 611 interessi sono pr»
levabili in qualsiaii momento doiw la loro
maturazione.
suoni fruttiferi a seadensa: da 3 a 11 mesi al
3^%; da IS a 23 mèti al 3Vt%: a I anni ed
oltre al 3%%.
I libretti possono e«»ere al jwrtatore op-
pure nominativi, a aeelta del depoeitante.
Tutti gli interessi eono netti da quaUiaai
ritenuta; quelli su Conti correnti e Libretti
vengono capitalizzati «emeetralmente, aJ 31
Giugno ed al 31 Dicembre di ogni anno.
La Banca rieeve eome versAmerit: in con-
tanti assegni e vaglia banaari. 'edl di ere-
dito, cartoline-vaglia e cedole sc&uTit« paga-
bili aulla piaxsa acaorchk noa aeigibiU i^e
sue aatae.
Operazioni cU'verMe
Centi correnti di eerrispendanza eredltert e da
bitori a condizioni da convenirsi.
Centi correnti in efTattive a eondizloni da era
venirsi
Apertura di erediti liberi e deeumantati per im-
portazioni ed esportazioni da e sa qualun-
que piazza Italiana ed Estera.
Anticipazioni, sovvanzìoni e riporti contro t»
lori o certificati di merci.
Eseeuzione di ordini di lorsa per contanti o a
termine sa qualunque piaxza.
•oente e Inoasse di effetti luU'Italia e soll'l
stero.
Cambio di moneta e valute estere.
Lattare di credito su qualunque piasi» Italiana
ed Estera.
Assegni- e versamenti teiegraNol au qualunque
piazza.
Compra e vendita di oambl a consegna, aon fa-
coltà di consegna o ritiro, a piacere del aoa-
traente.
Oepasite di valori diversi in sempliae oxutodia
e in amminletrazione.
Leeazlone di Cassette di sisurazza e Casee-fertl
per valori, oggetti preziosi, titoli, libretti di
risparmio, documenti, ee«.
Custodia di depositi shiusl in Camera-forte (bau-
li, aaase, valigie, paeebi, e in genere qual-
siasi aollo voluminoso, purché debitamente
chiuso e sigillato oon o Bensa dickiarasioae
di valore).
I eoTì tratti di locazione o di deposito poe-
aono essere inteatatl anche a più persona.
Titolari possono delegare una o più par-
•:':ne per la disponibilità delle rispettive
cassette di sicurezza, Casee-fertl e dei dege-
aiti In Camera-ferte.
BflDCO aDtflrIlI0tO U\ COmmerCf^ dei Camll Peorefó Legge 13 maggio 1919 N. 696 art. A.
BANCA D:_ITALIA
CaplUIe n«mlMal« L. 840,000,000 — Vernate L. 180,000,000
Situazione al 20 gennaio 1922
AT^i-re
Or» L. Il S60,370,772.29
Argento (diviiion»la L. 8,405,841.00 .... , || 74.604,884.43
Caonbiali toll'eitero L. — i
Baoni del Teioro di Stati esteri . . 0,416,]94.18 ( 7^ «.q on? 1 ■
Certificati di credito inU'eBtero . „ «88,687,987.86 ( '"*i»«,«u/.ii
Bigi, di Banche est. ■ 0,823,176.14 )
. L. 1 1,829,708,813.88
Totale della RLierra
Biglietti di Stato e Baoni di Gassa " . . . . L,
Biglietti al portatore e tìtoli nomlaatiri a vista di altri Istituti
di emissione e baoni agrari ,
fii Bigi, di Banche est. (.di coi applicati alla ris. per L>. 6,829,17i.l4) ,
Taglia postali ed altro „
Argento divis. non applicato alla riserva • argento non deoixn. ,
Monete di nichelio e al bronao ,
Totale della Oaana . . L,.
r>ertafoglio sa piaBse italiane ,. ,
Portafoglio soli estero (di coi applic alla riserva par L. 6,829,176.14^ ,
rifletti ricevati per l'incasso
Anticipasioni ordinarie
Tesoro
dello auto
Tit«U
Conti oorx.
Attivi
Aotioipaaioni al tesoro L.
Anticipasioni straordinarie al tesoro „
Ant-icip. per Baoni della Cassa Veneta „
Antic. straord. al Tesoro pel cambio
delle valute Aastro-Ungarìche . „
Ant. str. Tesoro per est. Baoni Tesoro „
Anticipasioni a terzi per c( dslJo Stato
Conto Bomminlslrazioni di biglietti . ^
per la scoria L.
I per impiego della massa di rispetto „
I a oaua. per il sorv. di R. Tesor. Prov. „
I per impiego di fondi diversi accant. „
I Residni del fondo già accant. p. copri-
re le perdita d. Banca Qomana . „
nel Regno L.
all'estero (di cai applicati alla riserva
per L. 888,687,987.86) ,
880,000,000.—
8,600,000,000.—
86,700,000.—
609,370,000.—
924,000,000.—
601,773,405.82
618,000,000.—
71,81 i,688.88
10,298,271.48
110,0a,018.86
8,200,000.00
80,314,892.90
499,726,482.84
718,601,154.97
.^aionisti a saldo aaioni L.
ammobili destinati alla ooilooaaiona dagli offici
forviai diversi per conto dello Stato a delle Provincie
l'ondo di dotaa. del Cred. Fondiario L.
Credito verso la Società per il risana-
mento di Napoli
Partite ] Spese animortiaaab. a periodi determ.
Taiia ) Impiego delia riserva straordinaria .
Imp. per le Casse di previd. delle pen.
Impiego riserva speciale degli Aaionisti
Debitori diversi
80,000,000.—
4,018,627.84
76,728.62
12,086,000.—
116,8:6,289.84
76,785,000.—
1,477,899,103.47
Soffaranaa dall'aseroiaio in corso ..L.
Tassa L. Il 82,818.08
Spesa • . , Il 768,982.t4
■pesa dal oorrant* asaroiai*
Oapositl K
TOTALH. . . L.
Partita axninortiaaate nei passati asaroiai ,
TOTALB GHNHBALB. . . L.
- - B
Capitala , . . . .
Massa di rispetto.
Riservk Rtraordinaria
Ìper cntt la piena cópert. metallica L.
«e! <col 40 per ci di riserva. „ 8,807,090,677.42
CMMreltfinaafficientom. ooi>arta , 4,089,338,017.86
par conto dello Stata L.
Debiti a vist»
Depositi in conto corrente tmttifaro
Conti correnti passivi
Barvisi diversi per conto dallo Stato a dalla provincia
Ris. spac di prop. esdnaiva deg^ Aaion. L.
" " tli ■
7,897,828,694.88
8,617.848.406.88
860,870,778.29
74,604,884.48
881,269,280.00
100,948,808.83
7,636,941.94
18,302,828.18
735,888.71
6,078.916.76
1,420,897,482.84
4,881,046,199.89
9,441,967.02
10,818,851.06
3,607,807,584.28
8,617,848,405.82
688,488,721.86
l,218,t27,587.31
60,000,000.—
49,710,667.90
378,118,016.13
1,717,626,764.27
162,616.04
781,766.81
19 .Sfi0.2C4.(tOH.a3
Partito
varia
(Fondò tpecdi propr. esci, degli Aalon,
per la costruzione e l'acquisto di nnori
edifici ad U80 delle filiali .*...»
Residuo utili di propr. escL degli AjJon. ,
Creditori diversi _
Bandita del corrente asaroiaio .......
UUli netti dell'esareitio
bit«iressi a proventi della riserva straordinaria
78,660,884.28
10,000,000.-
918,897,688.48
DapositaikU
l>avttt« ammortlaaato aa
TOT AIA.
paaaati asaraial . ......
V09AIM OBIIBBAIiB.
a9,"Jóo,8y4.vy
56,805,984.684.14|
240,000,000.—
48,000,000.—
12,025,412.83
14,486,172,000.00
083,668.416.181
1,159,666,216.0^
164,498,094.61
1.781,771,894.88
1,008,547.860.69
68,987,816.08
U,880,864,006.8I
86,906,760^81.02
|«,76«,01i, 889.86
>9,960,8»4.79
H,WB,964.684.14l
818
- 87
+ 15,788
—
6,970
-»-
24
—
6,260
+
88
996
+
8,844
+
86,769
81
+
468
221,181
-t- 118418
+ 118,818
+ 18
— 1
— 1
11
88430
1,838
80,896
1.788
2,037
103
68
106,887
108,808
84
10
886
896
— 298,174
- 66
— 81»
— S48J80
— •a,890
•t- 118,819
— 480.080
— 87.180
— 16,056
+ 18,968
+ 641,687
— 88.668
- 88,668
+ 8,86»
- 898,174
— 68
MILANO — FRATELLI TREVES, EDITORI — milano
NOVITÀ LETTERARIE
BULLETTINO N. 279» - MaRZO 1922.
EMILIO PRAGA
TAVOLOZZA - PENOMBRE
FIABE E LEGGENDE
TRASPARENZE
Tavolozza, Penombre, Trasparenze. .. espressioni da pittore,
che in anni lontani brillarono in fronte a piccoli libri di poesia.
Dopo tanto tempo e \'icende e mutare di mode letterarie, il
nostro ricordo s'è un po' confuso, e di quella poesia ci è ri-
masta come l'impressione di certe ventose giornate di marzo,
in cui l'azzurro del cielo a volta a volta s'adombra e rischiara.
Ora essa ritorna a noi, e il suo ritorno è come un àlito di
primavera. Per le nuove generazioni, che di Emilio Praga
conoscono poco più del nome - perchè da un pezzo le sue
opere erano diventate introvabili - le liriche del poeta morto
giovane riesciranno nuove, e saranno ascoltate come la voce
d'un fratello xissuto molti anni prima, in altra temperie so-
ciale, ma con le stesse passioni, gli stessi dolori, le stesse
inquietudini spirituali dell'età nostra. Poiché il suo modo di
vedere il mondo, il suo modo di soffrire, e l'essenza del suo
soffrire, sono moderni, attuali, ancora aderenti alla vita di
tutti noi. Motivi, stati d'animo, tormenti d'anima che abbiamo
trovato in altri poeti venuti di poi, sono annunziati, presentiti
da lui, morto a trentasei anni in una squallida giornata di
dicembre del '75. Tutta l'opera dì Emilio Praga, — Tavolozza,
Penombre, Fiabe e Leggende, Trasparenze — riappare per
amorosa cura fili? le riunita in un sol corpo; e se molti sa-
ranno coloro che nel nuovo volume fresco di stampa ricer-
cheranno nostalgicamente le lontane impressioni della giovi-
nezza, ai più la voce del soave e fosco poeta lombardo, che
toma con gli accenti delle sue amarezze, il fascino delle sue
fantasie, la tenerezza del suo Canzoniere del bimbo, darà la
gioia d'una nuova scoperta.
In-16, c(ni ritratto. Dodici Lire.
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lorito racconto la piena misura della sua arte singolare e personalissima.
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nonni di Moscardino e della loro famiglia devastata dalle più insano pas-
sioni e dalle più cupo follie. Le Alpi Apuane rigate dai bianchi filoni
di marmo, e il mar Tirreno dolcemente increspato dai venti, sono lo sfondo
affascinante di quest'avventura d'amore e di morte.
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LA VIETATA SOGLIA
La nobile scrittrice romagnola, già tanto nota e apprezzata per i snoi
romanzi e le sne novelle, affronta in qnest'nltimo romanzo il tema affa-
scinante, sempre ricco di umanità e di poesia, dell'amore che sorge e
fiorisce in anime già mature di vita e d'esperienza. È uno studio origi-
nale e profondo, ed esce dal caso particolare per elevarsi a considerazioni
di quell'alta morale umana che forma l'essenza dell'arte di Sfinge. La
vietata soglia, se pure di contenuto austero, è nello stesso tempo un
romanzo divertentissimo, poiché si svolge sopra uno sfondo di frivola e
brillante mondanità, in un paesaggio di sole e di smaglianti colori, com-
ponendo, per così dire, un 'coro di musiche gaie, di variazioni leggere,
intorno al tema centrale di elegia appassionata.
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SOMANZO
Nella chiusa atmosfera di una bottega d'antiquario a Lucca, la città
delle Mura, una donna giovane ancora, dall'anima dolcissima e dal cuore
puro, vive la sua rinunzia in nome del più alto e più umano sentimento
femminile : la maternità.... Romanzo semplice e piano, ricco di piccole
figure secondarie che ci portano nel cuore della dolce città di provincia
e danno una interessantissima varietà a tutto il racconto animato da un
senso profondo di umanità.
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ULRICO ARNALDI
MARA ERA FATTA COSÌ
Una dolce bellissima inglese, dall'anima pura, un giovane ardente ap-
passionato italiano sono i protagonisti di questa storia d'amore. Un amore
che si svolge tormentoso da Roma a Parigi a Londra e non può, non
può trovare il suo sbocco nella felicità se non a prezzo del più oscuro
pericolo di follia. Ulrico Arnaldi ce lo racconta con un impeto di since-
rità pieno di poesia e, pur negli attimi più accesi, con una misura di
espressione squisitamente elegante.
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È la dolce, accorata commedia cui già il pubblico di-Milanodi Torino e
di (Genova ha fatto le più trionfali accoglienze. L' antere di La buona
figliola, di La nostra pelle, di Mario e Maria e di tante altre fra le
migliori commedie del nostro teatro, ha ancora nna volta con questa
Distanza, affermato se stesso.
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Così sia, poema drammatico di ToMMASO GaLLARATI-ScOTTI.
NEL TEATRO DEL GOLDONI
UNA COMMEDIA IN LUOGO DI PREFAZIONE
Il Baretti, prendendo in esame nella Frusta letteraria (1) il iomo^
primo delle Commedie del Goldoni nell'edizione Pasquali (2), dice
parergli che la prima di esse, Il teatro comico, « sia stata scritta da
lui per avvezzare il popolaccio a giudicare delle sue composizioni
come ne giudicava egli stesso 5'). Per quanto maligne, queste parole,
alle quali, come fan presagire, tien dietro una critica spietata della
commedia, dicono, in fondo, cosa vera. Il Goldoni, infatti, volle con
quella commedia, far persuaso il pubblico della ragionevolezza e
bontà della sua riforma. La commedia fu composta nel 1750 e stam-
pata, la prima volta, l'anno appresso a Venezia in quell'edizione
Bettinelli, ch'egli, dopo le prime dodici commedie, che aveva rive-
duto e corretto, non volle, com'è noto, più riconoscere e alla quale
oppose nel '53 l'edizione fiorentina degli eredi Paperini. In quella la
commedia fa parte del tomo secondo, poiché l'autore l'aveva com-
posta dopo che il primo era stato impresso, ma, com'egli scrisse al-
l'editore, l'avrebbe volentieri, se avesse potuto, posta in fronte a
tutta l'opera, « a guisa appunto di prefazione », il che poi fece
nell'edizione Paperini. « Prefazione di commedie piìi che comme-
dia » la dice nella lettera dedicatoria alla marchesa Litta Calderari,
e la stessa cosa ripete L autore a chi legge: « Questa ch'io intitolo 11
Teatro Cormco, piuttosto che una commedia, prefazione può dirsi
alle commedie». Perchè tale, dubitava il Goldoni del buon e^to di
essa, e fu lieto che la marchesa, alla quale l'aveva letta prima di
farla rappresentare, l'avesse approvata e ne avesse accettata la de-
dica, poiché — così egli — «vengonsi ad autenticare per vere ed in-
fallibili tutte le massime e le direzioni da me proposte per far rivi-
vere, come so e come posso, la Commedia in Italia ». Che se, ad otr
tenere questo fine, scrisse una commedia piuttosto che un proemio,
ciò fece per aver modo, come dicono i Mémmres, «d'instruine les
personnes qui ne s'amusent pas de la lecture, et de les engciger à
écouter sur la scène des maximes et des corrections qui les auraient
ennuyées dans un livre». Per lui quella commedia altro non è
« qu'une Poetique mise en action, et devisée en trois partiea » (3);
ma per noi è qualche cosa di più : è la rappresentazione viva e vera
(1) N. XII, 26 marzo 1764.
(2) Veneaia, 1761.
(3) Denxième partie^ chapitre VII.
20 Voi OCXVIT, («erie VI — 16 ai^ril* 1922.
"298 NEL TEATRO DEL GOLDONI
di ciò ch'era il teatro comico a que' giorni in Venezia, così rispetto
a' poeti, come agli attori e al pubblico.
Che cosa fosse la commedia dell'arte e a qual segno decaduta,
in che consistesse la riforma di lui, quali le difficoltà che se gli op-
posero e quali i meezi onde tentò di sui)erarle; tutto ciò il Goldoni
ci mette innanzi agli occhi. Non avesse altro pregio, per cotesto solo
la commedia ha importanza. Essa comincia con un dialogo tra Ora-
zio, capo della compagnia, ed Eugenio, secondo amoroso. Quegli
entra in iscena, mentre s'alza là tenda, e vorrebbe si calasse di nuovo;
questi gli fa notare che se si cala, non ci si vede più. Il Baretti os-
serva che il Goldoni poteva risparmiare di far dare un comando così
sciocco al suo impresario, o far impresario Arlecchino, se voleva
così subito fargli dire una sciocchezza; ed avrebbe ragione, se Eu-
genio non soggiungesse le seguenti parole, ch'egli si guarda bene
dal riportare : « onde per provare le nostre Scene, Signor Capo di
Compagnia, vi converrà far accender de' lumi». Al che Orazio:
« Quand'è così, sarà meglio alzar la tenda. Tiratela su, che non voglio
spendere in lumi {verso la scena) ». Eki Eugenio: « Bravo, viva l'eco-
nomia». Le quali parole fanno pensare aver voluto il Goldoni, con
quell'uscita, mordere l'avarizia del capo comico, nel quale intese,
per questo rispetto, raffigurare il Medebach, come, per gli ammae-
stramenti che quegli dà intomo al comporre le commedie e al modo
■di rappresentarle, intese raffigurare sé stesso. Cosa non seria dice
lui, il Baretti, quando soggiunge che se il Goldoni con la sua com-
media « voleva mettere in ridicolo i difetti de' suoi attori... poteva
far tenere calata la tenda, e far recitare la sua istruttiva commedia
a' commedianti stessi, poiché al pubblico fa poco caldo o poco freddo
che i commedianti abbiano de' difetti ridicoli, o non gli abbiano ».
La commedia, che è la prima delle famose sedici, non ne è certa-
mente la più bella, ma l'avere il Goldoni rappresentato in essa i co-
mici stessi, de' quali seppe cogliere le qualità buone e i difetti, e
l'averli fatti provare una commedia nella commedia, con l'aiuto del
suggeritore, il quale desidera far presto, perchè l'ora è tarda, mentre
qiuelli non se ne danno per intesi, e le ripetute interruzioni della
prova per l'una o per l'altra ragione, e il presentarsi di Lelio per
■essere accolto come poeta della compagnia e di Eleonora per cantar
gl'intermezzi; tutto questo dà vivacità all'azione e fa tollerare il ]ye?o
de' precetti ch'escono, di quando in quando, dalla bocca del capo-
comico; tanto è vero che da quelle scene seppe trarre ispirazione,
un secolo dopo. Paolo Fearrari nelle più notevoli per comicità del
suo Goldoni e le site sedici comrriedie nu&ve.
•
* •
Proemiando nell'edizione Paperini alla commedia // servitore
di due padroni, dice il Goldoni non esser essa « di carattere » ma
potersi chiamare piuttosto «commedia giocosa», e soggiunge: « Ras-
somiglia moltissimo alle Commedie usuali degli Istrioni, se non
che scevra mi pare ella sia da tutte quelle improprietà grossolane
che nel mio Teatro comico ho condannate, e che dal Mondo sono
oramai generalmente aborrite » (1), Da queste parole risulterebbe
(1) Tomo III, pag. 338.
NEL TEATRO DEL GOLDONI 299
chiamar eg^li commedie di carattere le scritte, giocose le improvvise.
E commedia improvvisa, eccettuate poche scene di ciascun atto, era
in origine II servitore di due 'padroni. Dice Anselmo, il Brighella
del Teatro comico : « Quando le commedie son diventade meramente
ridicole (e allude alle improvvise) ...col pretesto' de far rider, se
ammetteva i più alti, i piìi sonori spropositi » (1). E Tonino, il Pan-
talone : « Le commedie di carattere (e intende le scritte) le ha butà
sottossora el nostro mestier», quello cioè «de dir all'improviso ben
o mal quel che vien », onde pel commediante « se el gh'ha reputa-
zion » la necessità di studiarle e il timore, ad ogni nuova commedia,
« o de no saverla quanto basta, o de no sostegnir el carattere come xe
necessario» (2). A siffatta distinzione, che il Goldoni fa delle due
specie di commedie, non pose o non volle por mente il Baretti, il
quale afferma parlar quegli sempre di caratteri « senza avere una
idea del significato di questo vocabolo ». Secondo lui. Placida, la
prima donna^ u non capisce neppure che una commedia intitolata
Il Padre rivale del Figlio (quella ch'ella deve provare insieme con
gli altri comici della compagnia) bisogna a forza che sia una comi-
media di carattere». Gli si potrebbe opporre che quella commedia,
quantunque Placida soggiunga esser « condotta bene » e sentirvisi
« ben maneggiati gli affetti » (3), non parve forse al Goldoni meri-
tevole di quel nome, essendo essa « una piccola farsa — così Orazio
— ch'egli non conta nel numero delle sue commedie» (4). E Farces
chiama il Goldoni ne' Mémoires quelle che aveva « forme le projet...
de remplacer... par des Gomédies» (5). Ma insiste il Baretti: «Le
commedie dell'arte, com'egli le chiama, non erano forse anche quelle
di carattere?». Si direbbe, se così è, che del significato di quel vo-
cabolo non abbia avuto un'idea nemimeno Gasparo Gozzi, che scrive :
« Per la commedia improvvisa si debbono lasciare indietro i carat-
teri, e massimamente quelli che abbiano in sé qualche squisitezza,
perchè i commedianti, per quanto sieno ingegnosi e pronti di spirito,
non possono repintinamentè entrare in tutte le parti di quel costume
che rappresentano» (6). Comunque sia, fu notato non essere le com-
medie del Goldoni commedie di carattere nel senso tradizionale
della parola, come sono quelle del Molière; donde la differenza tra
l'uno e l'altro. I suoi personaggi, anziché rappresentare al vivo o un
vizio, o un costume, o un difetto, si contentano di essere tali quali
contribuiscono a foggiarli, oltre le circostanze — dalla varietà delle
quali, com'egli dice, « ogni vizio, ogni costume, c^ni difetto prende
aria diversa » (7) — i luoghi dove si muovono e agiscono; talché per-
sonaggi e luoghi vivono, per così dire, della stessa vita, né sarebbe
possibile immaginarli disgiunti. Di quella differenza non ebbe forse
egli stesso un'idea chiara, poiché Orazio, il quale respinge l'offerta
(1) Atto II, scena I.
(2) Atto I, scena IV
(3) Atto I, Boena II.
(4) Ivi.
(5) Deuxième partie, cliapitre XXIV.
(6) La « Gazzetta Veneta » per la prima volta riprodotta n^lla sua lette-
raria integrità con proemio e note di Antonio Zabdo. Firenze. Sansoni,
MCMXV, pag. 297.
(7) Atto III, 8oen» IX.
300 HEL TEATRO DEL GOLDONI
che gli fa il poetastro I>elio di una commedia tradotta dal francese,
dopo aver detto: «Un carattere solo basta per sostenere una com-
media francese », soggiunepe: " I nostri Italiani vogliono molto più.
Vogliono, che il carattere principale sia forte, originale e conosciuto:
che quasi tutte le persone, che formano gli episodi sieno altrettanti
caratteri» (1). Non fa mestieri di dire non avere il Goldoni inteso,
con tali parole, di pareggiare sé stesso agli autori comici francesi e
tanto meno di mettersi «< più su di essi », come vorrebbe il Baretti, a
giudizio del quale, « se avesse saputo parlare con verità », avrebbe
dovuto mettere in bocca ad Orjizio quest'altre : « chi vuol piacere con
una commedia al grosso del popolo italiano, che in tutta Italia è
incolto e pieno d'ignoranza della più grassa, bis(^na che prenda in
prestito molte volte dalle commedie dell'arte gli Arlecchini, i Bri-
ghelli, i Pantaloni e i Dottori». Il Baretti, mentre crede di gettare
il disprezzo sulla commedia goldoniana, accenna, senza volere, a
quello che è uno de' suoi pregi maggiori, non tanto per avere, cwne.
egli dice, preso in prestito dalle commedie deU'arte le maschere —
il che se anche fece molte volte per condiscendere al gusto degli
spettatori, cercò tuttavia « di bene allogarle e di sostenerle con me-
rito nel loro carattere ridicolo » — (2), quanto per avere accolto nella
sua tutto ciò ch'era in quella di ancor vivo e buono. Ma bastasse il
non aver idea del significato del vocabolo carattere! <( E chi cre-
derebbe, aggiunge il Baretti, ch'egli non sa neppure il significato
de' voc-aboli dialogo, soliloqtdo, rimprovero e disperazione?». Certo
il Goldoni ha il torto di far supporre ciò a ohi non voglia capire che
se Anselmo dice a Lelio : « Le son cosse, che no se usa più », intende
delle commedie dell'arte (3); tanto è vero che a costui, il quale ma-
ravigliato gli chiede: «Ma presentemente che cosa si usa?», ri-
sponde: «Commedie di carattere» (4). Al medesimo che, più in-
nanzi, improvvisa un soliloquio, rivolgendo la parola agli spettatori,
osserva Orazio esser codesto «un vizio intollerabile». E quegli:
« Dunque non si faranno mai soliloquj ». « Signor sì, risponde Ora-
zio, i soliloquj sono necessari », e ne spiega la rag^ione e gli fa vedere
come, «senza, parlare al popolo», si possan dire le cose stesse ohe
quegli aveva detto (5). Il Goldoni, del resto, non ostante abbia dato,
con le sue commedie scritte, il colpo di grazia alle improvvise, non
intendeva che queste fossero abolite « intieramente », poiché « va
bene, dice Orazio per lui, che gl'Italiani si mantengano in possesso
di far quello che non hanno avuto il coragigio di fare le altre na-
zioni » (6). Ch'egli non avesse per la commedia dell'arte « quell'asso
luta ripugnanza che s'è voluto far credere » è già stato dimostrato (7).
(1) Atto II, scena III.
(2) Atto II, scema X.
(3) Pei comici di queste il Goldoni giovìn«>tto aveva composto egli pure
de' diàloghi, soliloqui, ecc., che quelli avranno aggiunto agli altri dei loro
zibaldoni o, come li chiamavano, libri generici. Cfr. Maria Oktiz, Il canone
principale della poetica goldoniana, negli Atti della Reale Accademia di Ar-
cheologia, Lettere e BeUt Arti, voi. XXIV, parte seconda. Napoli, 1906,
pagg. 8 e 66.
(4) Atto II, aoena I.
(5) Atto III, scena II.
(6) Atto II. scena X.
(7) Maria Ortiz, op. cit.
NEL TEATRO DEL GOLDONI 301
E poi c'erano ancora a que' griomi de' comici che av^evano « l'am-
mirabile privil^io di parlare a sc^getio, con non minore eleganza
di qiiello che potesse fare un poeta scrivendo » (1), e per tali comici
eg"li aveva da prima composto alcuni scenari e poi connnedie in parte
scritte e in parte no, finché non scrisse tutta intera La donna di
garbo, continuando appresso, di bene in m^lio, la sua riforma,
dalla quale se si lasciò qualche volta distrarre, come gli accadde
nel suo soggiorno a Parigi, dove compose molti scenari, ciò non pro-
venne, per usare delle parole ch'egli, quasi presago, aveva scritte
alcuni anni prima a Gabriele Ck>met, « dal suo capriccio, ma dalla
necessità di piacere » (2); e a' parigini, ai quali non importava della
riforma di lui, piaceva di sentire i comici italiani recitare all'improv-
viso. E piaceva anche a Gasparo Gozzi, il quale, in quella medesima
Gazzetta Veneta, dove fa le maggiori lodi di que' due capolavori che
sono / rusteghi e La casa nova, a tale che immagina gli chiedesse:
« se sieno più da apprezzare le commedie pensate e scritte dall'au-
tore e imparate a mente da' commedianti, o quelle che i commedianti
sopra una ristretta orditura fanno da sé all'improvviso», risponde:
« dicovi che tuttaddue sono buone e belle, tuttaddue sono un'imita-
zione di natura in loro specie perfetta. Se poi mi chiedeste quali
sieno di maggiore utilità a' teatri, vi risponderei le improvvise, per-
chè queste sono di maggior durata delle altre, e non senza ra-
gione» (3). E la ragione è che i costumi nella scritta, essendo «più
delicati e fini », cambiano presto; mentre nell'improvvisa, essendo
« popolari, e più grossi », durano più, e quando pure fossero « stabili
e durevoli » tanto nell'una che nell'altra, in quella si manifestano
sempre con le stesse parole, mentre in questa « mutasi il dialogo
ogni sera e rinnovasi ad ogni rappresentazione e, secondo che da
questi 0 da que' commedianti viene rappresentata, rifiorisce, ringio-
vanisce e quasi sovra un vecchio tronco nuovi ra,mi e germogli ri-
mette » (4).
La ragione è più speciosa che vera, e fa maraviglia non s'accor-
gesse il giudizioso Gasparo come fosse incerta e piena di pericolo
quell'arte che, sorta spontanea e vivace dall'ingegno italiano, stra-
nezza e goffaggine di scenari e lazzi e sguaiataggini d'attori igno-
ranti avevano ridotta al punto da non potersi più tollerare. Invano
suo fratello Carlo, che alla commedia II teatro comico aveva opposto
la feroce satira // teatro comico alt osteria del Pellegrino, tentò con
le Fiabe di mantenerla in vita : furono l'ultimo guizzo d'una fiamma
vicina a spegnersi. Egli, n^ìY Amore delle tre melarance, mettendo in
ridicolo il Goldoni sotto le spoglie del mago Celio, credette di col-
pii^e a morte la sua riforma, ma fu telum imbelle. Usavano ben altro
che mutare il dialogo <^tiì sera i comici dell'arte! Nel timore volesse
far ritornare la compagnia a quel genere di commedie, dice Placida
ad Orazio : « Se facciamo le commedie dell'arte, vogliamo star bene.
Il mondo é annoiato di veder sempre le cose istesse, di sentir sem-
pre le parole medesime, e gli Uditori sanno cosa deve dir l'Arlec-
(1) Atto II, soena X.
(2) Lettere di Cario Goldoni con proemio e note di Ernbsto Masi. Bo-
logna, Zanichelli, 1880, pagg. 128-129.
(3) Ediz. cit-, pagg. 297-298.
(4) Ivi.
302 NEL TEATRO DEL GOLDONI
chino prima ch'egli apra la bocca» (1). Nelle scene tra Orazio e Le-
lio, e nelle altre in cui il dialogo si svolge principalmente tra essi
due, il Goldoni prende di mira i difetti più gravi della commedia
improvvisa, alla quale contrappone la meditata e scritta, pigliando
a ciò occasione dall'offerta che Lelio fa ad Orazio di una sua com-
media a soggetto, dal lungo e complesso titolo, che quegli si vanta di
aver fatta in tre quarti d'ora. Tale offerta ricorda, come notò un dili-
gente e autorevole studioso del Goldoni (2), quella di cui fa cenno il
Molière nella prima scena della commedia L'impromptu de Versail-
les, dalla qual commedia e dall'altra La critique de Vécole des fem-
mes avrebbe tratto il Goldoni ispirazione alla sua. Sennonché in co-
testa accade l'opposto. NélYImpromptu il Molière, che vi figura tra
i personaggi, dice aver pensato una commedia, dove un poeta, nel
quale intendeva raffigurare sé stesso, sarebbe venuto ad offrire una
conmnòdia ad una compagnia di comici arrivati di recente dalla cam-
pagna, cioè ad attori usi a recitare meschini imparaticci; nel Teatro
comico è Lelio, il cattivo raffazzonatore di scenari, che ne offre uno
ad Orazio, cioè al capo di una compagnia, che s'era ormai messa nel-
l'impegno di far trionfare la riforma del Goldoni. Lelio ha bisogno
di sfamarsi e, poiché non riesce a far accettare la commedia a sog-
getto, né, in cambio di questa, una tradotta dal francese e nemmeno
« una di carattere di sua invenzione » dallo sconcio titolo // padre
mezzano delle proprie figliuole, offre sé stesso come comico. Orazio
dapprima lo respinge : « Siete un impostore, gli dice, e come siete
stato un falso poeta, così sareste un cattivo comico » (3); ma poi, pre-
gato da Anselmo, che ha compassione di quell'affamato, finisce con
l'accoglierlo nella compagnia. Egual sorte tocca ad Eleonora, la can-
tatrice, non meno piena di fame che di boria. A costei, la quale si
offre a cantar gl'intermezzi nella commedia, Orazio risponde non
aver « bisogno i comici, per far fortuna, dell'aiuto della musica » ed
essersi, pur troppo, l'arte loro avvilita, per alcun tempo, a segno di
mendicare da essa « i suffragi per tirar la gente al teatro» (4). Eleo-
nora; consigliata da Lelio e più dalla fame, dopo aver fatto alquanto
la ritrosa, s'adatta ella pure, e n'ha di grazia, a fare la comica.
*
•k -k
Nella commedia dell'arte che, da più d'un secolo, era corrotta a
segno ch'erasi resa, com'egli dice, « abominevole oggetto di disprezzo
alle oltramontane nazioni », aveva il Goldoni notato di quando in
quando, alcune cose buone : qualche ragionaimento grave ed istruttivo,
qualche delicato scherzo, qualche accidente ben collocato, qualcuna
di quelle pennellate che danno risalto a una figura comica, qualche
critica opportuna e sottile di costumanza allora in voga (5), e di tutte
queste cose e di altre ancora, dovute la più parte al felice improvvi-
(1) Atto I, Bcena II.
(2) Edoardo Maddalena, Scene e figv/re molieresche imitate dal Ooldom,
nella Rivista teatrale italiana, anno V, voi. X, sett.-nor. 1905.
(3) Atto II. scena IH.
(4) Atto II, scena XV.
(6) Cfr. la Prefazione deìVAutore premessa all'edizione im^perfetta di Ve-
nezia, riprodotta nel t. I dell'edizione Eredi Paperini. Firenie, 1768.
NEL TEATRO DEL GOLDONI 303^
sare di taluno fra i comici (1), egli fece tesoro nelle commedie sue
scritte, le più famose delle quali, se non al pari del Servitore di due
padroTìi, rassomigliano, qual più qual meno, alle commedie improv-
vise.
Vi rivivono di queste lo spirito e i modi, eccettuato, s'intende,,
quant'era in esse non soltanto di scurrile, ma di contrario alla sin-
cerità e alla naturalezza, dappoiché, egli dice, « più di tutto m'ac-
certai che sopra del meraviglioso, la vince nel cuor dell'uomo il sem-
plice e il naturale» (2). E semplice e naturale voleva il linguaggio,
contrariamente a quello usato in que' giorni dai comici dell'arte, che
si compiacevano delle metafore più strampalate . Di queste danno
esempio, nel Teatro comico, il poeta Lelio e Anselmo. Quegli dice
aver composto scene da far « piangere gli scanni » e « battere le
mani ai palchi», onde Eugenio: «Questo è un poeta del Seicen-
to» (3); Anselmo, recitando la parte di Brighella nel Padre rivale
del figlio, vi aggiunge, a un certo punto, di suo un parallelo, do-
v'enlranol i marinai de' miei pensieri, alle quali parole Orazio
lo interrompe: «Basta così, basta così» (4). Il Motndo e il Teatro,
ecco i due libri sui quali il Goldoni, per sua confessione, meditò-
più a lungo, quantunque non trascurasse « la lettura de' più ve-
nerabili e celebri Autori, da' quali non possono trarsi che utilissimi
documenti ed esempli » (5). Quanto alle regole osservate da qu^li
autori, ei le segue finché non gl'imipediscono di ottenere quel mag-
gior effetto che s'era proposto; nel caso contrario le trasgredisce e fa
sue le lioemie, non di rado più giudiziose, della commedia dell'arte,
persuaso com'era « che più scrupolosamente che ad alcuni precetti
di Aristotile, o d'Orazio, convenga servire alle l^gi del Popolo in
uno spettacolo destinato all'istruzion sua per mezzo del suo diver-
timento e diletto» (6). Gli argomenti coi quali, dedicando nel 1758
la commedia / malcontenti a Giovanni Murray, mostra esser « ridi-
cola la ragione di quelli che sostengono necessaria l'unità del tempo
e del luogo», sono de' più efficaci che contro (juelle unità sieno
mai stati addotti da quanti, o contemporanei o posteriori a lui, le
combatterono, sia pure con maggior larghezza e dottrina. Dice Ura-
nie nella commiedia La critique de Fècole des femmes : « J'ai re-
marqué une chose de ces messieurs-là; c'est que ceux qui parlent
les plus de régles, et qui les savent mieux que les autres, font des
comédies que personne ne trouve belles» (7). Ed il Goldoni nella
(1) Del Sacchi, che aveva improvvisato la parte di Truffaldino nel Servi-
tore di due padroni, commedia dal Groldoni « designata espressamente » per
hii, eh© gliene aveva propoeto l'argomento, scrive: «Ha una prontezza tale
di spirito, nna tal© abbondanza di sali, e naturalezza di termini che sor-
prende». E soggiunge: ((Volendo io provvedermi per le parti buffe delle mi©
commedie, non saprei meglio farlo che studiando sopra di lui ». (Tomo III del-
l'©diz. Paperinij pagg. 335-36).
(2) Ediz. Pai)erini, t. I, pag. 15.
(3) Atto I, scena XI.
(4) Atto IIj scena IX. Acuti© osservazioni su questo proposito e intorno
al personaggio Lelio fa Maria Ortiz nello scritto citato.
(5) Ediz. Paperinij t. I, pag. 17.
(6) Ivi, pag. 18.
(7) Scena VII.
à
.304 NEL TEATRO DEL GOLDONI
dedicatoria citata : « Ma pur troppo si veggono questi rigorosi se-
guaci di Orazio e di Aristotile osservare con stento i precetti delle
unità e trascurare le regole della ragione dettate dalla natura ed
approvate dall'umversale dei popoli». Sappiamo da lui ohe i cri-
tici delle sue commedie non avevano nulla a rimproverargli quanto
all'unità d'azione e a quella del tempo, ma l'accusavano di non
aver rispettato l'unità di luogo; al che egli oppone non aver mai
fatto uscire i personaggi delle sue commedie dalla città in cui ai
svolge l'azione, benché passino da un luogo all'altro di quella,
e credere, per tal modo, di aver osservato sufficientemento quel
precetto (1). Nel Teatro comico, a Lelio, che si vanta di averlo scru-
polosamente osservato nella sua commedia di carattere, come « il
più essenziale» secondo l'autorità di Aristotile, che egrli, del resto,
confessa non aver mai letto, obietta Orazio averlo quegli nella sua
Poetica prescritto soltanto rispetto alla treigedia (non egli, a dir
vero, ma i suoi interpreti), non ostante altri vogliano debba inten-
dersi anche della commedia; ma che s'egli vivesse al presente, lo
cancellerebbe, poiché da esso « nascono mille assurdi, mille impro-
prietà e indecenze». Gli antichi, soggiunge, l'osservavano (non sem-
pre, com'ha dimostrato il Metastasio nel cap. V del suo Estratto del-
Varte poetica di Aristotile), perchè non avevano la facilità, che ab-
biamo noi, di cambiare le scene; ma « noi avremo osservata l'unità
del luogo sempre che si farà la commedia in una stessa città, e molto
più se si farà in una stessa casa» (2). E continua disai>provando la
facilità, della quale tuttavia avevano cominciato a dar prova di cor-
reggersi, con cui gli Spagnuoli solevano passare da una città a un'al-
tra lontana. Siffatta disapprovatzione — merita esser notato — non
è più nella lettera dedicatoria al Murray, che il Goldoni scrisse sei
anni più tardi. Ivi egli loda senza restrizioni lo Shakespeare di aver
seguito la libertà degli Spagrnuoli che, in onta ad Aristotile, « hanno
emipiuto per tanti secoli i loro teatri di opere meravig^liose, istrut-
tive e piacevoli ». Con tutto ciò non avrebbe voluto si abusasse dei
cambiamenti di scena: in una lettera da Fontainebleau, 1*8 otto-
bre 1765, al marchese Albergati Capacelli, scrive parergli che l'aver
cambiato quattro volte la scena in una commedia di un atto solo,
come quegli aveva fatto, «ecceda la libertà Italiana» (3). Al mede-
simo Lelio, che, nella commedia che si sta provando, nota essere
« uno sproposito » il far agire ad un tempo più di tre personaggi-,
perchè ha sentito dire ciò essere contrario al precetto d'Orazio; ri-
sponde il capocomico non aver questi, col suo riec quarta loqtà per-
sona laboret, inteso, come vogliono alcuni, che non lavorirw più di
tre, bensì «(Che se son quattro, il quarto non si affatichi (la stessa
interpretazione dà il Metastasto) (4), cioè, che non si diano incomodo
i quattro Attori un con l'altro, come succede nelte scene all'improv-
viso, nelle quali, quando sono quattro o cinque persone in scena,
fanno sùbito confusione». Siffatto inconveniente delle commedie
(1) Mémoirei, deuziènve partie, ohapitre III.
(2) Atto II, soena III.
(3) Lettere di Carlo Goldoni càt., pag. 288.
(4) Nelle Annotazioni alia poetica d'Orazio, da lui tradotta, e neìì' Estratto
deWarte poetica di Aristotile, cap. XII.
NEL TEATRO DEL GOLDONI 305
improvvise non s'avverava nelle scritte, onde sog'giunge: «Per altro
le scene si possono fare anche di otto o dieci persone (taJi alcune
scene di questa stessa commedia), quando sieno ben regolate, e che
tutti i personaggi si facciano parlare a tempo, senza che uno disturbi
l'altro» (1).
*
* •
È noto come, non ostante li abbia usati in molte delle sue com-
medie, il Goldoni dichiari non essere « mai stato amico » (2) de'
versi che Pier Iacopo Martelli ebbe « la folle d'imaginer», e ch'egli
9i divertì « à faire trouver bons », non già, come dice per errore di
memoria, <c cinquanta ans après la mori de leur Auteur » (3) , bensì
ventiquattro; poiché la commedia II Molière, nella quale li usò la
prima volta, è del 1751 ed il Martelli era morto nel '27. Que' versi
piacquero tanto ch'egli si sentì indotto a valersene in altre conmiedie,
e, come pur troppo avviene, destarono in molti il desiderio di com-
pome; talché Gasparo Gozzi, in una lettera di tre anni appresso a
Stello Mastraca, dice: « Tutto il mondo é versi martelliani... i bottai
sotto le vostre finestre battono in tuono di verso martelliano, ecc. », e
il Goldoni stesso, in queìranno medesimo, per bocca d'uno de' per-
sonaggi meno noti, ma più originali, del suo teatro, Zamaria dela
Bragola (4), curioso tipo di quegli importuni che vanno a dar noia a'
comici sul palcoscenico : « Mi credo che i metta in versi anca la lista
della lavandera » (5).
Non fa maraviglia pertanto se il cattivo esito di altre commedie,
che il Goldoni fece rappresentare in quegli anni, fu attribuito prin-
cipalmente all'averle egli scritte m prosa. « Ade^o, sentenzia il sul-
lodato Zamaria, co le comedie no xe in versi, no le piase più ». Otta-
vio, il capocomico, non crede che quell'incanto de' versi martelliani
durerà lungamente, ed egli : « El xe pur sta elo, el vostro poeta, che
ì ha, se poi dir, inventai, che i ha messi in credito. Ghe xeli fursi ve-
gnui in odio, dopo che el li ha visti dai altri imitai? Gh'alo rabbia
perchè a farghene noi xe solo? » (6). Tali le chiacchiere dei malevoli;
ma egli era persuaso che la prosa soltanto convenisse alla commedia,
discorde in ciò dal Maffei, che avrebbe voluto i versi, « ma versi tali
che si potessero recitare senza il suono, versi che sembrassero
prosa» (7). Il proprio sentimento in siffatta questione aveva già ma-
nifestato chiaramente il Goldoni nel Teatro comico, dove a Lelio,
che vuol recitcLr:gli « un pezzo di commedia in versi », perché « le
buone commedie italiane devono essere scritte in versi » e perchè
« così hanno fatto i nostri antichi, e così vogliono che si faccia alcuni
(1) Atto III, scena IX.
(2) Così dedicando 11 Molière a Scipione Maffei. La lettera di dedica fu
stampata la prima volta nel 1752, nel t. II dell'ediz. Paperini.
(3) Mémoires, première partie, chapitre XVII.
(4) Vedi E. Maddaubna, op. cit.
(5) Introduzione per la prima recita deU'antunno dell'anno 1754, nelle
Opere complete di Cario Goldoni, edite dal Munioipio di Vei^zia, 1911,
TTol. XI, pag. 213.
(6) Ivi, pagg. 212-213.
(7) Achille Neri, An^dd^>ti goldoniani. Ancona, 1883, pagg. 28-29.
306 NEL TEATRO DEL GOLDONI
moderni », Orazio dice: « Venero gli antichi, rispetto i moderni, ma
non sono dii ciò persuaso. La commedia deve essere in tutto verisi-
mile, e non è verisimile che le persone parlino in verso. Oh, mi di-
rete, il verso non si ha da conoscere, e dee all'orecchio parer prosa.
Se non si ha da conoscere il verso, se deve parer prosa, dunque scri-
vete in prosa » (1). Coleste parole, che si leggono nelle prime edizioni
della commedia, l'autore, forse per averle in appresso contraddette
coi fatti, omise nelle successive edizioni, dolendosi tuttavia d'avere
seguito lungo tempo quella « stucchevole cantilena » dei versi martel-
liani, dai quali, poiché vennero finalmente a noia, tornò alla prosa,
ed ebbe la fortunata accoglienza d'una volta (2). Di lui, quanto alla
rima, non si potrebbe ripetere ciò che del Molière il Boileau :
On diroit, quand tu veux, qu'elle te vient chercher:
Jamais au bout du vers on ne te voit broncher, ecc. ;
ma uno de' maggiori poeti tedeschi, il Platen, avendo inteso nel 1826
a Firenze, il Torquato Tasso, ch'egli, per certi rispetti, pone al di
sopra di quello del Goethe, trovò ch'era molto bene verseggiato e che
i martelliani sul teatro fanno miglior figura di quanto avesse cre-
duto (3). Più che ne' martelliani il Goldoni fece buona prova ne' versi
sciolti. Tali gli endecasillabi sdruccioli della commedia La jmjnlla
che, a giudizio d'Isidoro Del Lungo, «non scomparisce troppo di-
nanzi alle fiorentine cinquecentesche » (4), a imitazione delle quali
il Goldoni aveva inteso di comporla (5). Que' versi sono come li
avrebbe voluti il Maffei, cioè somiglianti alla prosa. Non dissimili
da questi, benché piani, sono quelli che Orazio, cedendo all'insistenza
di Lelio, lascia che questi gli reciti. Il Baretti, nemico acerrimo del
verso sciolto, non vi nota, quanto alla forma, che una brutta meta-
fora, ma, in compenso, si sfogai a mostrarne la immoralità del conte-
nuto. « È una scena, così Lelio, che fa il padre colla figlia, persua-
dendola a non maritarsi )>. Il commento che vi fa il Baretti non po-
trebbe essere più maligno. Di un'altra commedia. La scuola di ballo,
nella quale il Goldoni mutò i martelliani nella più diflBcile terzina,
non ignota alla commedia toscana del Cinquecento, scrive il Del
Lungo parergli la mutazione « conferire sincerità di lingua e una
certa leggiadria di stile» (6).
• •
Fanno pensare agli avvertimenti che Amleto dà ai commedianti
nella tragedia shakespeariana, quelli che intomo al modo di recitare
dà Orazio ad Eleonora, dopo averle impedito di proseguire nella re-
citazione di « una scena della Didone bernesca», ch'ella dice «com-
posta dal signor Lelio » . Orazio non può « soffrire di sentire porre in
(1) Atto III, scena II.
(2) Vedi la Prefazione al Molière nel t. Ili dell'ediz. Pasquali. Vene-
zia, 1762.
(3) Die Tagebiicher des Orafen Atjotjst von Platen au» der HaruUcrift
des Dichters, herausgegeben von G. v. Lauhmann und L. v. Scheffler. Zweiter
Band,, Stuttgart, 1900, pag. 813.
(4) Lin-gua e dialetto nelle commedie del Goldoni, f iren«e, 1912.
(6) Op. comp., ediz. cit., t. XIV. Venezia, MDOCOCXII, pag. 187.
(6) Op. oit., pag. 28.
NEL TEATRO DEL GOLDONI 307
ridicolo i bellissimi e dolcissimi versi della Bidone » , e non avrebbe
accolto Lelio nella sua compagnia, se avesse saputo aver egli « stra-
pazzati i drammi d'un così celebre e venerato poeta». Parodiarne i
versi, guastandoli, come fa anche Tonino nella commedia II fr ap-
paiare (i), era vezzo dei comici dell'arte. Del Metastasio, al quale de-
dicò nel 1758 il suo Terenzio, si professava il Goldoni, oltre che
grande ammiratore, seguace, benché « di lontano, per altra strada » ;
onde fa che Orazio soggiunga : « Troppo obbligo abbiamo alle opere
di lui, dalle quali tanto profìtto abbiamo noi ricavato» (2). Racco-
manda Amleto ai comici di proferire il discorso com'egli l'ha pro-
ferito dinanzi a loro; che se avessero a declamarlo con enfasi, vor-
rebbe piuttosto averlo affidato al banditore della città; e Orazio ad
Eleonora : « Guardatevi soprattutto dalla cantilena, e dalla declama-
zione, ma recitate naturalmente come se ' parlaste » . Quegli non
vuole che i commedianti trincino l'aria con la mano, ma conformino
l'azione alla parola, e questi ad Eleonora : « Movete le mani secondo
il senso della parola». Dice Amleto che quanto oltrepassa i limiti
del naturale allontana dal fine della commedia, che è di riflettere,
come specchio, la natura, ed Orazio che « essendo la commedia una
imitazione della natura, si deve fare tutto quello che è verisi-
mile» (3). Conosceva il Goldoni la tragedia dello Shakespeare,
quando scrisse la sua commedia? Non è improbabile. Del tragico in-
glese egli parla, oltre che nella dedica dei Malcontenti al Murray,
in quella anteriore del Filosofo inglese a Giuseppe Smith, dove ci
fa sapere che leggeva « le opere inglesi tradotte con piacere infi-
nito», e ne parla altresì nell'una e nell'altra commedia. Nulla prova,
del resto, ch'egli abbia tratto l'ispirazione da lui. A suggerirgli que-
gli avvertimenti bastava il buon senso; donde l'accordo fra i due
poeti.
• •
Quanto al pubblico, lamenta il suggeritore, che la scena sia sem-
pre piena di gente che fa rumore e impedisce agli attori di muo-
versi. Uno di questi, Eugenio, osserva che in platea si gode meglio
la commedia. « Sì, soggiunge Vittoria, la servetta, ma taluni dai pal-
chi sputano, e infastidiscono le persone». Contro siffatta «usanza
odiosa», come la chiama il Baretti (4), l'arguto Gasparo Gozzi im-
magina che un giovane forestiero, condotto da un amico veneziano
nel teatro di san Luca, per assistere, dalla platea, alla prima rappre-
sentazione del Z oroastro del Goldoni, dica : « Io ho più volte dubitato
che l'aria di questo paese, restringendosi in queste vie così ristrette,
ferisse gagliardamente il petto delle persone, sicché mi parea impos-
sibile che le non fossero tutte raffreddate (5) : questa continua piog-
(1) Atto II, scena XII.
(2) Atto III, scena III.
(3) Atto III, scena III.
(4) Gl'Italiani, o sia Belazione degli usi e costumi d'Italia, tradotta dal-
l'inglese da Girolamo Pozzoli. (Opere di G. Barbiti, t. VI, Milano, 1818,
pag. 7.
(5) « Raffreddore cronico, dice, com'è noto, il Tommaseo, felicemente
gliarito nel tepido maggio del novansette dalle pasticche di Francia ».
308 NEL TEATRO DEL GOLDONI
già che cade da' palchi, me ne fa chiaro più che mai ». E soglgi^Lngu:
« Come mai, se non fosse un'infermità potrebbe darsi che quella in-
finita civiltà ch'io ammiro in tutti gli altri luoghi di questa così bella
e sì gentilmenle accostumata città, non fiorisse anche qui, e che
quanti qui siamo a sedere, fossimo presi per iscodelle da sputarvi
dentro?» (1). L'ironia è pungente, ma così spiritosa l'immagine che
avrà fatto sorridere coloro stessi ch'eran punti da quella. Con la
stessa filosofìa del giovane forestiero del Gozzi, prendevano, del re-
sto, la cosa tutti gli altri spettatori della platea : non montavano sulle
furie, ma si vendicavano « facendo, così il Baretti, qualche breve
ed arguta esclamazione». Ce ne dà un saggio il forestiero gozziano:
« Dio vi dia la vostra salute! il cielo vi liberi il petto dal catarrol ».
Era l'oligarchia, per dirla col Carducci, che sputava in platea (2), e
bisognava andar cauti nel muoverle rimprovero. E caute son le pa-
role che il Goldoni, a questo proposito, fa pronunciare ad Orazio:
« Veramente per perfezionare il buon ordine de' teatri manca l'os-
servan2:a di questa onestissima pulizia». Ma un'altra cosa ancora
mancava, né Eugenio, che ciò osserva, osa dir quale, poicJiè d'essa
pure aveva colpa l'oligarchia. « Siamo tra di noi, gli osserva Orazio,
potete parlare con libertà». E quegli: «Che nei palchetti non fac-
ciano tanto rumore». E Orazio: «È difficile assai». A ootest'altra
riprovevole usanza, che dal pubblico della platea, desideroso di
udire la commedia, era tollerata con minor pazienza che non gli
sputi, accenna anche il Gozzi, allorché dice esser parecchi coloro
i quali a bella posta vanno a sedere colà « per non essere impor-
tunati dalla garrulità altrui». E sono una lode indiTetta al rifor-
matore della commediai le parole seguenti : « Un tempo fu che quel
luogo era pieno d'ogni genere di persone (non era consentito, infatti,
che alla bassa plebe l'assistere allo spettacolo dalla platea) (3); ma
dappoiché le commedie si sono ingentilite, s'è ingentilita anche l'u-
dienza» (4). A Placida duole doversi sfiatare per farsi intendere,
«quando si fa strepito nell'udienza »; ma Vittoria è piìi rass^nata:
« In un pubblico conviene aver pazienza. E alle volte che si sentono
certi fischietti, certe cantatine da gallo! ». « E quando, soggiunge Pe-
tronio, il Dottore, si sentono sbadigliare? ». « Segno, osserva Claudio,
che la commedia non piace». «Eh, ribatte quegli, qualche volta lo
fanno con malizia: e per lo più nelle prime sere delle commedie
nuove: e per rovinarle, se possono». E Lelio: « Sapete cosa cantano
quelli che vanno alla commedia? La canzonetta d'un intermezzo (è,
con qualche leggiera variante, nel secondo degli Intermezzi per la
Bidone, intitolati L'impresari^ delle Canarie) : Sigiì)or mio non vi è
riparo, lo qui spendo il rrdo denaro, voglio far quel che mi par » (5).
Tale il pubblico col quale aveva che fare il Goldoni, ma egli, non-
ché perdersi d'animo, proseguiva fiducioso la sua via. A Lelio, che
spera j>oter conuporre commedie come lui, dice Orazio: « Eh figliuolo,
(1) La Gazzetta Venata, ediz. cit., pag. 369.
(2) Poesie. Quinta edizione. Bologna, Zanichelli, 1906, pag. 987.
(3) PoMBO MoLMKNTi, Lo storia di Venezia nella vita privata. Parte
•terza, V edizione. Bergamo, 1912, pag. 211.
(4) Loc. cit.
(5) Atto III, soena X.
NEL TEATRO DEL GOLDONI SO^"
bisogna prima consumar sul teatro tanti anni, quanti ne ha ^li con-
sumati, e poi potrete sperare di far qualche cosa. Credete, ch'eg-li
sia diventato compositore di commedie ad un tratto? L'ha fatto a
poco a poco, ed è arrivato ad essere compatito dopo un lungo studio,
una lunga pratica, ed una continova, instancabile osservazione del
teatro, dei costumi e del genio delle nazioni » (1). Più innanzi, nell'ul-
tima scena, quegli vuol sapere se convenga, o no, terminare la com-
media con un sonetto, com'egli avrebbe fatto nella sua. E Orazio:
« Dirò : i sonetti in qualche commedia stanno bene, e in qualche com-
media stanno male. Anche il nostro autore alcune volte ne potea far
di meno » . E cita, quanto a quelle, La donna di garbo e La -putta ono-
rata, e, quanto a queste. La vedova scaltra e / due gemelli veneziani^.
soggiungendo : « Nelle altre non ha fatto sonetti al fine, perchè que^
sti assolutamente senza ima ragione non si possono e non si devona
fare » . «< Manco male, esclama, con soddisfazione, Lelio, che ha er-
rato anche il vostro Poeta! ». E Orazio: « Egli è uomo, come gli al-
tri, e può facilmente ingannarsi ». Afferma tuttavia averlo inteso
dire, pili e piià volte, che trema allorché deve far rappresentare una
sua nuova commedia, né si lusinga di arrivare a conoscere l'arte pie-
namente, ma « si contenta di aver dato uno stimolo alle j>ersone
dotte, e di spirito, i>er rendere un giorno la riputazione al teatro Ita-
liano». Di coteste parole non potrà dirsi, come di altre della presente
commedia il Baretti, che sono « una lode che il Goldoni fa dare a
se stesso ».
Antonio Zardo.
(1) Atto III, scena II.
IL DIO DEI VIVENTI
ROMANZO
D'altronde egli non potè proseguire perchè qualcuno picchiava
alla porta. Non era mai accaduto che qualcuno venisse, durante le
sue visite : e il dubbio che la persona òhe picchiava fosse mandata
dalla sua famiglia per spiarlo gli passò in mente. Che cosa doveva
fare? Anche Lia e Salvatore si guardarono incerti, non volendo aprire
per un riguardo a lui : allora egli disse :
— Perchè non aprite?
E Salvatore si mosse.
— E se mi vedono qui? — disse Zebedeo come fra sé. — Che
non iposso forse visitare l'orfano di mio \fratello?
Appena la porta fu aperta Salvatore e quei due là dentro ebbero
un brivido di sorpresa e quasi di spavento: un fantasma nero en-
trava, con le mani così bianche che sembravano luminose.
Era il Rettore.
S'avanzò, sedette al posto cedutogli con grandi esclamazioni da
Lia; e non si meravigliò tper da presenza di Zebedeo.
Salvatore, appoggiato alla tavola, lo guardava fisso e non staccò
più gli occhi dal viso di lui : quel viso non era bello, con la pelle di
un giallino violaceo aderente alle ossa come una seta incollatavi
sopra, e i capelli e gli occhi quasi bianchi come scoloriti per lungo
uso; ma l'espressione era misteriosa, profonda; pareva quella di un
morto risuscitato che non fosse contento di esserlo e stentasse a ri-
cordarsi della sua vita sulla terra come di una vita anteriore di secoli.
Egli non parlò finché Lia che gli si era seduta ai piedi per terra
in atto di omaggio non disse umilmente:
— Si parlava della lettera di Pietro Paolo, con Zebedeo; e del
consiglio che ho domandato a vossignoria. Ma perchè disturbarsi a
venire, vossignoria? Sarei tornata io domani o ipoi; non c'è premura.
— Non c'è premura per te ma per me sì, — egli rispose : e aveva
la voce afona, tanto che Salvatore si avvicinò strisciando il gomito
sulla tavola per sentirlo meglio.
Anche Zebedeo si protese un poco: gli pareva di essere sordo
'6 di sognare; quasi il preciso sogno fatto dalla sua serva.
Il Rettore diceva:
— Tu sei ricorsa a me appunto perchè io sono per partire. Hai
detto a te stessa: egli non ha più interessi sulla terra quindi il suo
consiglio sarà giusto.
IL DIO DEI VIVENTI 311
Lia faceva gesti di protesta, ma abbassava gli occhi (per paura
-ch'egli le leggesse nel pensiero.
— Non protestare. È giusto che sia così; da viventi si è attaccati
alla terra come l'albero come ogni cosa naturale e si vede e si opera
tutto attraverso ragioni nascoste come le radici sotterra. Ma non
dico che tu sei ricorsa a me solo per quel motivo che del resto fa
onore alla tua perspicacia. Tu hai pensato, anche : il Rettore è istruito,
conosce i libri sacri le verità rivelate da Dio; quindi potrà consi-
gliarmi bene.
— È vero, è vero! — ella esclamò sollevando di nuovo gli occhi.
— Ma queste leggi, queste verità cosa sono dopo tutto? Leggi
e verità dette e scritte da uomini. Erano uomini, gli apostoli; solo
che avevano vissuto con Cristo ch'era anche lui figliuolo dell'uomo,
e ripetevano le sue parole com'^li le sentiva da Dio. Questo Dio
vero e grande nessuno lo ha mai veduto sulla terra. Gli stessi pa-
triarchi lo sentivano sparlare attraverso le nuvole e per mezzo di An-
geli mandati da lui : eppure tutti lo conosciamo, tutti lo sentiamo
parlare anche senza conoscere la scienza degli apostoli : io tu Ze-
bedeo Salvatore tutti lo sentiamo tutti lo vediamo.
I tre lo guardavano con avidità e aprivano un po' la bocca come
per respirare le sue parole.
— Dio è dentro di noi; è quello ohe noi Chiamiamo la nostra co-
scienza : ecco tutto. Basta ascoltarla per ascoltare Dio.
I tre rimasero un po' disillusi.
Zebedeo anzi scrollò la testa perchè sapeva che la spiegazione
sarebbe andata a finire così. Del resto il iparroco ripeteva cose ohe
aveva tante volte detto nelle sue prediche in chiesa.
— È curioso il fatto che ognuno di noi cerchi consiglio dall'altro;
quasi si direbbe che è .per salvarsi da ogni responsabilità davanti
agli altri uomini e a sé stesso. Se invece noi prendiamo consiglio
da noi stessi, ma consiglio dal profondo della coscienza, lo pren-
dictmo da Dio stesso, e non sbaglieremo mai e faremo sempre il bene
nostro e quello degli altri. Nel tuo caso, Lia, come posso io consi-
gliarti se non conosco i tuoi veri sentimenti? 0 meglio, posso cono-
scerli, anzi ti dico che li conosco, ma non posso forzarli consiglian-
doti di fare una cosa piuttosto che un'altra.
Allora ella disse affrontando anzi cercando lo sguardo vago di
lui : — La mia coscienza è debole : lei deve aiutarmi ad ascoltarla;
lei lo può, se vuole.
— Non è la tua coscienza che è debole sei tu che non vuoi sfor-
zarti ad ascoltarla. Ad ogni modo senti, che cosa ti spinge a ritor-
nare con tuo marito? L'idea del tornaconto ohe te ne verrebbe?
— Sì, anche questo: ma per Salvatore, più che (per me.
— Ad ogni modo è sempre per tornaconto materiale perchè in-
fine tu pensi di fare di tuo figlio un uomo ricco, E credi tu che la vera
ricchezza, dico la ricchezza terrena, sia quella acquistata x>er mezzo
degli altri? La vera ricchezza ce la dobbiamo acquistare noi col
nostro lavoro, con le nostre forze interiori e non col cercare aiuto
dagli altri. Spesso i genitori rovinano i propri figli col procacciare
loro una ricchezza ch'essi soli si devono guadagnare.
Zebedeo pensava al suo Bellia con infinita tristezza: d'altronde
gli pareva che ogni parola dei Rettore fosse diretta a lui.
312 IL DIO Dm VIVENTI
— Allora, niente! — disse Lia già rassegnata a rinunziare.
— Vedi? — disse il prete, — il mio consiglio già potrebbe nuo-
certi. Ma ascoltami ancora; nel tuo desiderio di ritornare con tuo
marito c'è un po' d'amore? Dico amore del prossimo, non amore
carnale.
— No, non posso amarlo. Troppo male gli ho fatto per poterlo
amare.
— Adesso parli bene! Vedi, non dici, non posso amarlo perchè
mi ha fatto del male, ma « non -posso amarlo per il male che' gli ho
fatto ». Il tuo castigo è lì. Il male che hai fatto ti priva del dono mi-
gliore della vita, di quello che rende lieti e felici, del regno di Dio
sulla terra; ti priva dell'amore.
— L'amore non si comanda.
— Non è vero; questa è un'antica menzogna. È che tu, Lia,
come la maggior parte degli uomini, sei come una barca piena di
zavorra che crede con questo di poter meglio navigare : un po' di
questa zavorra l'^hai già buttata in mare; butta giù il resto; più la
barca sarà lieve meglio andrà sulle onde. Perchè tu hai odiato tuo
marito? i)erchè ti era di ostacolo a peccare; e adesso il tuo peccato
ricade su te. Perchè il vero castigo dei nostri peccati è su questa
terra stessa.
— 'È vero — proruppe Zebedeo senza volerlo. Ma nessuno ba-
dava più a lui.
— Ascoltami ancora, — disse il prete. — Un altro sentimento
ti guida verso Pietro Paolo : la pietà di lui come uomo. È così?
— E così, sì! Mi fa pietà e vorrei assisterlo come si assiste un
mendicante ohe cade davanti alla nostra porta.
— E allora va! — egli disse alzandosi : — Dio s'è svegliato in te.
Ma la donna non voleva lasciarlo partire; aveva ancora sete della
sfua parola. S'inginocchiò, gli prese la mano e cominciò a baciarla
come una reliquia : egli però si ritraeva: la sua mano fredda sgusciò
da quella di lei carne da un guanto caldo.
— Lascia, lascia, Lia! Non toccare tuo figlio senza prima lavarti;
il mio male è contagioso. E cerca di partire presto; così il tuo ra-
gazzo, che vedo sciupato, godrà l'aria del mare. Addio.
E se ne andò senz'altro saluto.
•
ì Barcai erano in viaggio verso il mare.
La moglie di Zebedeo avrebbe volentieri viaggiato sul carro spe-
dito con la roba come si usava un tempo quando la gente era più
ignorante e più felice: invece viaggiavano in treno, in terza classe
sebbene ricchi; perchè certi usi come quello di viaggiare nelle prime
classi è ancora riserbato ai furbi borghesi.
D'altronde il treno era affollato, da tutti i finestrini si sporgevano
grappoli di teste di soldati : erano soldati che tornavano in congedo
dopo la guerra e tutti ridevano tutti urlavano di gioia ma il loro
grido conservava qualche cosa di feroce come se essi andassero an-
cora all'assalto, — a uccidere e a morire.
Anche lo scompartimento oc-cypato dai Barcai era pieno zeppo
di soldati : puzzavano tutti come bestie selvatiche e ad ogni fermata.
IL DIO DEI VIVENTI 313
si ammucchiavano sul finestrino soffocando Rosa e la padrona sedute
ai posti d'angolo. Rosa si divertiva, rideva con loro e provava pia-
cere al loro contatto, ma la padrona si sentiva sempre più angosciata.
Non le dis)piaceva la compagnia di quei buoni ragazzi, e a quel
tanfo di selvatico era abituata perchè anche i suoi servi e Zebedeo
stesso non odoravano di rosa; ma il caldo il disagio il moto del treno
le davano un senso di nausea profonda. Inoltre pensava con inquie-
tudine al carro della roba e le pareva che qualche cosa della sua fa-
miglia e della casa fosse disipersa per il mondo in balìa di tutti i
ladri e malfattori, mentre anche il timore che i ladri entrassero in
casa dove la vecchia era rimasta a vigilare ma impotente come uno
spauracchio che può illudere solo gli uccelli, non l'abbandonava un
momento.
Bellia sedeva alla sua sinistra e Zebedeo accanto alla serva: il
trovarsi così riuniti la confortava alquanto, se però gli uomini scen-
devano a qualche stazione ella gridava per la {>aura che non faces-
sero a tempo a risalire in treno,
2iebedeo invece era allegro quasi come i soldati di ritomo dalla
guerra. Gli pareva di essersi ormai liberato del suo incubo poiché
Lia ipartiva e Salvatore andava anche lui al mare e il suo avvenire
era assicurato.
Ad ogni stazione scendeva e invitava i soldati a bere acquavite
e liquori; e spendeva con una prodigalità folle.
— Pare che il padrone sia alla festa — disse infine Rosa. —
Guardatelo: adesso chiama anche i soldati degli altri scomparti-
menti.
— Essi tornano dalla guerra e meritano, — disse la padrona
sebbene in fondo le dispiacesse lo sperpero di Zebedeo.
— Ma guardatelo! Adesso chiama anche quelli della ferrovia.
E fa bere anche il ragazzo.
La padrona fece uno sforzo e si affacciò al finestrino : di là dei
cancelli chiusi della strada provinciale che s'incrociava con la linea
ferroviaria vide parecchi carri ricoperti di tende di tela da sacco o
semplicemente composte con lenzuola, dalle cui aperture si sporge-
vano teste di donne e di bambini, gente povera che andava al mare,
e ne provò un'accorata invidia.
— Pare ohe li abbiate rubati, i vostri denari, — disse Rosa al
padrone, quando Zebedeo risalì sul treno. — Li spendete senza con-
tarli.
— Ohi ne ha ne fruga. E tu ficcati nei fatti tuoi, — egli gridò
irritato; e parve cambiare d'umore.
Infatti non scese più dal treno finché non si arrivò al paesetto
ove risiedeva il suo amico : ma dal paese al mare correva un buon
tratto di strada e ancora una volta la moglie rimpianse il carro e il
modo di viaggiare all'antica.
Ma che accade alla buona moglie? Sogna o é ancora la vertigine
del treno che le dà non più un senso di malessere ma un'allucina-
zione dolce? Le pare di vedere la sua casa trasportata dagli angeli,
là fra gli alberi polverosi che circondano la piccola stazione : è la
sua casa sì, coi suoi cestini, le sue bisacce, il paiolino di rame per
cuocere i maccheroni, la cassa con la biancheria, il materasso di tra-
21 VoL CX3XVII, serie VI — li aprUe 1922.
314 IL DIO DEI VIVENTI
liccio bianco -e turchino, la caffettiera amica; anche il cane è lì e
corre incontro ai suoi padroni più veloce del treno.
La donna si asciuga le lagrime dagli occhi riarsi; no, la poesia
non è ancora scomparsa dalla terra; © quello che più importa nep-
pure la bontà; poiché il servo mandato col carro della roba ha
avuto la buona idea di fermarsi alla stazione per dar modo alla
padrona di fare sojl veicolo il tratto di strada dal paese al mare.
Ed ella sedette sul materasso e le parve di essere tornata fan-
ciulla quando si andava alle feste camipestri in riva al mare e tutto
era bello perchè tutto semplice.
Ancora la stessa brughiera le stesse rocce fantastiche gli stessi
lecci solitari raccolti a guardare solo il giro e lo stendersi e il ripie-
garsi della loro grande ombra come pensatori ripiegati a studiare
il vano gioco dei giorni vissuti: ancora gli armenti al pascolo; le
pecore protese a bere fra i giunchi del ruscello tutto lucido e chiaro
e ben delineato tra il verde e l'azzurro come nei quadretti di ma-
niera: ancora i buoi pazienti che trascinano il carro, e il servo al-
meno per un giorno ridiventato buono che chiede solo la gioia del
suo lavoro: e su tutte le cose l'alito puro del mare.
Ed ecco il mare. A poco a poco si a\'vicina, dapprima come una
striscia argentea fra una macchia e l'altra della brughiera, poi sem-
pre più largo e alto fino al cielo. La serva, anche lei sul carro, lo
guardava sbalordita presa da un senso di soggezione e di paura.
— Io entrare lì dentro? Entrarci vestita? Per non uscirne viva,
vero? Per l'anima mia, no, io non entro.
— E chi ti costringe? — disse il servo con calma; — pare che
tu creda eh© il mar© stia lì solo ad aspettare che tu ci sguazzi dentro?
— Io non entro, non entro, — ella ripeteva a sé stessa, ma solo
per vincere il gran desiderio che già aveva di bagnarsi.
E si fece rossa e nascose il viso sul braccio quando vide gli uo-
mini mezzo nudi che camminavano nel mare spruzzarsi l'acqua a
vicenda.
Era quaa mezzogiorno; i pochi bagnanti stavano tutti sulla
spiaggia rocciosa, 1© donne si bagnavano lontano dagli uomini. Una
casa bianca con piccole finestre, ogni camera della quale raccoglieva
intere famigli© di bagnanti, si disegnava lontana siill'azzurro del
mare.
Più lontano biancheggiava fra le macchie la caserma della Do-
gana, e più in là ancora sorgeva quasi dal mare una casetta colore
di pietra.
Era la casa dell'amico di Zebedeo : e il carro con le due donne
vi si diresse lentiamente lungo il sentiero che costeggia il mare, fra
i gridi del servo ohe aizzava i buoi © le esclamazioni di Rosa.
— Noi andiamo a stare là? Andiamo a star© là? In mezzo al
mare? Ma se viene la tempesta si affoga tutti dentro casa come
pulcini nella gabbia. Misericordia, misericordia!
Anche la padrona era impressionata, ma taceva. S'aggiustò il
fazzoletto intomo al viso © si allacciò il cors©tto pensando che an-
dava ad ospitar© presso gente ricca e per bene.
E l'ospite veniva loro incontro: il suo viso rosso tutto pomi, coi
piccoli occhi neri, aveva un'espressione di astuzia di allegria e di
bontà.
IL DIO DEI VIVENTI 316
— Se sapevo che mi capitava la fortuna di ospitare la tua fa-
miglia. Maria Caterina Barcai, fabbricavo un palazzo e non questa
mia casupola; ma, vedrai, se Dio lo vuole un altro anno starai meglio
di così.
Sebbene riconoscente, ella pensava che un altro anno se Dio vo-
leva sarebbe rimasta a casa sua.
Anche la famiglia dell'ospite, composta di parecchie donne e di
una infinità di ragazzi e bambini, tutta riunita davanti alla casetta
fece una festosa accoglienza ai nuovi venuti.
Questa casetta sembrava costrutta come gli scogli intomo coi
sassi dei quali era seminata la spiaggia. Nei suoi momenti di fu-
rore il mare arrivava alla porta ritraendosi subito come sd^noso
di penetrare in una così umile e fiduciosa abitazione d'uomini; da-
vanti una fila di scogli le segnavano una specie di cortile marino;
la barche dovevano passare oltre e solo gli abitanti della casa si
bagnavano in quel tratto di mare come fosse di loro esclusiva pro-
prietà.
Fu senito il caffè agli ospiti e poi furono anche invitati a
pranzo: un pranzo abbondante e ricco nonostante quei tempi di
carestia.
La tavola era apparecchiata nella stanza d'ingresso e il mare
pareva entrasse dalla porta spalancata; il suo riflesso tremolava
sulle pareti nude, e le voci il pianto e i gridi dei k)ambini si confon-
de\ano col suo mormorio.
2^bedeo aveva ripreso un po' il suo buon umore; il ritrovarsi
con la sua famiglia in quella tavola che pareva benedetta da Dio gli
sembrava di buon augurio: qui poi nessuno gli ricordava la sua
pena; senza contare che egli aveva portato in dono all'amico una
piccola lx>tte di vino e l'amico la faceva già scorrere come una fon-
tana, in onore degli ospiti.
— Se mi portavi una spada da generale lion mi facevi un re-
galo migliore, Zebedeo Barcai : perchè da noi il vino è cattivo,
adesso: sentilo. Fra il mio e il tuo c'è la differenza che corre fra
l'acqixa e il fuoco. E togliere all'uomo il vino buono è come levargli
il sangue sano dalle vene. Bevi, bevi, Zebedeo.
E Zebedeo beveva, sebbene quasi astemio, e attraverso il bic-
chiere colmo gli pareva che il suo Bellia riprendesse colore.
Anche la madre sebbene non bevesse una goccia di vino si sei>-
tiva un po' sollevata. La mc^lie dell'ospite, che le sedev^a accanto,
le rassomigliava in modo straordinario, anzi era più pingue di lei,
con un gran seno sostenuto appena da una cordicella di seta che an-
dava da una estremità all'altra di un invisibile corsetto; e il suo viso
pallidissimo che neppure il sole marino riusciva ad oscurare ricor-
dava la placidezza della luna.
Parlava sottovoce confidando all'ospite il disagio che anche lei
provava ogni volta che doveva lasciare la sua casa del villaggio.
— Ma per i figli e per i nipoti bisogna dimenticarsi di noi
stesse; cosa siamo noi senza di loro? Una volta ho provato a lasciarli
venir soli; lo crederai? La sera stessa me ne venni qui a piedi sola
come il gatto dato via se ne toma a casa appena può scappare.
— Non sono mai accadute disgrazie, qui? — domandò l'altra,
anche lei sottovoce.
316 IL DIO MI VIVENTI
— A noi grazie a Dio mai, ad altri sì purtroppo. L'anno scorso
si annegò un forestiero, ma era sceso a bagnarsi appena dopo man-
giato.
— Bellia, — disse Maria Caterina Barcai rivolgendosi già spa-
ventata al figlio, — hai sentito? Non bisogna mai bagnarsi dc^x) che
si è mangiato; c'è pericolo d'annegarsi.
— Ma sì, lo so, — egli rispose mortificato perchè si accorgeva
ohe gli altri ragazzi ridevano della paura della madre.
— Tu sai nuotare? — gli domandò il più grande.
— Sì.
— E dove hai imipELrato?
— Nel fiume.
— Ma se nel nostro fiume non, possono nuotarci neppure i pesci,
— disse Rosa beffandosi di lui.
— Io ho imparato in un altro fiume più grande, quello di Aar,
La serva non osò smentirlo oltre; il ragazzo grande disse:
— Allora oe lo insegnerai, perchè anche noi non sappiamo
nuotare.
Egli arrossì, ma trovò il modo di salvarsi : disse con tristezza
come se la cosa fosse vera :
— Il Dottore mi ha proibito di nuotare, per non forzare la mano.
— La tua mano guarirà presto, — gli disse per confortarlo la
nuora degli ospiti ohe allattava un bambino lasciando vedere con
un candore di Madonna la sua mammella ambrata un po' lunga
come un grande acino d'uva.
■ — Il mare guarisce ogni male; eppoi quest'anno è un anno be-
nedetto per la nostra famiglia perchè il suocero mio è priore delle
Anime, e questo porta fortuna.
Bellia domandò subito spiegazioni: e tutti i ragazzi saltarono
su a dargliele, ma il vecchio li fece tacere con un cenno duro. Era
una cosa di cui egli aveva molto rispetto e non bisognava profanarla;
ne parlò lui non senza una certa vanità :
— Si tratta di questo. Da noi esiste una confraternita antica
che si dice delle anime, ed è per seppellire i morti. Tutti gli anni
viene eletto il priore, cioè il capo; questa confraternita dunque va a
prendere il morto, s'incarica dei funerali, delle esequie, del seppel-
limento: la famiglia sia ricca o povera non paga che mezzo scudo
per una messa. Il priore invece è obbligato alle altre spese e a dar
del buon vino a volontà ai confratelli di ritomo dal funerale. Però
si dice che durante l'anno non gli accadano disgrazie e tutte le sue
cose vadano bene. Le anime dei morti vigilano su lui. Sarà vero, non
sarà vero? Certo che io quest'anno sono tranquillo e sereno come un
pesce in una cala solitaria; tutto mi va bene; i ragazzi sono sani,
il raccolto è stato buono. E spese ne ho avute e ne ho, con le anime!
Perchè mentre gli altri anni la mortalità era poca, quest'anno con
la peste spagnola e altre diavolerie la gente muore a grappoli. Anche
tre morti in un giorno: e il vino costa sempre più caro e quei dia-
voli di confratelli quasi tutti vecchioni senza conforti di gioventù
hanno sete come ragazzi dopo uria corsa. Io sono contento però:
mi dispiace per la gente che muore, per lo più giovani donne e fan-
ciulli, ma mi pare che le loro anime vigilino su di me come tanti
angeli. Dopo tutto i confratelli bevono alla salute eterna delle anime :
IL DIO DEI VIVENTI 317
è questo che porta, fortuna. Beviamo anche noi, alla salute dei no-
stri corpi.
La conclusione fece ridere di nuovo i ragazzi; anche i grandi
risero e una luce di speranza e di fede tremolò nel viso di Zebedeo
e negli occhi di Maria Caterina Barcai. Anche lei avvicinò il bic-
chiere alle labbra: e gli sguardi di tutti si rivolsero alla mano di
Belila.
•
• •
La prima settimana fu utìa sosta di serenità i>er la travagliata
famiglia Barcai; pareva davvero che bastasse il contatto con la fa-
miglia dell'ospite per dissipane ogni male.
La piaga di Belila, esposta al sole, si seccava rapidamente; il
primo giorno egli si era nascosto dietro uno scoglio perchè si vergo-
gnava del suo male come di una colpa; la madre inquieta andò a
cercarlo, camminando a stento sulla rena e indietreggiando paurosa
quando l'onda tentava di raggiungere a tradimento i suoi piedi; se-
dette accanto a lui e non lo abbandonò più.
Egli brontolava; poi si mise a canticchiare; poi disse che appena
guarito voleva una fisarmonica di lusso coi tasti d'argento.
— Tutto avrai, figlio mio, purché tu sii prudente e ti aiuti a
guarire.
Egli si rivolse supino, con la mano sana sotto il capo e l'altra
sul petto: era quasi completamente nudo come aveva ordinato il
Dottore e il suo corpo scarno lungo pallido, con le ossa delle ginoc-
chia ingrossate, con la mano forata come da un chiodo, sembrava
alla madre quello di Cristo deposto; ma lei era lì a vegliarlo e già
ne sentiva la resurrezione.
— A quest'ora il babbo sarà già in treno, — egli disse guar-
dando con gli occhi spalancati il cielo. — È ripartito contento di
vederci ben sistemati, ma già preoccupato per gli affari di casa. Se
fosse rimasto qui avrebbe fatto bene: si dà sempre tanto pensiero
per la roba, per l'avvenire. A che serve la roba? Io voglio vivere
senza nulla, nudo in riva al mare. Pescherò per mangiare; mi farò
una capanna come quelle lassù dei bagnanti poveri, vedute le avete?
Sì, la madre le aveva vedute; erano capanne di frasche nascoste
come nidi fra le macchie della brughiera dove questa arrivava fino
a confondere le sue onde verdi con le onde verdi del mare: vi si
ricoveravano i bagnanti poveri con le loro famiglie, separati dagli
altri come lebbrosi.
E invero erano tutti malati : bambini paralitici, donne tisiche,
uomini con piaghe, con la scabbia, forse anche davvero con la lebbra.
— Sonerò la fisarmonica come quel ragazzo che ieri notte fa-
ceva ballare le donne lassù d^l palazzo; ma la sonerò per me solo.
E se vivrò dopo di vói, che Dio vi conservi cento anni ancora, vt^lio
vendere tutto e fare qui le case i>er quei jwveretti delle capanne.
E ci farò anche la chiesa col campanile e sul campanile un faro per
i naviganti sperduti.
La madre approvava: tutto avrebbe approvato, anche i precetti
più fantastici, pur di vedere il suo Belila così tranquillo steso al sole
fino a che la mano fosse guarita.
318 IL DIO DEI VIVENTI
— Il paese nostro adesso mi sembra così lontano, mi sembra un
sogno; e la casa ima pri^one: prima non era così; prima mi diver-
tivo tanto, in casa e fuori; ma dacché è morto zio Basilio tutte le
cose si sono rovesciate.
— Perchè pensi a questo, adesso? Lascia andare; tutto ti pareva
brutto perchè stavi male.
— E quel Dottore! Se fossi stato piccolo mi sarebbe parso l'orco;
io credo che sia un uomo cattivo, ma è che deve aver molto sofferto
da ragazzo. Capisco che se io continuassi a patire così, un giorno
ammELzzered il primo sconosciuto incontrato in una strada, per ven-
dicarmi.
— Di chi ti vendicheresti?
Egli esitò, poi disse:
— Di Dio.
— Belila! Tu bestemmi: non dir più una cosa simile: altrimenti
Dio ti castiga davvero.
— E perchè lui mi fa patire così? Che ho fatto, io?
Allora la madre gli fece un sermone; che Dio ci fa soffrire per
provarci; che anche Gresù ha patito innocente, che il dolore è la co-
rona dell'uomo; ma Bellia s'era rimesso a canticchiare e non l'ascol-
tava neppure. Intanto si avvicinava l'ora del bagno. Già qualche
testa apimriva galleggiante a fior d'acqua e qualche donna in cami-
cetta e con la sottoveste cucita fra le gambe in mancanza di altro
costume da bagno, scendeva timida la spiaggia fermandosi a toccare
l'onda col piede come per provarne l'impfto.
Anche Rosa, poiché aveva già preparato quel che occorreva per
la colazione, uscì con le donne e i bambini sulla spiag-gia, tutta ve-
stita di nero col fazzoletto in testa e con le grosse scarpe che affon-
davano nella sabbia; e faceva gesti di terrore guardando affascinata
il tremolio delle onde.
Appena la vide, Bellia balzò a sedere e cominciò a gridare e
fischiare per deriderla: allora, incoraggiata dal dispetto, e poiché le
donne la invitavano a bagnarsi con loro promettendo che l'avreb-
bero sempre tenuta per mano, cominciò col levarsi le scarpe.
— Mi bagnerò solo i piedi, come nella notte di San Giovanni.
E così fece; ma un'onda la investì d'im/prowiso ed ella scappò
di corsa inseguita dall'acqua luminosa che le bagnò l'orlo delle vesti.
Bellia s'alzò in piedi e riprese a gridare e ridere forzatamente
battendo le mani; i ragazzi degli ospiti nonostante gli strappi delle
donne lo imitarono. Rosa foce un viso mortificato, come volesse
piangere; poi rientrò nella casetta e dopo qualche momento riap-
parve vestita come le altre donne, con la sola camicetta e la sotto-
veste cucita fra le gambe; ma teneva ancora il fazzoletto in testa,
cosa che provocò una grande ilarità in tutti.
Allora se lo strappò d'un colpo e lo sbattè per aria, tutto nero
sull'azzurro del mare; poi lo buttò accanto alle scarpe che aveva
abbandonate sulla sabbia; tornò dentro l'acqua si chinò v'immerse
la mano e si fece il segno della croce.
— Smettila, IBellia, — disse la madre, tirandolo giù. — Se con-
tinui a sbeffeggiarla così quella va fino in fondo al mare.
E infatti Rosa procedeva spavalda a testa alta senza voler la
mano che le offrivano le donne; e guardava in su per non vedere
IL DIO DEI VIVENTI 319
il peric<)lo, ma era diventala pallida, coi denti che 1© battevano per
l'impressione del freddo.
D'un tratto diede nn grido e parve dovesse cadere; aveva messo
il piede in una buca. Belila non gridò più e anche la macLre impal-
lidì e cominciò a supplicare le donne perchè salvassero Rosa. Rosa
si salvava già da sé, avendo capito che si trattava di un pericolo da
ridere; si era inginocchiata dentro l'acqua e dopo il primo brivido
di freddo provava un piacere indicibile a sentirsi così tutta circon-
data e posseduta dal gioco delle onde.
Le donne le si riunirono in cerchio attorno strette per mano in
una specie di danza che a lei ricordava il ballo della tarantola
quando il paziente morsicato dalla bestia velenosa viene seppellito
fino al collo nella terra smossa e intorno gli danzano sette vedove
sette maritate e sette fanciulle finché la tema non gli ha risucchiato
dalla carne il veleno.
Cosi lei si sentiva risucchiare dairac<|ua tutta la sua paura e
ogni altra inquietudine della sua vita. Smarrita nell'azzurro le pa-
reva di poter nuotare come i pesci; solo che le sue vesti scure gal-
leggianti gonfie entro l'acqua le davano l'aspetto di una seppia
mentre lei avrebbe voluto muoversi nuda e rossa come una triglia.
Si mise a sedere poi si allungò galleggiò sostenendosi con ima
mano appoggiata alla sabbia: in breve fu la più ardita e agile fra
le bagnanti; e si dimenticava di venir fuori e che la pentola l'aspet-
tava.
Belila s'era di nuovo steso accanto alla madre, rivoltolai mare,
e adesso guardava Rosa con invidia poiché a lui non era permesso
di fare il bagno quel primo giorno.
— E vieni, dunque, — gridò la ragazza avvicinandosi alla riva
— hai paura? Ti dò la mano.'
Egli però non voleva essere sbefTeggiato dalla sua serva: la
guardò con occhi sdegnosi.
— E pensa piuttosto a farmi da mancare: il pranzo degli altri
è pronto.
• *
Il pomeriggio era meno lieto della mattina in quella spiaggia ad
oriente dove il mare s'immelanconiva a misura che il sole cadeva
sopra i monti lontani : le ondo s'increspavano e le lontananze si
facevano livide di ima tristezza nostalgica gelosa del fulgore che
restava sull'orizzonte della terra: e la musica esasperata nella sua
monotonia della fisarmonica lassù fra le macchie e le capanne del-
l'accampamento dei poveri pareva la voce stessa del paesaggio.
Bellia cominciava così ancor nudo com'era a sentire un po' di
freddo, eppure non voleva vestirsi nonostante le suppliche della
madre; in fondo provava un senso di conforto una dolcezza infinita
a sentir la sua pena confondersi con la pena delle cose intomo.
La sua attenzione era attratta dall'accampamento primitivo dei
poveri mentre il casone bianco dei bagnanti borghesi, con le sue
finestre eguali, con le figure di ragazze vestite di bianco e di uo-
mini in veste di tela non lo interessava per nulla. Solo invidiava i
giovanetti della sua età che andavano in barca remando; gli pareva
320 IL DIO DEI VIVENTI
che avessero le ali, che arrivati lassù dove il mare si confonde col
cielo restassero sospesi in aria a dominare il mondo. Poter vog-are
anche lui così! A ohe gli serviva la ricchezza, se era più impotente
dei poveri ragazzi là deiraccampamento che si nascondevano per
nascondere le loro piaghe?
Altre barche con donne e uomini passavano quasi rasentando
la riva e si perdevano giù dietro la cinta di scogli che chiudeva la
cala; dove andavano?
— Vanno a vedere la grotta della Sirena, — spiega Rosa acco-
vacciata sulla sabbia e anche ki un po' melanconica. — È un luogo,
dice la serva degli ospiti che c'è stata, un luogo, un luogo il più bello
del mondo; una chiesa dentro la scogliera, tutti candelabri di dia-
mante e un altare oh© non si può guardare tanto riluce. Dalla volta
pendono grappoli di uva e di frutta tutti d'oro e di perle: © giù il
pavimento è di madreperla e di corallo, e sulle pareti si arrampi-
cano piante di roae d'oro. Ma è diffìcile entrarvi, bisogna che il mare
sia calmo come l'olio: e guai se non si fa presto a uscirne perchè la
Sirena nascosta nella grotta si diverte a scuotere il mare mentre i
visitatori son dentro; allora non si può più uscirne e chi tenta di
farlo può annegare.
— Speriamo non ti venga in mente di andarci, — dice la pa-
drona.
— Io? Dio me ne guardi! Non voglio correre il rischio di stare
là dentro tre giorni come è avvenuto al cugino del fidanzato della
serva dei nostri ospiti : la mia pelle è nera, ma le voglio bene an-
che CQSÌ.
— Io invece voglio andarci, — annunziò Bellia. E poiché vide
già gli occhi diella madre velarsi d'inquietudine aggiunse : — ci ver-
rete anche voi.
Ma pareva lo dicesse più che per rassicurarla, per un istinto
di crudeltà.
— Se ci andate voi, ci vengo anche io, — esclamò la serva; —
© del resto se stiamo là dentro eh© importa? ci portiamo un po' di
provviste e buona notte!
— Tu non andrai senza il mio permesso, Bellia, — afferma la
madre con uno sforzo di autorità che le desta già un senso d'ango-
scia; ahgoscia per il pericolo ch'egli corre recandosi alla grotta ma so-
pratutto per il dovere di opporsi al desiderio di lui.
Egli sorrid©, tanto del tono d'autorità quanto della pena nascosta
di lei ; in fondo sa che può fare quollo che gli par© e piace.
La fisarmonica lassù fra le tamerici che si staccavano già scure
sul cielo rosso dell'occidente suonava qualche cosa di simile: una
barca che scompare dietro uno scoglio e desta le smanie di un gio-
vane cuor© malato: oh, andare, andare così nel mare della vita in
c©rca della grotta dalle illusioni abbandonando il cuor© sicuro della
madre per il perfido sorriso della Sirena.
E il cuore della madre è già in pena per la pena del figlio e
lenta di lottar© con la misteriosa rivale: ma che può lei, povero
cuore di carne viva, contro le dure stalattiti dell'illusione? Che può
se il brillare di quelle attira anche lei? Dopo tutto, lei non ha mai
vedlito la grotta : forse è così bella davvero come la descrivono anche
IL DIO DEI VIVENTI 321
i naufraghi; eppoi non tutti sono destinati a visitarla con rischio:
si può andarci quando il mare è calmo, tutti assieme, e la madre
godere della gioia del figlio.
•
• •
La mattina dopo Bellia fece il suo primo bagno. Indossava un
paio di mutandine di maglia a strisce gialle e rosse che quando egli
cajnminava avevano un'ondulazione serpentina: Rosa, già in acqua,
cominciò a gridare:
— L'aragosta, l'aragosta.'
— La seppia, la seppia, — egli rispose, ma la sua voce era in-
certa, e anche lui tastava l'acqua col piede pauroso di avanzare.
Avrebbe dovuto andare a bagnarsi di là della casa bianca, assieme
con gli altri uomini, ma la madre non glielo permetteva : d'altronde
poteva passare per il più grande dei ragazzi ai quali era lecito di
stare con le donne; e la madre lo accompagnava e lo sorvegliava
appunto come un bambino al suo primo bagno e soffriva di non po-
tere anche lei entrare in acqua e tenerlo per la mano come facevano
le altre madri coi loro piccoli.
Anche il cane non voleva abbandonarlo; gli si drizzava addosso
lungo e bianco e come nudo anch'esso, con un lamento quasi umano,
e pareva volesse trattenerlo, salvarlo da un pericolo.
Per fortuna Bellia procedeva con paura e prudenza : aveva l'im-
pressione che quell'acqua tremula gli si attortigliasse alle caviglie con
cordicelle misteriose per attirarlo lontano; e senza i gridi e gli sber-
leflB di Rosa sarebbe tornato indietro con grande consolazione della
madre.
La madre se ne stava dritta sulla sabbia con la mano sugli occhi
più ansiosa delle donne dei pescatori quando i loro uomini sono in
mare e la tempesta arriva tutta d'un tratto lanciando in avanti le
procellarie sinistre: avanti a sé aveva steso un lenzuolo che sem-
brava una vela, per scaldarlo al sole e con esso asciugare il ragazzo;
e aveva deposto un paniere con uova biscotti vino bianco tanto quanto
bastava per ristorare dieci naufraghi.
Il cane non era meno ansioso di lei; entrava nell'acqua ma non
osava avanzare; tornava verso la padrona e raspava la sabbia ai suoi
piedi, con un guaito che chiedeva soccorso; infine diede ascolto a
un'onda che si avanzò fino a lui, la seguì, si lasciò portare, cominciò
a nuotare finché raggiunto il padroncino gli si aggrappò addosso e
parve volesse baciarlo sul Viso.
L'esempio del cane diede un po' di coraggio al bagnante.
— Rosa, — ordinò alla serva come fossero nella loro cucina —
porta fuori questa bestia.
E le buttò addosso il cane per vendicarsi della beffa di lei, poi
andò avanti ma sempre con grande prudenza.
A poco a poco la madre lo vedeva allontanarsi e affondare : ecco,
l'acqua pare se lo divori; gli ha già mangiato le gambe, le ginocchia,
le cosce : solo metà del corpo è ancora salvo.
— Bellia! Bellia, non andare più oltre.
La voce di lei si perde con quella delle altre donne che riohia-
322 IL DIO DEI VIVENTI
mano inutilmente i loro bambini. E adesso la serva, che deve stare
sulla sabbia per trattenere il cane, si diverte a spaventarla.
— Sono venuta fuori perchè ci sono tante tarantole di mare: se
pungono fanno morire arrabbiati.
— E Bellia che non lo sa! Guarda com'è lontano!
— Non aver paura, — la conforta la sua ospite. — Non è vero
che ci sono tarantole. E l'acqua è bassa fin dove vedi nuotare quegli
uomini.
— Io ne vedo uno che tìii sembra un morto, padrona mia. De-
v'essere un annegato.
— Ma no, è uno che fa il morto, come si dice, — spiega l'ospite.
— • No, no, il mare mi piacerebbe vederlo da lontano, — dice la
madre, — dalla cima di una montagna.
— Guardate, — urla la serva drizzandosi sulle ginocchia — che
cosa sono quelle macchie laggiù? Pescicani?
— Ma non vedi che sono barche?
— Bellia, Bellia! Non andare avanti. Guarda com'è pallido e
tremante. Gli viene male.
— È l'impressione del fx^pddo, — die© l'ospite; — bisognerebbe
che si tuffasse ^tutto.
— Bellia, va sotto. Non prendere freddo. Dio mio, questo ra-
gazzo oggi mi fa morire d'angoscia. (Il Dottore che gli ha ordinato
i bagni vuole proprio la nostra rovina, ha ragione chi dice che è
un'anima perversa).
Mentre pensa così la disgraziata donna accenna a Bellia di tuf-
farsi; ed egli finalmente capisce si piega dentro l'acqua, sparisce,
ricomipare, ma è livido in viso col corpo tutto lucente e tremante.
— Per oggi basterebbe, — dice la madre. — Il Dottore ha ordi-
nato di bagnarsi appena, il primo giorno.
— È troppo poco, osserva l'ospite; — lascialo ancora.
— I tuoi ragazzi stanno molto in acqua?
— Dovresti domandarmi se stanno molto in terra. Non vedi che
vengono fuori solo quando sentono fame?
Alquanto rassicurata, la madre si piega e siede sulla sabbia,
accanto all'ospite: e Bellia pare capisca ch'ella gli accenni di pie-
garsi anche lui; infatti si tuffa di nuovo e prende dimestichezza con
l'acqua; l'assaggia e la sputa, va lontano tutto solo, un poco incerto
ancora ma già lieto come un bambino che comincia a camminare.
— Adesso mi pare che basti, per oggi, — consiglia l'ospite, —
puoi farlo venir fuori.
— Bellia? Bellia?
Bellia è già tanto lontano che non sente più; e la madre lo
guarda come s'egli sia per salpare verso gli opposti lidi del mare.
— Rosa, — dice tuttavia alla serva, — va a chiamarlo.
— Già! Come che egli sia nella strada davanti a casa!
— Signore! Come si fa? Ci fosse almeno il padre!
Anche il cane era di nuovo inquieto e si lamentava e lottava
con la serva che lo teneva sempre stretto a sé.
Ma già Bellia se ne ritornava piano piano, trionfante e tuttavia
ancora prudente, camminando fra le onde basse come attraverso
un campo dj grano che non sd vuol calpestare.
IL DIO DEI VIVENTI 323
E alla madre pareva che il mare stesso sorridesse nel restituirle
il suo diletto.
S'alzò e prese il lenzuolo caldo di sole: lo tenne aperto come
im paravento mentre Belila si toglieva le mutandine; poi glielo av-
volse bene intomo al corpo; e ancora una volta avrebbe voluto pren-
dersi in collo il QUO ragazzo per asciugarlo e scaldarlo contro il
suo seno.
Gli diede subito da bere un uovo poi un bicchiere di vino
bianco; poi si piegò a togliere i sassolini dalla sabbia dove egli si
stendeva e gli coprì i piedi con la rena calda: infine sedette in
modo che la testa di lui riposasse sull'ombra di lei come sul suo
grembo stesso.
•
**
Il sabato ritornò Zebedeo, con due bisacce colme di pane fresco,
dolci, frutta, latticini. Nonostante il suo carico camminava svelto
lungo la spiaggia e aveva un'aria felice: tanto che Rosa nell'an-
dargli incontro si mise a scherzare con malizia.
— Vi siete trovata l'amica, in paese, adesso che vostra moglie
è lontana: sembrate ringiovanito di venti anni.
— E tu invece stai a seccarti come un'aringa, perchè non trovi
l'innamorato, — egli rimbeccò; — ma il suo accento non era cattivo,
e il solo fatto che egli accettava bonariamente lo scherzo della serva
dimostrava il suo buon umore.
E si rallegrò maggiormente quando vide Belila. Anche Belila
sembrava un altro; s'era ingrassato e annerito, e i suol occhi non
avevano più quel velo di tristezza quasi crudele che prima li of-
fuscava.
Si piegò a guardare i cestini e gli involti che Rosa traeva dalle
bisacce e cominciò a mangiare golosamente e alla rinfusa le cose
che contenevano: e il padre lo guardava con beatitudine.
— Come va la tua mano?
Belila non si ricordava più della sua mano polche la piaga s'era
quasi del tutto chiusa.
Quando andarono a mettersi sulla sabbia Zebedeo guardò se
nessuno, neppure la serva, li sentisse, per confidare alla moglie il
segreto della sua gioia.
— Quella donna è partita. È andata dal marito. Speriamo non
tomi più in paese.
La moglie sospirò, un sospiro strano non di sollievo ma di sof-
ferenza rassegnata; egli la guardò e si accorse che anche lei era mu-
tata, dimagrita, con gli occ^hi tristi; pareva avesse ceduto la sua carne
per ingrassare il corpo del figlio, e la tristezza di questi si fosse in
qualche modo trasfusa in lei.
— Maria Caterina, — disse subito allarmato, — perchè sei così?
Che hai?
— Nulla, Zebedeo. — È 11 clima del mare che mi abbatte. La
notte non posso dormire.
— Ti bevi troppo caffè, forse.
— Forse: ma non ho voglia di altro. È il pensiero della casa
che mi tiene sveglia.
324 IL DIO DEI VIVENTI
— Tu sei pazza, Maria Caterina; la casa è custodita come una
fortezza: perchè tu appunto non ti dia pensiero ho fatto stare a
casa, il servo; e la vecchia bada a tutto solerte e maliziosa come la
madre del diavolo. Non aver paura, tutto procede bene. Anche in
campagna tutto va meglio; come se la maledizione di quella donna
sia cessata.
— Io non ho mai creduto alle maledizioni, — disse la mc^lie
con una certa rigidezza. — Noi viventi non possiamo nulla senza la
volontà di Dio.
— Ebbene, sarà Dio allora che si sarà stancato di castigarci
per i nostri peccati. Il fatto sta che le cose vanno meglio: ringra-
ziamo Dio.
La sua voce era scherzosa; ma anche nei suoi occhi fìssi sul mare
passava di nuovo un'ombra misteriosa che rassomigliava appunto
alle ombre del mare; donde vengono? il cielo è sereno senza una nu-
vola, la terra è lontana, le onde deserte; eppure grandi veli d'ombra
oscurano qualche zona nelle distese ove l'acqua è più tranquilla e
pare salgano dalla sua profondità.
— Che nuove laggiù? — domandò la moglie. — Che cosa si
dice per la partenza di Lia?
— Tu sai che io non piarlo mai di lei con nessuno, e nessuno
osa parlarmene. In questi giorni poi ho evitato appositamente gl'in-
contri per non far chiacchiere; sono stato quasi sempre al podere a
guardare la nostra roba, ed ho lavorato più dei servi. Solo sono
andato dal Rettore; ma il Rettore sta male, dopo quella sera s'è
messo a letto e non ha più la forza di fare addio con la mano.
— Dopo quella sera?
— Ma — egli disse un po' confuso — dopo quella sera, alla vi-
gilia della nostra partenza, che l'incontrai in piazza, mi pare di aver-
telo detto.
No, egli non le aveva detto di quell'incontro, ma ella non insistè;
pensava ad altro.
— Sai che cosa mi disse il nostro ospite? Che facciamo bene a
portare Bellia al mare, il mare lo rinforzerà e lo guarirà; altrimenti
può andare a finire come il Rettore. Se il Rettore si fosse curato
bene, da ragazzo, non finiva così: ma egli era troppo attaccato ai
denari.
— Noi però non siamo attaccati, ai denari; — la rassicurò il
marito. — Tutto faremo per lui; si vive e si lavora e si soffre solo
per lui.
— Egli però è un po' ingrato; — gli confidò la moglie sottovoce,
mentre Bellia scendeva di corsa dalla casetta e andava a gettarsi in
mane destando intomo a sé un tumulto d'acqua come vi si fosse
precipitato dentro su un puledro ricalcitrante. — Vedilo! Ha appena
mangiato e va dentro a rischio di farsi venire una sincope. Bellia,
Bellia, — cominciò invano a gridare, — è troppo presto; hai appena
mangiato. Non tuffarla, non andar lontano! Vieni a stare un po' con
tuo padre. Sì! Gli importa molto del i>adre e della madre! Fa il pia-
cere suo e basta; anche se mi vede morire d'inquietudine non se ne
cura, anzi ne ride: si direbbe che prende gusto a farmi stare in pena.
— Ma non è nulla. Maria, tu t'inquieti per sciocchez25e. Vedi
com'è agile? Lascialo muoversi, divertirsi : è questo che gli fa bene.
IL DIO DEI VIVENTI 325
— Oggi il mare è buono e non c'è pericolo; ma l'altro giorno era
mosso, con dei cavalloni che pareva volessero arrivare di là del
piano. E faceva freddo, nessuno si bagnava, solo lui. D'un tratto è
scomparso. Mi sembrò di morire.
— Lo sgriderò, — promise il padre; ma lei non si chetava.
— Tu sai, Zebedeo, io sono una donna tranquilla, non sono mai
uscita di CcLsa, può dirsi: da anni non vengo nemmeno al podere.
Ci voleva solo l'amore per il figlio per farmi muovere; e questo
viaggio è per me come l'essere andata in capo al mondo. E non
siamo in capo al mondo? — ella disse guardando con un senso di
mistero l'arco del mare. — Questa linea, di sabbia mi pare, a volte,
l'orlo di un precipizio. Dopo questa striscia ferma tutto si muove e
ogni onda apre la bocca come un animale feroce. Quello che provo
io qui è quello che si deve provare al momento della morte. L'altro
giorno, ti assicuro in fede mia, vedevo proprio l'immagine dell'in-
ferno là dentro il m-are mosso: diavoli e diavoli che lottavano con
le anime dannate; e pensavo: è giusto quello che molti affermano
ohe non c'è altra vita, che il paradiso l'inferno e il purgatorio sono
in questo mondo.
Il marito balzò a sedere sulla sabbia dove s'era beatamente di-
steso : le parole e sopratutto l'accento e l'espressione del viso della
moglie lo turbavano profondamente. Sulle prime credette ch'ella ri-
ponesse un senso nascosto nelle sue parole, un significato che gli
ridestava le angosce sopite; ma poi s'accorse che ella parlava senza
alludere ad altro che al suo terrore del mare, e tentò nuovamente
di calmarla. Ma la sua ridestata pena non si riaddormentava; in
fondo era tutta una stessa cosa, 1 inquietudine della moglie e la sua.
— È effetto del clima al quale non sei abituata : a molti il mare
fa così; ma poi passa. Del resto fra due settimane o tre al massimo
saremo a casa e non se ne parla più.
— Non se ne parla più? E gli anni prossimi? Questa pena biso-
gnerà rinnovarla ogni anno.
— Ma no. Maria! Il ragazzo guarirà e d'altronde potrà venire
senza di te.
— Senza di me? Senza di me a quest'ora si sarebbe annegato
dieci volte. Io non lo abbandonerò mai. Piuttosto tu devi dirgli che
sia prudente; che non si allontani. Adesso poi s'è messo in mente
di andare alla grotta della Sirena, dove è facile entrare ma diflBcile
uscire. Quella scempia di Rosa non parla d'altro; anche i ragazzi
dell'ospite ne parlano; ed egli vuole andarci a tutti i costi. Tu glielo
devi proibire.
— Glielo proibirò — egli promise per calmarla, e infatti quando
Bellia tornò sulla spiaggia si ebbe un'energica paternale, alla quale
rispose con sorrisi di derisione e infine con parole insolenti. Pareva
che quella vita primitiva ih riva al mare lo avesse inselvatichito:
e il padre fece una mossa per ricordargli con uno schiaffo la dimen-
ticata educazione. Allora la madre lo difese, e la pena per il figlio
mcdtrattato superò la pena per il figlio disubbidiente. Tutto, tutto,
fuorché vedere il figlio soffrire.
b26 IL DIO DEI VIVENTI
Tanto meglio così : anche il padre preferiva l'insolenza sana
alla passività malaticcia di Bellia.
E poiché anche l'ospite gioviale era a passare il sabato e la do-
menica con la famiglia, furono di nuovo due lieti giorni di baldoria
omerica.
Il sabato vi fu banchetto dall'ospite: la domenica dai Barcai.
Un'aria di festa spirava anche sul mare; il venticello di ponente
increspava l'acqua così limpida sulla sabbia ondulata che pareva
l'acqua d'una fontana e quasi invitava a berla.
Molta gente estranea, del paese e di paesi piìi lontani, era scesa
alla spiaggia; si vedevano qua e là famiglie di scarpe abbandonate
sulla rena, e ragazzi che correvano lungo la riva e pareva non doves-
sero fermarsi mai.
Per rendere più allegro il pomeriggio festivo l'ospite invitò il
suonatore di fisarmonica; le donne ballavano fra di loro; i bagnanti
aristocratici della casa bianca scesero allo spiazzo della casetta roc-
ciosa attirati dal chiasso e dalla musica.
Il lunedì Zebedeo se ne andò dopo aver raccomandato al figlio
di essere prudente, di non far inquietare la madre; egli sarebbe
ritornato a riprenderli fra una quindicina di giorni; ma appena via
lui Bellia ricominciò a fare il piacere suo in mare e in terra. La
sera stessa del lunedì andò in paese col suonatore di fisarmonica,
ch'era un ragazzo triste vizioso e vagabondo, e ritornò a notte tarda.
La madre lo aspettava inquieta, seduta con la serva sulla duna
di sassi davanti alla casetta: era una diversa inquietudine di quando
il suo ragazzo era nel i>ericolo delle acque, ma più viva più gelosa.
— Chi ne sa niente dove sarà andato? Adesso si dà alle cattive
compagnie: forse andrà all'osteria, o da qualche donna di mali co-
stumi, chi ne sa niente? Quel ragazzaccio che suona sempre, che
non ha altro mestiere, che è già stato in America, mi dà l'idea del
figlio della Tentazione.
Invano la serva cercava di rassicurarla.
— Ragazzi, sono! E il vostro Bellia bisogna pur bene che si
stacchi dalla vostra gonna.
La padrona guardava le stelle, l'Orsa alta sul confine fra la
brughiera e il mare, e neppure il silenzio delle onde e la serenità
della notte profumata d'silghe e di menta selvatica riuscivano a
chetarla. Era quasi mezzanotte; anche i lumi della casa bianca si
spegnevano: solo sul mare lungo gli scogli errava una barca fanta-
stica con una fiammella a prua e una figura che si spoi^va come
a guardare e misurare la profondità delle acque.
— Ti pare, Rosa, che Bellia e quel ragazzaccio siano in quella
barca, diretti alla grotta della Sirena? Anche oggi ne p)arlavano.
— È un pescatore d'arselle. Ma può essere anche un'anima er-
rante : ad ogni modo iBellia vostro non è.
Finalmente si sentì lontano lontano come venisse dad mare il
suono della fisarmonica: in quel momento la madre benedisse lo
strumento del vagabondo che gli annunziava il ritorno del figlio.
E non rimproverò Bellia, quasi fosse il fìgliol prodigo; ma non
fece neppure tacere la serva che lo sgridava per conto suo.
IL DIO DEI VIVENTI 3*27
- Tu dovresti vergognarti di andare con un ragazzaccio così,
che è i>eggio dei mendicanti : i mendicanti se non altro hanno un
po' di educazione : quello lì è più maligno e puzzolente della volpe :
eppoi dicono che rubi anche.
— Se ruba lo farà per necessità, — rimbeccò Belila. — Se tu
fossi nelle sue condizioni saresti mille volte peggiore di lui.
— Basta basta, — disse la madre — è mezzanotte; non è ora di
questioni. Andiamo a letto.
— Se torna qui, quell'anima errante la fermo io a colpi di
pietra, — promise Rosa: e Belila sogghignò, pronunziando una
frase che turbò la madre.
— Tu sei gelosa di lui.
— Perchè dovrei essere gelosa? Sono forse la tua innamorata?
Vieni qui che ti soffio il naso. Del resto tutti parlano male di lui.
— Perchè tutti sono invidiosi di lui.
La serva rideva sghignazzando come una cornacchia: e in lon-
tananza rispondeva la fisarmonica e pareva dicesse, per conto del
suo padrone:
— Sì, sì, tutti mHnvidiano perchè sono padrone della terra e
del cielo: dove mi trovo mi stendo, e non ho paura di nessuno:
nessuno può farmi del male perchè il male io già lo conosco in tutte
le sue forme e non può nuocermi più; e neppure della morte ho
paura perchè la mia tristezza è tanta che il pensiero della morte
mi è dolce.
La madre sentiva confusamente queste cose e la sua pena si fa-
ceva più profonda, più misteriosa.
Quella notte dormì meno delle altre notti, le pareva che Belila
fosse sempre in pericolo; tutti glielo volevano prendere, il mare, la
terra, gli uomini; e non riusciva a persuadersi che era la vita stessa
che glielo prendeva.
*
*•
La mattina seguente il suonatore venne a trovare Belila come
fossero amici da lungo tempo e della stessa condizione. Depose il
suo strumento avvolto in un {>anno all'ombra di uno scogrlio e si
sdraiò sulla sabbia accanto a Belila e al cane.
La madre non osò dirgli nulla; lo guardava però con diffidenza
e trovava veramente qualche cosa di strano e d'inquietante in quel
lungo corpo bruno tutto ossa, in quei piedi grandi e piatti, e sopra-
tutto nel viso olivastro e camuso simile a quello dei negri. Anche i
capelli erano neri e crespi, mentre gli occhi grandi e tristi avevano
un colore indefinito a volte azzurrognoli a volte verdastri come quelli
dei gatti.
Non parlava: Belila si divertì a buttargli manciate di rena sui
capelli ed egli lasciò fare scuotendo solo la testa come l'avesse ba-
gnata : il cane si aggirava loro in tomo e dapprima parve ostile al
suonatore abbaiandogli contro e tentando di mordergli i piedi, poi
rassicurato dai gridi e dai cenni del padrone si sdraiò tra i due e
divenne subito amico d^ vagabondo.
La madre provò gelosia anche di questo: avrebbe voluto che
328 IL DIO DEI VIVENTI
Rosa parlasse male al suonatore: e infatti appena Bellia fu in acqua,
la serva si avvicinò e frenando la sua stizza disse piano :
— Non ti venga in mente di bagnarti qui, oh; i nostri ospiti non
vogliono.
Il suonatore la guardò sorpreso con i suoi occhi d'uomo triste;
e senza rispondere balzò in piedi riprese il suo strumento e andò a
mettersi più lontano, di là degli scogli. Il cane lo seguì e Bellia gli
faceva cenni dal mare quasi avesse indovinato le parole della serva
e volesse chiedergli scusa.
Allora la madre rimproverò Rosa:
— Non si scaccia così un poveretto, come un cane. Adesso Bellia
s'irriterà.
— Lasciate che si irriti, altrimenti finirà col portarvi quel leb-
broso in camera vostra.
Bellia non s'irritò, non disse nulla, ma nel pomeriggio se la
svignò di nuovo e questa volta col cane. L'idea che ^li fosse col
cane rassicurava in qualche modo la madre : le pareva che la bestia
lo guardasse dei pericoli ai quali andava incontro.
Quali fossero questi pericoli ella stessa non sapeva: o meglio
Io sapeva, ma non voleva precisarli neppure a se stessa; sentiva però
che li esagerava spinta da un sentimento superstizioso, dalla paura
di quella fatalità che da qualche tempo gravava sulla sua famiglia
e su Bellia in f>articolare.
Ecco ch'ella sta seduta sulla duna di sassi a scrutare il sentiero
della brughiera pensando appunto a questa fatalità. Perchè il male
predilige da qualche tempo Bellia? Ammesso pure che esista una
colpa nel padre, tacitamente riconosciuta e scusata da tutta la fa-
miglia, perchè deve scontarla Bellia? Ma perchè Bellia è il cuore
del cuore della famiglia, e il castigo si concentra in lui come la
luce nel prisma, per eèisere maggiormente irradiato intomo.
In fondo ella sentiva di soffrire veramente e solamente lei,
adesso: il ragazzo si divertiva nella sua scorribanda e godeva del
male stesso che faceva, della liberazione dalla sua innocenza, dalla
sua soggezione e anche dal suo amore di figlio. E alla sua pena ella
sentiva aggiungersi per aggravarla lo sdegno di non aver più poter©
sul figlio : era dopo tutto; una cosa sua, era una sua proprietà asso-
luta, che le sfuggiva. Come non soffrirne? Eki era una sofferenza che
quasi rasentava il terrore: come se ella vedesse uno stesso membro
staccarsi da lei, o peggio ancora qualche cosa sua interiore, la sua
ragione stessa, il suo stesso amore di madre, abbandonarla a poco
a poco.
Si strinse la testa fra le mani e chiuse gli occhi quasi per im-
pedire che davvero la ragione le volasse via come un uccello dalla
gabbia.
Rosa la trovò così e credendo che piangesse le battè dolcemente
una mano sulla spalla, la invitò ad alzarsi a fare qualche passo con
lei, sorpresa nel vedere che la padrona cedeva, che obbediva quasi
umilmente.
Andarono lungo la spiaggia verso la foce del fiume: in certi
punti la vegetazione della brughiera con le sue tamerici nane i cor-
bezzoli l'alloro selvatico raggiungeva la rivale il suo odore si fon-
deva con quello delle alghe; e pareva che la terra e il mare si par-
IL DIO DEI VIVENTI 329
lasserò coi loro profumi e che i sassi sempre più fìtti volessero im-
pedire il passaggio dell'uomo per serbare intatta la divina solitudine
della natura.
Rosa e la padrona dovettero fermarsi per riprendere fiato. Ep-
pure i sassi, ai loro piedi, avevano qualche cosa di dolce e dome-
stico; alcuni parevano pani appena tolti dal forno, altri uova, frutti,
legumi, confetti, utensili dell'epoca della pietra. Anche i cespugli
dei cardi d'un lilla cinereo bronzato che crescevano qua e là solitari
fra i sassi della cui natura partecipavano, parevano piante preisto-
riche nate prima che il mare si ritirasse e destinate a vivere sempre.
Le donne riuscirono, i>as&o passo, l'anziana aiutata dalla gio-
vane, ad attraversare quel piccolo deserto di pietre; di là ricomin-
ciava qualche striscia di sabbia, e l'acqua quasi immobile e limpi-
dissima, copriva un fondo dorato di seta tutta marezzata e scintil-
lante.
Grandi scogli s'ammucchiavano di tratto in tratto neri fra il
verde delle onde simili a rovine di castelli caduti nel mare: su al-
cuni si stendevano forme di bestie alle quali non mancava il vello
fatto di alghe secche e di musco, e l'onda vi si aggirava intomo con
un movimento felino gelosa della loro immobilità e intenta a roderli
pur fingendo di carezzarli.
Le due donne procedevano vinte dalla bellezza del luogo; e la
madre si sentiva un po' rasserenata poiché la sua pena si sperdeva
come un cattivo alito nella purezza di quell'atmosfera vergine.
Così arrivarono alla foce del fiume e sedettero sul greto sassoso.
Il letto del fiunie era largo, d'un bianco abbagliante, ma l'acqua
affluiva scarsa in tanti rivoletti che si riunivano in una foce poco più
larga di due passi; e pareva che invece di scaricarsi nel mare vi
scaturisse. Grida di uccelli salivano dalle isole di giunchi, dolci e
fievoli come venissero di sott'acqua.
E d'un tratto a quest'incantesimo di azzurro di luce di lonta-
nanze argentine si unì un suono che fece palpitare di gioia e di pena
il cuore della madre: il suono della fisarmonica. Donde veniva?
Dal mare o dal fiume? Pareva che i due compagni d'avventure si
fossero nascosti come gli uccelli nelle fragili isole del greto o fra
gli scogli della riviera e di là irridessero l'inquietudine di chi li
cercava; eppure la madre in fondo era contenta di sentire almeno
così la voce di Bellia : meglio così che il silenzio.
{Continua).
Grazia Deledda.
22 VoL OCXVn. serie VI — 16 aprile 1922.
CONTRIBUTO ALLA STORIA DELLE ORIGINI DEL RISORGIMENTO
NOTE SU MANOSCRITTI INEDITI
A Paolo Boselli.
Nello smuovere vecchi libri polverosi, rinvenni vari fascicoli di
carte ingiallite, scritte ai tempi della Repubblica Cisalpina. Pensai
tosto alla compiacenza di Alessandro D'Ancona quando trovò la
« Raccolta preziosa che ricorda un'e{>oca di malaugurata memoria
per l'Italia Lombardo- Veneta», cioè il volume miscellaneo del Torri,
bibliofilo e dantista, dal quale trasse ed illustrò, ripubblicandole, le
«Lettere Sirmiensd». Non minore conforto venne all'animo mio nel
vedere il materiale grezzo di un « Diario » che riproduce uguali av-
venimenti con vivida, rude, ardente sincerità. Gli affanni, i dolori,
i fervori dei primi martiri della nostra redenzione, mi sembrarono
scolpiti più sinceramente sulle pagine dei miei manoscritti, ohe non
in quelle del malizioso ed arguto gobbo veneziano, il conte Francesco
Apostoli (1) : un filo ideale le ricongiunge alle Mie prigioni. Perciò
volli farne offerta, in Roma, al Gomitato nazionale per la Storia del
Risorgimento: gli uomini insigni che lo compongono, li porranno
tra le raccolte sacre alle memorie immortali della patria.
Insieme al Diario ed a vari altri manoscritti, diedi alcuni
pregevoli stampati e due volumi miscellanei di opuscoli rari, che
pur sempre trattano degli avvenimenti della Gisalpina.
Con queste brevi note tendo ad attrarre su questi manoscritti ed
opuscoli l'attenzione di qualche studioso, nella speranza ch'essi tro-
vino un illustratore più degno di me.
•
• •
I manoscritti riguardajio condanne, persecuzioni, martiri, inco-
minciati nella dolorosa primavera del 1799.
Quei tempi sono scolpiti dalla parola eloquente di Ugo Foscolo,
nella Orazione ai Gomizi di Lione : « Mentre le russe turme e le
«tedesche, con la ubbriachezza della vittoria, la ingordigia della
« conquista e la rabbia della vendetta, desolavano i nostri campi,
« contaminavano i letti, insanguinavano le mense, il braccio dei cit-
« tadini, piantava inquisizioni e patiboli, onde i padri e gli orfani,
« profughi in Francia, limosinando, di porta in porta, la vita, sen-
« tiamo ancor più grande l'esilio per la compwignia di sbanditi, che
« asilo implorando di libertà, asilo ottenevano ai misfatti; ed in tutta
(1) Franoksoo Apostoli, Lettere Sirmienri.
CONTRIBUTO ALLA STORIA DELLE ORIGINI DEL RISORGIMENTO 331
« Italia gli amici ed i congiunti, o atterriti o compri al tradimento;
« ed i fanciulli e le donne e gli infermi vecchi lapidati; e frementi
« di innocente ululato le carceri; e i pochi, o per viri.ù o per scienza
« o per sostenute dignità insigni e sicuri, confinati in barbare terre;
« e Cristo capitano di ribellioni e dappertutto violamenti, saccheggi,
« incendi, carneficine ».
Fuggirono o furono arrestati uomini carichi di anni, celebri,
pieni di meriti: come ai tempi di Diocleziano, descritti da Tacito.
Né le carcerazioni furono una misura di sicurezza, ma un vero iniquo
castigo per coloro che avevano obbedito al nuovo ordine di cose. Le
persecuzioni fusero i cuori, crearono invincibilmente le leghe nazio-
nali. Esuli e deportati fermarono nei « Diari » gli avvenimenti, i loro
affanni, le loro speranze, le loro fedi: par quasi che presentissero
che la Storia li avrebbe raccolti, nell'ora della redenzione, nell'Italia
compiuta. Una grande veridicità è in tutte le narrazioni: sono cro-
nache scritte col san^e. Prose e versi, manoscritti e stampe tutte
penetrate da una idea, da una coscienza nuova, meravigliano per
l'intuito ed i presentimenti.
Una stampa rara, dell'anno 9° repubblicano, dell'editore Righetti
in Salò, fa parte di questa raccolta. È la « Narrazione veridica di
« quanto hanno sofferto i centotrentuno Patrioti Cisalpini, Deportati
« prima a Sebenico indi a Peterveradino, con i loro nomi, cognomi,
«età, patria e professione». Sono quarantaquattro pagine, in sedi-
cesimo, e vi sono stampati anche due discorsi che, nell'occasione
del ritomo, pronunciarono il cittadino Domenico Bresciani, ed il Co-
mandante della Piazza di Salò, Gio. Battista Angeli. Si attribuisce
a G. F. Fontana, uno dei cittadini più eminenti, tra i molti di Salò,
che furono deportati a Sebenico e a Peterveradino. Noi lo vedicimo
ricordato come giureconsulto ed Accademico Unanime, amante della
poesia e autore di sonetti e canzoni, che si trovano in raccolte del
tempo. Il Peroni che, nella Biblioteca bresciana, lo dichiarò autore
di dissertazioni sulla nautica, e sulla spiritualità dell'anima dei bruti,
basandosi su manoscritti trovati presso gli eredi, non fa cenno
della Narrazione. Il Fontana fu dei Seniori del 7° Dipartimento del
Benaco. Alla convocazione del Collegio dei Dotti, indetta dal Primo
Console, col decreto del 17 aprile 1802, fu chiamato, in una seduta
del maggio, un Fontana, bresciano, laureato in legge, della Magi-
stratura Cisalpina, giudice al Tribunale di Brescia nel 1801 ; ma l'elet-
tore Smancini lo indicò come defunto. Difatti il Fontana moriva in
quell'anno. Ma può darsi che l'elettore dotto, nominato a Lione, fosse
un altro Fontana.
La Narrazione veridica ha forma di lettera ad un amico, « breve
ed ingenua per l'angustia del tempo » . Dice le sofferenze dei cento-
trentun patrioti del viaggio nella Manzèra, legati senza pietà; descrive
le casematte «col suolo coperto di fetida polvere», seminato di ossa
di morti, abitato da rospi o da scorpioni, e d-a innumerevoli insetti
schifosi, dove il Giudice stesso, vestito delle insegne austriache, «va
a ribadire, con replicati e dolorosi colpi, le catene», che dovettero
sostenere persino lo « storpio ed impotente cittadino Rigozzi, il para-
litico cittadino Noceti, ed il cittadino Fontana, attaccato da un prin-
cipio apopletióo » . Questo accenno fa dubitare che l'autore della Nar-
razione sia il Fontana stesso; altri deportati di Salò potevano avere
332 CONTRIBUTO ALLA STORIA DELLE ORIGINI DEL RISORGIMENTO
la coltura e la competwiza per scrivere la breve storia, in forma di
epistola.
Certo è però che anche l'Apostoli attribuisce al Fontana, nella
sua prefazione, io scritto, ed è autorevole la testimonianza di uno
del tempo. Queste narrazioni anonime hanno l'intenzione di voler
essere, e sono, la voce sincera di uno qualunque di quei martiri.
Anche la ìiarraziorve pone in risalto comie» quanto più aumenta-
vano, di giorno in giorno, i malanni dei deportati, tanto più si ac-
crescesse lo spirito e la ilarità in quegli uomini «f virtuosi e costanti »,
costretti a lottare contro l'avversa fortuna, innalzando le speranze
« all'invitto Eroe, ohe riguardava come suoi figli gli ing-enui figli
della libertà». E sentivano che sarebbero tornati come quei soldati
che « dopo aver sparso il sangue per la causa della libertà, mostrano
il petto sparso di onorabili cicatrici » ; e che avrebbero reso noto, al-
l'Italia od all'Europa, quei barbari trattamenti. « L'Italia — esclama
l'autore — a dispetto *di alcuni snaturati suoi figli, è libera e lo sarà
per sempre», e giura di dedicare la vita cilla rinascente repubblica,
i pochi giorni di vita, che non gli consentiranno di impugnare l'armi,
ma gli permetteranno « di eccitare quei prodi giovani, che formano
le più belle speranze, ad impugnarle». Era l'invocazione alla mi-
lizia salvatrice, perchè gli Italiani « scuotessero quel torpore che, per
lunga stagione, li avea resi preda di ogni straniero invasore».
Questo opuscolo sta bene accanto alla rara Storia della deporta-
zione — da me offerta al Gomitato per la storia del Riaorgimento —
e che fu, sino ad ora, attribuita al Cremonese Manini.
A
Una delle prime parti dei manoscritti riguarda la stessa istoria
dei Deportati a Sebenico e Petervaradino, ma è assai più ampia e più
ricca di dettagli e di nomi.
In altra parte, i manoscritti trattano le vicende di^li arrestati,
nei riguardi della Polizia austriaca.
La Polizia Austriaca a Milano ed a Cattafo, cenno storico, di
pagine 78, che il D'Ancona attribuisce al Porcelli, e che si trova, in
una sola copia, nell'Archivio Storico civico di Milano, fu, con nobile
intento, ristampato ed illustrato. Così si proseguivano gli stessi in-
tenti che, nell'occasione del I Congresso Nazionale per la Storia del
Risorgimento, fecero incidere, a grandi caratteri, i quarantotto nomi
dei Deportati del Dipartimento dell'Olona. Anche in tale pubblica-
zione vi è l'infiammata protesta contro le violazioni delle l^gi, della
giustizia, del Trattato di Luneville; vi è l'invocaz-ione agli Italiani di
non esser© i carnefici dei fratelli. « I tiranni — si dice — che si divi-
« sero un tempo le belle contrade d'Italia, videro che solo le gare ci-
« vili di queste potevano loro assicurare il dominio. Arderà ancora
« tra noi la vampa, dell'odio intestino e giudice di nostre querele sarà
« ancor l'Alemanno? » .
EJd è/veramente commovente l^gere come quelle proteste si ele-
vino infine alla promessa dell'oblìo delle persecuzioni : « Tolleranza
ed amicizia: ecco la vendetta». Non una lacrima, non un sospiro in
quei forti : nelle proteste mai un abbassamento servile. « I nostri
voti sono per la dignità della patria » .
CONTRIBUTO ALLA STORM DELLE ORIGINI DEL RISORGIMENTO 333
Tra gli opuscoli della Miscellanea, è anche una Lettera sulle
Commissioni di Polizia erette dagli austriaci in Lom,bardia nel 1199,
stampata in Milano nel 1800, firmata colle iniziali L. F. V. Non ho
presente se sia stata mai ricordata ed illustrata.
Ma anche qui è mirabile la concordanza nei fatti e nelle accuse :
è una univocità, in tutte le pubblicazioni, veramente impressionante.
Dalle elevate considerazioni, d'ordine generale, sull'amministrazione
della giustizia, balzano le iniquità, che un orientamento perverso
doveva forzatamente generare. Il flagello politico della Commis-
sione di Polizia vi è sferzato aspramente: le accuse penetrano nel
vivo. « Non vi meraviglierete — si dice — se qualche proscritto si
« è salvato col danaro; se si è tentata la pudicizia delle spose, delle
<f sorelle, lusingandole che avrebbero presto abbracciati, salvi e li-
te beri, i loro sposi e fratelli, qualora si fossero arrese alle brutali
« voglie di tai giudici; se libri, quadri, galanterie furono loro preda,
« sotto titolo che principii contenessero o emblemi repubblicani; se
« si rigettavano con disprezzo le doglianze delle oneste persone, per
« le contribuzioni ohe violentemente si esigevano nelle valli bresciane,
« dai bfiganti ed assassini condotti dall'infame prete don Filippi,
« sotto pretesto di avere bene meritato dalla patria, per avere guidato,
« per quelle montagne, i soldati austriaci che finivano di devastarla ».
•
• •
Nel descrivere il ritomo dei Deportati, che furono inghirlandati
di fiori e di lauri, una imperfetta dicitura della Storiai della Depor-
tazione, e più ancora le Lettere Sirmiensi, trassero in inganno, fa-
cendo credere che, in Brescia, componesse allora un'ode Giuseppe
Niccolini, il poeta classico del mirabile poemetto La coitiv azione
dei cedri, l'autore della tragedia Canace, premiata all'Ateneo, della
Clorinda e del Coip.te d'Essex; insigne traduttore e biografo di By-
ron, e che, nel Romanticismo, diffuse, come dalla ca-ttedra, toltagli
e ridatagli in un baleno di libertà, i nobilissimi sensi devoti alla
patria. Alessandro D'Ancona persino scrisse : « Per averla e ripro-
<f durla riuscirono vane tutte le ricerche, che ne facemmo, in Brescia,
« sia nella biblioteca che presso privati ». La fortuna mi ha consen-
tito di poter dare, al Gomitato per la Storia del Risorgimento, una
copia della poesia, stampata, in largo formato, dalla tipografìa Na-
zionale, nell'anno 9° Repubblicano. Ma essa è scritta da un Marco
Niccolini, granatiere della Guardia sedentaria bresciana, non dal ce-
lebrato poeta, che avrebbe avuto, in quei giorni, solo undici anni.
Non so se il granatiere Niccolini sia quello che, con un certo Giu-
seppe Rampini, sarebbe stato arrestato ed incarcerato, quando fu
chiuso, in Brescia, il Circolo dei «Buoni amici». La poesia, come
indice di sentimenti, per quanto ne scemi l'interesse il nome rettifi-
cato dell'autore, credo sia opportuno riprodurre.
Libertà - Uguaglianza - Il ritorno de' deportati Cisalpini —
Marco Niccolini, Granatiere della Guardia sedentaria Bresciana.
Madri, Spose, Sorelle, Amanti, afflitte
Non più pianti, non più. Quel giorno alfine,
Che tanto sospiraste è giunto ormai.
334 CONTRIBUTO ALLA STORIA DELLE ORIGINI DEL RISORGIMENTO
Ed al vostro dolor ponete fine.
Quest'è quel giorno, quel felice giorno,
In cui fanno ritorno
A voi dolenti madri,
I cari figli amatij
A voi, spose, i mariti desiati,
I fratelli a voi, suore,
Ed a voi pur chi vi tributa amore
Dopo sofferto tanti e tanti guai,
Martirii, stenti e pene.
Del di sepolti ai rai
Dopo che carchi fur d'aspre catene
Riedono ancor ai vostri dolci amplessi.
La Patria, eh© li vide un dì strappati
Colla più fredda angoscia dal suo seno *
Da sgherri scellerati
Ch'àn d'aspidi il veleno
Cui pietade, e dover 6on cure ignote
Oh come sul loro volto
II giubilo s'è accolto!
Oh come in loro si conosce appieno,
Che in tante angustie e tante,
All'aspetto tremendo della morte
Fu sempre il cor costante
Fu l'alma ognor più forte!
Non saprà mai l'umanità sdegnata
Sì cruento furor porre in oblìo.
Ma le vittime, sempre generose.
Lungi dalla vendetta, dal livore.
Daranno colla fronte ognor serena
All'ingiusto oppressore
Col sol disprezzo la dovuta pena.
Così, così calpestasi
L'drgoglio d'un tiranno.
In questo modo trattansi
Tutti color che sanno
Sol la viltà oonoscere
Amar la schiavitù.
Ma chi per la sua patria
S'espone a immensi mali
Soffre con alma intrepida
Anche di morte i strali.
Giammai con l'abbandono
L'amor e la virtù.
Valgono queste rime come fiori agresti, ohe sbocciano da cuori
entusiasti. Così nell'appendice alla 'Narrazione^ pubblicata in Salò,
con ugnali impressioni si legge il discorso del cittadino Domenico
Bresciani, quando, in quella città, si resero gli onori dovuti ai pati-
CONTRIBUTO ALLA STOEUA DELLE ORIGINI DEL RISORGIMENTO
335
menti, alla prigionia «sofferta con ferma costanza repubblicana».
Anch'esso chiude dicendo: « Ora che siete rimpatriati e restituiti alle
« vostre famiglie, e che vi abbandonate ai sentimenti della natura
« e dei legami sociali, la patria vi riguarda come pegni sacri per
« essa. I vostri patimenti sono oggi ricompensati da quel piacere in-
« temo, che sentono le anime grandi, di ritornare nella patria libera,
« quando si ha sofferto per essa. Il vostro martirio sarà indelebilmente
« impresso ne' nostri cuori, in quello dei discendenti, e parmi sentire
« ogni cittadino, ohe incontrerete, dire : « Eloco i martiri della nostra
«libertà».
E si neghi che siansi formati, in quel tempo, presentimenti e
fedi, tra le grida di evviva alla Repubblica madre e figlia. Le fedi
si colorivano nel bianco, nel rosso e nel verde dei carmi, stampati
in Verona, e lanciati nel teatro, dove l'Arrivabene, al ritorno, reci-
tava La tomba di Sebemco.
•
• •
Secondo il Melzi, sarebbero stati ottocento i deportati: secondo
il D'Ancona, invece, 566, divisi in cinque spedizioni. Quando, a
Vienna, si deliberò la retata, erano tre o quattrocento persone che
voleansi prendere, per deprimere gli animi, che invece cantavano:
Andiam compagni
Alla riviera
Che la Galera
Ci aspetta là.
Certo però furono ben più di quattrocento, e divennero altret-
tante fiamme, che arsero per l'avvenire : uscirono uomini cLffinati dal
dolore, dei quali rivedremo molti nel Corpo legislativo, dopo i Co-
mizi di Lione. Dall'elenco uflBciale, pubblicato nel Relatore Cisalpino,
parrebbe di poter dedurre il vero numero dei deportati : ma non
credo tuttora, ad onta delle fatiche e delle ricerche di molti, esatti
gli elenchi. Al D'Ancona mancarono i deportati dell'Adda; e, met-
tendo insieme gli elenchi della Narrazione veridica, della Storia
della deportazione coi nuovi manoscritti, mi pare che non risultino
differenze notevoli.
Potrei notare tuttavia alcune varianti : esse esistono specialmente
in confronto dell'elenco della Narrazione veridica. Il Manini, invece,
a mio avviso, si è servito degli elenchi dei miei manoscritti, apparen-
domi più un compilatore che non un autore. E, più innanzi, lo
proverò.
* •
Non voglio trascurare, in queste note, di rilevare come nella Mi-
scellanea, vi siano due pubblicazioni, prima d'ora ignorate, di uno
dei deportati. L'una è : Liberi sentimenti del cittadino Domenico Tan-
foglio contro i due anonimi opuscoli intitolati il primo al Gran Consi-
glio, « Gli antichi originari di Val Camonica », e « Risposta degli an-
tichi exoriginari », ecc.. Brescia, stamperia nazionale, anno VI re-
336 CONTRIBUTO ALLA STORLV DELLE ORIGINI DEL RISORGIMENTO
pubblicano {i798); e « Lettera di un democratico al Ministero degli
Affari Interni della Repubblica Cisalpina, nel rapporto dei beni pre-
tesi dagli ex antichi originari ». Brescia, anno VI rejmbblicano, dalla
stamperia nazionale.
L'importante tema vi ha adegxiata trattazione.
Ma più degna di rilievo è l'altra analoga pubblicazione: Sui
beni delle Comunità, pretesi dai così detti antichi originari delle
medesime, di loro proprietà esclusiva, perchè è datata dal Castello
di S. Nicolò a Mare di Sebenico, nella Dalmazia, li 15 settembre 1800.
Il deportato Tanfoglio incominciò il lavoro scrivendo cosi : « Per non
« saper fare, nella barbara, situazione della mia prigionìa, più bel-
« l'inganno del tempo, ed a disprezzo più onorato dell'orrore e del
« peso dei ceppi e delle catene, procuratemi dall'opera infame de'
« scellerati persecutori della Repubblica, fatti più perfidi e misera-
« mente illusi dalla da essi sospirata invasione dell'armi nemiche nel
« di lei territorio, mi sono occupato a scrivere sopra alcuni soggetti,
« che mi sono sembrati in qualche modo profìcui ».
In questa manifestazione d'animo, nel vivo desiderio di giustizia,
pel pubblico e privato bene, appare il valore dell'uomo, che non
merita oblio. Quei deportati formarono una vera Accademia di dotti.
Coi canti, colle assemblee, coi liberi voti, dimostrarono che le catene
del carcere non avvincono gli intelletti ed i cuori. Ma è specialmente
notevole tal scritto scientifico e polemico, lanciato dal carcere, come
a sfida dei persecutoori.
A
Molti dei deportati non ebbero, in vita, conforto di risarcimenti
adeguati. La Lettera analitica sopra la legge delT Amnistia 18 Fiorile
anno IX Rep. lo comprova. Anche questa si trova tra gli opuscoli,
da mie offerti. Il cittadino Luigi Piccoli ai cittadino Pighetti di Salò,
da Brescia, nel I Messidoro, anno 9° Repubblicano, scriveva: « Fi-
«niamola una buona volta sopra li vostri timori. Non è possibile che
« il nostro Governo Cisalpino impedir voglia il corso delle azioni
«civili di risarcimento di danni, nelle vie ordinarie, dinnanzi ai
« Tribunali della Comoilativa e Distributiva Giustizia. E' patrocinava
« tutti li poveri danneggiati per prigionìa, per deportazione o per ne-
« cessaria fuga. Qui causam dammi dai dammum dedisse videtur, qui
« rei illicite operàm de danimo tene tur ». .
Questa stampa è preceduta da due pegine manoscritte che mi pare
interessante riportare, perchè completano le notizie su uno dei de-
portati : « Luigi Piccoli, Veronese, Cittadino Cisalpino, decretato colla
« legge 17 Piovoso an. VI Rep. Avvocato ed abitante in questo Co-
« nume di Brescia, — Puro Repubblicano, che diede tante prove del
« suo vero patriottismo per avere bene servito la patria, come membro
« del Consiglio di pubblica Vigilanza, in Verona, come inviato più
« volte a Bonaparte, allora Generale in Capo, come incaricato a rap-
« presentare il popolo veronese, per l'unione alla Repubblica Cisal-
« pina, nel giorno della confederazione, ove ebbe il posto di deputato
« di detta popolazione, e al pranzo nazionale, ed ebbe il merito di
« presentare a Bonaparte, e al cessato Direttorio, di Milano, cinquanta
« e più mila sottoscrizioni del popolo di Verona, per la sin d'allora
CONTRIBUTO ALLA STORIA DELLE ORIGINI DEL RISORGIMENTO 337
« sospirata unione. Dopo tanti servizi prestati, per sentimento, alla
« causa della libertà, in conseguenza ha dovuto soffrire, unitamente
« a molti altri, tutti i mali, che ha saputo inventare lo sfo^o del par-
te tito nemico, di prigionìa, di catene, deportazione a Sebenico, e nella
« bassa Ungheria. Ha proposto la sua domanda di risarcimento verso
« i membri della fu Polizia Austriaca, di Brescia, ove fu arrestato ed
« è ben giusto che tutti i patrioti danneg-^ti, e massime questo puro
« Repubblicano, debba essere compensato delli sacrifìci da esso sof-
« ferti, mentre le vie della giustizia distributiva ponno essere fissate.
« Portatosi a Milano, il disgraziato Piccoli, con molti esemplari della
« lettera Analitica, e presentatosi al Ministro di Giustizia e Polizia,
« tenente Smancini, dal medesimo chiamato, fu presa la di lui depo-
« sizione in forma; di poi, intimatogli l'arresto nel proprio alloggio,
a levandogli tutti gli esemplari della suddetta che teneva presso di sé,
« ordinava al Dicastero di Polizia di Brescia, che doveva raccogliere
« il resto degli esemplari, tanto presso allo stampatore che presso a
« particolari. Dal Governo di Milano ottenne dopo pochi giorni la
« sua libertà. Si crede che la causa del suo arresto fosse ad istanza
«<del Gen. Moncey, inimico capitale di patrioti. Nel 1803 partì da
«Brescia, e, rimpatriatosi a Verona, esercitò colà rAv\'Ocatura».
Non sarebbe giusta l'accusa a Moncey. Il Manini gli attribuisce,
anzi — esagerando forse — un interessamento efficace per la libera-
zione dei deportati a Gattaro: disse di avergli parlato a Cremona e
di avere avuto da lui, qualche tempo dopo, l'avviso delle disposizioni
date da Bellegarde. Il Piccoli fu poi professore a Pavia, di proce-
dura civile dal 1808 ài 1814 e, nel '14 e '15, poi, di principi filosofici
e di procedura civile e giudiziaria. Ricordo che anche l'Apostoli,
come il Piccoli, si lamentava e imprecava; ma quali tempi sono im-
muni da simili querele?
•
• •
Non è detto però ohe il principio, sostenuto nel Memoriale del
Cittadino Piccoli, riguardante il risarcimento dei danni, contro i
componenti la Commissione di Polizia Austriaca, derivati da arbi-
trari arresti, abbia avuto completo insuccesso. Non è privo l'interesse
giuridico di siffatta azione. Una sentenza, tra l'altro, del Tribunale
Supremo di Giustizia di Milano, del 14 febbraio 1800, annulla altra
sentenza in confronto del Conte Alessandro Ottolini, del Conte Fran-
cesco Walstellinovich, Nicola Chiappati, e condanna solidariamente
«il Conte Pietro Pesenti, il Conte Marco Alessandri, il Cernie Pietro
« Caleppio, il Marchese Alessandro Solza, Giuseppe Antonio Vacis,
« noto giudice del malefìzio, ed anche gli individui componenti la
«suddetta Commissione Criminale, presso il Tribunale d'appello di
«Milano di quel tempo». È una tesi, sulla respKjnsabilità dei giudici
di speciali giurisdizioni, che merita, anche oggidì, attenzione.
Ricompariscono, in tale sentenza, i titoli nobiliari: non era già
più il tempo nel quale si condannava il Cittadino Pompeo Litta « per
« aver disonorato il nome del proprio padre, Antonio, indicandolo
«col titolo di Marchese, nella partecipazione di morte! ».
È da ricordare ancora, sullo stesso argomento degli indennizzi,
un Memoriale di Cemuschi, medico, presentato al Ministro di Giù-
338 CONTRIBUTO ALLA STOMA DELLE ORIGINI DEL RISORGIMENTO
stizia e Polizia Generale, perchè invitasse il Pretore d'Iseo a ricevere
la sua domanda di risarcimento dei danni, in confronto Bordiga,
che fu causa del suo arresto. Alla domanda vi è questo
DECRETO ALLEGATO
N. 11424 — 30 Pratile 9"
« Rimesso al Commissario del Governo, presso i Tribunali e Giu-
«dici del Dipartimento del Mella, perchè ecciti il Pretore di Iseo a
« somministrare pronta giustizia al Petizionario, non ostante qualsiasi
« eccezione riferibile alla legge di amnistia, che non può mai impe-
« dire l'esercizio di diritti del terzo.
Smancini — Custodi^ Segr. Centrale ».
Qui pure, adunque, la massima, il diritto, sono chiaramente af-
fermati. Fare il contrario sarebbe stato un contraddire anche al sen-
timento popolare; vi è una Petizione nel Corriere Milanese del 2
aprile 1801, che vuole celebrata e premiata la virtù e fermezza dei
deportati, «« giacché, fedeli e coerenti ai loro principii, fermi nei loro
« giuramenti, sapendosi già troppo compromessi al vincitore, da lui
« non vollero né clemenza né perdono e si abbandonarono alla sorte,
« e preferirono il distacco dalla famiglia, dalle spose, dagli amici,
« dai propri interessi e dalla patria istessa, alla debolezza di rima-
« nere schiavi del dispotismo e si resero così utili, in qualche modo,
« alla causa della libertà, nell'esporre le proprie vite a tutti i perigli ».
*
• •
In una lettera, che fu pubblicata, di Francesco Apostoli a Ferdi-
nando Arrivabene, del 12 Vend. dell'anno IX Rèp., con la quale gli
mandava cinquanta copie delle Lettere Sirmiensi, si accenna agli
stamipati dell'ex legislatore Porcelli, dell'ex legislatore Fontana, del-
l'amministratore Manini e del poema « burlesco comico della De-
portazione, stampato dail Vismara», ed alla «letteraria minaccia del
sempre gravido Reina, di un tomo o dnie, in foglio, del nostro sog-
getto, che promette e non partorisce mai ». Ben diverse sono le pa-
role della prefazione stampata, così deferenti, e meritamente, pel
Reina. Sono questi indici rivelatori di uno spirito, che non mi piace.
Comprendo come l'arte vivace dell'Apostoli abbia potuto piacere a
Cesarotti ed a Stendhal: ammiro la sua forma descrittiva, quando
ci ripresenta le coppie dei deportati, legati come malfattori, « tra le
quali emergevano Fenaroli, Moscati e Coddè, venerandi per età o
per dignitoso aspetto »; e li ritrae sulla manzèra, tra il fetore di ca-
davere, o nelle casematte tra le miserie dei corpi infestati dai paras-
siti, tra rospi, sorci, scorpioni, qualche vipera di giorno e pipistrelli
e gufi di notte, tra ombre strane e mostruose, tra mucchi d'ossa in-
sepolte. Ma quando vedo, vicino alla tragedia, la frase spiritosa, o
l'accenno « a qualche altro pezzo di tela opportuno al bel sesso », non
ammiro quell'anima e capisco come, alla fin fine, si esprima dicendo
che « costano care le lezioni delle avversità e delle disgrazie » ed il
profitto, che se ne ricava, « non vale la i>ena di ciò che vi è costato ».
CONTRIBUTO ALLA STORIA DELLE ORIGINI DEL RISORGIMENTO
339
Mi pare uno di coloro che, sorpresi dalla rivoluzione, vi si imbar-
carono fatuamente.
Traile righe talvolta dure e scorrette dei manoscritti, scorgo in-
vece un ben diverso spirito, che intus alit.
I compagni dell'Apostoli ebbero indubbiamente un valore mo-
rale assai superiore a lui. Ho letto con maggiore emozione il Diario
che Zaccaria Carpi, con la pesante lupa di sessanta libbre, che lo le-
gava coi ventisette anelli ribaditi sulle carni, scriveva sulla paglia,
tra runa e l'altra di quelle sedute generali che i prigionieri tene-
vano nella grotta, come fossero nell'assemblea di una grande repub-
blica. « Risplende in ogni dove la virtù, per illuminare la oscurità
di queste cave». E Sebenico, di quella Dalmazia Italica, tutto si
riempì di luci per onorarli, il 13 settembre, alla notizia della libe-
razione.
Molti superstiti, dei patimenti vollero fermare nello scritto la
memoria: le narrazioni si concatenano e si assomigliano. Già feci
cenno della Narrazione, attribuita al Fontana, e del cenno storico
sulla Polizia austriaca, con il quale l'autore — pare il Porcelli — pre-
sentava « la espressione della Iliade sofferta » . Nella Ristretta descri-
zione, attribuita pure al Porcelli, è sempre una nota sola che vibra
di passione, di dolore e di speranza: scrive forse quella mano alla
quale si era strappata la pelle, sotto le manette, che si dovettero spez-
zare, battendo sul polso rigonfio, in mancanza delle chiavi perdute.
Ivi l'anima ha il « maschio coraggio esclusivo ai virtuosi repubbli-
cani ».
Al poemetto sulla Deportazione attribuito al Vismara, il tradut-
tore di Properzio, membro del Gran Consiglio della Cisalpina, Se-
gretario generale del Ministero dell'Interno nel Regno Italico, ha
dato nuovo onore, riproducendolo, in parte, recentemente, nella illu-
strazione dei documenti dal Faentino Truvé, Luigi Rava, che dedicò
a questi studi il suo inesauribile amore per le cose patrie. Anche il
Rava, come molti altri, tra poesie, prose e commenti che abbiamo,
si sofferma specialmente sulla Storia della deportazione, sembran-
dogli il documento più completo questo che da tutti è attribuito al
Manini.
•
• •
Non voglio togliere lauri alla memoria di questo Amministra-
tore dell'alto Po, e credo preziosissime le 88 pagine, in-16°, dai larghi
caratteri, uscite dalla tipografìa di lui, nell'anno IX Rep. col « Dise-
gno delle Casematte, nel Castello di Sebenico, ove sono stati dete-
nuti li patrioti Cisalpini, formato fedelmente sulli disegni da' me-
desimi somministrati ». Egli appartenne ad una delle più benemerite
famiglie della borghesia Cremonese; la sua stamperia diffuse col-
tura letteraria e scientifica: giustamente i suoi concittadini segna-
rono, tra le epoche più fortunate, il giorno del ritomo di lui, « vir-
tuoso cittadino e patriota benemerito». Nella Gazzetta politica lette-
raria e nel foglio politico letterario : Lo spirito delle Gazzette d' oltre-
monti e d'Italia, nella traduzione, nella prefazione all'opera di B.
Franklin; nelle note politiche e statistiche alla memoria di H. Lloyd;
nel Rapporto sul passaggio da Cremona di Napoleone il Grande; nella
340 CONTRIBUTO ALLA STORU DELLE ORIGINI DEL RISORGIMENTO
Epistóia allo strilo di Bettinelli; nelle Memorie storiche della sua
città, egli trasfuse il suo colto intelletto e le idealità del suo animo.
Ma il Manini mi pare essere stato sopratutto un raccoglitore e
compilatore delle note fornitegli dai compagni. Difatti, guardando
ai manoscritti, che ora sono al Gomitato per la Storia del Risorgi-
mento (per quanto tutte le pubblicazioni, di quel tempo, sull'argo-
mento, abbiano somiglianze che impressionano), par quasi di scor-
gervi la miateria greggia, dalla quale egli deve aver preso i vari fatti,
che fece poi assurgere a forma di storia: «ci siamo proposti di limi-
tarci alla pura storia, della deportazione », egli dice. In modo spe-
ciale mi convince, in questa idea, l'Appendice con alcune Nozioni sul-
rUngheria che trovo più diffusa, con copia di documenti latini, tra
le mie carte, e che si chiude testualmente con le stesse parole della
edizione Manini: n^gni famiglia di campagna è in grado, siccome
dice Enrico IV, di poter rnangiare ogni giorno il sito pollo ».
•
• •
Non voglio diffondermi nello studio critico dei manoscritti. Mi
basta fare qui alcuni richiami, perchè poi studiosi migliori di me,
e più approfonditi in questa speciale materia, siano attratti ad esa-
minarli. Certo il riassunto del Manini non manca degli elementi es-
senziali; il livore e la rabbia che fecero deportare dei semplici arre-
stati, dei rei di supposto delitto; le sofferenze dei tribolati tragitti,
dai quali i meno validi uscivano come spettri; la fermezza, la carità,
la forza d'animo dei prigionieri, che danzavano con le catene, mo-
strando ai carcerieri attoniti i ceppi coperti di sangxie, di ciò solo de-
siderosi che la posterità li chiamasse martiri; le consolazioni della li-
berazione sospirata ed il ritomo trionfale hanno conveniente rilievo.
Però vi sono dettagli ohe, in determinati momenti, sembrano in-
significanti : dopo più di un secolo, invece, si rivedono con interesse
e si sottolineano, perchè vi si trovano dei fili, che ricongiungono a
fatti che divengono, dagli stessi dettagli, meglio spiegati e chiamiti,
A ciò credo possono valere i manoscritti che offersi, specialmente
abbondanti di elementi descrittivi.
Essi, nella prima parte, si chiudono con l'augurio che dagli av-
venimenti « conoscano i nemici quanto erano infami le loro macchi-
nazioni infernali e quanto ingiustamente ci hanno perseguitato. Il
trionfo della verità e della giustizia si è fatto vedere : a noi tocca ri-
trarne godimento e profìtto ed a scellerati tocca in retaggio l'inquie-
tudine dei rimorsi e l'odio generale della società ».
Politicamente più abile e più elevato, il Manini stampa, invece,
a chiusa: «Martiri della libertà! la vostra vendetta sia il colmare
di beneficenza coloro, che furono le cagioni di tanti vostri mali. Voi
li avvilirete mostrando tanta virtù; e il vostro trionfo allora sarà com-
piuto ». Anche in questi apparenti contrasti è la psicologia e la fiso-
nomia di un'epoca.
• •
Quella chiusa riguarda gli otto fascicoli inediti, completi, del
Giornale della deportazione dei Mantovani (a Sebenico e Petervera-
dino) dai quali ho tratto qualche cenno.
CONTRIBUTO ALLA STORIA DELLE ORIGINI DEL RISORGIMENTO 341
Ma vi sono ancora altri manoscritti, che, più che un Giornale o
Diario, tendono a darci qiiella forma di storia, alla quale mirò il Ma-
nini, fondendo gli avvenimenti delle deportazioni lombarde. Il mag-
gior volume sta nella raccolta delle Vicende degli arrestati politici
in Milano dopo V invasione del territorio Cisalpino, eseguita in marzo
ed aprile 1199 dagli Austro-Russi e relegati in Cattaro in Albania.
(Il marzo e l'aprile, poi, appare corretto in germinale ed in fiorile,
dell'anno 'V^II Rep.).
Nella prima pagina vi è l'elenco dei deportati, che vuol quasi
sembrare una lapide, scolpita a memoria ed onore. Segue una prefa-
zione, della quale riprodurrò qualche breve brano, e che incomincia
col moto virgiliano: Labor omnia vincit. ImprobUrS et duris urgens in
rebus egestas.
Lo scrittore incomincia con una geremiade di lamenti, per la
infelice condizione di inopia alla quale lo condussero gli eventi. Ma
il mio coraggio — dice — la serenità del mio cuore, la purità di mia
coscienza « scevra dalle punture del rimorso di azioni indegne, dalle
quali non fu mai macchiata; l'inalterabile proposito di mia impresa
— Impavidum. ferient ruinae — non mi abbandonarono neppure nei
momenti che gli assalti di morte, parvero insultare con furia, ed
indi con un lento cronismo, il bersagliato avanzo di fìsica mia esi-
stenza. Se perdevo il soccorso del forte animo mio, sempre in lotta
trionfante e gloriosa colla viltà ed umiliazione, sempre sdegnoso
delle bassezze e dei volgari incensieri, allor sì che tutto era perduto;
una lacrima sola che, involontaria, dalle mie pupille fosse sfuggita,
addio costanza, addio tranquillità; il momento desiderato degli im-
placabili miei nemici era giunto, e bastava affacciarsi per arrivare
rapidamente alla perfetta sua consumazione. No, non fia vero. Im-
pavidum ferient ruinae, dovevo sopravvivere alla più nera e inso-
lente intrapresa, che deve eternare il nome di tante vittime del di-
spotismo.
« Grandi opere dell'umano intelletto, grandi azioni, che lasciano
di sé permanenti vestigi, grandi scelleraggini, opposte alla dignità
dell'uman genere; grandi persecuzioni all'innocenza oppressa e cal-
pestata, consacrano, alle future età, i nomi sì degli empi e malfat-
tori, come degli Eroi e benefacenti. Mi diranno o potranno dirmi
taluni ch'io corsi dietro la gloria vana, di voler essere nulla per me,
tutto per gli altri : che fui avido della stima ed amore dei coetanei;
sollecito di tener celati i modi impiegati per procurarmeli; dimen-
tico dei benefici fatti a' miei simili, per non esigere ricompensa;
memore sempre dei ricevuti, per esseme grato. Ma ninno mi dica
che sia stato schiavo del fasto e della pompa navigante di vana glo-
ria; pescatore di lodi ed adulazioni, che non ho mai subito, che
ho detestato e sfuggito, che neppure ad altri ho mai saputo tribu-
tare. Sono entrato nella grande schiera degli illustri innocenti, per-
seguitati ed oppressi, sonovi entrato mio malgrado; sonovi entrato,
allor quando mi lusingavo di essere il più ignoto tra tutti i miei
contemporanei ».
In tutto questo ritmo di eloquenza, comunque la si giudichi, vi
è un'anima, che, pur tra le contraddizioni, si eleva : « A me più non
« penso — dice poi — parmi di ragionare della sorte d'altri, scono-
« scinti ed ignoti, impiegando tutto me stesso per impegnare altri a
1
342 CONTRIBUTO ALLA STORIA DELLE ORIGINI DEL RISORGIMENTO
«stimare le vittime illustri del dispotismo vigliacco». E chiude coi
versi della favola 2, voi. Ili, libro di Fedro:
... Memini qui me sazo petierit^
Qui panem dederit: vos timere absistite;
Illifl revertor hostis, qui me loeserunt.
*
• •
Dal Congresso di Rastatt, da Campoformio, che i più di questi
nostri Cisalpini approvano, perchè diede vita alla loro Repubblica
e alla pace, il manoscritto, corretto e pieno d'aggiunte, con calligra-
fie forse identificabili, narra fatti e filosofeggia, critica e protesta.
Gli episodi del ga ira, le proteste per gli illegadi arresti di Porro,
Somenzari, Apostoli e Moscati, non mancano; e le 82 pagine si inter-
rompono con questi versi :
Invece d'aquila
Con i due becchi
Si vegga un asino
Con quattro orecchi.
A
L'altro fascicolo, non ricopiato, che pure tratta gli identici eventi,
e che al primo si collega, anche per lo stesso motto oraziano : Inipavi-
dum ferient 'ruinae, ha l'impeto nervoso di tramandare ai nepoti l'en-
tusiasmo per la patria ed il desiderio di vendicarla nei « ribaldi che
« l'insultarono e nei loro discendenti, affinchè degli empi o si disperda
« la razza o sia allontanata siffattamente che la superficie dei terri-
« tori repubblicani non abbia a risentire neppure lontano gli effluvi ».
È questa passione, che diventò odio settario : il gemito si era
fatto fremito. Così erano quei momenti : enormezze dovunque. « Si
potrebbe raccontare — dice ad un certo punto lo scrittore — con sali
plautini come la Commissione di Polizia, d'ordine del conte Coca-
stelli, facesse passeggiare, a Milano, nei giardini pubblici, il carne-
fice, in abito verde, colle mostre rosse, tagliato, come dicevasi, alla
patriottica, « in forma Carré », e come quest'insulto venisse comune-
mente rintuzzato da chi, incontrandosi nello sciocco esecutore, lo sa-
lutava dicendogli : « Addio, marchese; conte, buon giorno; signor Pa-
dre Vicario, signor canonico, signor curato; così mi piace che lei as-
suma i connotati che la distinguono tra gli amici del nuovo governo ».
Io do qualche spunto alla curiosità : non mi diffondo, perchè vo-
glio invogliare qualche studioso valente al comanento di questo pre-
zioso materiale. Non voglio illudermi che vi troverà grandi novità :
certo però delle varianti significative. Poche varianti, alcuni tagli
soltanto, come dissi, vi sono delle Nozioni suW Ungheria, che il Ma-
nini pubblicò, quasi testualmente, togliendole dalle Riflessioni sul-
VJJngheria, cavate da libri che vendonsi in quel regnùo; furono tra-
dotte dal latino e dal tedesco da un deportato, durante la sua depor-
tazione a Peterveradi(no.
Così è detto nel mio manoscritto, che s'inizia con la data del 3
gennaio: Animadversiones in jus publicum Ungariae a Francisco
Rudolf Grossius editum, 1786. Diritti deW Austria su VVngheria. Leggi
CONTRIBUTO ALLA STORU DELLE ORIGINI DEL RISORGIMENTO 343
per la successione. Scrittori sulle cose delVUngheria, Palatinato, Pan-
nonia Superiore. Poi, con la data del 16 febbraio 1801, con le pa-
role « l'Ungheria confina a Nord-Est con le montagne della Carpa-
zia », identiche a quelle del Manini, va fino alla pure identica chiusa,
che ho riportato. Tutto ciò, oltre sottolineare di più che fu una sem-
plice compilazione quella dell'editore Manini, pubblicata del resto
anonimamente, e pur sempre, per più motivi — e, su tutto per gli
intenti — pregevole, dimostra ancora le attività nobilissime dei
deportati, nelle tetre prigioni. Ricordai il lavoro del Tanfoglio: e,
tra le carte depositate, vi è anche un fascicolo che inizia studi e
consider£Lzioni di storia e di filosofìa.
Si era colà trasportata una vera accademia di dotti e di pensa-
tori : chi scrivesse una storia di accademie non immaginerebbe di do-
verne annoverarcene una di galeotti, che aveva per aula l'atrio di
una prigione.
•
• •
Tutto il materiale, che offersi, proviene certo dalle fucine di Man-
tova, la quale diede un contingente numeroso ai deportati e, nel
2 giugno 1885, volle inscriverne i nomi « presso l'ara di Belfiore, a
disfida del tempo, a vendetta della libertà».
In uno scritto di trenta anni fa, sui Francesi e Giacobini in Man-
tova, vi è un orientamento di spirito profondamente ostile a quegli
uomini ed a quei tempi. Penso che l'insigne autore, così benemerito
degli studi, oggi commenterebbe i fatti con maggiore serenità, pur
comprendendo quelle che furono reazioni del suo sentimento contro
le ingiustificate violenze e le tendenze settarie. Perchè debbiammo ri-
dere, se pure era una fantasia, rileggendo, nel primo numero del
Giornale degli amici della libertà italiana, uscito in quella città nel
30 piovoso dell'anno I della libertà : « Gli intrepidi repubblicani
fanno sventolare lo stendardo tricolore anche sui rampari di Man-
tova e ben tosto anche su quelli di Roma »?
Chi abbia preparato il materiale, che io depositai per gli studi,
non so. Non uno solo, certamente, ma diversi.
Ma che importa identificarli? In quelle narrazioni, in quelle pro-
teste, tutte le voci si fondevano in una voce sola, tutti i cuori s'uni-
vano in un sol cuore.
Sul libretto, di prima nota di memorie, che è tra quelle carte,
nella data del 25 febbraio 1801 si parla dei preparativi per il ritorno;
e l'accenno ad una « cassa quadrata, col coperchio di tela incerata
verde» e col nome «di Taramozziy^, indurrebbe a credere che le
Vicende dei patrioti Mantovani, gli otto fascicoli, cioè, della deporta-
zione a Sebenico e Petervaradino, siano di lui, che l'Apostoli ricorda,
« rispettabile e virtuoso amico » col quale sino a tarda ora stava « a
conversare, insieme con Arrivabene » . Il Tamarozzi emerge nella vita
Mantovana di quel tempo: lo vediamo tra gli amministratori dello
Stato, nominato dal Miollis; lo troviamo correre qua e là, dove si ma-
nifestavano, nei primi tempi, tentativi di rivolta, a ristabilire l'or-
dine; e, creato il Dipartimento del Mincio e le nuove amministra-
zioni Cisalpine, è nella municipalità, capeggiata dal Volta. Egli pre-
siede poi la seduta del 5 ventoso, dell'anno VI Rep., quando, dopo
l'allarme delle truppe, si presentò a tutti i subalterni della Munici-
344 CONTRIBUTO ALLA STOMA DELLE ORIGINI DEL RISORGIMENTO
palila, riuniti, il generale MioUis, protestando perchè era uscita la
Gazzetta con espressioni incendiarie, e minacciando fucilazioni e
pene. Doveva essere, per sentimenti ed abitudini, probo, perchè lo
vediamo reagire contro gli scandali, gli abusi, gli illeciti esoneri:
doveva essere di animo virile se, quando Delmas accusò la Municipa-
lità al Direttorio, dopo averla ingiuriata e vilipesa, potè dettare la ro-
vente protesta, nel verbale dell'adunanza, proponendo le dimissioni
collettive, e facendole seguire da una lettera di fuoco al Commissario
del potere esecutivo, al quale si diceva di non voler più stare sotto lo
scorno della dignità calpestata.
Egli tornò poi nella Municipalità ricostituita, e, dopo la depor-
tazione, fu richiamato nella Amministrazione centrale del Mincio.
Era stato proposto a Bonaparte tra gli Juniori del Dipartimento
del Mincio, ma egli ne cancellò il nome di suo pugno, sostituendo-
gli, non so perchè, Gologna Abram Vita. Può essere Tamarozzi uno
degli autori, come, delle altre note, possono esserlo Goddé, Somen-
zari, Prandi... : lo dirà chi studierà i documenti.
Si sforzarono alcuni Mantovani, nelle satire, recitando la com-
media del Belloni, La resa di Mantova, ossia i patrioti in convulsione
e stampando il Processo dei Giacobini di Mantova, mentre i ha man-
gia le candele e in adesso i fa i stupini , di proiettare il ridi-
colo su persone e cose; ma non è certo sopprimibile e risibile il va-
lore di uomini, per più titoli, eminenti, né l'importanza di un'epoca
meravigliosa.
Goddè, arrestato come il più pericoloso e colpevole dei patrioti;
l'Arrivabene, che lo seguiva nel carcere; Teodoro Somenzari, che
finirà barone nell'impero e commendatore della corona ferrea; il pro-
fessore Girolamo Prandi che, nel giurare « odio etemo al governo
« dei Re, agli aristocratici ed oligarchi, con la fermezza in tante oc-
« casioni sperimentata; con la prestazione robusta del voto fa riflet-
« tere alla particolare maniera, con la quale giurano i veri repubbli-
« cani »; il Molinari, municipalista, tu tt' altro che settario, sono figure
che vanno guardate con meritata e deferente attenzione. Perchè non
credere alle lettere concitate del Goddè a Garlo Franzini — il quale
non fu poi arrestato, perchè potè fuggire in Francia, tra i più audaci
durante l'occupazione Francese, tiratosi su da semplice scrivano sotto
l'Austria fino ad assumere grandi arie demagogiche e tribunizie e
che moriva a Brescia nel 1808 — quando lamentava che si raccoglies-
sero firme contro di loro perchè il popolo ancora jion sapeva quanto
lo si amava? Ammetto le evidenti espressioni di fanatismo, di infa-
tuazione, di utopia, in quei tempi; ma non disconosciamo, senz'altro,
gli intimi convincimenti degli animi : passati tanti anni, maturati gli
eventi, abbiamo il dovere di dispensare giustizia.
E giustizia ed onore verranno, se ai manoscritti si guarderà con
animo sereno, penetrato di fede. Io desiderai ch'essi fossero custoditi
in Roma, che è il nostro cuore e la nostra gloria : qui devono appa-
rire le luci degli albori di redenzione, sino a quelle del meriggio
italico.
L'augurio che il nuovo secolo fosse propizio alla nostra patria,
vergato in quei manoscritti, uscito da cuori torturati per una idea
che non poteva fallire, sia conservato tra i documenti sacri, promessa^
ed auspicio perenne alle nostre fortune.
Ugo da Gomo.
LA FINE DEL MONDO
Venne, o Terra, così dal più profondo
della sua notte : notte immensa, in cui
mille secoli è appena un tuo secondo.
Era partita dai profondi bui
dell'universo a stenninare un mondo;
e sovr'essa non c'era altro che Lui.
Quando? Chi sa! Chi può sopra una sfera
descriver la parabola operosa
che un astro compie nella sua bufera?
Millenni prima dei millenni... Cosa
possiam noi dire? Quando ancor fors'era
quel mondo il fiato d una nebulosa.
Era la scia che, appena ai>erta, l'onda
sopprime : un punto in quel gran mar dei mari;
un nulla : e niun sapea dell'errabonda.
Non sapevan le stelle. — Oh i bimbi ignari!
Chi avverte il picciol sasso che la fionda
lanciò di sopra i tozzi casolari?
Un vetro, forse, fracassato, un nido
distrutto; e nulla piìi; l'insorger breve
d'una rampogna... E poi? Poi qualche strido
là giù nell'ombra; e nulla più. La pieve
manda a ogni bimbo l'angelo suo fido:
dormono i bimbi in un candor di neve.
Da un'invisibil fionda era partito
un sasso... un astro per ferir la mèta
che Dio gli avea mostrata col suo dito:
un punto, im nulla. La spettral cometa
veniva: e il mondo uscì dall'infinito
nel suo sottile involucro di creta.
23 Voi. CCXVn, serie VI - 16 acrile 19».
346 LA FINE DEL MONDO
Non sapea oh'easa, rinvisibil, fosse
là, dietro i cieli; ed attendea secura
a rassodarsi in mezzo alle sue scosse,
ai suoi sussulti : a farsa creatura
bella: a temprar nelle sue vampe rosee
i santi germi dell'età futura.
Nuova era al sole. Le conchiglie espante
fendean gli oceani come tenui prore :
l'uomo era forse, anch'esso, un cuor natante.
Era palpito, sì, ma non dolore,
loice: e i grandi evi urgean sul gran quadrante
col ritmo breve e placido dell'ore.
E il cuore emerse dall'indooil flutto
ad informar lo scheletro, lo schema;
e la terra fu nulla e l'uom fu tutto.
Diall'antro sollevò la fronte scema,
torbido: e, in gigantesche ossa costrutto,
costrusse la sua casa, il suo poema,
la sua. storia. L'effimero, che abbraccia
l'eterno, avea con torvo sopracciglio
scagliato anche là su l'empia minaccia:
gittate avea là su, cx>me un artiglio,
lo sguardo : e già pendea sopra la faccia
del baratro l'insonne astro vermiglio.
Trascorser gli anni, ma cos'è sul grande
quadrante di tempo? Oltre le stelle fìsse,
citne le arene delle eteree lande,
cosa son gli anni, i secoli? Lo disse
nelle inspirate pagine ammirande
l'Antiveggente dell'Apocalisse.
Quel che il Maestro amò, dopo il Battista,
su gli altri, aperse il grande libro e lesse;
nessuno innanzi a lui ve l'avea vista.
La fine delle grandi ere promesse
era venuta. Il quarto Evangelista
scrutò le stelle; essa era là dietro esse.
Piso nei foschi bui dell'avvenire,
predasse i segni. E in lui parlava atroce,
tra lampi, il Dio delle terribili ire.
LA FINE DEL MONDO 347
E quelli che pendean da la sua voce,
come da un gorgo, videro affluire
tutti i fiumi dei secoli a una foce;
scender dalle inscrutabili sorgive,
inabdssarsi, dileguar lontano
in un immenso oceano senza rive.
Egli era là con la sua fionda in mano;
e da millenni il torvo astro veniva
con la velocità dell'uragano.
Nei secoli, così, scomparver gli anni :
ma cosa è un anno, un secolo? Un granello
di sabbia in mano al biblico Giovanni.
Tacque il Profeta; e l'uom ritornò quello,
quel ch'era stato : con la morte ai panni,
mosse il fratello a uccidere il fratello.
Del suo tes'arco egli si fece un plettro
di gloria; egU, il romeo; del suo bordone
si fece, egli l'effimero, uno scettro:
e comandò: piegò le forze prone
a sé, come festuche; e già lo spettro
tacito s'affacciava al suo balcone.
%
La meteora era là : là sotto il cielo,
sotto il balcone: ancora poco, e poi?
L'anticristo annunziava il suo vangelo :
ancora qualche secolo de' tuoi,
qualche minuto e poi su lo sfacelo
sarebber scesi gli avidi avoltoi.
gli avoltoi di là su. Nuovi profeti
traean ne' templi ad abolir l'antica
legge: e l'ora era là dietro i pianeti;
sopra erale il tallone, e la formica
traeva insaziabil lungo i greti,
lungo le vie del mondo, la sua bica.
Ardean le stragi: quando un savio, forse
im Padre di quel mondo, uno scolopio,
vide quel segno fra le vigili Orse.
Trassel con un suo grande telescopio
a sé : l'astro era — e un brivido gli corse
le membra — là, l'orribil elitropio!
348 LA FINE DEL MONDO
Il fraticello, col suo libro aperto
dinanzi agli occhi, predicò la fine:
ma predicò, l'uom semplice, al deserto.
Era una virgoletta, oh! così fine
che appena un occhio la poteva, esperto
scoprir fra tante lettere divine.
La virgoletta era là in fondo, appena
scendea la notte: col suo ftl di fuoco
piegato in su, nell'aria ampia e serena:
visibil come se, ogni notte, un poco,
l'avesse Dio su la sua pergamena,
poi, ritoccata col cairminio e il croco.
Tanto il bieco astro più visibil, verso
sera, così, tanto più grande, enorme,
quanto più a fior venia dell'universo :
parea, tm un fitto brulichìo di forme
fosforescenti, un gran mollusco emerso
da spaventose immensità senz'orme.
Venuto a galla dall'abisso, il tetro
astro emergea con tutto il capo fuori
del cielo: il crine arrovesciato indietro;
gli si vedea trft palpiti e bagliori,
sotto i tessuti, come lo scheletro
d'un mostro nato dai più strani amori.
Tutta ora possedea la volta bruna
del firmamento con l'enormi branche:
era lì lì per ischiacciar la luna.
Urlavan bruti, urlavan uomini, anche
gli uomini! L'astro si frangea com'una
immobil fiamma su le fronti bianche.
Immobil come se, via via che andava
incendiando il cielo ampio, si fosse
pietrificato in un giallor di grava:
in una opaca vastità di rosse
piastre, onde zolfo uscir dovesse e lava,
quando la man di Dio le avesse smosse,
pece, chi sa? bitume... I morituri
chiusi attendean l'inevitabil ora,
per non vederla, nei loro antri oscuri...
LA FINE DEL MONDO 349
0 sole, onde prorompe e si colora
l'onda del tempo, il tempo è in le: tu duri
al di là della nostra ultima aurora.
Sopra i pianeti ed il lor picciol moto
sei tu che spezzi i secoli in secondi,
sospeso come un pendolo nel vuoto :
fin ohe non avverrà che ti sprofondi
tu pur, recando nell'abisso ignoto
i gelidi superstiti tuoi mondi.
Torpide attonite acque, occhi sbarrati
nel buio! Egli era sempre là col dito
proteso : e immense gli eran l'ombre ai lati.
OuaJe orrida marea, quale inaudito
riflusso avea dai più profondi strati
tutto sconvolto il mar dell'infinito?
Talun si protendeva, erto la fronte,
fuori. L'astro era là, spiovea coi raggi,
da somano il cielo, intomo all'orizzonte :
tingea di strane luci acque, villaggi,
campi; si rifrangea dal piano al monte
tra spaventosi immensi urli selvaggi.
Era un'effusa non mai vista, il cielo,
aurora boreal da cima a fondo,
un'aurora di morte e di sfacelo :
a strisce : quasi che un gran ragno immondo
vi avesse ordito, sopra, un ragliatelo
da tutti e quattro i cardini del mondo.
Le stelle erano lì : parean vanesse
prese così, dai lucidi Infiniti
del cielo : e la luna era in mezzo ad esse.
Tutti la contemplavano atterriti,
come se, sgretolandosi, dovesse
sciogliersi in una pioggia d'areolìti.
La notte e il giorno erano due perduti
in un sod grigio, ove la luce aveva
precipitato tutti i suoi rifiuti :
tal forse fu la truce alba primeva,
quando discese nei tuoi gorghi muti
lo spirito che penetra ed eleva,
350 LA FINE DEL MONDO
o Terrai Un'alba era la notte e il giorno
interminabile ove erravan forme
strane, dai gesti smisurati, in tomo:
gli egro U5civan dai cavi antri su rarme
d'altri egri : e pilli non vi fficean ritorno,
sperse ombre nell'orrenda ombra uniforme.
Si riversavan nelle strade, ansando
stranmzzavan per via: qualche ermo stuolo
di rondini passava, a quando a quando:
s'eran levate Dio sa donde a volo
verso Dio sa che irrevocabil bando :
e s'abbattevan boccheggiando al suolo.
Ed ecco : l'aria divampò : le porte
del baratro girarono stridendo
sui cardini : ed entrò bianca la Morte :
entrò la Morte e vide, sotto il pendolo
del sole, in mille atre pupille assorte
(moltiplicato il suo sogghigno orrendo.
Fissavano, pervase dal beffardo
sogghigno, mille e mille sguardi spenti
l'immobil sole, come un solo sguardo:
immobil no; ohe, fatto dieci venti
cento volte più grande a quello sguardo,
riemipiva di fiamme il firmamento.
E il del fu tutto un sole : un bianco intenso
chiarore: un gran braciere incandescente
sotto la cupa volta dell'immenso :
un turibolo acceso innanzi all'Ente
supremo, etemo, ove, granel d'incenso,
la terra divampò, sparve nel niente.
Marino Marin.
IN MEMORIA DI GIOVANNI MARRADI
1852-1922
Tra i ricordi della mia vita letteraria la figura di Giovanni Mar-
radi è una di quelle che si disegnano con maggior semplicità e no-
biltà di linea, tanto l'ingegno dello scrittore e la schietta indole del
l'uomo formano una salda unità. Cercai di tracciare questa figura,
nel momento in cui aveva raggiunto la piena maturità sua, nella
serie di profili di scrittori nostri, coi quali Mag^orino Ferraris,
circa vent'anni sono, volle ringiovanita e ravvivata la Nuova Anto-
logia (1).
11 ritratto piacque al poeta gentile, all'amico leale che con un
carteggio affabile, mi facilitò l'opera, così come il modello aiuta il
pittore se esprime l'anima sua in una conversazione vivace e spon-
tanea. A vent'anni di distanza quel ritratto mi par sempre somi-
gliante. Così vedo ancora e voglio vedere Giovanni Marradi, nell'arte
e nella vita, mentre mani giovanili stendono verso di lui freschi
rami di lauro...
Che cosa potrei aggiungere a queste parole inviate per cortese
richiesta dei compilatori di una raccolta di scritti in onor del
poeta (2), ora mentr'egli dorme l'ultimo sonno, là tra i cipressi dei
Lupi, presso i cento camini fumanti delle officine livornesi, e i fiori
che si gettarono a piene mani su la bara già sono tutti appassiti?
Riandavo in quello studio, scritto con gran gentimento nostal-
gico a Teramo così nobilmente ospitale, la via lunga per cui mosse
da giovine il poeta... Dalla Ciociaria brulla, al fresco delle cascate
del Lazio; dall'Appennino dove ancor suona la grazia, di cui s'abbel-
liron le canzoni di Gino, all'Abruzzo dove le città stanno su le rocce
come aquile nel nido; dalla Sardegna all'Umbria verde; dall'Emilia
dotta e urbana a Siena la rossa, su cui aleggia ancora la visione del-
l'evo medio; dalle rive su cui l'Adriatico frange le bianche spume
della lunga ondata, alle Alpi apuane dai fianchi candidi ove scen-
dono con dolce declivio alla marina, a Pisa che chiude nel silenzio
la gloria antica... Qual meraviglia che la lirica accompagnasse il
viaggio, come un fiume limpido che corre tra le floride rive rispec-
chiando tutta la bellezza del paese? Ma nelle chiaire acque non solo
si riflettono le imagini presenti. Chi non risogna, preaao gli argini, a
età lontane, a rose sfiorite, a cose di bellezza perdute nel tempo che
non ritorna? E l'anima errante del poeta si compiacerne di risognarle
(1) G. Menasci, G. Marradi, in Nuova Antologia, 1° giugno 1902.
(2) G. Marradi. Società Toscana, Livorno, 1920.
362 IN MEMOIJIA DI GIOVANNI MARRADI
e di farle rivivere in un tutto. Cosi, nella veste agile e serrata, della
strofa niarradiana, la vivace freschezza di un fiore oggi dischiuso
fu espressa insieme alla poesia eterna ed infinita suggerita dai me-
mori luoghi : ed ogni paesaggio della nostra terra divina, ridisse, pel
labbro del poeta, l'intima storia sua.
Ma già lo scrittore aveva cantato l'amore con voce schietta e ap-
passionata evocando la imiagine dell'inspiratrice, di quella Lia che
gli sarà fedele compagna lung-o la vita, su lo sfondo lumin>)So
della nostra marina; e in questi poemi fioriti, con gran varietà di
ritmi e di riirne, per le terre d'Italia egli aveva già dato qualche cenno
di più ampie figurazioni, di quella capacità poi dimostrata nella
Rapsodia garibaldina di saper fermare col tratto incisivo della me-
daglia un profilo eroico.
Il primo volume dli Giovanni Marradi, le Canzoni Moderne, fu
pubblicato alla fine del 1879; l'ultimo, la Poesia della Riscossa, è del
1919 e riandando colla memoria agli anni giovanili, il poeta escla-
mava : « Quarantanni son corsi dalla comparsa di quel mio libro di
gioventù: quarant'anni compiuti! La favola breve della mia vita sta
per conchiudersi; il breVe ciclo della mia arte si è già conchiuso da
un pezzo. Vita semplice, e arte non grande; ma io le ripenso senza
malinconie e senza rimorsi, perchè, in tanta ressa di vanitosi e di
ci^latani per farsi avanti a forza di chiasso e di gomiti nella via
della vita e dell'arte, io so di essere andato sempre diritto per la
mia via solitaria e sento che oggi, da vecchio, posso ripetermi con
serena coscienza i due versi del Giusti :
Non ho piegato — ne pencolato ».
In queste parole, scritte sul finire del '19, vi è un certo senso di
malinconia ed un accento di giusta alterezza. Certo, una popolarità
più diffusa non sarebbe mancata al Marradi, s'egli non avesse bat-
tuto una via solitaria — chi lo chiamò in questi giorni maggiore
della sua fama? — E forse fu esagerato il sentimento che gli fece
considerar già conchiuso il ciclo dell'arte sua. Ma è sentimento di
dignità artistica così squisita che desta il rispetto.
Il periodo letterario in cui si svolse l'attività di Giovanni Mar-
radi è dominato dalla poesia carducciana. Si placavano le ire ma-
gnanime dei giambi edl epodi per giunger via via, attraverso la rie-
vocazione classica delle odi barbare, alla solenne serenità delle ul-
time composizioni. Quale degli scrittori di quel periodo ha potuto
compiutamente sfuggire all'azione del grande artiere?
Non potè liberarsene il Marradi degli anni giovanili, ma l'ar-
tista nella maturità sua si era già tracciato il suo dominio. Egli era
divenuto il dipintore di paesaggi luminosi e quieti : le poesie brevi,
niosfie da un sentimento di blanda contemplazione della natura, rie-
scono suggestive più per la trascrizione fedele dtelle forme e dei co-
lori, per la sobrietà delle imagini che non per i pensieri che le ani-
mano.
La lirica del Marradi richiama allo spirito qualcheduna delle più
indovinate tele dei nostri maestri toscani come le pitture loro fanno
tornare alla memoria le strofe musicali di qualche più nota poesia
del Nostro.
IN MEMOWA DI GIOVANNI MARRADI 353
E quella rispondenza intima che potrebbe trovarsi tra Giosuè
Carducci e Giovanni Fattori nell'interpretare la rude, selvaggia ma-
linconia della maremma, si (manifesta pur tra l'opera di Giovanni
Marradi e quella dei Gioii, dei Cannicci, dei Tommasi, dei Nomel-
lini quando dipingono i mille aspetti del mare e delle colline nostre.
Il mare sopratutto è stato l'ispiratore di Giovanni Marradi —
come ha dimostrato una garbata scrittrice — (1). La gran voce so-
lenne, che ripercuotono gli echi delle scogliere, risuona per virtù
dell'arte marradiana in una effusa sinfonia marinaresca; ed ora è il
dolce mormorio d'un'onda, ora la grandiosa musica dei cavalloni che
si frangono contro le scogliere.
E in conspetto del mare da lui cantato, Giovanni Marradi avrà
l'ultima sua dimora.
È sorta naturalmente nel popolo l'idea che la tomba definitiva
del poeta sia a Montenero, dove la città accoglie, accanto a Francesco
Domenico Guerrazzi, i suoi figli che maggionnente l'amarono e la
resero illustre. Per Giovanni Marradi il sepolcro su la dolce collina
tra gli oliveti ed il mare avrà un significato anche più intimo, un
più stretto legame tra la vita e la morte, tra l'opera dell'uoimo che
vuol rimaner fresca e florida e l'azione del tempo e dell'oblìo che
per forza d'inerzia si adopera e distruggerla.
Dicevo su queste pagine che il poemetto su Montenero è tra le
liriche del Marradi la gemma forse più lucida e tersa. La fusione tra
il pensiero e la forma è perfetta: il sentimento inspiratore spon-
taneo raccoglie i ricordi della infanzia lontana e le impressioni del
poeta giunto a maturità : alti*e memorie di creature umane che vis-
sero ed amarono e soffrirono m quella cerchia di orizz^onte si m'e-
scono a quelle i>ersonali dello scrittore.
Il tono affettuosamente elegiaco della collana di sonetti è ravvi-
vato da tocchi di paesaggio così efficaci da far ricorrere col pensiero
alle liriche più celebrate nostre e straniere che rivelano in pochi
tratti essenziali l'anima della patria.
Ma la nota finale — dicevo — non chiude, non termina le ima-
gini prima evocate. Il poeta non costringe il quadro in una linea ful-
gente d'oro, ma ristretta sì da determinar geometricamente la vi-
sione; egli schiude invece un ampio vano nell'azzurro e dal cielo
della poesia toscana i versi si levano a volo per l'orizzonte che non
ha confine.
Ed ora, in faccia, dorme la marina
priva di suoni e di bagliori e d'onde
sotto l'arco del ciel, che vi diffomde
il suo limpido azzurro e a lei declina.
E ridono in quiete cristallina
le due serene immensità profonde
che un divino silenzio occupa e fonde
in una sola immensità divina.
E in mezzo al gran silenzio e al gran sereno
(1) A. FxTRNO, Il sentimento del mare nella poesia italiana. Torino,
Paravia.
354 IN MEMORIA DI GIOVANNI MARRADI
gorgon le due dantesohe isole ancora
custodi solitarie del Tirreno.
E azzurreggiano al sole, al sol ohe ignora
gli odii sepolti alle bell'acque in seno,
e in un fuoco d'amor l'orbe incolora.
Queste e cento e cento altre simili pitture rimarranno dell'opera
majradiana finché si voglia che l'opera d'arte si associ al godimento
di uno spettacolo di bellezza naturale, o lo rievochi al nostro spirito
quando ne siaimo lontani.
Tra le molte cerimonie, talune intime altre pubbliche, e le prime
credo gli fossero più gradite — con cui Livorno e la maggior parte
degli scrittori d'Italia vollero onorare la vecchiezza del poeta vissuto
sempre appartato -nella cerchia ristrettissima di pochi amici — nel-
l'esercizio dei suoi doveri d'ufficio, una parve lo commovesse sin-
golarmente...
Allorché pochi mesi or sono Eigli prese affabilmente congedo
dagli insegnanti che avevano avuto in lui un capo amorevole dai
modi, ad un tempo signorili e modesti, la scolaresca tutta si assiepò
intorno al Maestro, che percorse il breve tratto di strada tra due fitte
ali di giovani plaudenti; e le giovinette gittavano fiori...
Conservino i giovani quel ricordo tra i loro migliori : essi così
riverivano una forza vicina a spegnersi ma che tutta si era data al
lavoro, al sacrificio, ed aveva chiesto all'arte soltanto il suo sorriso.
' Guido Menasq.
NOTIZIE INTORNO ALLE IMPOSTE IN ITALIA
ALLA LORO PRESSIONE E DISTRIBUZIONE
La Somma delle Spese, delle Entrate e delle Imposte
dello Stato e degli Enti locali.
1. La spesa effettiva annua dello Stato italiano era
avanti la guerra circa 2.500 milioni,
nel 1920-21 è stata accertata in . . 28,783 >
per il 1921-22 è prevista ufficialmente. 21.084 »
per il 1922-23 è prevista » . 18.525
La somma di 18 miliardi e mezzo è quindi riconosciuta come mi-
nimo necessario dopo la guerra e dopo cessate le spese straordinarie
di guerra; e il rapporto tra la spesa dello Stato avanti la gnerra e
dopo, può essere rappresentato come i sta a 7,5. Ciò però non vuol
dire senz'altro che le spese siano effettivamente sette o otto volte mag-
giori che nell'cinteguerra. Se si tiene conto che il potere d'acquisto
della lira italiana è stato ultimamente ridotto fino a un quinto in
confronto dell'anteguerra, il rapporto non è più come 1:7,5, ma in
realtà come 1 :1,5.
Nemmeno però questo aumento della metà della spesa effettiva
significa, come volgarmente si crede, che gli stipendi degli impie-
gati e le altre spese per i servizi civili siano in realtà migliorati e au-
mentati della metà. Se si tiene conto che dei 18 miliardi e mezzo di
spesa annua necessaria in un dopo guerra normale e pacifico, un
terzo è devoluto a
interessi per nuovi debiti. ... (4. 000 milioni)
pensioni di guerra (i.TfO » )
ricostruzione terre liberate . . . ( 700 » )
cioè a spese nuove, conseguenze della guerra, e un'altra quota ancora
imprecisa alle Nuove Province — per i rimanenti servizi continuati
dall'anteguerra, restano meno di 12 miliardi, cioè una somma che ha
un potere d'acquisto non superiore ai 2 miliardi e mezzo del 1913-14,
e che probabilmente anzi dà un rendimento utile minore.
366 NOTIZIE INTORNO ALLE IMPOSTE IN ITALIA
2. Le entrale effettive dello Stato erano
avanti la guerra, media annua, 2 Vi miliardi
sono accertate nel 1920-21 circa 18 »
L'osservatore superficiale potrebbe quindi illudersi che lo svi-
luppo delle entrate abbia seguito da vicino quello delle spese, e copra
ormai quel fabbisogno che sopra abbiamo accettato come probabile
per gli anni futuri. Qualcuno anzi, osservando che nel 1921-22 Je en-
trate saliranno ancora, a 19 miliardi, sembra temere che eccedano e
se ne tenga nascosta la eccedenza, per buttarle in nuove inutili
spese (1).
Ma nelle entrate 1920-21 e 1921-22 sono comprese ancora parec-
chie partite transitorie o fittizie, che scompariranno nei bilanci fu-
turi stabilizzati, lasciando di fronte ai 18 imiliardi e mezzo di spesa
media, una entrata ridotta a non molto pili di 14 miliardi (2) e
sempre insufficente. Infatti dei 2 miliardi e mezzo delle entrate pre-
belliche, erano coperti
due ventesimi da Proventi dei servizi pubblici e del patrimonio,
sedici ventesimi da Imposte ordinarie,
d/ue ventesimi soli da Rimborsi, entrate diverse e straordinarie.
Invece ded 18 miliardi di entrate dell'ultimo anno, solo
un ventesimo è di Proventi di servizi e di patrimonio,
dodici ventesimi, o poco più, di Imposte.
e il grosso della rimanente entrata è costittiito da ricuperi e proventi
di portafoglio, alienazioni di residui e di riparazioni di guerra, rim-
borsi per traffico marittimo e altre simili partite straordinariamente
gonfiate nell'immediato dopo guerra, di cui è contestata perfino la
situazione in bilancio o la destinazione, e probabile o certa la pros-
sima scomparsa o riduzione (3).
(1) Vedi discussioni in Senato, dicembre 1921 ; e EiNAtroi, in Corriere
della Sera, 10 dicembre 1921.
(2) Già per il 1922-23, il ministro del Tesoro prevede meno di 16 miliardi.
(3) Si potrebbe obiettare che codeste entrate transitorie corrispondono
perfettamente a quelle spese nuove conseguenti dalla guerra, in cui abbiamo
riconosciuto l'unico, effettivo aumento della parte spesa del Bilancio. Ma di
quelle sx^eae la maggiore (cioè i 4000 milioni di interessi i)er nuovi debiti) non e
transitoria, almeno fino a quando non si provvedere... anche all'ammorta-
mento; e le due minori (pensioni e ricostnizioni) si estenderanno da un minimo
di due a un massimo di trent'anni ; mentre le entrate straordinarie in conte-
stazione, tra un anno o due al massimo saranno già ridotte al minimo nor-
male — meno le Riparazioni. Ma anche delle riparazioni non si può. come in
Francia, servirsi come delle comparse sul palcoscenico! Se con esse si dovreb-
bero compensare i debiti verso gli alloati (e sono, nella più rosea delle ipotesi,
13 miliardi marchi oro di indennità, contro 21 miliardi oro di debito, per l'Ita-
lia) non si può ripresentarle di nuovo o a pareggio dell« pensioni o ricostru-
zioni, o a giustificazione del disavanzo, o altro ohe sia'
NOTIZIE INTORNO ALLE IMPOSTE IN ITALIA 367
3, Il vero nucleo solido delle entrate — a parte i proventi di
servizi pubblici che sono omniai resi tutti a sottocosto — rimane dun-
que nelle imjmste erariali^ di cui lo sviluppo è il seguente :
anno 1913-14 accertate L. 2,008 milioni
anno 1920-21 accertate » 11,004 » (1)
anno 1922-23 previste » 11.163 »
4, Le imposte dei Comuni e delle Province hanno progredito
assai più lentamente, cioè, secondo diati molto approssimativi e in-
certi raccolti dal Ministero,
Comuni ProTince Totale »
da milioni 619 177 756 nel 1914
a » 1.948 402 2.350 nel 1921
Aumento, dunque, come da 1 a 3, insufl¢e a compensare il
rieprezzamento della valuta e a coprire una spesa. che pure rimanga
nei limiti reali dell'anteguerra (2). Così che, pur senza introdurre
nuove spese, unicamente per pareggiare il bilancio e per pagare gli
stipendi agli impiegati, si sono costretti i Comuni a coprirsi di de-
biti. La sola Cassa Depositi e Prestiti ha concesso a questo scopo
fino a 250 milioni in un anno; ma le domande sono molto maggiori
poiché i disavanzi complessivi se non arrivano al miliardo annuo,
hanno superato certamente il mezzo miliardo (3).
5, Somanando imposte erariali e locali abbiamo quindi un com-
plesso carico tributario di
2. 764^ milioni nel 1914
13,354 milioni nel 1921
In rapporto al numero degli abitanti compresi nei confini ter-
ritoriali di avanti guerra, il carico medio risultava quindi di
77 lire per ciascun abitante nel 1914
371 . » > » nel 1921
L'aumento è sempre all'incipca da 1 a 5 e corrispondente al di-
minuito potere d'acquisto della lira.
Ma vuol dire ciò senz'altro che la pressione tributaria italiana
sia rimasta immutata o lievemente aumentata? E il fatto che ogni
(1) Nelle nostre somme sono comprese anche le imposte sragli affari am-
ministrate dal Ministero dei LL. PP. e dal Ministero degli Esteri; non è com-
preso il contributo per l'Equo trattamento, che ha una specifica destinazione
ed è forse transitorio. Per mantenere più esatto il confronto, dentro gli etessi
confini territoriali dell'anteguerra, si dovrebbe sottrarre una cifra, non bene
precisata (I) ma certo superiore a 200 milioni, di imposte della Venezia Giulia
e Tridentina confuse con quelle del Regno; ma in mancanza di più sicuri ele-
n^nti, riteniamo provvisoriamente compensata questa somma dall'altra che il
Ministero del Tesoro percepisce dal cambio dei certificati doganali, e che do-
vrebbe invece computarsi in aumento delle entrate doganali.
(2) Dal 1907 al 1914, non concorrendo lo svilimento della moneta, la somma
dei Bilanci degli Enti locali si era ugualmente raddoppiata.
(3) Nessuna statistica oerta vi è dei bUanci comunali e provinciali. L'ul-
tima è del 1912. • E tanto più deplorevolCj quanto più dovrebbe essere facile
con tanti organi di tutela.
358 NOTIZIE INTORNO ALLE IMPOSTE IN ITALIA
abitante inglese paga invece al suo erario 23 sterline, ogni francese
526 franchi, lo spagnolo 95 pesetas, l'americano 45 dollari, il te-
desco da 1200 a 1650 marchi (1), significa forse che la pressione tri-
butaria italiana è lieve o minore di quella inglese o francese o ame-
ricana? Evidentemente no. La proporzione delle imposte per ogni
abitante non ha in sé stessa che un valore aritmetico; valore reale
ha soltanto quando sia messa a confronto col reddito medio di quello
stesso abitante. Allora, se si chiarisce che il cittadino italiano paga
solo 370 lire, ma su un reddito annuo di appena 1800 lire, mentre
il cittadino di un altro Stato paga per es. 500 franchi ma su un
reddito di 4000, è evidente il maggiore sacrifìcio del primo; e tanto
maggiore quanto più l'imposta incide su redditi minori, appena suf-
fìcenti a un'esistenza civile.
II.
La pressione tributaria
e la somma della ricchezza privata in Italia.
6. La pressione tributaria non può essere calcolata se non in
rapporto alla complessiva ricchezza e al reddito nazionale, dai quali
i tributi sono prelevati. Ed è codesto termine del rapporto che è più
diffìcile calcolare, in mancanza di esatti rilievi e censimenti. Alla vi-
gilia della guerra, gli ultimi calcoli rappresentavano
la Fiochezza privata italiana in 112 miliardi (media per ab. 3150 lire)
il reddito complessivo annuo in 18 » ( » » » 600 lire)
In rapporto ad essi, la somma delle imposte pagate nel 1914 avrebbe
data una pressione inferiore al 24 per mil'le del patrimonio, supe-
riore al 17 per cento del reddito.
Dopo la guerra, un tentativo di computo della ricchezza o del
reddito è ancora meno agevole, perchè non solo manca ogni censi-
mento delle singole specie e quantità di beni, ma i valori sopratutto
sono divenuti estremamente variabili, per una serie di elementi in-
ternazionali e locali, economici e giuridici, così che ogni cifra, anche
se accuratamente accertata, non potrebbe valere che per un momento
nel tempo. Ad ogni modo, se teniamo ferma per il 1914 la tabella
Gini delle diverse specie di ricchezza privata (2) ne potremmo argo-
mentare rapidamente le variazioni del tempK) di guerra fino al 1921.
7. Dei terrena (comprese le miniere, fabbricati rurali, ecc.) lieve
è stata la quota dei danni diretti di guerra nella zona d'operazioni,
ma più grave forse il danno indiretto e generale dell'abbandono di
(1) Questi dati non sono tutti direttamente controllati, ma desunti da
annuari.
(2) Cfr. Ricchezza delle nazioni e Problemi sociologici, 1921:
Denaro miliardi 1,4 >
Depositi » 7,1
Titoli pubblici » 6,4
Titoli privati » 6,6
Totale miliardi 112,—
Terreni
miliardi 44
Fabbricati
20
Bestiame
5
Mobilia
11,6
Altri mobili
10
NOTIZIE INTORNO ALLE IMPOSTE IN ITALIA 359
culture, havori, miglioramenti, fertilizzazioni, ecc. È probabile che
l'aumenio del valore complessivo in lire segua a mala pena il deprez-
zamento della moneta.
I fabbricati hanno moltiplicato il loro valore in maggiore propor-
zione, per l'alto costo di produzione delle ultime case, cui tendono
a equipararsi; ma sembrano notevoli, oltre e più che i danni locali di
guerra, i deperimenti generali per trascurati restauri e manuten-
zioni, e la limitazione legale del reddito.
II patrimonio zootecnico ha rapidamente riparati i gravi danni
subiti durante la guerra (due milioni di bovini requisiti e trecento-
cinquanta mila dispersi dalla invasione) riprendendo l'ascesa; e i va-
lori di ogni singola specie, per quanto con forti oscillazioni, si sono
avvantaggiati in media sul deprezzamento della lira.
Anche la mobilia è parecchio deperita e non aumentata in quan-
tità e qualità; ma i valori sono più che quintuplicati. Degli altri mo-
bìli ogni induzione è più dubbiosa. Le quantità aumentate sono forse
le meno utilizzabili; le quantità utili sono forse qualitativamente più
deperite. Dei gioielli, certo aumentati, il conto è impossibile. Nel 1921
la carta moneta italiana ha raggiunto i ... 21 miliardi
i depositi presso Banche e Casse Risparmio . . 27 »
la Rendita e Buoni del Tesoro 78 »
le azioni industriali e commerciali 24 >
Ma quanta parte di queste somala sia in mano di privati e non
di Enti pubblici, è oggi più difficile stimare che non nell'anteguerra,
quando dal Princivalle si presumevano rispettivamente 50-90-55-66
centesimi. Probabilmente la quota dei privati è assai maggiore. Quasi
impossibile è invece ogni stima nei rapporti intemazionali. Chi può
sapere quanta carta e titoli italiani siano andati all'Estero, per sal-
dare invisibilmente la bilancia commerciale? e quanta (certamente
molto meno) carta e titoli stranieri appartengono invece a italiani
che hanno tentato commerci, speculazioni o evasioni alle imposte
personali? Sotto questo aspetto appare ormai non solo la difficoltà
di statistiche nazionali, ma più ancora la difficoltà di una legisla-
zione tributaria che non cominci a regolarsi internazionalmente.
8. Per via di ipotesi e di induzioni mi pare che si possa arrivane
alle seguenti proposizioni :
a) la ricchezza privata italiana è aumentata nel suo valore in
lire, forse nello stesso e inverso rapporto con cui la lira è diminuita
rispetto all'oro o alle monete divenute misura comune nei rapporti
internazionali. Nella sostanza essa non è aumentata. Il fenomeno più
splendido dell'economia capitalista, cioè l'accumulo di ricchezza (che
in Italia avanti la guerra era calcolato in oltre 2 miliardi oro all'anno)
è cessato dopo il 1914;
b) anzi, mentre la ricchezza effettiva e visibile è forse dimi-
nuita, certo deperita, il compenso in aumento è dato da ricchezza in-
visibile e fittizia, e principalmente da crediti verso lo Stato, ai quali
non corrisponde alcun maggiore patrimonio attivo dell'Ente debi-
tore, ma ana s'aggiungono altri maggiori debiti verso l'Estero;
e) il reddito imponibile, nominalmente aumentato, è sostan-
zialmente diminuito, in quanto manca rispetto a una maggiore quota
360 NOTIZIE INTORNO ALLE IMPOSTE IN ITALIA
di ricchezza invisibile o fittizia (gioielli, carta) e, mentre aumenta in
apparenza in certi rapporti di capitale puro, si è contratto nei rap-
porti della produzione e del lavoro, cioè dei fattori di ricchezza utile
e reale.
Se a queste proposizioni intomo alla ricchezza e al reddito na-
zionale, avviciniamo la sonuma di imiposte pagate nel 1914 e nel 1921,
la conclusione più probabile è la seguente : « La pressione tributaria
rispetto alla ricchezza privata, non manifesta un aggravamento molto
sensibile, e tanto meno corrispondente alle nuove maggiori spese con-
seguenti alla guerra. Un aggravamento più rilevante potrebbe invece
riscontrarsi rispetto ai redditi dei cittadini ». Più particolarmente,
mentre sono divenute più notevoli alctme forme di ricchezza e di red-
dito che si sottraggono del tutto o più facilmente a imposta, altre su-
biscono in compenso una maggiore pressione che non avanti guerra;
ed) è poi dubitabile se una parte della maggiore pressione non di-
penda da accumulo di imposizioni non pagate nel tempo in cui red-
diti e aumenti di ricchezza maturavano.
Cioè non riteniamo ne esatta né opportuna una diversa e recisa
affermazione generale, che servirebbe soltanto a mantenere uno stato
di incoscienza pubblica di fronte alle maggiori necessità del dopo-
guerra; o ai molti che trovano comodo generalizzare singoli casi di
massima imposizione, per strillare più dei colpiti e nascondere e
mantenere, alle spalle di questi, il loro privil^io o il minore gra-
vame.
Più utile e conclusiva può essere invece la considerazione delle
singole specie di imposta.
III.
Le irmposte straordinarie^ di guerra
e la ripartizione delle imposte ordinarie.
9. Dalla somma generale delle imiposte vanno anzitutto separate
le imposte straordinarie di guerra. Esse sono:
gli ultraprofìtti dipendenti dalla guerra e gli aumenti patri-
moniali da essi derivanti; imposte che si sono poi fuse nella cosidetta
confisca dei sovraprofitti;
il centesimo sui pagamenti di guerra (quello sui redditi es-
sendo invece divenuto una addizionale normale);
il contributo personale di guerra, per servizio militare non
prestato;
la seconda quota di imposta patrimoniale aggiunta eccezio-
nalmente alle rate dall'aprile 1921 al 1922, in conto pane (gli altri
raddoppiamenti o inasprimenti dello stesso conto sembrano invece
destinali a restare, anche dopo cessata codesta eccezionale gestione
di guerra).
Codeste imposte straordinarie (1) non dovrebbero entrare nel no^
(1) Le imposto straordinarie di guerra (esclusa la patrimoniale) dall'ini-
zio della guerra a tutto il 31 dicembre 1921 hanno reso L. 6,341,356,060 di cui
i soli aovraprofitti diedero L. 5,402,666,064. Nel primo bimestre del 1922 si
NOTIZIE INTORNO ALLE IMPOSTE IN ITALIA 361
stro calcolo della pressione tributaria, sia perchè esse sono destinate
a scomparire dai prossimi bilanci, sia perchè tutte, meno l'ultima,
non si applicano a redditi attuali, ma a sopraredditi eccezionali rea-
lizzati nel periodo 1915-1920. Si può dubitare soltanto se, come la im-
posta straordinaria sui sovraprofitti assorbiva anche una quota di
redditi altrimenti soggetta alla normale imposta di R. M., così an-
che il pagamento di essa protratto in questi ultimi anni, produca
qualche effetto analogo a scapito degli accertamenti normali dei red-
diti 1920-21 e seguenti per la stessa imposta di R. M.
Comunque, sottraendo dalla somma delle imposte erariali e lo- .
cali accertate nel 1920-21 (milioni 13.354) la somma di codeste im-
poste straordinarie riferite alla guerra ma accertate nello stesso
1920-21 (milioni 2.115) rimangono 11.239 milioni come complesso nor-
male di imposte ordinarie, al quale meglio possono applicarsi le
nostre ricerche sulla pressione tributaria. Confrontando allora gli
11.239 milioni del 1920-21 con i 2.764 milioni del 1913-14, ne risulta
dimostrata una progressione tributaria appena corrispondente al
mutato valore della lira, e attenuato l'aggravamento di pressione
prima indicato.
Conviene però avvertire che nei prossimi anni, a cominciare
dallo stesso 1921-22 e 1922-23, i bilanci uflBciali prevedono compen-
sata la diminuzione delle imposte straordinarie con un ulteriore au-
mento delle ordinarie. Ciò è già vero per il 1921-22, e potrà essere
in parte vero anche negli anni seguenti per lo sviluppo di alcune
imposte dirette e personali; ma naturalmente tutto dipende dalla
politica finanziaria che sarà seguita e dalle vicende economiche,
nelle quali qui non vogliamo entrare.
10. La ripartizione della somima delle imposte ordinarie nelle
tre grandi specie (dirette, sugli affari, sui consumi) va fatta diversa-
mente dalla consuetudine ufficiale, conforme la seguente tabella:
1913-14 1920-21 I 1921-22 1922-23
Imposte (accertam.) (accertam.) (otto mesi) (preTisioni)
Erariali: dirette 607.744.2f54 2.045.401.336 1.801.930.385 2.427.480.000
sugli affari 261.539.363 1.352.072.'073 1. 145 milioni 1.646.000.000
suicousumi 1. 138. 9ól. 125 5.491.295 484 4.071.401.693 6.165.000.000
Locali : dirette 456 milioni 1. 494 milioni — (?)
sui consumi 300 > 856 » (1) — (?)
i ^
Totale 2.764 milioni 11.239 milioni
Ne risulta che, mentre le imp)oste dirette dal 1914 al 1921 sono
poco più che triplicate, le imposte erariali sugli affari e sui consumi
sono qmntuplicate. Mentre prima della guerra l'equilibrio empirico
tra imposte dirette e indirette (2) poteva sembrare una mèta non
sono accertate ancora L. 192,448,449, e fino all'esaurimento potranno realizzarsi
forse ancora due miliardi. Chi ne avesse vaghezusa e modo potrà constatare se-
l'importo corrisponda in alcuna guisa a quella confisca cui era stata intitolata la
legge, e se in generale in un determinato regime economico siano attuabili
leggi di un opposto contenuto morale.
(1) Ritengo codesta cifra inesatta. Con gli ultimi inasprimenti daziari si
dovrebbero passare i 1000 milioni.
(2) Le imposte dirette prevalgono in Inghilterra, Germania, Stati Uniti,.
Svezia, Norvegia. Prevalgono invece le indirette sui consumi, in Francia, Bel-
gio, Spagna, Rumania, Bulgaria.
24 Voi. CCXVII. serie VI — 16 aprile 1922.
362 NOTIZIE INTORNO ALLE IMPOSTE IN ITALIA
molto lontana, gravando sulle prime le sovrimposte locali; oggi lo
squilibrio nelle imposte erariali a carico dei consumi è meno che
mai compensabile dall'inversa proporzione delle imposte locali. Su
100 di imposte pagate nel 1921
31 sono di imposte dirette
12 sugli affari
57 sui consumi
100
Rifacendo il conto del carico medio annuale per ogni abitante,
troviamo :
per imposte straordinarie lire 59
* » ordinarie » 312, di cui per imposte dirette . . (erar.) 57 lire
(loo.) 42
sugli affari 38 >
sui consumi (erar.) 153 >
(loo.) 28(?) .
La media ohe ha un semplice valore aritmetico rispetto alle
prime specie di imposte, ha invece un valore quasi reale per le im-
poste sui consumi diffuse in tutti gli strati di popolazione. Rimane
soltanto da vedere, se l'aggravio maggiore sui consumi che non sulla
ricchezza, dipenda dall'ordinamento delle imposte e dalle aliquote,
o dallo sviluppo della quantità di materia imponibile, specialmente
in unepoca come questa accusata di consumare più di quanto pro-
duca.
IV.
Le imposte sia consumi e stigli affari.
li. Le imposte sui consumi vanno suddivise secondo gli og-
getti e secondo il momento e il sistema dell'accertamento.
Presso i Comuni l'unica grande imposta è il dazio-consumo; le
altre, come il valore locativo, le vetture e i domestici, pianoforti, ecc.,
non contribuiscono che con poche decine di milioni.
Presso lo Stato si hanno :
1918-14 1020-21 ini-M l»S2-tt
(accertam.) (accertam.) (otto mesi) (preTisionl)
Monopoli (1) 551.462.674 3.660.436.662 2.557.652.437 3.392.950.000
Imp. su fabbricaz. 218 063 693 625.379.386 522.410.634 931.830.000
. . vendite — — — 569.521.726 433.446.960 990.000.000
» » divertim. e
mezzi di trasp. 26.773.758 210.492.682 161.728.462 275.000.000
Dog.e dir. maritt (1)342. b62. 000 525.466.178 396.163.220 675.000.000
Le maggiori variazioni nel tempo sono date piìi che dagli svi-
luppi nella materia dei consumi, da mutamenti di aliquote e da
nuove imposte. Nel 1920 e 21 vi è tra i monopoli quello del caffè, che
non esisteva avanti guerra, e che nel 1922 si trasforma in una delle
(1) Ripetiamo che nella tabella non sono comprese le quote di cambio per
dazi di importazione, che andrebbero aggiunte ai proventi doganali: sono da
aprile a luglio 1921 circa 97 milioni; e da luglio a dicembre 1921 circa 396 mi-
lioni. Sono compresi invece i proventi dei monopoli e di qualche minore impo-
sta nelle nuove Provincie, per oltre 200 milioni nell'ultimo anno.
NOTIZIE INTORNO ALLE IMPOSTE IN ITALIA
363
tante nuove imposte sulle vendite. I fiammiferi che avanti guerra
erano sog:g-etti a imposta di vendita, ora sono monopolio; le lampa-
dine elettriche sono state monopolio per poco più di un anno. Ol-
tre le imposte sulle vendite, sono nuove anche le imposte di fabbri-
cazione saponi e tessuti di lusso, e quella sui cinematografi (fine 1914).
12. Monopoli. I monopoli costituiscono oggi più assai che avanti
la guerra il grosso dei consumi tassati. Ma nel monopolio, conviene
avvertire, non tutto è imposta; una parte è costo della materia o del
prodotto, quale si avrebbe anche senza imposta su libero mercato.
La ripartizione non è però così semplice come a dirla, perchè
bisognerebbe distinguere : il costo di produzione e il costo di esazione
comune a ogni imposta; il costo del prodotto all'ente monopolista e
il costo probabile per un libero produttore o commerciante; il mar-
gine tra costo e prezzo di vendita in regime di monopolio e il mar-
gine in regime di libertà. Perchè, se è vero che spesso il costo di pro-
duzione è più grave per lo Stato, ciò non significa senz'altro che il
prezzo di vendita libera diventerebbe di altrettanto più lieve; se anzi,
sp>ecialmente in tempi di grande squilibrio e speculazione come gli
ultimi, il commercio libero tende a portare tutti i prezzi al massimo
possibile e prevedibile.
Qui ci accontentiamo di segnare approssimativamente, accanto
al provento lordo, quello che, sui dati dell'Amministrazione, può
considerarsi il profitto industriale di ciascun monopolio avanti e
dopo la guerra, e quindi la percentuale del costo di produzione sul
provento.
Proventi
1913-14
Ctsto
KTOfL
1920-21
Tabacchi
Sali
netto
lordo
netto
Fiammileri< ,
{ al netto
al lordo L. 349. 827. 344 L. 2. 445. 496. 128
260 milioni
l al
\ al
( al]
fai
. 90. 190. 703
» 73 milioni
19%
Carte
da gioco
Chinino .
( ai:
<al:
Lotto. .
Caffè
e surrog.
11.953.880
1.149.814
3. 167. 270
800mila
107.127.543
60.000.000
75%
44%
lordo »
netto »
al lordo »
al netto >
al lordo »
al netto »
UIC vMte
lordo »
netto »
Lampadine( al lordo »
elettriche \ al netto »
Lasciamo al lettore (che può essere anche consumatore e cono-
scitore delle variazioni nei prezzi degli oggetti di monopolio) i facili
rilievi sulle singole materie.
Dalla tabella risulta che la somma di imposta percepita su co-
desti consumi si riduce veramente a circa 407 milioni nel 1913-14, e
2.260 nel 1920-21, il resto essendo costo del prodotto. Gorrisponden-
( ai;
\ al:
1.700 milioni
133. 306. 806
25 milioni
167. 560. 680
77 milioni
7. 797. 653(1)
6.300 mila
13. 470. 493
1.500 mila
269. 412. 357
150. 992. 780
501. 823. 357
280 milioni (?)
20. 069.075(1)
19.500 mila
teb
PCfCCH.
31%
81%
54%
19%
89%
44%
44%
3%
1921-S2
(otto mesi)
L. 1.743. 885.322
» 101. 016.848
» 118.897.336
5. 783.243
8.486.387
209.425.615
120. 093.460
360. 771.553
9. 376.133
(1) La materia è provveduta dalle fabbriche private. La spesa è quindi
minima, e non comprende la produzione vera e propria. Anche per le carte
da gioco ormai si ritorna al bollo sulla vendita.
364 NOTIZIE INTORNO ALLE IMPOSTE IN ITALIA
temente va anche ridotta da 153 a 120 lire per abitante la media an-
nua pagata per imposte erariali sui consumi, e da 371 a 338 la media
per imposte d'ogni specie. D'altro canto è di notevole interesse e di
aiuto nelle previsioni per il futuro, conoscere quanta parie dello svi-
luppo dei monopoli sia dato da aumento della materia consumata, o
da semplice aumento di tariffe. Per il lotto, essendo rimasta eguale
la probabilità delle vincite, le giocate sono aumentate meno di quanto
la lira è svilita. Degli altri prodotti risulta:
Prodotti rendati 1918-14
Tabacchi : da fiuto
Kg. 1.810.545
1920-21
Peroento
in cf. del 191814
2, 353. 000
130
7.175.800
129
7. 420. 200
85
11.006.000
282
29.346
104
2. 536. 634
121
205. 161
108
413. 610
137
3. 184. 144
84
61.769.155
116
313.850
106
75.000
118
30.222
122
trinciati ... » 5.575.323
sigari. ...» 8.714.211
sigarette. . . » 3.899.877
esteri. ... » 28.115
Sali: comune . . . Q.li 2.097.508
macinato e raffin. » 189. 068
indust. e pastor. * 300. 913
Carte da gioco, mazzi . . . N. 3. 793. 512
Fiammiferi .... migliaia 53.830.461
Caffè, entrato in Italia . . Q.li 297. 116
Surrogati di caffè .... » 63. 359
Chini])o (senza l'esport.) . . Kg. 24. 707
Se si tiene conto dell'aumento di popolazione nel settennio, del
fatto che nei monopoli sono ora comprese anche le Nuove Provin-
cie (1), e della estensione particolare del consumo di tabacchi in nuovi
strati di popolazione (minori, donne, smobilitati) molte esagerazioni
o illusioni intomo all'aumento dei consumi devono scomparire. Il
consumo medio per abitante è passato da 550 a 660 gr. di tabacco,
e da 7 a 8 kg. di sale, senza accentuare eccessivamente il modulo
d'aumento degli anni pi-ecedenti la guerra. Se poi si tiene conto che
il 1920-21 ha goduto forse delle ultime illusioni di maggiore flori-
dezza e commercio del dopo-guerra, e che la crisi economica, la ri-
duzione dei salari, la disoccupazione si aggravano, le prospettive
non possono essere troppo liete.
13. Fabbricazioni. Le imposte di fabbricazione hanno avuto
minore incremento di proventi, ma maggiore di materia accertata.
Gas e zucchero sono però diminuiti anche in quantità.
Imposte su ProTentl rise, in migliaia di lire Quantità Uisate, in migliaia dì
nel 1918-14 1920-21 1921-22 1918-14 1920-21 1921 -tt
(Otto mesi) it>ei meei)
Spiriti L. 43.080 170.444 I96.33& Ea. 178 287 185
Birra 9.488 40.004 26 n23 Bl. 662 1.166 660
Polveri 3.921 3.732 3.150 Q.Ii 39 89 1$
Zuccliero e gluc. . 140.598 288.126 S28.S14 Q li 2.006 1.461 7SS
elettricità. . 1 "''^ ^'^^ '"•"*^ Kwh. 196.768 368.007 m.»7«
Saponi — 26.019 18.057 Q.li (?) 881 Wl
Tessuti lu380 e guanti — 71.644 29.896 — — —
Altre 8,32» 6.09» — - - —
218.060 6S5.r6
(1) Esse hanno contribuito nel 1920-21
al provento dei tabacchi. con oltre 160 milioni di lire
» » » sali » meno 8 *> » »
» » • » fiammiferi » oltre 12 » » »
NOTIZIE INTORNO ALLE IMPOSTE IN ITALIA
366
14. Vendite. Non è possibile un confronto con l'ante-guerra,
perchè tutte di nuova istituzione.
ProTenti accertati
Previsioni
Imposte su
1920-21
1921-S2
(otto mesi)
1921-S2
Oioielli
L.
24.097.021
10. 925. 806
35 milioni
Profumerie e medicinali
43. 076. 648
30. 257. ?^
50 .
Vino
311.114.477
190. 967. 301
500
Acque e liq. in bottiglia
21.537.183
18. 185. 107
35
Conti di trattoria .
5. 386. 976
3.412.686
10
Oggetti di lusso .
66. 110. 239
135. 069. 352
350
Olii minerali esteri
29. 199. 182
44.629.415
14 >
È impressionante il fatto che tutte le imposte sulle vendite hanno
reso meno di quello che se ne aspettava; il che può dipendere o da
una difficoltà generale di accertamento o da difetto specifico dei me-
todi prescelti.
Sul vino in particola»re erano fondate grandi speranze. Ma il
non averne saputo coordinare l'imposta erariale con i dazi comu-
nali, le basi e i metodi empirici e incostanti di accertamento, la in-
certezza politica dei Governi sensibilissimi agli ammutinamenti degli
interessati, la incostanza delle tariffe (prima 10, poi 30, poi 20 lire)
e la loro sproporzione ai prezzi di vendita, minacciano l'essenza di
codesto cespite. Delle materie tassate i dati sono scarsi:
Eaccolto vino 1919 El.
Quantità tassabile »
Imposta accertata L.
di cui li6 ai Comuni »
15. Divertimenti e mezzi di trasporto. Hanno dato questi pro-
venti (1) :
35. 000. OCiO
1920 El. 42. 300. 000
23. 977. 400
» 27. 300. 000
239. 774. 027
' ?
39. 962. 337
?
Imposte su
Velocipedi e automobili . . L.
Biglietti tramv. e ferravie . »
Ooncessioni governative. . »
Cinema e spett. pubbl. . . >
Totale L.
1913-14
7.236.916
5. 095. 110
14.353.558
(302.824)
192021
83.211.263
27. 121. 244
46. 300. 224
53.859.321
lt21-22
(otto mesi)
56.836.003
29.819.053
35. 197. 951
39. 875. 445
26.988.408 210.492.^2 161.728.452
(1) SnUe quantità di materia imponibile sono scarse le notizie:
1913-U 1920-21
Velocipedi. . . . N. 1.224.603 1.611.453
Motocicli .... » 17.155 28.433
AutomobiU ...» 21.225 42.404
Sulla contrazione del traffico f«rroviario abbiamo per ora soltanto i
guenti dati:
1913-U 1919-20 19t0.21
Percorso treni viagg. Tonn. Km. 72.811.988 46.850.857 48.963.000
Percorso treni merci » » 44.888.039 49.276.296 52.048.000
Peso merci accettate. . Tonn. 41.421.872 39.727.332 38.806.000
Traffico merci. . Tonn. Km. 7. 069.8S5. 113 9.795.568.251 8.986.470.000
se-
366 NOTIZIE INTORNO ALLE IMPOSTE IN ITALU
16. Dogane e dazi. Sui proventi delle dogane e diritti marittimi
non ci soffermiamo, perchè un esame particolare della materia, che
volesse tenere conto delle diverse specie di merci, quantità, valori,
tariffe, ecc., esige da solo tutto uno studio, e dovrebbe essere sempre
considerato assai più sotto l'aspetto economico che finanziario. Certo
le ultione tariffe hanno contribuito anch'esse alla contrazione dei com-
merci intemazionali.
I dazi comunali si distinguono in chiusi e aperti, e i dati ultimi
raccolta in occasione della prossima riforma dei tributi locali, sareb-
bero i seguenti :
Anno 1914 < 1921
Comuni chiusi: Introito milioni 206 570 (?)
Spese di riscossione » 84 112 (?)
Comvini aperti: Introito » 68 205 (?)
Spese di riscossione » 9 (?)
Ma l'introito è calcolato sul preventivo bilancio dei Comuni chiusi
e sui loro computi degli effetti degli inasprimenti daziari 7 aprile 1921;
credo che le riscossioni complessive si avvicineranno invece al mi-
liardo. Nelle spese credo non sia compreso né l'ammortamento del
capitale c'nta daziaria, né i due caroviveri concessi agli impiegati,
perchè l'uno non è annotato in bilancio e i secondi sono confusi nella
parte straordinaria con quelli di tutti gli altri impiegati. Certo 'n al-
cune città dell'Alta Italia La spesa effettiva raggiunge dal 30 al 50 %
dell'introito. Tanto meno possediamo dati precisi intorno alla quan-
tità di merci daziate. Risulta solo che nel 1914, su un introito com-
plessivo di oltre 273 milioni, quasi 112 erano dati dal vino e 67 dalle
carni, nel 1919 su 278 milioni, HO sono stati di vino, e 57 di carni;
e il rimanente suddiviso su parecchie decine di voci, qu£isi tutte
consumi di prima necessità.
Questi rilievi, l'ingombro ai commerci e la sottrazione di tante
braccia alla produzione, sembrano elementi più che sufficenti per
confermare la necessità di una riforma.
17. Imposte Siigli affari. Gli affari propriamente detti non com-
prendono, come comunemente e nelle statistiche ufficiali s'intende,
le successioni che danno un'imposta diretta, né altre imposte minori
che sono sul consumo per quanto abbiano in comune il metodo di
accertamento col bollo (vi sono circa 320 specie di bolli nella nastra
Amministrazione finanziaria!). Un'altra parte delle tasse di registro e
ipotecarie dovrebbe esulare da questa categoria, in quanto potreb-
bero piuttosto ritenersi proventi di servizi pubblici (1). Ma anche per
la mancanza di dati recenti sulla materia (l'ultima statistica uflBciale
è del 1914-151) dobbiamo qui conservare le indicazioni più generiche,
e interdirci una serie di ricerche, forse le più interessanti, intomo
(1) Per es. la tassa di registro sulle sentenze dell'autorità giudiziaria, che
nel 1920-21 ha reeo forse 11 milioni. I monopoli, dove la merce è venduta con
un margine di profitto per lo Stato, e i servizi pubblici che non sempre come
oggi sono concessi a sottocosto, hanno evidenti caratteri di affinità, e segnano
un ponte di passaggio tra l'attività finanziaria e l'attività sociale dello Stato.
NOTIZIE INTORNO ALLE IMPOSTE IN ITALIA
367
allo sviluppo complessivo dei singoli atti economici che soggiacciono
a codeste imposte, e alla loro distribuzione regionale.
Proventi da
1913-14
Tasse registro L.
Tasse ipotecarie
Bollo su atti civ. comm. e giudiz. .
BoUo su biglietti Istituti emissione
Tasse surrogaz. reg. e boUo .
Contributo mutilati (1)
Movimento merci ferrovie tramvie .
Atti consolati e legazioni.
94.431.641
11. 137. 260
73. 484. 816
1.869.276
28.615.806
a. 621. 638)
43. 436. 209
942. 717
1920-Sl
491. 698. 208
78. 484. 041
248.554.526
313. 124. 968
95. 675. 732
47. 956. 690
76.754.865
4.840.043
1921-22
(otto mesi)
350. 525. 46&
50. 766. 775-
191. 520. 283
273. 148. 942
97. 644. 349
123.324.119
48 milioni
10. 130. 505.
261.539 363 1.352.089.073 1.145 mil.
Le tasse di rostro e ipotecarie mostrano uno sviluppo costante,
di cui non ci è noto quanto dipenda da aimiento di tariffe o degli
affari accertati. Tutte le altre sono piuttosto in r^resso in confronto
del diminuito valore della lira. Trionfano solo i biglietti degli Isti-
tuti di emissione, aumentati in misura singolare, specialmente nella
quota che eccede l'ultimo limite di legge e ohe pa^a la tassa più alta
assorbente tutto il profìtto; un decreto emanato ultimamente x)6r l'ac-
cantonamento di un terzo della tassa, ha però 'già ridotto il provento
di gennaio 1922 a sole L. 118,614,665, in confronto di gennaio 1921
(L. 150,523,165) (2).
V.
Le imposte dirette, reali e personali
e la pressione tributaria su terra, fabbricati, e ricchezza mobile.
18. La pressione tributaria può essere m^lio valutata in rapporto'
alle imposte dirette.
Alcune di esse si riferiscono specificamente alle tre grandi specie
di beni e di redditi (terreni, fabbricati, ricchezza mobile). Altre sono
sovrimfposbe o addizionali applicate a tutte le specie di beni, ma che
possono bene essere suddivise in quanto il fondamento di esse ri-
mane reale e direttamente proporzionato. Un ultimo gruppo invece
è costituito da imposte personali, che si riferiscono al complesso dei
beni o dei redditi appartenenti a ciascuna persona o famiglia, e che
potrebbero però ugualmente essere ripartite fra le tre grandi specie
se possedessimo migliori e rapidi mezzi di censimento della ricchezza
e delle imposte.
(1) Una parte è pertinente ad altre imposte; ma mancano i dati per te-
nerla distinta. Per il 1913-14 abbiamo segnata l'addizionale per il terremoto.
(2) Su materia analoga lo Stato ha percepito ancora, nel 1921-22,
L. 7,197,495 per contributo sulla maggiore circolazione in confronto dei limiti
normali prebellici. Nel 1921 lo Stato ancora ha risoosso L. 21,487,656 come
quota di partecipazione agli utili degli Istituti di emissione nel 1920.
368
NOTIZIE INTORNO ALLE IMPOSTE IN ITALIA
Noi segneremo qui anzitutto i tre gruppi di imposte pertinenti
allo Stato, e pertinenti a Comum e Province, per potere confrontare
lo sviluppo di ciascuna. Poi cercheremo di raggrupparle intorno alle
tre maggiori specie di beni o di redditi, per le ultime conclusioni in-
tomo alla pressione tributaria.
Imposte dirette erariali.
I. Reali.
A) sui fondi rustici ....
sui teiT. bonif. e ris. di caccia
B) sui fabbricati
C) sulla ricchezza mobile .
su amm., dirig., e div. di società
Centesimo sui redditi
Addizionale mutilati (terremoto)
II. Personali e globali.
Complementare sui redditi .
Patrimoniale (rata semplice) .
Successioni
Manomorta
1918-14
81.639.362
112.883.380
346. 216. 069
(10. 586. 743)
50.451.463
6.017.256
i9S>-ti ini.ts
(otto mesi)
115.625.611 77.96a375
1.415.728 868.845
169. 350. 504 115. 827. 930
935. 332. 31 J 846.608.812
46. 493. 814 50. 202. 827
100. 000. 000(?)107. 663. 396
24.993.518 63.044.383
89. 456. 234
375. 187. 580
180. 973. 621
6 572.415
136.813.009
264. 571. 028
131. 340. 833
7.081.548
607. 744. 263 2.045.401.336 1. 801.990. 385
Imposte dirette locali.
I. Reali.
A) Sovrimp, com. terreni
» prov. »
B) Sovrimp. com. fabbricati
» prov. »
C) Sovrimp. com. R. Mob.
» prov. »
Imposta bestiame .
» esercizi e riv.
II. Personali e globali.
Imposta di famiglia .
1914
129. 041. 057
75. 470. 938
93. 635. 369
62. 405. 244
27 milioni
20 »
45
468
1921
452. 673. 599
214. 400. 886
247.925.967
139. 079. 556
45. 056. 818
4a 928. 617
106 milioni
99
141
1494 »
Limitiamoci a pochissiime delle molte osservazioni che la tabella
suggerisce. Gli accertamenti dei redditi imiponibili di beni immo-
bili sono isempre gli antichi, tranne qualche revisione saltuaria nei
fabbricati. Le aliquote erariali, quasi imimitate all'infuori delle due
addizionali, tengono cristallizzato il proventi); mentre il provento
delle sovrimposte locali si sviluppa secondo il diverso empirico mol-
tiplicarsi dei centesimi comunali e provinciali.
Gli accertamenti della ricchezza mobile seguono invece, per
quanto in ritardo, il movimento economico e il mutamento dei var
lori, con poche o nessuna modificazione delle aliquote e di ingiusti
privilegi o evasioni. Si aspetta la riforma, in attesa della quale si è
accertata assai provvisoriamente una empirica imposta complemen-
tare per redditi complessivi superiori alle diecimila lire, e con ali-
quote ora raddoppiate. La patriinoniale è ancora in corso di accer-
tamento delle denunce provvisoriamente accettate.
NOTIZIE INTORNO ALLE IMPOSTE IN ITALIA 369
Molti Comuni perseguono buoni aocertamienti éel bestiame, del
movimento degli esercizi e rivendite, e dei redditi famig-liari, ma
sono spesso ostacolati dallo Stato e dagli org-ani di tutela.
Le successioni aggravate di molto con le nuove aliquote del 1920,
non hanno dato il provento sperato, sia per le maggiori evasioni
anche più facili in un periodo di grandi mutamenti economici, sia
per l'accennata maggiore quota di ricchezza privata invisibile.
Ora piuttosto, valendoci degli stessi materiali della tabella, cer-
chiamo di ricostruire tre conti diversi, per ciascuna delle tre mag-
giori specie di beni e redditi.
19. Terra. Contribuisce con le seguenti quote :
1014 1920-21
Imposta erariale sui fondi, t. bonifica e riserve
compreso il centesimo e l'addizionale . L. 83. 149.655 137.726.794
Sovraimposte comunale e provinciale . . . 204. 511. 995 667. 074. 485
Quota appro?s. delle imp. personali globali (1) 36 milioni 800 milioni
Totale 324 milioni 1105 milioni
Con gli aumenti e le rettifiche delle addizionali, della comple-
mentare e della patrimoniale potranno diventare più avanti 1200
milioni.
La terra è qui intesa non nel senso del complessivo reddito agri-
colo (di cui buona parte è tassata con R. M., e con tassa bestiame)
ma di esclusivo reddito dominicale dell'immobile. Ciò però non ag-
giunge maggior valore a un rapporto complessivo tra imposte e su-
perfìce, per la diversissima qualità di terreni. Sono in Italia quasi
26 milioni e mezzo di Ettari di terreno produttivo dentro gli antichi
confini, cui corrisponderebbe una tassazione di quasi 42 lire per Et-
taro, che nulla dice nella varietà immensa di altezze, latitudini, cul-
ture, ecc. Se ricordiamo piuttosto che, alla vigilia della guerra, la
terra era valutata in 44 miliardi, la tassazione del tempo le stava di
fronte come 7,4 : 1000; e quindi il rapporto tra imposta e reddito po-
teva essere ancora inferiore al 15%. Oggi la somma delle imposte sulla
terra non è ancora quadruplicata. Se anche il valore dei terreni fosse
quadruplicato, noi saremmo rimasti a un'aliquota media assai bassa.
Supponiamo che ancora non sia, e specialmente ohe non sia quadru-
plicato il reddito attuale per i terreni sottopK>sti a limitazione legale
dell'affitto: ancora l'aliquota media -non potrebbe considerarsi grave
rispetto alle aumentate necessità del momento.
La verità è però che eccessi e difetti abbondano per le spere-
quazioni da terreno a terreno; non tanto per quella transitoria limi-
tazione di reddito (2) quanto per il permanente anacronistico accerta-
(1) Abbiamo già detto che nessun elemento certo poesediamo su codesta
ripartizione. Solo per le successioni abbiamo nel 1913-14 i seguenti dati di va-
lore lordo ereditato: terreni 592 milioni, fabbricati 323, beni mobili 436. Nel
1914-15 rispettivamente: 586, 338, 402. Nel 1915-16 rispettivamente e per 68
Province: 543, 315, 368.
(2) Coloro che (Masb-Dari, Riforma sociale, 1922, pag. 45) danno una ec-
cessiva importanza a questo elemento, dimenticano, tra l'altro, che esso non
e ne generale né assoluto, e che si può compensare con i maggiori affitti liberi
nel futuro o con le minori imposte pagate nel passato tempo di guerra. In
370 NOTIZIE INTORNO ALLE IMPOSTE IN ITALIA
mento catastale, sul quale si fondano l'imposta erariale, le addizio-
nali, e provvisoriamente la patrimoniale e la complementare. A ter-
reni anche contigiii, di eguale produttività, sono spesso attribuiti i
redditi più diversi; così come terreni divenuti quasi sterili pagano
quanto altri dei più floridi. Se poi si avverte che, dei tre mag-
giori elementi onde risulta l'imposizione sulla terra, preponderante
su tutti è quello delle sovrimposte locali, e si ricorda che queste,
anche in conseguenza del reddito base male accertato dallo Stato,
variano da Comuni e Province che applicano ajxpena i 60 centesimi
legali, ad altri che ajrrivano fino a 2000 centesimi, si può concludere
che la sperequazione senza limiti è la norma tra i diversi terreni
d'Italia. Essa può risultare anche dai seguenti esempi di quote pro-
vinciali, dove pure le maggiori diseguaglianze locali si addizionano
e si attenuano nei più vasti confini della provincia:
QmU adii Nfftì
PROVINCE (1) Imp. erariale sovrimp. com. e prov. Centesimi itrdilEtUit
1920 1021 diBOvrimp. hkiI. fnMOn
Novara L. 4.504.374 8.310.736 184 L. 23
Genova » 1.610.785 3.761.266 233 15
Caserta » 5.095.858 9.052.698 178 28
Palermo ..... 2.116.341 .5.977890 282 17
Ancona » 1.079.569 16.609.338 1.667 97
Ravenna .... » 1.730. 182 23.034.496 1.331 149
Grosseto ..... 573.665 6.940.705 1.085 16
Sondrio » 219,103 2.033.346 929 11
Verona » 2.006.451 17.096.400 852 70
È evidente la sproporzione delle sovrimposte, e se si sperasse di
argomentare che esse compensano la deflcenza della imposta era-
riale, allora è questa la più ingiusta e la patrimoniale e la com-
plementare ohe ne dipendono. I due errori possono forse compen-
sarsi nella somma della necessità finanziaria, ma mai nell'equità
della imposizione terreno per terreno. Dalla sperequazione, come ab-
biamo a priorii osservato, traggono spesso argomento i contribuenti
meno colpiti per mettere innanzi gli esempi di maggiore gravezza,
e nascondere e mantenere dietro di quelli il loro privilegio.
20. Fabbricati. (Esclusi i fabbricati rurali). Ck)ntribuiscono "on
1914 1020-tl
Imposta erariale sui fabbricati
(compresi centesimo e addiz.). . . . L. 114.675.146 189.697.000
Sovrimposte com. e prov 161. 040. 613 387. 006. 523
Quota imp. personali globali 20 milioni 230 milioni
Totale . 295 milioni 807 milioni
Cigni caso è grave inesattezza confrontare (Masé-Dari, Ibidem^ e Einaudi, in
Corriere della Sera, marzo 1922) le imposte del 1921 con gli affitti... del 1914.
Queeti sono in media già raddoppiati. Neppure è vero che le sovrimposte lo-
cali siano ad aliquote progressive: ofr. art. 5 Deor. 9 settembre 1917, n. 1546.
(1) Le Province sono soelte a caso tra le più opposte e non per confronto
regionale. Questo può essere dedotto piuttosto dall'ultima tabella. L'alta Italia
fino a Perugia ha una media di 800 centesimi di sovrimposte; il Meridionale,
più il Piemonte, si arrestano a 300 centesimi. Ciò forse spiega le trascuranze
di molti ministri. Alcune delle Province indicate hanno già il nuovo catasto;
ma le sperequazioni non sono minori (p. es., Ancona) poiché il nuovo è rife-
rito al... 1874-18851
NOTIZIE INTORNO ALLE IMPOSTE IN ITALL\ 371
L'aumento delle imposte sui fabbricati daH'avanti gnerra ad
Qg"gi, è meno forte di (juello sulla terra, specialmente per il più lento
progresso delle sovrimposte locali le quali, svincolate dal legame
con i terreni, furono tenute più basse affinchè non si ripercuotessero
sugli inquilini. L#e revisioni dei redditi interrotte dalla guerra, ri-
prendono ora più attive.
Accettando la somma di 20 miliardi attribuita come valore ai
fabbricati prima della guerra, il gravame sarebbe stato in rapporto
di oltre 14 : 1000; e rispetto al reddito del 29 %. Ma non è che la media
tassazione dei fabbricati fosse dappertutto così alta; è che, special-
mente dove la cultura dei terreni era progredita e insieme con essa
la sovrimposta fondiaria, la sovrimposta sui fabbricati vi era do-
vuta per il vincolo di legge salire di aitrettanto, fino al punto che,
nei Comuni rurali, le imposte assorbivano quasi tutto il reddito.
Il fenomeno si è og-gi alquanto attenuato con lo sviluppo delle
sovrimposte. Posto che il valore dei fabbricati sia aumentato ialle
quattro alle cinque volte (si ricordi che le nuove case sono es«?nti da
imposta per un certo periodo di tempo) il gravame è forse disceso
al 9:1000; ma è rimasto altrettanto e più diffusamente oneroso ri-
spetto al reddito del momento, dove questo è limitato dai decreti
sugli affìtti.
Le sperequazioni derivanti dall'empirismo di codesti decreti, sono
più gravi rispetto alle case che ai terreni, mentre sono un po' atte-
nuate quelle dipendenti dall'accertamento dei redditi e dalla diver-
sità delle sovrimposizioni locali, di cui diamo in nota esempio delle
più difformi (i).
21. Ricchezza mobile. La somma delle imposte -^ui redditi di ric-
chezza mobile è la seguente.
1914 1920-21
Imposta erariale sui redditi, società, e addii:. . 352.501.809 1.068.763.267
Sovrimp. com. e prov. Imp. bestiame e eserc. . 47 milioni 299. 429. SOS
Quota imposte personali e globali 40 milioni 330 milioni
Totale . . 440 miUoni 1. 698 milioni
L'aumento delle imposte sui diversi tipi di ricchezza mobile è
stato più forte che non quello sui terreni e fabbricati, 3pe<:ialmente
per la scioltezza degli accertamenti; e, anche senza contare le imposte
straordinarie, sovraprofìtti ecc. che sono tutte pagate su redditi della
stessa specie, esso segue da vicino il deprezzamento della moneta,
sebbene le aliquote siano state appena ritoccate.
(1) Imposta svii fabbricati :
PROVINCE Imp. erariale Sovr. com. e prov. Bapporto
1920 1921 in centes.
Roma . . . . L. 21,337,884 26,538,204 125
Cagliari ...» 1,195,260 1,501,885 126
Milano .... » 23,424,450 37,203,011 167
Rovigo .... » 529,295 2,762,500 522
Forlì » 799,461 3,882,356 486
Pesaro . . . . » 491,838 2,154,688 437
372 NOTIZIE INTORNO ALLE IMPOSTE IN ITALIA
Di più non è facile dire. Il fatto che la somma delle imposte
sulla ricchezza mobile sia di poco inferiore aJla unione delle due
somme di imposte sui beni immobili (1.698; 1.105 + 807) non è in
correlazione col fatto che nel computo Gini della ricchezza antebel-
lica la quota dei beni mobili fosse di altrettanto inferiore alla somma
delle due specie di beni immobili (48; 44 + 20). È una anaJog^ia
di proporzioni, assai suggestiva; ma nella fattispecie, casuale. In-
fatti le imposte sui redditi di ricchezza mobile non colpiscono solo
e tutti i beni mobili. Vi sono beni mobili non tassati; e la imposta
colpisce, oltre e più che i beni, i redditi provenienti da lavoro, pro-
fessioni, commerci ecc.
Neppure torna un altro conto. Se l'attuale somma annua dei red-
diti italiani arrivasse a 60-70 miliardi di lire e tutti dovessero essere
tassati ugualmente, mentre i 12 miliardi di reddito dominicale dei
terreni e fabbricati sono tassati con quasi 2 miliardi di imposte (in
ragione del 16-17%), le imposte sui redditi di R. M. dovrebbero
colpire con aliquota analoga i rimanenti 50 miliardi di reddito, e
gettare quindi più di 8 miliardi all'anno in luogo dei 1.698 milioni
risultati. Ma codesta sarebbe una erronea pretesa.
Tra i redditi di ricchezza mobile vi è una parte di redditi pro-
venienti da capitale, da beni mobili, i quali dovrebbero pagare ali-
quota analoga a quella degli immobili; ma la parte magsriore del
reddito nazionale è reddito di puro lar^oro — il quale è largamente
esentato da imposta, specialmente se è lavoro manuale. Ciò non si-
gnifica però che i redditi da lavoro siano esenti da ogni imposta
come qualcuno pretende o protesta; sono esenti da questa specie di
imposte; ma pagano: a) direttamente, una gran parte delle imposte
siui consumi, b) indirettamente, una parte delle imposte dirette e
sugli affari, per incidenza o ripercussione.
Per ciò la somma del reddito nazionale va posta in correlazione
non con le sole imposte dirette, ma piuttosto con la somma di tutte
le imposte ordinarie di ogni specie, dirette e indirette; e ne risulta
allora una proporzione che supera quella dell'anteguerra e s'avvi-
cina forse al 20%.
22. Ritornando ai redditi di ricchezza mobile, dato che essi sono
colpiti con aliquote abbastanza bene proporzionate, e il sistema degli
accertamenti è abbastanza agile, le forti sperequazioni che pur vi si
notano, dipendono o da qualche ingiusto privilegio o da insufficienza
di accertamenti, a danno specialmente della ricchezza o dei redditi
economicamente più utili e produttivi.
Così nelle professioni, commerci e industrie sono abbondanti le
evasioni, le quali danno ragione alle lagnanze di coloro che hanno
redditi minori ma pubblicamente controllati. Sfuggono specialmente
alcuni professionisti, gli intermediari, i sublocatori di immobili, i
redditi occasionali, gli aumenti di valore per congiuntura o per
opera altrui, ecc. La legge stessa poi pone limiti artificiosi ai Comuni
che accertano esercizi e rivendite, o esenta iniquamente i proprietari
conduttori di fondi, miniere, tonnare; mentre la riforma è rinviata
di anno in anno.
Dei Ijeni mobili solo qualche specie è censita e colpita diretta-
mente; la più importante è il bestiame, soggetto a tassa comunale;
ma il rapporto tra le somme pagate per questa tassa nel 1921 e il va-
NOTIZIE INT(»lNO ALLE IMPOSTE IN ITALL\ 373
lore probabile del bestiame in Italia, arriverebbe appena a una media
generale (1) di 3,5 : 1000, se non fosse ohe poi lo stesso bestiame rientra
di nuovo nel computo dei movimenti economici e dei redditi del-
l'azienda colpita da R. M. e da tassa esercizio (quando però non si
tratti di un fondo di proprietà dello stesso conduttore). Gli altri mo-
bili sono anche tassati solo in quanto rientrino nel computo del mo-
vimento o del reddito di aziende, o siano soggetti a rare imposte sui
consumi; altrimenti non vengono considerati neppure se preziosi, a
meno che non servano localmente come indici per l'imposta di fa-
miglia.
Ma una categoria di beni mobili sfugge largamente a qualsiasi
imposta. Mentre i censi, rendite e crediti ipotecari pagano le più
alte aliquote di R. M., e spesso senza sollievo del debitore; i crediti
senza ipoteca evadono largamente. I titoli di Società anche se al por-
tatore sono soggetti a imposta speciale; ma i nuovi molti miliardi
di Buoni del Tesoro e di cartelle di Rendita sono, come il denaro
eiTColante, denunciati in minima parte per le imposte personali, ed
esenti del tutto da quella reale di R. M.
Anche a limitare l'accenno nello stretto àmbito finanziario, non
bisogna però dimenticare che, accanto alle imposte visibili, ve ne
sono di invisibili. Quando uno Stato emette nuovi Prestiti, nuovi
Buoni del Tesoro, nuova carta moneta, e dalle emissioni consegue
una svalutazione generale della moneta nazionale, tutti i precedenti
detentori di carta e di titoli e gli altri possessori di redditi fissi,
subiscono una corrispondente sv^alutazione dei loro beni o redditi,,
quasi un prelievo straordinario di imposta. Ma in senso contrario si
può ricordare, che ogni acquisto di beni, ogni impresa economica si
fa secondo elementi di fiducia, di prevedibilità, con i rischi e i van-
taggi particolarmente inerenti; che sopratutto gli scambi e la specu-
lazione, giocando sui diversi elementi, rovesciano spesso danni e
vantaggi da una a tutt'altra categoria; e che infine i rilievi sulla
pressione tributaria valgono per i tempi in cui, cessati i fatti straor-
dinari, si tende all'assetto più stabile.
(1) La media è a sua volta il risultato di rilevanti sperequazioni locali,
neUa lotta dei Comuni contro le G. P. A. © i decreti-legge che mantengono cri-
stallizzate le tariffe di ante-guerra. Diamo qualche esempio di contrasti in
Province finitime, in migliaia di capi bestiame censiti nel 1918 e migliaia^
di lire d'imposta pagate nel 1921.
Torino 28
Cuneo 20
Padova 31
Rovigo 15
Potenza 63
Catanzaro 39
Roma 146
Perugia 56
Iwtai
Ovili
Mi
TasakstiaM
344
264
166
133
30
■58
1,163
3,487
129
76
19
9
41
26
835
1,640
64
6a
914
422
79
50
66
667
153
141
1367
606
134
89
6,015
11,104
374
NOTIZIE INTORNO ALLE IMPOSTE IN ITALIA
VI.
Distribtczione regionale delle imposte dirette
23. Per coloro che amano i confronti regionali (i), o desiderano
nuovi elementi per la etema questione del Nord e del Sud, abbiamo
infine costrutta una tabella, con i dati possibilmente più omog^enei.
REGIONI (2)
Piemonte . .
Liguria . . .
Loflibartfla . .
Veneto (2) . .
Einiiia . . .
Toscana. . . .
Marche Umbria . .
Lazio ....
Abruzzi (2) . . .
Campania (2) . .
Puglie ....
BaKliicata e Calabria
Sicilia .
Sardegna
Regno
sii terrari
71. 799
7.640
134. 965
73. 730
145. 077
66.007
65.980
20. 699
30. 408
32. 181
44. 908
7.713
44.140
11.647
762. 174
28
16
65
55
77
29
36
19
15
30
24
3
18
6
29
{■Hsti e snr.
sH likMaU
61.393
.37. 148
110. 947
40. 928
55. 777
46.301
16. 496
47.876
11. 624
51.568
33. 649
7.188
34. 947
5.699
564. 268
li
Ibi. e Mvr. rtill
u rkdMzza Mi.
114. 760
87.549
247. 968
51.414
90.633
73.514
40. 508
115. 366
11. 674
46. 535
23.200
10. 379
34.687
8.947
^58. 249
I*
laptsttiMiil
ttmnÈ
87.301
58.298
143. 526
24.188
43.284
27 48.980
22 17.296
88 94.653
7.309
24.210
14.897
8.886
19. 265
5.112
597. 441
11
25
49
29
9
16
17
9
72
3
9
7
4
5
6
17
TtUk dtllt »mt4t*tl
ìmtKte t stvr.
335.458 96
190. 635 159
637.406130
190.266' 69
334. 771 122
232.802 86
140.280. 76
278. 564 215
35.063
180. 476
116. 654
34. 166
133.039
31.305
2. 882. 132
26
57
54
17
35
36
80
■■Hstt strMrllMrit
« IMrra
409.515^117
266. 1 '
653. -
93. 123
99.812
70.644
17. 016
119.682
8.263
138.182
26.858
7.886
73.149
3.620
1.986.766
(1) Ricordiamo per comodità di confronti, e per quello che possono valere,
alcuni dei più noti indici medi della ricchezza regionale propoeti dieci o venti
anni fa. Posta la media 100, Gini assegnava 121 all'Italia settentrionale, 98
alla Centrale, 79 alla Meridionale, 81 e 43 alle Isole. Posta rispettivamente la
media 100 o la somma 1000, Mortara é Nitti assegnavano le seguenti quote ai
gruppi regionali della nostra tabella: Piem. 143 e 163; Lig. 192 e 62; Lomb.
161 e 166; Ven. 86 e 76; Em. 88 e 67 ; Tose, 100 e 71 ; Marche e Umbria 60 e 33;
Lazio 148 e 59; Abr. 41 e 29; Camp. 81 e 90; Puglie 60 e 51; Basii, e Cai. 37
e 36; Sic. 53 e 87; Sard. 45 e 10.
(2) Le somme di imposte pagate sono date in migliaia di lire. Le quote
per Ettaro e per abitante sono date invece in lire. Dal Veneto sono detratte
le due Province di Udine e Belluno per le condizioni speciali. Agli Abruzzi
abbiamo aggiunto oltre il Molise anche Avellino e Benevento, sottraendoli alla
Campania, per maggiore omogeneità.
Delle nuove Province (1 milione e mezzo di abit.) abbiamo pochi dati e
non utilmente confrontabili. Sono i seguenti, per tutte e sole le imposte era-
riali percepite nel 1920-21, in migliaia dì lire:
la», «nttt Nmc ItMitl Altre
Venezia Giulia . . . 24,338 39,693 211,736 35,470
Venezia Tridentina 8,110 11,127 99,629 18,019
Dalmazia ^,767 1,926 13,429 1,534
NOTIZIE INTORNO ALLE IMPOSTE IN ITALIA 375
Per ogni regione è riportata la somma delle imposte e sovrimposte
erariali e locali pag^ate rispettivamente nel 1920 e nel 1921 (escluso il
centesimo e l'addizionale): sui terreni, comprese le bonifiche e ri-
serve — sui fabbricati — sulla R. M., comprese le nuove imposte
sulle società e le tasse locali di esercizio e bestiame — complemen-
tare, patrimoniale e di famig-lia — sovraprofitti e contributo perso-
nale di guerra. In corrispondenza di ciascun gruppo è calcolata la
(juota media per abitante, e per i terreni la quota media per ettaro
di superficie agraria e forestale.
Lasciamo che le cifre suggeriscano al lettore i rilievi, senza che
noi li traduciamo in parole. Avvertiamo solo come sia principal-
mente la tenuità delle sovriinxx)ste comunali e provinciali, che con-
tribuisce a rendere privilegiati i possidenti di beni immobili nel me-
ridionale, a danno dei servizi pubblici locali non alimentati. Le molto
maggiori imposte reali sui redditi e beni mobili, personali e straor-
dinarie di guerra, nell'Alta Italia, corrispondono al più forte sviluppo
di industrie commerci e culture; ma, come dappertutto le classi non
possidenti che non pagano imposte dirette, contribuiscono con i quo-
tidiani tributi sui consumi, così il Meridionale più povero pagherà
presumibilmente (1) quoie meno dissimili di imposte indirette.
G. MATTEOTTI.
(1) Dati sicuri e recenti sono appena questi (1920-21):
Onb HM fcr «t. ItaHa SdL Ctitraie MctUìn. Isik
per tabacchi L. 77 73 49 40
sali » 4 4 4 —
fiammiferi » 4,9 4,5 3,7 3,3
lotto » 5,4 6,2 11,5 9,5
L'Alta Italia toma però a prevalere fortemente nelle vendite, fabbrica-
zioni, trasporti, affari. Darò in altra occasione le notizie oggi ancora incom-
plete.
DOPO L'ATTENTATO A MILIUKOW
NOTE CONTRORIVOLUZIONARIE
«Il governo russo è un. governo assoluto, temperato dal regici-
dio». La famosa definizione di Giuseppe de Maistre, piena di finezza
e di esperienza, torna oggi d'attualità, in senso inverso, da parte del-
la emigrazione erede della tradizione politica russa? Preferiamo au-
gurare che il tristo episodio berlinese resti un caso isolato, spiegabi-
lissimo con la psicologia di ogni emigrazione politica, e delle tragicis-
sime condizioni, morali e materiali, di quella russa. In ogni modo, il
pugnale, la rivoltella ed. il fgLzzoletto di Jago sono comparsi troppo
spesso nella vita politica moscovita — a non parlare che dalla grande
Caterina in poi — per non dover constatare che l'attentato contro il
capo cadetto richiama violentemente l'attenzione sulla contro-rivolu-
zione russa.
Del resto, va subito fissato un fatto pregiudiziale : la rivoluzione
russa si chiama ed è russa, come quella francese si chiamò e fu fran-
cese, cioè il concretamento iniziale e locale della Rivoluzione cosmo-
politica. Come la Germania di Carlo V fu la culla della Rivoluzione
iniziale che ebbe la sua determinazione culminante nel fenomeno re-
ligioso del protestantesimo, così la Francia di Luigi XVI lo fu per lo
stadio evolutivo borghese della Rivoluzione mondiale; e la Russia
di Nicolò II lo è stata per l'ultimo ed integrale stadio della stessa,
una ed indivisibile, Rivoluzione. Penso che senza la chiara intui-
zione di questo fatto pregiudiziale sarebbe impossibile comprendere
le rivoluzioni ora commemorate. Quel fatto pregiudiziale mostra di
quale e quanta importanza diretta, non solo pei russi ma per tutti gli
altri popoli, sia il fenomeno della Rivoluzione russa, donde il loro
interesse a studiare questa ed il suo logico rovescio, la contro^rivo-
luzione russa. Ecco il motivo che ha dettato queste note.
La mia conoscenza degli iH omini e delle cose russe è ben modesta,
ma forse sufficiente per scrivere queste non meno modeste pagine;
ho visto minori conoscenze essere state giudicate bastanti per auto-
rizzare i loro detentori a redigere libri e — ben peggio — rapporti e
convenzioni ufficiali. Ben inteso, queste mie note ispirate da una se-
rena osservazione e per un fine di moralità e benessere sociale, sono
l'espressione assolutamente personale di chi le scrive; non solo estra-
nee ad ogni eco di ambienti autorevoli ed autorizzati, ma così perso-
nali da non essere io stesso sicuro che tutte le idee qui esposte siano
condivise da miei amici con i quali ho tanta comunanza di principii,
di criterii, d'intendimenti. E tanto più son grato alla benemerita
Direzione della innova Antologia per la cortese ospitalità, quanto più
DOPO l'attentato a miliukow 377
son persuaso che molte delle mìe idee non sono affatto le sue. Ma
queste pag^ine non hanno altro scopo se non quello documentario di
prospettare la contro-rivoluzione russa dal punto di vista di un con-
trorivoluzionario integrale, cioè contrario alla Rivoluzione sotto tutte
le sue forme, in tutti i suoi gradi, verso tutti i suoi tenants et abou-
tissants.
•
• •
Che nella persona di Miliukow la rivoltella contro-rivoluzionaria
abbia voluto colpire, più che l'individuo, il rappresentante di un par-
tito anzi d'un insieme di gruppi, ritenuti fautori primi — per tempo
e quindi per responsabilità — della Rivoluzione russa, mi sembra
cosa da non potere m.ettersi in dubbio. È già stato osservato, in tale
occasione, che altri liberali-democratici sono più responsabili di Mi-
liukow, per esempio. Gushkow; ma il non invidiabile titolo alla pre-
ferenza è stato per Miliukow quello di essere il più cospicuo e —
ciò che sembra essere stato dimentic<ito da varii commentatori — di
essere ritenuto ancora il più efficiente degli elemienti demo-borghesi
di Russia.
Ripugna oggi di calcare la mano su di un partito colpito, an-
che esso, dal flagello bolscevico. Ma la verità è medicina per tutti;
e sarebbe mancare alla salutare verità se non si constatasse (qualun-
que sia il giudizio definitivo da darsi a tale accusa) come la contro-
rivoluzione russa non manchi di motivi per giudicare schiacciante
la responsabilità della coalizione dei costituzional-democratici (i ca-
detti) e simili, nella catastrofe del 1917. Più ancora: la loro tenacia
di volere anche oggi, dopo tanta sanguinosa esperienza, sostenere,
per spirito ed interesse di parte, la loro tesi sulle ragioni determi-
nanti dalla catastrofe stessa, li pone come « belligeranti » contro, sì,
i bolscevichi, ma non meno contro i veri, cioè logici, controrivolu-
zionari, i quali perciò li considerano come nemici non solo di ieri ma
sopratutto di oggi. L'attentato berlinese ha avuto determinanti più,
per così dire, di cronaca che di stona.
Il demo-liberalismo borghese di Russia giustifica la sua rivolu-
zione, dichiarando che essa era inevitabile, e ciò con due serie di
prove : le imimediate e particolari, come il rasputinismo politico e
sociale e gli errori politici e militari della guerra; le mediate e gene-
rali ; la crisi agraria, industriale ed in genere social-economica, non-
ché la politico-amministrativa. Ebbene, quanto alle prime, basterà
notare che la rivoluzione iniziale del 1917 è quella stessa del 1905,
ripresa profittando del collasso generale del paese; e nel 1905 non
v'era né il rasputinismo né gli errori della guerra mondiale.
Quanto alle 'cause generali, mi ci vorrebbe un grosso volume per
esaminarle; qui basterà un rapidissimo accenno.
La crisi agraria era basata sull'enorme errore di Alessandro II, il
« liberatore dei servi » nel 1861, che costituì Vobsscina della proprietà
comunale, invece d'iniziare risolutamente la piccola proprietà rurale.
In luogo di creare centinaia di migliaia di famiglie rurali possidenti,
cioè automaticamente contro-rivoluzionarie, egli mantenne troppo sof-
focanti latifondi delle alte classi, ed istituì il tipo rudimentale del' co-
munismo agrario. Ma quest'errore era in via di sensibile migliora-
25 Voi. CX:XVII, aeri© VI — 16 aprile 1922.
378 DOPO l'attentato a miliukow
mento. La legge Stolypine, del 1907, aveva già resa facoltativa l'u-
scita del lavoratore rurale dalla obsscina, mentre — particolare schiac-
ciante — la coalizione demo-liberale borghese chiedeva, col seque-
stro rivoluzionario dei latifondi, la conservazione del regime comu-
nista rurale. Perciò è un fatto incontrovertibile che il governo zarista
è stato gettato a terra quando era in corso la sua salutare riforma
agraria. Ma ciò è nella tradizione russa. Alessandro II fu assassinato
quando si seppe che stava preparando un regime costituzionale. Una
facile letteratura di partito insinuò che lo avevano assassinato i ni-
chilisti per conto dei reazionarii; tanto facile sarebbe dire: per conto
di quelli che dallo zarismo esigevano errori e colpe, non migliora-
menti e redenzioni. È una constatazione non meno indiscussa che,
allo scoppio rivoluzionario del 1917, la campagna i*ussa si mantenne
tranquilla; dunque non era scontenta. Ci volle la piìi infernale pro-
paganda bolscevica per scatenarne i più torbidi elementi; eppure!...
Quanto alla crisi industriale, non è difficile ricordare che la
grande industria, nel senso del nostro Occidente e dell'America, era
un fatto da applicarsi nell'impero con grande lentezza oculata, per-
chè il paese, che non aveva una simile tradizione, non diventasse
una vasta e sfruttata colonia di forze straniere e della finanza inter-
nazionale. Ma appunto questa saggia — e del resto, naturale — poli-
tica fu quella che spinse noti elementi esteri ed internazionali a
finanziare il bolscevismo che, da tale punto di vista, è il battistrada
dello sfruttamento industriale e commerciale anti-russo della Rus-
sia. D'altronde le cifre sono là a mostrare il regolare svolgimento
della industria .russa. Dal 1908 al 1913 le compagnie industriali russe
per azioni, fondate anno per anno, da 108 con altrettanti milioni (ru-
bli) di capitale erano passate a 342 con più di mezzo miliardo di ca-
pitale, mentre le società straniere da 12 erano diventate 29 con un
capitale salito da 9 a 44 milioni. Dunque l'industria russa si avvan-
taggiava continuamente senza farsi sopraffare dalla straniera. Met-
tiamo pure che in quella industria « russa » vi fosse parecchio capi-
tale straniero — noi italiani sappiamo qualcosa di questo genere di
« parere » ed « essere » — ma almeno l'influenza nazionale vi si af-
fermava.
Quanto alla crisi politico-amministrativa, la solita letteratura
impressionista e settaria ha sfruttato gli errori ed orrori deWOkhràna
(polizia segreta imperiale) e del rasputinfsmo, ma attribuire a ciò
una coefficienza determinante della rivoluzione russa, sarebbe come
attribuire la francese alla Bastiglia ed al collier de la Heine. Tali
« storie » sono per Alessandro Dumas, non per Ippolito Taine.
Più grave è l'ajocusa del regime politico propriamente detto. Le
vicende tragicomiche delle varie dume^ l'incomprensione centrale
sull'evoluzione da darsi agli zeinstva, ed il resto, sono malanni noti
(almeno superficialmente) quanto gravi. Ma il tempo avrebbe rime-
diato a tutto; e la rivoluzione nemica dell'evoluzione, è la peggior
reazionaria che vi sia. In Russia, fin dal tempo degli ormai leggen-
dari dekabristi di Nicolò I, c'è stato semipre l'enorme e fatale equi-
voco di tanti « occidentalizzati » che volevano fare altrettanto, subito
e in blocco, con il loro paese la cui tradizione profonda, il cui sotto-
suolo sociale, sono così antitetici col nostro Occidente.
DOPO l'attentato a miliukow 879
Dunque le accuse contro altri, e le giustificazioni per se stessi,
messe in giro con instancabile lena dagli ambienti rappresentati da
Miliukow, autori del primo (e veramente determinante) scrollo della
Russia tradizionale, non sono accettabili senza il beneficio dell'inven-
tario e senza una grande tara. E siccome quelle accuse e quelle giu-
stificazioni servono oggi a quei medesimi ambienti per fare una pro-
paganda nell'Occidente europeo ed americano in vista di una even-
tuaJe ricostituzione russa sul tipo di una monarchia Luigi-Filippo
o di una repubblica parlamentcìristica (tanto è vero che questi « evo-
luti " sembrano non aver nulla imparato e nulla dimenticato), è ben
naturale che essi vengano riguardati come nemici attivi e pericolosi
da quella parte dell'emigrazione che, sapendo quanto peso gli ele-
menti esteri — morali e materiali — abbiano avuto nello scatenarsi
e nel perdurare della rivoluzione, vogliono una ricostituzione nazio-
nale (se non nazionalista, fino a un certo punto xenofoba) della
santa Russia.
Lo ripeto : è questo il senso vero dell'attentato di Berlino.
Tale è la parte che spetta ai cadetti e partiti analoghi. Dicevo
che sembra non aver essi nulla imparato e nulla dimenticato. Difatti
essi sono gli eredi naturali dei vecchi girondini che aprirono le cate-
ratte di un torrente il quale, secondo loro, doveva rovesciare con
Luigi XVI l'assolutismo per preparare una reggenza costituzionale
col re, fanciullo di età e di «costituzione», in mano loro. Dopoché
la ghigliottina giacobina ebbe troncato colle teste il sogno dei giron-
dini, i loro figli fecero un giuoco analogo con Carlo X, e parvero riu-
scire con Luigi-Filippo; ma tutti sappiamo con quale risultato. E poi
vennero gli Olivier dell'" impero liberale»; il terzo saggio si faceva
non cambiando il sovrano ma cambiandone la figura. Ora è certo
che r« impero liberale» fu, come tale, per molto nello sfacelo
del 1871. Se simili sono gli esempi del nostro evoluto Occidente, che
dire della Russia? La sua ricostituzione avrà bisogno di una volontà
e di una mano di ferro, per molti anni, a meno che per ricostitu-
zione russa non si voglia intendere la costituzione di una società di
affari per conto di parecchi.
Ma la storia è una maestra senza discepoli.
•
• •
Ed ora, verità e giustizia esigono che facciamo la parte degli ele-
menti contro-rivoluzionarii. La loro responsabilità non è meno grave.
La massima parte di loro volle tenacemente la più bassa, com-
promettente, rivoltante schiavitù della Chiesa. Propugnatori del
Santo Sinodo che non era né santo né sinodo, impugnatori della ri-
surrezione del patriarcato moscovita (parlo della loro Chiesa), essi
non vollero un Nikon, ed ebbero un Rasputin. La rivoluzione ha loro
roso un gran servizio colla persecuzione della loro Chiesa pravoslava
— servizio simile a quello ch'eglino avevano già reso alla Chiesa cat-
tolica nei dominii degli zar. Anch'essi nulla avevano imparato e
nulla dimenticato. Eppure v'era l'esempio esauriente deìVancien re-
gime francese il quale aveva reso troppa parte di clero una cariatide
o un parassita della corte, spegnendone l'eflBcienza spirituale, anzi
facendone una causa di ripulsione e di rancore anticlericale ed anti-
380 DOPO l'attentato a miliukow
sociale. Quando cominciò la tempesta rivoluzionaria, troppo clero
non la capì perchè non era più a contatto del popolo, od almeno da
questo non poteva essere creduto perchè non poteva essere stimato; ed
alle sue più savie prediche controrivoluzionarie il neofìto della ri-
volta avrebbe dato la sardonica risposta: Si vede bene che tu vieni
da Versailles! Ma il clero déìVancien -regime non scese mai, e nem^
meno si avvicinò, all'ignobile abbassamento di clero superiore ed in-
feriore come quello verificatosi nell'ortodossia russa. Le figure ec-
clesiastiche di potente connivenza o d'impotente protesta che hanno
evoluto attorno a Gregorio Rasputin, dicono meglio che io non sap-
pia e voglia, a qual punto si era, anche dopo l'esperienza dei Gapon
del 1905. Oggi la rivoluzione russa, come già fece la francese per il
nostro, ha purgato il clero ortodosso da' suoi più corrotti elementi,
e ha dato campo ai migliori di offrire un nobilissimo esempio di
abnegazione e di sacrificio anche cruento, davanti cui è doveroso e
grato l'inchinarsi.
Il regime di corte e di governo da parte degli ambienti contro-
rivoluzionari non era stato meno deplorevole; né meno dolorosa fu
la loro tenacia a mantenerlo anzi eid esacerbarlo. Le memorie pub-
blicate ora dal signor Paléologue, ambasciatore francese a Pietro-
grado alla vigilia e durante la guerra — per quanto abbondante-
mente stilizzate — ne danno un'eco suggestiva : e quanti altri docu-
menti esistono! Per mia parte debbo oggettivamente dire : io che pur
ne ho viste di tutti i colori in questo povero mondo, non ho trovato
mai — accanto a compitissime ed onorevolissime eccezioni perso-
nali, e prescindendo dall'intenzione degli altri — un funzionamento
più caotico, più anarchico nel senso fondamentale della parola, e
quindi praticamente più antimonarchico di quello deir« autocrazia »
russa, il cui « autocrate » non era lo Zar, sibbene il cin, la buro-
crazia.
•
• •
Sopravvenuta la catastrofe, e la consecutiva emigrazione, gli
errori della contro-rivoluzione non sono cessati.
Certo, alcuni errori cadono molto più sulla responsabilità del-
l'Intesa. Su di essa peserà come un misfatto, l'istigazione e l'infido
appoggio ai tentativi bianchi. Tutti gli onesti elementi d'ordine so-
ciale caduti in quell'ignobile tranello dei tentativi di Kolciak, di De-
nikin, di Judenitsch, ecc., sono vittime, non dei bolscevichi, i quali
non potevano fare a meno di combatterli e cercare di distruggerli,
ma d'i quei veri responsabili (né tutti, né i principali, in posizione
ufficiale) i quali organizzarono quel sistematico massacro. Giacché
tutto il terrore bolscevico non bastava per colpire i più avveduti e
coraggiosi reazionari disseminati nel vastissimo impero. Bisognava
provocarli e riunirli per schiacciarli in massa. Fu il « bellissimo in-
ganno » — avrebbe detto Machiavelli — quello di sfruttare la buona
fede e lo spirito patriottico e militare dei capi e dei loro aderenti
bianchi. Ognuno di quei tentativi non fu più serio di quello di Qui-
beron, del 1795, contro la rivoluzione francese; né maggior buona
fede fu da parte dei « protettori ». Chi sa, mi comprende. È somma-
mente deplorevole che tra le file della controrivoluzione russa non
DOPO l'attentato a miliukow 381
vi fosse un uomo tanto accorto da intuire l'agguato, e tanto autore-
vole da imporre il motto d'ordine contro quell'assemJDramento da
mattatoio, raccomandando invece la dispersione apparente e ricol-
legata, la manovra da tirailleurs.
Altro errore infine (per non citare che le cose pregiudiziali) per
una gran parte dei patrioti russi fu la loro mentalità di restaura-
zione integrale dell'impero e dell'imperialismo moscovita; errore
scusabile, e, sotto un certo aspetto, onorevole per un patriottismo
caldo ed esacerbato; ma non è col dottrinarismo né col sentimenta-
lismo che si fa la sana politica.
•
• •
Per concludere praticamente queste rapide note, dirò, con la
stessa lealtà di esse, quanto mi sembra doversi dedurne.
La contro-rivoluzione russa che monta coraggiosamente la sua
via crucis, merita l'encomio e l'aiuto cordiale di quanti vedono l'una
e indivisibile rivoluzione minacciare, sempre più da presso, dapper-
tutto e tutta la nostra civiltà. Da parte sua la contro-rivoluzione russa
è bene che sappia meritare sempre più tale simpatia fattiva, nel suo
stesso interesse.
Mi pare che una delle prime ed assidue cure di quegli elementi
serii ed onesti sia di sbarazzarsi dagli altri i quali non sono né l'una
Uè l'altra cosa. Gli affaristi vadano altrove a fare il loro commercio,
ed i dilettanti la loro accademia. Chi ha addosso qualche pillacchera
del rasputinismo, deve tirarsi da parte, per non sporcare gli altri.
Non tutti i cosidetti rasputinisti furono in piena malafede; ma que-
sto è un fatto personale. Il galantuomo che andando ad un tratteni-
mento, cade per la via e s'infanga, toma indietro, non va ad imbrat-
tare i compagni.
La contro-rivoluzione russa, mi semibra, dovrebbe — per mezzo
dei suoi capi più serii, intelligenti ed esperti — fissare un programma
minimo di politica intema ed estera, tale da non destare legittime
od almeno scusabili sfiducie ed avversioni. Ma, fissatolo, perseguirne
l'attuazione con il « festina lente » che è il precursore del successo.
Infine — e credo che questo sia il più difficile per l'uomo in ge-
nere e per l'uomo russo in ispecie — essa deve prepararsi non solo
per un suo ipotetico governo restaurato di domani, ma anche e so-
pratutto per l'altrui governo del domani russo. Voglio dire che la
contro-rivoluzione russa deve prepararsi anche al caso di non an-
dare mai (il « non mai » umano, cioè per un tempo prevedibile) al
governo del suo paese, e quindi esser pronta all'alta e disinteressata
funzione di freno e di pungolo altrui per il bene supremo del paese.
I tempi ormai volgono a tale crisi globale del mondo in spirito e ma-
teria, da non potersi attendere — e non solo in Russia — una piena re-
staurazione dell'Ordine tradizionale. Ma i suoi fedeli possono pesare
continuamente — sempre con utilità, spesso decisivamente — sulle
contingenze politiche e sociali del rispettivo paese od organismo mo-
rale : missione di ben poco gradimento estrinseco, ma di grande sod-
disfazione intema, quella della coscienza che guarda a Dio ed al
proprio dovere, e conta tutto il resto soltanto alla stregua di quella
eterna misura.
Umberto Benigni.
NOTIZIA LETTERARIA
Pubblicazioni dantesche centenarie milanesi : Dante : La vita, le opere, le
grandi città dantesche. Dante e l'Europa; edit. Treves. — C. Riooi:
L'tUtimo rifugio di Dante; edit. Hoepli. — C. Ricci: La n Divina Com-
media » di Dante Alighieri illustrata nei lìioghi e nelle persone ; edit.
Hoepli. — Il Codice Trivulziano 1080 d^lla « Divina Commedia » ripro-
dotto in eliocromia; edit. Hoepli,
Insieme col ricordo, destinato axi affievolirsi via via, di festeg-
giamenti solenni e d'innumerevoli conferenze; insieme con restauri
monumentali di cui nel futuro non prossimo pochi si renderanno
ben conto, il Centenario dantesco del 1921 si lascia dietro un ammasso
di pubblicazioni quale nessun Centenario d'uomo insigne vide in pas-
sato, quale diffìcilmente vedrà in avvenire. Vi hanno contribuita non
so quanti paesi. Che la parte maggiore spetti all'Italia, sarebbe ver-
gognoso se non fosse.
E vergognoso sarebbe stato per Firenze il non figurar degna-
mente in questa amichevole gara. Spiccano nel contributo suo il
primo testo critico di tutte le Ojjere di Dante raccolte in un volume,
e la riproduzione a facsimile, voluta ed ottimamente tratta a com-
pimento dall'editore Olschki, del più antico codice datato della
Commedia, che colle sue innumerevoli rasure e surrogazioni ci è in
pari tempo testimonio visibile dello studio premuroso col quale fino
dai primordi si mirava a ottenere la migliore lezione. Peccato che
abbiano conseguito solo parzialmente l'effetto due ottime intraprese
munificamente promosse dal Comune fiorentino quando ne era a capo
Orazio Bacci : la compilazione di un Vocabolario dantesco, nostro e
tale da rispondere a tutte le esigenze attuali, e il concorso per un
libro di modesta misura, nel quale un'erudizione solida e profonda
fosse convertita in succo e sangue, di lettura attraente, adatto alle
intelligenze e culture anche solo mediocri, accessibile a tutte le borse,
tale da diffondere nella generalità degl'italiani la conoscenza sicura
di Dante uomo, cittadino, poeta insup>erabile, mente sovrana. Tut-
tavia nel lavoro del Vocabolario s'è inoltrato- parecchio, e bene, Fran-
cesco Maggini; e se il libro di divulgazione rispondente all'ideale
vagheggiato non s'è avuto finora, lo arieggia, e manifesta nell'autore
l'attitudine a raggiungere l'intento, quello pubblicato da Artwpo Pom-
peati (Firenze, Battistelli). Con esso facciam più che discemere « De
la vera città almen la torre ».
L'esilio convertì Dante di fiorentino in italiano per eccellenza; e
se a lui parve un tempo che esso, portandolo povero e qual nave
senza governo « a diversi porti e foci e liti », lo invilisse agli occhi
NOTIZIA LETTERARIA 38S
dei molti, il resultato fu che di averlo comunque ospitato, di essere
stati calcati da lui, si vantino o tentino di vantarsi innumerevoli
luoghi. A tale vanto non pretende Milano; ed essa avrebbe motivo
di dolersi dell'epiteto dato a colui che, propugnatrice di libertà co-
munali, la distrusse, e del modo come al fatto della distruzione si
allude, Purg. XIX, 118-120-
Io fui abate in San Zeno a Verona
sotto lo 'mperio del buon Barbarossa,
di cui dolente àacor Milan ragiona.
Ma di ciò Milano non serba davvero rancore; e della partecipazione
sua segnalata a quanto v'è di più duraturo nella celebrazione, gran-
demente si compiace senza la più lontana idea di mostrarsi, così ope-
rando, magnanima.
A Dante era doveroso che fosse dedicato nel culmine della me-
morabile annata — l'anniversario della morte — , con intendimenti
per eccellenza divulg-ativi, un numero della milanese Illustrazione
italiana. Ci si pensò presto assai nel 1920; e la cura ne fu meritamente
commessa a Corrado Ricci. Egli concepì largamente il diseg:no. Non
gli bastò che fosse discorso della vita, delle opere, delle biografìe,
di antichi commenti, di ciò che Dante ebbe dall'arte, di ciò all'arte
fu da lui ispirato: volle che ciascuna delle città italiane che hanno
qualche titolo ad esser dette dantesche avesse una trattazione sua
propria (1). Né il Ricci s'arrestò alle Alpi. Volle che, nella maniera
come si conveniva alle condizioni speciali, Dante fosse considerato
anche in rapporto colla Francia, colle Fiandre, coll'Inghilterra, colla
Spagna, colla Germania. Da ciò, per quanto i singoli autori fossero
tenuti a freno, venne un'esuberanza di materia non coercibile nei
limiti intenzionali. Ne seguì che al giornale illustrato si provve-
desse altrimenti, e che gli scritti destinati ad esso fossero, senza ab-
bellimenti grafici, dati fuori in un volume, al quale la nascita ba-
starda, lo sminuzzamento, la struttura anomala, non tolgono di aver
pregi notevoli e di poter riuscir utile (2).
Ma al fervore dantesco di Corrado Ricci, Milano, per fatto del-
l'editore che vi tiene il posto più alto, consentì ben miaggiori mani-
festazioni. Penso che se il Ricci dovesse designare fra le numerosis-
sime pubblicazioni sue quella che gli è più cara, indicherebbe Vul-
tiììvo rifugio di Dante, ispiratogli datH'intimo connubio di due intensi
amori : Dante e la nativa Ravenna. Libro di solida erudizione, volta
a illustrare con no\ità di dati e di esposizione una materia di rag-
guardevole interesse, qutì^'Ultimo rifugio, apparso nel 1891, ebbe
l'accoglienza che si meritava per il contenuto, e che dal lusso del-
l'esecuzione tipografica e dal corredo delle illustrazioni ricevette eflB-
cace incremento. Non so quando l'edizione venisse ad esaurirsi. Il
Centenario indusse assai opportunamente l'editore — Ulrico Hoepli
— a proporre all'autore di dame una seconda; e la proposta fu accolta
con gioia. L'opera non è stata semplicemente riprodotta, colle modi-
• (1) Che manchi la Lunigiana, a cui sarebbe spettato un posto assai co-
spicuo, suppongo eeser dovuto a una promessa rimasta senza adempimento.
(2) Dante: La vita, le opere, le grandi città dantesche, Dante e VEn^
Topa, Milano, Treves.
384 NOTIZIA LETTERARU
fìcazioni che dai trent'aiini trascorsi erano in<lisi>ensabilmente ri-
chieste, ma è stata sottoposta in molti luog"hi ad una rielaborazione.
Il Ricci ha badato, fra l'altre cose, ad alleggerirla; e ciò non soltanto
coU'omissione di documenti meramente accessorii; omissione per
effetto della quale la prima edizione conserva un valor suo. L'aspetto
stesso esteriore è assai mutato; il volume massiccio del 1891 è dive-
nuto comodamente mianegigevole; tipi nitidissimamente arcaici hanno
surrogato i modterni; ed è stata in parte arcaicizzata anche l'illustra-
zione. Gì si trova davanti un prodotto armonicamente e squisitamente
elegante.
Nella brevissima « Avvertenza » preliminare il Ricci dice come
là dove perdurano le incertezze, egli abbia « creduto bene » di « man-
tenere» le sue «vecchie opinionìi». Uno dei punti dove ciò accade
ha notevole importanza. Quando avvenne che il .x)oeta si riducesse a
Ravenna? quanta parte del poema ebbe ad esservi composta? L'an-
data è messa dal Ricci al 1316; e già sarebbe di cooniposizione raven-
nate il canto XXVI II del Purgatorio.
Che Dante fosse accolto da Guido da Polenta più presto che non
si creda da molti, penso ancor io, pur non osando precisar nulla;
ma che dalla descrizione della « divina foresta spessa e viva » e dal
richiaimo che ivi è fatto alla « pineta in su il lito di Chiassi » sia le-
cito dedurre che allorché scriveva quei versi il poeta avesse già preso
stanza nella città di Guido, non mi pare ammissibile. Come mai se
ben sei canti del Purgatorio e tutto quanto il Paradiso fossero stati
scritti a Ravenna, sotto le ali dell'aquila polentana, la terza cantica
sarebbe stata dedicata, come non par dubitabile, a Can Grande, e
nonché non ti'asparir nulla di una offerta qualsiasi, o intenzione di
offerta, all'ospite generoso e reverente, a lui ed a' suoi non sarebbe
in quella cantica fatta la ben che minima allusione? Delle altre due
maggiori ospitalità che alleviarono al poeta i dolori dell'esilio, Dante
ha posto nella Commedia testimonianze di gratitudine da non poter
essere più solenni: della malaspiniana nel Purgatorio, Vili, 109-139;
della scaligera nel Paradiso, XVII, 70-93; per la i>olentana dovrebbe
servire qual compenso la pietà che, associata con un'eterna condanna,
il poeta avev^a precedentemente suscitato per un'adultera uscita del
suo sangue! Tutto è comprensibile invece se solo una parte, sia pur
considerevole, del Paradiso fu composta a Ravenna; e non c'è nessun
bisogno davvero che l'esule ramingo ivi si fosse ridotto perchè avesse
esperienza della Pineta.
A Ravenna Dante dovette dimorare in cx)ndizioni diverse che
non avesse fattoif presso altri signori. Di una stabilità madore è
se^no manifesto La presenza dei figliuoli. Lì egli ebbe ad aspett;in'
più serenamente che la patria gli riaprisse le porte e che gli fn--
dato di ricevere la corona poetica « in sul fonte » del suo battesimo.
Che ciò risultasoe da un ufficio didattico, è poco men ohe dimostrato
dalle « caprette » del cominciamento della priana egloga e dalla spie-
.sraziono autorevolissima che ne abbiam dal Boccaccio. Ma se l'aver
risolutamente insistito su questo punto è assai meritorio nel Ricci,
io non lo seguiterò nel ritenere che l'insegnamento professato fosse
di rettorica, e più specialmente di poetica, volgare. Ben più delle
testimonianze adducibili in favore, vale la considerazione dell'ana-
cronismo e dell'enorme sproporzione fra un tal maestro e i frutti
NOTIZIA LETTERARIA 386
che dall'insegnamento potevano aspettarsi, anche senza tener conto
della magrezza di quelli di cui è lecito parlare altrimenti che per
via d'ipotesi. Con questo non escludo nient'affatto il volgare quale
argomento di discorso e di ammaestramento nel trattare con taluni
amici e discepoli più desiderosi e meglio disposti. Ma un insegna-
mento che si deve immaginare destinato a molti, non potè essere che
di «gramatica», vale a dire di latino. E credo peggio che gratuito
il pensare che in prò di tale insegnamento Dante ripigliasse allora
nelle mani, con intenzione, naturalmente, di condurlo a termine, il
trattato De vulgari Edoqitentì]a da lungo tempo interrotto.
Una parte non piccola d€)\V Ultimo rifugix) è storia postuma: ri-
guarda il sepyolcro e le vicende delle ossa. Essa pure suscita un inte-
resse maggiore di quel che si potrebbe immaginare. Quanto mai c'è
voluto perchè anche i resti mortali conseguissero la pace a cui il
Grande anelò fino al termine della travagliatissima vita! Causa prin-
cipale delle fortunose vicende furono gli sforzi della patria ravve-
duta per ottenere quelle sacre reliquie. Assai lodevoli per il sentimento
ispiratore, noi dobbiamo ora felicitarci che ?iano andati a vuoto. Non
solo Ravenna merita di conservare l'inestimabUe deposito; ma dal-
l'esser tolto di lì Dante stesso patirebbe detrimento. È bene che anche
nelle condizioni attuali e future vengano a rispecchiarsi le colpe pas-
sate. A togliere ciò che sembra esserci di lamentevole in questa per-
petuazione d'esilio vale il gran fatto della salda unità conseguita dal-
l'Italia. A tutela dei diritti ravennati riesce eflScacissimo, senza che
una parola sola sia profferita in proposito, l'opera del Ricci. A quei
diritti d'altronde la celebrazione centenaria del 1921 ha posto un sug-
gello solennissimo e non removibile.
Dalla cooperazione del Ricci e dell'editore Hoepli si è avuto
un altro magnifico effetto. La Divina Commedia di Dante Alighieri
Ulutstrata nei luoghi e nelle persone, uscita a fascicoli dal 1896
al 1898, è riapparsa tutta insieme in una seconda edizione, di gran
lunga più ricca ohe non fosse la prima, già ben ricca essa pure. Le
illustrazioni minori sono cresciute da quattrocento a settecento; le
tavole fuori testo da trenta a centosettanta. Le pagine numerate sono
salite solo da LX + 743 a XII + 1104; ma la mole è venuta addirit-
tura a raddoppiarsi, non essendo le tavole computate nella numera-
zione ed essendo la carta dei fogli su cui, naturalmente da un lato
solo, sono impresse, più grossa dell'altra. Ne è risultata la necessità
di una tripartizione, pur mantenendosi unica la paginatura.' Da ciò
consegue che gl'indici alla fine del terzo tomo rimedian meno all'ine-
vitabile guaio che, per ottenere una distribuzione non troppo disu-
guale, un gran numero di illustrazioni non stiano là dove le vorrebbe
il testo. Non so se sia stato ventilato il partito di fare degl'indici un
fascicolo distinto; ma comprenderei benissimo che si fosse ventilato
e scartato. E sono portato a credere che ora non sia neppure passata
per la mente l'idea del solo espediente che avrebbe condotto a una
disposizione irreprensibile, quale ci dà — frutto gustoso del Cente-
nario ancor esso — Il paesaggi/) italico nella Diinna Commedia di
Vittorio Alinari, che per una parte fa bellamente riscontro; vale a
dire la conversione dell'edizione del poema in un album dantesco. Se
l'idea dell'album potè forse esserci un tempo nel Ricci, presto, io
credo, e risolutamente, cedette il luogo al proposito — suscitato da
aS6 NOTIZIA LETTERARU
tentativi altrui — del poema, quanto più e meglio si potesse, archeo-
logicamente illustrato.
La collocazione difettosa dei disegni fu rimproverata da taluni
all'opera nel suo primo apparire; e il Ricci non ebbe fatica a giusti-
ficarsi. Di altre censure, che erano mosse per la massima parte alla
scelta delle illustrazioni, molte delle quali si giudicavano superflue
o inopportune, dichiara nella Prefazione d'ora di aver riconosciuto
la ragionevolezza e di averne tenuto gran conto. E così è stato difatti.
Con tutto ciò, attenuate, le censure potrebbero pur sempre ripetersi;
e censore potrebb'essere fatto il Ricci medesimo d'un tempo quanto
alle molte rappresentazioni fantastiche di personaggi, risolutamente
escluse dalla prima edizione. Ma io, sebbene convinto, com'è dichia-
ratamente convinto l'autore stesso, che molto rimanga da migliorare,
non insisto su peccati di questo genere. Una illustrazione rigorosa-
mente critica sarebbe inevitabilmente povera. A Dante ci avvicinano
anche molte e molte immagini di cose che egli non vide né potè ve-
dere. E così io non rifiuto, per ©sempio, nemmeno le tante figura-
zioni di personaggi, quasi unicamente antichi, prese dal Libro cor-
siniano dei disegm di Giusto de' Menabuoi. Accetto questa Divina
Commedia così quale è, coi suoi grandi pregi e colle manchevolezze,
e sono lieto che per virtù sua, tra le pubblicazioni centenarie possa
dirsi assicurato all'Italia anche il primato della bellezza, che avevo
presunto assegnabile ai Mélanges francesi curati da Henri Hau vette.
Vero che le due opere sono belle, anzi bellissime, in maniera diversa.
Diversa, ma pur sempre congenere; mentre di tutt'altra natura
è la bellezza per la pubblicazione di cui mi rimane da parlare : // Co-
dice Trivulziano 1080 della Divina Commedia riprodotto in eliocromia
sotto ffli aTzspici della Sezione milanese della Società Dantesca Ita-
liana nel sesto Centenario della ritorte del Poeta con cenni storici e
descrittivi di Luigi Rocca. Anch'essa ha per editore, illuminatamente»
e avvedutamente ardimentoso, Ulrico Hoej^, che, accolto l'invito
della Sezione milanese della nostra Società dantesca e più special-
mente dell'esimio studioso di cui s'è udito il nome, attese con gran-
dissimo impegno all'attuazione. Con ciò ha avuto effetto un disegnt»
che la Società dantesca italiana vagheggiava da molti anni e per il
quale a me stesso era accaduto di potermi adoperare, grazie alla
benevolenza di cui mi onora il Principe Luigi Alberico Trivulzio,
fortunato e degno erede della più cospicua senza confronto fra le
biblioteche dell'Italia rimaste in mani private. Di lui s'era ottenuto
l'agognato assenso; ma sulla strada si attraversarono ostacoli; e ci
volle l'occasione della solennità centenaria perchè fossero sbarazzati.
Del ritardo non è più da dolersi; che prima si sarebbe difficilmente
avuto cosa così vicina alla perfezione. Ora, chi si trova sotto gli
occhi uno dei treoentocinquanta esemplari, può quasi credere d'aver
davanti l'originale stesso: con tanta verità ed efficacia esso è reso
in tutte le sue apparenze, le caratteristiche, le accidentalità. Singo-
lare l'illusione ottenuta nella riproduzione del cartellino apposto
sulla faccia interna della parte anteriore della bella rilegatura in
cuoio, che attesta l'appartenenza alla biblioteca « Io. Jacobi. Trivul-
tii ». Anche l'opera del miniatore è rispecchiata a dovere.
Questo codice trivulziano viene secondo fra i moltissimi degli
infiniti a noi pervenuti della Commedia che recano data. L'anno che
NOTIZIA LETTERARIA 387
vi è segnato è posteriore di un'unità soltanto a quello cLel codice lan-
diano di Piacenza riprodotto dall'Olschki. Si deve avvertire tuttavia
(strano che non paia essercisi badato) che il 1337 attestatoci dal tra-
scrittore fiorentino Francesco di Ser Nardo, non essendo accompa-
gnato da specificazione di mese, potrebbe anche corrisponder© al
principio del 1338; giac^^hè a Firenze l'anno nuovo principiava il
25 marzo. A differenza del codice landiano, che, sawerta, costituisce
una rara eccezione, il trivulziano non ha subito ritocchi di mani cor-
rettrici ed è rimasto quale propriamente uscì dalla penna esperta,
accurata, elegante del figliuolo di Ser Nardo. Ci o^fre dunque, schietta
ed evidente, una lezione nella quale il poema, a breve distanza dal
compimento, si lesse nella patria dell'autore, dove esso dai pentiti
concittadini fu accolto con grande ammirazione, e dove rapida-
mente raggiò un numero di copie da anticipare in qualche modo i
miracoli della stampa. Non era neppur essa la lezione prettamente
genuina; carattere eclettico le riconosce — autorità massima nella
materia — Giuseppe Vandelli; e dal 'V^andelli sappiamo che l'eclet-
tismo s'aveva fino dal 1330 in un ascendente, fiorentino ancor esso, del
codice trivulziano, che purtroppo conosciamo soltanto attraverso a
una collazione cinquecentistica. Un lavoro analogo a quello che nel
codice landiano possiamo osservare cogli occhi nostri, era dunque
già stato eseguito parecchi anni avanti. E raccogliere da fonti diverse,
sia pure con giudizio e col proposito di « respuere que falsa » e di
« colligere que vera», come fece l'anonimo del 1330, significava ine-
vitabilmente nelle condizioni di allora, e ha continuato a significare
per la gran maggioranza dei congegnatoli di testi, preferire piìi o
meno spesso il peggio al meglio. Così io sono persuaso che sia awe-
njuto, per additare un esempio particolarmente notevole, Purg., XX,
67, nell'accorata invettiva di « Ugo Ciappetta » contro i suoi discen-
denti; che il viceììda in cambio di arwnenda del codice trivulziano
e di altri, sebbene accolto, dopo lunga ponderazione, dal Vandelli
nel testo critico della Società dantesca, a me pare dovuto a tale che
fu offeso dal triplice ritomo della stessa parola quale rima e che pur
nondimeno non seppe trovare un ripiego per U terzo caso; e le molte
e ingegnose pagine (75-84) che a sostegno della lezione adottata il
Vandelli ha pubblicato nel quarto volume degli Studi danteschi del
Barbi, come non hanno convinto, secondo mi è scritto, il Toynbee,
che subito aveva condannato il vicenda nel numero dantesco del sup-
plemento settimanale del Times, non hanno convinto neppure me.
Ciò non toglie punto che il Codice Trivulziano sia per il poema una
delle voci più autorevoli, e possa essere anche la più autorevole fra
tutte. E un pregio incontestabile gli conferisce il colorito fiorentino
della fonetica, che alla Vommedia nella forma sua più sincera non
può esser mancato di certo. Leggere in esso l'opera immortale, come,
con un poco di esercizio, è ora dato, grazie alla riproduzione, a chic-
chessia, vai quanto rifarsi addietro di quasi sei secoli, trasformarsi
in contemporanei e concittadini del Poeta.
Pio Rajna.
NOTIZIE, LIBRI E RECENTI PUBBLICAZIONI
ITALIA.
L'Accademia Olimpica di Vicenza ha indetto un concorso per un pre-
mio di Lire 3000 da conferire entro i primi sei mesi del 1927 all'italiano, che
ne fosse giudicato degno, per la trattazion,e del tema: « L'italianità delle po-
polazioni dell'Alto Adige, dei Sette Comuni Vicentini, e dei tredici Comuni
Veronesi ».
— A Perugia, ael circolo « Vittoria Aganoor », dinanzi a un pubblico
sceltissimo, il prof. Mariano Falcinelli Antoniacci ha degnamente commemo-
rato Giovanni Marradi che dall'Umbria trasse ispirazioni magnifiche. L'ora-
tore, che della poesia è cultore passionato e geniale, disse profondamente e
acutamente dell'arte marradiana tra il consenso e la commozione degli ascol-
tatori.
— La Fiera Internazionale del Libro, che si è inaugurata in questi giorni
a Firenze, sta preparando anche una speciale mostra di cultura popolare, alla
quale sarà aggiunta una Sezione retrospettiva di vecchi libri educativi per il
popolo e per l'infanzia che metterà in evidenza i progressi conseguiti in questo
ramo dell'Editoria. Un'altra speciale sezione sarà dedicata alle pubblicazioni
dantesche per la gioventù e popolari uscite in occasione del secentenario.
— Riccardo Balsamo Crivelli, autore del Boccaccino, per il quale si an-
nuncia uno studio di Benedietto Croce sul prossimo fascicolo de La Critica, ha
consegnato all'Editore Mondadori il manoscritto di un nuovo libro di leggende
e poesie, intitolato: Il rossin di Maremma. Raffaele Calzini ha consegnato allo
stesso Editore il manoscritto di una commedia omerica: La tela di Penelope,
che sarà illustrata dal Disertori.
— La Casa Editrice A. Mondadori ha pubblicato nel mese di marzo le se-
guenti novità: Memorie di deputato, di Ettore Janni; Le cose, di Trilussa;
Fragilità, novelle di Virgilio Brocchi; Sottovoce zio Matteo!, di Arnaldo Frac-
caroli ; Delitto, romanzo di Francesco Sapori; e annuncia, come prossime, Le
poesie, di G. A. Borgese; Il padrone sono me, di Alfredo Fanzini e // romanzo
della Signora Cattareina, di Alfredo Testoni.
— L'Accademia di agricoltura, scienze e lettere di Verona, in occasione
diel centenario della nascita di Angelo Messedaglia, pubblica le Opere scelte di
economia e altri scritti dell'illustre economista, in due volumi contenenti an-
che impjortanti scritti inediti.
— Vittorio Cian, ha stampato i>er i tipi della Casa Paravia, un breve
saggio su Annibal Caro traduttore. Il nome dell'autore è sufficiente a racco-
mandare questo libretto. Sebbene la copiosa nota bibliografica, che lo chiude,
mostri che l'argomento ebbe già a più riprese buone trattazioni, chi legge il
lavoro del Cian si accorge presto che ha innanzi a se un maestro capace di dire
bene cose buone e almeno in parte nuove. Indichiamo, tra le altre, ai cultori
degli studi danteschi alcune pagjne assai notevoli intorno ai luoghi virgiliani
che furono parafrasati da Dante.
— La Casa Battistelli di Firenze ha pubblicato la traduzion^e del romanzo
Nebbia del noto scrittore spagnuolo contemporaneo Miquel de Unamuno.
— Per i tipi della Casa Baldini e Castoldi di Milano, Salvatore Gotta ha
pubblicato il suo nuovo romanzo // primo re.
— L'editore Leo S. Olschki di Firenze, ohe aveva indetto un concorso per
un volume: Dante spiegato al popolo, sentito il parere della commissione esa-
minatrice dei lavori presentati, ha deciso di rimuovere il conoowo steaBO por-
NOTIZIE, LIBRI E RECENTI PUBBLia\ZIONI 389
tandone il termine al 31 ottobre 1922, nessuno dei concorrenti avendo sinora
presentato un'opera che corrisponda pienamente alle norme del concorso. Il
premio sarà di L. 5000.
— Arnaldo Cervesato ha pubblicato in uno degli ultimi numeri della Vita
Internazionale un interessantissimo articolo sul pontificato di Leone XIII,
dove egli ha cercato con grande acume di cogliere sulle fondamentali caratte-
ristiche il dramma politico che si è celato sotto le rinnovate e festose manife-
stazioni della potenza papale sul mondo.
FRANCIA
Per iniziativa di Madame G. Blumenthal si è costituita, con i denari
dei pili grandi banchieri di N«w York, la Fondazione americana per il pensiero
e l'arte francese. La fondazione dà 12 borse annuali di 6000 franchi l'una, per
incoraggiare giovani scrittori, pittori, scultori, incisori, decoratori e musicisti
francesi. Queste borse sono distribuite ogni due anni e durano appunto per la
dorata di un biennio.
— li' Amour de l'Art ha pubblicato in Francia un volume di 10 disegni
inediti di Rodin preceduti da po<^e parole di Albert Bernard.
— In occasione del centenario di Molière A. Le Breton, professore alla
Sorbona, publica sulla Bevue Bleu un interessante articolo sulle Comédies
ballets che il grande commediografo compose per le feste della corte del Re
Sole.
— La Caaa Editrice Grasset di Parigi ha ripubblicato Les Pléiades e Sou-
venirs de voyage del coìite di Gobinean, con nno stadio preliminare di J.
Gioarmont.
— Il cronista del Mercure de France c'informa che BriUat Savarin, il
famoso magistrato gastronomo, ha lasciato cinque novelle inedite dai titoli:
ila première chute, Le voyage à Arras, Ma culotte rouge, L'inconnu, La réve,
che egli aveva composto per distrarre i suoi convitati alla fine dei celebri
pranzi ch'egli offriva, e che rappresentano la piìi pura tradizione di V^oltaire.
Sembra però che gli eredi non vogliono pubblicarle perchè di argomento molto
scabroso. Il Mercure insorge contro ciò come contro un attentato alla lettera-
tura francese.
— I fratelli Tharand negli Ecrits nouveaux evocano la figura di Lamen-
nais nel suo quadro bretone, nel silenzdo della sua casetta à le Chéneie, dove il
celebre uomo ha scritto le Paroles d'un croyaut.
Einstein et l'Uni vers di C. NORDMANN. — Hachette, Paris, 1921.
Nella colluvie di pubblicazioni a cui hanno dato luogo le teorie di Einstein
e nelle quali si sono " infiltrate dosi non indifferenti di superficialità e di dilet-
tantismo, il volume di Charles Nordmann, dell'Osservatorio astronomico di Pa-
rigi, testé pubblicato dall'Hachette col titolo: Einstein et VUnivers (Une lu^*
dans le mystère des choees), viene a prendere un posto eminente. In forma
agile e brillante, ma senza rinunciare a quell'apparato tecnico indispensabile
perchè l'enunciazione scientifica non fosse deformata in una banale genericità,
il Nordmann fissa limpidamente il contrasto fra la concezione del tempo e dello
spazio assoluti in Newton, e quella del tempo e dello spazio relativi di Poincaré
e di Einstein. Stabilito il merito che nella formazione della visione einsteiniana
dell'universo si>etta a precursori troppo dimenticati, come Fitzgerold e Lorenti,
ricordato l'esperimento di Michelson, da cui Einstein ha preso le mosse, il
Nordmann espone a grandi linee le conclusioni fisiche e matematiche di questi,
le loro ripercussioni nella concezione del mondo sensibile, la visione del nuovo
assoluto che Einstein pone nella realtà estema, « l'intervallo cioè fra gli eventi,
che. attraverso tutte le fluttuanti vicende delle cose, qualunque sia la varietà
sconfinata dei punti di vista, e la mobilità dei punti di riferimento, rimane co-
stante ed invariabile ». Infine il Nordmann ribatte, con garbo e misura, le
obbiezioni d'indole matematica che il Painlevé ha di recente sollevato all'Ac-
cademia delle Scienze di Parigi contro i calcoli einsteiniani.
LIBRI E RECENTI PUBBLICAZIONI
Bari,
MUa-
B. Croce. Pescasseroli.
Laterza. L. 6.50.
V. Brocchi. Fragilità.
no, Mondadori. L. 8.
F. Sapori. Delitto. Romanzo. —
Milano, Mondadori. L. 8.
A. Franchi. Alla catena. Romansio.
— Milano, Tr,eves, 1922. L. 8.
S. Gotta. Il primo re. Romanzo.
— Milano, Baldini e Castoldi, 1922.
L. 8.
E. ScHURX. L^ evoluzione divina.
Dalla Sfi7i(je a Cristo. — Bari, La-
terza. L. 15.50.
E. ScHURÉ. La terra di Gesù.
Veraione di Alma Arora. — Roma,
Voghera. L. 7.50.
M. Maeterlinck. Il doppio giar-
dino. Versione di E. Ficmi Longa-
RELLi. — Roma, Voghera. L. 7.50.
M. Maeterlinck. L'intelligenza dei
fiori. Versione e prefazione di Emi-
lio GiRARDiNi. — Roma, Voghera.
L. 7.50.
M. Maeterlinck. La vita delle
.ipi. Versione di C. E. Fedeli. —
Roma, Voghera. L. 7.50. ,
A. Chiappelli. Distruzione e rico-
struzione civile. — Ferrara, Tad-
dei. L. 18.
C. Antona-Travbrsi. Cose carduc-
ciane... — Milano, G. B. Paravia,
1922. L. 6.
G. Preziosi. Cooperativismo rosso
piovra dello Stato, con introduzione
di Maffeo Pantaleoni. — Bari, La-
terza, 1922. L. 13.50.
M. De Unamu.vo. Nebbia. Roman-
zo. — Firenze, Battistelli. L. 6.
L. Battistelli. La bugia nei nor-
mali, nei criminali, nei folli. Sag-
gio psicologico. — Bari, Laterza,
1922. L. 12.50.
Tony André. Xavier de Maistre.
Etude. — Firenze, 1922.
F. Peviani. Due milioni di italia-
ni in Brasile - L'attuale problema
italo-brasiliano. — Sasi, 1922. L. 12.
Avv. B. Marongiu. / Monti di
Pietà nella evoluzione storica delle
loro funzioni e nella loro attuale ra-
gione d'essere. — Roma, 1921.
E. Roggero. Io sorrido così... No-
velle gaie. — Milano, Aliprandi, 1922.
R. Grassetti. Il grattino. — Fi-
renze, Bemporad, 1921. L. 8.
I. Rossetti. Vedovelle azzurre. —
Foligno, Campi, 1922.
G. U. Papi. Le vie acquee conti-
nentali. — Milano, Hoepli, 1922.
L. 15.
R. Levi Naik. ViUa Geo. Roman-
zo. — Firenze, Carpignani e Zipoli.
L. 6.
G. Spina. Elegie di Delia. — Afco-
li Piceno, 1922.
P. Maiorano. Ignoto militi. — Si-
derno, Riso, 1921.
G. Bevilacqua. La luce nelle tene-
bre. Milano, « Vita o Pensiero »,
1921. L. 12.
C. Parlagreco. Dizionario Porto-
ghese-Italiano e Italiano-Portoghese
— Milano, Vallardi.
PUBBLICAZIONI « LA VOCE » — FIRENZE.
A. SoLMi. Il pensiero politico di
Dante. — 1922. L. 16.
E. Levi. Figure della letteratura
spagnuola contemporanea. — 1922.
L. 9.
E. Levi. T'. Blasco Ibàilez e il suo
capolavoro « Cafìas y Barro ». — 1922.
L. 3.
F. Dostoievski. L'orfana. Tradu-
zione di F. Verdinois. 1922. L. 10.50.
P. A. De Alarcón. Il cappello a tre
imnte. — 1922. L. 5.
G. Ambrosini. Partiti politici e
gruppi politici dopo la proporzionale.
— 1921. L. 7.
PUBBLICAZIONI STRANIERE.
F. Strowski. La Renaissance litté-
raire de la France conte mporaine. —
Paris, Plon. Fr. 7.50.
H. Bordeaux. La maison morte. —
Paris, Plon. Fr. 7.
L'apocalypse. Traduction du poème
aveo une introduction par P. L. Oou-
chaud. — Paris, Bossard, 1922. Fr. 21.
C. Briand. Contes pour un« fem-
me. — Paris, A. Plioque et C.ie.
Fr. 6.
J. FiNOT. Sa Majesté l'Alcool. —
Paris, Plon. Fr. 2.60.
H. ScETTOLZER. liaymond Poincaré.
— Zurich, Art. Institut Orell Fùasli,
1922.
R. Schwab. La conquite de la Joie.
— Paris, Oraaset. Fr. 6.
UOO Mbssint. Re9pon$abile
Som» — Diti» Amutni d! M&rio Coarriw.
INDICE DEL VOLUME CCXVII
(SERIE VI — 1922)
Fascicolo 1199 - r Marzo 1922
Il Dio dei viventi - Romanzo - I — Grazia Deledda .... Pag. 3
La Sanf elice - Poema tragico - V atto {fine) — G. A. Cesareo . .22
Il nuovo figlio di Dante — Augusto Mancini, deputato ... 33
Scrittori nostri: Virgilio Brocchi — Francesco Sapori ... 38
Etruria e Roma — B. Nogara, direttorie generale dei musei e gallerie va-
ticane . . . . . . . " 46
Nuovi orizzonti dell'edilizia cittadina — Marceli/) Piacentini . .60
Gli ordinamenti tecnici delle industrie in relazione all'obbligo intema-
zionale delle otto ore di lavoro — Luigi Luzzatti, senatore, ministro
di Stato 73
Note e commenti — Il nuovo Ministero - La Banca di Sconto . .77
Notizia letteraria — Due romanzi: Stella Mattutina di Ada Negri - //
Dio nero di Clarice Tartufari — G. E. Caiwipaj 82
Teatro e musica - Giulietta e Bomeo - Tragedia lirica di Riccardo Zan-
donai — Giorgio Barini 87
Libri, notizie e recenti pubblicazioni 93
Fascicolo 1200 — 16 Marzo 1922.
Fece dunque bene Firenze a sbandire Danl^e? — Francesco D'Ovidio, se-
natore - Presidente della R. Accademia dei Lincei .... Pag. 97
Il Dio dei viventi - Romanzo - II — Grazia Deledda 121
A proposito di una nuova raccolta di lettere mazziniane — Angelina
TOMMASI 139
Armonie sociali - Versi — Giulio Navone 145
n cantico - Racconto — Virgilio Brocchi 152
Metodi e condizioni per il ripristino della circolazione normale — Giulio
Alessio, deputato, ex-ministro del commercio ..... 166
Le tasse sulle vendite, sul lusso e sulla cifra d'affari all'estero ed in ItaUa
— Marcello Soleri, deputato, ex-ministro delle finanze . . 182
Libri e recenti pubblicazioni 200
392
Fascicolo 1201 — 1° Aprile 1922.
Enrico Castelnuovo — Antonio Fradbletto, senatore .... Pag. 201
Il Dio dei viventi - Romanzo - III — Grazia Delbdda ..... 21*'
Giovanni Verga — F. P. Mule 28-
Ricordi dal mare - Versi — Giulio Salvadori 241
Le acoperte archeologiche del prof. Innocenzo Dall'Osso a Monte Mario
— I. M. Palmarini 253
Proibizionismo — Vitisator 260
Per il cinquantenario della Banca popolare di Novara — Luigi Luzzatti,
senatore - ministro di Stato ......... 263
Vincenzo Monti e il Principe di Carignano — Alfonso Bertoldi . 268
Per un teatro di marionette — Francesco Bernardelli .... 272
Carlo Cattaneo e la Società deJle Nazioni — Giuseppe Macaogi, ex-de-
putato 278
Tra libri e riviste — I nostri editori : La Casa editrice Caddeo - Ancora
il centenario di Dante - Renato Fucini - Il tesoro dei Nibelungi -
Pico della Mirandola - Originali e imitazioni - Giuseppe Garibaldi e
la donna - Foscolo e Monti - Novelle di Duhamel - Gran Laguna fa
bon porto - Una vita di Lopez De Vega - Per i bimbi Balducci — Nemi 287
Libri e recenti pubblicazioni 296
Fascicolo 1202 — 16 Aprile 1922.
Nel teatro del Goldoni - Una commedia in luogo di prefazione — Antonio
Zardo . Pag. 297
11 Dio dei viventi - Romanzo - IV — Grazia Dei^eoda 310
Contributo alla storia delle origini sul Risorgimento - Note su manoscritti
inediti — Ugo da Como, senatore .33''
La fine del mondo - Versi — Marino Marin 34"'
In memoria di Giovanni Marradi (1862-1922) — Guido Menasci .351
Notizie intomo alle imposte in Italia, alla loro pressione e distribuzione
— G. Mattiotti, deputato 355
Dopo l'attentato di Miliukow - Note contro-rivoluzionarie — Mons. Um-
berto Benigni 376
Notizia letteraria - « Pubblicazioni dantesche centenarie milanesi » — Pio
Rajna 36ì:
Libri, notizie e recenti pubblicazioni 3^"-
AP
37
N8
V . 3C0-
301
Nuova antologia
PLEASE DO NOT REMOVE
SLIPS FROM THIS POCKET
UNIVERSITY OF TORONTO
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