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Full text of "Nuova antologia"

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BUsTOINa  LIST  VIAR  1    1923- 


NUOTA 


ANTOLOGIA 


LETTERE,  SCIENZE  ED  ARTI 


SESTA  SERIE 


GENNAIO-FEBBRAIO  1922 


VOLUME  CCXVI  —  DELLA  RACCOLTA    CCC 


DIREZIONE  DELLA    <  miOVA  ANTOLOGIA  >      ' 
Piazza  di  Spagna,  Via  di  S.  Sebastiano,  3 

•  i922 


I   \    \ 


^1 


PKOPREÈTÀ    UÈTTERAKIA 


Rom»  —  sub.  Lito-Tipografico  DiiU  E.  Ann*ni  —  PI&sb«1«  Flamiaio,  S. 


LA    SANFELICE 


POEMA    TRAGICO 


LE  PERSONE  DELLA  TRAGEDIA 

Luisa   Sanfelice  II  capitano   Bitbgio 

L'abate  AiìTOBello  II   monre-vlese 

Gerardo  Baccheb  Lao  Giumuara 

Fernando  Ferri  La  caporalessa 

Domenico  Cirillo  La  monaca 

Ettore  Carata,  conte  di  Rirvo  Zizzella 

Eleonora   Fonseca   Pimentel  Donna  Lucia,   levatrice 

Donna   Giulia   Cabala    duchessa    di  II  canonico  Puon 

Cassano  Un   uffiziale 

Donna   Mariantonia  Carata   dudiessa  Un  brigadiere 

di  Popoli  Un  guardiano  del  carcere 

Il  generale  Manthonè  Guardie,    soldati,    marinai,    gentiluo- 
Bruto,   lacchè  mini,   dame. 

A  Napoli  nel  1799  e  a  Palermo  nel  1800. 


ATTO    PRIMO 

n  giardino  del  palazzo  SanfeUce.  In  fondo  si  leva  un  lato  del  palazzo;  a 
sinistra  fra  gli  alberi  s'intravede^  dietro  un'inferriata,  la  via.  L'Abate  Alto- 
beUo,   adagiato  in  un  sedile  di  ferro,   a  destra,   legge  un  giornale. 


SGENA  PRIMA. 

L'Altobello 
[chiamando] 

Cittadino  lacchè! 

Bruto 
[venendo  dal  fondo) 

Pronto!  —  E  ardirei 
Anco  pregarvi,  se  non  v'increscesse, 
Di  chiamarmi  col  nome  che  mi  danno 
Gli  altri. 

L'Altobello. 

E  sarebbe?... 


la  sanfelice 

Bruto. 

Cittadino  Bruto. 

L^Altobello. 
Ah!  tu  ti  chiami  Bruto? 

Bruto. 

Ecco:  il  mio  nome 
Veramente  era  quello  di  Nicola; 
Ma  da  quel  giorno  che,  fatto  uomo  libero, 
Proclamai  la  Repubblica  sul  La,rgo 
Di  Palazzo  Reale,  non  mi  volli 
Chiamar  che  Bruto. 

L'Altobello. 

E  il  nome  ti  sta  bene 
Come  la  forca  aJ  ladro.  Cittadino 
Bruto,  da'  retta  dunque.  Appena  avrai 
Introdotto  qui  uno  che  fra  poco 
Verrà...  {S'ode  sonare  al  cancello) 

Lo  senti?  è  proprio  lui  che  suona. 
Va'  dal  padre  Lorenzo  a  Piedigrotta... 

Bruto. 

Quel  sanfedista? 

L'Altobello. 

Non  temere:  in  breve 
Lo  serviremo:  scilp.T.  {Fa  il  gesto  di  mozzare  il  capo) 

E  gli  dirai 
Da  parte  mia  questo  strambotto  arcano: 
—  A  dieci  ore  la  zoppa  è  a  mezza  via  — . 
Inteso? 

Bruto. 
Vado. 

L'Altobello. 

E  fa'  le  cose  in  modo 
Non  troppo  bruto,  cittadino  Bruto! 

Bruto 
{fra  sé) 

Bella  fraternità,  questo  ritaglio 
Di  prete!  {Va  ad  aprire  il  cancello) 
Avanti,  cittadino!  {Esce). 

SCENA  II. 
L'Altobello  e  Fernando  Ferrl 

Il  Ferri. 

Solo? 


la  sanfelice 

L'Altobello. 
Come  vedete. 

Il  Ferri. 

La  notizia  ancóra 
Non  v'è  giunta? 

L'Altobello. 
No:  quale? 

Il  Ferri. 

Il  re  fellone 
È  sbarcato  in  Calabria  con  ottanta 
Mila  soldati. 

•  L'Altobello. 
Bene.  {S'odono  spari  di  moschetto). 

-         Il  Ferri. 
Udite? 

L'Altobello. 

Colpi 
Di  moschetto,  mi  sembra. 

Il  Ferri. 

La  marmaglia 
Che  rialza  la  cresta  e  tira  addosso 
Ai  cittadini  inermi. 

L'Altobello. 

O  che  ne  dice 

Il  generale  Manthonè  co'  suoi 
Patetici  colleghi  del  Governo 
Provvisorio? 

Il  Ferri. 

Ah  che  farsa!  Fondar  una 
Repubblica  di  donne  e  di  poeti! 
Fare  della  politica  per  uso 
De'  pastori  d'Arcadia!  Infagottare 
La  libertà  nel  guardinfante  e  innanzi 
Menarla  tutta  nastri  e  tutta  fiocchi 
A  strisciare  gl'inchini  con  un  ramo 
D'olivo  in  pugno!  La  Rivoluzione 
Col  volto  umiliato  nel  cappuccio 
E  il  cilizio  su'  lombi,  oh,  oh!... 

L'Altobello. 

Beati 
I  mansueti,  è  scritto  nel  Vangelo. 


la  sanfelice 

Il  Ferri. 
E  gli  effetti  si  vedono!...  Ma  quando 
Avessimo  ogni  dì  mozzato  il  capo 
A  un  centinaio  di  nemici  della 
Repubblica,  ora.  il  re  de'  lazzaroni 
Non  penserebbe  di  tornare,  e  i  suoi 
Segugi  non  darebbero  la  caccia 
Ai  patrioti!  {S'odono  altri  spari). 

Udite?  Avrà  paura 
Donna  Luisa? 

L'Altobello. 

fi  uscita  stamattina 
A  buon'ora. 

Il  Ferri.    . 

Imiprudente!  Qualche  nuova 
Debolezza  di  cuore? 

L'Altobello. 

Eh  no!  per  quello 
Ci  son  qua  io,  che  vigilo.  Sapete 
Gh©  il  cavalier  Sanfelioe  mii  ci  ha 
Mésso  apposta. 

Il  Ferri. 

Sicuro!  e  non  le  dee 
Garbar  troppo  l'idea  di  ritornare 
Nel  monastero  di  Montecorvino. 

L'Altobello. 
La  bella  amica  nostra,  con  quel  suo 
Fare  allegro,  un  po'  frivolo,  direi... 
Scandaloso  talora,  ha  in  serbo  poi 
Tesori  di  virtù  che  le  biscia 
Spendere  in  tutt'i  modi.  Ora  s'è  vòlta 
A  rubare  il  mestiere  alle  zitelle 
Di  carità  :  gira  di  casa  in  casa 
Questuando  ogni  giorno  per  i  bimbi 
Straccioni,  a  cui  fu  spento  il  padre  in  guerra, 
E  va  per  le  corsie  di^li  ospedali 
Medicando  gli  eroi  della  casata 
Di  Pulcinella. 

Il  Ferri. 

Come  siete  sempre 
Amaro,  voi!  Per  me  trovo  sublime 
Questo  che  dite. 

L'Altobello. 

Ah  si?...  Gusti!  Che  fajci? 
lo  non  sono  un  filantropo.  Non  chiedo 
Alleanze.  Vo  solo,  come  i  cani 
Di  notte. 


la  sanfelice  7 

Il  Ferri. 
Siete  un  vero  enigma. 

L'Altobello. 

Un  uomo. 
Solo  chi  è  solo,  è  libero. 

Il  Ferri. 

Ma  pure 
Servile  la  Repubblica! 

L'Altobello. 

Sì:   dico 
Bene;  perchè  consente  d'andar  soli 
Ai  cani.  —  E  quando  avrete,  uomo  felice. 
La  congiuntura  d'abboccarvi  al  prode 
Manthonè? 

Il  Ferri. 
Questa  sera. 

L'Altobello. 

Gli  direte, 
Via,  che  si  rassicuri.  È  una  fandonia 
Lo  sbarco  di  Nasone. 

Il  Ferri. 

Eh?  ma  di  dove 
Lo  sapete? 

L'Altobello. 

Di  dove  io  so  le  cose! 
Fate  celia?  Per  altro,  ditegli  anco 
Che  tenga  aperti  gli  occhi,  perchè  in  aria 
Vedo  del  nero. 

{S'ode  'un  colpo  di  moschetto  e  itn  rumore  di  spade  cozzanti) 

Il  Ferri. 
Che  accade? 


SGENA  III. 

{Luisa  San/elice  entra  a  precipizifi  tutta  sbiancata  e  tremante; 
poi  Gerardo  Baccher  e  r  Alto  bello;  il  Ferri). 

Luisa. 

Salvatelo! 
Salvatelo! 

{L'abate  Altobello  esce  da  sinistra). 


LA   SANFELICE 

Gerardo  {di  dentro). 

Briganti,  indietro!  Sono 
Il  capitano  Baccherl 

Voci  di  dentro. 

Non  è  vero! 
Muoja.la  giacobina!... 

{Entra  Gerardo,  accompagrnato  dalV abate  Altobello). 

Gerardo  {a  Luisa,  con  ansietà) 

Come  state, 
Signora? 

Luisa. 

Un  poco  meglio,  adesso  :  grazie! 
E  voi? 

Gerardo. 
Non  90...  mi  sento  qui,  nel  braccio... 

Luisa. 
Ma  c'è  sangue!...  Lasciatemi  vedere. 
{Fa  sedere  Gerardo,  e  gli  rivolta  la  manica  della  giubba). 
Una  ferita!... 

L'Altobpllo.- 
Di  coltello. 

Luisa. 

Oh  Dio!... 
Sarà  pericolosa?... 

L' Altobello  {con  ironia). 

No...  per  lui 
Punto. 

Gerardo  {brusco). 
Che  vuol  dir  ciò? 

L'Altobello. 

Bel  capitano, 
Non  v'agitate:  e'  vi  può  riuscire 
Fatale  alla  complessione. 

Voci  lontane. 

Muoja 
La  giacobina! 

Il  Ferri  {air Altobello). 

Sono  andati,  e  corro 
Anch  10  dal  generale.  ',4  Luisa)  Cittadina, 
Abbiatevi  riguardo! 


la  sanfelice 

Luisa. 

Arrivederci, 
Cittadino!  {Fernando  Ferri  esce). 

Un  po'  d'acqua,  abate,  presto! 

{L'abate  Alto  bello  esce). 

SCENA  IV. 
Luisa  e  Gerardo. 

Luisa. 

Eh    signorino!...  vedete  a  che  rischi 
Voi  m'esponete  con  la  vostra  folle 
Inconsideratezza? 

Gerardo. 

Io  v'amo,  io  v'amo, 
Luisa.  Che  mi  fanno  i  rischi,  mentre 
Vi  guardo?  Come  siete  bella!  Come 
Siete  bionda!  Il  mio  sole!  Anche  lontano 
Da  voi,  mi  basta  chiuder  gli  occhi,  e  vedo 
Sempre  la  luce  sfolgorante  della 
Vostra  capigliatura! 

Luisa. 

Un  bell'effetto 
A  voi  fanno  i  salassi!  Avete  inteso 
L'abate?  Calma,  calma!... 

Gerardo. 

No,  vi  prego. 
Non  ridete  di  me,  Luisa!  Soffro 
Già  tanto  della  vostra  indifferenza 
Distratta!...  Dunque  non  vi  dice  nulla 
Questa  mia  passione  furibonda 
E  triste,  di  cui  muoio?  Invano  dunque 
L'anima  mia  si  gitta  incontro  a  voi 
Delirando  e    pregando?  Né  anco  una 
Parola  buona?... 

Luisa. 

Ah  seguitate?  E  io 
Vi  pianto  lì  con  la  ferita  aperta 
E  ne  lascio  spicciare  tutto  il  sangue 
Insidioso... 

{Gerardo  fa  Vatto  di  svincolarsi) 

Ah  no!...  che  fate?...  Via, 
Capitano!...  Ma  guarda  che  fanciullo 
Dispettosaccio!...  Non  vi  voglio  bene, 
Punto!  Lesto,  ridatemi  quel  polso!... 

Gerardo  {ridistendendo  il  braccio) 
Dolce  tiranna  mia! 


10  la  sanfelice 

Luisa. 

BravoI  lai  quale 
Gosne  ne'  melodrammi  dell'abate 
Metastasio.  A  proposito!  O  quell'altro 
Abate  dove  s'è  cacciato? 
(Chiamando) 

Abate! 


SCENA  V. 

L'Abate  Altobello,  Gerardo  e  Luisa. 

L'Altobello  {ambiguo). 
Posso?... 

Luisa. 
Non  faite  l'impostore!  L'acqua! 

{Lava  la  ferita  di  Gerardo,  e  la  fascia  con  le  bende  che  cava 
dalla  sua  borsa). 

L'Altobello.  ^ 

Si  saprà  dunque  cos'è  stato,  adesso 

Che,  grazie  a  Dio,  non  c'è  più  alcun  timore 

Di  lutti?... 

Luisa. 

Non  me  ne  parlate  !  Anche  una 
Delle  mie  scapataggini.  Discesa 
Dall'Ospedale  del  Gesù,  passavo 
Per  via  Medina,  quando,  non  so  come. 
Cacciando  il  capo  fuor  dello  sportello 
Della  vettura,  scorg:o  due  soldati 
Francesi  tolti  in  mezzo  da  una  squadra 
Di  nove  camiciotti.  Fo  fermare, 
E  attendo,  trepidante.  I  miei  due  prodi 
Si  giiatano  da  tomo,  e  senza  indugio 
Sguainate  le  sciabole,  si  danno 
A  mulinarle,  indietreggiando  a  poco 
A  poco  fino  al  muro.  Il  balenìo 
Si  fa  più  rado;  i  camiciotti  a  gara 
Si  lanciano  gridando;  ma  i  Francesi 
Volgon  le  punte  ipdù  ratte  del  lampo, 
E  ne  stendono  tre  sul  marciapiede. 
I  nemici  indietreggiano,  si  guardano 
Irresoluti,  non  fanno  più  a  tempo 
Di  tornare  all'assalto;  e  come  i  due 
Son  loro  a  dosso  tempestando,  quelli 
Si  sbandano.  Io  non  posso  più  tenermi, 
E  mezza  fuor  dello  sportello,  batto 
Le  mani  a'  miei  due  valorosi.  I  quali 
Si  volgono,  sorridono,  e  mi  fanno 
Col  cenno  della  sciabola  un  saluto 
Degno  d'andare  a  una  generalessa. 


la  sanfelice  11 

L'Altobello. 
Fin  qui  le  rose. 

Luisa. 

Già!  La  mia  vettura 
Riprende  a  andare  verso  casa,  quando 
A  cento  passi  di  quivi,  odo  intomo 
Brusìo  di  voci,  e  scorgo  uno  di  quei 
Camiciotti  seguito  da  un  codazzo 
Di  lazzaroni,  che  gridando:  —  Muoja 
La  giacobina  —  mi  serran  la  strada. 

—  Frusta,  cocchiere!  —  La  carrozza  piglia 
Il  galoppo,  odo  crepitare  i  colpi 

De'  moschetti,  slam  giunti  a  casa.  E  q'uelli 

Dietro  noi,  sbraitando.  Come  fare 

Per  discendere?...  A  un  tratto  si  spalanca 

Lo  sportello,  mi  volgo  esterrefatta, 

E  vedo...  vedo  il  nostro  uffiziale, 

Un  po'  bianco,  a  dir  vero,  che  mi  grida: 

—  Presto!  scendete!  presto!  —  In  fatti,  mentre 
Chei  con  la  spada  sguainata  armeggia 
Tenendo  testa  a'  miei  nemici,  solo, 

Io  balzo  in  terra,  apro,  entro,  son  salva! 
{Ridendo). 

La  giacobina  che  deve  la  vita 
A  un  capitano  realista:  il  bello 
Questo  è!... 

Gerardo. 

Via!  via!  Voi  siete  giacobina 
Signora  mia,  perchè  ora  è  di  moda. 
Donna  Giulia  Carafa  e  la  sorella 
Pòpoli  han  dato  l'esempio,  e  già  tutte 
Fanno  lo  stesso.  Grilli  di  vezzose 
Sfaccendate,  nonpiìi.  Ma  un  gentiluomo 
Difende  sempre  una  dama,  e  per  fare 
Che  faccia  il  vostro  Ghanupionnet  col  suo 
Esercito  di  ladri  e  di  pezzenti. 
Non  riuscirà  certo  a  cambiar  mai 
Un  gentiluomo  in  un  persecutore 
Di  donne.  Queste  son  prodezze  degne 
Unicamente  di  quel  pio,  gentile. 
Cavalleresco  popolo  di  Francia, 
Che  osò  iportare  la  mano  ribalda 
Su  la  più  santa  e  su  la  più  infelice 
Delle  regine' 

L'Altobello  {a  Litica). 

Eh,  che  ne  dite?  Un  vero 
Campione  da  Tavola  Rotonda! 

Luisa. 
Ah  no,  njo,  no!...  Se  comiiwiate  adesso 


12  LA  SANFEUCE 

A  altercar  di  politica,  v'avverto 
Che  me  la  svigno. 

Gerardo. 

Non  abbiate  alcuna 
Paura,  cittadina:  non  ragiono 
Di  politica  mai  né  con  le  dame, 
Né  con  le  spie. 

Luisa. 
Le  spie?... 

Gerardo. 

Sì  :  voi,  so  bene, 
Non  mi  potete  intendere  :  l'abate 
Invece,  qui,  eh 'è  un  sapiente... 

L'Altobello. 

Ha  inteso 
A  meraviglia.  Anzi,  donna  Luisa, 
Vi  pregherei  che  ci  Lasciaste  un  poco 
Soli:  ho  bisogno  di  chiedere  qualche 
Chiarimento  a  quest'uomo  di  Plutarco. 

Luisa. 

Sia;  ma  non  divoratevi  l'un  l'altro, 

Ve  ne  scongiuro  :  avrei  perduto  a  un  tempo 

La  spada  e  il  pastorale...  {Corre  in  casa  ridendo). 


SCENA  VI. 
Gerardo  e  Z'Altobello. 

L'Altobello. 

Impetuoso 
Armigero,  s'è'  non  m'annebbia  i  sensi 
Un  po'  d'orgoglio,  è  questa  la  seconda 
Volta  che  piace  a  voi  di  provocarmi 
Coranupopulo.  A  me,  proprio,  per  dire 
La  verità,  non  me  n'importerebbe' 
Nulla;  ma  il  mondo  è  pieno  d'innocenti 
A  cui  potrebbe  fare  impressione 
La  vostra  accusa.  E  io  non  voglio  ancóra 
Disgustarmi  col  mondo. 

Gerardo. 

Ah  convenite, 
Però,  eh 'è  vera  la  coea! 

L'Altobello. 

Cospettol 
E  me  ne  vanto.  Che  gusto  c'era  ^li 
A  tosare  le  carte? 


la  sanfelice  13 

Gerardo. 

Eravate  anche 
Baro? 

L'Altobello. 

Così,  per  passatempo.  Quando 
Regnava  il  nostro  buon  re  Ferdinando, 
Avevam  fatto  una  lega  di  sei 
Amici,  tutti  della  stessa  risma, 
E  si  smungea  balordon  balordoni 
Le  scarselle  dei  gonzi.  Ora  codesto 
È  un  mestiere  fallito.  Già,  persino 
Il  pio  re,  dicono,  avea  quel  viziaccio 
Birbone. 

Gerardo. 
Infamie! 

L'Altobello. 

E  vi  guastaste  il  sangue 
Per  così  poco?  Sicché,  ipensai  bene 
Di  darmi  alla  politica,  ch'è  arte 
Da  perdiglomi,  si  sa.  Fiuto,  indago, 
V^lio,  sto  sempre  a  orecchi  tési,  e  via! 
Qualche  servigio  l'ho  reso  alla  buona 
Causa.  . 

Gerardo. 

Mentite!  voi  mentite  sempre! 
Del  resto,  ciò  non  mi  rileva.  Io  v'odio! 
V'ho  sempre  odiato,  sì! 

L'Altobello. 

Prima  di   tutto 
È  raro  chio  mentisca.  E  in  ogni  caso, 
Non  lo  farei  col  figliuolo  d'un  mio 
Vecchio  collega... 

Gerardo. 
Che  c'entra  mio  padre? 

L'Altobello. 

Già,  vostro  padre  —  degno  uomo!  —  era  uno 
Di  que'  sei  sozii... 

Gerardo. 

Ah  miserabile!  osi 
Sputare  la  tua  bava?... 

L'Altobello. 

Eh,  no!  perdóno! 
Ho  le  prove  io,  se  le  volete... 


14  la  sanfelice 

Gerardo. 

Taci! 
Non  voglio  nulla,  e  non  ti  credo.  T'odio! 
E  s'anco  ciò  che  affermi  fosse  vero, 
Al  doppio  t'odierei. 

L'Altobello. 

Ciò  non  ostante, 
Avete  torto.  È  un  gran  pezzo  oramai 
Che  più  non  amo  quella  donna,  e  anzi 
M'è  cascata  di  collo.  Sì,  m'avea 
Stregato...  Eh!...  eh!...  Gli  è  questo  che  vi  cuoce, 
Nevvero?...  E  avevo  accettato  con  gioia 
Dal  cavalier  Sanfelice  l'impegno 
Di  salvar  la  virtù  della  sua  casta 
Mogliera.  Invece,  fiasco!  Eh  no,  né  anche 
L'ira:   il  motteggio!  Le  due  volte  o  tre 
Che  le  accennai  la  disperata  mia 
Voglia,  colei  m'accolse  con  un  tale 
Scampanellìo  di  spensierate  risa. 
Ch'io  rimasi  più  sciocco  di  quel  gatto 
Che  andato  ad  aggraffare  il  pappa,gallo, 
Gli  sentì  fare:  gnau! 

Gerardo. 

Bisogno  ho  forse 
D'altro,  per  esser  certo,  non  ostante 
La  vostra  goffa  malizia,  che  anc'oggi 
Continuate  a  maturare  il  turpe 
Divi  samento? 

L'Altobello 

{scoppiando  in  una  risata) 

Ah!  siete  un  furbo,  voi! 
Non  vi  si  può  accoccarvela.  Che  birba! 
M'arrendo.   È   vero:    l'amo  ancóra. 


Gerardo 
{con  impeto) 


L'amo 


Anch'io! 


L'Altobello. 

Ma  se  lo  so!...  sgallinatore 
Di  pollai.  Già,  se  ne  avvedrebbero  anche 
Le  tope  cieche.  Ora  pensate  dunque 
Che  pacione  son  io!  La  lascio  andare 
Sola,  perchè  v'incontri  in  qualche  luogo; 
Chiudo  un  occhio,  se  voi  l'accompagnate 
Pino  a  casa;  mi  bevo  in  santa  pace 
Tutte  le  vostre  frottole,  che  sono 
Da  far  dormire  a  veglia...  Eh?...  dite  poi 


LA   SANFELICE  16 

Che  non  vi  sono  amico!...  È  anche  giusto 
Aggiungere  che,  me,  mi  può  soffrire 
Quanto  il  fumo  negli  occhi. 

Gerardo. 

Oh  ne  son  bene 
Persuaso! 

L'Altobello.  .> 

Ah,  ne  siete  persuaso 
Proprio?  Elppure,  vedete,  non  si  può 
Dir  nulla  mai  di  positivo  circa 
Quello  che  accade  fra  un  uomo  e  una  donna, 
I  quali  —  a  questo  pensate!...  —  da  un  mese 
Dormono  sotto  il   medesimo  tetto, 
0  quasi. 

Gerardo. 

Che?...  vorreste  forse  farmi 
Dubitare  di  lei?  S'anche  con  questi 
Occhi  miei  la  vedessi,  ebbene... 

L'Altobello. 

Ebbene?... 

Gerardo. 

Direi  che  sono  un  pazzo,  come  dico 
Ora  che  voi  siete  un  furfante.  Pure 
Io  non  debbo  lasciarla  alla  balìa 
D'un  pari  vostro,  una  così  soave 
E  delicata  creatura.  Dunque 
Vi  comando,   intendete?  vi  comando 
D'uscir  da  questa  casa  entro,  al  più  tardi... 
Due  settimane...  il  tempo  d'avvisarne 
Quel  marito  balordo. 

L'Altobello. 

E...  piano  un  poco! 
Con  che  diritto,  s'è  lecito,  voi 
Mi  comandate,  fervido  Amadigi? 

Gerardo 
{con  voce  bassa  e  vibrante) 

Voi  non  fate  la  spia  solo  per  conto 
Nostro,  ma  anche  per  conto  de'  nostri 
Nemici. .  Che  cieca  opera  d'inferno 
Tramiate  ne'  chiusi  penetrali 
Della  vostra  coscienza,  non  riesco 
A  intendere;  ma  so  questo:  che  devo 
Schiacciarvi,-  e  lo  farò. 

L'Altobello. 

Denunziando 
Al  generale  Manthonè  le  mie 
Benemerenze  realiste? 


16  la  sanfelice 

Gerardo. 

O  anche 
Al  re,  quand'egli  ri  tomi,  le  vostre 
Repubblicane  macchinazioni, 
'     Traditore! 

L'Altobello. 

Così,  bel  cicisbeo, 
Libeftilmente  voi  lasciate  al  mio 
Genio  la  scelta  tra  la  vecchia  forca 
Di  casa  e  la  novella  ghigliottina 
Alla  moda  di  Francia.  Ecco,  per  ora 
Non  mi  saprei  risolvere;  ma  certo 
Ci  penserò,  compare.  Oh!  non  è  ch'io 
Tenga  molto  alla  vita,  una  facezia 
Triste  di  chi  sa  quale  saltimbanco 
Invisibile:   solo  vorrei  fare 
Quel  tal  salto  nel  nulla  il  giorno  e  l'ora 
Destinati  da  me,  da  mei  con  tutto 
Agio,  a  mio  modo,  e  senza  spettatori 
Fastidiosi. 

Gerardo. 

Prendete  le  vostre 
Misure,  dunque! 

L'Altobello. 

Il  consiglio  è  superfluo, 
Fratello! 

Gerardo. 

Arrivederci! 

L'Altobello. 

Ah,  dico  bene! 
Non  togliete  commiiato  dalla  bella 
Beneficata? 

{Chiamando)  Ohe!  donna  Luisa!. 
Luisa!... 

SCENA  VII. 
Luisa,  L'Altobello  e  Gerardo. 

Luisa. 
Vengo!  Eccomi.  Avete  poi 
Fatto  la  pace? 

L'Altobello. 

Siam  legati  come 
Il  paziente  e  l'aguzzino. 

Gerardo 
{baciando  la  mano  a  Luisa) 

Addio, 

Signora! 


LA  SANFELICE  IT 


Luisa. 

E  grazie,  capitano!   Senza 
Di  voi,  passavo  un  brutto  quarto  d'ora, 
Ogg-i.  Verrete  a  ritrovarmi  presto? 

Gerardo. 
Domani,  se  v'aggrada. 

Luisa 
{con  malizia) 

Sì,  ma  voglio 
Rivedervi  guarito. 

Gerardo. 
[con  dolore) 

Oh!... 


(Esce), 


SGENA  Vin. 
Luisa  e  L'Altobello. 

L'Altobello. 

Il  capitano 
È  intraprendente,  credo. 

Luisa. 
{con  gaia  ironia). 

Ah,  sì?... 

L'Altobello. 

Ma  voi 
Gli  avete  dato  il  suo  dovere. 

Luisa. 

Avete 
Visto?  Schemi,  rabbuffi,  la  minaccia 
Di  piantarlo  lì  solo,  la  presenza 
Vostra  chiesta  nel  meglio...  Eh?  si  poteva 
Mostarsi  piìi  intrattabile?... 
{Scoppiando  in  una  risata) 

Mio  caro 
Abate,  proprio  non  ne  indovinate 
Una! 
{Con  passione) 

L'amo! 

L'Altobello. 
{enigmatico) 

Oh,  oh!...  Meglio!...  meglio!...  meglio!... 

CALA  LA  TELA. 

(Continua).  G.  A.  CESAREO. 

(Proprietà  letteraria:    tutti  i  diritti  riservati). 
2  Voi.  CCXVI,  serie  VI  —  !•  gennaio  19». 


I^ICORDANZE  E  AUGURII  D'UN  VECCHIO  INSEGNANTE 


Risalire  dai  tardi  tramonti  dellia  vita  verso  l'operoso  meriggio, 
•e  di  quelli  restituirmi  alle  ore  liete  nelle  quali  l'educazione  dei  gio- 
vani al  pensiero  e  al  sentimento,  ai  segreti  della  bellezza  e  alla  evi- 
denza del  vero,  alla  fede  negli  alti  ideali  e  al  santo  amor  della  patria, 
mi  era  come  una  gioventù  dell'animo,  che  non  doveva  quella,  grazie 
a  Dio,  conoscer  vecchiezza;  questo  tornare,  questo  restituirmi,  questo 
ringiovanire,  è  per  me  oggi,  o  Golleghi  e  Studenti  del  nostro  Liceo 
Dante,  l'attenimento  della  promessa  che  avete  voluta  da  me,  d'inau- 
gurare pel  nuovo  anno  scolastico  le  lezioni  di  questo  fra  i  Licei  di 
Firenze  l'anziano,  io  uno  dei  pochi  sopravvissuti  ai  suoi  insegnanti 
di  mezzo  secolo  fa.  La  provvida  intitolazione  dei  Licei  italiani  dal 
nome  dei  maggiori  fra  i  nostri  Grandi,  non  poteva  in  Firenze  at- 
tuarsi, innanzi  ad  ogni  altro  nome,  che  in  quello  di  "Dante;  sì  perchè 
Dante  e  Firenze  sono  unisonanza  gloriosa,  si  perchè  eran  quelli  gli 
anni  nei  quali  il  Secentenario  natalizio  del  Poeta  fiorentino  d'Italia 
veniva  conclamato  siccome  un  suggello  dell'unità  nazionale  animo- 
samente conquistata.  Ed  è  oggi  non  sine  diis,  dicevano  i  padri  nostri 
romani;  noi  cristianamente,  è  provvidenziale;  che  quel  nome  si  riaf- 
fermi in  questa  nuova  sede  del  nostro  Liceo,  e  il  vessillo  in  cui  il 
nome  di  Dante  allora  fu  scritto  spieghi  alteramente  qui  il  suo  tri- 
colore, oggi  nel  Secentenario  della  morte  di  lui,  o  veramente  del- 
l'inizio della  soia  immortalità,  oggi  che  la  patria  italiana,  con  le 
a,rmi  al  piede  vittoriose  per  la  legittima  integrazione,  fa  a  questa 
schermo  delle  Alpi  sacre,  e  rivendica  sul- mare  di  San  Marco  quel 
più  de'  suoi  diritti  imprescrittibili  che  le  è  oggi  commisurato  dai 
raziocinatori  del  destino  delle  nazioni. 

Da  allora  a  oggi  l'Italia  ha  proceduto  per  la  sua  via  con  avanza- 
menti che  farebbero  maravigliare  chi  non  credesse  di  ferma  fede 
nei  finali  trionfi  che  alle  giuste  cause  segna  infallibile  la  mano  di 
Dio.  Né,  del  resto,  può  sembrar  troppo  rapido  il  costituirsi  dell'Italia, 
in  poco  più  che  mezzo  secolo,  e  afforzarsi  a  nazione,  se  pensiamo 
essere  stati  interi  secoli  di  errori  e  colpe  nostre  e  abbominio  di  vio- 
lenze straniere,  quelli  lungo  i  quali  il  disgregamento  della  nostra 
potenziale  unità  fu  perpetrato;  enormità  dii  mali,  ai  quali  il  rimedio 
conveniva  esser  violento  o  non  esser  mai;  e  se  pensiamo  altresì  che 
del  decimonono,  del  secolo  di  rivendicazione,  la  seconda  metà  ha 
potuto  naccogliere  a  man  sicura  la  messe  del  seminato  negli  ante- 

NoTA.  —  Inaugurandosi  l'anno  scolastico  nel  R.  Liceo  Dante  di  Firenae 
il  di  8  novembre  1931. 


RICORDANZE  E  AUGURII  D'UN  VECCHIO   INSEGNANTE  19 

cedenti  decennii.  Fin  da  quando  lo  Spielberg  ingoiava  nelle  sue 
tane  Pellico  e  Ck>nfalonieri;  e  Sant-arosa,  non  potendo  per  l'Italia, 
combatteva  e  moriva  per  la  libertà  della  Grecia;  e  a  Cosenza  cade- 
vano fucilati  i  Bandiera;  e  dalle  forche  di  Belfiore  scendeva  sui 
compagni  di  supplizio  la  benedizione  di  Tazzoli  sconsacrato;  l'Italia 
si  affermava  in  un  avvenire  irresistibile  e  imminente.  Quelli  furono 
i  confessori  e  i  martiri  della  religione  della  patria.  Li  accompagna- 
vano e  li  susseguirono  i  v^g-enti  dalle  alture  del  pensiero;  Mazzini, 
Gioberti.  Con  la  prima  guerra  d'indipendenza,  a  mezzo  il  secolo, 
tra  il  fremito  delle  rivoluzioni  popolari,  sorgono  duci  e  affidatori 
gli  statisti  del  nuovo  diritto;  Cavour:  i  campioni,  gli  eroi,  dèlie  sante 
battaglie;  Vittorio  Emanuele,  Garibaldi.  E  si  fa  l'Italia.  L'Italia  oggi 
integrata;  se  non  quanta  e  quale  si  sarebbe  dovuto  e  potuto  fare  che 
fosse,  tale  tuttavia,  che,  nel  tristo  non  ancor  debellato  mondo  della 
forza  e  del  sofisma,  nessuno  può  dissimulare  la  valida  esistenza  di 
lei,  e  tutti  devono  riconoscerne,  sia  pure  a  loro  malgrado,  sia  pure 
per  combatterle,  le  rinfrancate  enei^ie;  né  dalla  collaborazione  del- 
l'umana civiltà  potrebbe  essa  ritrarsi,  senza  venir  meno  all'esercizio 
de'  suoi  diritti,  che  è  anche  adempimento  d'immanenti  doveri  e  as- 
serzione essenziale  di  vita. 

A  tale  collaborazione  si  preparava  sin  d'allora  la  scuola;  dico  la 
scuola  che  oggi,  dismesse  le  esotiche  pappagallesche  classificazioni 
di  Primaria  e  Secondaria,  designamo  con  l'appropriata  sua  grada- 
zione di  Media,  e  nella  quale  consiste  il  forte  della  cultura  dei  più, 
o  diciam  m^lio  il  necessario  alla  cultura  di  tutti.  Da  allora,  — 
quando  anch'essa  la  scuola  media  si  proclamava,  nel  battesimo  dei 
grandi  nomi  italiani,  italiana,  —  sino  a  oggi,  è  stato  dell'Italia 
nostra  tutto  un  ricercare  sé  stessa  nelle  sue  tradizioni  di  cultura,  e 
un  cimentare  le  migliori  sue  attitudini  ad  essere,  anche  per  la  cul- 
tura, l'Italia  dei  nuovi  tempi.  E  non  oseremo  dire  che  tali  ricerche 
e  tali  esperienze  abbiano  sempre  battuto  le  vie  meglio  conducenti 
allo  scopo.  Ma  nemmeno  potrebbe  affermarsi  che  da  questo  lavorìo 
intellettuale  non  sia  uscito  molto  di  bene  nel  campo  della  scuola, 
dischiusa  oggi  all'azione  di  forze  che  un  tempo  essa  ignorava,  o  non 
degnava,  o  aveva  in  sospetto.  Vero  è  che  dietro  le  dubbietà  di  codeste 
ricerche  e  nel  cimento  di  coteste  esperienze,  —  troppo  spesso  e  corri- 
vamente istituite  a  cieca  imitazione  delle  altre  nazioni,  delle  quali  le 
inique  alternate  servitù  ci  avevano  avvezzati  ad  ammettere  senz'altro 
la  superiorità,  —  si  venne  detraendo  non  jxxx)  alle  virtù  di  quella 
istintiva  e  geniale  apprensione,  a  noi  latini  italici  meglio  che  ad  altre 
genti  connaturata,  che  gli  antichi  metodi  secondavano  con  efficacia, 
forse  inconsapevole,  ma  non  per  questo  meno  feconda  di  resultati: 
i  quali  erano  che,  più  largamente  esercitata  la  facoltà  della  memoria 
e  meno  quella  del  raziocinio;  chiedendosi  alla  scuola  media  men  di 
pramanatico  e  più  di  educativo;  indugiate  a  superiori  studi  le  indi- 
screzioni della  critica;  l'impressione  dell'appreso  è  sentito  sui  libri 
rimanesse  più  profondamente  e  durevolmente  segnata  negli  animi; 
e  in  particolare  la  cultura  classica,  col  restituir  quasi  lingua  viva  e 
familiare  il  latino,  s'impersonasse,  dalla  scuola  nella  vita,  in  qiiella 
hurrmnitas  che  non  designava  soltanto  il  p>assaggio  dalla  gramma- 
tica allo  studio  interiore  delle  cose  e  della  loro  afBgurazione,  ma 
Accompagnava  poi  «  tra  la  polve  della  vita  e  il  suono»,  nell'esercizio 


20  RICORDANZE  E  AUGURU  D'UN   VECCHIO   INSEGNANTE 

delle  professioni  e  nelle  relazioni  sociali,  i  maturati  nella  scuola 
alla  realtà  del  civile  consorzio:  hwmamlas  verament;e,  nel  più  alto 
e  intimo  significato  di  questa  grande  parola.  Ora,  se  della  esperienza 
vogliam  fare  tesoro,  e  su  quella  assennarci  per  l'avv^enire,  noi  do- 
vremmo ai  metodi  antichi  riconoscere  quanto  di  vitale  essi  sapevano 
effettualmente  produrre,  proponendoci  bensì  di  governarne  razional- 
mente l'attuazione;  sfrondare  l'insegnamiento  da  quel  «  troppo  »  che 
si  risolve  nel  •«  vano  »  ;  porre  la  mira  non  tanto  agli  effetti  imme- 
diati del  meccanismo  programmatico,  quanto  a  ciò  che  l'insegna- 
mento sia  per  lasciare  dietro  di  sé;  ottenere,  Dio  volesse!,  che  l'igno- 
bile ossessione  dell'esser  promossi,  sia  sapendo  sia  non  sapendo, 
oj^da  negli  animi  giovanili  il  luogo  alla  coscienza  dell'avere  studiato 
per  sapere,  e  al  proposito  di  dovere  e  volere  essere  dalla  scuola  li- 
cenziati sapendo  :  dimodoché  l'imparato  in  essa  prema  di  conservar- 
selo, come  il  miglior  viatico  per  tutta  la  vita,  quali  che  siano  i  een- 
tieri  che  in  essa  si  aprano  alle  attitudini  e  alle  vocazioni  individuali. 
Ci  fu  tempo  che  era  così  :  tempo  non  tanto  lontano,  che  a  noi  vecchi 
non  sia  stato  in  cospetto.  Io  conservo  con  religione  i  Virgili  i  Cice- 
roni gli  Grazi,  postiÙati  di  sua  mano  giovanile  dal  babbo  mio;  i  quali 
egli,  dopo  adoperati  nella  scuola,  custodì  per  la  vita,  e  così  fecero 
parte  della  modesta  sua  biblioteca  di  medico.  Oggi  la  vertiginosa 
fornitura  dei  libri  di  testo,  che  annualmente  si  rinnova  ad  ogni  (come 
i  sagaci  editori  la  chiamano)  campagna  scolastica,  finisce,  alle  mani 
dei  più,  col  riversarsi,  sdirucita  e  logora,  sui  banchetti  girovaghi.  Ma 
quel  med'ico  (mi  si  consenta  oramai  d'indugiarmi  su  questo  pio  ri- 
cordo filiale),  quel  medico  conservatore  dei  cari  suoi  classici,  alla 
vita  onoratamente  consumata  nel  pratico  esercizio  dell'arte  sua,  potè 
e  volle  trarre  conforto,  nei  mesti  anni  della  vecchiezza,  dalia  lodata 
versione,  ohe  io  pubblicai  postuma,  dell'aureo  latino  di  Gelso  nel 
vivo  toscano  del  nostro  paese. 

Or  io  vorrei  che  degli  amici  cari  e  pregiati  i  quali  mi  furono 
Golleghii  nell'insegnare  in  quesfo  Liceo  ai  padri  vostri,  o  giovani  miei 
oggi  uditori,  di  que'  miei  carissimi  vorrei  si  ravvivasse  dalle  tombe 
lacrimate  la  voce,  e  non  pure  alla  mia  ma  a  quella  dei  due  colleghi 
meco  superstiti,  Marangoni  ed  Bcoher,  voci  di  scienza  e  di  patria, 
si  unisse,  in  un  conversevole  ricordo  dell'opera  che  qui  tutti  ci  ebbe 
congiunti,  sotto  gli  auspici!  di  quel  gran  nome,  nel  quale  in  qpie- 
st'anno  augurale  riconosce  sé  stessa  e  per  l'avvenire  si  afferma 
l'Italia.  Vorrei  che  Giuseppe  Rigutini,  uno  dei  venuti  su  coi  metodi 
antichi,  ma  umanista  che  la  familiarità  coi  classici  disposava  al  senso 
squisito  della  viva  toscanità,  e  l'arguto  giudizio  alla  spontanea  pro- 
prietà della  parola;  Carlo  Belviglieri,  nel  cui  insegnamento  efficace 
la  storia  era  visione  comprensiva  e  comparativa  di  fatti,  governata 
da  criterio  retto  e  sicuro;  Agenore  Gelli,  che  le  diramazioni  storiche 
della  sua  Firenze  sapeva,  con  sentimento  italiano,  rannestare  al 
ceppo  originale  della  unifìcatrice  storia  d'Italia;  Giacomo  BarzelloUi, 
il  filosofo  artista,  che  le  teorie  del  pensiero  animava  con  le  squisi- 
tezze del  sentimento,  e  di  là  dalle  formule  scolastiche  sospingeva 
gli  animi  all'apprensione  del  reale  esteriore  ed  intemo;  Francesco 
Merlo,  il  rigido  matematico  che  nei  classici  della  scienza  esatta  sot- 
toponeva a  peso  e  misura  anclie  i  tesori  della  lingua;  Tommaso  Del 
Beccajro,  nella  direzione  del  Liceo  Ginnasio  applicatore  cauto  e  sa^o- 


RICORDANZE  E   AUGURH  D'UN   VECCHIO  INSEGNANTE  21 

di  principi  basati  solidamente  sull'esperienza;  e  gli  altri  che  me  nel 
laiolo  degli  insegnanti  al  Dante  o  precedettero  o,  come  Raffaello  For- 
naciari,  sussegnirono;  il  Fornaciari,  al  quale  la  sua  Lucca  ha  tribu- 
tato appena  ieri  solenni  onoranze,  e  che  dairinsdgne  nome  paterno 
raccoglieva  e  ampliava  le  virtù  di  quel  purismo  che  il  sentire  d'aver 
noi  oltrepassato  non  ci  disobbliga  dal  riconoscerne  le  benemerenze 
verso  il  riscatto  della  italianità  dalle  imposizioni  straniere;  tutti  voi, 
che  o  nomino  espressamente  o  nel  segreto  del  mio  cuore  ricordo  (e 
vi  unisco  gli  efficaci  prei>aratori  dalle  classi  ginnasiali  alle  nostre), 
tutti  vorrei  poteste,  o  valenti  e  buoni,  evocati  raffacciarvi  oggi  in 
quest'aula,  e  al  vostro  Liceo  recare  dal  mondo  degli  spiriti  eletti, 
col  memore  saluto,  il  veggente  presagio,  che  istituzioni  sin  dal  prin- 
cipio vitali  di  vita  sana  e  durevole  chiedono  al  loro  passato  in  aflB- 
damento  del  loro  avvenire. 

Con  voi,  se  dato  ne  fosse,  rianderemmo  lungo  quelli  anni  i  nomi 
di  alunni,  in  cui  più  espressamente  vedevamo  non  fallirci  il  propo- 
sito e  la  speranza  che  l'opera  nostra  fruttificasse  a  bene.  Tacerò  di 
viventi;  taluno  dei  quali  il  maestro  ha  potuto  compiacersi  di  vedere 
in  uffici  onorati  aggiungerglisi  a  cooperazione  di  vita  e  di  studi.  Così 
in  questo  tacere  potessimo  comprendere,  e  che  da  noi  innanzi  tempo 
non  si  fosse  dif>artito,  Giuseppe  Rondoni!  del  cui  nome  il  Dante  a 
doppio  titolo  si  onora,  per  averlo  avuto,  quando  noi  insegnavamo, 
studente  dei  più  cari  e  pregiati,  e  poi  insegnante  lui  stesso  sin  quasi 
a  ièri  :  insegnante  che  alla  interpretazione  della  storia  vi  guidava,  o 
giovani,  con  dottrina  coscienziosa  avvivata  dall'entusiasmo  del  buono 
e  del  bello,  animata  da  un  alto  sentimento  di  civiltà  di  religione  di 
patria,  quasi  facendo  della  cattedra  un  apostolato;  nel  quale  la  espo- 
sizione era  già  un  ammaestrcimento,  e  i  criteri  a  giudicare  la  storia 
che  fu  addivenivano  una  scorta  fedele  e  amorevole  per  la  storia  che 
operiamo  e  viviamo. 

Ma  se  del  Rondoni  nostro  può  dirsi  aver  egli,  pur  non  riserbato 
a  vecchiezza,  adempiuto  onoratamente  il  corso  nella  vita  destina- 
togli, non  così  di  altri  pur  discepoli  nostri,  il  nome  dei  quali,  con- 
giunto alle  memorie  del  Liceo  Dante,  consacrava  già  da  molti  anni 
nel  mio  cuore  la  morte  immatura  :  ricordo  ed  imnmgine,  la  loro  e  dei 
condiscepoli  loro,  di  quella  convivenza  spirituale  che  fra  chi  precede 
amorevole  e  chi  docile  segue  rinnova  nella  scuola  i  benefìci  consensi 
e  le  cooperazioni  affettuose  della  famiglia.  Due  specialmente  di  tali, 
lasciatemeli  così  chiamare,  convissutimi  e  presto  dipartitisi,  si  raf- 
facciano  al  mio  pensiero:  Tommaso  Theocari.  Guido  Levi.  Il  Levi 
mancato  agli  studi  storici  e  alla  feconda  operosità  degli  Archivi  di 
Stato  nel  fior  dell'età  e  della  vigoria  intellettuale  :  l'altro,  il  Theocari, 
rumeno,  un  rimasto  ignoto,  perchè  morto  non  appena  terminati  gli 
studi  professionali  nel  Politecnico  di  Zurigo;  e  il  suo  nome,  al  bal- 
zarm.i  fuori  dalle  recenti  pagine  autobiografiche  d'uno  scomparso  di 
questi  giorni,  Piero  Barbèra  suo  compagno  di  pensione  scolastica, 
mi  ha  fatto  l'effetto  d'una  pallida  visione  emergente  dal  segreto  d'una 
tomba  ignorata.  Non  pK)tuto  approvare  quando  si  presentò  all'esame 
d'ammissione,  perchè  deficientissimo  nella  lingua  non  sua,  p>ochi 
mesi  dopo  aveva  saputo  così  largamente  riparare  a  tale  deficienza, 
da  potere,  alunno  esemplare  in  tutte  le  materie  del  corso,  acquistar 
poi  sì  della  lingua  e  sì  della  storia  d'Italia  tal  padronanza,  da  ci- 


22  RICORDANZE   E  AUGURI!  D'UN   VECCHIO   INSEGNANTE 

meritarsi  a  far  rivivere  e  dialog-aiPe,  in  un  italiano,  dite  pure,  d'in- 
dustria, personai^gi  d'altre  età:  esercizio  di  lingua,  di  riflessione 
storica,  d'immaginazione;  prosa  con  alito  di  creazione  poetica,  senza 
tortura  di  verseggiamenti  retorici;  al  quale  io  volentieri,  più  volen- 
tieri che  al  verseggiare,  cimentavo  gli  alunni  migliori.  E  cosi  erano 
evocati  a  dialogo,  una  volta  coetanei  di  Michelangelo  fuorusciti  in 
Roma  dopo  caduta  la  Repubblica,  un'altra  volta  giovani  milanesi  del 
Bel  mondo  pariniano,  in  occasione  di  quei  pubblici  saggi  di  studio, 
coi  quali  nel  marzo,  per  l'anniversario  della  proclamazione  del 
Regno,  era  prescritto  ai  Licei  proseguissero  il  culto  dei  grandi  nomi 
d'Italia,  leggendo  uno  degli  insegnanti  un  discorso  (oratore  nel  69 
su  Michelangiolo  il  Barzellotti,  io  nel  70  sul  Parini),  e  gli  alunni  re- 
cando in  pubblico  il  meglio  delle  loro  esercitazioni,  italiane  e  latine, 
in  prosa  ed  anche  in  verso,  attorno  a  quel  medesimo  tema.  Non  ram- 
niento  se  le  chiamassimo  Accademie;  anzi  mi  pare  che  questo  titolo 
fosse,  non  a  torto,  evitato  :  ma  è  tuttavia  lecito  domandare,  se  l'abo- 
lizione di  qualsivoglia  segno  di  vita  che  la  scuola  media,  cioè  la 
scuola  educatrice  anche  del  senso  della  bellezza,  dia  fuor  delle  pa- 
reti quotidiane,  e  sia  pure  con  qualche  ambizioncella  di  parata, 
quasi  come  un  po'  di  festivo  interposto  una  volta  tanto  ai  giorni  di 
lavoro,  se  tale  sistematica  abolizione  guadagni  tanto  all'accigliata 
severità  degli  studi,  da  compensare  lo  scapito  del  togliersi  agli  in- 
gegni giovanili  occasioni  ed  eccitamenti  a  manifestazioni  geniali, 
che  possono  essere,  almeno  un  tempo  erano,  impulso  e  inizio  allo 
svolgimento  di  potenze  d'arte  aspettanti  d'esser  prodotte  in  atto. 
Ad  una  di  quelle  scolastiche  solennità  (che  tali  veramente  finivano 
ad  essere)  avemmo  ascoltatore  venerando,  giudicatore  se  altro  mai 
autorevole,  Niccolò  Tommaseo  :  la  cui  benevolenza  verso  l'insegnante 
in  quel  giorno  oratore  si  traduceva  per  lettera  in  parole  d'affetto, 
che  oggi  rileggo  commosso;  ma  più  al  proposito  odierno  si  adattano 
le  lodi  che  egli  in  cotesta  lettera  dà  ai  componimenti  degli  alunni, 
segnatamente  ai  versi  latini,  e  le  congratulazioni  che  mi  commetr 
teva  di  fare  al  Preside  per  le  cure  che  egli,  l'educatore  insigne, 
chiama  «  i>aterne  »  :  la  massima  lode,  o  Golleghi,  desiderabile  al- 
l'inisegnamento  mnanisUco. 

In  Guido  Levi  (l'altro  dei  due  che  vi  ho  nominati)  il  discepolato 
del  «  Dante  »  si  protrasse  anche  di  là  dalla  Licenza  liceale;  e  fra  me 
e  lui  divenne  amicizia,  e,  sopra  un  argomento  che  ebbe  a  sé  molti 
laboriosi  anni  della  mia  vita,  finì  in  vera  e  propria  comunanza  di 
studi.  La  sua  monografia  «  Bonifazio  Vili  e  il  Conmne  di  Firenze, 
Contributo  di  studi  e  diocumenti  nuovi  alla  Cronica  di  Dino  Com- 
pagni »  ebbe  questa  origine.  Dopo  pubblicata  la  mia  opera  su  Dino, 
io  mi  rivolsi  a  lui,  divenuto  archivista  di  Stato  in  Roma,  pregandolo 
che  negli  Archivi  Vaticani,  non  prima  d'allora  dischiusi  agli  stu- 
diosi, eseguisse  egli  per  me  la  ricerca  d'alcuni  documenti  di  capitale 
importanza,  che  a  me  non  era  stato,  in  tempo  utile,  concesso  di  leg- 
gere. A  quei  documenti  lo  essersene,  nella  felice  ricerca,  aggiunti 
altri  pur  vaticani,  ed  altri  fiorentini  aver  io  a  mia  volta  potuto  ap- 
porvene,  portò  che  io  stesso  proposi  all'amico  e  collaboratore,  con- 
vertisse la  comunicazione,  ch'egli  era  per  fare  all'antico  maestro,  in 
pubblicazione  dell'amorevole  discepolo:  e  tale  essa  è  rimasta  fra  le 
sue  più  pregiate  e  belle  avute  in  più  alta  considerazione  dagli  stu- 


RICORDANZE   E   AUGURH   DUN    VECCHIO   INSEGNANTE  2B 

diesi  di  quel  periodo  storico.  Ma  quando  in  una  pagina  di  essa  io 
leggo  queste  indulgenti  parole,  «  A  me,  che  ricordo  con  sentimento 
"  di  viva  gratitudine  e  di  compiacenza  il  tempo  in  cui  ebbi  il  pro- 
«  fessore  Del  Lungo  sicura  e  affezionata  guida  ne'  miei  studi,  è  tor- 
«  nato  uflBcio  carissimo  rimettermi  alcun  poco  sotto  la  sua  fidata 
«  scorta»,  tali  parole  leggendo,  non  la  sola  tenerezza  verso  quel  de- 
sideratissimo  mi  si  risveglia  nel  cuore,  ma  altresì  ritomo  col  pen- 
siero al  mio  Liceo  Dante,  per  le  cui  lezioni  furono  da  me  intrapresi 
i  primi  saggi  dinterpretazione  del  libro  di  Dino. 

Si  erano  (una  delle  tante  volte!)  rinnovati  i  programmi  d'inse- 
gnamento :  e  Dino  era  stato  assegnato  fra  gli  autori  da  spiegarsi  nel 
Liceo.  Ma  era  presto  detto  spiegarlo!  ci  s'era  provato,  pochi  anni  in- 
nanzi, nell'Università  di  Bologna,  il  Carducci;  e  gli  era,  mi  con- 
fessò, mancata,  come  a  noi  tutti  allora  mancava,  la  base  di  fatto  a 
una  coscienziosa  interpretazione  :  «  lasciai  »  mi  scriveva  l'amico  «  la- 
sciai la  cosa  per  disperata».  Base,  occorreva,  documentale,  sulla 
quale  si  esplicasse  parte  a  p«arte  ciò  che  in  cpielle  i>agÌDe  è  di  atti- 
nente non  tanto  alla  storia  esteriore  dei  fatti,  quanto  al  segreto  loro, 
saputo  e  sentito  dall'uomo  che  quella  storia  ha  intimamente  e  inten- 
samente vissuta.  Le  edizioncelle  scolastiche  che  l'ammissione  della 
Cronica  fra  i  libri  di  testo  fece  subito  fermentare  e  sfungar  fuori, 
lambivano  la  buccia,  mostrando  d'intendere,  con  effetto  nei  lettori 
più  o  men  persuasivo  d'avere  inteso.  Bisognava,  innanzi  tutto,  fer- 
mare il  vero  carattere  di  quel  libro  :  non  cronaca  (titolo  per  gli  an- 
tichi generico),  ma  racconto  particolareggiato  di  un  unico  e  circo- 
scritto fatto:  la  divisione  fiorentina  di  i>arte  Guelfa  in  Bianchi  e 
Neri,  cioè  il  dramma  della  vita  politica  di  Dante,  con  le  due  grandi 
figure  ai  due  estrani  :  il  Pajmto  e  l'Impero;  Bonifazio  e  Arrigo.  Non 
cronaca,  dunque,  che  è  registrazione  continuativa  e  complessiva  di 
avvenimenti  qualsiansi  e  di  date,  ma  storia  circoscritta  di  subietto  e 
d'intenzione;  e  dentro  tali  limiti,  e  fra  l'uno  e  l'altro  di  que'  due 
termini  mondiali,  riboccante  e  tumultuante,  nell'orbita  fiorentina, 
di  particolari,  di  allusioni,  di  sottintesi,  a  penetrare  nel  cui  segreto 
era  chiave  insufficiente,  e  così  l'aveva  sperimentata  il  Carducci,  la 
critica  esteriore  letteraria,  della  quale  ci  si  era  tradizionalmente  ap- 
pagati per  una  ammirazione  di  mera  superficie,  ed  era  invece  ne- 
cessario interrogare  i  documenti,  e  alla  parola  poi  di  questi  rag- 
guagliare la  parola  del  narratore,  con  diritto  sentimento  della  lingua 
e  dell'anima  di  Firenze  antica.  Secondo  tali  miei  propositi,  fra  il  68 
e  il  70,  nella  mia  scuola,,  il  Liceo  Dante  elaborò,  in  un  fascicoletto 
contenente  il  primo  dei  tre  libri  della  «  Cronica  » ,  i  lineamenti  di 
quello  che  venne  poi  formandosi  testo  critico  ed  esauritivo  commento 
della  non  più  cronaca  ma  commentario  storico  di  Dino  Compagni  : 
elaborazione,  il  cui  primo  passo,  a  renderci  ben  conto  della  materia 
e  sua  distribuzione  e  correlazione  delle  parti,  fu  la  distinzione  del 
testo  in  capitoletti,  che  io  dettavo  e  spiegavo  a'  miei  alunni;  ed  è 
quella  medesima,  secondo  la  quale  si  cita  ormai  da  tutti  la  restituita 
al  suo  vero  carattere  istoria  fiorentina  dei  Bianchi  e  dei  Neri  :  cioè  a 
dire  il  libro  di  parte  (ben  altro  che  Oonica,  come  intendiamo  oggi 
noi)  scritto  nella  Firenze  di  Dante  da  uno  dei  vinti  e  in  essa  tolle- 
rati; scritto  d'un  animo  col  grande  Esule,  dopo^a  concorde  loro 
partecipazione  al  r^gimento  civile;  e  consegnato  da  Dino  al  segreto 


1Ì4  RICORDANZE  E   AUGUHU  D'UN   VECCHIO   INSEGNANTE 

domestico,  non  senza  intendimento,  quandoché  nell'avvenire  si  foaee, 
di  protesta  e  vendetta,  covata  negli  anni  stessi  in  che,  fra  i  dolori 
dell'esilio,  vendicatrice  immoriale  di  quei  proscritti  e  di  quei  civil- 
mente soppressi,  veniva  formandosi  la  Commedia  divina. 

Non  vogliate  appormi  a  meschina  compiacenza  d'amor  proprio, 
né  che  io  converta  in  autobiografìa  scolastica  una  pagina  della  imo- 
rata  vita  del  nostro  Liceo,  se  le  memorie  care  de'  miei  discepoli,  e 
questa  in  j>articolare  d'uno  di  essi  che  accomunò  meco  in  lavoro  di 
matura  investigazione  storica  lo  studio,  meco  incominciato  nella 
scuola,  d'un  testo  e  di  storia  e  di  lingua,  se  tali  memorie  di  discepoli 
mi  hanno  condotto  e  mi  trattengono  a  parlarvi  di  questo  testo,  che 
proprio  per  essi  e  con  essi  io  incominciai  a  studiare,  e  quello  studio 
mi  si  continuò  poi  e  allargò  e  complicò  in  tutt'altro  campo  che  sco- 
lastico. Neir89,  dopo  passata  sotto  i  ponti  molt'acqua,  e  ben  quat- 
tordici anni  da  che  avevo  lasciato  l'insegnamento,  io  dal  mio  volu- 
minoso Dino  Compagni  e  la  stia  Cronica  desumevo  un'edizioncina 
scolastica  del  testo  criticamente  formato  e  del  Commento  compen- 
diato, e  la  intitolavo  ai  miei  scolari  del  Liceo  Dante: 

Affli  scolari  miei 

coi  quali  ventanni  fa  ero  ffiovine 

e  stiu&iavo  queste  pagine  del  Trecento 

giovani  sempre. 

Ogni  volta  che  quel  volumetto  si  ristampa,  io  ripeto  intenzional- 
mente, con  memore  gratitudine,  quella  dedica  ai  miei  alunni,  e  ri- 
penso il  Liceo  Dante,  ripenso  la  giovinezza  che,  alle  pw^ine  di  Dino 
rimasta,  non  ha  osservato  la  medesima  fedeltà  verso  il  suo  inter- 
preet.  Ma  all'interprete  toccò,  e  deve  bastargli,  la  doppia  ventura 
d'aver  potuto,  a  luce  di  documenti,  chiarire  di  quelle  pagine  i  segreti 
nobilissimi;  testimoniarne,  conforme  al  vivo  idioma  de'  contempo- 
ranei di  Dante,  la  lingua;  e  così,  mediante  la  intima  e  piena  intelli- 
genza del  contenuto,  e  con  l'autenticazione  storica  della  parola,  re- 
stituire ai  fatti  l'attualità  del  momento  e  la  virtiì  conmiotiva  che  ne 
emana;  in  quei  fatti  ravvivare  di  vita  autentica  e  palpitante  la  Fi- 
renze vissuta  dall'Alighieri.  Fortunato  poi,  anzi  troppo  altamente 
onorato  di  ciò:  che  l'opera  mia,  iniziata  nel  tranquillo  ambiente 
della  scuola,  della  scuola  nostra,  o  Colleghi,  mi  addossasse,  strada 
facendo,  il  dovere,  il  sacro  dovere,  d'una  difesa,  alla  quale  ci  fu  mo- 
mento che  mi  trovai  ad  essere,  mi  sia  concesso  dirlo,  quasi  solo: 
difesa  della  nostra  intellettualità  nazionale  e  delle  sue  manifesta- 
zioni storicamente  caratteristiche,  contro  le  arroganze  d'una  spavalda 
ipercritica  d'oltralpe,  sopraffattrice  per  sua  destinatasi  imperialistica 
missione;  arroganze  accettate  allora  e  sofferte,  anzi  favorite  applau- 
dite volute  emulare,  duole  il  ricordarlo  ma  è  doveroso  e  salutare,  da 
italiana  servilità. 

Io  non  intendo  né  voglio,  o  giovani,  qualunque  sia  per  essere  a 
ciascun  di  voi  il  campo  professionale  che  la  preparazione  degli 
umani  studi  vi  dischiuderà,  non  intendo  alienarvi  dalle  pazienti  du- 
bitose  esigenti  indagini  della  critica  :  la  quale  si  applica  imparzial- 
mente, così  ai  fatti  e  ai  fenomeni  tangibili  come  a  quelli  del  pen- 
siero, e  a  quelli  ìhe  nella  parola  il  pensiero  riflette  e  il  sentimento 
colorisce.  Ma  nello  studio  della  parola,  la  quale,  o  che  sia  atteggiata 


RICORDANZE  E  AUGURH  D'UN   VECCHIO   INSEGNANTE  25 

dall'arte  o  emerga  dalle  cose,  si  estrinseca  innaim  tutto  per  impres- 
sioni sull'animo  vostro,  non  vogliate,  o  giovani,  a  tali  impressioni 
precludere  l'adito,  aspettando,  diflBdenti  a  priori,  che  la  critica  si 
degni  di  concedere  ad  esse  il  lasciapassare.  Ricevetele  senza  precon- 
cetti, e  lasciate  che  operino  sull'animo  vostro.  Ne  avrete  immediati 
apprendimenti 'che  sono  visioni  del  vero,  commozioni  che  sono  ispi- 
razione: il  che  non  v'impedirebbe,  quando  ne  fosse  poi  il  caso  ma 
a  ragion  veduta,  coteste  impressioni  cimentarle  all'esperimento  della 
loro  legittimità.  La  legittimità  delle  impi-essioni  che  il  libro  di  Dino 
faceva  sui  narratori  della  vita  di  Dante,  la  genuinità  del  prezioso 
contributo  che  cotesto  libro  a  quella  vita  ajrecava,  furono  volute 
impugnare  da  quella  ipercritica  il  cui  vanto  è  la  imperviabilità  a 
tuttociò  che  non  sia  osservazione  e  ai^omentcìzione,  se  anche,  anzi 
m^lio  se  fondate  sulla  ingegnosità  delle  ipotesi,  dalle  quali  al  so- 
fisma è  breve  e  agevole  il  passo.  L'opera  d'arte  è  per  coloro,  innanzi 
tutto,  un  cadavere  da  sezionare.  Sia  per  voi,  o  giovani,  così  com'ella 
vi  si  affaccia,  corpo  vivente  e  trasmettitore  di  vita.  Cesare  Balbo,  — 
nomino  il  biografo  che,  deficiente  c^gi  rispetto  al  tanto  più  e  meglio 
che  della  vita  e  dei  tempi  di  Dante  si  sa,  tuttavia  riman  sempre,  per 
altezza  di  mente  e  profondità  di  sentimento,  il  più  condegno  all'alto 
soggetto,  —  il  Balbo  che  traverso  alla  passionata  narrazione  di  Dino 
aveva  sentito  palpitare  la  realtà  storica  da  Dante  vissuta,  sarebbe 
stato  per  quella  critica  menante  i  suoi  colpi  fra  capo  e  collo,  un  po- 
vero di  spirito,  un  credenzone,  un  illuso.  Dal  Secentenario  natalizio 
del  1865  a  questo  del  1921,  una  testimonianza  di  convissuto  con 
Dante  e  partecipe  e  consenziente  avrebbe  dovuto  esser  abolita  come 
suppositizia  e  non  sussistente;  quando  nostri  maestri,  anche  a  inse- 
gnarci le  più  intime  cose  nostre,  erano  costituiti  e  a  grande  onore 
insediati  eruditi  e  critici  di  altra  stirpe  dalla  nostra;  e  il  contrastare 
alle  loro  ardimentosità  burbanzose  bastava  a  render  sospetto  e  di 
dubitabU  merito  un  libro  italiano,  anche  se  frutto  di  studi  coscien- 
ziosi e  di  originali  pazienti  ricerche.  Quella  testimonianza,  che  at- 
t^giava  dinanzi  ai  nostri  occhi  uomini  e  cose,  e  con  la  parola  di 
Dino  ci  echeggiava  il  vivo  quotidiano  linguaggio  dei  convissuti  con 
Dante,  avrebbe  dunque  dovuto  essere  abolita,  se  la  violenta  e  dis- 
sennata manomissione  fosse  stata  di  qua  dalle  Alpi,  come  pur  risicò 
di  essere,  ossequentemente  tollerata.  Ma  non  lo  fu. 

Nel  Liceo  fiorentino  che  da  Dante  trae  col  nome  l'auspicio,  ebbe 
umile  inizio  quella  che  può  chiamarsi  (posta  affatto  da  parte  la  mia 
persona)  rivendicazione  dantesca,  e  quell'inizio  considerare  siccome 
opera  collettiva  della  scuola,  di  questa  scuola  oggi  vostra,  o  Gol- 
leghi.  A  questa  scuola,  clie  fu  m.ia,  richiamato  dalla  vostra  be- 
nevolenza, largito  da  voi  alla  mia  vecchiezza  un  sì  generoso  con- 
forto, un  premio  superiore  a  qualsisia  stato  il  merito  delle  mie  buone 
intenzioni,  ho  sentito  che  la  mia  gratitudine  non  poteva  avere  più 
adatta  ne  più  conveniente  espressione  che  questa,  di  congiungere 
quel  ricordo  di  collaborazione  scolastica,  non  cancellatomisi  mai  dal- 
l'animo, congiungerlo  con  la  solennità  di  queste  commemorazioni 
secentenarie,  che  il  Comune  vuole  oggi  coronate,  nel  nome  di  Dante, 
con  la  inaugurazione  della  nuova  sede  del  più  antico  Liceo. 

Nelle /tante  biografìe  del  Poeta  le  quali  il  Secentenario  del  1921 
ha  fatto  pullulare,  distese  o  succinte,  dissertative  o  narrative,  erudite 


26  RICORDANZE  E  AUGURII  D'UN   VECCHIO   INSEGNANTE 

o  popolari,  italiane  o  straniere,  l'ordito  storico  sul  quale  la  vita  fio- 
rentina e  de'  primi  anni  d'esilio  di  Dante  è  intessuta,  lo  dà  a  tulle» 
concordemente,  quel  piccol  libro,  «  I>elle  cose  occorrenti  ne'  tempi 
isuoi»,  come  Dino  volle  intitolarlo,  e  noi  potremmo  «Delle  cose  oc- 
correnti ne'  tempi  di  Dante».  Da  quando  io  lo  leggevo  co'  miei  sco- 
lari nell'antica  sede  del  nostro  Liceo,  là  da  Santa  Trinità,  —  e  le 
nostre  scuole  erano  nel  chiostro  contiguo  alla  chiesa  dovB  egli,  con 
parole  degne  di  Dante,  deprecò  (e  avrebbe  ahimè  a  deprecare  oggi 
novamente!)  le  civili  sanguinose  discordie,  e  dove  ebbe  domestica 
sepoltura,  —  da  allora  a  oggi,  che  nel  nome  di  Dante  l'Italia  si 
esalta  ed  è  esaltata,  molta  parte  dei  fati  della  patria  si  è  venuta 
adempiendo;  e  l'avvenire  di  lei,  che  non  è  chiuso,  è  in  mano  nostra, 
se  sapremo*  e  vorremo.  Se  saprete  voi  e  vorpete,o  giovani,  speranza 
nostra.  Dal  Seoentenario  di  Dante  s'imprimano  a  fondo  nel  cuor  vo- 
stro questa  fede  e  questo  proposito. 

E  da  essi  emerga,  e  signoreggi  gli  affetti  vostri,  l'amore  della 
patria  italiana.  Quale  più  nobil  patria  pK>teva  Dio  destinarvi?  Senti- 
tene, o  giovani,  sentite  di  tal  patria  l'orgoglio;  che  è  orgoglio  santo, 
non  vanagloria,  e  non  può  che  ispirarvi  indirizzarvi  sospingervi  al 
bene.  Erede  privilegiata  dell'antica  civiltà,  larga  partecipatrice  di 
quel  suo  tesoro  alle  altre  nazioni,  pur  a  quelle  che  glielo  ricambia- 
vano con  le  catene,  l'Italia  è  oggi  restituita  a  sé  medesima,  anche 
per  riassumiere  nel  mondo,  in  comune  beneficio,  l'alta  missione  in- 
tellettuale del  genio  latino.  Non  è  più  l'Impero,  non  è  più  quella 
coronata  astrazione  d'un  arbitrato  universale,  che  da  Roma  doveva, 
nella  magnanima  visione  di  Dante,  pacificare  l'irrequieto  genere 
umano,  e  innanzi  tutto  conciliare  in  esercizio  di  libertà  i  turbolenti 
Comuni  italiani  :  non  è  l'Impero  latino,  né,  molto  meno,  é  la  mo- 
derna degenerazione  di  quella  idea  nell'imperialismo  dfei  violenti; 
non  quello  potrebbe  più  essere,  né  questo  è,  il  termine  verso  il  quale 
l'umanità  è  incamminata.  Ma  é  la  fraterna  unità  delle  patrie,  co- 
stituite ciascuna  di  esse  ne'  suoi  propri  confini;  e  questi  segnati  dalla 
natura  nel  suo  congeigno  gigantesco  di  monti  e  di  mari,  poi  dalla 
sopravvivenza  dei  monumenti,  dalla  fedele  persistenza  delle  tradi- 
zioni, dal  suggello  incancellabile  degli  idiomi.  In  quella  fraternità 
di  patrie  troveranno  la  miglior  soluzione  gli  affannosi  problemi  so- 
ciali, dietro  i  quali  ciascuna  di  esse  si  travaglia  oggi  in  torve  malac- 
cozzate  tumultuanti  congreghe  settarie,  ostinate  a  sconoscere,  pri- 
mordiale vincolo  di  civile  associazione  essene  da  natura  la  patria: 
la  pàtria,  riflessa  immagine  della  famiglia;  e  la  famiglia,  coesione 
inalterabile,  che  dissolvere  é  vano,  e  sconoscerla  empio  e  ridicolo. 
Ed  è  la  patria,  sola  essa  la  patria,  la  pietra  angolare  dell'edifizio  so- 
ciale e  della  fratellanza  umana.  Furono  le  nostre  piccole  patrie  mu- 
nicipali, ciascuna  di  esse  sentita  fortemente  gelosamente  ferocemente, 
che  nonostante  tali  eccessi  di  sentimento,  svolsero,  ciascuna  per  sé 
ma  con  benefizio  e  gloria,  non  che  d'Italia,  del  mondo,  le  superbe 
potenze  del  genio  italiano.  Saranno  oggi  le  patrie  grandi,  se  fer- 
mata con  piena  giustizia  la  loro  costituzione,  che  assicureranno  al- 
l'umanità, tranquillo  e  fecondo  di  bene,  il  sospirato  avvenire.  Cos^ 
giovi  sperare!  Fra  esse,  nel  loro  augusto  consesso,  luminosa  delle 
sue  glorie,  santificata  dai  suoi  dolori,  coronata  dalla  sua  vittoria. 


RICORDANZE  E  AUGURH  D'UN   VECCHIO   INSEGNANTE  27 

nòd  vecchi  auguriamo,  voi  giovani  vedrete,  assidersi,  forte  del  suo 
diritto,  consapevole  de'  suoi  doveri,  la  patria  italiana. 

Ma  con  quelle  del  Secentenario  dantesco  della  morte,  un'altra 
memoria  vogliate  congiung-ere,  o  giovani,  e  custodirìa  serenatri<» 
della  vostra  vecchiezza,  pel  settimo  Centenario,  al  quale  voi  per- 
^-er^ete,  natalizio  del  Poeta  che  da  secolo  a  secolo  sopravvive.  Vecchi 
in  quel  lontano  futuro,  vi  sarà  bello  il  so\-venirvi  di  aver  veduto 
passare,  in  questi  giorni,  dietro  le  orme  del  risorto  Vate  d'Italia,  il 
fantasma  luminoso  d'un  altro  immortale  :  ignoto  e  immortale!  Tutti 
dinanzi  ad  esso,  che  aleggiava  sul  suo  mistico  feretro,  ci  siam  ge- 
nuflessi, e  abbiamo  inchinata  reverenti  la  fronte.  Dal  Carso  eroico 
al  Campidoglio  trionfale,  lo  hanno  circondato,  lo  hanno  avvinto,  ab- 
bracciato, i  fiori  d'Italia,  aspersi  da  lacrime,  superbe  di  vittoria  e 
di  gloria.  Perchè  quell'ignoto  era  tutti  i  soldati  d'Italia;  e  in  (juesto 
ideale  impersonamento  faceva  esser  seco  presenti,  non  pure  i  caduti 
con  lui  nella  guerra  d'integrazione,  ma  altresì  tutti  quanti  i  morti 
già  prima  per  l'indipendenza  e  la  libertà:  legione  sacra,  alla  quale 
le  scuole  nostre  —  neanche  questo  dimenticherete,  o  giovani!  — 
hanno,  di  generazione  in  generazione,  offerto  così  largo  e  generoso 
contributo.  Presenti  nella  persona  del  Milite  ignoto  tutti  quanti  per 
l'Italia  hanno  operato,  sofferto,  combattuto,  data  la  vita:  presenti  e 
benedetti  nelle  memorie  della  patria;  presenti  e  ispiratori  alle  sue 
speranze;  presenti  nell'avvenire,  in  aflBdamento  sicuro  di  giustizia 
nazionale  e  di  pace  sociale, 

Isidoro  Del  Lungo. 


LORD  J.  BRYCE   E   LA  DEMOCRAZIA 


Jahss    Bryce:    Modem-  democracies.   London,    MacmiUan,    1921.    Due   Tolumi. 

Mentre,  di  qua  e  di  là  del  Reno,  Bergson,  Spengler  ed  Einstein 
sembrano  proporsi  di  disorientare  completamente  questa  umanità 
sbigottita  da  un  quinquennio  di  sangue,  abbandonando  la  filosofia, 
la  storia  e  la  fisica,  in  preda  alle  indiscipline  del  più  scapigliato  sog- 
gettivismo, i  fleanmatici  indagatori  d'oltre-Manica  attingono  alla  os- 
servazione obbiettiva  della  realtà  l'intuizione  serena  delle  massime 
leggi  normatrici,  proseguendo  così  la  gloriosa  tradizione  mentale,  che 
è  tanta  parte  non  solo  della  sovranità  filosofica,  ma  della  fortuna  po- 
litica di  quella  grande  ed  invitta  nazione.  Ieri  era  Marshall,  che  di- 
stillava da  trent'anni  di  osservazioni,  di  studi  e  di  viaggi  una  cerebra- 
zione potetitemente  suggestiva  delle  regolarità  della  vita  industriale. 
Oggi  è  Bryce,  il  quale  da  trent'anni  di  studi  elettissimi,  di  nobile  atti- 
vità parlamenitare,  di  colloqui  cogli  uomini  migliori  del  nostro  tempo, 
di  viaggi  per  le  più  disperse  regioni  del  globo,  trae  motivo  ad 
un'opera  geniale  e  profonda,  intesa  a  divisare  i  molteplici  atteggia- 
menti assunti  dalle  istituzioni  democratiche  presso  le  diverse  na- 
zioni, nonché  le  regolarità  universali,  cui  esse  soggiacciono.  L'opera 
di  Bryce  è  degnissima  del  Sacro  Romano  Impero  e  della  Repub- 
blica americana,  che  l'han  preceduta  di  tanto  intervallo  e  consacra 
la  posizione  suprema,  che  compete  all'autore  nella  scienza  politica 
contemporanea. 

Non  si  tratta  invero  di  un  libro  pazientemente  ponzato  a  tavo- 
lino, ma  di  un'opera  vissuta,  poiché  l'autore  visitò  di  persona  tutti 
i  paesi,  di  cui  ritrae  le  costituzioni  politiche;  in  ciò  probabilmente 
superiore  allo  stesso  Aristotele,  il  quale  difficilmente  potè  osservare 
di  persona  le  centinaia  di  Stati,  di  cui  ha  commentate  ed  illustrate 
le  costituzioni.  Dalla  Francia  al  Canada,  dagli  Stati  Uniti  all'Au- 
stralia, dalla  Svizzera  alla  Nuova  Zelanda  e  perfino  alla  minuscola 
repubblica  di  Andorra,  tutti  quasi  i  territori,  su  cui  oggi  dispiega  i 
liberi  vanni  il  reggimento  democratico,  vengono  diligentemente  cer- 
cati dal  nostro  autore,  affine  di  trarre  dalla  viva  voce  dei  fatti  argo- 
menti a  considerazioni  e  giudizi  preziosi  e  profondi.  E  se  dico  quasi 
tutti,  gli  è  perchè  una  lacuna  s'avverte  nelle  pagine  dell'autore,  tanto 
più  meritevole  di  rilievo,  quanto  che  ci  ferisce  intimamente.  Pare 
davvero  incredibile!  Quest'opera,  che  vuol  essere  l'erbario  più  dovi- 
zioso e  molteplice  degli  assetti  democratici  mondiali,  tace  comple- 
tamente dell'Italia.  Inutile  che  l'autore  ci  avverta  come  uno  sjesso 


k 


LORD  J.  BRYCE  E  LA  DEMOCHAZL\  29- 

silenzio  ei  dovè  serbare  rispetto  al  Belgio,  allOlanda,  alla  Danimarca, 
alla  Svezia  ed  alla  Norv^ia;  dacché  son  questi  paesi  di  importanza 
assai  tenue  rispetto  al  nostro  soggetto.  Indarno  del  pari  si  addur- 
rebbe a  sua  scusa,  che  uno  stesso  silenzio  egli  serba  rispetto  alla 
Spagna,  questa  consocia  indefettibile  di  tutte  le  nostre  umiliazioni; 
poiché  anzitutto  un  tal  silenzio  è  temperato  dall'ampia  considera- 
zione, che  l'autore  dedica  alle  repubbliche  dell'America  Latina;  e 
perchè  d'altronde  la  Spagna,  anziché  una  democrazia,  è  una  monar- 
chia militare  mascherata  da  LStitu2doni  democratiche.  Ma  non  ap- 
pare affatto  giustificato  il  silenzio  nei  riguardi  dell'Italia.  Non  solo 
infatti  sono  pure  italiani  quei  sommi,  da  Dante  a  Machiavelli,  da 
Cavour  a  Mazzini,  ai  quali  Bryce  attinge  apertamente  le  migliori 
ispirazioni  del  suo  libro;  ma  le  istituzioni  politiche  italiane,  genui- 
namente d^nocratiche  quant'altre  mai,  affacciano  munerose  peculia- 
rità e  speciali  vicende,  ricche  di  preziosi  ammaestramenti  agli  studiosi 
d'c^ni  riazione.  Chi  invero  può  dirci  quali  interessantissimi  frutti 
saprebbe  trarre  un'indagine*  serena  dalle  applicazioni  così  disformi, 
che  trovano  le  istituzioni  democratiche  nel  Nord  e  nel  Sud  della  pe- 
nisola? O  dall'impulso  così  spiccato,  che  impresse  all'ascesa  di  quelle 
istituzioni  in  Italia  il  moto  operaio  e  socialista,  fra  noi  cotanto  diverso 
da  (juello  d'oltremonte?  0  da  quell'elemento  specialissimo  alla  nostra 
compagine  politica,  che  è  la  presenza  del  Pontefice?  E  la  stessa  gio- 
ventù delle  nostre  istituzioni  democratiche,  la  loro  formazione  re- 
cente dopo  tanti  secoli  di  avvilimento  e  di  servaggio,  gli  stessi  detriti, 
o  sopravvivenze  morali  di  regimi  politici  assolutamente  contrapposti, 
debbono  bene  imprimere  alle  nostre  istituzioni  democratiche  un  mar- 
chio indelebile,  che  non  permette  di  confonderle  con  quelle  d'oltre- 
monte e  d'oltremare,  e  che  impone  per  ciò  stesso  ad  un  severo  inda- 
gatore uno  studio  particolareggiato  e  profondo.  Collaverie  escluse 
dal  proprio  quadro,  Bryce  ne  ha  cancellate  alcune  tinte  più  vive  e 
possenti,  che  aATebbero  giovato  mirabilmente  a  porre  l'altre  in  risalto 
ed  ha  inflitta  alla  sua  opena  —  che  rimane  pur  sempre  elettissima  — 
una  deplorabile  mutilazione. 

•  Tanto  più  questa  lacuna  ha  d'altronde  di  che  meravigliarci, 
in  quanto  che  l'autore  stesso  non  esita  a  sapientemente  dilatare  la 
propria  investigazione  oltre  le  frontiere  rigidamente  segnate  dall'ob- 
bietto  immediato  de'  suoi  studi.  Infatti,  con  felicissimo  intuito,  egli 
ha  sentita  tutta  l'opportunità  di  far  precedere  all'indagine  delle  demo- 
crazie genuine  cfuella  delle  pseudo-democrazie,  quale  l'antioa  demo- 
crazia ateniese  e  le  sedicenti  democrazie  sud-americane  durate  fino  a 
poco  dopo  il  1850;  democrazie  sulla  carta,  o  di  nome,  perchè  prive 
della  condizione  primissima  alla  loro  genuina  esplicazione.  Invero 
come  inglese  e  f)er  ciò  stesso  economista,  anche  se  non  professionale, 
Bryce  non  può  a  meno  di  scorgere  che  la  democrazia  vera  e  propria 
non  può  allignare  ove  il  rapporto  economico  essenziale  è  contami- 
nato da  uno  stigma  di  servitù  vera  e  propria,  come  nell'antichità,  (y 
di  senitù  mascherata,  come  nelle  repubbliche  sud-americane  del- 
l'epoca ricordata.  Egli  intende  benissimo,  che  su  questo  piedestallo 
di  soggezione  e  di  in^naglianza  non  può  sorgere  che  una  società  di 
despoti,  come  ad  Atene,  od  un  despota  solo,  alla  maniera  dei  presi- 
denti autocrati  dell'America  del  Sud;  e  dimostra  egregiamente  come 
la  democrazia  genuina  giunga  ad  istituirsi  colà  solo  a  strascico  di 


30  LORD  J.  BRYCE  E  LA  DEMOCRAZIA 

un  incremento  ulteriore  della  popolazione,  che,  sopprimendo  le  terre 
disponibili,  vi  inizia  la  formazione  del  salariato.  Tutto  ciò  Bryce 
chiarisce  perfettamente  in  due  capitoli  preliminari,  i  quali  creano 
un  riuscitissimo  effetto  di  chiaro-scuro,  quanto  che  la  pittura  delle 
contraffazioni  della  democrazia  pone  nel  più  efficace  risalto  la  sua 
adeguata  configurazione. 

Venendo  poscia  allo  studio  delle  democrazie  vere  e  proprie,  Bryce 
giudica  con  grande  simpatia  la  democrazia  francese  della  terza  re- 
pubblica. A  tal  riguardo  il  suo  libro  è  un  eccellente  antidoto  alle 
tante  diffamazioni  accademiche  della  Francia  repubblicana,  oggi  pur 
troppo  di  moda  fra  scrittori  nazionali  e  stranieri;  poiché  esso  di- 
mostra ai  meno  veggenti  che  la  democrazia  di  Francia  funziona  otti- 
mamente; che  il  Senato  vi  adempie  un'opera  preziosa  di  dilazione  e 
di  emenda,  approvando  speditamente  i  disegni,  che  l'opinione  pub- 
blica più  favorisce  ed  incalza,  ma  rigettandone  altri,  mentre  la  Ca- 
mera è  assorbita  in  altre  cure,  o  ch'essa  approvò  flettendo  ad  un  mo- 
mentaneo clamore,  o  provvedendo  a  correggerli  e  rinviarli  alla  Ca- 
mera dopo  che  il  suo  zelo  s'è  raffreddato  ed  il  fervore  popolare  s'è 
affievolito;  —  che  il  Palazzo  Borbone  ribocca  d'uomini  di  spirito  e 
d'ingegno,  i  quali  elevano  la  discussione  ai  fastigi  più  eletti,  né  mai 
le  consentono  di  trascendere  a  volgarità  od  a  vie  di  fatto.  Una  ri- 
prova eloquente  della  prestanza  delle  istituzioni  democratiche  fran- 
cesi, si  ha  già  nella  frequente  e  quasi  consueta  rielezione  di  quei  par- 
lamentari. Ma  la  più  bella  riprova  è  data  dal  mezzo  .secolo  di  tran- 
quillità e  di  continuità  politica  che  esse  seppero  dare  al  paese,  e  che 
nessuno  dei  regimi  susseguiti  all'SQ  era  riuscito  ad  ottenere. 

Ma  le  più  calde  simpatie  del  nostro  autore  son  rivolte  alla  de- 
mocrazia elvetica,  nella  quale  ei  ritrova  soltanto  virtù,  punto  offu- 
scate da  vizi.  Ei  descrive,  a  tocchi  magistrali,  il  governo  diretto  che 
costituisce  la  speciale  caratteristica  della  democrazia  svizzera  e  che 
si  ramifica  nelle  due  gemine  istituzioni  del  Referendum  e  dell'/n/- 
ziativa:  il  dirito  conferito  ad  un  certo  numero  di  cittadini,  di  pro- 
porre al  voto  popolare  un  emendamento  alla  costituzione.  Al  qual 
proposito  però  mi  sia  consentita  una  sommessa  rettificazione.  L'au- 
tore mostra  di  credere  che  il  governo  federale  sia,  in  proposito,  pu- 
ramente passivo,  o  non  abbia  altro  compito  che  di  sottomettere  la 
proposta,  ove  effettuata  nelle  condizioni  richieste  dalla  legge,  al  voto 
popolare.  Ora  ciò  non  è  perfettamente  esatto:  perchè  il  Consiglio 
Nazionale  ed  il  Consiglio  degli  Stati  hanno  il  diritto  ed  il  dovere  di 
esaminare  la  propoeta  di  iniziativa  e  di  raoc'omandame  al  popolo  la 
adozione,  o  la  rejezione.  E  in  qualche  caso  la  rejezione,  proposta  dal 
Consiglio,  ebbe  il  suffragio  della  maggioranza  popolare. 

Appare,  comunque,  dalle  pagine  di  Bryce  tutta  la  idillica  im- 
peccabilità della  democrazia  svizzera,  nella  quale  le  lenti  lincee  dei 
critici  più  arcigni  non  giungono  a  discernere  la  più  lieve  deformità; 
tanto  che  uno  svizzero,  sollecitato  ripetutamente  dall'autore  ad  ad- 
ditare almeno  una  menda  di  quella  democrazia,  non  seppe  indicare 
che  il  vezzo  delle  Commissioni  governative  di  adunarsi  durante  i 
mesi  estivi  nei  grandi  alberghi  montanini,  protraendo  eccessiva- 
mente i  dibattiti  per  ricrearsi  a  spese  dello  Stato.  Ma  colà  non  scis- 
sure parlamentari  a  base  di  partiti,  non  intromissioni  colpevoli  della 
politica   nella  amministrazione,   non  corruzione,   venalità,    impero 


LORD  J.  BRYCE  E  LA  DEMOCR.\ZL\  31 

politico  della  ricchezza,  non  irruenti  passioni,  o  litigiose  incande- 
scenze; ma  le  assemblee  politiche  riduconsi  nel  fatto  alla  fignra  di 
corpi  amministrativi,  ed  i  membri  del  Parlamento,  troppo  scarsa- 
mente privilegiati  e  retribuiti  per  ambizionare  i  loro  seggi,  e  nem- 
meno blanditi  dalla  carezza  popolare,  dacché  il  modesto  tenor  dei 
dibattiti,  che  neppur  trovano  un'eco  nella  stampa  cfuotidiana,  esclude 
i  fastigi  dell'oratoria  ed  i  suoi  clamorosi  successi,  si  adoprano  co- 
scienziosamente all'unico  intento  di  promovere  la  prosperità  econo- 
mica ed  assicurare  la  sicurezza  interna  ed  estera  della  nazione. 

E  certo  la  esaltazione,  che  l'autore  traccia  della  democrazia  sviz- 
zera, è  perfettamente  legittima;  ne  alcuno,  p)enso,  vorrà  dissentir  dal 
suo  asserto,  che  un  popolo,  il  quale  seppe  foggiarsi  istituzioni  così 
inappuntabili,  animandole  del  soffio  purissimo  del  più  nobile  patriot- 
tismo e  del  civismo  più  illibato,  un  tal  popolo,  malgrado  la  tenuità 
del  suo  territorio  e  la  inferiorità  delle  sue  forze  militari,  non  potrà 
mai  perire.  Certo.  Ma  il  problema,  che  s'affaccia  impellente  e  che 
il  nostro  autore  sorvola,  è  codesto:  le  istituzioni  democratiche,  che 
sono  l'orgoglio  della  vicina  federazione,  o  la  loro  eccellenza  e  pu- 
rezza, possono  esse  allignare  anche  altrove,  o  non  sono  il  prodotto 
delle  condizioni  specialissime,  in  cui  la  vita  di  quello  Stato  si  svolge? 
S'intende  invero  perfettamente,  che  un  paese,  il  quale  è  immune, 
per  ventura  sua,  *da  ambizioni  imperialiste  e  coloniali  e  perciò  non 
ha,  di  fatto,  politica  estera,  in  cui  la  distribuzione  meno  ineguale 
della  ricchezza  attutisce  i  conflitti  sociali,  che  non  è  turbato  da  un 
proletariato  incalzante  ed  irrequieto  —  che  un  paese,  alfine,  cui  la 
neutralità  secolare  esime  dalle  spese  di  guerra,  s'intende,  dico,  che 
un  paese  siffatto  vegga  svolgersi  le  proprie  istituzioni  democratiche 
entro  un  atmosfera  eccezionalmente  serena  e  purificata,  che  le  immu- 
nizza d^  corrompimenti  o  contaminazioni.  Ma  come  non  è  lecito  pro- 
tendere alla  vita  vissuta  le  esperienze  compiute  in  una  atmosfera 
artificialmente  rarefatta,  così  non  è  possibile  estendere  le  esperienze 
elvetiche,  compiute  nell'atsimosfera  ultraossigenata  di  un  sanatorio 
politico,  alla  ardente  e  mefìtica  arena  delle  competizioni  mondiali. 

Naturalmente  non  è  possibile  attendere  un  giudizio  del  pari  en- 
tusiasta delle  istituzioni  democratiche  degli  Stati  Uniti.  L'autore 
della  Repubblica  Anìericana  non  può  smentire  sé  stesso;  e  perciò  in 
questo  libro  riappajono,  comunque  l^germente  attenuate,  le  tinte 
fosche  del  quadro,  che  egli  ci  aveva  tracciato  or  sono  trent'anni  nella 
sua  opera  fondamentale.  È  l'antica  storia  tante  volte  narrata;  la 
ignobile  tregenda  delle  consorterie  locali,  le  bieche  manovre  dei' 
bosses  che  le  signoreggiano,  le  l^gi  subdolamente  comprate  dagli 
interessati,  lo  strabocchevole  influsso  della  ricchezza,  la  venalità  più 
indegna  della  magistratura  e  del  governo,  centrale  o  locale,  la  impu- 
nità costituzionale  dei  delinquenti,  le  dilapidazioni  sistematiche  dei 
pubblici  averi,  le  oligarchie  spadroneggianti,  il  livello  volgare  della 
vita  pubblica,  l'ostracismo  od  auto-ostracismo  degli  intelletti  supe- 
riori dalla  attività  politica  e  parlamentare.  Ma  l'autore  ha  cura  però 
di  soggiungere  che  parecchi  di  codesti  vizi  son  dovuti  a  cagioni  cui 
la  democrazia  è  affatto  straniera,  e  che  d'altronde  essi  son  venuti  at- 
tenuandosi negli  ultimi  tempi. 

Anche  queste  pagine  non  risolvono  per  altro  quella  che  forma, 
a  mio  avviso,  la  grande  sciarada  politica  degli  Stati  Uniti  —  la  pò- 


32  LORD  J.  BRYCE  E  LA  DEMOCRAZIA 

lenza  tanto  assoluta  e  quasi  direi  imperiale  del  Preaidtente,  che  stride 
cosi  stranamente  frammezzo  a  quelle  istituzioni  schiettamente  de- 
mocratiche e  fa  della  Federazione  Stellata  una  specie  di  autocra- 
zia repubblicana,  od  un  comizio  popolare  sormontato  da  un  trono.  — 
L'autore,  anziché  risolvere  il  proble-ma,  lo  tronca  a  priori,  n<egando 
l'onnipotenza  presidenziale,  asserragliata,  a  suo  credere,  da  una  mol- 
titudine di  contrappesi,  quali  il  controllo  del  Senato  ed  il  voto  del 
Congresso.  La  verità  è  però  che  il  Presidente  degli  Stati  Uniti  di- 
spone di  un  potere  smisurato,  a  paragone  del  quale  perfino  quello 
del  fu  Imperatore  germanico  (cui  mancava  il  diritto  di  veto)  appare 
modesto  e  limitato,  e  che  perciò  il  problema  saffaccia  tuttora  nella 
sua  più  intensa  acutezza.  Lo  storico  americano  Fiske  spiega  il  fatto, 
osservando  che  i  redattori  della  costituzione  americana  vollero  do- 
tare il  loro  paese  di  un  sovrano  comparabile  al  re  d'InghilteiTa,  che 
aveva  allora  allora  data  prova  irrecusabile  del  suo  assolutismo  du- 
rante la  storica  contesa  colle  colonie  (1).  Ma  anche  codesta  spieg-a- 
zione  non  parmi  appieno  attendibile;  e  penso  che  la  cosa  potrebbe 
meglio  spiegarsi  ricordando  le  tendenze  separatiste,  così  bene  de- 
scritte da  Bryce  stesso  in  uno  de'  soioi  saggi  magistrali,  prevalenti 
agli  esordì  della  libertà  americana,  e  l'opportunità  di  crear  loro  un 
antidoto,  accentrando  un  potere  dispotico  nella  .  persona  del  capo 
dello  Stato. 

Uno  studio  particolarmente  amoroso  è  consacrato  dall'autore  alle 
giovani  democrazie  del  Nuovo  Mondo:  al  Canada,  all'Australia  ed 
alla  Nuova  Zelanda.  Il  rapido  raffronto,  che  l'autore  traccia  fra  i\ 
Canada  e  gli  Stati  Uniti,  avverte  che  il  primo  è  più  schiettamente  de- 
mocratico, sia  perchè  abitato  da  un  popolo  di  piccoli  proprietari, 
sia  perchè  non  ha  la  dittatura  del  Presidente,  né  lo  strapotere  della 
ricchezza,  perché  non  ha  licenza,  né  linciaggio,  e  a  motivo  infine  della 
straordinaria  prosperità  del  paese.  E  tuttavia  quel  popolo  è  insoddi- 
sfatto del  siuo  Parlamento  e  de'  suoi  ministri,  ne  censura  l'opportu- 
nismo, la  flessione  agli  interessi  locali,  Io  sfrenato  arrembaggio  d«i 
lavori  pubblici,  ed  il  peculato  sistematico,  infuriante,  sopratutto, 
nella  capitale.  Nell'Australia  ciò  che  ha  specialmente  colpita  l'atten- 
zione dell'autore  é  il  molteplice  intervento  dello  Stato  in  favore  delle 
classi  popolari,  o  la  provvida  legislazione  sociale,  che  vi  funziona 
egregiamente  da  tempo.  La  Nuova  Zelanda,  alfine,  benché  atllitta 
dal  predominio  latifondista,  menomata  dall'inerzia  e  deficiente  pro- 
duttività degli  operai  impiegati  nei  lavori  pubblici,  e  snervata  dal 
proprio  isolamento  frammezzo  ad  un  oceano  sterminato,  è  pure  un 
paese  ben  governato  e  veramiente  felice,  che  dette  mirabili  prove 
della  sua  robustezza  politica  nei  duri  cimenti  della  grande* guerra. 

Fin  qui  l'opera  di  Bryce  potrebbe  compararsi  ad  un  dramma, 
composto  di  un  prologo  (sulle  pseudo-democrazie)  e  di  sei  atti  (sulle 
democrazie  di  Francia,  Svizzera,  Canada,  Stati  Uniti,  Australia  e 
Nuova  Zelanda).  Ma  ora  giunge  l'epilogo,  dedicato  a  formulare  un 
giudizio  sintetico  sulle  democrazie  precedentemente  indagate;  ed  è 
qui  che  l'autore  ha  campo  di  spiegare  le  sue  qualità  veramente  supe- 
riori di  studioso  e  di  meditante. 

(1)  John  Fiskk,  Tht  criticai  period  of  american  history  {1783-1789). 
New  York,  1888. 


LORD  J.  BRYCE  E  LA  DEMOCRAZIA  33 

Una  lucida  prova  della  serena  e  giusta  veduta  dell'autore  è  che 
la  predilezione  legittima  per  l'oggetto  degli  incessanti  suoi  studi 
non  fa  velo  al  suo  giudizio,  né  gli  vieta  di  scorgere  il  carattere  asso- 
lutamente subordinato,  ch'essi  vanno  oggi  assumendo  a  paragone 
di  ricerche  d'indole  più  profonda.  «  L'assorbimento  delle  menti 
umane  nelle  idee  e  negli  schemi  di  ricostruzione  sociale  ha  distratta 
l'universale  attenzione  da  quei  problemi  di  governo  libero,  che  tanto 
preoccupavano  gli  spiriti,  allorché  la  marea  democratica  saliva  or 
sorlo  70  od  80  anni;  e  mi  é  parso  talvolta,  nello  scrivere  questo  libro, 
che  esso  si  rivolgesse  piuttosto  alla  precedente  che  alla  presente  ge- 
nerazione. Quella  generazione  si  preoccupava  sopratutto  delle  istitu- 
zioni; la  presente  è  invece  piuttosto  occupata  dei  fini,  cui  quelle  isti- 
tuzioni debbono  servire  ».  Né  l'autore  è  tratto  a  biasimare  codesta 
mutata  orientazione  'mentale,  ch'egli  all'opposto  giustifica,  awer 
tendo  egregiamente  che  la  forma  di  governo  e  la  legislazione  é  pei 
piccolissima  parte  fra  i  fattori  del  benessere  umano,  il  quale  dipende 
da  ben  altre  cagioni,  più  intimamente  ripost©  nella  natura  dell'uomo 
e  de'  suoi  aggregati. 

Venendo  poscia  a  librare  sulla  bilaiicia  della  valutazione  scien- 
tifica i  meriti  e  demeriti  della  democrazia,  avverte  anzitutto  il  nostro 
autore  che  questa  non  é,  né  dev'essere,  il  governo  del  popolo,  poiché 
deve  in  ogni  caso  riserbare  il  governo  ad  una  minoranza  di  indi- 
vidui peculiarmente  adatti  alla  funzione  direttrice;  ma  che  essa  as- 
segna pur  sempre  al  popolo  una  triplice  poderosa  funzione:  trac- 
ciare al  governo  i  suoi  scopi,  che  in  ogni  caso  debbono  convergere  al 
bene  comune;  affidare  ai  cittadini  più  adatti  i  Vnezzi  necessari  a  rag- 
giunger quel  fine;  vigilare  alfine  sulla  condotta  dei  governanti  e  pre 
venirne  gli  abusi.  Ora  non  può  negarsi  che  in  codesto  molteplice 
campo  la  democrazia  abbia  ben  meritato  della  civiltà.  Essa,  infatti, 
ha  mantenuto  l'ordine,  senza  conculcare  le  libertà,  ha  creata  una 
razionale  amministrazione  civile,  ha  diretta  la  legislazione  al  bene 
del  maggior  numero,  non  é  stata  mai  incostante  ed  ingrata  (i  re,  dice 
Bryce,  sono  assai  più  spesso  ingrati  che  i  popoli),  non  ha  affievolito 
il  patriottismo  ed  il  coraggio,  ha  permesso  alfine  alle  masse  (che 
spesso  hanno  ragione)  di  imporsi  alle  classi  (che  troppo  'sovente 
hanno  torto).  Di  certo  non  difettano  anche  nel  regime  di  libertà  vizi 
€  deformità  irrefragabili.  Sovente,  infatti,  la  democrazia  è  spenderec- 
cia e  sregolata;  essa  non  sa,  di  regola,  arruolare  al  servizio  dello 
Stato  un  numero  sufiìciente  di  cittadini  capaci  ed  onesti;  essa  si  è 
rivelata  meglio  idonea  a  sopprimere  il  male  che  a  creare  il  bene; 
non  ha  estirpata  la  corruzione,  né  suscitato  un  senso  di  soddisfa- 
zione universale  nei  paesi  ove  impera;  ha  fatto  ben  poco  per  miglio- 
rare le  relazioni  intemazionali,  o  per  assicurare  la  pace;  non  ha  pro- 
mosso un  umanitarismo  cosmopolita,  non  ha  attenuati  gli  egoismi 
di  classe,  non  ha  esorcizzate  le  rivoluzioni.  Pur  troppo!  Carducci 
dicevami,  un  giorno,  che  la  democrazia  uccide  la  rivoluzione.  Ma  i 
fatti  lo  hanno  deplorevolmente  smentito,  facendoci  assistere  al  pa- 
radosso politico  delle  sassaiole  ed  incomposte  violenze  organizzate 
da  un  popolo  legislatore.  E  benché  codeste  aberrazioni  siano  meno 
fiequenti  ne'  paesi  d'Oltr'Alpe,  sembra  tuttavia  che  abbiano  modo 
di  manifestarsi  ivi  pure  con  discreta  veemenza,  a  giudicare  dalle 
preoccupazioni  rodenti  che  enuncia  in  proposito  n  nostro  pensatore. 

3  Voi.  OCXVI,  serie  VI  —  1"  gennaio  1922 


34  LORD  J.  BRYCE  E  LA  DEMOCRAZIA 

Eppure  ei  non  crede  di  avere  con  questo  elenco  esaurita  la  serie 
dei  vizi  inerenti  alla  democraaia,  che  un  altro  se  ne  affaccia  ben  altri- 
menti deplorabile  e  pauioso.  Al  pari  di  tutti  i  suoi  compatrioti  più 
intelligenti  e  profondi,  di  Brown,  ad  esempio,  che  tanto  insiste  sul 
fatto  nel  libro  Sul  concetto  di  democrazia  (1),  Bryce  denuncia  corag- 
giosamente quello  che  costituisce  il  tarlo  delle  istituzioni  democra- 
tiche e  la  minaccia  immanente  alla  loro  stessa  vitalità:  lo  smisu- 
rato dominio  politico  che  vi  consegue  la  ricchezza.  Al  qual  prop>o- 
sito  anzi  l'autore,  con  un'alzata  di  erudizione,  non  si  perita  d'ihvo- 
care  l'autorità  del  divino  poeta.  Invero  Dante  non  dice  forse  nel  VI 
canto  del  Purgatorio:  Quivi  trovammo  Pluto,  il  gran  nemico?  Ora 
Pluto  vuol  qui  significare  il  dio  romàno  della  ricchezza  ed  il  poeta 
vuole  appunto  farci  intendere  che  la  ricchezza  è  la  fatale  avversaria 
dei  liberi  reggimenti.  Se  l'interpretazione  non  sia  per  avventura  un 
tantino  forzata;  se  Plutone  non  possa  denominarsi  il  gran  ^nemjco, 
semplicemente  quale  personificazione  suprema  del  male  e  del  pec- 
cato; se  sopratutto  non  sia  temerario  trarre  da  quel  verso  dantesco 
nuovo  argomento  di  critica  contro  la  plutocrazia,  è  questione,  che 
abbandoniamo  volentieri  al  giudizio  dei  dantisti,  più  che  mai  pul- 
lulanti in  quest'anno  commemorativo.  Ma  siamo  però  consenzienti 
coll'autore,  quando  avverte  che  la  prepotenza  politica  del  danaro 
non  è  specialità  dei  regimi  democratici,  i  quali  all'opposto  sono  i 
soli,  che  valgano  ancora  ad  opporle  qualche  pur  tenue  riparo  nella 
pubblicità  dei  dibattiti  e  nelle  libere  manifestazioni  della  volontà  po- 
polare. Come  pienamente  mi  accordo  nella  conclusione  finale  del- 
l'autore: che  per  quanto  grandi  possano  essere  i  vizi  della  democra- 
zia, essa  è  pur  sempre  infinitamente  superiore  alle  forme  politiche, 
che  sole  potrebbero  surrogarla  —  l'autocrazia  e  l'assolutismo. 

L'autore  è  d'altronde  disposto  a  riconoscere  che  molti  fra  i  vizi 
delle  moderne  democrazie  potranno  opportunamente  correggersi  con 
/azionali  riforme;  benché  a  dir  vero  egli  non  additi  al  riguardo 
proposte  concrete,  ali  infuori  d'una,  però  assai  modesta  e  discu- 
tibile. La  proposta  concerne  il  modo  di  formazione  del  Senato  — 
cha  l'autore  vorrebbe  affidata  ad  una  commissione,  composta  in  gran 
parte  di  parlamentari,  ed  incaricata  di  assegnare  a  ciascun  partito 
un  numero  di  senatori  proporzionale  alla  sua  rappresentanza  nella 
Camera  elettiva,  e  di  chiamare  inoltre  all'alto  consesso  un  certo  nu- 
mero di  personalità  superiori,  estranee  ai  partiti.  Il  disegno  nop  è 
per  verità  al  tutto  nuòvo,  poiché  ricorda  assai  dappresso  la  forma- 
zione del  Senato  di  Roma  pei"  opera  del  Censore.  Ma,  comunque  si 
voglia  giudicarne,  ninno  vorrà  negare  che  il  rimedio  sembra  spropor- 
zionato alla  cattolicità  delle  esperienze  politiche  istituite  dall'autore 
ed  alla  profonda  analisi  speculativa  di  cui  vorrebbe  esijere  la  logica 
deduzione. 

Voi  credete  forse  che  a  questo  punto  il  dramma  abbia  termine 
e  stia  per  calarp  il  sipario.  Ebbene  no;  resta  ancora  l'ultima  scena,  e 
la  più  inattesa  e  stupefacente.  Ci  rimane  a  vedere  il  visconte  Br>Te, 
dignitario  e  gran  signore  del  più  aristocratico  fra  i  regni,  affac- 
ciarsi alla  ribalta,  pel  solenne  commiato,  in  veste  di  Bolscevico  e  di 

(1)  Brown,  Tht  meaning  of  demoeracy.  London,  1920,  pag.  68  e  eegg.  e 
capo  IK. 


LORD  J.  BRYCE  E  LA  DEMOCRAZIA  35 

Comunista.  E  passi  ancora  pel  bolscevisnao  dell'autore,  che  non  ha 
nulla  di  propriamente  terribile,  né  esorbita  dall'ambito  anodino 
dei  rapporti  amministrativi.  «  Questo  sistema  di  governo,  egli  scrive, 
con  una  serie  di  corpi  locali,  di  assemblee  primarie  amministrative 
e  ad  un  tempo  elettive,  che  invia  delegati  ad  enti  più  vasti  e  questi 
a  lor  volta  ad  enti  più  ampi,  fino  al  Supremo  Congresso  Nazionale, 
il  quale  elegge  e  vigila  il  ristrettissimo  Consiglio  Amministrativo  Su- 
premo, è  ingegnoso  ed  interessante,  come  una  nuova  forma  di  costi- 
tuzione e  merita  di  essere  giudicato  alla  stregua  de  suoi  propri  me^ 
riti,  fra  cui  due  sono  specialmente  rilevanti  :  di  abilitare  i  migliori 
ingegni  del  paese  a  raggiungere  il  fastigio,  e  di  consentire  all'opi- 
nione pubblica  del  paese  di  venir  prontamente  accertata  senza  il 
costo  e  l'indugio  di  un  Referendum;  poiché  la  .«stessa  proposta  può 
venir  simultaneamente  assoggettata  a  tutti  i  Soviets,  e  le  loro  risposte 
possono  tosto  esser  trasmesse  al  quartier  generale.  È  solo  deplore- 
vole che  un  sistema  così  sapientemente  architettato  non  abbia  avuta 
finora  una  seria  e  genuina  attuazione». 

Ma  ben  altrimenti  grave  e  solenne  è  la  professione  di  BrjTe  per 
quanto  concerne  il  Comunismo,  dacché  qui  non  e  più  in  causa  un 
assetto  amministrativo;  bensì  tutto  un  nuovo  sistema  di  economia. 
Gli  avvocati  del  comunismo,  egli  scrive,  hanno  evidentemente  buon 
gioco  nella  spietata  lor  critica  dell'assetto  economico  vigente,  poiché 
pochi  osan  tuttora  difenderlo,  ed  il  desiderio  di  mutarlo  incontra  il 
fervido  assenso  di  quanti  avvertono  che  i  beni  materiali  son  ripartiti 
disugualmente  e  senza  alcun  riguardo  ai  meriti  individuali.  Ma  il 
problema  per  noi  assillante,  conseguente  al  loro  trionfo,  e  ch'essi 
non  curan  risolvere,  concerne  ciò  che  diverrebbero  le  istituzioni 
democratiche  in  un  regime  di  perfetto  comunismo.  Non  v'ha  dub- 
bio che  questo  sancirebbe  l'onnipotenza  burocratica,  comunque  at- 
tenuata dal  fatto,  che  gran  parte  dell'attività  legislativa  e  dell'azione 
governativa  verrebbe  allora  inutilizzata.  Nemmeno  può  tacersi  che 
il  nuovo  assetto  schiuderebbe  la  stura  ai  più  acerbi  conflitti  fra  gli 
avvocati  dei  cinema,  dei  drammi  e  dei  concerti,  ciascun  dei  quali 
vorrebbe  ammannite  al  popolo  le  ricreazioni  di  propria  competenza; 
mentre  poi  lo  Stato,  nella  sua  qualità  di  esclusivo  editore,  sarebbe 
chiamato  a  decidere  quali  opere  di  prosatori  e  di  poeti  avessero  a 
pubblicarsi.  Censure  queste,  che  non  ci  pajono  al  tutte  convincenti; 
poiché  il  comunismo,  nell'ideale  de'  suoi  corifei,  non  dovrebbe  punto 
sopprimere  l'iniziativa  individuale,  né  attribuire  allo  Stato  funzioni 
letterarie  e  scientifiche,  alle  quali  è  .completamente  inadatte.  Più 
dappresso  egli  stringe  la  questione,  quando  avverte  che  il  carattere 
essenzialmente  economico  dello  Stato  comunista  contrasta  al  con- 
cetto democratico,  il  quale  raffigura  lo  Stato  come  un  tutto  intellet- 
tuale e  morale.  Ma  il  meno  che  possa  dirsi  di  tutte  codeste  elucubra- 
zioni, è  che  esse  sono  del  fiiturismo  politico  privo  di  ogni  base  con- 
creta, pel  difetto  d'ogni  positiva  esperienza  dell'assetto  di  cui  si  ra- 
giona. 

Qualunque  siano  per  essere  d'altronde  i  frangenti,  che  il  ritmo 
fatale  degli  eventi  economici  sta  per  apprestare  alle  istituzioni  re- 
pubblicane, conclude  il  nostro  autore,  è  fuor  di  dubbio  ch'esse  sa- 
ranno ciò  che  le  farà  il  livello  morale  dei  cittadini  e  degli  uomini. 
Se  questo  si  eleverà  a  quelle  altitudini  di  simpatia  fratellevole,  che 


36  LORD  J.  BRYCE  E  LA  DEMOCRAZIA 

Mazzini  ha  divinate,  la.  democrazia  potrà  assurgere  a  più  gloriosi 
destini.  Di  certo  l'esperienza  della  guerra  recente,  in  cui  milioni  di 
uomini  son  corsi  a  morire  per  un  conflitto,  che  arrecò  ai  vincitori 
non  minori  disastri  che  ai  vinti,  prova  troppo  che  le  anime  non  sono 
cresciute  a  paro  coi  progressi  della  tecnica  e  della  civiltà.  Ma  non 
la  democrazia  è  responsabile  di  codeste  enormezze;  ma  lo  stesso  spi- 
rito di  sacrifìcio,  con  cui  tante  migliaia  di  prodi  si  immolarono  nella 
tremernda  conflagrazione  per  la  causa  della  democrazia,  ci  conforta 
a  bene  sperare  delle  definitive  sue  sorti;  e  finché  durerà  la  speranza 
nei  destini  della  democrazia,  non  è  possibile  che  questa  abbia  a 
perire. 

Tale  il  succo  e  il  sangue  dell'opera  poderosa,  ch'io  mi  sforzai  di 
riassumere  ne'  più  salienti  suoi  tratti.  E  forse,  nel  riassumerla,  l'avrò 
per  gran  parte  sciupata,  poiché  non  mi  fu  dato  di  rendere  lo  stile 
fulgido,  affaccettato,  fluente,  che  dona  alle  sue  pagine  un  incanto 
inobliabile.  Ma  io  mi  terrò  pago  se  questi  imperfetti  e  pallidi  cenni 
varranno  a  destare  nel  nostro  pubblico  il  desiderio  di  un  più  diretto 
contatto  coll'ultimo  e  più  nobile  campione  della  libertà  politica,  oggi 
tanto  sinistramente  insidiata  dai  sognatori  decadenti  delle  prepostere 
restaurazioni. 

Achille  Loria. 


I 


L'ANTICO    DISEGNO    DELLE   REGIONI 
CAVOUR  -  FARINI  -  MINGHETTI 


La  proposta  di  un  nuovo  ordinamento  amministrativo  dell'Italia 
per  Regioni  fa  {xarte  oggi  del  programma  di  un  poderoso  partito  po- 
litico, il  partito  popolare,  né  può  escludersi  venga  in  avvenire  ac- 
colta anche  dai  partiti  liberali  costituzionali  :  l'avversa  invece  fie- 
ramente, col  giovanile  suo  ardore  combattivo,  il  nuovo  partito  del 
Fascio.  Nella  viva  contesa  che  doATà  aver  luogo  in  Paese  e  nel  Par- 
lamento su  questo  tema  grave  ed  appassionante,  un  argomento  sto- 
rico di  grande  importanza  avranno  i  fautori  del  programma  della 
Regione:  l'essere  stata  la  proposta  della  creazione  dell'ordinamento 
amministrativo  per  Regione,  concezione  di  Camillo  Cavour,  di  quel- 
l'incomparabile Uomo  che  portava  occhiali  d'oro,  ma  che  miope  non 
fu  mai,  che  vide  sempre  giusto  e  più  lungi  della  media  comune  dei 
mortali  nel  campo  economico  politico  e  sociale  ed  il  cui  affetto  per 
l'Italia,  che  chiamava  ed  era  veramente  la  donna  dei  suoi  pensieri, 
non  potè  mai  essere  da  alcuno  superato.  Non  sarà  pertanto  inutile, 
crediamo,  un  breve  esame  dell'elaborazione  dell'antico  disegno  di 
legge  delle  Regioni,  Cavour-Farini-Minghetti,  per  chiarirne  di  fronte 
all'opinione  pubblica  l'esatto  valore  politico  e  storico  e  la  vera  por- 
tata, esponendone  i  concetti  principali.  Si  deve  anzitutto  stabilire 
come  dato  storico  incontrovertibile  che  il  disegno  di  legge  di  cui  si 
tratta,  fu  opera  di  comune  collaborazione,  prima  del  Conte  di  Cavour 
e  di  Luigi  Carlo  Farini  e  poi  di  Minghetti,  succeduto  al  Fàrini  nel 
Ministero  dell'Interno.  Luigi  Carlo  Farini,  Ministro  dell'Interno  nel 
Gabinetto  presieduto  dal  Conte  di  Cavour  nel  1860,  dopo  aver  con- 
cretato col  Presidente  del  Consiglio  le  linee  generali  del  disegno  di 
legge,  sceglieva  nel  seno  del  Consiglio  di  Stato  una  Commissione 
incaricata  di  preparare  la  Riforma  dell'Amministrazione  del  nuovo 
Regno.  Eravamo  ancora  in  quei  tempi  aurei  in  cui  si  soleva  appro- 
fittare dell'esi>erienza  amministrativa  del  Consiglio  di  Stato  per 
farne  un  organo  di  sapiente  e  cauta  preparazione  legislativa,  né, 
come  purtroppo  oggi  av\àene,  erano  allora  soltanto  i  Ministeri  inte- 
ressati gli  autori  di  progetti  di  leggi  improv\-isate,  destinate  a  di- 
ventare, sotto  l'azione  della  nuova  e  tumultuosa  improvvisazione 
parlamentare,  aborti  mostruosi  ed  inconcludenti,  non  vitali,  né  utili 
al  Paese. 

Che  il  program^ma  del  Disegno  di  legge  fosse  concordato  tra 
Cavour  e  Farini  non  sarebbe  duopo  dimostrare,  bastando  la  consi- 
derazione che  il  Conte  di  Cavour  era  Presidente  del  Consiglio  e  che. 


38  l'antico  disegno  delle  regioni 

come  è  ben  noto,  il  Ck)nte,  colla  potenza  della  mente  geniale  e  colla 
attività  divorante,  impartiva  le  grandi  linee  direttive  per  ogni  Mini- 
stero. Noi  viviamo  ancora  oggi  delle  sue  idee,  dicevano  dopo  la  ful- 
minea e  angosciosa  scomparsa  del  gran  Ministro,  i  suoi  collabora- 
tori. Una  prova  storica  irrefutabile  risulta  del  resto  da  un  appunto  da 
me  rinvenul^  fra  le  carte  cavouriane,  scritto  di  mano  del  Conte,  nel 
quale  si  trovano  parole  e  frasi  stesse  contenute  nel  programma  espo- 
sto da  Luigi  Carlo  Farini,  scritto  che,  per  maggior  chiarezza  e  ordine 
logico,  sarà  pubblicato  più  avanti. 

Esiste  poi  una  lettera  del  Ck)nto  di  Cavour,  pubblicata  dal  Chiala 
(Voi.  IV,  pag.  i82)  colla  quale  il  Conte  rinviava  al  Minghetti,  nel 
febbraio  1861,  le  .proposte  di  leggi  sull'ordinamento  amministrativo 
del  disegno  da  presentarsi  al  Parlamento,  da  lui  stesso  diligente- 
mente esaminate  ed  annotate. 

«  Ho  obbedito  scrupolosamente  alle  vostre  prescrizioni,  scriveva 
«  il  Conte,  dopo  aver  lavorato  fino  alle  12  alle  leggi  marittime,  ho 
«  consacrato  quattro  ore  alle  vostre  leggi,  come  potrete  oonvincer- 
«  vene  dalle  note  che  troverete  in  margine  segnate  » . 

Tali  note  importantissime  sono  pubblicate  in  Appendice  dal 
Chiala  nel  Volume  stesso  e  riguardano  tutto  l'ordinamento  comunale 
e  provinciale.  Una  sola  nota  riguarda  l'ordinamento  regionale  e  con- 
cerne i  poteri  da  assegnarsi  alla  Commissione  che  doveva  assistere 
il  Governatore  di  ogni  Regione. 

All'art.  4"  della  legge  sulle  Regioni  il  Conte  pone  la  seguente 
Nota: 

M  Aggiungerei  : 

<(  La  Commissione  dovrà  esser©  sempre  chiamata  ad  emettere  voto 
«  consultivo  : 

«  1°  sulle  concessioni  di  strade  ferrate  che  corrono  sul  territorio 
«  regionale; 

«2°  sui  servizi  dei  battelli  postali  che  toccano  porti  regionali. 

«  È  da  esaminarsi  inoltre  se  il  concorso  della  Regione  non  sia 
«da  richiedersi  per  i  lavori  marittimi  di  maggiore  importanza». 
Pressoché  in  tutte  le  Note  appare  l'acume  geniale  del  Conte;  inte- 
ressantissima l'annotazione  riguardante  l'elettorato  comunale  all'ar- 
ticolo che  sanciva  l'esclusione  degli  analfabeti.  Il  Conte  osserva  a 
questo . proposito  sull'articolo  accennato: 

«  Non  applicabile  inuuediatamente  al  Regno  di  Napoli,  la  Sicilia 
e  la  Sardegna.  Una  disposizione  transitoria  ed  eccezionale  è  neces- 
saria se  non  si  vuole  che  i  Comuni  di  quella  parte  d'Italia  cadano 
sotto  la  tirannia  dei  dottoruzzi  di  villaggio,  la  peggiore  di  quante  se 
ne  conoscono». 

Altra  nota  importantissima  {che  dovrebbe  molto  dare  a  riflettere 
in  occasione  di  una  nuova  riforma  elettorale  perchè  indica  con  un 
rapido  e  magistrale  tocco  la  causa  principale  del  tanto  lamentato  as- 
sentismo  elettorale)  è  quella  che  riguarda  l'art.  20.  «  Crederei  oppor- 
tuno che  nelle  città  di  oltre  20,000  abitanti  il  C^omune  fosse  diviso  in 
più  distretti  elettorali  ». 

Gli  elettori  cf'oJicorrerebbero  certo  molto  j/ià  numerosi  alVuriìa 
se  si  trattasse  di  scegliere  rappresentanti  degli  interessi' ad  essi  piii 
vicini. 


l'antico  disegno  delle  regioni  b9 

•  • 

Sull'elaborazione  del  disegno  di  legge  per  l'ordinamento  dell'Am 
ministrazione  Regionale  possediamo  un  documento  molto  prezioso, 
esistente  alla  Biblioteca  del  Senato,  cioè  gli  Estratti  dei  verbali  delle 
Adunanze  della  Comimissione  nominata  presso  il  Consiglio  di  Stato 
il  24  giugno  1860,  da  Luigi  Carlo  Farini,  allora  Ministro  dell'In- 
terno per  la  preparazione  di  tale  disegno  di  legg'e  (1). 

Nell'inaugurare  i  lavori  della  Commissione  il  Farini  dava  let- 
tura di  una  Nota  che  designa  in  forma  nitida  e  magistrale  i  caratteri 
ed  i  limiti  della  riforma  per  quanto  riguarda  La  costituzione  delle 
Regioni,  riforma  concordata  coU'allora  Presidente  del  Consiglio,  Ca- 
millo Cavour.  Per  necessità  di  spazio  ne  riferirò  i  punti  principali  e 
più  salienti  : 

«  Vuoisi  »  —  diceva  il  Farini  —  «  considerare  da  un  lato  quali 
siano  le  vere  condizioni  della  società  civile  italiana,  e  dall'altro  lato 
quale  sia  il  fine  a  cui  s'intende,  per  farsi  giusto  concetto  del  proble- 
ma che  a  noi  tocca  risolvere.  Esso  consiste,  per  mio  av\'iso,  nel  coor- 
dinare la  forte  unità  dello  Stato  con  l'alacre  sviluppo  della  vita  locale, 
colla  soda  libertà  delle  Provincie,  dei  Comuni  e  dei  Consorzi,  e  colla 
progressiva  emancipazione  dell'insegnamento,  della  beneficenza  e 
degli  istkuti  municipali  e  provinciali  dai  vincoli  della  burocrazia 
centrale. 

«  Per  fare  una  legge  che  miri  a  questo  fine  è  necessario  innanzi 
tutto  io  stabilire  le  massime  fondamentali,  sulle  quali  deve  farsi  il 
disegno  della  circoscrizione  politica  dello  Stato.  Volendo  divisare 
questa  circoscrizione,  dobbiamo  noi  disconoscere  ogni  altra  unità 
morale  fuorché  quella  costituita  dalla  Provincia,  così  come  provvede 
ìa  legge  in  vigore?  0  invece  non  dovremo  conoscere  che  le  Provincie 
italiane  si  aggruppano  naturalmente  e  storicamente  '  fra  di  loro  in 
altri  centri  piìi  vasti,  che  hanno  avuto  ed  hanno  tuttavia  ragione 
di  esistere  nell'organismo  della  vita  italiana?  Questi  centri  possie- 
dono antichissime  tradizioni  fondate  in  varie  condizioni  naturali  e 
civili,  la  politica  italiana  disgregata  fra  i  Comuni  e  le  Repubbliche 
del  Medio  Evo  ha  trovato  in  essi  una  prima  forma  e  disciplina  di 
Stato:  la  più  stretta  colleganza  politica  e  sociale  ha  portato  partico- 
lari resultamenti  di  civiltà  che  ad  ognuno  di  essi  "sono  cari  e  preziosi. 
Al  di  sopra  della  Provincia,  al  di  sotto  del  concetto  politico  dello 
Stato,  io  penso  che  si  debba  tener  conto  di  questi  centri,  i  quali  rap- 
presentano quelle  antiche  autonomie  italiane  che  fecero  così  nobile 
omaggio  di  sé  alla  Nazione. 

«  La  circoscrizione  politica  che  dobbiamo  stabilire  non  vuol  es- 
sere, né  il  frutto  di  un  concetto  astratto,  né  un'opera  arbitraria;  ma 
deve  rappresentare  quelle  condizioni  naturali  e  storiche,  quei  centri 
di  forze  morali,  le  quali  se  fossero  oppresse  per  pedanteria  di  sistema, 
potrebbero  riscuotersi  e  risollevarsi  in  modo  pericoloso,  e  che  legit- 
timamente soddisfatte,  possono  mirabilmente  concorrere  alla  forza  e 

(1)  Debbo  alla  grande  cortesia  dell'illustre  comm.  Pintor,  Direttore  capo 
della  Biblioteca  del  Senato,  l'indicazione  dell'esistenza  di  tale  importante  do- 
cumento, come  di  altre  pnbblicazioni  intomo  all'argomento,  e  mi  è  grato  ren- 
dergli pubblicamente  vive  azdoni  di  grazia,  con  sincera  gratitudini» 


40  l'antico  disegno  delle  regioni 

allo  splendore  della  Nazione.  Se  vogliamo  compiere  un'efficace  opera 
di  decentramento  e  dare  alla  nostra  patria  gli  istituti  che  più  le  si 
convengono,  bisogna  a  parer  mio  rispettare  le  membrature  naturali 
dell'Italia.  Se  volessimo  creare  l'artificiato  dipartimento  francese  riu- 
sciremmo a  spegnere  le  vive  forze  locali,  spostandone  e  distruggen- 
done i  centri  naturali  e  turbando  l'antico  organismo  pel  quale  esse 
si  mantengono  e  si  manifestano.  Io  penso  quindi,  che  noi  faremo 
opera  savia  e  previdente  non  usando  violenza  per  conseguire  ciò, 
ohe  seppure  ad  altri  possa  parere  perfetto,  non  può  essere  che  il 
frutto  del  tempo. 

«  Così  adoperando,  la  pubblica  opinione,  dalla  quale  solo  un  li- 
bero Stato  deve  pigliare  i  consigli  di  buon  Governo,  potrà  manife- 
stare le  vere  inclinazioni  universali  e  favoreggiare  senza  rammarichi 
e  senza  gelosie  il  sistema  della  unità.  Altrimenti  potrebbe  accadere 
che  per  impaziente  sollecitudine  e  per  iscrupolo  di  sistema,  si  abu- 
sasse del  concetto  unitario,  il  quale  per  se  stesso  tira  a  centralità  in 
ogni  ordine  dello  Stato.  Oggi  forse  non  se  ne  vedrebbero  tutti  i  pe- 
ricoli e  i  danni',  perchè  oggi  im{>era  sulla  coscienza  pubblica  l'idea 
e  la  forza  del  moto  unificativo  e  la  preoccupazione  della  politica  na- 
zionale leva  i  pensieri  da  ogni  cura  ed  interesse  di  minore  momento; 
ma,  o  m'inganno  o  sarebbe  poi  a  temersi  una  riscossa  perturbatrice 
dello  Stato  e  poco  propizia  a  quella  forte  unità  politica,  che-  tutti  noi 
vogliamo  fermamente  stabilire. 

«  Però,  tenute  buone  queste  avvertenze,  noi  dobbiamo  dimenti- 
care che  le  così  dette  autonomie  non  vanno  rispettate  più  di  quello 
che  abbia  voluto  rispettarle  il  sentimento  nazionale  degli  italiani, 
quando  con  meravigliosa  concordia  pronunciò  che,  solamente  in  uno 
Stato  unico,  l'Italia  poteva  trovare  la  forza,  la  prosperità  e  la  dure- 
vole pace.  Egli  è  mestiere  adunque  il  differenziare  sostanzialmente 
il  concetto  dei*varii  centri  morali,  che  possono  essere  ad  una  na- 
zione circoscrizione  dello  Stato,  dalla  memoria  di  quegli  antichi 
Stati  che  tenevano  l'Italia  frastagliata  e  soggetta  ad  un  forzato  e 
quasi  inestricabile  sistema  di  servitù.  Sarebbe  opera  contraria  alla 
coscienza  nazionale  il  fare  una  rappresentanza  amministrativa  degli 
Stati  irrevocabilmente  condannati  dalla  volontà  della  Nazione;  tanto 
più  che  quelli  nemmeno  disegnavano  sempre  le  naturali  regioni 
della  geografia  e  della  vita  storica,  d'Italia;  ma  i  più. erano  il  por- 
tato di  trattati  di  potenze  straniere  e  della  lunga  ed  infelice  con- 
quista, che  pesò  sopra  il  diritto  nazionale.  È  pertanto  mio  divisa- 
mento  che  la  nuova  circoscrizione  rispetti  e  reintegri,  dove  occorra, 
i  centri  naturali  della  vita  italiana,  ma  non  seguiti  necessariamente, 
né  mantenga  le  vecchie  divisioni  politiche. 

«  Stabiliti  i  limiti  delle  regioni  dovranno  essere  determinate  le 
attribuzioni.  Dirò,  per  le  generali,  non  essere  mio  avviso  che  alle 
accennate  grandi  circosrizioni  territoriali  si  convenga  di  dare  una 
rappresentanza  elettiva,  come  quella  che  ben  si  addice«alla  Provincie 
e  ai  Comuni.  Gli  interessi  di  più  Provincie  non  si  possono  accumu- 
lare e  confondere  ad  arbitrio  di  legge:  essi  si  formano  col  tempo, 
col  tempo  si  muttmo,  e  si  formano  e  si  mutiino,  tenendo  dietro  bensì 
ai  mutamenti  che  avvengono  nell'economia  sociale  e  civile,  ma  pur 
sempre  mantenendo  una  grande  attinenza  colle  {articolari  condizioni 
e  costumanze  locali.  Nelle  grandi  circoscrizioni  sono  facili  e  nabu- 


l'antico  disegno  delle  regioni  41 

rali  i  consorzi  di  più  Provincie  o  comunità  per  particolari  interessi  : 
non  è  naturale,  non  è  fcicile,  non  è  g^iusta  la  comunanza  ammini- 
strativa. 

«  Altra  e  più  grave  ragione  non  permette  a  parer  mio  di  dare. 
una  rappresentanza  elettiva  alle  grandi  circoscrizioni.  Un  Consiglio 
numeroso  deliberante,  co«  larga  autorità  sugli  interessi  di  regioni 
ampie,  in  città  che  furono  capitali  di  Stati,  renderebbe  imagine 
di  Parlamento:  e  le  possibili  leghe  di  più  Consigli,  le  tentazioni 
usurpatrici,  che  sono  naturali  a  tutte  le  numerose  adunanze  rappre- 
sentative, (potrebbero  offendere  l'autorità  dello  Stato  e  menomare 
la  libertà  di  quei  solenni  deliberati  che  sd  appartengono  per  legge 
e  per  ragione  di  Stati  al  solo  Parlamento  della  àìazione.  Nel  Parla- 
mento n£Lzionale  gli  interessi,  le  sollecitudini,  le  gare  e  come  di- 
ciamo i  pre^udizi  locali  rimpiccioliscono  e  si  sentono  vergognosi 
di  sé  medesimi.  Invece  in  quelli  che  si  potrebbero  chiamare  Parla- 
menti amministrativi  delle  grandi  circoscrizioni,  quegli  interessi, 
(juei  pregiudizi  sarebbero  alteri,  ostinati  e  procaccianti,  e  potreb- 
bero nei  gravi  momenti,  recare  offesa  all'autorità  suprema  ed  alla 
forza  dello  Stato. 

«  Considerate  poi  sott'altro  aspetto  codeste  rappresentanze  delle 
grandi  circòsci-izioni,  esse  andrebbero  direttamente  contro  il  fine 
che  vogliamo  proporci,  cioè  al  decentramento  amministrativo  che  è 
utile  e  grato  a  tutta  la  comunanza  civile.  Gli  impedimenti  alla  li- 
bera provvida  amministrazione  derivante  dall'accentramento  gover- 
nativo sarebbero  rinnovati  in  tanti  numeri  di  centri  quante  sareb- 
bero le  grandi  circoscrizioni  territoriali  e  perchè  sarebbero  più 
dannosi. 

«  Seguendo  i  principii  accennati,  sottopongo  all'-esame  della  Com- 
missione per  sommi  capi  il  modo  onde  io  penso  si  possa  recarli  ad 
effetto  e  la  distribuzione  degli  attributi,  le  reciproche  attinenze,  e 
quelle  dello  Stato. 

«  E  perchè  intendo  di  lasciare  ampia  libertà  di  discutere  e  pro- 
porre, ferme  le  massime  sostanziali,  tutto  ciò  che  riguarda  l'ap-pli- 
cazione,  così  darò  forma  di  quesito  ad  alcune  idee  sulle  quali  de- 
sidero un  autorevole  consiglio. 

«  Il  Regno  si  divide  in  Regioni,  Provincie,  Circondari,  Manda- 
menti e  Comuni.  Più  Provincie  insieme  riunite  formano  una  Re- 
gione la  cui  circoscrizione  deve  rispondere  ai  naturali  e  tradizionali 
scompartimenti  italiani,  p.  es.  :  Piemonte,  Lombardia,  Emilia,  To- 
scana, Liguria,  Sardegna. 

«  Ogni  Regione  è  sede  di  un  Governatore  che  rappresenta  il  Po- 
tere esecutivo  con  le  attribuzioni.  Fanno  capò  ad  esso  politicamente 
gli  Intendenti  delle  Provincie.  Egli  pronuncia  in  via  d'appello  nelle 
materie  che  la  legge  determina.  Komina  i  sindaci,  o  gonfalonieri, 
sopra  una  terna  proposta  dai  Consigli  comunali,  meno  quelli  dei 
Capoluoghi  di  Regione  e  di  Provincia  i  quali  saranno  nominati  dal 
Re.  Presso  di  lui  vi  sarà  un  ufficio  d'ispezione  sulla  disciplina  degli 
impiegati  e  dei  pubblici  funzionari.  Nomina  gl'impiegati  d'ordine 
inferiore:  propone  gl'impiegati  d'ogni  grado,  e  li  può  sospendere 
per  un  tempo  determinato.  Governa  supremamente  la  polizia  in 
tutta  la  Regione.  La  Commissione  giudicherà,  se  convenga  lo  adu- 


42  l'antico  disegno  delle  regioni 

nare  presso  il   Governatore  una  ipoco  numerosa  congregazione  di 
Delegati  delle  Provincie. 

«  Le  Provincie  comprese  in  una  medesima  Regione  possono 
eventualmente  formare  dei  Consorzi  per  affari  determinati,  p.  es.  : 
strade,  acque,  istruzione,  beneficenza,  belle  arti,  e  fors'anche  car- 
ceri di  pena,  ecc.,  stabilire  fra  le  Provincie  della  stessa  Regione 
Consorzio  permanente» 

R' sulta  chiaro  il  concetto  del  ministro  Farini  di  creare  colla 
Repcione  un  organo  di  governo  intermedio  e  di  decentramento  locale, 
evitando  di  costituire  un  ente  amministrativo  sovrapposto  alla  Pro- 
vincia, con  rappresentanza  elettiva  propria,  foggiata  a  guisa  di  Par- 
lamento regionale.  ^Evidentemente  si  trattava  di  una  direttiva  fon- 
damentale concretala  col  Presidente  del  Consiglio,  Conte  di  Ca- 
vour, del  quale  trovo  l'aippunto  autografo  seguente,  di  cui  sopra  ho 
fatto  cenno: 

«  Sarebbe  opera  contraria  alla  coscienza  nazionale  il  fare  una 
rappresentanza  amministrativa  degli  Stati  irrevocabilmente  con- 
dannati dalla  volontà  della  Nazione;  un  Consiglio  numeroso  delibe- 
rante, con  larga  autorità  sugli  interessi  di  regioni  ampie,  in  città 
che  furono  capitali  di  Stati,  renderebbe  immagine  di  Parlamento 
e  potrebbe  colla  prevalenza  degli  interessi  e  delle  gare  locali,  offen- 
dere l'autorità  dello  Stato  e  menomare  la  libertà  dei  solenni  deli- 
berati ohe  appartengono  al  solo  Parlamento  della  Nazione».      * 

Notevole  la  ripetizione  di  alcune  frasi  stesse  cavouriane  nella 
nota  sovratrasc ritta  di  Farini,  il  quale  desiderò  naturalmente  at- 
tenersi nel  modo  più  esatto  alla  concezione  del  suo  grande  Capo  ed 
intimo  ispiratore  di  ogni  suo  più  importante  atto  politico. 

La  Commissione  norpinata  dal  Farini  delegò  ad  una  Giunta, 
scelta  nel  seno  della  Commissione  stessa,  l'esame  della  proposta  del 
Ministro  e  questa  deliberò  di  sottoporre  all'intiera  Commissione  tre 
proposte  per  servire  di  tema  alla  discussione  e  per  rendere  più  fa- 
cile una  risoluzione  definitiva.  La  prinna  proposta  era  così  concepita  : 

«  Sulla  questione  delle  così  dette  Regioni  corrispondenti  agli 
«antichi  Stati  di  Piemonte,  Toscana.  Lombardia,  Emilia,  ecc.; 

«  Considerando  che  due  diversi  sono  gli  aspetti  sotto  i  quali  una 
«tale  questione  può  essere  esaminata: 

«  1°  Sotto  il  rapporto  delle  attribuzioni  che  nelle  cose  di  am- 
«  ministrazione  generale  e  centrale  convenga  attribuire  ai  Capi  delle 
«  Regioni; 

«2°  Sotto  il  rapporto  delle  attribuzioni  che  si  vogliano  jlare 
«alla  Regione  come  corpo  morale. 

«  Lo  scrivente  propone  sulla  prima  questione,  che  si  affidi  al 
«Capo  della  Regione  la  suprema  direzione  di  tutti  i  servizi. che  si 
«  esercitano  per  conto  dello  Stato»  in  materia  amministrativa  e  po- 
<f  litica,  fissando  che  la  corrispondenza  dei  Ministri  sia  fatta  sola- 
«  mente  con  esso;  eh©  da  esso  debbano  partire  le  proposte;  che  gli 
«competano  le  nomine  degli  impiegati  subalterni,  ecc.;  die  nel  suo 
"  Uffizio  esistano,  colla  forma  di  Direzioni  distinte  per  ogni  servizio, 
«  tutti  gli  uffizi  che  servono  alle  amministrazioni  centrali;  che  questo 
«  Capo-regione  debba  poi  in  ogni  cosa  essere  obbligato  a  s^uire  le 
«  direzioni  e  gli  ordini  generali  del  Governo,  ed  altro  non  sia  che 
«  l'organo  della  sua  volontà. 


l'antico  disegno  delle  regioni  43 

«  Sulla  seconda  questione  che,  senza  intaccare  l'esistenza  delle 
Provincie,  si  affidino  alla  Regione,  come  corpo  morale,  tutti  quegli 
"  affari  di  cui  da  attento  esame  risulterà  potersi  liberare  l'Ammini- 
«  strazione  centrale  senza  pericolo  per  l'unità  e  la  forza  dello  Stato; 
«  che  si  ammetta  un  Corpo  deliberante  elettivo  circondato  da  quelle 
«cautele  che  la  discussione  dimostrerà  opportune  per  assopire  i  ti- 
«  mori  che  desta  in  molte  persone  una  tale  creazione. 

«  Proporrei  subordinatamente  :  Centri  amministrativi-politici, 
«  ma  senza  Rappresentanza  collettiva,  né  Corpi  elettivi,  ma  solo 
«come  discentramento  daireLzione  governativa. 

«  Un  Governatore  sai-ebbe  il  nucleo  di  questi  grandi,  centri; 
«avrebbe  la  rappresentanza  del  Governo;  attribuzioni  sul  ramo  po- 
«  litico,  ossia  sulle' materie  attribuite  al  Ministero  dell'Interno  da  cui 
«  dipenderebbe;  potrebbe  forse  attribuirsi  al  medesimo  in  via  nor- 
«  male  anche  ciò  che  spetta  al  Ministero  d'agricoltura,  industria  e 
«commercio:  sugli  altri  rami  della  pubblica  amministrazione  non 
«  avrebbe  che  un'alta  vigilanza. 

«  Sarebbero  da  crearsi  in  questi  grandi  centri  degli  Uffizi  supe- 
«  riori  per  le  finanze  e  pei  lavori  pubblici. 

«  Il  giudiziario  ed  il  militare  rimarrebbero  affatto  indipendenti, 
salvo  la  creazione  anche  per  questi  Tribunali  superiori  e  di  Co- 
mandi militari. 

«  Quanto  alle  rapipresentanze  degli  interessi,  resterebbero  ferme 
«  le  attuali,  cioè  le  Comunali,  le  Provinciali,  la  Parlamentare. 

«  E  ciò  senza  pregiudizio  di  eventuali  Consorzi  giusta  la  prb- 
«  posta  antecedente  » . 

Nella  discussione  la  Commissione  si  divise  in  due  grandi  cor- 
renti di  opinioni,  l'una  favorevole  alla  creazione  della  Regione  come 
divisione  governativa  unicamente,  l'altra  che  intendeva  ohe  la  Re- 
gione dovesse  costituire  altresì  un  ente  morale  e  che  il  Governatore 
fosse  assistito  da  una  Commissione  composta  di  membri  eletti  dai 
Consigli  provinciali  nel  proprio  seno. 

Dopo  lunghi  e  gravi  dibattiti  si  formò  una  maggioranza  a  fa- 
vore di  quest'ultima  opinione  e  fu  deciso  di  rassegnare  al  Ministro 
le  diverse  disposizioni  così  riordinate  : 


Proposte  rassegnale  al  Ministro. 
Regioni. 

«  Le  Regioni  corrispondono  alle  grandi  divisioni  territoriali  ac- 
cennate dal  Ministro,  salve  le  modificazioni  di  confine,  che,  per  ra- 
i:ioni  (particolari,  debbano  stabilirsi,  e  di  cui  sarà  miglior  giudice 
il  Governo.  Si  riserva  per  ora  la  questione  riguardo  all'Emilia. 

«  La  Regione  ha  vita  ed  amministrazione  propria.  È  ammini- 
strata da  una  Commissione  regionale  come  autorità  deliberante. 

«  I  Commissari  regionali  sono  eletti  dai  Consigli  provinciali  nel 
proprio  seno.  —  Ciascheduna  Provincia  deputa  tre  Commissari.  Qua- 
lora però  una  Regione  si  componga  di  un  numero  di  Provincie  non 
maggiore  di  tre,  ognuna  di  esse  ne  eleggerà  quattro.  —  La  Commis- 
sione regionale  sarà  riunita  una  volta  l'anno  in  s^sione  ordinaria». 


44  l'antico  disegno  delle  regioni 


Governatore. 

«  In  ogni  Regione  è  stabilito  un  Governatore,  che  rappresenta 
il  Governo  del  Re,  ed  ha  la  precedenza  sulle  aU-re  Autprità  della 
Regione.  . 

«  Il  Governatore  ha  nella  sua  diretta  dipendenza  i  servizi  pub- 
blici, di  sicurezza  pubblica  e  di  amministrazione,  che  sono  di  com- 
p-etenza  del  Ministero  dell'Interno,  e  vi  provvede  sulla  sua  respon- 
sabilità in  conformità  delle  istruzioni  del  Ministero.  Esso  compie 
inoltre  quegli  atti  nell'interesse  dei  servizi  dipendenti  dagli  altri 
Ministeri,  che  gli  fossero  attribuiti  da  l^gi  speciali,  o  delegati  dai 
Ministri. 

«  Il  Governatore  generale  veglia,  nell'interesse  dell'ordine  e  della 
sicurezza  pubblica,  sull'andamento  di  tutti  i  servizi  dipendenti  dal- 
l'Amministrazione dello  Stato,  ed  esercita  un'alta  sorveglianza  sulla 
disciplina  del  personale  addetto  ai  servizi  medesimi.  —  Non  ha  però 
ingerenza  nei  servizi  giudiziari  e  militari.  A  quest'effetto  i  Capi  dei 
diversi  servizi  pubblici  esistenti  nella  Regione  sono  tenuti  di  rag- 
guagliarlo di  tutti  i  fatti,  la  cui  gravità  e  natura  interessar  possa 
lordine  pubblico». 

Competenza  delle  Commissioni  Regionali. 

«Sono  regionali  tutte  le  strade  che  non  sono  consortili,  Comii 
nali  o  Provinciali,   e  non   saranno  per   legge  dichiarate  Nazionali 
perchè  interessanti  direttamente  la  generalità  dello  Stato,  sotto  il 
rapporto  della  difesa  nazionale,  e  del  commercio  coll'estero. 

«  Saranno  Nazionali  i  porti  che  saranno  riconosciuti  di  utilità 
generale  dello  Stato. 

«  Gli  altri  porti,  che  non  siano  meramente  Comunali,  o  Provin- 
ciali, sono  Regionali. 

«  La  Regione  sottentra  nei  diritti,  e  negli  obblighi  dello  Stato  ri- 
guardo agli  argini,  ed  altre  opere  e  spese  occorrenti  pei  fiumi,  ad  ec- 
cezione di  quelli  che  saranno  per  legge  dichiarati  nazionali,  siccome 
interessanti  la  difesa  ed  il  commercio  generale  dello  Stato. 

«<  Per  le  strade  e  fiumi,  che  interessano  più  Regioni  ed  i  confini 
dello  Stato,  il  Governo  determina  le  discipline,  e  decide  i  conflitti. 

«  Nelle  strade,  e  nei  fiumi,  ohe  vengono  dalla  legge  dichiarati 
Nazionali,  lo  Stato  concorre  colla  Regione,  o  colle  Regioni  nelle 
misure  da  esso  deliberate. 

«  Il  Governatore,  quale  rappresentante  dello  Stato,  prowederà 
ai  lavori,  per  mezzo  degli  Uffizi  Regionali. 

«  Sono  a  carico  delle  Regioni  i  mentecatti  e  gli  esposti,  per 
quanto  erano  a  carico  dello  Stato,  delle  Provincie  e  dei  Comuni. 

«  GÌ' Istituti  d'istruzione  pubblica  superiore, .  le  Università  ed 
Accademie  di  belle  arti  appartengono  alla  Regione,  riservate  allo 
Stato  le  norme  superiori  direttive,  e  tutte  le  discipline  iper  gli  esami 
e  collazione  dei  gradi,  riservate  ancora  lo  libertà  d'insegnamento, 
nei  modi  che  saranno  stabiliti  dalLa  legge. 

«  Non  s'intende  con  ciò  di  escludere  il  diritto  dello  Stato  di  aver» 
Istituti  esemplari. 


l'antico  disegno  delle  regioni  46 

«  La  Commissione  regionale  avrà  la  facoltà  di  fare  Regolamenti 
speciali  nelle  materie  forestali,  agrarie,  e  della  caccia  (nei  limiti 
che  saranno  det-erminati  dalle  leggi)  coll'approvazione  del  Re,  pre- 
ceduta dal  parere  del  Consiglio  di  Stato. 

«  Le  Regioni  avranno  inoltre  quelle  altre  attribuzioni,  che  loro 
saranno  date  con  leggi  speciali.  Quelle  poi  ora  ad  esse  conferite 
s'intenderanno  date  in  conformità  delle  leggi  speciali  sulla  materia  ». 

Potere  esecutivo  della  Regione. 

«  Il  potere  esecutivo  per  le  cose  della  Regione  appartiene  al  Go- 
vernatore, il  quale  rende  conto  alla  Commissione  regionale  della 
sua  amministrazione. 

«  Egli  è  assistito  da  due  Assessori  nominati  dalla  Commissione, 
ai  quali  ipuò  chiedere  consiglio,  e  delegai^  anche  disgiuntamente  i 
proprii  poteri.  Questi  Assessori  in  un  col  Governatore  costituiscono 
la  Giunta  incaricata  di  formare  il  bilancio  preventivo. 

«  Le  nomine  degl'Impiegati  degli  uffizi  della  Regione  apparter- 
ranno esclusivamente  al  Governatore. 

«  Quanto  alle  nomine  degli  altri  Impiegati  e  funzionari  dipen- 
denti dalla  Regione,  provvederà  la  Commissione  Regionale,  osser- 
vate le  norme  stabilite  dalle  leggi  relative  alle  singole  materie  e  dai 
>ingoli  Regolamenti  speciali,  che  si  faranno  dalla  Regione,  coll'ap- 
provazione del  Re  » • 

• 

Succeduto  il  Minghetti  al  Farini  nel  Ministero  presieduto  dal 
Conte  di  Cavour,  pregò  di  nuovo  la  Commissione  stessa  nominata  dal 
suo  predecessore  di  continuare  gli  studi  e  di  formulare  più  specifi- 
camente e  nelle  sue  varie  parti  il  disegno  di  legge  sull'Ordinamento 
amministrativo  del  nuovo  Regno.  Nella  seduta  del  28  novembre  1860 
egli  dava  lettura  alla  Commissione  della  nota  seguente  ohe  per  ne- 
cessità di  spazio  riproduco  solo  jiella  parte  che  si  riferisce  all'ordi- 
namento regionale: 

«  La  riforma  deve  avere  per  fine  di  stabilire  e  eonsolidare  l'unità 
politica,  militare  e  finanziaria  del  Regno,  e  discentrare  al  possibile 
l'amministrazione.  I  Commissari!  avranno  sempre  presente  all'animo 
il  primo  di  questi  due  intenti,  siccome  quello  che  è  essenziale  e 
supremo,  e  però,  dando  nelle  loro  proposte  alla  iniziativa  dei  pri- 
vati e  delle  minori  aggregazioni  civili  tutta  la  larghezza  possibile, 
non  dimenticheranno  mai  che  le  varietà  locali,  per  quanto  si  fon- 
dino sulla  tradizione,  sulle  abitudini  e  sui  desiderii,  non  debbono 
affievolire,  ma  afforzare  l'unità  nazionale. 

«  Pertanto  il  discentramento  amministrativo  non  potrà  operarsi 
che  intomo  alle  attribuzioni  di  quattro. Ministeri,  cioè  Interno.  Istru-. 
zione  pubblica.  Lavori  pubblici.  Agricoltura  e  Commercio.  Dal  pri- 
mo può  togliersi  tutto  quanto  riguarda  beneficenza,  opere  pie,  igiene, 
sanità,  teatri,  caccia  e  pesca,  monumenti  pubblici;  dal  secondo, 
l'insegnamento  medio  ed  il  tecnico,  le  università  ed  accademie  di 
belle  arti;  dal  terzo,  le  acque,  strade  e  porti  secondarli;  dal  quarto, 
l'agricoltura,  boschi  e  statistica. 


46  l'antico  disegno  delle  regioni 

«  Verrà  giorno  forse,  in  cui  anche  la  pubblica  sicurezza  e  le 
carceri  di  pena  possano  essere  amministrate  dalle  Autorità  locali, 
ma  ora  lo  vietano  le  condizioni  presenti  d'Italia  e  la  pubblica  opi- 
nione. 

«  Quanto  alle  modificazioni  che  di  necessità  verranno  alle  fi- 
nanze, comeohè  rilevanti,  non  saranno  che  accessorie,  e  non  deb- 
bono alterare  il  sistema  dei  tributi.  ^ 

«Il  discentramento  può  farsi  in, due  modi:  o  delegando  ai  Rap- 
presentanti del  Governo  nelle  varie  parti  del  Hegno  molte  facoltà 
che  sogliono  essere  proprie  dei  Ministeri,  ovvero  spogliando  il  Go- 
verno di  queste  facoltà  ed  attribuendole  ai  cittadini. 

«  La  Provincia  italiana  non  è  così  vasta  né  così  «popolata  e  co- 
piosa di  ricchezze  da  poter  supplire,  almeno  per  ora,  a  tutte  quelle 
funzioni  che  ho  indicato  sopra  e  che  il  Governo  sarebbe  disposto  di 
affidare  ai  cittadini.  I  Prefetti  sono  troppi  di  numero  da  poter  loro 
delegare  tutti  i  poteri  efficaci  ad  un  vero  discentramento,  senza  cor- 
rere il  pericolo  di  varietà  e  discrepanza  soverchia  nell'andamento 
dell'amministrazione. 

«  Uopo  è  dunque  di  formare  .  un'altra  aggregazione,  un  altro 
Ente  morale  maggiore  della  Provincia,  cosicché  il  Rappresentante 
del  Governo  possa  ivi  securamente  avere  quei  poteri  che  abbiamo 
accennato,  ed  insieme  il  consorzio  delle  Provincie  bastare. al  fine 
desiderato.  .Tali  sarebbero  le  Regioni. 

«  Non  é  mia  intenzione  che  la  Commissione  per  ora  determini 
precisamente  quante  e  quali  debbano  essere  queste  regioni.  Ciò  for- 
merà l'oggetto  di  altro  studio  speciale,  nel  quale  molti  elementi 
dovranno  tenersi  a  calcolo,  e  non  ultimo  Ja  diversità  di  leggi  e  di 
istituti  che  sinord  ebbero  vita  nelle  varie  parti  d'Italia.  Imperocché, 
quand'anche  l'unificazione  amministrativa  volesse  farsi  in  modo  più 
completo  nell'avvenire,  la  instituzione  delle  Regioni  potrà  riguar- 
darsi come  mezzo  a  cotanto  fine. 

«E  veramente  io  la  considero  tanto  come. un  temperamento  di 
transizione,  quanto  come  una  prova  che  può  renderne  stabile  durata. 
Dico  un  temperamento  di  transizione,  per  facilitare  il  trapasso  dallo 
stato  di  divisione,  in  che  l'Italia  fu  per  tanti  secoli,  ad  uno  stato 
normale.  Quando  la  libertà  avrà  vivificato  e  svolto  tutti  i  germi  d'in- 
gegno, di  ricchezze,  che  sono  pur  troppo  latenti  nella  nostra  patria, 
quando  l'esercizio  delle  pubbliche  funzioni  sarà  divenuto  un  abito 
generale  dei  cittadini,  potrà  allora  la  Provinica  sola  compendiare  in 
sé  molti  degli  uffici  che  il  Governo  deporrebbe  ora  nelle  mani  del 
Governatorato  e  dell'Ammmistrazione  regionale;  e  la  Regione  stessa 
scomparirà.  Che  se  questa  invece  rispondesse  all'indole  ed  alle  in- 
clinazioni italiane,  potrà  mettere  salde  radici,  e  perfezionandosi,  di- 
venire istituzione  perenne.  Giudicar  questo  a  priori  lo  credo  impos- 
sibile, e  l'esperienza  sola  potrà  dare  il  responso;  a  me  basta  che  lo 
stabilire  oggi  questo  ordinamento  sia  non  solo  possibile,  ma  utile 
ed  opportuno.  Appresso  a  queste  considerazioni  generali  passo  ad 
avvertenze  particolari. 

«e  Le  Regioni  sono  un  consorzio  permanente  di  Provincie. 

«  In  ogni  Regione  havvi  un  Governatore. 

«  Il  Governatore  ha  nella  sua  diretta  dipendenza  i  servizi  poli- 
tici e  di  amministrazione  che  sono  di  competenza  del  Ministero  del- 
l'Interno, e  vi  provvede  in  conformità  delle  istruzioni  del  Ministero. 


l'antico  disegno  delle  regioni  47 

«  Egli  compie  inoltre  quegli  atti,  nell'interesse  dei  servizi  dipen- 
denti dai  Ministeri  che  gli  fossero  attribuiti  da  leggi  speciali,  o  dele- 
gati dai  Ministri. 

a  II  Governatore  veglia,  nell'interesse  dell'ordine  e  della  sicu- 
rezza pubblica,  sull'andamento  di  tutti  i  servizi  dipendenti  dallam- 
ministrazione  dello  Stato,  e  sulla  disciplina  delle  "persone  addette  ai 
servizi  medesimi.  Non  ha  però  ingerenza  nei  serv.izi  giudiziari  e 
militari. 

«  Al  fine  suddetto  i  capi  dei  diversi  servizi  pubblici  esistenti  nella 
Regione,  sono  tenuti  di  ragguagliarlo  di  tutti  i  fatti  la  cui  gravità,  o 
natura  può  interessare  l'ordine  pubblico. 

«  Il  Governatore  è  in  diritto  di  fare,  o  di  prescrivere  in  ogni 
tempo  le  indagini,  od  inchieste  che  allo  stesso  fine  riconoscerà  neces- 
sarie; gli  Ufficiali  del  Governo  sono  nell'obbligo  di  ottemperare  a  tali 
richieste. 

«  Il  Governatore,  venendo  a  riconoscere  a  carico  degli  Ufficiali 
pubblici  fatti  previsti  dalle  leggi  penali,  li  rimette  all'Autorità  giu- 
diziaria; provoca  dall'Autorità  competente  la  riforma  di  ogni  abuso. 

«  Esso  può,  in  caso  d"'urgenza,  sospendere  gl'impiegati  dipendenti 
dal  Governo  del  Re;  può  parimenti  sospendere  i  provvedimenti  delle 
diverse  Amministrazioni  in  corso  di  esecuzione;  e  può  anche  dare, 
sotto  la  sua  responsabilità,  ordini  obbligatori  per  tutte  le  Ammini- 
strazioni. In  tutti  questi  casi  deve  immediatamente  informare  il  Go- 
verno del  Re  del  suo  operato. 

«  Il  Governatore  protegge  tutti  gli  Ufficiali  del  Governo  nel  com- 
pimento delle  loro  attribuzioni. 

«  I  provvedimenti  relativi  a  nomine,  sospensioni,  o  revoche  d'im- 
piegati del  Governo  nelle  Regioni  devono  essere  dal  Governo  comu- 
nicati ai  capi  dei  servizi  speciali  per  mezzo  dell'Ufficio  del  Governa- 
tore. Questi  è  sempre  in  diritto  di  sospenderne  la  spedizione  per  fare 
al  Governo  del  Re  le  rappresentanze  che  fossero  convenienti  e  per 
illuminarlo. 

«La  Regione,  come  consorzio  permanente  di  Provincie,  formerà 
un  Ente  morale,  avente  due  peculiari  fini,  che  sono  i  seguenti  : 

1"  Il  mantenimento  delle  strade  che  finora  ebbero  il  nome  di 
nazionali,  gli  argini  ed  altre  opere  occorrenti  alla  difesa  dei  fiumi, 
le  quali  non  siano  amministrate  da  Consorzi,  o  da  Comuni.  Sarà 
stabilito  per  Legge  quando  lo  Stato  debba  concorrere  alla  costruzione, 
o  al  mantenimento  di  alcune  principali  strade,  e  similmente  alla  di- 
fesa di  taluno  dei  principali  fiumi. 

«  Per  le  strade  e  fiumi  che  interessano  piìi  Regioni  ed  i  confini 
dello  Stato,  il  Governo  determina  le  discipline  e  decide  i  conflitti. 

«  Le  strade  ferrate,  le  poste,  i  telegrafi  spettano  interamente  allo 
Stato. 

2*'  Gli  Istituti  d'istruzione  *superiore,  le  Università  ed  Accade- 
mie di  belle  arti,  riservando  allo  Stato  le  norme  superiori  direttive, 
l'approvazione  degli  statuti  organici  e  tutte  le  discipline  per  gli  esami 
e  la  collazione  dei  gradi,  come  pure  l'ispezione  sulle,  scuole  di  ogni 
genere. 

«  Non  s'intende  con  ciò  di  escludere  lo  Stato  dall'avere  Istituti 
esemplari  d'ogni  maniera;  similmente  è  riservata  la  libertà  d'inse- 
gnamento nei  modi  che  saranno  stabiliti  dalla  legge. 


48  l'antico  disegno  delle  regioni 

«  L'amministrazione  di, questi  due  importantissimi  servizi  pub- 
blici è  affidata  al  Governatore  e  ad  una  Commissione  regionale.  Que- 
sta si  compone  di  Commissarii  eletti  nel  proprio  seno  per  ciascun 
Consiglio  provinciale.  Il  numero  dei  Gommiissari  potrà  proporzionarsi 
al  numero  delle  Provincie  consociate,  in  guisa  però  che  non  oltre- 
passi mai  il  numero  di  venti. 

«  La  Commissione  regionale  è  convocata  dal  Governatore  una 
volta  l'anno:  ha  voto  deliberativo  sul  bilancio.  Il  potere  esecutivo  ap- 
partiene intieramente  al  Governatore,  il  quale  può  scegliere  fra  i 
Commissari  due  Assessori  e  delegar  loro  anche  disgiuntamente  i  pro- 
pri! poteri,  all'uno  pei  lavori  pubblici,  all'altro  per  l'istruzione.  Que- 
sti Assessori,  in  un  col  Governatore,  costituiscono  la  Giunta  inca- 
ricata di  formare  il  Bilancio  di  previsione. 

«  Le  nomine  degli  impiegati  degli  uffizi  della  Regione  apparten- 
gono interamente  al  Governatore.  Quanto  alle  nomine  degli  impie- 
gati del  Genio  Civile  e  dell'insegnamento  superiora,  sarà  da  studiare 
in  (jual  modo  possa  parteciparvi  anche  la  Corrmiissione  regionale. 

«  Non  è  per  avventura  necessario  il  ripetere  che  colali  disposi- 
zioni saranno  sempre  subordinate  a  norme  generali,  comuni  a  tutto 
lo  Stato,  e  alla  suprema  tutela  governativa.  Il  Governo  avrà  per  la 
Commissione  regionale  la  stessa  facoltà  che  ha  già  per  i  Consigli  co- 
cunali  e  provinciali,  quella  cioè  di  scioglierla  per  motivi  d'ordine 
pubblico,  provvedendo  ad  una  nuova  convocazione. 

«  Il  bilancio  attivo  della  Regione  sarà  formato  mediante  un  con- 
tributo delle  Provincie. 

«  Piacciavi,  o  signori,  di  determinare  nel  progetto  di  legge,  quali 
debbano  essere  le  regole  di  siffatta  ripartizione». 

• 

Dai  lavori  della  Commissione  uscì  il  progetto  di  legge  Minghetti 
sul  decentramento  amministrativo  comprendente  la  divisione  del 
Regno  in  Comuni,  Provincie  e  Regioni,  progetto  respinto  dalla  Com- 
missione parlamentare  a  cui  era  stato  deferito  poche  settimane  dopo 
la  morte  del  Conte  di  Cavour.  Come  è  noto  la  Commissione  propose 
invece  di  estendere  a  tutto  il  Regno  la  legge  amministrativa  piemon- 
tese del  1859  e  la  proposta  fu  accolta  senza  opposizione  dalla  Camera 
e  dal  Senato,  dopoché  Bettino  Ricasoli,  succeduto  al  Cavour  nella 
presidenza  del  Òonsiglio,  si  era  affrettato  a  ritirar^  il  progetto  Min- 
ghetti,  abbandonando  la  concezione  di  Cavour,  Farini  e  Minghetti,  di 
una  riforma  amministrativa  organica,  conforme  alle  tradizioni  delle 
popolazioni  italiane,  alle  quali  evidentemente  mal  poteva  adattarsi 
una  legge  fatta  per  una  sola  Regione  italiana. 

Rimase  così  sepolto  il  disegno  delle  Regioni,  né  mai  valse  a  n 
sollevarlo  neppure  la  voce  autorevole  di  uomini  di  Stato  la  cui  mente 
è  paragonabile  a  quella  dei  primi  ordinatori  del  nuovo  Regno,  quali 
Francesco  Crispi,  Stefano  Jacini  e,  in  tempi  a  noi  più  vicini,  Pietro 
fJortolini.  Nel  1874  fu  annunziato  dal  partito  della  Destra,  allora  al 
|K)tere,  il  «proposito  di  ripresentare  alla  Camera  la  riforma  ammi- 
nistrativa comprendente  le  Regioni,  ma  a  tale  proposito  il  ministro 
Minghetti  non  diede  dipoi  seguito.  Luigi  Luzzatti,  allora  segretario 
generale,  discepolo  preidiletto  e  collaboratore  cfi  Marco  Minghetti, 


l'antico  disegno  delle  regioni  49 

potrebbe  dircene  le  ragioni  e  ci  auguriamo  vorrà  farlo,  anche  perchè 
la  sua  parola  autorevole  avrebbe  la  massima  importanza,  sull'argo- 
mento. 

Qualunque  siano  le  sorti  del  nuovo  tentativo  che  si  sta  oggi  ma- 
turando per  dare  all'Italia  una  riforma  amministrativa  veramente  or- 
ganica che  la  liberi  da  uno  dei  mali  più  gravi  di  cui  soffre  il  nostro 
Paese,  cioè  l'inceppamento  burocratico,  ciò  che  mi  parve  essenziale 
fosse  messo  in  luce  è  il  concetto  generale  della  riforma  che  si  intitola 
ai,  nomi  di  Cavour,  Farini  e  Minghetti.  Secondo  la  quale  si  trattava 
di  rispettare  le  membrature  naturali  dell'Italia  per  dare  ad  essa  mag- 
gior forza  di  unità  nazionale,  non  già  di  creare  altrettanti  Parlamenti 
locali,  focolari  di  federalismo  regionale,  destinati  a  riprodurre,  forse 
ingigantiti,  i  mali  da  cui  è  afflitto  il  Parlamento  nazionale.  A  questo 
grave  pericolo  crediamo  intendesse  accennare,  con  intuito  di  uomo 
di  Stato,  Filippo  Meda,  nel  recente  Congresso  del  Partito  Popolare 
a  Venezia.  Possano  i  nostri  legislatori  rinvigorire  e  rinsaldare  con 
poderose  armature,  secondo  il  carattere  nazionale,  la  struttura  in- 
terna del  maestoso  edifìcio  che  sorse  dalle  macerie  dei  varii  Stati  della 
Penisola,  edifìcio  innalzato  a  gran  tratti  ed  a  linee  possenti  col  no- 
stro Risorgimento  e  coronato  ora  del  supremo  suo  fastigio  colla  vit- 
toriosa guerra  nazionale;  ma  si  ispirino  sempre  alle  concezioni  so- 
brie ed  alte  degli  eroici  architetti,  concezioni  che,  anche  in  mezzo  ad 
incertezze  e  ad  errori  inevitabili,  portano  pur  sempre  l'impronta  im- 
mortale del  genio,  si  ispirino,  come  a  nume  tutelare,  al  loro  salutare 
buon  senso, .  al  loro  insuperabile  amore  per  l'Italia,  onde  rafforzare 
ed  abbellire  il  sublime  edifìcio  della  Patria,  non  guastarlo  mai. 

•  Ernesto  Artom. 


I 


Voi.  CCXVI,  serie  VI  —  l*  gennaio  1922 


IL  CASO  DI   BIANCA   NERI 


I. 

—  È  una  ragazza  nata  a  scorno  della  logica  e  del  principio  di 
causalità,  diceva  l'istitutrice,  una  vecchia  inglese  lunga  e  stecchita, 
con  gli  occhiali. 

Infatti  era  un  carattere  a  rovescio.  Durante  gli  anni  ch'era  stata 
rinchiusa  nell'Bkiucandato  delle  Suore,  aveva  fatto  disperare  maestre 
e  Madre  Superiora.  Chi  cercava  ?  Le  compagne  che  la  fuggivano  e  le 
facevano  dispetti.  Che  preferiva?  Gli  studi  nei  quali  non  riusciva. 
Rideva  il  Venerdì  Santo  e  piangeva  di  Natale  e  di  Pasqua,  studiava 
nelle  ore  di  ricreazione  e  faceva  il  chiasso  in  quelle  di  studio,  dor- 
miva in  Chiesa  e  pregava  nel  dormitorio:  sentiva  freddo  d'estate 
e  caldo  d'inverno.  Ma  ciò  che  faceva  perdere  addirittura  il  lume 
della  ragione  a  Suor  Ekigarda  era  l'incostanza  nelle  sue  stesse  con- 
tradizioni, perchè  talvolta  nella  contradizione  si  contradiva,  tornando 
alla  norma  comune. 

Quando,  spinte  all'esasperazione  da  questa  creatura  di  follia,  le 
maestre  secolari  o  le  compagne  le  gridavano:  —  Insomma,  che  dia-* 
volo  hai?  —  ella,  mentre  dalle  pupille  sprizzava  fiamme  birichine 
e  indemoniate,  alzando  le  spalle  e  distendendo  le  braccia  in  croce, 
rispondeva  col  suo  accento  napoletano: 

—  Che  ci  posso  fare  ?  Mi  chiamo  Bianca  Neri. 

E  intanto  le  sue  ciglia  bellissime  s'inarcavano  fino  alla  massa 
bruna  dei  capelli  e  la  chiostra  dei  dentini  splendeva  —  avrebbe  detto 
il  poeta  Wang-ci-fu  —  come  una  fila  di  chicchi  di  riso  ben  brillati. 

Bianca  Neri  !  Proprio  così  :  il  padre,  bizzarro  anch'egli,  trovan- 
dosi di  cognome  Neri,  aveva  creduto  di  non  poterle  imporre  altro 
nome  che  Bianca. 

È  un  vero  cotrattempo  ohe  questo  carattere  non  appartenesse  a 
qualche  Sonia  o  Feodorow^na  fascmatrice  e  fatale,  passionale  ed 
enigmatica,  ad  una  di  quelle  slave  ohe  ormai  è  convenuto  che  siano 
state  messe  al  mondo  per  far  perdere  la  testa  a  quelli  che  non  l'hanno. 
Bianca  Neri,  nata  sulle  sponde  della  Neva,  del  Volga  o  del  Don, 
avrebbe  formato  la  delizia  intellettuale  di  tutti  i  Sardou  o  Gher- 
buliez  del  mondo.  Ma  tant'è  :  ella  era  napoletana  e  come  tale  —  in 
questo  almeno  non  c'era  contradizione  —  ghiottissima  di  mozzarelle 
e  spaghetti  con  le  vongole. 

Predire  la  sorte  di  Bianca  Neri?  Questa  sì  che  sarebbe  stata 
virtù  profetica.  Il  suo  cuore  e  il  suo  cervello  erano  due  arche  di  Noè, 
dove  il  colombo  e  lo  sparviero,  l'agnello  e  il  lupo,  l'aquila  e  il  &er- 


IL  CASO  DI  BIANCA  NERI  Òl 

pente  s'erano  dati  convengno.  Il  padre  sosteneva  ohe,  siccome  tutto 
ciò  che  è  nuovo  e  peregrino  piace,  così  Bianca  sarebbe  stata  deside- 
ratissima  e  altamente  apiprezzata  nel  mondo:  ima  specie  di  Sha- 
kespeare della  femminilità. 

Ma,  non  di  meno,  a  ventiquattro  anni  e  con  cinquecentomila 
lire  di  dote,  non  aveva  trovato  ancora  marito  :  vero  che  più  di  una 
volta  non  l'aveva  voluto.  Lo  trovò  e  lo  volle  in  condizioni  roman- 
zesche. 

Viaggiava  con  la  sua  istitutrice  per  la  Sicilia  quando,  per  una 
di  quelle  distrazioni  dei  capi  stazione  volute  da  Dio  perchè  si  sfolli 
l'umanità,  il  treno  direttissimo  nel  quale  viaggiava  cozzò  contro  un 
accelerato  fermo.  Bianca  si  trovava  in  una  vettura  prossima  alla 
vaporiera,  vettura  sulla  quale  saltò,  come  un  toro  in  amore,  la  suc- 
cessiva sconquassandola  e  infrangendola.  Nella  paurosa  confusione, 
s'erano  durati  sforzi  per  liberare  quella  vettura  e  se  ne  erano  ipotuti 
estrarre  otto  o  dieci  viaggiatori  feriti.  Bianca  e  l'istitutrice,  illese 
per  fortuna,  si  trovavano  rincantucciate  in  una  specie  di  scatola  com- 
posta a  caso  dai  rottami,  la  loro  voce  s'udiva  poco  e  nessuno  se  ne 
curò.  Ma,  intanto,  la  scatola  posticcia  sotto  il  peso  del  ferro  e  del 
legname  accatastati  scricchiolava  e,  se  i  soccorsi  fossero  ritardati,  si 
sarebbe  potuto  dire  di  Bianca  Neri  come  di  Seiano:  «  actum  est  ». 

Volle  il  caso,  signore  del  mondo,  che  Renato  Alberti  sentisse  i 
lamenti  che,  come  di  sotterra,  venivano  fuor  dai  rottami,  si  desse 
attorno,  riuscisse  a  trovare  uomini,  leve  e  picconi,  e,  dopo  un'ora  e 
mezzo  di  faticoso  lavoro,  estraesse  dalla  fucina  negra  la  bella  fan- 
ciulla dalle  ciglia  lunate  e  la  vecchia  istitutrice. 

Corbezzoli!  Fu  una  lieta  sorpresa  :  come  quella  dei  racconti  delle 
fate.  Una  deliziosa  giovinetta,  che  la  paura  —  questa  volta  le  con- 
tradizioni solite  si  vollero  contradire  —  aveva  reso  più  interessante 
ed  amabile,  apparve  agli  occhi  di  Renato.  Simile  avventura  non  po- 
teva lasciar  freddi  i  due  cuori.  L'uno  sentiva  che  la  bella  bruna  era 
cosa  sua  ii>erchè  senza  il  proprio  aiuto  sarebbe  perita,  l'altra  vide  nel 
liberatore,  senza  il  quale  ella  si  sarebbe  spenta  come  un  fiammifero, 
l'uomo  mandato  da  Dio,  il  cavaliere  della  legenda,  colui  al  quale 
Bianca  Neri,  per  superiore  decreto,  doveva  essere  legata  per  sempiv. 

—  Chi  è  Lei?  —  Dove  va?  —  Che  prodigio!  —  Io  le  debbo  la  vita. 
—  Ma  io  debbo  la  vita  a  Lei,  che  per  la  prima  volta  me  ne  rivela 
l'incanto  —  Oh  Dio!  —  Sì  —  No  —  e,  dopo  un  colloquio  fra  il  dram- 
matico e  il  mellifluo,  che  non  riferisco  perchè  tutti  lo  direbbero 
arbifìzioso,  i  due  giovani  viaggiatori  stabilirono  di  proseguire  il 
viaggio  insieme. 

I  fratelli  Alvarez  Quintero  nel  «  Chiaro  di  Luna  »  fanno  finire  la 
cosa  diversamente,  perchè  i  due  viaggiatori  innamorati,  anziché 
godere  l'uno  dell'altro  dopo  avere  tanto  girato  nel  mondo  per  ritro- 
varsi, se  ne  vanno  ciascuno  dalla  sua  parte  per  non  perdere  il  pro- 
fumo, la  delizia  di  quell'incontro  e  consen^arli,  come  rigeneratori 
d'ideale,  per  tutta  la  vita:  fame  insomma  una  specie  d'ischirogeno 
sentimentale  da  tenersi  in  una  fialetta  a  portata  di  mano.  Ma  Renato 
e  Bianca  erano  di  questa  terra  e  preferirono  di  non  lasciarsi,  anche 
perchè  nell'avvenire  un  bis  in  simili  condizioni  sarebbe  stato  troppo 
difficile. 


52  IL  CASO  DI  BIANCA  NERI 

Per  farla  breve,  si  amarono,  si  convenivano,  si  sposarono.  Le 
cose  vanno  sempre  così.  Bianca  Neri,  per  una  volta  tanto,  quando 
s'era  trattato  del  gran  passo,  quando  si  faceva  sul  serio,  era  guarita 
del  mal  bizzarro.  Forse  chi  sa?  I  misteri  psichici  sono  impenetrabili 
e  come  a  un  inverno  freddo,  per  ristabilire  l'equilibrio  termometrico 
annuale,  succede  un'estate  calda,  c'è  da  credere  che  anche  in  un'ani- 
ma le  contradizioni  e  le  follìe  dei  piccoli  atti  quotidiani  siano  com- 
pensate dalla  coerenza  e  dalla  saggezza  degli  atti  maggiori.  In- 
somma, sia  quel  che  si  voglia.  Renato  e  Bianca  divennero  marito  e 
moglie. 

Ma  veramente  pareva  ohe  il  Destino  avesse  fatto  all'uno  e  al- 
l'altra un  brutto  scherzo,  perchè  due  caratteri  peggio  appaiati  non 
si  sarebbero  ritrovati  nelle  cinque  parti  della  terra. 

Bianca  era  nata  a  scorno  della  logica  e  del  principio  di  causalità. 
Ptenato,  al  contrario  —  anche  il  nome,  omaggio  a  Cartesio,  lo  si- 
gnificava —  era  per  indole,  iper  studi,  per  idiosincrasia  specialis- 
sima, la  ragione  latta  persona.  Non  solo.  Ma,  laureatosi  in  filosofìa, 
si  era  a  poco  a  poco  stabilito  in  un  pensiero,  dal  quale  attendeva 
la  gloria  e  che,  dalle  profonde  meditazioni  della  biblioteca  ai  quoti- 
diani incontri  della  vita,  lo  dominava  tutto.  Egli  credeva  ferma- 
mente che  come  esistono  la  fisiologia  e  la  patologia  del  corpo  umano 
con  la  terapia  medica  e  chirurgica,  così  doveva  esistere  la  fisiologia 
e  la  patologia  dell'anima,  con  la  terapia  anch'esse:  non  chirurgica 
perchè  l'anima  non  ha  pilori  e  duodeni  da  resecare,  ma  medica: 
una  terapia  eseguita  per  mezzo  di  impressioni  morali,  atte  a  mo- 
dificare profondamente  lo  stato  dello  spirito:  la  «scienza  nuova»; 
come  Giambattista  Vico.  Migliaia  di  osservazioni  annotate  confer- 
mavano la  verità  della  tesi,  e  tutti  cadevano  sotto  la  sua  osservazione  : 
gli  amici,  sua  moglie,  sé  stesso.  Dopo  tanto  studio  e  così  costante 
abito  mentale,  era  sicuro  di  conoscere  tutti  e  di  poter  guardare 
dentro  un'anima  come  dentro  un  orologio  aperto.  Bianca  era  l'oro- 
logio aperto  che  egli  aveva  più  spesso  a  disposizione  :  ne  usò  e  ne 
abusò  :  e  un  bel  giorno  fu  convinto  di  conoscerla  meglio  ch'ella  non 
conoscesse  sé  medesima. 


II. 


I  due  opposti  caratteri  non  (potevano  formare  un  connubio  ar- 
monico. Renato  era  di  piacevole  umore,  affettuoso  verso  la  moglie 
che  veramente  amava  e  sempre  disposto  a  farla  vivere  gradevol- 
mente. Così  Bianca  alla  quale,  in  fondo.  Renato  riusciva  fisicamente 
accetto,  gli  voleva  bene.  Una  sventura  del  marito  l'avrebbe  molto 
afflitta  e  per  risparmiare  a  lui  un  dolore  o  un  danno  avrebbe  soste- 
nuto anche,  fino  a  una  certa  misura,  un  sacrificio. 

Ma  la  felicità,  dirò  elementare,  fondamentale,  della  vita  non 
sempre  basta  neppure  a  una  donna  normale:  tanto  meno  poteva 
bastare  a  Bianca  Neri.  Il  trovarsi  in  continuo  contrasto  di  parole, 
il  concepire  così  oppostamente  la  vita,  l'essere  formata  da  madre 
natura  a  dissentire  così  stridentemente  dal  marito,  le  generava  un 


IL  CASO  DI  BIANCA  NERI  53 

disagio,  un'avversione,  un  desiderio  di  qualche  cosa  e  qualcheduno 
meglio  rispondente  a  sé  medesima:  «  Indizio  certo  di  futura  piova  ». 

La  sicurezza  di  lui  sul  proprio  conto  l'esasperava  come  un  segno 
di  freddezza,  di  scarso  interesse:  era  la  quiete  sonnacchiosa  del 
pigro  di  spirito;  e  l'errore  fondamentale  circa  la  diagnosi  psichica 
della  moglie  nello  psicologo  di  professione  dava  all'omonimo  di  Car- 
tesio una  tinta,  un  odoretto  di  ridicolo  da  trarne  il  più  sinistro  pre- 
sagio. 

Da  quando  Abramo  andò  a  visitare  il  Faraone,  si  iniziò  la  serie 
dei  mariti  in  pericolo.  Se  non  che,  ciò  che  per  un'altra  sarebbe 
avvenuto  e  presto,  per  Bianca  Neri,  chi  sa?  Poteva  avvenire  e  no: 
poteva  avvenire  tardi  o  fors'anco  non  mai. 

Bianca  Neri  con  gli  occhi  bruni  da  Menade,  con  le  chiome  ab- 
tfondanti  e  nere  come  quelle  d'una  congolese,  col  corpicino  svelto  e 
felino,  attizzava  gli  appetiti  degli  sfaccendati.  Ma  finora,  picche! 
Ella  incedeva  «per  ignes»  incolume,  come  i  fanciulli  della  biblica 
fornace.  * 

Perchè?  Con  Bianca  Neri  bisogna  rinunciare  ai  perchè.  Non 
ho  detto  che  era  stata  generata  a  scorno  del  principio  di  causalità? 

L'epoca  presente  era  designata  da  un  tenente  di  cavalleria: 
«un  brillant  officier,  un  jeune  homme  d'elite»,  avrebbe  scritto  un 
romanziere  francese  della  vecchia  scuola.  Bel  giovane,  appassionato, 
ricco  di  coraggio  e  di  brio,  contava  a  doz2àne  le  sue  «  bonnes  for- 
tunes».  più  sostanziose  di  quella  cantata  da  Alfred  de  Musset: 
«  Mon  bonheur,  tu  le  vois,  veeut  une  soirée  »  e  sembrava  fattoi  a 
posta  per  vincere  la  partita.  Ma  finora  scacco  al  Re  anche  per  lui. 

Aveva  iniziato  il  fuoco,  come  di  solito,  con  ardenti  strali  ottici, 
con  carezzevoli  voci,  con  divagazioni  poetiche,  con  assidue  perse- 
cuzioni, con  ipioggie  di  fiori  e  madrigali.  Ma  sì  !  A  Bianca  Neri  ! 
Appunto  per  ciò  la  casta  moglie  di  Renato  non  si  commoveva.  Così 
facevano  tutti  i  damerini,  i  Don  Giovanni  senza  commendatore,  i 
facili  spiriti  che  vanno  balzelloni  iper  i  salotti.  Nulla  di  vero,  di 
serio,  di  sentito.  Mancare  al  proprio  dovere  per  gettarsi  nelle  fiamme 
divoranti  e  purificatrici  della  passione,  sì  :  ma  peccare  per  intricarsi 
nelle  folte  orticaie  della  volgarità,  questo  no,  mai. 

Il  tenente,  allora,  mutò  metodo.  Si  mise  a  fare  il  galletto  con 
altre  belline  da  la  sigaretta  in  bocca,  la  mano  al  fianco  e  le  spalle 
nude  più  del  necessario.  Finse  di  riawicinarsi  a  Maria  Sargenti, 
donna  di  spiriti  liberali,  che  nel  lungo  elenco  dei  beneficati  com- 
prendeva Renato  e  lui,  non  si  curò  più  di  Bianca  Neri,  che  salutava 
cerimoniosamente  da  lontano,  e  attese.  Ma  neppure  questa  volta  il 
pesciolino  abboccò  all'amo.  Intanto  Renato  osservava  e  sorrideva: 
e  forse,  o  senza  forse,  il  compiacimento  del  filosofo  della  scienza 
nuova  per  l'esattezza  della  diagnosi  psichica  era  maggiore  di  quello 
del  marito  per  la  saldezza  di  così  rara  «  turris  eburnea  » . 

Ma  appunto  questo  eccessivo  compiacimento  esasperava  Bianca. 
Possibile  che  un  simile  tacchino,  un  simile  pappagallo  impagliato 
la  imbroccasse?  Che  davvero  ella  Bianca  Neri  fosse  quell'esemplare 
da  museo  che  il  filosofo  aveva  così  ampollosamente  classificato  ?  Che 
Renato  fosse  un  uomo  di  genio  e  lei  un'imbecille  ?  Ah  questo  no  ! 


64  IL  CASO  DI  BIANCA  NERI 


III. 

Fosse  stizza  contro  Bianca  e  il  tenente,  fosse  rigurgito  di  tene- 
rezza passata,  fatto  è  che  quel  giorno  Maria  Sargenti,  la  quale  da 
anni  parecchi  non  parlava  al  filosofo,  avendolo  incontrato  presso 
il  Segretariato  del  popolo,  gli  offrì  la  destra,  lo  attrasse  in  un  canto 
e  gli  parlò,  come  suol  dirsi,  col  cuore  in  mano. 

Con  le  amanti  collocate  a  riposo  è  come  con  i  compagni  di  scuola  : 
si  può  star  dieci,  venti  anni,  senza  parlarsi  e  senza  vedersi:  appena 
ci  si  incontra  di  nuovo,  il  lungo  evo  si  discioglie  al  calore  degli 
antichi  sentimenti  e  si  ritorna  d'un  tratto  al  giorno  in  cui  ci  èi  vide 
l'ultima  volta. 

Così  fu  tra  Renato  e  Maria.  Maria  voleva  avvertire  l'amico  del 
pericolo  che  correva,  anche  per  fargli,  con  arsenicale  bonomia,  com- 
prendere che  non  era  stato  un  grande  acquisto  quel  matrimonio  con 
una  ragazza  per  bene.  » 

Maria  Sargenti  metteva  dunque  sull'avviso  Renato  Alberti  circa 
i  pericoli  delle  cariche  di  cavalleria. 

—  Renato,  statevi  accorto,  —  ripeteva  nel  suo  dialetto  naipole- 
tano.  —  Quello  è  'nu  guaglione  pericoloso. 

—  Gara  Maria,  voi  siete  molto  buona  di  occuparvi  delle  cose 
mie  :  grazie  !  Ma  io  sono  sicuro  di  Bianca  come  di  me  stesso. 

—  Ah  !  Il  solito  ritornello.  Non  lo  sapete  che  proprio  questo  è 
il  canto  di  tutti  i  merli  ? 

—  Ma  i  merli  sono  merli  e.  io  ho  passato  tutta  la  mia  giovinezza 
a  studiare  il  cuore  umano..  Credete  forse  che  io  sia  un  merlo? 

—  Dio  me  ne  guardi  !  Ma  i  libri,  sa^pete,  la  scienza,  sono  un'altra 
cosa Bisogna  conoscere  la  vita  reale. 

—  Ma  che  libri,  che  scienza!  Le  mie  teorie,  il  mio  sistema  si 
fondano  sulle  osservazioni  empiriche;  tutte  le  scienze  schio  state 
fondate  così.  Aristotile  informi. 

—  Lasciatelo  stare  questo  qua,  mo'!  Credete  a  me,  non  li  perdete 
di  vis^a. 

--  Ma,  insomma,  una  donna  che  ama  suo  marito  e  non  ama 
quello  che  le  fa  il  cascamorto  può  tradire  l'uomo  che  ama  per  quello 
che  non  le  piace?  Ditelo  voi,  ohe  non  siete  filosofo. 

—  Eh  !  chi  sa?  La  logica,  sapete,  in  queste  cose  non  cx>nta. 
«Con  te,  avrebbe  voluto  rispondere  Renato,  che  le  facevi  iper 

gusto  professionale,  sta  bene:   ma  tu  non  sei  Bianca,  per  grazia 
di  Dio  ». 

Tacque  un  poco:  poi  soggiunse: 

—  Sentite.  Il  tenente  le  ha  provate  tutte:  le  buone  e  le  cattive: 
da  più  di  sei  mesi  batte  il  ferro,  ma  non  riesce  a  scaldarlo.  Bianca 
lo  vede?  Come  vedesse  Pripri  il  vostro  cagnolino.  Né  bianca  nò 
rossa,  né  allegra,  né  melanconica.  Le  parla?  Presto  sbadiglia,  e  gli 
sbadigli  repressi  vengono  fuori  nelle  contorsioni  della  bocca  e  nella 
lacrimazione  degli  occhi.  Il  tenente  va  a.  fare  il  bello  con  questa  e 
con  quella?  Bianca  non  si  scomoda  neippure  a  seguirlo  con  lo  sguar- 
do. Lo  sente  nominare?  «  Non  mosse  collo  né  piegò  sua  costa».  Ne 
dicono  bene?  Non  si  commove.  Ne  dicono  male?  Non  ascolta  nep- 
pure. Quando  il  tenente  le  stringe  la  mano,  la  sua  rimane  inerte. 


IL  CASO  DI  BIANCA  NERI  66 

Ebbene,  sentite,  sentite  ancora.  L'altra  notte  io  ho  sofferto  una  ma- 
ledetta angina  di  gola  che  mi  pareva  di  soffocare.  Mi  lamentai  un 
poco.  Bianca  saltò  dal  letto,  s  avvolse  nella  sua  veste  da  notte,  si 
mise  al  mio  capezzale,  non  si  mosse  più  finché  non  fui  addormen- 
tato. L'ho  vista  io,  con  questi  occhi,  pallida  per  l'ansia  del  mio  male 
e  per  la  pena  di  vedermi  soffrire.  Fate  il  ^paragone. 

—  E  che  significa?  La  donna  che  si  concede  all'amante  e  odia 
suo  marito  sta  nei  romanzi.  Nella  vita  è  un'altra  cosa,  bello  mio: 
statevi  quieto.  Nella  vita  si  vuol  bene  al  marito  e  gli  si  fa. 


IV. 

«  Mi  sono  sforzato  di  scordarv'i;  non  ho  potuto.  Perdonatemi. 
Domani  il  reggimento  andrà  sulla  strada  di  Pasian  Schiavonese: 
deve  arrestare  il  neanico  che  avanza:  arrestarlo  a  qualsiasi  prezzo. 
Saremo  duemila  contro  centomila:  è  la  morte.  Non  me  ne  dolgo. 
Sono  orgoglioso  di  offrire  la  mia  giovine  vita  alla  Patria:  troppo  è 
durata  la  fragranza  delle  rose  :  vado  verso  l'alloro.  —  Non  si  mente 
quando  si  muore,  ha  scritto  un  poeta.  Io  vi  dico  in  questa  ora  so- 
lenne che  non  tornerà  mai  più  :  voi  siete  stata  la  mia  unica  passione. 
Consalvo  —  lo  ricordate?  —  ottenne  il  bacio  sognato  prima  di  la- 
sciare la  terra.  Sarete  voi  più  severa  di  Elvira?  Né  io  vi  chiedo 
tanto...  Mi  basterà  una  parola  e  l'abbandono  della  vostra  mano, 
formata  dalle  Grazie,  .perché  io  abbia  un  dolcissimo  viatico  per  la 
Morte.  Debbo  partire  col  treno  delle  cinque.  Vi  attenderò  alle  tre 
nel  mio  eremo  di  Via  Arno.  Verrete  ?  Oh  sì  che  verrete  !  Ne  la  bel- 
lezza abita  sempre  la  bontà». 

Questa  la  lettera  del  tenente,  che  Bianca  ricevette  mentre  il 
marito  studiava  nella  Biblioteca  Nazionale  i  teoremi  della  Scienza 
Nuova. 

Perchè  Bianca  Neri,  che  era  stata  sempre  sorda  agli  apj3elli 
del  bell'ufficiale,  si  sentì  tocca  questa  volta  nel  più  secreto  taber- 
nacolo del  suo  cuore  multiforme?  Lasciamo  stare  i  perché:  fatto  é 
che  Bianca,  ricevuta  la  lettera,  stabilì  senz'altro  di  andare  dal  te- 
nente. Quando?  Alle  tre?  Troppo  presto.  Diamine!  Pareva  che 
avesse  fretta  più  di  lui.  Alle  quattro?  Troppo  tardi:  era  crudele 
farlo  attendere  con  lo  spasimo  dell'ansia  così  a  lungo;  e  poi  se  par- 
tiva alle  cinque...  Alle  tre  e  mezza.  Ecco:  benissimo. 

Nelle  brevi  ore  che  la  separavano  dalle  tre  e  mezza,  soffrì  qual- 
che esitazione  di  coscienza,  un  poco  di  rimorso  per  Renato,  un  poco 
di  timore,  se  fosse  scoperta:  un  poco  di  vergogna.  Ma  Renato  se  lo 
meritava  appunto  per  la  sua  sicurezza  esasperante  e  per  le  sue 
teorie  baggiane;  il  timore  era  assurdo  e  la  vergogna  senza  ragione. 
Infine,  non  si  trattava  che  di  andare  a  dir  addio  a  un  nobile  cuore 
che  l'adorava  e  .palpitava  forse  sulle  soglie  della  morte.  Era  ben 
sicura  ella  che  non  le  avrebbero  strappato  altro  che  un  addio  sia 
pure  dolcissimo.  L'illusione  di  tutte  :  nessuna  donna,  quando  si  mette 
a  discendere  la  scala,  pensa  di  ruzzolare  fino  in  fondo. 

Studiò  di  farsi  più  bella  Bianca  Neri.  Perché  desiderava  di 
piacere  di  più  al  tenente?  Per  infiorare  di  più  fragrante  ghirlanda 
il  capo  della  vittima?  Non  si  sa.  Si  sa  ohe  indossò  il  vestito  che  le 


56  IL  CASO  DI  BIANCA  NEBI 

stava  meglio,  ornò  il  seno  di  una  rosa  rossa  fiammante  (dolce  al- 
lusione alle  pose  della  lettera?),  si  profumò  di  ambra  grigia,  im- 
memore o  forse  memore  dei  versi  del  Baudelaire  sulla  sua  potenza 
fascinatrice,  e  partì. 

Alla  narrazione  romantica  si  sarebbe  addetta  meglio  un'auto- 
mobile Fiat  o  almeno  una  vittoria  tirata  da  due  cavalli  inglesi;  ma 
Bianca  dovette  accontentarsi  di  una  di  quelle  vetture  da  nolo  che,  a 
espiazione  dei  peccati,  il  Comune  concede  ai  cittadini  dell'augusta 
metropoli.  Ma  sì  r  Accontentarsi  ?  Appena  gli  automedonti,  dalla 
faccia  di  galeotti  inebetiti  dal  sole  e  dal  vino,  udivano  che  si  doveva 
andare  in  Via  Arno,  una  frustata  e  via.  Le  rozze  sgranchivano  le 
zampe  rattrappite  e  trotterellando  sbilenche  tra  l'assordante  fragore 
delle  ruote  arrugginite  sulle  selci  sconnesse,  se  la  svignavano. 

Ci  volle  tutta  la  pazienza  e  l'astuzia  di  Bianca  per  indurre  un 
giovinotto  —  simbolo  vivente  della  più  autentica  teppa  —  a  cedere  al 
supplichevole  invito:  ci  vollero,  per  dir  meglio,  dieci  lire.  Ma  ap- 
pena Bianca  Neri  fu  salita  nella  sgangherata  vettura,  comprese  che 
quello  era  forse  l'ultimo  giorno  della  sua  vita.  Il  giovinotto  frustava 
la  rozza  con  furore  bacchico,  lanciando  la  cordicella  a  fantastica 
altezza  col  braccio  levato,  quasi  a  brandire  la  clava  di  Ercole,  e, 
«cic-ciac»,  facendola  ricadere  sulle  malcapitate  ossa  con  fragore 
di  sibili  e  di  scoppi.  La  rozza  finalmente  tornò  in  sé  stessa,  cioè 
imbestialì,  e  via  a  precipizio  trascinando. a  zig-zag  per  le  strade  la 
carrozzella  sconquassata,  nella  quale,  aggrappandosi  al  mantice 
lercio  e  non  redolente  di  gigli,  Bianca  si  sforzava  di  rimanere  se- 
duta. 

—  Piano,  piano  !  Siete  pazzo?  Ma  che  è  ?  Piano  :  ho  paura. 
Niente.  A  una  svolta  si  udì  solo  gridare  dalla  cassetta: 

—  Solo  còsi  il  cavallo  può  arrivare  a  Via  Arno,  mannag^gia 
l'anima...  E  seguì  uno  dei  soliti  fiori  del  bel  parlar  gentile  del 
vetturino  romanesco. 

La  gente  si  faceva  da  parte  accostandosi  spaventata  al  muro: 
chi  scagliava  dietro  al  vetturino  una  maledizione,  chi  un'ingiuria, 
chi  un  grido  d'orrore. 

Ma  niente  :  «  cic-ciac  » ,  avanti  ! 

È  doloroso  constatarlo,  ma  Bianca  Neri  non  pensava  più  affatto 
al  prossimo  drammatico  colloquio,  né  al  bel  tenente  né,  tanto  meno, 
all'onore  dello  psicologo  in  pericolo.  Aveva  semplicemente  paura 
e  basta. 

Ma  ecco  un  colpo  come  di  tuono  :  un  grido,  imo  sbalzo.  Bianca 
Neri  è  distesa  sull'acciottolato,  la  vettura  è  infranta,  il  cavallo  mezzo 
morto,  il  vetturino  a  gambe  all'aria.  Un  carrozzone  del  tram  sboc- 
cando da  Via  Agostino  Depretis  ha  cozzato  contro  la  vettura  lan- 
ciata a  precipizio  e  l'ha  sventrata. 

La  gente  si  affolla  :  il  tramviere,  regolarmente,  se  la  dà  a  gambe. 

—  Signora  !  O  povera  signora  !  3i  ode  da  tutte  le  parti,  quan- 
d'^ecco,  facendosi  largo,  s'avanza  una  guardia  municipale.  Pare 
favola  che  in  un'occasione  simile  si  sia  trovata  a  Roma  una  guardia 
municipale.  Ma  così  è  :  questa  volta  c'era.  La  guardia  era  un  roma- 
nesco pacifico,  ignaro  di  ogni  nozione  di  dovere  e  di  disciplina,  che 
aveva  lasciato  per  tempo  immemorabile  andar  libere  di  notte  tutte 
le  biciclette  a  corsa  sfrenata  senza  lampada  e  senza  campanello,  che 


IL  CASO  DI  BL\NCA  NERI  57 

aveva  sempre  voltato  la  t-esta  dall'altra  parte  quando  s'era  incontrato 
in  teppisti  intenti  a  trasformare  i  palazzi  del  Corso  Vittorio  Ema- 
nuele in  templi  di  Vespasiano,  che  s'era  sempre  fìnto  sordo  a  tutti 
i  reclami  e  cacciato  nel  folto  buio  delle  strade  traverse  a  ogni  sentore 
di  rissa  o  d'altro  accidente. 

Appunto  perciò,  ora  che  non  si  arrischiava  nulla,  s'incaparbì 
quasi  con  furore  nella  sua  parte  di  guardia. 

Bianca,  fatta  di  porpora  dalla  vergogna,  ma  lieta  d'essersela 
cavata  a  buon  mercato,  con  una  lieve  ferita  nella  testa,  s'era  rial- 
zata, ravviava  le  sue  vesti  e  non  cercava  di  meglio  che  andarsene. 

Ma  c'era  il  Quirite. 

—  No,  signora.  Io  ho  il  dovere  di  accompagnarla  al  Policlinico. 
No,  no  !  non  sarà  mai  !  Che  direbbero  i  miei  superiori  ? 

Bianca  piangeva  di  rabbia:  e  l'altro  credeva  ohe  -piangesse  di 
dolore.  Non  ci  fu  verso.  In  un'altra  vettura  al  Policlinico.  Quando 
ne  uscì  erano  le  cinque:  tardi.  Oh  se,  al  contrario,  fosse  andata! 
Il  tenente  era  sempre  là  ad  attenderla,  non  ipartiva  che  alle  sette: 
aveva  scritto  alle  cinque  per  farla  venir  prima,  aver  agio  maggiore... 
Ma  anche  le  favole  d'Esopo  insegnano  che  la  frode  è  pena  a  sé 
stessa. 

Bianca  Neri  tornò  in  casa. 

Un'altra,  rivedendo  il  marito  dopo  averlo  fatto  spenzolare  sul- 
l'abisso per  un  filo,  il  marito  che,  nello  scorgerle  la  testa  infasciata, 
s'era  fatto  con  amorosa  sollecitudine  a  domandarle  che .  fosse  e, 
dopo,  l'aveva  baciata  in  fronte  per  la  gioia  di  saperla  salva,  un'altra, 
ripeto,  fra  il  pentimento  il  rimorso  e  la  gratitudine,  gli  si  sarebbe 
gettata  al  collo.  Ma  questo  non  voleva  e  non  poteva  Bianca  Neri,  che, 
sentendosi  un  /poco  ridicola,  pensando  al  i>ericolo  corso  e  conclu 
dendo  che  tutto  ciò  era  effetto  della  scempia  condotta  di  suo  marito, 
gli  rispose  con  mal  garbo  e  verde  acredine. 

—  Ma  perchè,  gioia  mia?  Io  so  che  sei  un  tesoro  e  lo  diceva 
poco  fa  anche  a  Maria  Sargenti,  ohe  voleva  insinuare...  non  so... 
che  il  tenente  non  ti  era  sgradito.  Figurati,  tu...  Ci  metterei  le  mani 
sul  fuoco  ! 

—  E  te  le  bruceresti,  gridò  Bianca  fuor  di  sé  dalla  esaspera- 
zione. 

Ma,  al  subito  pallore  di  Renato,  che  aveva  veduto  in  un  istante 
rovinare  insieme  la  felicità  coniugale  e  la  scien2a  nuova,  soggiunse 
ridendo  : 

—  Ho  scherzato,  via:  ti  pare,  se  mai,  che  sarei  così  sciocca 
da  dirtelo? 

Alfredo  Baccelli. 


L  PITTORE  LUIGI  SERRA 

(1846-1888) 


Il  nome  e  l'opera  di  Luigi  Serra,  legati  alla  generazione  che 
precedette  la  nostra,  hanno  patito  la  congiura  del  silenzio.  Educato 
sulla  tradizione  paesana,  egli  non  com'pì  altre  conquiste  che  non 
fossero  interiori,  e  gli  mancò  il  tempo  di  varcare  i  confini  della 
patria. 

A  Bologna,  dove  era  nato,  si  preparò  quietamente  alla  disci<plina 
dello  studio,  prima  nel  Goll^io  Venturoli,  poi  nell'Accademia  di 
Belle  Arti.  Ma  l'insegnamento  pedante,  irrazionale  ohe  si  praticava 
a  quei  tempi,  non  suggeriva  che  poche  sillabe  al  giovanetto,  così 
diverso  dagli  altri  scolari.  In  quei  primi  anni,  egli  pennelleggiava 
come  vien  viene,  e  con  scarso  giudizio.  Soltanto  più  tardi  divenne 
severo  con  se  stesso,  come  uno  cui  s'è  aiperta  la  via  della  verità. 

Nel  1868  esponeva  alla  Società  Protettrice  bolognese  un  quadro 
di  piccole  dimensioni,  che  rappresentava  «Maria  dei  Medici  esiliata 
nel  castello  di  Blois»,  dov'è  manifesta,  coi  difettucci  del  princi- 
piante, la  volontà  di  rendere  il  carattere  della  donna  condannata 
alla  solitudine  e  alla  noia  dell'esilio. 

L'argomento  storico  è  assai  caro  al  Serra  giovane:  il  quale, 
quando  è  libero  nella  scelta,  approfitta  di  episodi  che  rivelano  piut- 
tosto la  combattuta  intimità  che  l'apparenza  estema  dei  personaggi, 
siano  essi  martiri  o  carnefici,  eroi  o  malfattori. 

Quando  —  nel  1868  —  egli  potè  compiere  il  suo  primo  viaggio 
a  Firenze,  ed  entrare  nelle  Gallerie  d'Arte  Antica,  poipolate  di  quadri 
del  Quattrocento,  il  suo  appetito  trovò  alfine  il  cibo  che  agognava. 
Si  entusiasmò  del  sentimento  che  anima  quei  dipinti;  e  l'accura- 
tezza della  tecnica,  la  padronanza  della  forma,  la  precisione  dei 
contorni,  entrarono  fin  da  allora  nella  pratica  del  suo  lavoro.  Egli, 
che  già  disamava  i  pittori  viventi,  si  mise  a  copiare  con  rispetto  in- 
finito alcuni  particolari  dei  quadri  di  Fra  Filippo  Lippi.  Poi  s'af- 
fidò in  braccio  alla  natura. 

L'arte  del  Serra  muove  dunque  non  da  (predecessori  immediati, 
ma  dagli  antichi  maestri,  sopratutto  da  Giovanni  Bellini  e  da  Andrea 
Mantegna,  dei  quali  egli  contempla,  senza  stancarsi,  le  Madonne  e 
i  Santi. 

Una  fotografia  del  1868  rappresenta  il  Serra,  giovane  robusto, 
col  viso  serio  e  sbarbato,  dai  lineamenti  netti;  il  naso  sensitivo,  e 
gli  occhi  profondi,  scrutatori  sotto  la  fronte  larghissima.  La  sua 
faccia  mut^  più  tardi,  quando  si  fece  crescere  intomo  una  barbetta 
breve  e  ricciuta.  Ma  l'espressione  rimase  sempre  quella  d'un  uomo 
illuminato  di  bontà  e  vivente  con  se  stesso,  òhe  egli  dovette  esser 


IL  PITTORE  LUIGI  SERRA  59 

bello,  penso  non  solo  per  le  testimonianze  concordi  di  coloro  che 
lo  conobbero  e  lo  amarono,  ma  per  la  felice  mescolanza  d'uomo  e 
d'artista  che  era  in  lui,  per  quella  singolare  sincerità  della  sua  in- 
dole, che  d'altra  parte  gli  fu  di  tanto  inciampo  nella  vita. 

Al  concorso  del  Pensionato  Angiolini  egli  aveva  presentato  un 
bellissimo  saggio  «  Annibale  Bentivoglio  prigioniero  nel  Castello  di 
Vai-ano»,  e  fu  premiato  con  un  assegno  in  danaro  per  quattro  anni. 
DofK)  il  «  Bentivoglio  » ,  espose  una  seconda  tela,  «  Laura  » ,  che  fu 
molto  ammirata.  Ma  dai  saggi  collegiali  il  Serra  moveva  senza  in- 
dugi ad  opere  forti  e  indipendenti;  tra  le  quali  primeggia  al  pari 
d'una  scoltura  la  eloquentissima  «Jone». 

La  donna,  espressione  elementare  e  completa  della  natura,  lo 
interessava  moltissimo.  Egli  non  ne  indagava  le  eleganze  esteriori, 
che  così  spesso  dimenticano,  nella  pittura  come  nelle  altre  arti,  i 
fatti  personali  della  passione  e  del  dolore  umano;  piutt<^to  cercava 
di  carpirne  quelli  intimi  segreti  che  tanto  giovano  ad  un'opera,  la 
quale  vivrà  più  di  essi. 

Il  Serra  non  seppe  mai  liberarsi  del  tutto  dalla  pittura  di  co- 
stume. Era  un  entusiasta  della  storia;  la  sua  immaginazione  si  spro- 
fondava pili  volentieri  nel  passato  che  nell'avvenire.  Egli  fu  in- 
somma continuatore,  non  iniziatore;  tradizionalista  nel  senso  piìi 
vasto  della  parola. 

Nel  1873  il  Serra  fece  il  suo  unico  viaggio  all'estero,  insieme 
ai  pittori  suoi  concittadini  Mario  De  Maria,  Paolo  Redini  e  Raffaello 
Faccioli.  Rimasero  a  Vienna  due  mesi,  e  il  Serra  cantava  allegro 
nell'allegra  compagnia.  Poi,  prima  di  tornare  in  Italia,  visitarono 
Monaco  di  Baviera.  Non  mi  risulta  che  egli  riportasse  particolari 
impressioni  da  codesto  viaggio;  né  conosco  alcun  suo  quadro  com- 
piuto in  quel  periodo;  ma  solo  bozzetti  e  studi  d'eccezionale  bravura. 

]\Iarco  Galderini  lo  descrive  quale  lo  vide  nel  1874  a  Torino: 
«  Era  allora  il  Serra  un  bellissimo  giovane,  un  tipo  perfetto  di  razza 
greco-romana:  statura  e  costituzione  giusta,  svelta,  molti  capelli, 
neri  e  ricciuti,  colore,  poco,  gli  occhi  neri  penetranti,  il  viso  pen- 
soso, l'insieme  proprio  virile  e  forte.  Il  discorso  poi  era  schietto, 
rapido,  lo  spirito  pronto,  l'affabilità  pure,  senza  sussiego,  il  tempe- 
ramento ardito  e  pure  raccolto...  » 

La  sua  ^personalità  cominciò  a  manifestarsi  meglio,  in  un  boz- 
zetto, «Michelangelo  al  letto  del  morente  suo  servo  Urbino»,  col 
quale  vinse  il  concorso  per  la  pensione  triennale  governativa,  nel 
1875.  In  quello  stesso  anno  fu  chiamato  a  dipingere  il  sipario  e  al- 
cune figure  della  vòlta,  nel  Teatro  Gentile  in  Fabriano. 

• 
•  • 

Discorrere  di  Luigi  Serra  disegnatore:  ecco  una  cosa  da  gra- 
dire. I  suoi  primi  schizzi  di  persone,  d'animali,  e  d'utensili,  segnati 
con  timidezza  su  piccoli  fogli  di  carta,  portano  la  data  del  1874. 
Sono  delle  sagome  sottilissime,  a  matita,  ancora  incerte,  sminuz- 
zate qua  e  là;  \i  s'indovina  appena,  in  embrione,  il  futuro  maestro 
delle  linee  e  dei  contorni. 

Le  cartelle  de'  suoi  studi  sono  argomento  d'osservazione  ignoto 
a  quanti  potrebbero  amarle  e  diffonderne  la  conoscenza.  Sono  qua- 


60  IL  PITTORE  LUIGI  SERRA 

ranta  di  numero,  e  contengono  una  mole  di  circa  seimila  disegni 
in  matita,  in  penna,  e  saggi  vari  di  colore.  Le  cartelle  sono  disposte 
cronologicamente,  e  i  fogli  recano,  di  pugno  del  Serra,  oltre  all'in- 
dicazione del  soggetto,  il  giorno  e  talvolta  l'ora  d'esecuzione. 

Codesta  pazienza  quotidiana  non  si  stancava  né  per  le  vie  né 
agli  spettacoli,  e  in  ogni  luogo  chiedeva  alla  matita  la  sincera  im- 
mediatezza della  verità,  oltre  alla  consapevolezza  del  documento. 
La  sera  egli  incollava  e  catalogava  i  foglietti  volanti  del  suo  tac- 
cuino, affinchè  il  lavoro  potesse  presto  o  tardi  giovargli,  e  non  an- 
dasse siperduto.  Tale  cura  quotidiana  testimonia  l'alto  concetto  nel 
quale  egli  teneva  l'arte  sua. 

Sono  quasi  sempre  studi  dal  vero.  Ciascuna  cartella  si  riferisce 
ad  un  soggetto  solo,  come  animali,  mascherate,  processioni,  strade 
e  palazzi.  Altre  raccolgono  le  faticose  prove  e  riprove  dell'artista  per 
l'esecuzione  d'un  dipinto:  allora  gli  studi  non  finiscono  mai.  Son 
profili  visti  appena,  una  prima  volta,  di  scorcio,  passando  per  una 
strada  o  all'angolo  d'una  piazza.  Ora  la  sagoma  d'un  naso  e  d'una 
fronte  si  stendono;  guardo  qua  il  contomo  d'una  testa:  non  intera, 
si  delinea  a  poco  a  poco,  si  riempie  e  matura  come  un  frutto.  Ecco 
un'espressione  che  La  caratterizza;  adesso  ride,  pensa,  sofTre;  final- 
mente sembra  preparata  ad  accogliere  i  primi  baci  del  pennello.  La 
rivedo  più  oltre,  dentro  una  gabbia  di  linee  ohe  la  intersecano, 
perchè  vogliono  misiu*arla.  Ogni  linea  ha  un  numero;  le  linee  nu- 
merate s'incrociano  verticalmente  con  altre  linee  numerate:  è  la 
proporzione,  che  non  deve  mancare.  Ma  ecco  altre  sorprese.  Ci  sono 
delle  linee  tj*asversali,  le  quali  richiamano  categoricamente  alla  pro- 
spettiva. L'artista  non  pretende  d'indovinare;  disprezza  l'approssi- 
mazione, il  mi  pare;  vuole  la  riprova  come  un  aritmetico  nelle  cifre. 

Apro  una  cartella  dove  sono  studiati  dei  bimbi  di  pochi  mesi. 
Non  si  vedono  che  membra  staccate,  incomplete,  rotte  qua  e  là  non 
per  importanza  o  pentimento  del  disegnatore,  ma  perché  il  model- 
lino irrequieto  s'è  mosso  :  tre  quarti  d'un  tenero  cranio,  le  pieghe 
d'una  coscia,  le  morbide  risegole;  gli  occhi,  un  orecchio,  tre,  quattro 
dita  d'un  piede,  con  le  falangi  che  vibrano,  si  spostano  di  continuo. 
Il  neonato  non  sta  fermo  un  momento,  e  l'artista  non  pretende  di 
ritrarre  se  non  le  parti  immobili.  Se  un  membro  si  muove,  la  ma- 
tita cerca  altrove,  poiché  non  ammette  alcuna  alterazione  della  ve- 
rità 

Certo  la  natura  ebbe  pochi  adoratori  scrupolosi  quanto  Luigi 
Serra.  Come  la  cartella  dei  bimbi,  si  esprimono  tutte  le  altre:  bestie 
d'ogni  sorta,  profili  di  case,  pieghe  di  manti,  particolari  da  nulla 
talvolta  accesi  dal  bagliore  d'una  pennellata  che  ne  indora  la  so- 
stanza senza  alterare  i  contomi.  Gli  oggetti  sono  nitidi,  spiccati  da- 
vanti a  lui  :  il  ramo  dell  albero  come  il  pomo,  lo  stecco  della  siepe 
come  il  sasso  della  strada.  L'atmosfera  sgombra  non  convince  l'oc- 
chio a  nebbiose  mollezze,  a  facili  tradimenti.  Le  cose  hanno  una 
statica  gravità  ohe  si  distingue  nell'aria  come  si  distinguono  le  linee 
ad  inchiostro  sopra  la  carta  bianca. 

Qualche  volta  viene  la  voglia  di  l^gere  i  titoli  dei  diversi  studi  : 
curiosi  soggetti,  motivi  effimeri  d'ogni  giomo  e  d'ogni  ora.  Ci  sono 
ordini  di  palchi  d'un  teatro  visti  dal  lubbione,  obelischi  eretti  nel 
mezzo  d'una  piazza  contornata  come  un'aiuola,  tube  e  piedi  di  per- 


IL  PITTORE  LUIGI  SERRA  61 

sone  che  compongono  un  corteo,  gruppi  di  mendicanti  sulla  gra- 
dinata duna  chiesa,  comizi  di  popolo  con  ceffi  barbuti  e  occhialuti, 
cavalli  al  trotto  in  una  piazza  d'armi,  fanciulle  inginocchiate  dentro 
le  chiese,  donnicciuole  che  comareggiano  da  uscio  a  uscio,  archi 
trionfali  per  feste  subito  preparate  e  subito  dimenticate,  laula  della 
Corte  d'Assise  durante  un  processo  celebre;  e  sempre  appunti  di 
colore,  accenni  di  tonalità  da  non  dimenticare. 

Se  la  scena,  quale  gli  appare  davanti  o  disotto,  è  ampia,  egli 
prosegue  a  rappresentarla  da  foglio  a  foglio  nel  suo  taccuino,  quasi 
uno  scrittore  che  prenda  appunti.  Quando  sarà  giunto  a  casa,  li  in- 
collerà in  fila  uno  dopo  l'altro,  formando  una  visione  che  chiamerò 
cinematografica  iper  intenderci,  e  che  nessun  altro  pittore  seppe  così 
indovinare  avanti  di  lui.  La  folla  lo  interessa,  lo  appassiona;  studia, 
misura  le  masse  da  ritrarre  con  segni  elementari  ed  essenziali.  Come 
scruta,  come  penetra  i  particolari  che  sfuggono  agli  altri!  Conta 
sulle  dita  delle  mani,  calcola,  proporziona. 

Tutto  egli  guarda  e  ritrae.  Con  matita  dura  scalfisce  i  foglietti 
di  carta  leggiera  del  taccuino,  quasi  tentasse  delle  sculture.  Il  segno 
è  deciso  sempre,  tanto  che  per  migliaia  di  studi  non  ho  visto  un 
pentimento,  una  cancellatura.  Matita  e  penna  sono  guidate  dalla 
sua  mano  con  istinto  infallibile,  che  non  lo  abbandona  un  momento. 

Scorrendo  i  fogli,  sorge  di  tanto  in  tanto  un  disegno  di  linee 
pili  angolose,  più  rotte,  con  strani  ghiribizzi  e  riprese  violente  :  sono 
i  disegni  eseguiti  alla  rovescia;  quelli  tentati  per  via,  sotto  il  man- 
tello, senza  il  controllo  dell'occhio.  Sono  schizzi  buttati  giù  di  notte, 
alla  chetichella,  in  un  rione  oscuro  e  deserto;  sagome  di  case  de- 
crepite che  aspettano  U  piccone;  effetti  di  luna  sopra  un  quartiere 
eccentrico.  Così  egli  tiene  all'erta  la  sua  bravura,  la  sfida  a  coni- 
piere  delle  prodezze  airimpro\'^so. 

La  prodigiosa  attitudine  aJ  disegno  si  maritava  in  lui  alla  pas- 
sione incontentabile  della  ricerca,  alla  religione  della  realtà.  Le 
prove  delle  sue  indagini  riescono  infatti  il  migliore  insanamente 
a  chi  pratichi  l'arte  non  per  mestiere,  ma  per  bisogno  dello  spirito. 
Egli  sente  in  sommo  grado  lo  sdegno  d'ogni  artificio  malizioso  o 
raffinato,  il  disprezzo  dei  mezzi  eccessivi;  e  la  cruda  coscienza  del 
proprio  individualismo,  la  quale  è  il  segreto  della  forza  che  riempie 
tutta  quanta  l'opera  sua.  Codesta  coscienza  sofferente,  ma  non  mai 
intorbidata  né  inquinata  od  ottenebrata  da  influssi  passeggeri,  dà 
armonia  alle  sue  aspirazioni  e  limpidezza  a'  suoi  concetti.  Nell'arte 
sua  traluce  il  dramma  personale,  e  la  volontà  disciplinata  d'un 
uomo  che  non  costruisce  alla  brava  nemmeno  uno  stecco,  e  dove 
lavora  mette  il  vivo  fuoco  del  suo  spirito. 

L'opera  del  Serra  vuol  essere  sopratutto  una  testimonianza 
ideale.  Rivela  infatti  un  carattere,  una  personalità  che  intendeva  — 
contro  le  false  degradazioni  ohe  la  circondano  —  restaurare  ideal- 
mente l'arte  della  pittura. 

Il  suo  amore  della  realtà  non  è  soltanto  formale,  ma  deriva  e 
prende  continuo  alimento  dall'anima.  Pochi  pittori  italiani  furono 
più  sinceramente  idealisti  di  lui,  fuori  d'ogn  astrazione  e  dentro 
ogni  atto  quotidiano.  L'arte  del  Serra,  troppo  ricca  di  preparazione 
per  esser  numerosa  nei  resultati  finali,  bella  di  precisa  incompiu- 
tezza, esercita  sopra  di  noi  un  fascino  religioso,  indimenticabile,  che 


62  IL  PIITORE  LUIGI  SERRA 

viene  dalla  sua  commossa  volontà,  dalla  severa  sapienza  de'  suoi 
teoremi  estetici  ben  dimostrati,  i  quali  stringono  la  mente  e  pre- 
mono il  cuore  di  chi  guarda  ben  disposto.  Comparandosi  al  grigio 
branco  dei  mestieranti  che  si  vedeva  attorno,  egli  sognò  un'alba  or- 
gogliosa che  sconvolgesse  e  animasse  di  nuova  luce  quel  pennelleg- 
giare  senza  distinzioni,  senza  individualità  e  senza  ideali.  Né  si 
aspettava  altro  conforto  all'infuori  di  quello  che  potevano  dargli  le 
fatiche  rivelatrici  de'  suoi  giorni  operosi. 

• 
•  • 

La  singolarissima  potenza  di  Luigi  Serra  nell'arte  del  disegno 
ha  trattenuto  i  critici  dal  vantarne  le  qualità  di  colorista.  Fu  detto 
che  i  suoi  quadri  son  pochi,  e  si  volle  censurare  nella  scarsezza  del 
numero  l'inabilità  della  mano,  che  era  invece  profìcuo  tormento. 

Nell'esaminare  la  nobile  e  complessa  figura  di  questo  poderoso 
artista,  bisogna  pur  muovere  dalle  minime  cose,  dai  cartoncini  e- 
dalle  tavolette  a  colore,  che  sono  anch'esse  —  al  pari  dei  disegni  — 
prove  eccellenti  della  sua  continua  preparazione.  Certi  studi  minuti 
e  bozzetti  succosi,  come  cespugli  di  verde  intinti  di  fragili  sfuma- 
ture, lo  spicco  morbido  e  bianco  di  due  rose  aperte,  un  muretto  ac- 
carezzato dal  sole,  o  sagome  consunte  di  pietre  sgranate  come  l'epi- 
dermide d'un  corpo  nudo,  i  partiti  delle  (pieghe  d'un  mantello,  le 
gambe  solide  d'una  scranna,  cose  viste  una  prima  volta,  poi  so- 
gnate e  riprese,  frugate,  riprodotte  trenta  volte  con  curiosità  sempre 
diversa:  sono  embrioni  d'un  tutto  ohe  traspare  da  ogni  pennellata, 
come  un  vetro  spezzato  nei  frantumi. 

Luigi  Serra  prova  un  poetico  interesse  per  tutto  ciò  ohe  vede. 
Un  niente  lo  fa  pensieroso  e  lo  ispira.  Talora  affronta  dei  tparticolari 
come  fossero  delle  piramidi  :  in  uno  spazio  irrisorio  s'immerge  beato 
scorgendo  delle  ampiezze,  delle  lontananze  che  sono  ignote  agli  altri. 
Oggi  una  mano  scarna  o  una  vermiglia  coccinella,  domani  uno  sten- 
dardo multicolore  o  un  ciottolo  iridescente,  possono  farlo  felice.  Ma 
non  amplifica,  non  snatura  le  cose:  le  vede  quali  sono,  rendendole 
senza  alterazioni  o  sforzi  inopportuni.  Il  suo  pennello,  dotato  e  in- 
dagatore, castiga  gli  effetti  volontariamente. 

Prodigo  nella  ricerca,  si  fa  poi  avaro  allorché  deve  spenderne 
i  resultati.  Sente  che  c'è  del  mistero  in  ogni  aspetto  della  natura,  e 
si  sforza  d'addentrarli,  d'interpretarli.  È  la  sua  coscienza  che  non 
dorme,  e  mai  non  lo  abbandona.  A  lui  infatti  non  si  possono  rim- 
proverare appagamenti  superficiali;  la  sua  gioia  è  interna,  diffìcile 
a  conseguire.  Sa  che  le  perle  stanno  nel  fondo,  e"  a~  galla  non  tre- 
mano altro  ohe  le  foglie. 

Esaminati  uno  per  uno,  certi  suoi  bozzetti  sono  dei  delicati  do- 
cumenti di  pittura,  nei  quali  i  rapporti  sono  pesati,  resi  con  effetti 
sinceri:  indovini  il  calore  della  terra  smossa  tra  l'erba,  cerre  nel- 
l'azzurro l'aria  vaporosa  e  leggiera,  e  perfino  i  petali  dei  fiori,  le 
frange  delle  nubi,  staccano  dallo  stelo  e  dal  cielo  con  deciso  vigore. 

Dagli  studi  eseguiti  all'Accademia,  ai  numerosi  abbozzi  iper  i 
S»uoi  maggiori  ed  ultimi  dipinti,  quale  operosità  schietta  e  confor- 
tante ! 


IL  PITTORE  LUIGI  SERRA  63 

Non  è  facile  suddividere  l'opera  del  Serra  in  diversi  periodi. 
La  sua  incontentabilità  di  cercatore  presta  a  tutta  quanta  l'arte  sua 
una  continuità  progressiva  senza  stacchi  e  riprese.  L'ultimo  saggio 
della  pensione  governativa  fu  «  Al  Monte  di  Pietà  »,  nel  quale  aveva 
a  poco  a  poco  concentrato  tutta  la  sua  attenzione  sopra  una  vecchia 
d'evidenza  straordinaria.  Ma  a  forza  d'eccedere  nei  particolari,  egli 
perdette  di  vista  l'effetto  totale,  come  più  tardi  nel  «  San  Carlo  ai 
Catinari  » ,  dove  pure  avea  speso  le  migliori  energie  della  sua  matu- 
rità artistica. 

Soleva  ripetere,  a  chi  gli  rimproverava  incerteaaa  e  pigrizia: 
«  L'artista  deve  es^uire  poche  opere,  ma  che  siano  il  resultato  di 
grandi  studi,  di  fatica,  e  d'affanni  ».  Disprezzava  i  pittori  troppo 
prolifici,  dalla  produzione  floscia  e  snervata.  Praticava  d'istinto 
quanto  scrisse  il  Ruskin,  ohe  cioè  sia  regola  d'onestà  non  abbando- 
nare un'opera  fin  che  sia  possibile  farla  progredire  d'un  tócco  e 
d'un  (pensiero.  La  sua  lotta  pel  successo  fu  una  milizia  troppo  dura 
ed  onesta.  Sempre  in  bisogno,  non  volle  avvilirsi  al  commercio,  né 
inginocchiarsi  alla  moda;  rassegnato  a  soccombere  pur  di  non  ce- 
dere :  cavaliere  dell'arte  sua. 

Così  rimase  estraneo  alle  facilonerie  che  allora  andavano  coi 
nomi  d'impressione  e  di  macchia;  né  accettò  mai  accomodamenti  o 
transazioni  per  quanto  riguarda  il  vero  visto  in  movimento.  La  sua 
sicurezza,  che  trionfava  di  rado,  aveva  bisogno  di  fatica,  la  quale 
non  si  vergognava  di  mostrarsi.  Il  suo  pensiero  fu  organica  com- 
prensione della  vita;  vita;  ala  della  vita  qualche  volta.  Del  resto  egli 
conservò  sempre  la  sua  libertà  spirituale,  che  fu  una  specie  di  do- 
lorosa saggezza  temprata  in  una  ricerca  metodica  e  incontentabile. 
Se  ne  scorgono  i  frutti  nell'energia  di  carattere  e  d'espressione  che 
impronta  tutte  le  sue  opere;  nei  visi  corrugati  e  nelle  pietre  consunte, 
nella  voluttà  lasciata  per  intero  alle  cose  che  egli  ritrae. 

• 
•  • 

Trasferitosi  a  Roma  nel  1879,  il  Serra  sentì  ohe  era  giunta  l'ora 
della  sua  pdenezza  artistica.  I^  sua  passione  al  lavoro  parve  rad- 
doppiarsi. 

Disegnava  sempre;  coloriva  di  quaiido  in  quando.  Non  preten- 
deva mai  di  fare  un'opera  definitiva.  Egli  provava,  riprovava;  e  in 
questo  esercizio  là  stanchezza  non  lo  coglieva  mai. 

I  quartieri  eccentrici  di  Roma,  gli  abbattimenti  delle  cata{)ecchie 
e  il  sorgere  dei  nuovi  palazzi,  lo  interessavano  come  fatti  domestici, 
che  lo  riguardassero.  Dagli  alberi  passava  a  disegnare  le  persone, 
e  viceversa,  con  piacere  ininterrotto.  La  città  lo  avvinceva  quanto 
la  campagna.  Di  marzo  andava  girellando  per  quelle  piane  desolate, 
con  gli  occhi  al  cielo,  e  dipingeva  le  nubi,  tra  i  lembi  turchini  che 
hanno  ampiezze  tranquille  di  laghi;  i  tramonti  che  accendono  mi- 
schie sonore  e  sanguinose  sui  ruderi  sparsi  per  l'Agro  romano!  Quan- 
do c'era  la  luna,  lavorava  anche  di  notte.  Nella  campagna  laziale 
annota  tutto:  la  terra,  le  siepi,  le  case;  i  contadini  che  zappano,  i 
barroccini  coi  loro  carichi  diversi;  e  il  cielo  sopra,  immenso  come  i 
poemi  dell'antichità,  e  come  i  sogni  dell'adolescenza. 

Tuttavia  gli  rimane  il  tenrpo  di  meditare,  compulsar  libri,  ri- 


64  IL  PITTORE  LUIGI  SERRA 

cavandone  aippunti  e  notizie  preziose;  poiché  —  prima  di  chiedere 
ispirazione  al  suo  ingegno  —  ricorreva  sempre  alle  fonti  che  pote- 
vano illuminarlo  sul  soggetto  che  prendeva  a  trattare.  Quando  il 
principe  don  Alessandro  Torlonia  lo  invitò  a  dipingere  nel  catino 
dell  abside  di  Santa  Maria  della  Vittoria  in  Roma,  «  L'ingresso  delle 
truppe  austriache  in  Praga,  dopo  la  vittoria  della  Montagna  bianca», 
egli  fece  un'infinità  di  ricerche  erudite  sulla  guerra  dei  Trent'anni. 
Elccolo  poi  intento  ad  analizzare,  su  centinaia  di  piccoli  fogli,  archi- 
bugieri, portatrofei,  capitani  e  valletti,  alabardieri  e  trombettieri, 
teste  d'uomini  e  di  donne  curiose  nella  folla;  e  vecchi,  bambini;  pri- 
gionieri, e  cavalli,  soldati,  vessilli,  alabarde  a  perdita  d'occhio. 

Basta  quest'ultimo  affresco,  terso,  limpido,  esultante  e  come 
scolpito  nell'aria  e  nella  luce,  per  affermare  che  il  Serra  fu  eccel- 
lente maestro  non  solo  nel  disegno,  ma  anche  nella  pittura. 

Nel  1881  ebbe  il  più  grande  dolore  della  sua  vita  :  la  sconfìtta 
nel  concorso  per  la  decorazione  del  Senato,  che  fu  affidata  invece 
al  Maccari.  Delusioni  ed  a^narezae  non  mancarono  quindi  per  lui, 
sia  per  la  «Madonna  e  Santi»,  ora  alla  Galleria  Nazionale  d'Arte 
Moderna  in  Roma,  sia  per  ritratti  rifiutati  dai  committenti,  sia  per 
allogagioni  di  opere,  ohe  non  ebbero  sèguito. 

La  sensibilità  tormentosa  e  le  continue  delusioni  del  Serra  ap- 
paiono negli  sfoghi  sinceri  delle  sue  lettere  ai  (pochissimi  amici, 
specie  in  alcuni  brani  inviali  allo  scultore  Enrico  Barberi  negli  anni 
1882  e  seguenti.  Sono  confessioni  ritmate  con  ansia  febbrile,  buttate 
giiì  in  furia  con  abbondanza  d'avverbi  e  di  superlativi,  nei  quali 
traluce  l'amore  all'arte  che  lo  infiamma,  l'incrollabile  e  scrupoloso 
convincimento  che  guida  il  suo  lavoro. 

Il  Calderini  lo  rammenta  nel  novembre  1883  a  Roma.  Aveva 
allora  il  suo  studio  in  via  Quattro  Fontane  :  «  uno  stanzone  alto  di 
soffitto  e  mal  chiuso,  con  davanti  un  terrazzino  allegro  e  un  vasto 
terreno  tenuto  a  orti,  non  ancora  invaso  dai  casoni  di  Roma  nuova. 
Sul  terrazzino  venivano,  tra  alcuni  fiori,  i  colombi  famigliari  del 
Serra,  coi  quali  egli  parlava,  come  il  buon  San  Francesco  d'Assisi 
del  suo  quaidro  pei  frati  del  Cestello». 

Il  lavoro,  e  le  delusioni  dell'anima,  in  un  corpo  deperito  da  una 

grave  malattia,  gli  facevano  scrivere,  quando  era  ormai  prossimo 

,  ai  quarant'anni  e  alla  fine  :   «  Io  vivo  sempre  nell'oscurità.  La  mia 

'  stella  è  lontana  e  non  spunta  ancora.  Non  vorrei  che  spuntasse  sul 

mio  cataletto  ». 

Per  dodici  mesi  lavorò  intorno  alla  poderosa  opera  «<  San  Carlo 
li  Catinari  ».  Non  appena  la  ebbe  terminata,  riprese  i  suoi  studi 
crudetti  e  senza  malizia,  di  nudo  e  di  paese.  Pennelleggiava  la  cu- 
pola di  San  Pietro  nel  cielo  frangiato  di  nuvole  bianche  e  rosee; 
stampava  su  carta  e  su  tela  la  testa  energica  dell'allieva,  dieci,  venti 
volte,  in  maniera  sempre  diversa.  Poiché  insistere  era  sempre  il  suo 
svago  e  il  suo  rovello. 

La  sua  pittura  elementare  e  personalissima  appare  come  eman- 
cipata dai  limiti  del  tempo  e  della  bellezza.  Vi  si  notano  tuttavia 
dei  -passaggi  progressivi  da  una  tavolozza  potente  ad  una  visione 
più  chiara,  celestiale  del  colore.  Specie  nel  rendere  l'aria,  ^li  chia- 
ma a  raccolta  le  vaporosità  più  tenui  e  trasparenti,  gentilezze  che 
direi  femminee,  alle  quali  la  sua  virilità  si  piega  come  ad  una  ca- 


IL  PITTORE  LUIGI  SERRA  65 

rezza.  I  calici  dei  gigli,  per  esempio,  gli  escono  dal  pennello  madidi 
duna  castità  monacale. 

«  Preparati  a  vedermi  strano,  qualche  volta  piangente  come  un 
bambino,  scontento  mai!  »,  così  scriveva  al  Barberi  il  i9  gennaio 
del  1886,  mentre  la  sua  passione  ricominciava  davanti  ad  un  nuovo 
lavoro  da  compiere  :  r«  Irnerio  »  per  la  Sala  del  Consiglio  Provin- 
ciale in  Bologna. 

In  quell'anno  fervevano  i  preparativi  per  l'ottavo  centenario 
dello  Studio,  che  ricorreva  nel  1888.  Così  r«  Irnerio  »  del  Serra  cam- 
peggiò sullo  sfondo  della  città  sfolgorante,  di  torri.  Capire  il  gran 
dottore,  coglierlo  nell'atto  stesso  della  sua  vocazione,  era  per  l'artista 
la  risoluzione  per  problema.  Così  per  ritrarre  «  Irnerio  che  riunisce 
è  glossa  i  frammenti  delle  Pandette  »  egli  passò  delle  giornate  intere 
nelle  Biblioteche  di  Roma  ad  osservare  e  disegnare  gli  studiosi  che 
esaminavano  gli  antichi  manoscritti  e  palinsesti,  affinchè  quelle  di- 
verse attitudini  di  profondo  raccoglimento  gli  suggerissero  ciò  che 
gli  abbisognava.  Dopo  studii,  prove,  abbozzi  innumerevoli,  ecco  il 
dottore  e  maestro  nella  cattedra  dell'antico  studio.  A'  suoi  piedi,  nel 
verde  dei  campi  e  nel  sereno  del  cielo  che  lo  circondano,  la  natura 
accoglie  il  popolo  bolognese,  e  gli  armati  in  piedi,  sui  cavalli,  con  le 
insegne  e  i  pavesi  multicolori,  che  buttano  ovunque  note  di  festa. 
«  In  quella  rappresentazione  l'arte  fu  spirito  poetico  della  storia  »  : 
acclamò  il  Carducci  nel  suo  celebre  discorso  commemorativo. 

• 
•  • 

La  malattia  continuava  intanto  ad  opprimerlo,  a  turbare  fin 
troppo  la  quiete  che  è  tanto  necessaria  all'arte.  Per  lui,  abituato  a 
combattere,  la  vittoria  non  giungeva  mai,  se  non  quella  intima,  che 
da  sola  non  basta  al  cuore  dell'uomo. 

Ho  accennato  di  volo  alle  qualità  superiori  di  ritrattista  che  pos- 
sedette Luigi  Serra.  Certo  il  florido,  plastico  «  Ritratto  della  signora 
Enrica  Merlani  »  è  uno  dei  più  sugosi,  e  sta  a  paro  con  uno  della 
madre,  con  due  o  tre  dell'allieva,  e  con  quello  stupendo  di  Federico 
de  Maria.  Largo,  violento,  è  l'autoritratto  a  colori  del  1887,  di  tinte 
rossobrune,  e  un  fare  opaco,  affumicato,  di  grandissimo  effetto. 

Il  Serra  raggiunse  un'altezza,  finora  mai  toccata  da  artisti  ita- 
liani moderni,  nella  «  Testa  d'una  morta  »,  forse  più  suggestiva  della 
«  Testa  d'un  morto  »  di  Giovanni  Segantini;  e  nel  capo  di  un  monaco, 
eseguito  a  Roma  nel  1879,  allorché  lavorava  in  Santa  Maria  della 
Vittoria.  La  fronte  rugosa,  le  grinze  tutte  della  faccia,  i  capelli,  i 
baffi,  la  barba  son  resi  con  fluida  imponenza. 

Una  penetrazione  anche  più  condensata  e  profonda  si  può  scor- 
gere in  uno  «  Studio  di  testa  »  del  1887,  disegno  in  penna,  che  scar- 
nisce  signorilmente  quel  volto  di  popolano,  lo  viviseziona,  ne  fruga, 
conta,  misura  le  ossa;  brusco,  deciso,  possente  come  il  ferro  d'un  mi- 
racoloso chirurgo  e  la  parola  d'un  poeta  immortale.  Esso  annunzia 
e  prepara  l'affascinante  «  Autoritratto  »  in  penna  del  1888,  espres- 
sione definitiva,  disperata  della  sua  arte,  cui  il  destino  stava  per  tron- 
care la  via  per  sempre. 

In  quell'ultimo  periodo  della  sua  vita  ebbe  dal  duca  di  Ceri  l'or- 
dinazione d'una  pala  d'altare  raffigurante  «  San  Giovanni  Nepomu- 

5  Voi.  CCKXl,  serie  VI  —  1"  gennaio  1922. 


66  IL  PITTORE  LUIGI  SERRA 

ceno  martirizzato  da  Venceslao  ».  Per  codesta  pala  eseguì  tre  box- 
zetti,  di  diverso  valore  e  interesse.  Nel  primo  si  rivela  il  felice  arric- 
chirsi della  tavolozza  del  Serra,  densa  e  vaporosa  insieme,  d'un  can- 
giante continuo  che  non  s'adagia  più  in  toni  uniti  e  duri,  ma  si  fonde 
e  si  sposa  senza  schianto.  Nel  secondo  la  scena  presenta  una  mag- 
giore ampiezza,  una  più  riposata  consistenza  di  composizione,  e  la 
gloria  del  Santo  vi  è  manifestata  umanamente,  senza  ricorrere  ai 
mezzi  propri  ai  moderni^  pittori  di  chiesa.  L'ultimo  bozzetto  aveva, 
nell'insieme,  perduto  d'efficacia  e  d'immediatezza  rispetto  ai  prece- 
denti. E  forse  il  Serra,  dipingendo  poi  il  quadro,  vi  avrebbe  appor- 
tato altri  mutamenti.  Senonchè  venne  a  troncarli,  repentina,  la 
morte. 

Il  tramonto  rapido  e  tragico  dell'esistenza  d'un  artista  così  di- 
gnitoso, seguito  da  così  lunga  notte  di  silenzio,  comunica  al  cuore 
un'ombra  di  sgomento  e  di  sconforto. 

Ma  per  chi  sappia  quanto  l'onestà  —  nella  vita  e  nell'arte  —  ri- 
manga estranea  ai  battimani  spensierati  delle  folle,  la  figura  solita- 
ria, addolorata  di  questo  maestro  infaticabile,  giganteggia  via  via 
che  s'allontana  negli  anni,  e  promette  di  non  perdere  la  sua  bella 
statura  nell'avvenire. 

Francesco  Sapori. 


NEL  CENTENARIO    DI  SISTO  V 


Dopo  quattro  secoli,  la  figura  grande  e 
terribile  del  famoso  papa  marchigiano  riap- 
pare, con  le  sue  linee  michelangiolesche  di- 
nanzi alla  mente  degli  italiani  in  occasione 
dell'  imminente  centenario.  Già  or  non  è 
molto  P.  Sterbini,  in  un  interessante  arti- 
colo sul  «  Giornale  d'Italia  »,  rilevava  a  pro- 
posito della  precipitazione  nel  decretare 
provvedimenti  dovuti  poi  rimangiare,  una 
certa  simiglianza  di  carattere  tra  .Sisto  V  e 
F^io  X.  E  niuno  avrebbe  mai  pensato  che  la 
pia  e  mite  anima  del  buon  papa  l^arto  po- 
tesse avere  dei  punti  di  contatto  con  quella 
dell'implacabile  Peretti!,..  Il  prof.  Vincenzo 
Sisto  V  Rocchi    rievocò,    riproducendo    anche    una 

stami>a  del  secolo  xvi,  il  ricordo  di  una  mis- 
sione di  donne  venute  dalla  Libia  a  portar  doni  ed  omaggi  a  Sisto  V, 
con  la  predizione  per  giunta  che  papa  Peretti  avrebbe  esteso  il  suo 
dominio  in  quelle  terre,  sulle  quali  ora  sventola  la  bandiera  d'Italia. 
La  donna  araba,  che  capitanava  la  missione,  offrendo  i  doni,  avreb- 
be, secondo  il  poeta  del  tempo,  detto  al  gran  Papa: 

^■^  Accìpe  primitias,  regni  presaga  futuri, 

^  Africa  quas  mittds,  foemina  quasque  refert.         * 

I  E  che  la  vasta  mente  di  Sisto  vagheggiasse  la  dominazione  di  parte 
I  dell'Africa  mediterranea  non  è  diflBcile  credere  se  ^li,  come  attesta 
'  qualche  cronista  contemporaneo,  tra  le  grandiose  opere  progettate 

aveva  incluso  anche  il  taglio  dell'Istmo  di  Suez!... 
I         Fu  Sisto  V  il  più  possente  interprete  del  pensiero  di  dominazione 

universale  del  papato;  che  paragonavasi  al  sole,  dal  quale  ricevevano 
a  e  luce,  come  pianeti  o  satelliti,  tutti  i  sovrani  cattolici...  Ma  egli 

a.-^surse  troppo  tardi  al  soglio  o  morì  troppo  presto.  E  in  lui  si  spense, 
I  con  superbo  e  splendido  sfolgorìo  prima  del  tramonto,  il  sole  della 
!  mondiale  supremazia  politica  dei  Papi.  È  bene  quindi  rievocare  la 

Ì  figura  caratteristia  dal  lato  umano  e  politico. 
A  prescindere  dalla  probabilità  che  Sisto  V  avesse  concepito  tra 
i  primi  la  preparazione  deU'unità  d'Italia,  raggriippandone  intanto 
le  sparse  membra  in  quattro  potenti  Stati  (Gasa  Savoia,  i  Medici, 
,  la  Repubblica  Veneta  e  il  Papa  dominante  sino  alla  estrema  Sicilia), 
I  è  certo  che  colla  istituzione  in  Roma  del  Gollegio  Illirico  per  Alba- 


68  NEL  CENTENARIO  DI  SISTO  V 

nesi  e  Dalmati,  con  i  provvedimenti  per  la  difesa  delle  coste  italiane 
da  corsari  e  pirati,  con  le  aumentate  fortificazioni  di  Civitavecchia 
e  di  Ancona,  con  gli  eccitamenti  ai  Sovrani  ad  unirsi  contro  i  nemici 
della  cristianità,  anziché  guerreggiarsi  tra  loro,  con  le  eventuali  mire 
di  occupazione  della  Libia  ecc.  si  proponeva  di  fiaccare  nel  Medi- 
terraneo la  barbarica  sopraffazione  dei  turchi.  Ed  è  sotto  questo  punto 
di  vista  che  i  ricordi  del  pontefice  grande  e  terribile,  rex  tremendae 
maiestatis,  hanno  sempre  sapore  di  attualità. 

Il  fatto  della  nascita  in  Grottammare  dà  perfetta  ragione  ai  erot- 
tesi di  chiamare  Sisto  loro  concittadino,  come  alrove  dimostrai.  Che 
comune  d'origine  del  padre  sia  stato  Montalto,  tutti  riconosciamo  e 
nulla  vieta  che  Montalto  ritenga  Sisto  suo  oriundo.  Né  il  fatto  che 
Sisto,  abbia  per  qualche  anno  avuto  educazione  in  Montalto,  dà  di- 
ritto ad  affermare  che  Montalto  é  la  patria  sua.  Che  direbbero  gli 
egregi  polemisti  se  dal  fatto  che  Giuseppe  Sacconi,  loro  illustre  con- 
cittadino, ebbe  completa  educazione  in  Roma,  si  volesse  dedurre  che 
il  meraviglioso  architetto  del  monumento  al  Padre  della  Patria  é 
romano?...  Sorvolando  sulla  località  di  nascita  si  Papa  Sisto  che  la 
questione  anche  troppo  a  lungo  è  durata  e  fu  risoluta,  occupiamoci 
della  vita  e  dell'opera  di  lui.  i 

Il  suo  pontificato  di  5  anni  e  4  mesi  (dall'aprile  del  1585  all'ago- 
sto del  1590)  fu  così  pieno  di  gesta  terribili  e  di  grandiose  opere  da 
\potersi  dire  che  se  Giosuè,  secondo  l'asser'zione  biblica,  fermò  il  sole 
,  per  avere  tempo  di  completare  la  vittoria,  Sisto  costrinse  una  molti- 
tudine Òi  avvenimenti  ad  affrettarsi  e  a  condensarsi  per  capir  dentro 
alla  sua  giornata  storica,  relativamente  breve. 

Sulla  figura  grande  e  terribile  di  questo  Papa  si  fermava  sovente 
il  pensier  mio  sin  dagli  anni  piiì  verdi,  quando  solitario  studente 
m'aggiravo  per  l'immensità  di  Roma;  ed  anche  a  me  parve,  come  a 
mio  padre,  che  Sisto  V  meritasse  solenne  ricordanza  da'  suoi  con- 
cittadini, colà  donde  sorse  da  umili  origini  per  le  eccelse  vette  del 
Pontificato. 

Felice  Peretti  venne  su  da  bassa  origine.  I  suoi  biografi  eccle- 
siastici —  primo  fra  i  quali  il  Moroni  —  imputano  al  Fleury  ed  al 
Leti  d'esser  stati  inesatti  ed  anche  fantastici  e  maliziosi  nel  riferire 
che  esso  fu  figlio  di  porcaro  e,  da  fancmllo,  anch'esso  guardiano  di 
.porci.  Ma,  da  un  confronto  spassionato  tra  tutti  (e  sono  moltissimi) 
gli  scrittori  di  vite  di  Sisto  V,  si  arguisce  che  quella  asserzione  se 
non  sicurissima,  è  più  che  probabile. 

Onde  il  Moroni  stesso,  dopo  avere,  nella  sua  <iualità  di  biografo 
aulico  dei  Papi,  tentato  di  accertare  le  origini  cospicue  e  quasi  pa- 
trizie dei  proavi  albanesi  di  Sisto,  non  insiste  troppo  nello  smentire 
che  questi  avesse,  da  ragazzino,  condotto  al  pascolo  il  succulento  ani- 
male caro  a  Sant'Antonio,  e  filosoficamente  conclude,  con  Pitagora, 
essere  maggiore  la  nobiltà  che  si  acquista  con  le  virtù,  che  quella 
proveniente  dai  natali...  Nobilior  a  quo  genus  incipit! 

Certo  è  che  la  tradizione  immediata  non  ebbe  riguardi  per  le 
basse  origini  di  Felice  Peretti,  se  nell'invido  mondo  ecclesiastico, 
dopo  la  di  lui  elevazione  alla  porpora  (per  opera  di  Pio  V,  il  17  mag- 
gio 1570),  e  quando  si  cominciò  a  comiprendere  che  esso  aspirava 
alla  tiara,  allegando  un  sogno  paterno  e  successive  profezie,  non  si 
aveva  ritegno  di  ohiamarlo  «Lazzaro  puzzolente»  ed  «asino  della 


NEL  CENTENARIO  DI  SISTO  V  69 

Marca  »  complimenti  che  parecchi  cardinaJi,  tra  cui  il  Medici,  rii)e- 
terono  all'indirizzo  di  lui  ajiche  durante  il  conclave  da  cui  uscì  Pipa. 
Il  celebre  Wan-Dfik,  che  fiorì  pochi  anni  dopo  la  sua  morte,  nel 
quadro  «  la  giovinezza  di  Sisto  V  »  lo  raflBgurò  in  atto  di  suonare  il 
piffero,  con  le  unghie  sporche  e  lunghe,  e  il  ©levano  suo  zio  di  dargli 
in  premio  un  bicchiere  di  vino,  e  accanto  la  sorella  Camilla,  e  in 
fondo,  accovacciate,  due  bestie,  che  posson  sembrare  tanti  cagnacci 
da  pastore,  quanto  porci;  se  i  cronisti  registrano  una  quantità  di  aned- 
doti al  proposito,  tra  cui  quello  del  padre  Michelangelo  SoUeri,  il 
quale  imbattutosi  in  campagna  nel  ragazzo  Peretti  che  stava  a  cu- 
stodia dei  porci  e  chiestogli  d'indicargli  la  strada,  ne  ebbe  così  pronte 
e  vivaci  risposte  che  subito  si  piacque  di  lui  e  ne  secondò  la  preghiera 
di  portarlo  seco  al  convento...  onde  si  disse  che  la  cortesia  da  lui 
usata  a  quel  frate  fu  l'origine  della  sua  fortuna. 

Siano  fantastici  o  maliziosi,  come  vogliono  alcuni  scrittori  cat- 
tolici, questi  aneddoti  narrati  dal  Leti  e  da  altri  biografi,  o  siajio, 
come  è  presumibile  veri,  è  ben  sicuro  ohe  per  interessamento  dello 
zio  paterno  padre  Salvatore  Ricci,  il  quale  vestendo  l'abito  dei  mi- 
nori conventuali,  aveva  mantenuto  il  c<^Tiome  di  famiglia.  Felice 
Peretti  cominciò,  all'età  di  7  anni  i  primi  studi  nel  patrio  convento' 
di  S.  Agostino,  ed  a  9  anni  fu  condotto  a  quello  di  Montalto,  ove  era 
lo  zio.  Così  iniziò  la  carriera,  cominciando  naturalmente,  col  servir 
la  messa,  coll'addobbare  l'altare,  col  fare,  alternati  agli  studi,  umi- 
lissimi uffici  di  novizio.  Ma,  ohe  il  suo  carattere  sin  dalla  infanzia 
fosse  umile  non  si  può  dire  davvero.  Narrasi  che  nel  convento  di 
Ascoli  dove  passò  da  Montalto  a  12  anni  ebbe  contrarietà  ed  inimi- 
cizie di  novizi,  alcuni  dei  quali  gli  rammentavano  la  sua  origine 
sino  a  seguirlo  nella  scuola,  nel  refettorio  imitando  alle  sue  spalle 
il  grugnito  dei  porci.  Felice  un  giorno,  adiratosi,  si  volse  al  piìi  pe- 
tulante di  quei  giovani  frati  dicendogli  :  «  Io  sono  stato  porcaro  e 
non  porco,  ma  giacché  tu  fai  da  cattivo  porco,  io  la  farò  da  buon 
porcaro!...  »,  e  giù  percosse  santissime  con  un  bastone.  Né  fu  quella 
la  sola  volta  che  reagisse  con  impetuosa  violenza  di  parole  e  di  fatti 
ai  sarcasmi,  alle  insolenze,  ai  tradimenti  frateschi.  Però  finì  col  di- 
sprezzare i  suoi  nemici,  invidiosi  dell'ingegno  suo  e  dei  meravigliosi 
progressi  che  faceva  negli  studi.  Nel  1535,  e  perciò  quando  il  frati- 
cello Peretti  aveva  appena  14  anni,  il  birraio  Gianni  di  Leyda,  capo 
degli  anabatisti,  aveva  occupato  Mùnster.  Felice,  quantunque  si  trat- 
tasse di  un  eretico,,  non  nascondeva  la  sua  ammirazione  per  l'oscuro 
popolano  divenuto  re-profeta.  E  un  frate,  alludendo  al  mestiere  di 
porcaro  che  Gianni  Leyda  aveva  esercitato  in  gioventù,  disse  sarca^ 
sticamente:  «fra  Felice,  si  tratta  di  un  vostro  parente!...  ».  E  Felice 
pronto:  «  se. a  me  è  parénte  come  porcaro,  a  voi  lo  é  come  eretico!  ». 

Questa  prontezza  di  lingua,  e  non  di  rado  di  mano,  fu  una  sua 
caratteristica  anche  negli  anni  maturi.  Quando  era  cardinale  e  pro- 
curatore dei  conventuali,  morì  il  padre  generale  dei  conventuali 
stessi,  lasciando  una  cospicua  eredità  che,  secondo  una  consuetudine 
abusiva,  avrebbe  dovuto  passare  in  privata  proprietà  del  successore. 
Questo  il  cardinale  di  Montalto  non  volle,  ed  ottenne  dal  cardinale 
Borromeo,  reggente  gli  affari  della  chiesa,  un  breve  col  quale  l'ere- 
dità passava  in  proprietà  collettiva  del  convento  dei  SS.  Apostoli! 

Toccare  im  frate  nell'interesse  —  dice  il  biografo  da  cui  rias- 


70  NEL  CENTENARIO  DI  SISTO  V 

sumo  l'aneddoto  —  è  come  pestare  la  coda  d'un  serpe!...  Il  nuovo 
padre  generale  non  la  perdonò  al  procuratore,  contro  il  quale  ordì 
tradimenti  e  calunnie  d'accordo  col  baccelliere  Magnti;  che  il  Mon- 
talto,  in  un  impeto  d'ira,  schiaffeggiò  alla  persenza  del  padre  gene- 
rale, del  cardinale  protettore  e  del  segretario. 

E  parecchi  altri  di  aneddoti  simili  ci  sarebbero  da  ricordare;  ma 
ix)ichè  non  debbo  abusare  della  cortese  pazienza  dei  lettori,  dirò 
rapidamente  sulla  carriera  del  Peretti.  Vestito  a  dieci  o  dodici  anni 
l'abito  dei  minori  conventuali  a  Montalto,  progredì  rapidamente  negli 
studi  in  Ascoli,  a  Pesaro,  a  Jesi,  a  Ferrara,  a  Bologna,  ove  si  raf- 
forzò in  teologia;  nel  1544,  fu  destinato  lettore  di  sacri  canoni  nel 
convento  di  Rimini,  e  dopo  due  anni  in  quello  di  Siena,  ove  nel  1547 
si  ordinò  sacerdote;  nel  1548  ricevette  la  laurea  dottorale  in  Fermo. 
Poi,  fu  successivamente  mandato  a  r^gere  i  conventi  del  suo  ordine 
in  Siena,  in  Napoli,  in  Venezia,  ecc.  Ma,  già,  sin  dai  dieciannove 
anni  di  età,  aveva  acquistato  fama  di  eloquente  predicatore,  onde 
spesso  usciva  dai  chiostri,  recandosi  a  predicare  per  le  città  d'Italia. 
Pare  che  fosse  una  specie  di  padre  Agostino  di  quei  tempi,  -fascina- 
tore degli  uditorii.  D'aspetto  grato  e  signorile,  con  occhi  neri  viva- 
/;issimi,  parlava  in  pubblico  c^n  maestosa,  talvolta  enfatica  eloquenza. 
Ricco  di  una  coltura  storica  letteraria,  anche  scientifica,  che  in  quei 
tempi  non  era  comune;  pieno  di  energia  e  di  risolutezza,  il  giovine 
predicatore  attaccava  dal  pulpito  anche  gli  uomini  più  potenti.  Fece 
rumore  una  sua  predica  in  Roma,  durante  la  quale  censurò  con  vee- 
menti parole  la  politica  religiosa  dell'imperatore  Carlo  V,  di  Ferdi- 
nando I  e  di  Enrico  II;  e  il  cardinale  da  Carpi,  protettore  dei  con- 
ventuali, che  molto  apprezzava  il  Peretti,  dovette  adoperare  tutta  la 
sua  influenza  per  difenderlo  ed  evitargli  qualche  spiacevole  conse- 
guenza della  imprudente  diatriba.  Tra  le  polemiche  suscitate  da 
quelle  prediche,  aumentava  la  sua  fama  di  poderoso  e  franco  ora- 
tore, di  ifrate  austero  e  rigidissimo.  Era  divenuto  in  Roma  il  predi- 
catore di  voga.  Dame,  diplomatici,  teologi,  letterati  si  affollavano 
attorno  al  suo  pulpito;  ebbe  fra  gli  ascoltatori  Ignazio  di  Loyola  già 
vecchio  e  vicino  al  tramonto,  Filippo  Neri  ed  altri  illustri  perso- 
naggi e  porporati  dell'epoca,  che  preconizzavano  in  lui  un  poderoso 
campione  della  chiesa  cattolica,  i  cui  abusi  e  i  cui  dogmi  erano  fie- 
ramente combattuti  dai  seguaci  di  Lutero,  che  di  quel  tempo  era 
morto  tranquillamente  lasciando  nei  grandi  solchi  sanguinosi  per 
tante  guerre  religiose,  i  virgulti  rigogliosi  della  Riforma.  Ed  anche 
gli  ascoltatori  insigni  si  sentivano  affascinare  dalla  severa  magnilo- 
quenza del  Peretti,  di  cui  ambivano  l'amicizia.  Si  videro  i  cardinali 
Caraffa  (che  fu  poi  Paolo  IV),  Chislieri  (in  seguito  Pio  V),  e  molti 
altri  scendere  di  carrozza  alla  porta  del  convento  per  far  visita  al 
predicatore  marchigiano;  onde  frati  e  -popolo  rimanevan  sorpresi  a 
si  alte  dimostrazioni  d'onore,  che  aumentavano  la  rinomanza  e  la 
considerazione  in  cui  era  tenuto.  L'esemipio  dei  cardinali  fu  presto 
seguito  dal  patriziato  romano,  che  ambì  la  conoscenza  del  Peretti. 
Ascimio  Colonna  affidò  a  lui  l'educazione  letteraria  di  Marcantonio, 
che  fu  poi  cardinale,  e  di  Stefano,  poi  insigne  condottiero...  E  il 
figlio  dell'umile  ortolano  si  faceva  delle  potenti  amicizie  sgabello  a 
salire  grado  grado  più  in  alto,  verso  la  eccelsa  mèta  alla  quale  aspi- 
rava. Uno  dei  suoi  ammiratori  il  Caraffa,  divenuto  Papa  Paolo  IV, 


ÌWL  CENTENARIO  DI  SISTO  V  71 

lo  nominò,  nel  1557,  inquisitore  della  fede  nel  donfiinio  veneto.  Così 
tornò  con  maggior  grado  a  Venezia,  ove  pochi  anni  prima  era  stato 
rettore  dei  Frati  e  consultore  dei  S.  UflBzio,  ma  donde  avea  dovuta 
allontanarsi  per  gl'intrighi,  le  calunnie,  le  inimicizie  dei  frati,  irri- 
tati della  sua  severità.  Come  inquisitore  si  mostrò  più  rigoroso  che 
mai:  ordinò  ai  frati  di  far  vita  in  convento'  e  si  die  a  perseguitare 
i  disobbedienti,  molti  dei  quali  godevano  la  protezione  di  case  pa- 
trizie: così  creò  imbarazzi  al  governo  della  Repubblica,  col  quale 
ebbe  attriti;  la  serenissima  gli  ordinò  di  non  immischiarsi  in  cose 
pregiudicievoli  alla  libertà  dello  Stato.  Il  nostro  Felice  anziché  ri- 
manersene tranquillo  al  mònito  di  quel  potente  e  terribile  governo, 
mandò  ad  affiggere  sulle  porte  di  S.  Marco  una  censura  al  Senato, 
citando  a  comparire  alla  sua  presenza  alcuni  di  quella  augusta  as- 
semblea, E  il  Senato  ordinò  ai  birri  di  arrestarlo.  Egli  n'ebbe  sen- 
tore in  tempo  e  fuggì  in  fretta,  tornandosene  a  Roma,  ove  agli  amici 
diceva:  «quei  Pantaloni  mi  avrebbero  appiccato,  ed  io  non  ho  voluto 
farmi  appiccare  a  Venezia,  perchè  ho  fatto  voto  d'essere  Papa  a 
Roma!  ». 

Pio  IV  (Giovannangelo  Medici)  eletto  Papa,  la  notte  di  Natale 
del  1559,  per  acclamazione  dei  cardinali  inupazienti  d'uscir  dal  Con- 
clave in  cui  stavan  chiusi  da  tre  mesi  e  mezzo,  volle  servirsi  del  se- 
verissimo frate  in  una  sua  truce  vendetta  e,  fattolo  giudice  del  San- 
t'Uffizio, lo  nominò  consultore  segreto  contro  i  Carafeschi. 

Questo  tragico  processo  lum^gia  tetramente  l'indole  e  il  carat- 
tere del  ipapato  in  quei  tempi... 

Credo  che  Felice  Peretti  sia  stato  uno  di  quei  tipi  fisici  e  morali 
che  non  sentono  stanchezza,  ma  a  raccogliersi  per  poter  prendere 
uno  slancio  maggiore,  ^li  si  trasse  in  disparte  dalle  fervide  lotte 
del  pulpito,  delle  missioni  e  dei  processi  inquisitoriali;  smise  Tumore 
acre  e  severo,  si  fece  docile  e  affabile  con  tutti,  badando  a  far  denari 
e  ad  acquistarsi  benevolenza  tra  i  collabi.  A  Fermo  non  stette  molto  : 
dopo  avervi  fondato  il  seminario,  rimmziò  a  quella  sede  per  dedi- 
carsi al  poderoso  lavoro  della  correzione  delle  opere  di  S.  Ambrogio, 
dottore  della  Chiesa,  ed  anche,  e  più  specialmente  io  ritengo,  per 
tornare  a  Roma,  il  gran  centro  degli  aspiranti  alla  tiara. 

Era  papa  allora  Gregorio  XIII,  cui  non  poteva  piacere  quell'at- 
teggiarsi  del  cardinale  di  Montalto  a  suo  successore  e  perciò  non  gli 
nascondeva  antipatia.  Da  buon  calcolatore,  il  futuro  papa,  si  ritirò 
dallo  strepito  e  dagli  intrighi  della  corte  vaticana  e  dai  pubblici  uf- 
fici; ed,  acquistata  nel  1576,  per  1500  scudi,  facendo  figurare  acqui- 
rente la  sorella  Camilla  Mignucci,  una  vigna  verso  S.  Maria  Mag- 
giore, dichiarò  di  volervi  passare  tranquillamente  il  rimanente  dei 
suoi  giorni,  attendendo  agli  studi  su  S.  Ambrogio,  piantando  di  sua 
mano  viti  ed  alberi,  e  provvedendo  all'ampiamento  della  sua  amena 
residenza,  che  fu  il  nocciolo .  da  cui  si  sviluippò  la  sontuosa  villa 
«  Montalto  ». 

.  Gregorio  XIII  credeva  poco  a  tanta  modestia  di  propositi,  ed,  a 
tarpargli  un  po'  le  ali  desiose  di  eccelso  volo,  gli  tolse  il  piatto  car- 
dinalizio. Deve  aver  masticato  male  il  Peretti;  ma  facendo  buon  viso 
a  cattiva  fortuna,  si  mostrò  rassegnato,  sospese  di  fabbricare  alle- 
gando di  non  averne  più  i  mezzi  e  cominciò  a  rappresentare  la  parte 
d'uomo  fisicamente  affievolito,  debole  persino  nella  voce,  toesicchian- 


72  NEL  CENTENARIO  DI  SISTO  V 

te.  Si  reggeva  a  stento  sul  bastone,  quasi  in  attesa  deirultimo  riposo, 
al  quale  si  preparasse  con  ascetiche  meditazioni,  lontano  dai  rumori 
e  dagli  intrighi  del  mondo.  E,  dall'esame  e  confronti  delle  biografie 
e  cronache  del  temipo,  parmi  che  quanti,  sulle  orme  dell'aulico  Mo- 
roni,  si  affaticarono  a  smentire  questa  finzione  del  cardinale  di  Mon- 
tai to,  non  abbiano  argomenti  seri  per  contraddirle. 

Però;  quanto  fervore  d'idee,  qual  fuoco  e  qual  tumulto  di  ambi- 
zioni e  di  passioni  sotto  quel  mentito  aspetto  d'uomo  esaurito  e  ca- 
dente!... Malgrado  la  matura  età,  il  cardinale  di  Montalto  era  tut- 
t'altro  che  insensibile  al  più  forte  e  tenero  dei  sentimenti.  Parecchi 
biografi,  imputati  da  quelli  ligi  al  Vaticano  d'aver  scritto  romanzo, 
non  storia,  non  dubitarono  di  affermare  che  il  cuore  del  futuro  papa 
tutto  s'accese,  ed  arse  in  segreto  per  la  bellissima,  spiritosa,  vivace  e 
lusinghiera  Vittoria  Accorramboni.  Che  tragedia  anche  questa  e  in 
quanti  oscuri  veli  rimane  ancora  confusa!... 

Felice  Peretti,  già  da  più  anni,  avea  chiamato  seco  in  Roma  la 
sorella  Camilla,  il  marito  di  lei  G.  B.  Mignucci  ed  i  loro  figli  Fran- 
cesco e  Maria.  E  Francesco,  il  giovinetto  nepote  dell'ardente  porpo- 
rato, chiese  in  isposa  la  celebrata  fra  le  belle;  della  quale  era  inva- 
ghito Paolo  Giordano  Orsini,  il  potente  e  terribile  duca  di  Bracciano, 
ch'era  steto  comandante  delle  truppe  di  Paolo  IV  contro  i  turchi  nel 
15G6  e  che  aveva,  fra  gli  abbracci  maritali,  strangolato  la  moglie 
Isabella  de'  Medici,  accusata  di  nefanda  domestichezza  col  padre, 
il  Granduca  Cosmo,  e  d'altre  scostumatezze.  Il  duca  di  Bracciano  era 
quarantacinquenne,  corpulento,  deforme,  infetto  da  cancrenosi  umori. 
Non  di  meno  la  calcolatrice  madre  di  Vittoria  preferiva,  per  ambi- 
zione e  p>er  interesse,  il  parentado  ducale,  mentre  il  padre  Claudio, 
modesto  gentiluomo  di  Gubbio,  stabilitosi  da  molti  anni  in  Roma, 
inclinava  a  Francesco,  giovane,  sano  e  nepote  al  cardinale  preconiz- 
zato papa.  E  vinse  la  suggestione  patema.  La  fatale  Vittoria  entrò 
in  casa  del  cardinale  Montalto,  sposa  al  di  lui  nepote.  Quali  misteri 
passionali  rimasero  impenetrati  nella  villa  Montalto  dopo  questo  ma- 
trimonio?!... Riassumo  dalla  biografìa  più  ortodossa  di  papa  Sisto, 
pubblicata  dal  Moroni  nel  suo  gran  dizionario  di  erudizione  storico- 
ecclesiastica.  Felice  ricolmò  di  favori  la  famiglia  della  bellissima 
nuora  ;  fece  ottenere  al  fratello  di  lei  Ottavio  Accorramboni  il  vesco- 
vado di  Fossombrone;  all'altro,  Giulio,  la  nomina  di  gentiluomo  del 
cardinale  Sforza;  fece  tramutare  nello  esilio  la  pena  di  morte  cui  era 
stato  (non  dice  per  quale  delitto)  condannato  un  terzo  fratello,  Mar- 
cello. Questo  Marcello,  che  aveva  potuto  ascosamente  rientrare  in 
Roma,  rifugiandosi  presso  la  sorella,  si  prestò  (da  chi  istigato  o 
cooperato?)  a  nefasto  delitto.  Una  notte  essendosi  allontanato  da  casa, 
mandò  una  lettera  pressante  al  cognato,  scongiurandolo  di  recarsi 
subito  in  una  località  dell'Esquilino  ove  egli  doveva  rimanere  mo- 
mentaneamente ascoso  perchè  ormeggiato  dai  birri.  Malgrado  la  dis- 
suazione  della  madre,  quasi  presaga  della  imminente  sventura,  l'in- 
genuo Francesco  prontamente  vestitosi  si  avviò  al  convegno;  ma  in 
una  via  oscura  e  deserta,  presso  gli  orti  Sforza,  fu  colpito  da  tre 
archibugiate  e  quindi  trucidato  dai  sicari  che  gli  avean  fatto  la  posta. 
Dice  il  Moroni  ch'eran  sicari  del  duca  di  Bracciano  e  che  il  cardinale 
di  Montalto  prudentemente  dissimulò  e  seppe  anzi  ricevere  con  di- 
gnità La  visita  di  condoglianza  dell'audace  duca. 


NEL  CENTENARIO  DI  SISTO  V 


73 


La  vedova  dell'infelice  Francesco  rientrò  nella  modesta  casa  pa- 
terna con  tutte  le  gioie  che  il  cardinale  le  aveva  offerte  e  fatte  offrire 
dai  suoi  per  le  nozze,  e  poco  dopo  con  la  madre  ed  una  cameriera, 
partì  insieme  al  duca  Orsini,  per  il  castello  di  Bracciano. 

Fu  grande  il  rumore  dello  scandalo:  e  poiché  il  dono  divino 
della  bellezza  accaparra  quasi  sempre  la  indulgenza  degli  uomini. 
Vittoria  veniva  scusata  e  si  imputava  alla  di  lei  madre  la  maggiore 
comiplicità  nel  delitto.  Il  papa  ordinò  il  processo  e  pieno  di  sdegno, 
promise,  in  concistoro,  esemplare  giustizia  al  cardinale  di  Montalto; 


Chiesa  di  S.  Lucia  -  Aitare. 


il  quale  lo  pregò  di  sospendere  il  suo  rigore,  intendendo  perdonare 
chiunque  fosse  l'autore  del  delitto.  Sorpreso  il  papa  di  questa  stoica 
indifferenza,  disse  poi  col  proprio  nepote:  «veiamenle  costui  è  un 
gran  frate!  ».  Nondimeno,  ad  istanza  del  cardinale  Medici  (che  non 
avea,  come  già  ho  accennato  troppo  simpatia  per  il  Peretti)  e  del- 
l'ambasciatore di  Spagna,  il  papa  ordinò  che  si  proseguisse  nell'i- 
struttoria e  fece  rinchiudere  Vittoria  in  Castel  Sant'Angelo  proiben- 
dole di  sposarsi,  senza  il  suo  consenso,  con  l'Orsini.  Ma  Gregorio  XIII, 
addì  10  aprile  1585,  morì  :  il  duca  profittò  subito  del  tumultuoso  pe- 
riodo della  sede  vacante  e  coi  suoi  partigiani  e  con  le  corruzioni,  li- 
berò la  bella  e  la  sposò,  partendo  con  essa  per  Padova;  alcuni  dicono 
appena  eletto  Sisto  V,  altri  circa  50  giorni  dopo.  Sembra  ohe  il  nuovo 
papa  abbia  indirettamente  facilitato  questa  soluzione,  la  quale  riuscì 


74  NEL  CENTENARIO  DI  SISTO  V 

però  tragica  per  Vittoria,  ohe  egli,  senza,  dubbio,  voleva  ricca  e  du- 
chessa fra  le  più  illustri,  sposa  ad  uji  uomo  vecchio  ed  infermo,  che 
presto  gli  avrebbe  levato  l'incomodo!  Infatti  il  duca  morì  sette  mesi 
dopo  l'elezione  di  Sisto,  a  Salò  sul  lago  di  Garda,  lasciando  cento- 
mila scudi  aita  vedova  ed  altre  rendite  speciali  perchè  si  mantenesse 
una  corte  di  40  persone.  Ludovico  Orsini  un  congiunto  del  duca  che 
aveva  accompagnato  gli  sposi  e,  forse  era  amante  non  riamato  della 
bellissima  donna,  ritenendo  nullo  il  testamento,  si  impossessò  dei 
beni  a  nome  del  figlio  della  prima  moglie  del  defunto.  Vittoria  ri- 
corse al  duca  di  Ferrara  esecutore  testamentario  e  al  patrocinio  del 
Senato  veneto;  e  l'esasperato  Lodovico,  secondo  le  delittuose  abitu- 
dini dei  grandi  di  quel  tempo,  la  fece  assassinare!...  Papa  Sisto  in- 
teressò la  Repubblica  di  Venezia  a  far  vendetta  del  delitto  che  gli 
aveva  lacerato  il  cuore;  Lodovico  fu  strangolato  in  prigione  e  i  sicari 
ebbero  mozzo  il  capo. 

♦ 
• 

Il  21  aprile  del  1585  si  era  aperto  il  Conclave.  Gli  aspiranti  alla 
tiara  erano  molti  ed  i  42  cardijiali  elettori  fieramente  divisi;  finirono, 
credendo  di  prender  tempo,  per  accordarsi  sul  nome  del  Peretti, 
reputando  che,  per  le  condizioni  di  sua  salute,  avrebbe  durato  po- 
chissimo; e  il  24  successivo  lo  elessero.  Qui  incomincia  una  nuova 
grandiosa  fase  dell'uomo  straordinario.  Non  mi  è  possibile  conden- 
sare in  un  articolo  la  storia  di  un  pontificato  come  il  suo.  Cercherò 
di  lumeggiarlo,  ricordando  anche  i  più  caratteristici  aneddoti. 

Già,  l'aver  scelto  il  nome  in  omaggio  alla  memoria  di  Sisto  IV, 
il  fiero  Della  Rovere,  che  era  stato  promotore  della  guerra  santa, 
contro  Maometto  II;  che  aveva  mandato  una  flotta  a  saccheggiare  e 
bruciar  Smime;  clie,  quale  fautore  della  congiura  dei  Pazzi,  era  stato 
scomunicato  dal  Sinodo  fiorentino,  ma  se  ne  era  ricattato  scagliando 
l'interdetto  su  Firenze  ed  inviando  un  grande  esercito  suo  e  dell'al- 
leato re  di  Napoli  'p)er  soggiogarla;  ohe  aveva  concesso  a  Ferdinando  V 
l'istituzione"  della  feroce  Inquisizione  di  Spagna;  che  avea  riempito 
Roma  di  stragi  e  supplizi,  indica  con  quali  propositi  il  Peretti  ascen- 
desse al  soglio. 

Pur  lasciando  a  drammaturghi  e  romanzieri  la  scena  del  gettito 
improvviso  delle  stampelle,  certo  è  ohe  appena  eletto  apparve  al- 
tr'uomo  di  quello  che  prima  s'infìngeva.  Si  rizzò  fiero  e  forte  sulla 
persona  e  intuonò  con  voce  robusta  le  preci  rituali.  Secondo  un  bio- 
grafo francese,  che  lo  qualifica  «  uno  dei  più  grandi  pontefici  apparsi 
sulla  cattedra  di  S.  Pietro»,  avrebbe  alteramente  detto  ai  primi  car 
dinali  che  gli  si  strinsero  attorno,  offerendosi  di  sorreggerlo:  «ci 
sentiamo  abbastanza  vigore  per  governare  non  solo  la  Chiesa,  ma  il 
mondo!  ».  Quando  montò  a  cavallo  per  recarsi  a  prender  possesso 
nella  basilica  lateranense,  lo  fece  con  tanta  snellezza  e  leggiadria 
che  uno  degli  ambasciatori,  giovani  principi  giapponesi  cui  aveva 
concesso  l'onore  di  tenergli  la  staffa,  lo  complimentò  dicendogli  : 
«io  non  saprei  fare  altrettanto».  E  Sisto:  «Eppure  siamo  pesanti 
perchè  abbiamo  un  mondo  sulle  spalle!  ».  Interloquì  il  cardinale 
Farnese  non  senza  una  punta  di  sarcasmo:  «  tutt'altro  che  pesante... 
vostra  santità  non  era  così  snello  quand'era  cardinale!  »;  ai  che  il 


NEL  CENTENARIO  DI  SISTO  V  75 

« 

papa:  «più  pesanti  eravamo  in  quel  tem/po  perchè  allora  avevamo 
il  mondo  ai  piedi  e  nel  cuore;  adesso  lo  abbiamo  sulle  spalle  e  nel- 
l'anima e  ci  è  di  gran  leggerezza!  ».  E  al  cardifiale  Medici,  che  gli 
aveva  detto  :  «  Vostra  santità  ha  tutt'altro  garbo  di  quand'era  car- 
dinale »  rispose  :  «  da  cardinale  siamo  andati  con  le  spalle  basse  a 
capo  chino  per  cercare  nella  terra  le  chiavi  del  cielo;  ma  adesso  che 
le  abbiamo  trovate,  guardiamo  il  cielo,  non  avendo  piìi  bisogno  al- 
cuno della  terra!  ». 

Nella  cerimonia  della  incoronazione,  quando  il  diacono  bruciata 
la  stoppa,  pronunziò  la  frase  rituale  :  «  Sancte  Pater,  sic  transit  gloria 
mundi!  ».  Sisto  rispose:  «La  nostra  gloria  non  passerà,  poiché  altra 
non  ne  desideriamo  che  quella  di  far  buona  giustizia!  ».  Nessun  pon- 
tefice avea  mai  parlato  in  quella  circostanza,  onde  i  cardinali,  mera- 
vigliando, sentirono  di  essersi  creato  un  padrone  energico  e  risoluto. 

La  buona  giustizia,  per  la  implacabile  severità  sua  aipparve  trop- 
po spesso  ferocia.  Cominciò  subito  col  segnalare  il  suo  avvento  al 
soglio  facendo,  malgrado  le  esortazioni  a  clemenza  fattegli  dai  car- 
dinali, impiccare  al  ponte  Sant'Angelo,  nel  quarto  giorno  del  ponti- 
ficato, quattro  giovani  provinciali,  fra  cui  due  fratelli  da  Cori,  ohe 
venuti  in  Roma  per  le  feste  del  nuovo  paipa,  erano  stati  dai  birri 
trovati,  malgrado  il  divieto,  in  possesso  di  pistole.  Non  permise  ohe 
per  la  coronazione,  si  aprissero,  secondo  il  solito,  le  carceri,  dicendo: 
«purtroppo  vi  sono  dapertutto  malfattori  e  non  conviene  metterne 
altri  in  libertà  ».  Raccontano  che  la  sera  del  concistoro  Sisto,  chia- 
mati a  sé  il  governatore  di  Roma  e  i  giudici,  li  ammonì  che  lui  re- 
gnante doveano  usare  tutto  il  rigore  se  non  voleano  il  castigo  cui  sot- 
traessero i  colpevoli,  poiché  egli  era  stato  chiamato  da  Dio  (?)  alla 
sede  di  Pietro  per  rimunerare  i  buoni  e  castigare  i  colpevoli,  e  quindi 
i  rei  di  morte  fossero  senza  indugio,  consegnati  ai  carnefici. 

Ordinò  che  fosse  proibito,  sotto  pene  severe,  di  affollarsi  e  gri- 
dare al  suo  passaggio:  «  Viva  Sisto  ».  «  Abbiamo  —  egli  disse  —  vo- 
lontà di  girare  per  Roma  senza  essere  infastiditi,  né  abbiamo  bisogno 
di  plauso  alcuno  bastandoci  quello  della  nostra  coscienza». 

Ai  conservatori  di  Roma,  recatisi  ad  ossequiarlo,  disse  :  «  Avrete 
giustizia,  ma  anche  voi  dovete  esercitare  la  giustizia,  che  se  farete 
ii  vostro  dovere  avrete  tutto  il  nostro  appoggio,  ma  se  vi  mancherete 
noi  siamo  pronti,  occorrendo,  a  farvi  recidere  il  caipo!  ».  Parlava 
chiaro  ed  agiva  con  implacabile  severità! 

Dopo  due  giorni  dalla  incoronazione  di  Sisto,  un  gentiluomo  spo- 
letino,  ingiunato  pubblicamente  da  un  suo  nemico  sguainò  la  spada 
minacciando  colpirlo.  Furono  vane  le  supplicazioni  di  ambasciatori 
e  cardinali  :  il  terribile  papa  lo  fece  immediatamente  decapitare.  E 
mandò  per  le  spiccie  alla  forca  banditi,  omicidiari,  ladri,  malfattori 
d'ogni  risma.  Plebe  e  grandi  tremarono.  Il  suo  nome  solo  spaven- 
tava. Si  narra  che  due  stallieri  d'un  cardinale  vennero  a  rissa  fu- 
riosa :  uno  mise  sotto  l'altro  e  sguainò  il  pugnale  per  colpirlo;  ma  si 
sovvenne  che  regnava  quel  severissimo,  onde  gittò  il  ferro,  dicendo 
al  nemico  :  «  ringrazia  Sisto;  se  non  fosse  il  terrore  che  esso  m'in- 
cute, t'avrei  scannato!  ». 

Alcuni  cardinali,  pensando  mgraziarselo,  vestirono  da  princi- 
pessa la  sorella  Camilla  e  gliela  condussero  in  Vaticano.  Ma,  quando 
gliela  presentarono,  Sisto  disse:  «  Questa  principessa  non  può  essere 


76  NEL  CENTENARIO  DI  SISTO  V 

t 

mia  sorella,  che  nacque  modesta  contadina!  »,  e  fìngendo  di  non  co- 
noscerla, senz'altro,  la  rimandò.  Ma  il  dì  seguente,  quando  Camilla 
gli  tornò  innanzi,  indossando  le  solite  vesti,  la  abbracciò  affettuosa- 
mente dicendole  :  «  Ora  ti  riconosco,  sorella!  spetta  a  me  darti  la  qua- 
lità e  il  manto  di  principessa,  non  ad  altri».  Assegnò  ad  essa  e  ai 
nepoti  una  pensione  di  mille  scudi  mensili,  affinchè  vivessero  con 
decoro  nella  villa  Montalto,  si  recassero  spesso  a  trovarlo,  ma  non 
si  immischiassero  negli  affari  di  Stato,  altrimenti,  con  suo  grande 
rammarico,  sarebbe  stato  costretto  ad  allontanarli  da  Roma. 

Agli  esempi  di  ferreo  e  spesso  di  crudele  rigore,  frammischiava 
atti  di  generosità.  Seppe  dal  proprio  medico  di  un  avvocato,  amico 
suo  prima  della  esaltazione,  che  era  caduto  in  miseria  e  per  giunta 
stava  malato:  gli  mandò  dal  suo  ortolano  un  cestello  di  cicorietta 
con  nel  fondo  gran  copia  di  zecchini;  l'avvocato  si  riconfortò,  guarì, 
andò  a  ringraziarlo.  Onde  il  popolo  proverbiando,  in  casi  di  malattia 
accoppiata  a  miseria,  soleva  dire:  «ci  vorrebbe  l'insalata  di  ipapa 
Sisto!  ». 

Grande  e  terribile  papa!...  Ricordando  quanto  il  tempo  suo  fu 
infetto  per  delitti,  prepotenze  e  ferocie  di  costumi,  si  può  applicare 
metaforicamente  anche  a  lui  il  detto:  «a  corsaro,  corsaro  e  mezzo», 
dappoiché  non  ebbe  pietà,  non  ebbe  scrupoli  nell'imporre  a  tutti  il 
suo  assolutismo  e  la  sua  ferrea  volontà. 

La  satira  e  le  mormorazioni  lo  addentarono  spesso,  avendo  Sisto 
punito  colpe  che  risalivano  anche  a  venti  anni  addietro;  un  giorno, 
sotto  il  famoso  torso  di  Pasquino,  videsi  affisso  un  cartello  in  cui  era 
effigiato  S.  Pietro  in  abito  da  viaggio  con  la  sacca  in  mano;  S.  Paolo 
gli  domandava  dove  andasse;  «  parto,  rispondeva  Pietro,  per  timore 
che  Sisto  si  ricordi  dell'orecchia  tagliata  a  Marco'  ».  Di  questa  e 
d'altre  pasquinate,  ohe  alludevano  alla  sua  inflessibile  risolutezza,  il 
papa  non  s'adontò,  anzi  parve  compiacersi.  Un'altra  volta,  Marforio 
domandava  a  Pasquino  perchè  avesse  la  camicia  sporca,  e  Pasquino 
rispondeva:  «  perchè  il  papa  ha  fatto  principessa  la  mia  lavandaia». 
Sisto,  irritato,  non  riuscendo  a  scoprire  l'autore,  dissimulò  e  fece 
bandire  che  ove  si  fosse  presentato  spontaneamente,  avrebbe  salva 
la  vita  e  mille  doppie  in  regalo.  Il  disgraziato  si  andò  a  discoprire, 
e  il  papa,  dopo  avergli  rimesso  mille  doppie,  gli  fece  tagliare  lingua 
e  mani,  dicendo  che  manteneva  così  la  promessa  di  lasciarlo  in  vita, 
ma  gli  toglieva  modo  di  dire  e  scrivere  altre  satire. 

Era  dunque  vendicativo.  Eippure,  quando  l'ascosa  passione  o  il 
freddo  calcolo  politico  glie  lo  consigliavano,  sapeva  far  mostra  d'aver 
dimenticato,  quantunque  in  un  registro  «<  memento  vivorum  »  notasse 
tutto  il  bene  e  il  male  sin  da  quando  era  semplice  frate. 

Aveva  penetrazione,  perspicacia,  viste  meravigliose:  appena 
messo  piede  nella  sala  si  accorgeva  di  chi  mancasse  al  concistoro; 
scrutando  i  volti  degli  ambasciatori  spesso  ne  penetrava  gli  ascosi 
pensieri.  Amava  i  libri,  le  arti,  le  fabbriche,  delle  quali  conosceva 
la  tecnica,  tanto  che  da  cardinale  aveva  diretto  da  sé  i  lavori  della 
villa  Montalto.  «  In  politica  —  soleva  dire  —  bisogna  saper  perdo- 
nare, dissimulare,  combattere  non  con  tutti  i  nemici  ad  un  tempo, 
ma  con  uno  alla  volta;  l'affabilità  soverchia  coi  domestici,  se  qualche 
volta  è  utile,  porta  sovente  con  sé  serii  inconvenienti;  ai  grandi  co- 
municare i  motivi  delle  proprie  azioni,  a^li  altri  queste  soltanto; 


NEL  CENTENARIO  DI  SISTO  V  77 

conservare  sempre  l'abituale  espressione  della  fisonomia;  finire  di 
riflettere  per  cominciare  ad  agire;  rigore  e  denaro  sono  elementi 
indispensabili  di  buon  governo;  un  principe  senza  denaro  è  un 
nulla». 

E  queste  massime,  cui  avrebbe  sottoscritto  il  famoso  segretario 
fiorentino,  applicò  costantemente  per  procurargli  denaro  e  molto; 
non  risparmiò  tasse  e  imposizioni;  e  il  denaro  profuse  in  grandiose 
e  geniali  opere,  tra  cui  le  ampie  strade  aperte  in  Roma,  gli  obelischi 
erettivi,  la  facciata  meridionale  del  palazzo  lateranense,  la  ricostru- 
zione del  palazzo  del  Quirinale,  la  torre  del  Belvedere  in  Vaticano, 
la  cupola  di  S.  Pietro,  i  restauri  alle  colonne  Traiana  e  Antonina, 
i  colossali  acquedotti,  le  fontane,  il  ponte  Felice,  l'ingrandimento 
della  città  di  Loreto  e  Montalto,  e  via  dicendo,  che  non  mi  è  possi- 
bile enumerare  tutti  i  lavori  fatti  compiere  e  ordinati  durante  il  suo 
pontificato. 

Non  si  curava  di  farsi  amare,  bastandogli  d'essere  temuto.  Con 
tutti,  piccoli  e  grandi,  andava  per  le  spiccie:  se  qualche  ricco  tar- 
dava a  retribuire  gli  operai  o  lesinava  sulla  misura  delle  retribu- 
zioni, Sisto  si  faceva  portare  le  liste  e  pagava  del  suo,  per  rifarsene 
ad  usura  sui  cattivi  pagatori.  Fece  frustare  pubblicamente  sul  Corso 
dei  giovani  cristiani  che  avevano  dileggiato  sconciamente  alcuni 
Israeliti  uscenti  dal  Ghetto;  e  per  questo,  e  perchè  aveva  notevol- 
mente diminuito  il  medioevale  regime  di  restrizione,  cui  gli  ebrei 
erano  sottoposti,  si  disse  che  egli  li  proteggeva  per  trame  denaro 
di  cui  era  avido.  —  Ignazio  di  Lojola,  che  poi  fu  santificato,  gli  era 
antipatico,  e  più  la  setta  dei  gesuiti,  che  qu^li  aveva  da  poco  fon- 
data, e  Sisto  in  un  impeto  di  collera  gridò  nemica  al  Vangdo;  sicché 
quando  gli  proposero  per  confessore  un  gesuita,  rispose  :  «  troviamo 
più  giusto  .che  i  gesuiti  si  confessino  da  noi,  che  noi  da  loro». 

.  Così,  tra  l'arrogante  ambasciatore  e  l'impetuoso  pontefice  era. 
cresciuto  un  odio  cupo  e  tremendo,  che  minacciò  di  produrre  —  e, 
forse,  in  fine  produsse!  —  conseguenza  mortale.  Si  narra  che  l'Oli- 
vares  dichiarasse  di  voler  axi  ogni  costo  precedere  l'ambasciatore  di 
Francia  in  una  processione  e  che  Sisto  cupamente  l'ammonisse  a 
non  farlo;  e  si  aggiunge  che,  appena  uscito  lo  spagnolo,  il  papa 
fecesse  chiamare  mastro  Gigolò,  capo  dei  suoi  munerosi  carnefici, 
per  ordinargli  :  e<  se  nella  processione  di  posdimani  vedrai  l'Olivares 
precedere  l'ambasciatore  di  Francia,  lo  afferrerai  gettandogli  un 
laccio  al  collo  e  lo  strangolerai  in  mia  presenza!  ».  L'Olivares,  pre- 
sentito il  pericolo,  o  non  andò,  o,  se  andò,  rimase  al  suo  posto! 

Mentre  il  patriottismo  francese  lottava  per  assicurare  il  regno 
di  un  sovrano  di  sensi  magnanimi  e  liberali,  (piale  fu  il  grande 
Enrico  IV,  in  Inghilterra,  Elisabetta,  che  salendo  al  trono,  avea  con 
la  proclamazione  della  liberià  di  coscienza  posto  fine  alle  esecu- 
zioni e  alle  persecuzioni  religiose,  ristabiliva  possentemente  il  pro- 
testantismo con  il  concorso  del  Parlamento,  il  quale  avea  procla- 
mato la  regina  capo  della  Chiesa  anglicana,  e  rifiutava  Filippo  II 
che  ne  aveva  chiesta  la  mano,  pensando  ambiziosamente  di  tornar 
despota  anche  sugli  inglesi,  che  aveva  brevemente  governati  quando 
era  marito  di  Maria  Tudor.  Il  tetro  monarca  spagnolo,  eccitato 
anche  da  Sisto  V,  si  atteggiò  allora  a  vendicatore  di  Maria  Stuarda 
e,  dichiarando  altresì  di  voler  riconquistare  quel  regno  al  cattoli- 


78  SHLL  CLNIENARIO  DI  SISTO  V 

cismo,  preparò  una  formidabile  flotta,  destinata  a  portare  i  suoi 
eserciti  in  Inghilterra  per  detronizzare  Elisabetta,  che  per  altezza 
di  mente,  spiriti  liberali,  eccezionale  sapere,  fu  una  delle  più  grandi 
figure  politiche  del  sedicesimo  secolo.  Ma,  le  furie  del  mare,  il  pa- 
triottismo inglese,  i  sagaci  e  poderosi  provvedimenti  della  virile 
regina,  mutarono  in  disastro  l'impresa  vagheggiata  da  Filippo  e  da 
principio  anche  da  Sisto.  La  distruzione  della  invincibile  armada 
segnò  la  rovina  della  potenza  marittima  spagnola,  ohe  veniva  poi 
sostituita  nel  mondo  da  quella  inglese. 

Sisto  V  da  buon  estimatore  soleva  dire,  neg"li  ultimi  mesi  del 
suo  pontificato,  che  tre  soli  personaggi  eran  degni  di  regnare  :  lui, 
Enrico  IV  ed  Elisabetta  d'Inghilterra,  quantunque  contro  quest'ul- 
tima avesse  scagliato  una  etrribile  Bolla.  E  la  grande  instauratrice 
della  Riforma  nel  Regno  Unito,  la  quale  aveva  detto  di  volere  sulla 
sua  tomba  l'iscrizione  :  «  Qui  riposa  Elisabetta  che  visse  e  morì  re- 
gina e  vergine  »,  quantunque  ci  sia  ragione  a  credere  che  non  abbia 
perfettamente  mantenuto  il  proposilo  austero,  ricambiava  Sisto  della 
sua  ammirazione,  poiché  ad  una  delle  tante  sollecitazioni  di  sce- 
gliersi uno  sposo,  rispose  sorridendo  dì  non  conoscere  che  un  sol 
uomo  degno  della  sua  mano:  Sisto  V!...  la  cui  fiamaiiante  e  san- 
guigna giornata  stava  per  giungere  a  sera. 

Verso  i  primi  «l'agosto  del  1590  il  ferreo  papa,  ancor  vegeto  e 
robusto  malgrado  i  69  anni,  volle  visitare  i  lavori  delle  paludi  pon- 
tine, delle  quali  aveva  fatto  intraprendere  il  prosciugamento.  Vi  si 
trattenne  più  giorni,  sorvegliando,  eccitando,  e  vi  contrasse,  dicono 
i  biografi,  una  febbre  che  i  medici  stimarono  terzana,  dalla  quale 
venne  assalito  due  giorni  dopo  il  suo  ritorno  in  Vaticano  e  precisa- 
mente il  20  agosto.  Non  voleva  mettersi  in  letto,  ripetendo  il  motto 
d'Augusto:  «  Oportet  imperatorem  stantem  mori»;  però,,  cambiatasi 
la  terzana  in  continua,  non  potè  più  alzarsi,  ma,  serbando  lucidità 
di  pensiero,  non  ismentì  nemmeno  sul  letto  di  morte  la  violenza 
quasi  selvaggia  del  carattere. 

Al  cardinale  nepote  che  gli  diceva  come  in  tutte  le  chiese  si  fa- 
cessero preghiere  per  la  sua  guarigione,  osservò  :  «  nepote,  tante 
preci  ci  fanno  credere  dal  popolo  più  morto  che  vivo,  e  noi  abbiamo 
in  pensiero  di  farci  credere  vivo  ancorché  morto».  —  Al  suo  fido 
monsignor  Sangallotto  ripeteva  :  «  Caro  monsignore,  gli  spagnoli 
non  ci  vogliono  più  papa  e  per  questo  ci  levano  dal  mondo  prima  di 
finire  il  nostro  pontificato!  ». 

Egli  ebbe  il  convincimento  che  l'ambasciatore  di  Spagna  l'avesse 
fato  avvelenare  e,  sentendosi  morire,  mormorò  l'ordine  vano  che 
roiivares  fosse  impiccato,  e  poi  corresse:  «anzi  costretto  a  bevere 
di  propria  mano  il  veleno».  Pare  che  anche  i  medici  sospettassero 
rawelenamento  del  papa,  ma  non  riuscirono  a  salvarlo,  che  il  24 
(altri  dicono  il  27)  agosto  1590,  mentre  imperversava  su  Roma  un 
terribile  temporale  con  lampi,  tuoni  e  dirottissima  pic^gia,  esalò  la 
grande  anima  irosa. 

Appena  divulgata  la  notizia  della  morte  di  quel  papa  tremendo, 
il  popolo,  sentendo  spezzato  il  ferreo  giogoeotto,  il  quale  viveva  tre- 
mando da  oltre  cinque  anni,  sorse  infuriando  sul  leone  c^uto,  ne 
oltraggnò  sconciamente  il  nome  e  tumultuò  sulla  piazza  del  Campi- 
doglio per  atterrare  la  statua  erettagli  dal  Senato,,  ma  fu  persuaso 


NEL  CENTENAMO  DI  SISTO  V 


79 


a  non  farlo  dai  mariti  delle  pronipoti  di  Sisto,  i  principi  Orsini  e 
Colonna,  che  col  loro  ascendente  e  la  loro  eloquenza  riuscirono  a 
calmarlo.  Il  Moroni  afferma  c<he  fu  postuma  vendetta  dovuta  all'ac- 
canimento deirOlivares  ,il  quale  aveva  già  eccitato  una  mano  di 
banditi  segreiamente  fatti  venire  dal  napoletano  e  parte  della  plebe 
di  Roma  a  deporre  Sisto  come  eretico  e  fautore  di  eretici,  perchè 
proteggeva  Enrico  IV  di  Borbone. 

Così  imperversando  l'ira  del  cielo  e  degli  uomini,  uscì  dalla 
scena  del  mondo,  che  tutta  aveva  riempita  di  sé  per  pochi  anni,  il 
pontefice  nato  a  Grottammare. 

Gran  pontefice  come  la  maggior  parte  degli  storici  e  dei  bio- 
grafi lo  hanno  proclamato,  o  tiranno  efferato,  aocarezzatore  di  car- 
nefici, come  nella  sincerità  di  una  tragedia  intima  si  sarebbe  da  sé 
stesso  qualificato?... 

Per  celio  le  parecchie  migliaia  d'uomini  che  egli  fece  impic- 
care, decapitare,  torturare  dai  carnefici,  lo  sfacciato  nepotismo  per 
cui  arricchì  di  màlioni  la  sorella  e  i  nepoti,  uno  dei  quali,  Ales- 
sandro Damasceni-Peretti  fece  cardinale  a  14  anni,  l'altro.  Michele, 


di  8  anni,  creò  principe  assistente  al  soglio  e  governatore  di  Borgo; 
gli  impeti  suoi  violenti,  rissosi,  vendicativi;  la  ferocia  con  cui  s'era 
proposto  di  affogare  nel  sangue  la  Riforma,  pur  riconoscendo  la  ne- 
cessità di  purificare  i  corrotti  Ordini  religiosi,  il  che  tentò  di  fare 
con  una  quantità  di  Bolle  e  con  severità  di  provvedimenti;  la  ipo- 
crisia di  cui  dette  prove  prima  e  anche  dopo  d'esser  salito  al  soglio, 
impongono  a  noi  che  viviamo  in  secolo  tanto  più  civile,  liberale  ed 
umano,  severità  di  giuaizio. 

Ma  riportandoci  al  tempo  suo,  dobbiamo  considerare  che  nel- 
l'ipocrisia, nel  nepotismo,  nella  tirannide,  nella  rapacità,  nell'as- 
solutismo e  nella  sanguinosa  ferocia,  molti  papi  furono  peggiori  di 
lui,  senza  averne  la  grandiosità  dei  concepimenti,  la  meravigliosa 
operosità  nelle  imprese  gigantesche  e  sontuose,  il  genio  vasto  e 
ardito. 

Giudicandolo  come  principe  temporale  riconosciamo  in  Sisto  V 
l'ultimò  e  grande  politico  dell'assolutismo  papale.  Dileguavano  in- 
nanzi ai  primi  bagliori  della  moderna  civiltà  le  ultime  nebbie  del 


80  NEL  CENTENARIO  DI  SISTO  V 

medio-evo;  una  nuova  concezione  umana  e  liberale  si  diffondeva 
tra  i  popoli  preparando  l'instaurazione  di  nuovi  ordinamenti  poli- 
tici e  civili,  p)ersino  del  nuovo  diritto  delle  genti,  che  un  altro 
grande  marchigiano,  Alberico  Gentili,  con  la  protezione  della  grande 
Elisabetta,  bandiva  dall'Inghilterra,  ove  era  scampato  alla  persecu- 
zione religiosa  che  in  patria  lo  avrebbe  spento.  E  sorse  Sisto  V, 
campione  ultimo,  forte,  audace,  impetuoso  del  crollante  diritto  as- 
soluto della  Chiesa  alla  universale  dominazione. 

Combattè  con  insuperata  energia,  con  accanimento  feroce  la 
grandiosa  battaglia  della  reazione  cattolica  suscitata  dalla  Riforma, 
ma  in  ultimo  la  mente  sua  poderosa  ed  acuta  forse  lo  ammonì  del 
pericolo  della  dominazione  esclusiva  del  cupo  fanatismo  spagnolo 
sull'Europa,  e  mostrò,  colla  simpatia  per  Enrico  IV  e  per  Elisa- 
betta, la  velleità  se  non  di  tornare  indietro,  almeno  d'arrestarsi. 

La  morte  lo  incolse  in  questa  perplessità.  Fu  come  il  sole  che 
tramontasse  sull'assolutismo  politico  del  papato  tra  nuvoloni  foschi 
e  procellosi.  Dopo  di  lui,  la  Santa  Sede,  miserabilmente  legata  alla 
volontà  di  Spagna,  vide  sempre  più  realizzarsi  la  propria  potenza, 
fino  a  che  il  nuovo  diritto  e  la  nuova  politica  trionfarono  definitiva- 
mente del  medio-evo. 

Sisto  V,  malgrado  gli  errori  e  le  colpe,  fu  l'ultimo  papa  in  cui 
era  come  un'eco  dell'anima  dominatrice  di  Gregorio  VII.  Anche  nel- 
l'orridità del  paesaggio  storico  la  sua  figura  fu  imponente  e  gran- 
diosa. 

Alceo  Speranza. 

{Disegni  di  Carlo  D'Aloisio). 


GLI    ULTIMI    "CIMBRI,. 

(TRAMONTO  D'UNA  PARLATA) 


Una  importante  «  Nota»  di  Antonio  Marcello  Annoni,  pubblicata 
nel  fascicolo  del  gennaio  di  quest'anno  del  Bollettino  della  Reale  So- 
cietà geografica  italiana,  e  dedicata  ag*!!  Strandem  e  Ungile  straniere 
in  Italia,  dopo  avere  affermato,  giustamente,  che  sono  «  quasi  sparite 
le  parlate  tedesche  nelle  regioni  dei  Sette  Ciomuni  vicentini,  e  dei 
Tredici  Ck>muni  veronesi»,  soggiunge:  «anzi,  in  questi  ultimi,  se 
ne  serba  solo  il  ricordo  ».  Il  che  potrebbe  far  credere,  contrariamente 
al  \'ero,  che  l'antica  parlata  sia,  nel  territorio  dei  Tredici  Comuni  ve- 
ronesi, effettivahiente  spenta.  Il  «cimbro»  invece,  come  lo  chiama- 
vano i  nostri. vecchi,  non  è  morto  ancora:  e  per  qualche  centinaio 
di  persone  è  tuttavia  la  lingua  d'uso  corrente,  in  un  remoto  paesello 
della  provincia  di  Verona.  Si  tratta  di  una  curiosa  sopravvivenza, 
e  di  un  fenomeno  linguistico,  in  sé,  assai  interesasnte,  e  non  a  tutti 
esattamente  noto.  Di  modo  che  io,  che  ho  avuto  occasione  "di  cono- 
scerlo da  vicino,  credo  di  fare  opera  non  inutile,  né  sgradita,  discor- 
rendone brevemente  ai  lettori  della  Nuova  Antologia. 


• 


Bella,  pittoresca,  fra  le  amene  vallate  veronesi,  è  quella  di  Tre- 
gnago,  antichissima  borgata  romana.  Da  Tregnago  si  prosegue,  in 
leggera  graduale  ascesa,  per  Badia  Calavena,  già  sede  di  un  ricco 
monastero  benedettino,  di  cui  esistono  resti  notevoli,  e  da  Badia, 
continuando  a  procedere  verso  la  montagna  lungo  il  fondo  della 
valle,  si  raggiunge,  altro  capoluogo  di  Comune,  Selva  di  Progno. 
Siamo,  ormai,  vicinissimi  ai  «Cimbri».  Pochi  chilometri  ancora, 
battendo  una  strada  resa  oggi,  per  le  necessità  imposte  dalla  guerra, 
larga  e  comoda,  ed  ecco  un  paesello,  che,  raccolto  intorno  alla  sua 
chiesetta,  serra  quasi  bruscamente  la  valle  :  é  il  paesello  dei  «  Cim- 
bri »,  Giazza,  frazione  del  Comune  di  Selva  di  Progno,  a  circa  otto- 
cento metri  stiì  liveillo  del  mare. 

Leggiamo  ora  la  breve  descrizione,  poetica,  ma  rispondente  in  » 
tutto  e  per  tutto  al  vero,  di  Giazza,  composta  in  bellissimi  sciolti, 
spiranti  un  profumo  fresco  "di  pace  montana,  dal  compianto  conte 
Francesco  Cipolla.  La  tolgo  da  un  opuscolo  d'occasione,  ignorato 
dai  più.  E  rammento  che  i  fratelli  Cipolla  (Carlo,  l'eminente  storico, 
e  Francesco,  il  letterato  dal  nobile  ingegno  multiforme)  sono  senza 
contestazione,  nell'età  moderna,  i  grandi  benemeriti  dello  studio 
scientifico  delle  popolazioni  dei  XIII  Comuni  veronesi  e  della  loro 

(>  Voi.  OOXVI.  serie  VI  —  1°  gennaio  1922. 


S2  GLI    ULTIMI    «  aMBRI  » 

parlata  (1).  Scriveva  dunque,  ned  1883,  Francesco  Cipolla,  che  era 
spesso  ospite  amatiseimo  del  paesello  di  Giazza  : 

La  valle  è  stretta,  e  chiusa  tra  due  monti 
«  erti;  le  rupi,  in.  forma  idli  castella, 

diroccate,  incoronano  le  cime; 

sotto  v'è  il  bosco,  e,  sotto  il  bosco,  un  liscio 

tappeto,  d'un  bel  verde  vellutato, 

che  si  spinge  laggiù  fino  al  torrente. 
Acgua  lionipida  e  fresca  ivi  continua^ 

mente,  di  sasso  in  sasso  rimbalzando, 

susurra.  Le  casette  del  paese 
•  di  Giazza,  bianche,  spiccano  sul  fondo 

verdescuro.   Dall'alto,   tra  le  rocce 

(frastagliate,  dardeggia  il  Sol  la  bella 

luce,  die  piove  nella  valle,  e  scherza 

tra  le  macchie,  i  dirupi,  i  seni  erbosi. 
Sulla  piazzetta,  adesso,  a  capannelli 

si  raduna  la  genite,  e  aspetta  l'oira 

deUe  funzioni,  il  vecchio  donn'Antonio 

eed/uto  sul  gradino  della  porta 

poccola  della  chiesa,  com'è  solito, 

prende  tabacco,  e  scambia  due  parole 

or  coU'uno,  or  coll'altro.  Io  sto  allacciato 

alla  finestra,  tacito,  e  contemplo. 

Ho  nominato  i  «  Cimibri  »  ed  il  «cimbro».  Non  è  il  caso  di  ri- 
cordare og'gl,  per  confutarla,  la  vecchia  leg-genda,  di  marca  umani- 
stica, secondo  la  quale  le  popolazioni  dei  XIII  Comuni  veronesi  sa- 
rebbero, assieme  a  quelle  dei  VII  Comuni  vicentini,  direttamente 
discendenti  dai  Cimbri  sconfìtti  da  Mario.  Il  nome  di  «  Cimbri  »  è 
rimasto,  per  denotare  quelle  popolazioni,  nell'uiso  comune  veronese 
e,  credo,  vicentino,  ma  alla  Leg"genda  cimbrica  nessuno  presta  più 
fede.  La  sostenne,  ai  suoi  tempi,  calorosamente  Scipione  Maffei  nella 
Verona  illystrata,  senza  successo.  Resta,  in  ogni  modo,  all'eruditis- 
simo enciclopedico  marchese  il  grande  merito  di  avere  indirizzato  lo 
studio  del  «  cimbro  »  per  una  via  strettamente  scientifica.  Egli  si 
recò  sui  luoghi,  dove  tixwava  «  Tedesco  veramente  essere  il  linguag- 
gio »  dei  XIII  Comuni,  e  si  propose,  con  ardita  novità  di  intendi- 
menti e  di  metodo,  un  lavoro  di  lunga  léna,  e  precisamente  di  raf- 
fronto linguistico,  sul  linguaggio  stesso. 

Carlo  Cipolla,  nel  saio  classico  Compendio  della  stoica  politica 
di  Verona,  ha  condensato,  in  non  molte  parole,  quanto  oggi  si  sa  di 
più  preciso  nei  riguardi  dei  «  Cimbri  »,  ed  io  riproduco  senz'aitano 
la  uÙlissima  pagina  del  Maestro  : 

(1)  I  versi,  che  cibo,  recanti  il  titolo  di  Giazza,  si  leggono  a  pag.  21  deg- 
l'opuscolo :  Cario  Cipolla,  L'ongim  delìn  parrocchia  della  Giazza,  Verona, 
Stabilimento  ti|>o-lit.  Q.  Franchini,  1898.  La  bibliografia  de^i  scritti  dei  fra- 
telli Cipolla,  riguardanti  la  storia  e  il  linguaggio  delle  po|>olazioni  dei  XIII 
Comuni  veroneM,  è  indicata  da  Francesco  Cipolla,  Ultimi  echi  della  parlata 
dei  XIII  Comuni  veronesi,  in  Atti  del  Beale  Istituto  Veneto  di  sciente,  let- 
tere ed  arti,  anno  accademico  1912-19IS,  tomo  LXXII,  parte  II,  pagg.  405-406. 


GLI    ULTIMI    «  OMBRI  »  83 

Va  collocata  ormai  fra  le  leggende  erudite  l'opinione,  secondo  la  quale 
dai  Cimbri  fuggenti  dopo  la  loro  sconfitta  avrebbero  avuto  origine  le  colonie 
teutoniche  dei  XIII  Comuni  veronesi  e  dei  VII  Comuni  vicentini.  Trattasi  di 
tutt'altro.  Non  c'è  indizio  alcuno  che  faccia,  non  dico  ammettere,  ma  neppure 
sospettare  l'esistenza  di  qualche  colonia  tedesca  nel  Veronese  nei  secoli  più 
antichi  del  medioevo.  Si  volle  supporre  che  certi  Alemanni,  ricevuti  da  Teo- 
■derico  di  Grande,  re  degli  Ostrogoti,  siano  stati  da  lui  colUocati  nel  Veronese, 
ma  non  c'è  il  più  piccolo  argomento  positivo  per  crederlo.  Soltanto  si  può 
facilmente  concedere  che  Verona,  trovandosi  in  prossimità  alla  Germania, 
ed  essendo  legata  con  molteplici  vincoli  all'Impero,  abbia  subito  l'influsso 
della  civiltà  tedesca  più  che  non  avvenisse  in  regioni  lontane.  Questo  è  chiaro. 
Ma  ciò  non  include  la  presenza  di  una  numerosa  e  stabile  popolazione  te- 
desca sul  territorio  veronese,  ancorché  questa  ipotesi  venga  di  frequente  ri- 
messa a  nuovo,  sia  dagli  eruditi  italiani,  sia  dai  dotti  tedeschi.  Le  regioni 
abitate  poi  dai  coloni  tedeschi  erano  a  i)ascolo  e  non  avevano  popolazione 
stabile  fino  alla  venuta  dei  tedeschi.  Questi,  come  risulta  da  documenti  cer- 
tissimi, vennero  a  Rovere  di  Velo  sul  cadere  del  xiii  secolo,  dopo  avere  rice- 
vuto in  regolane  investitura  (1287)  una  ben  determinata  regione  da  Bartolomeo 
della  Scala,  vescovo  di  Verona.  Vennero  qui  dal  Vicentino,  dove  probabil- 
mente giunsero  dal  Trentino,  mentre  in  quest'ultimo  territorio,  per  quanto 
pare,  si  erano  stabiliti  dietro  invito  del  vescovo  di  Trento  Federico  Wanga, 
al  principio  del  medesimo  secolo.  I  documenti  pubblicati  in  questi  ultimi 
anni  ci  fanno  assistere  al  lento  allargarsi  delle  comunità  così  dette  Cimbriche 
all'epoca  Scaligera,  specialmente  fino  a  che  esse  raggiunsero  quell'ampiezza, 
che  diede  loro  il  nome  storico  di  XIII  Comuni,  benché  al  loro  diffondersi  fa- 
cesse tosto  séguito  il  ristagno  e  quindi  la  rapida  decadenza.  Ma  il  linguaggio 
natio,  mentre  pareva  dovesse  finire  ben  presto,  diede  prova  di  una  inattesa 
vivacità;  non  riguadagnò  ciò  che  avea  perduto,  ma  seppe  almeno  contendere 
U  suo  terreno,   palmo  a  i>almo,  contro  i  dialetti   italiani  che  lo   assalgono 

d'ogni  parte La  leggenda  che  ascrive  a  quei  tedeschi 

l'origine  cimbrica  risale  al  secolo  xiv  ed  è  affatto  di  creazione  umanistica. 
Tradizioni  di  tal  genere,  i  pretesi  Cimbri  non  hanno.  Se  tengono  parola  dei 
Cimbri,  è  per  un  riflesso  erudito,  ma  quando  vogliono  propriamente  dichia- 
rare quale  sia  la  loro  lingua,  la  chiamano  :  —  parlata  tedesca,  tauc  az  Gareida. 

E  se  anche  oggi  domandiamo,  a  Giazza,  che  lingua  parlino 
quegli  abitanti,  ci  sentiamo  rispondere:  bar  reidan  in  tatù;  —  noi 
parliamo  in  tedesco.  —  Per  aJtro,  il  loro  sentimento  è,  intendiamoci 
bene,  schiettamente  italiano  e  nazionale.  E  i  giovani  di  Giazza,  in- 
corporati quasi  tutti  negli  alpini,  fecero  magnificaimente  il  loro  do- 
vere di  italiani,  durante  la  grande  guerra.  I  nostri  «  Cimbri  »  sono 
vissuti,  sino  a  ieri,  a  pochi  passi  dal  confine  con  l'Impero  a.ustriaco: 
ma  ì\  loro  cuore  è  sempre  stato  italiano. 

Carlo  Cipolla,  dunque,  nel  passo  citato,  riassume  in  breve  la 
questione  dei  «  Cimbri  »,  rispondendo  da  pari  suo  alle  esagerazioni, 
tanto  in  voga  alcuni  anni  or  sono,  pangermaniste.  Non  è  da  dimen- 
ticare, che,  crollata  la  vecchia  teoria  cimbrica,  lo  spirito  pangerma- 
jiistico  arrivò  a  fame  sorgere  altre,  sostenendo,  ad  esemspio,  che  le 
popolazioni  dei  XIII  Comuni  erano  i  resti  deirantica  popolazione  te- 
desca del  Veronese  e  delle  Prealpi,  rifugiatisi  sui  monti  davanti  ad 
una  invasione  italiana!  Così  che,  osserva  il  Simeoni  nella  sua  Guida 
di  Verona,   i  tedeschi  sarebbero  gli  aborigeni,  e  noi  gli   invasori! 


84  GLI    ULTIMI    «  CIMBRI  » 

La  primitiva  salda  latinità  dei  luog-hi  è  affermata  anche  dalla 
toponomastica.  I  nomi  dei  XIII  Comuni  sono  tutti  prettamente  la- 
tini, nota  Carlo  Cipolla,  e  così  pure  anche  i  nomi  delle  contrade  più 
popolose.  Come  Tavernole,  ohe  suppone  un  tabemulae  latino,  cosi 
Giazza  {glacies),  Campofontana,  ecc.,  provano  identica  origine.  Anche 
alcuni  dei  nomi  secondari  dimostrano  etimologia  latina.  Per  l'op- 
posto, i  nomi  dei  luog-hi  più  piccoli,  dei  campi,  e  via  dicendo,  sono 
spesso  tedeschi.  I  nomi  dei  XIII  Comuni,  che  ancora  nel  secolo  xviii 
formavano  una  unità  amministrativa  distinta  (il  Vicariato  delle  Mon- 
tagne), sono  i  seguenti  :  Velo,  Rovere  di  Velo,  Val  di  Porro,  Campo 
Silvano,  Selva  di  Pregno,  San  Bartolomeo  delle  Montagne,  Azza- 
nno, S<prea  con  Progno  (Badia  Calavena),  Saline,  Bosco  con  Frizzo- 
lana  (Ghieeanuova),  Erbezzo,  Alferia  o  Cerro,  Tavernole  (1).  Manc^ 
Giazza,  che,  unita  prima  a  Selva  di  Progno,  non  assunse  qualche 
imiportanza  che  sulla  fine  del  secolo  xviii,  quando  fu  eretta  in  par- 
rocchia. Il  centro  abitato  di  Giazza,  in  ogni  modo,  è  molte  volte  se- 
colare, come  quello  che  già  esisteva,  espressamente  menzionato  nella 
cronaca  di  Maestro  Marzagaia  (edita  da  Carlo  Cipolla),  nel  secolo  xiv. 
Tutti  i  paesi  dei  XIII  Comuni  sorsero  nella  parte  più  settentrionale, 
ricca  di  pascoli  e  di  boschi,  degli  alti  Lessin-i  veronesi  :  i  noti  monti, 
situati  fra  la  provincia  di  Vicenza,  l'Adig-e  e  il  Trentino,  ohe  por- 
tano un  nome,  il  quale  vuol  dire  un  problema  etimologico:  certo 
è  che  «Lessino»  e  «terra  Lessinica»,  come  avverte  Carlo  Cipolla, 
sono  voci,  che  valgono  costantemente,  nei  documenti,  per  indicare 
terra  usata  e  preparata  per  i  pascoli. 

Il  dialetto  tedesco  così  detto  cimbrico,  un  temipo  largamente  par- 
lato nei  XIII  Comuni,  sta  ora  agonizzando,  rincantucciato  nella  gola 
di  Giazza.  Pcemoito  dall'italiano,  il  «  cimbro  »  non  ha  fatto  che  per- 
dere terreno,  e  s'è  ridotto,  ormai,  agli  estremi,  in  un  ultimo  ba- 
luardo. «  Singoiar  cosa  è  ohe  nelle  nostre  montagne  confinanti  alle 
Vicentine  e  alle  Trentine,  un  tratto  di  dodici  villaggi  in  circa,  nel 
mezzo  de'  quali  è  quello  che  Progno  si  nomina,  parli  una  lingua 
differente  da  tutti  i  cii-costanti  pwLesi».  Così  il  Maffei,  nella  Verona 
illustrata,  la  cui  prima  edizione  fu  pubblicata  nel  1732.  La  decadenza 
del  «cimbro»  continuò  inesorabilmente.  «Oltreché  in  Giazza»  — 
scrivevano  nel  1884  i  fratelli  Cipolla  —  «  il  cimlbro  è  ancora  parlato 
in  alcune  contrade  settentrionali  di  Selva  di  Progno,  e  in  altre,  verso 
Giazza,  spettanti  alla  parrocchia  di  Gampofontana,  sempre  nel  Go- 
miume  di  Selva  di  Progno.  Camtpofontana  sorge  sull'alto  della  mon- 
tagna, a  oriente  di  Giazza.  Sono  in  tutto  un  misrliaio  di  persone 
che  ancora  serbino  questa  favella».  Ma  nel  1912  Francesco  Cipolla, 
malinconicamente,  constatava:  «La  parlata  tedesca  di  questi  luoghi 
è  vicina  a  tacere  affatto.  Anche  nella  stessa  Giazza  non  è  più  così 
padrona  del  sito  come  lo  era  sino  a  pochi  anni  sono  ». 

Ed  io,  per  mia  parte,  non  posso  che  confermiare  l'affermazione 
di  Francesco  Cipolla,  valendomi,  oltre  che  della  diretta  conoscenza 
dei  luoghi,  sopra  tutto  dei  dati  che  mi  sono  stati  cortesejnente  for- 
niti, nel  gennaio  1921,  dal  rev.  prof,  don  Giuseppe  Cappelletti,  che, 

(1)  V.,  per  la  toponomastica,  l'ottiino  libro  di  Dants  Olivikri,  Saggio 
di  una  ìHustrazione  gen^.rale  della  toponomastica  veneta.  Città  di  GaatellOy 
Casa  editrice  S.  Lapi,  1915,  pa^im. 


GLI    ULTIMI    «  OMBRI  »  85 

nativo  di  Giazza,  è  molto  affezionato  al  suo  lingiiag"gio  materno.  Il 
Cappelletti  conosce  il  «  cimbro  »  alla  perfezione,  ed  a  Giazza  è  il  solo 
che  sappia  scriverlo. 

Oggi  il  «  cimbro  »  non  si  parla  che  a  Giazza.  Nelle  contrade  li- 
mitrofe, appartenenti  a  Selva  di  Progno  {Capilite,  Skódadar,  Par- 
lónge,  Buskan),  a  Gampofontana  [Pagén,  Gduler,  Muscen)  e  a  Velo 
(Pózze,  Tece),  unicamente  i  vecchi  pronunziano  ancora,  bene  o  male, 
qualche  paix)la  in  «cimbro»,  e  nulla  più.  Lo  stesso  baluardo  di 
Giazza  {Glietzen,  Ljetzen,  Jetzen)  minaocsia  rovina.  Un  terzo  della 
popolazione  parla  abitualmente  italiano,  o,  per  dir  meglio,  il  dia- 
letto rustico  veronese,  ed  è  immemore,  da  poco,  del  suo  vecchio  lin- 
guagg^io  tedesco.  I  rimanenti  due  terzi,  circa  cinquecento  persone, 
usano  abitualmente  il  «cimbro»,  ma  tutti  conoscono  in  paii  tempo, 
salvo  i  piccoli,  l'italiano.  Vi  ha  una  contrada  per  altro,  a  nordovest 
di  Giazza,  detta  del  Bosco  {Bàldran),  in  cui  parecchi  si  esprimono 
più  facilmente  in  «  cimbro  »  che  in  italiano,  e,  se  possono,  preferi- 
scono, nella  confessione,  la  parlata  materna,  specialmente  i  piccoli, 
i  vecchi  e  gli  ammalati.  Se  possono,  ripeto;  perchè  di  sacerdoti,  che 
sappiano  il  «  cimbro»,  non  c'è  che  don  Cappelletti,  il  quale  non  può 
trattenersi  a  Giazza,  in  famiglia,  che  una  parte  dell'anno.  Da  molto 
temipo  in  qua,  nella  chiesa  di  Giazza,  il  «cimbro»,  nelle  prediche 
ai  fedeli  e  nell'insegnamento  della  Dottrina  Cristiana,  non  è  più 
usato.  Si  aggiunga,  finalmente,  che  in  certe  contrade  di  Giazza  non 
mianca  chi  «  per  affettaziione  di  un  malinteso  patriottismo  »  (dice  Fran- 
cesco Cipolla),  fa  quanto  può  perchè  i  suoi  conterranei  smettano  il 
loro  linguaggio,  siccome  incivile  e  barbaro:  fa  cpianto  può,  e  ci 
riesce.  E  non  facciamo  cenno  dell'influenza  della  scuola,  e  di  altre 
ca.use. 

Don  Giuseppe  Cappelletti,  l'odierno  leader  del  «cimbro»,  è  pro- 
fessore di  matematiche  nel  Seminario  Vescovile  di  Vert)na,  e  duranste 
il  periodo  delle  vacanze  dimora  a  Giazza,  fra  i  suoi  buoni  montanari, 
che  lo  adorano.  Egli  ha  disseminato  qua  e  là,  per  le  stampe,  svariati 
suoi  componimenti  in  «cimbro»,  i  più  in  forma  dialogica,  di  cui  si 
serve  volentieri,  per  rappresentare,  da  artista,  tipi  e  sentimenti  della 
sua  umile  popolazione  prediletta.  E  così  il  Cappelletti  è  venuto  ad 
aumentare  la  messe,  bene  scarsa  in  verità,  dei  testi  «  cimbri  »  dei 
XIII  Comuni,  raccolta  per  merito,  al  solito,  dei  Cipolla.  Appar- 
tiene ai  fratelli  Cipolla  anche  un  saggio  di  vocabolario  «  cim- 
bro», pubblicato  nel  1882,  nelV Archivio  glottologico  dell'Ascoli.  Ed 
ora  il  Cappelletti  sta  per  dare  l'ultima  mano  ad  un  suo  compiuto 
Glossario  deila  parlata  dei  XIII  Comuni  veronesi,  che  presto  potrà 
vedere,  speriamo,  la  luce. 

Sarà  utile,  se  non  erro,  che  i  lettori  abbiano  qui  sott'occhio  al- 
meno un  saggio  del  «cimbro».  Scelgo,  senza  esitazioni,  il  brindisi, 
pronunziato  da  don  Cappelletti,  fra  la  grata  meraviglia  dei  presenti, 
il  10  agosto  1911.  a  Revolto,  in  presenza  dell'on.  Nitti,  allora  Mi- 
nistro dell'agricoltura,  e  di  altre  autorità,  nell'occasione  della  solenne 
inau.a^i razione  di  un  nuovo  I>emanio  forestale.  Ai  lettori  non  isfug- 
girà  il  sentimento  di  patria,  ond'è  fremente  il  breve  componimento. 
Revolto,  si  ricordi,  a  un'ora  e  mezzo  da  Giazza,  è  località  montana, 
a  pochi  passi  dall'antico  iniquo  confine  con  l'Austria.  Al  testo  del 


86  GLI    ULTIMI    «  aMBRI  » 

Cappelletti  segue  la  eleg-antissima  e  fedele  versione  metrica,  datane 
da  Francesco  Cipolla:  la  disseppellisco  [sit  venia  verbo,  che,  trattan- 
dosi di  Atti  accaxiemici,  non  è  poi  fuor  di  luogo  del  tutto)  dagli  Atti 
del  Reale  Istituto  Veneto  di  scienze,  lettere  ed  arti  del  1912-1913.  Il 
Cipolla,  che  di  poesia  tedesca  si  intendeva  moltissimo,  osserva,  a 
proposito  del  brindisi  :  «  godo  di  far  notare,  ohe  non  solo  è  tedesca 
la  lingua,  ma  anche  il  sentimento  poetico  è  schiettamente  germanico. 
C'è  viva  viva  quella  semiplice  personificazione  della  natura,  ch'è 
tutta  propria  dei  poeti  nordici:  quello  scambio  di  sentimenti,  per 
cui  pare  che  l'anima  del  poeta  e  l'anima  della  natura  corrano  ad 
abbracciarsi  e  a  fondersi  in  una  sola  vita  » .  Ma  ecco  il  brindisi  : 

I  heJie  de  Tatze,  uà  huk©:  Am  der  Gesojoit  saimer  Excellenz,  un  'un  aljanl 

Hearnl  Dise  Bàldar  hen-a  gapaitat  tze  kòun.a:   Sait  boukenf 
iSet-ar  dise  Tanaian?  Saindre  pukan  ire  Wipfllj   tze  eegan  saine  nauge 
Heann;  un  prim  kòun:  —  Dise  baun^-us  bau,  am  barandre  tuan-inj  Bau.  Bar 
darhaltan  Bazzar  un  Schnea  ta  in  Pach  trage  aiicht  hin  de  Bege,  un  darhudar 
nicht  de  Ackar.  — 

Hoart-ar  ditza  Binila,  bo  da  kint  'un  ouban? 

Iz  ist  an  Busar  'un  Pòmiljar,  bo  da  sain  gasteikat  droubar  'me  Marche. 
Sandre  kòun  in  ame  Oare  'un  sainj  belische  Schweistadar  :  —  Lebet  Italia!  — 

Du  Bintla,  6te  nicht  hia;  lo  abe,  abe  feare,  un  kut  in  aljan  usarn  Prua- 
dam  :  —  Lebet  Italial  — 

Helfa-bar  bidar  de  Tatzan  un  huka-bar: 

An  der  Gesunt  sainer  Excellenz  un  'un  aljan! 

Ed  eccone  la  versione  : 

Levo  in   alto  il  bicchiere, 
e  brindo  alla  salute 
di  sua  Eccellenza  ©  di  tutti  i  presenti! 
Signori!  Ecco  che  queste 
boscaglie  v'aspettavano  per  darvi 
1  benvenuti.  Ecco  che,  .per  mirare 
1  lor  muovi  padnml, 
incurvano  gli  abeti  le  alte  creste, 
e  ©emhran  dir:  —  Costoro 
ci  voglion  ben:   noi  larem  beiìe  a  loro. 
Ponremo  all'acque  ed  alle  nevi  inciampi, 
,  per  modo  che  il  toranenite 

più  non  corra  furente 
a  portar  via  le  strade 
e  a  desolare  i  campi.  — 
Or  ncvn  sentite  voi  quel  venticello, 
che  spina  di  laseuso?  Il  bacio  è  quello 
che  mandano  le  fresche  póanticine. 
dal  di  là  del  ootnAnie, 
all'itale  sorelle,  bisibigliando 
in  nm  orecchio  a  lor:  —  Viva  l'Italia!  — 
O  venticello,  qui  non  ti  fermare: 


GLI    ULTIMI    «  aMBRI  »  87 

va'  giù:  vola  a  trovare 

lutti   i   nostri  fratelli, 

ripetendo  a  oi>ascTin:   —  Viva  l'Italia!  — 

Leviamo  alto  il  bicchiere 

e  brlDidlamo  di  nuovo  alla  salute 

di  sua  Eccellenza  e  di  tutti  i  presenti! 

L'ultima  <xxmxx)sizione  in  «  cimbro  »  del  Cappelletti  è  stata  pub- 
blicata da  me,  nel  1919.  È  in  forma  di  dialogo  fra  due  donne  di 
Giazza,  la  Menichina  dal  Bosco  e  la  Rosina  dei  Boasi  {iz  Miklja  'un 
Bàldran  un  iz  Rósale  un  Boasan),  che  discorrono  della  grave  epi- 
demia, che  nell'autunno  del  1918  colpì  il  loro  paesello,  desolandolo 
con  una  morbilità  spaventevole  e  con  una  forte  mortalità  :  era  l'in- 
fluenza, la  «  spasola  » ,  che  imperversava,  allora,  in  gran  parte 
d'Italia. 

La  i>arrocchia  della  Giazza  comprende  ventiquattro  contrade,  di 
cui  Giazza  è  la  principale.  La  popolazione  è  buona,  laboriosa,  mo- 
desta; composta  in  prevalenza  di  piccoli  proprietari,  che  s'occupano 
del  bestiame,  dei  boschi  e  della  faticosa  coltivazione  di  pochi  e  magri 
campicelli.  Delle  condizioni  e  dei  costumi  (che,  del  resto,  non  hanno 
molto  di  caratteristico)  dei  nostri  «  Cimbri  »  scrissero  i  Cipolla,  e, 
più  recentemente,  il  Baragiola,  nelle  sue  pregevolissime  pagine  su 
La  casa  villereccia  di  Giazza  nei  Tredici  Comuni  veronesi.  Il  Bara- 
gioia  descrive  fedelmente  l'economia  alpestre  degli  abitanti  di  Giazza 
e  le  loro  case.  Agli  scritti  dei  Cipolla  e  del  Baragiola  rimaindo  il  let- 
tore. Al  quale,  se  è  amante  di  curiosità  bibliografiche,  mi  i)ermetterei 
di  suggerire  la  lettura  della  Jazzeides  macaronica  sive  Carmen  ma- 
caronicunn  de  bellezzis  et  de  pregiis  famosi  paesis  de  Jazza  meschi- 
nissimi  et  extremis  V eronesorum:  una  lunga  tiritera  in  distici  mac- 
cheronici, compresa  in  un  raro  opuscoletto  di  PoemiUa  macaronica^ 
stampato  a  Verona  nel  Ì8i8,  Autore  dei  Poemula  è  un  prete,  don 
Giuseppe  Peruffi,  che  conosceva  bene  Giazza  e  quei,  montanari.  Non 
meravigliamoci  che  egli  abbia  scritto  in  latino  maccheronico.  La 
poesia  maccheronica  a  Verona,  come  m  altri  luoghi  •ri{3l:a  (e  qui 
si  potrebbe  ricordare  un'avventura,  toccata  a  Chioggia  a  quel  bir- 
bante di  Giacomo  Casanova),  era  in  onore,  sulla  fine  del  secolo  xvm 
e  nei  primi  decenni  del  xrx.  Gente  senza  troppi  pensieri,  e  bei  capi 
ameni,  quei  nostri  nonni!  Ma  non  si  creda  che  nei  distici  del  PeruflS 
ci  sia  qualche  cosa  dell'arte  sovrana  del  piii  grande  poeta  realista 
d'Italia,  il  poeta  delle  Maccheronee,  Merlin  Cocai.  No:  la  Jazzeides 
del  prete  veronese  non  è  da  j>aragonare  ai  versi  immortali  del  frate 
mantovano.  Ma  la  Jazzeides  ha  valore  di  documento  di  qualche  in- 
teresse; e  il  PeruflB  afferma  il  vero  quando  di  Giazza  scrive  : 

Hic  fortis,  patiens,  parvo  contenta,  fadighìs, 
assidua  est   gens   ac   religione   pia; 

e  quando  accenna  alle  pesanti  opere  agricole  di  quei  villici  : 

Meesoras,   forcones,   rastros,   state  manezant, 
foena  segant,  voltant,  adqne  tesam  inde  femnt. 


88  GLI    ULTIMI    «  OMBRI  » 

Interdum  seu  capras  aut   manzas  pegorasve 

menant  bastone  ad  pascola  pastorio, 
ant  oum  zerlo  per  montem  ludamina  portant, 

hinc  zerlo  aut  fasso  legna  brusanda  casae  (1). 

Queste  mie-pagine  spingeranno  qualche  lettone  di  buona  volontà 
ad  informarsi  un  po'  per  esteso  delle  cose  dei  «  Cimbri  »  veronesi,  o, 
meglio  ancora,  a  visitare  Giazza,  ultimo  rifugio  della  loro  parlata? 
Oserei  sperarlo.  Oggi,  da  Verona,  per  Illasi,  Tregnago,  Badia  Cala- 
vena  e  Selva  di  Progno,  si  raggiunge  Giazza  comodamente.  E  da 
Giazza  si  può  far  partenza  per  compiere  interessantissime  gite:  ad 
esempio,  a  Recoaro  dalla  bella  conca  di  smeraldo,  o,  per  Revolto, 
ad  Ala  (2). 

Luigi  Messedaglia. 


(1)  Messora,  falce;  tesa,  fienile;  zcrlus,  gerla;  ludamen,  letame;  fassus, 
fascio. 

(2)  Si  veda  anche  il  recentissimo  scritto  di  Elisa  Hochkofler,  A'ofa  sta- 
tistica sul  variare  della  jìarlata  tedesca  nei  13  Comuni  Veronesi  dal  sec.  XVIII 
ai  nostri  giorni,  pubblicato  nella  Bivista  geogixifica  italiana,  fascic.  I-IV,  1921. 


ANTICHI  FASTI  E  PRESENTI  CONDIZIONI  DELLA  SICILIA 


I. 


Malgrado  i  progressi  verificatisi  in  questi  ultimi  sessant'aimi, 
pili  per  forza  di  cose  che  p>er  virtù  degli  uomini,  la  Sicilia  non  è  an- 
cora uscita  da  quel  periodo  di  profonda  decadenza,  che  ebbe  prin- 
cifpio  con  la  dominazione  spagnuola,  e  ohe  si  aggravò  poi  sotto  gli 
ultimi  Borboni.  Chi  ha  seguito  le  vicende  storiche  dell'isola,  non 
ha  bisogno  di  chiarimenti;  siccome  però  molti  le  ignorano  o  fingcMio 
dignorarle,  mi  sembra  opportuno  discorrerne.  Libri  sull'argomento 
non  mancano,  ma  chi  li  legge?  Eppure  mai  come  oggi,  in  cui  bi- 
sogna rinnovare  e  risanare  tutta  la  nostra  vita,  è  necessario  cono- 
scere le  vere  cau9e  che  hanno  impedito  alla  Sicilia  di  progredire 
più  rapidamente,  perchè  solo  a  questo  mod5  essa  potrà  rendersi 
conto  del  lungo  cammino  che  le  resta  ancora  a  percorrere  per  as- 
surgere alla  sua  antica  grandezza,  della  quale  sembra  che  molti 
abbiano  perduto  anche  la  memoria. 

Specchiantési  nelle  onde  azzurrine  del  Mar  Mediterraneo,  con 
un  cielo  iridescente  e  puro,  con  un  clima  dolce,  con  un  suolo  uber- 
toso, vario,  incantevole,  la  Sicilia  ha  tutte  le  condizioni  per  rendere 
felici  i  suoi  abitatori.  Se  è  vero  poi  che  la  eccellenza  dei  popoli  si 
misura  dalla  somma  dei  beni  materiali  e  spirituali,  ohe  essi  hanno 
saputo  accumulare  e  tramandare  alla  posterità,  al  contributo  che 
hanno  apportato  all'incivilimento  umano,  il  popolo  siceliota  deve 
annoverarsi  fra  i  più  eccellenti  ed  illustri. 

Ci  volevano  i  moderni  antropologi,  con  la  loro  leggerezza  ed 
ignoranza,  per  affermare  che  il  popolo  siciliano  sia  etnicamente  in- 
feriore. Se  questi  antropologi,  invece  di  misurar  crani,  lavoro  che 
non  conclude,  avessero  data  una  scorsa  alla  storia  della  Sicilia,  si 
sarebbero  guardati  bene  di  dire  una  simile  eresia.  Infatti,  anche  a 
tacere  della  primitiva  civiltà  sicula,  che  gli  studi  e  le  ricerche  ar- 
cheologiche di  Holm,  di  von  Adrian,  di  Ccivallari  e  di  Orsi  hanno 
messo  in  bella  luce;  basta  ricordare  quello  che  fu  la  Sicilia  nel- 
l'epoca greca,  in  quella  saracena  e  finalmente  in  quella  normanno- 
sveva,  per  comprendere  la  natia  virtù,  il  genio  del  popolo  siciliano. 

Cominciando  dall'epoca  greca,  nessuno  ignora  che  St^core,  lo 
afferma  Plinio,  nella  lirica  emulò  Pindaro;  Democrito  d'Imera  di- 
venne così  celebre  nella  pittura,  da  essere  ritenuto  maestro  di  Zeusi; 
Pitagora  leontino  avanzò  nella  scultura  lo  stesso  Policleto.  Il  tempio 
della  Concordia  in  Agrigento,  per  la  maestà  e  la  grazia  delle  sue 
linee,  era  superiore  ad  ogni  altro,  compreso  il  Partenone;  il  tempio 


90  ANTICHI    FASTI   E   PRESENTI   CONDIZIONI   DELLA   SICILIA 

di  Giove  Olimpico,  che  sorgeva  del  pari  in  Agrigento,  per  la  sua 
grandiosità,  era  superato . soltanto  da  quello  di  Diana  in  Efeso;  il 
teatro  di  Siracusa,  dove  sedettero  Pindaro,  Eschilo,  Aristippo  e  Piar 
tone,  fu  uno  dei  più  grandi  e  più  belli  del  mondo  greco.  Chi  fossero 
stati  gli  artefici  di  tali  monumenti  ignorasi,  ma  è  certo  che  il  genio 
siceliota  aggiunse  del  suo  a  ciò  che  aveva  ricevuto  dalla  Grecia. 
È  fuori  di  dubbio,  poi,  c!he  nella  numismatica,  nella  ceramica  e  nei 
lavori  di  argento  e  di  avorio,  i  sicelioti  ebbero  il  primato;  la  mimica 
fu  loro  invenzione;  nell'eloquenza  Gorgia  leontino  superò  Pericle,  e 
stupì  gli  Ateniesi  che  pur  erano  avvezzi  ai  certami  oratori.  Sul  pie- 
distallo della  statua  d'oro  ohe  fu  eretta  a  Gorgia  in  Olimpia,  si  leg- 
geva questa  iscrizione  :  «  Alcun  mortale  non  inventò  mai  un'arte  più 
bella  per  preparare  le  anime  degli  uomini  alle  opere  della  virtù». 

Emperocle,  maestro  di  Gorgia,  fu  poeta  celebre:  i  suoi  versi  si 
cantavano  nei  giuochi  olimpici  con  quelli  di  Omero  e  di  Esiodo;  fu 
sommo  filosofo:  la  sua  teorica  degli  elementi  promordiali  e  delle 
loro  combinazioni  ha  un  valore  inestimabile.  Essa  schiuse  le  vie 
alla  chimica,  alla  fisiologia  e  alla  psicologia  moderna,  abbattendo 
le  barriere  fra  l'inorganico  e  l'organico  :  la  teoria  dell'"  Amicizia  »> 
e  della  «  Discordia  »  fra  gli  elementi,  preludia  alla  legge  di  Newton. 
La  scomparsa  delle  varietà  mostruose  nelle  specie  animali  con- 
tiene i  germi  della  legge  darwiniana  della  sopravvivenza  del  più 
adatto.  Empedocle  fu  inoltre  igienista  e  sommo  medico:  fece  pro- 
sciugare le  paludi  attorno  a  Selinunte,  liberando  quella  città  dalle 
epidemie,  che  la  infestavano;  fece  tagliare  un  monte  presso  Agri- 
gento per  vincere  i  calori  che  la  dominavano  nei  mesi  estivi. 

Empedocle  fu  il  primo  che  si  servì  del  potere  dell'imaginazione 
e  dell'ipnotismo  nella  cura  di  certe  malattie,  donde  la  sua  fama  di 
mago  e  di  taumaturgo.  «  Quando  egli  percorreva  le  campagne  della 
Sicilia,  scrive  il  Gomberz,  una  folla  di  adoratori  e  di  adoratrici  lo 
circondava  e  gli  offriva  l'omaggio  della  propria  ammirazione.  Mi- 
gliaia e  diecine  di  migliaia  di  persone  lo  acclamavano  e  si  stringe- 
vano attorno  a  lui,  chiedendogli  qualche  predizione  o  lo  addolci- 
mento di  qualche  dolore,  la  guarigione  di  qualche  malattia». 

Empedocle  fu  sommo  uomo  di  Stato  :  egli  fece  riformare  in  senso 
democratico  la  costituzione  di  Agrigento,  ma  quando  i  suoi  concitta- 
dini gli  offrirono  la  corona  di  re,  Emipedocle  rifiutolla,  perchè  nemico 
di  ogni  tirannide,  e  perchè  egli  sentiva  di  essere  un  genio,  e  sapeva 
ohe  i  geni  sono  più  grandi  dei  re. 

Le  leggi  di  Garonda,  le  quali  vennero  accolte  non  solo  in  Sicilia, 
ma  in  tutta  la  Magna  Grecia,  furon  celebri  per  la  loro  saggezza. 
Platone  avrebbe  voluto  introdurne  parecchie  nella  sua  Repubblica. 

Archimede,  chi  lo  ignora?  fu  il  più  grande  dei  matematici  e  dei 
fisici  dell'antichità.  Cicerone  lo  disse  uomo  di  mente  divina.  Egli 
inventò  il  metodo  dei  limiti,  che  è  la  base  del  calcolo  differenziale 
ed  integrale;  fu  il  iprimo  che  dettò  le  regole  della  misura  del  circolo, 
dei  conoidi  e  degli  sferoidi  e  quelle  della  quadratura  della  parabola. 
Fondatore  della  scienza  meccanica,  scoperse  le  leggi  dei  centri  di 
gravità  e  dell'equilibrio  dei  piani  e  quelle  della  leva,  nonché  il  prin- 
cipio fondamentale  dei  corpi  che  si  muovono  nei  fluidi,  rendendo 
possibile  i  meravigliosi  progressi  che  si  son  raggiunti  ai  dì  nostri 


ANTICHI    FASTI   E   PRESENTI   CONDIZIONI   DELLA   SICILL\  91 

neir idrostatica  e  nell'aeronautica.  Fece  un  gran  numero  di  utiH  in- 
venzioni :  dalla  coclea,  che  Galileo  disse  maravigliosa  e  miracolosa, 
e  da  cui  venne  poi  l'elica,  alla  sfera  celeste,  la  quale  era  intesa  a 
determinare  i  movimenti  degli  astri  e  la  loro  reciproca  velocità. 

Immensi  furono  i  servigi  resi  all'umanità  da  Archimede,  ed 
altri  avrebbe  potuto  renderne,  se  la  di  lui  preziosa  esistenza  non 
fosse  stata,  troncata,  come  narra  la  tradizione,  dalla  barbara  mano 
di  un  soldato  di  Marcello,  quando  questi,  che  per  circa  tre  anni  non 
era  riuscito,  in  grazia  delle  macchine  belliche,  inventate  da  x\rclii- 
mede,  ad  espugnare  Siracusa,  potette  impadronirsene  con  l'insidia, 
macchiando  la  sua  fama  di  guerriero.  E  Siracusa,  di  cui  Pindaro, 
Simonide,  Baochilide,  Epicarmo  ed  Elschilo  cantarono  la  grandezza, 
l'opulenza  e  le  gesta;  Siracusa  che  aveva  vinto  i  Cartaginesi  ad  Imera, 
e  più  tardi  sotto  le  proprie  mura,  distruggendone  in  pari  tempo  la 
flotta,  e  salvando  la  Sicilia  dalla  barbaria  punica;  Siracusa  che  aveva 
osato  con  Agatocle  di  portar  la  guerra  in  Africa,  facendo  tremar  la 
sua  potente  rivale;  Siracusa  che  determinò  irreparabilmente  la  de- 
cadenza di  Atene,  della  quale  vinse  l'^ercito  e  distrusse  la  flotta, 
che  era  la  più  agguerrita  di  quante  allora  tenevano  il  mare;  Sira- 
cusa che  per  le  sue  ricchezze,  per  i  suoi  commerci,  per  la  sua  posi- 
zione geografica  era  destinata  a  diventare  la  capitale  di  un  grande 
impero  coloniale,  come  avevano  sognato  Gelone  e  Dionisio  il  Vec- 
chio, per  il  tradimiento  di  un  vile  mercenario,  lo  spagnuolo  Merico, 
cadde,  e  con  essa  la  civiltà  greco-sioeliota,  che  ha  lasciato  traccie  in- 
delebili nella  storia,  e  monumenti,  i  cui  ruderi  destano  ancora  l'am- 
mirazione del  mondo. 


II. 

Ma  i  popoli  che  possiedono  intrinseche  virtù,  come  quello  sice- 
liota,  e  che  hanno  il  privilegio  di  abitare  una  regione,  alla  quale  la 
natura  ha  prodigato  largamente  i  suoi  doni,  malgrado  i  colpi  del- 
l'avversa fortuna,  non  muoiono.  Essi  decadono,  ma  per  risorgere  ap- 
pena le  circostanze  lo  permettono.  Ma  le  circostanze  furono  per  lungo 
tempo  avverse  al  popolo  siceliota.  Malgrado  la  sua  posizione  insu- 
lare, la  Sicilia  era  tropjK)  esposta  alle  invasioni  dei  popoli,  che,  at- 
tratti dalle  sue  naturali  bellezze,  cercarono  in  ogni  tempo  d'inapa- 
dronirsene. 

Infatti,  dopo  i  Cartaginesi  ed  ,i  Greci,  la  Sicilia  vide  successiva- 
mente passare  sulle  sue  belle  contrade,  Romani,  Vandali,  Goti,  Ostro- 
goti, Bizantini,  Saraceni,  Normanni,  Svevi,  Angioini  ed  Aragonesi. 
Però  nessuna  di  queste  dominazioni  riuscì  a  mettere  profonde  ra- 
dici nell'isola,  perchè  il  popolo  siciliano  non  si  lasciò  mai  né  assor- 
bire né  interamente  sopraffare.  Esso,  in  mezzo  a  tante  vicende,  con- 
servò sempre  la  sua  natia  fierezza  ed  uno  spirito  d'indipendenza, 
che  gli  costarono  sacrifìci  e  dolori,  ma  non  permisero  scomparisse 
dalla  scena  del  mondo,  come  accadde  ad  altri  popoli. 

Dopo  un  lungo  periodo  di  decadenza,  la  Sicilia  risorse  sotto  i 
Saraceni.  Chiamati  da  Eufemie,  che  si  era  ribellato  al  crudele  ed 
inetto  imperatore  Michele  il  Balbo,  i  Saraceni,  che  avevano  tentato 
più  volte,  e  sempre  invano,  d'impadronirsi  dell'isola,  trovarono  in- 


92  ANTICHI    FASTI   E   PRESENTI   CONDIZIONI   DELLA    SICILIA 

fine  minore  resistenza  nel  popolo  siciliano,  il  quale  era  ormai  stanco 
del  dispotismo  bizantino  e  delle  ubbìe  monastiche.  Superati  i  primi 
ostacoli,  i  Saraceni,  specialmente  sotto  gli  emiri  fatimiti,  diedero 
alla  Sicilia  una  certa  autonomia  ed  indipendenza,  e  fecero  rinascere 
Tagricoltura,  le  arti,  le  scienze  e  le  virtù  militari,  dando  all'isola 
una  notevole  prosperità. 

I  suoi  ubertosi  campi  producevano  largamente  grano,  cotone, 
canapa,  indaco,  zafferano,  canne  da  zucchero,  miele  e  frutta  di  (^ni 
spec-ie.  Anche  le  industrie  fiorirooo,  specialmente  quella  delia  seta. 


III. 

Del  fecondo  impulso,  dato  all'isola  dai  Saraceni,  si  giovarono 
largamente  i  Normanni,  i  quali,,  malgrado  il  loro  esiguo  numero, 
riuscirono  a  trion.fare  sui  primi,  tperchè  il  popolo  siciliano  li  accolse 
più  come  liberatori,  ohe  come  conquistatori.  I  Normanni,  infatti, 
per  la  lunga  permanenza  nella  Penisola,  erano  riguardati  come  ita- 
liani; mentre  i  Saraceni,  per  la  diversità  della  lingua,  dei  costumi 
e  della  religione,  malgrado  la  loro  tolleranza  e  i  benefìci  arrecati 
alla  Sicilia,  non  potettero  fondersi  con  gl'indigeni,  che  li  conside- 
rarono sempre  come  stranieri.  Ben  altro  contegno  tenne  il  popolo 
siciliano  verso  i  Normanni,  sotto  la  cui  dominazione,  l'isola  divenne 
potente  e  ricca.  Lungo  il  fausto  regno  di  Ruggiero  II  e  di  Guglielmo 
il  Buono,  la  Sicilia  non  solo  vide  prosperare  le  arti,  le  lettere  e  le 
scienze,  ma  anche  l'agricoltura  ed  il  commercio.  Le  navi  siciliane 
percorrevano  i  mari,  esportando  grano,  cotone  grezzo  e  filato,  zuc- 
chero, storace  odorifero,  pece,  frutta  secche  e  giulebbate  ed  altri  pro- 
dotti. 

Palermo  s'ingrandì  e  s'abbellì  notevolmente.  Eissa  vide  ampliato 
il  Palazzo  reale,  fondata  la  Cappella  Palatina,  che  è  unica  al  mondo 
per  i  tesori  d'arte  che  racchiude,  ed  ebbe  quella  che  Ibn-Gibbair 
appellò  collana  di  ville  regge:  la  Zisa,  Cuba,  Menàni  e  Maredolce. 
La  vicina  Morreale  vide,  infine,  sorgere  il  suo  famoso  Duomo. 


IV. 

Ma  fu  sotto  Federico  II  (anno  1197-1250),  che  la  Sicilia  raggiunse 
l'apogeo  della  sua  potenza  e  del  suo  splendore.  Nato  in  Italia,  ed 
educato  dalla  madre  italianamente,  questo  grande  e  geniale  monarca 
avrebbe  affrettato  di  sei  secoli  l'indiipendenza  e  l'unità  della  patria 
nostra,  se  i  Pontefici,  che  consideravano  la  Sicilia  come  un  feudo 
della  Chiesa,  non  avessero  attraversato  i  suoi  disegni  e  la  sua  prov- 
vida e  mirabile  opera.  Incoronato  a  Palermo  quando  non  aveva  che 
tre  anni,  e  dichiarato  maggiorenne  a  14,  Federico  accettò  la  corona 
di  Germania,  ma  le  sue  predilezioni  furono  sempre  per  l'Italia,  ed 
il  suo  amore  per  la  Sicilia,  dove  ^Ji  era  cresciuto,  per  la  sua  Pa- 
lermo, dove  era  stato  educato  e  dove  rifulse  maggiormente  la  sua 
gloria.  Il  pensiero  di  Federico  era  quello  di  unire  sotto  il  suo  scettro 
tutta  l'Italia,  la  quale  avrebbe  dovuto  essere  il  ifulcro  e  la  sede  del- 
l'Impero, e  non  già  una  provincia  della  Germania,  come  era  stata 


ANTICHI    TASTI   E    PRESENTI   CONDIZIONI   DELLA    SICILIA  93 

sempre  considerata  e  tenuta  dai  suoi  predecessori.  E  Federico  sa- 
rebbe certamente  riuscito  a  realizzare  questo  grandioso  disegno,  che 
avrebbe  assicurato  all'Italia  benefìci  incalcolabili,  se  nella  titanica 
lotta,  che  egli  dovè  sostenere  contro  il  Papato,  le  città  lombarde  non 
avessero  sorretto  quest'ultimo. 

In  quell'epica  lotta,  la  Sicilia  si  mostrò  degna  del  suo  gran  Mo- 
narca. Quando  infatti  Gregorio  IX  e  poi  Innocenzo  IV  condannarono 
Federico  come  eretico  e  nemico  della  Chiesa,  e  lo  dichiararono  de- 
caduto dal  trono,  invitando  i  sudditi  a  negargli  obbedienza  e  tutti 
i  (principi  della  Cristianità  a  bandire  una  crociata  contro  di  lui;  il 
popolo  siciliano,  compreso  il  clero,  non  abbandonò  Federico,  come 
avevano  fatto  in  simili  circostanze  altri  popoli,  ma  gli  si  strinse  at- 
torno e  lo  sorresse  virilmente,  non  esitando  a  battersi  contro  i  sol- 
dati che  Gregorio  IX  aveva  mandato  contro  Federico,  mentre  egli 
era  in  Oriente  per  le  Crociate,  e  più  tardi  a  seguirlo  nella  spedizione 
contro  Roma.  Precursore  dei  tempi  nuovi  in  ogni  manifestazione 
della  sua  multiforme  attività.  Federico  II  fu  il  pTrimo  che  concepì 
l'idea  di  uno  Stato  laico,  forte  ed  inteso  al  bene  del  popolo.  A  tal 
uopo,  egli  accrebbe  i  poteri  dello  Stato  per  meglio  tutelare  la  lii)ertà 
civile;  tolse  le  immunità  di  cui  godevano  gli  ecclesiastici;  limitò  il 
potere  ed  i  privilegi  dei  nobili;  istituì  magistrati  r^i,  onde  fosse 
resa  a  tutti  imparziale  giustizia;  abolì  i  giudizi  di  Dio,  ordinò  meglio 
la  pubblica  amministrazione  e  la  polizia;  volle  che  nei  Parlamenti 
sedessero,  accanto  ai  nobili  ed  ai  prelati,  i  sindaci  delle  città;  restaurò 
l'antica  potenza  marittima  dei  Normanni,  ponendo  a  servizio  di  essa 
la  fiotta  che  egli  aveva  fatto  costruire;  proclamò  la  libertà  di  com- 
mercio all'interno  ed  assicurò  quello  estemo  con  opportuni  accordi 
intemazionali;  abolì  il  barbaro  diritto  di  naufragio,  e  protesse  in 
varie  guise  i  commercianti.  Amico  delle  scienze,  delle  arti  e  delle 
lettere.,  non  solo  fondò  l'Università  di  Napoli,  ma  raccolse  libri  di 
ogni  sorta,  fece  tradurre  scritti  greci  in  latino  e  divulgare  le  opere 
di  Aristotele;  raccolse  lavori  artistici,  ordinò  gli  scavi  d'Augusta  in 
Sicilia;  chiamò  alla  sua  Corte  gli  uomini  piìi  illustri  del  suo  tempo  : 
Pier  delle  Vigne,  Taddeo  da  Sessa,  lo  storico  Accadine,  il  filosofo 
Michele  Scoto  ed  il  celebre  scultore  ed  architetto  Nicolò  Pisano.  E 
tutto  questo  Federico  II  fece  con  nobili  ed  alti  intendimenti.  «  Noi 
crediamo,  egli  scriveva  a  Pier  delle  Vigne,  che  ci  giovi  molto  se  pro- 
curiamo ai  nostri  sudditi  occasione  d'istruirsi,  perchè,  istruiti,  am- 
ministreranno meglio  le  cose  dello  Stato,  e  provvederanno  meglio 
al  proprio  benessere  ed  a  quello  della  patria  ».  Federico  II,  insomma, 
con  le  sue  leggi  che  costituiscono  un  mirabile  monumento  di  sapienza 
politica,  e  con  il  suo  provvido  ed  illuminato  governo,  diede,  special- 
mente alla  Sicilia,  sede  del  suo  regno,  una  grandezza  ed  una  pro- 
sperità non  mai  vedute. 

Fra  le  sue  benemerenze  vi  è  quella  di  aver  dato  asilo  ai  trova- 
tori, perseguitati  in  Provenza,  e  di  avere  incoraggiato  Io  svilmppo 
della  lingua  volgare,  da  cui  venne  poi  quella  italiana,  che  ebbe  le 
sue  prime  origini  in  Sicilia,  la  quale  sotto  Federico  II  acquistò  un 
nuovo  e  rigoglioso  palpito  di  vita,  che  avrebbe  rigenerato  l'Italia  ed 
il  mondo,  se  la  sorte  non  fosse  stata  crudele  con  la  dinastia  sveva. 
Imperocché,  morto  Federico  nel  1250,  breve  e  travagliato  fu  il  regno 
del  figlio  Corrado»  e  tragica  la  fine  del  valoroso  Manfredi,  che,  tra- 


94  ANTICHI    FASTI    E   PRESENTI   CONDIZIONI   DELLA   SICILIA 

dito  ed  abbandonato  dai  baroni,  cercò  ©d  ebbe  la  morte  nella  bat- 
taglia di  Benevento;  e  del  giovinetto  Gorradino  che,  sconfitto  a  Ta- 
gliacozzo,  fu  mandato  iniquamente  al  patibolo  dal  crudele  Carlo 
d'Angiò. 

Ma  se  facile  riuscì  a  Carlo,  con  gli  aiuti  del  Pontefice  e  del 
re  di  Francia,  suo  fratello,  di  conquistare  il  regno,  non  egualmente 
facile  gli  riuscì  di  tenere  la  Sicilia,  la  quale,  anche  ned  tempi  peg- 
giori, non  tollerò  violenze  e  sopraffazioni.  E  violenze,  abusi  e  so- 
praffazioni di  ogni  specie  solevano  quotidianamente  commettere  gli 
Angioini,  Il  popolo  ne  fremeva,  e,  quando  la  misura  fu  colma,  bastò 
un  piccolo  incidente  in  una  festa  camipestre  presso  la  chiesa  di  Santo 
Spirito  nelle  vicinanze  di  Palermo,  l'affronto  fatto  da  un  ufficiale 
francese,  tal  Droetto,  ad  una  giovane  sposa,  col  frugarla  nel  seno, 
perchè  l'ira  divamipasse  terribile,  prima  fra  gli  astanti,  che  truci- 
darono i  duecento  soldati  che  erano  sul  posto,  indi  a  Palermo,  ed 
infine  in  tutta  l'isola,  al  grido:  «Muoiano,  muoiano  i  francesi!». 
E  tutti  furono  implacabilmente  massacrati.  «-Parea,  scrive  lo  storico 
Saba  Malaspina,  che  ogni  uomo  avesse  a  vendicare  la  morte  del 
padre,  d'un  fratello,  di  im  figlio».  Un  solo  francese  fu  risparmiato: 
Guglielmo  Porcelet:  egli  era  un  giusto.  Mai  vendetta  di  popolo  fu 
più  rabbiosa  ed  esemplare.  Chiudendo  la  narrazione  di  quanto  al- 
lora accadde,  e  che  fu  tramandato  ai  iposteri  col  nome  di  Vespro, 
l'Amari,  che  mirabilmente  l'illustrò,  dice:  «  Corse  vasta  e  miseranda 
la  strage;  ma  era  necessaria,  e  però  a  ragione  il  popolo  nostro  or- 
gogliosamente serba  infìno  ad  oggi  la  memoria  di  quell'antica  feroce 
virtù». 


Comipiuto  lo  sterminio  dei  Francesi,  il  popolo  siciliano,  preve- 
dendo che  Carlo,  furente  e  sitibondo  di  vendetta,  avrebbe  cercato  di 
soffocare  nel  sangue  la  sommossa,  prese  le  misure  necessarie  per 
impedire  che  gli  Angioini  tornassero  ad  opprimere  l'isola.  A  tal  uopo, 
le  principali  città  si  federarono,  sperando  di  potersi  reggere  a  re- 
pubblica. Ma  il  timore  che  Messina,  già  assediata  dall'esercito  di 
Carlo,  non  fosse  in  grado  di  resistere  a  lungo,  e  che  i  siciliani  da 
soli  non  bastassero  a  fronteggiare  la  coalizione  che,  auspice  il  Papa, 
minacciava  formarsi  contro  di  loro,  indusse  il  Parlamento  a  chia- 
mar Pietro  d'Aragona,  che  aspirava  da  tempo  al  trono  della  Sicilia. 
E  Pietro  venne  e  fu  proclamato  re  a  Palermo  il  7  settembre  1282.  Ma 
la  resistenza  di  Messina  fu  così  eroica,  che,  pochi  giorni  dopo  l'arrivo 
di  Pietro,  gli  Angioini,  sconfitti  dai  Messinesi,  tolsero  precipitosa- 
mente l'assedio,  e  abbandonarono  la  Sicilia. 

Se  ciò  fosse  accaduto  prima,  la  repubblica  siciliana  si  sarebbe 
forse  consolidata,  e  gli  avvenimenti  avrebbero  preso  un  altro  corso. 
Invece,  la  proclamazione  di  Pietro  complicò  le  cose.  La  guerra,  di- 
ventata più  aspra,  si  protrasse  per  ben  venti  anni,  durante  i  quali  il 
popolo  siciliano  diede  prova  d'ammirabile  eroismo,  guadagnando 
quattro  battaglie  navali  e  tre  terrestri,  espugnando  fortezze,  scio- 
gliendo assedi,  ed  annientando  tre  esercito  nemici. 

Benefica  si  dimostrò  sulle  prime  la  dinafitia  aragonese,  rispet- 


ANTICHI    FASTI   E   PRESENTI   CONDIZIONI  DELLA   SICILLV  95 

tando  la  costituzione  di  Guglielmo  il  Buono,  allargando  i  poteri  del 
Parlamento  generale  e  quelli  dei  Municipi,  e  governando  con  sag- 
gezza. Ma  dopo  il  primo  Federico  le  cose  volsero  a  male.  I  baroni 
alzarono  la  testa,  e  cominciarono  a  dilaniarsi  fra  loro;  le  città  ed  i 
municipi  ne  seguirono  l'esempio  e  le  inimistà  e  le  discordie  divam- 
parono in  tutta  l'isola,  che  decadde  rapidamente. 

Francesco  Crispi,  con  l'acume  e  la  concisione  di  Tacito,  cosi 
descrive  i  tempi  che  seguirono  la  gloriosa  rivoluzione  del  Vespro: 
«  In  meno  di  un  secolo  i  nobili  ed  i  prelati  ricacciarono  la  Sicilia 
nelle  tenebro  del  Medio  evo.  Nel  1382  il  paese  era  caduto  nell'anar- 
chia e  govemavasi  da  quattro  baroni;  la  regina  in  prigione,  muto 
il  Parlamento,  il  popolo  diviso  in  fazioni,  dimentico  dei  suoi  diritti. 
Un  secolo  dopo,  l'isola  nostra  era  divenuta  provincia  straniera  e  ri- 
ceveva leggi  e  governo  dalla  Spagna.  Nel  1482  avreste  detto  che  la 
schiavitù  nell'isola  nostra  fosse  naturale,  e  che  giammai  il  nostro 
popolo  avesse  respirato  aure  di  libertà.  Nel  1582  era  re  quel  feroce 
Filiptpo,  che  Alfieri  stigmatizzò  con  versi  sublimi  :  «  pessimo  re, 
padre  inumano».  Nel  1682  era  re  Carlo  II,  ultimo  di  casa  d'Austria, 
e  viceré  il  Conte  di  Santo  Stefano,  il  carnefice  di  Messina...  Nel  1782 
era  re  quel  Ferdinando  III  che  più  tardi  si  battezzò  primo,  per  di- 
struggere le  nostre  franchigie:  fu  lui  che  inaugurò  la  mannaia  e 
che  l'abbeverò  del  sangue  dei  patrioti  » . 

Gli  ultimi  Borboni  fecero  il  resto. 

Non  par  vero  come  la  tirannide  possa  imbarbarire  anche  i  po- 
poli meglio  dotati. 


t        VI. 

La  massima  che  i  popoli  hanno  il  governo  che  si  meritano,  è 
vera  soltanto  per  i  popoli  che  vivono  in  regime  di  libertà.  A  quelli 
che  sono  tenuti  sotto  il  giogo  con  la  forza,  se  hanno  natie  virtù, 
altro  non  resta  che  congiurare  ed  insorgere,  soccombere  o  liberarsi 
dalla  schiavitù  che  li  opprime.  Ed  il  popolo  siciliano,  scosso  dal  suo 
torpore  dalla  rivoluzione  francese,  altro  non  fece,  dal  1797  al  1860, 
ohe  congiurare  ed  insorgere.  Innumerevoli  furono  i  generosi  ohe 
lasciarono  la  vita  in  quelle  sommosse  o  sul  patibolo,  e  quelli  che 
marcirono  nelle  carceri  o  soffersero  i  dolori  e  le  miserie  dell'esilio; 
ma  finalmente  il  giorno  della  liberazione  venne,  e  fu  salutato  con 
immensa'  gioia. 

Se  nonché  deluse  in  gran  parte  andarono  le  speranze  che  il  po- 
polo siciliano  aveva  concepito  nei  ipatrio  risorgimento,  al  quale  esso 
aveva  largamente  contribuito. 

Numerosi  e  profondi  erano  i  mali  che  affliggevano  la  Sicilia, 
dovuti  principalmente  all'iniquo  governo  dei  Borboni,  i  quali,  sa- 
pendosi cordialmente  odiati,  riponevano  la  salvezza  del  trono  nel- 
l'ignoranza e  nella  superstizione  del  popolo,  nelle  discoixlie  inte- 
stine, che  essi  non  mancavano  di  fomentare;  nei  più  odiosi  metodi 
polizieschi,  nelle  feroci  repressioni  e  nel  sistematico  uso  della  forca. 

Spettava  al  governo  nazionale  di  risanare  queste  piaghe,  ma 
esso  disgraziatamente  non  seppe  farlo.  Nei  primi  tempi,  anzi,  le 
condizioni  dell'isola  peggiorarono.  Credendo  di  poter  m^lio  e  più 


96  ANTICHI    FASTI   E    PIIESENTI   CONDIZIONI   DELLA    SICILIA 

presto  cementare  l'ottenuta  unità,  furono  estesi  alla  Sicilia  le  leggi 
e  gli  ordinamenti  del  Piemonte,  senza  badare  che  essi  non  rispon- 
devano alle  tradizioni,  all'educazione  e  alle  speciali  esigenze  del- 
l'isola. I  numerosi  funzionari  continentali,  che  vi  furono  mandati,  ivg- 
gravarono  poi,  con  la  loro  insipien25a,  il  disagio  derivante  dalla  le- 
;,'islazione  inadatta.  Sopraggiunsero  indi  i  pesanti  balzelli  che  riu- 
soirono  esosi  ovunque,  ma  specialmente  in  Sicilia,  sia  perchè  poche 
e  blande  erano  ivi  le  imposte  sotto  i  Borboni,  sia  per  il  modo  ves- 
satorio come  soleva  farsi  la  riscossione.  Seguirono  la  leva  militare, 
che  prima  non  vi  era,  e  che  il  popolino  apiprese  male;  la  confisca 
dei  beni  ecclesiastici,  che  sembrò  una  spogliazione;  il  modo  eccessivo 
come  furono  repressi  i  mal  comipresi  moti  del  '66;  queste  ed  altre 
simili  cose  seguirono,  e  fecero  apparire  la  sospirata  ed  ottenuta 
unità,  non  come  una  liberazione,  quale  era  effettivamente,  ma  come 
una  delle  solite  conquiste,  ohe  il  popolo  aveva  sempre  odiato  e  de- 
precato. 

Esso  quindi  guardò  con  diffidenza  e  con  sospetto  il  nuovo  go- 
verno ed  i  suoi  agenti,  e  si  chiuse  in  sé  medesimo. 

Era  fierezza,  era  sete  di  libertà  e  di  giustizia,  e  parve  sorda  ri- 
bellione, donde  inconsulte  misure,  le  quali  inasprirono  maggiormente 
u:li  animi.  L'unico  rimedio  era  invece  quello  di  amministrare  e  go- 
vernare bene  l'isola,  ma  questo  rimedio  si  fece  a  lungo  attendere. 
Il  modo  come  fu  intesa  e  si  svolse  in  Sicilia  la  vita  politica  non  era 
il  pili  adatto  a  far  risorgere  nel  .popolo  la  fiducia  nella  giustizia  e 
nelle  autorità.  Quantunque  le  istituzioni  parlamentari  fossero  nate 
in  Sicilia,  prima  ohe  altrove,  tuttavia  il  lungo  periodo  di  servitù  a 
cui  l'isola  soggiacque,  aveva  cancellato,  come  abbiamo  visto  innanzi, 
il  ricordo  di  esse  e  le  virtù  che  occorrevano  per  fame  buon  uso  e 
per  trarne  profitto.  Perciò  quando  il  popolo,  conquistata  la  libertà, 
fu  chiamato  ad  esercitare  i  diritti  sovrani,  che  le  nuove  istituzioni 
gli  assicuravano,  non  seppe  farlo  come  si  conveniva.  Essendo  questa 
la  causa  che  ha  maggiormente  nuociuto,  e  ohe  tuttora  nuoce  alla 
Sicilia,  consentitemi  di  esaminarla  nei  suoi  particolari.  Le  cose  che 
dirò  sono  note  a  tutti,  ma  non  tutti  mostrano  di  conoscere  le  gra- 
vissime conseguenze  che  ne  sono  derivate  e  ne  derivano,  e  come  sia 
necessario  ed  urgente  di  farle  cessare,  eliminando  la  causa,  che  le 
producono. 

II  regime  parlamentare,  anche  quando  funzioni  regolarmente, 
cioè,  coH'alternarsi  dei  partiti  al  potere,  per  la  realizzazione  dei  loro 
programmi,  si  riduce  sempre,  nelle  sue  ultime  conseguenze,  ad  una 
lotta  d'interessi  materiali. 

Ma  questo  regime  in  Italia  ha  funzionato  e  funziona,  come  tutti 
sanno,  in  maniera  molto  imperfetta.  Per  comprendere  le  conse- 
guenze che  derivano  da  questa  imperfezione  rispetto  agl'interessi 
rrenerali  e  locali,  bisogna  principalmente  guardare  a  ciò  che  gli  elet- 
tori sogliono  pretendere  dai  loro  rappresentanti,  e  a  ciò  che  questi 
ultimi  debbono  fare  per  assicurarsi  la  rielezione. 

Ora,  su  questo  punto,  è  fuori  di  dubbio  ohe  gli  elettori  delle 
regioni  più  industriose,  più  ricche  e  più  evolute,  generalmente  chie- 
dono ai  loro  rappresentanti  di  ottenere  dal  governo  la  costnizione 
di  strade,  di  ponti  e  di  opere  pubbliche  di  ogni  specie,  la  prote- 
zione delle  loro  industrie,  facilitazioni  per  esportare  i  loro  prodotti, 


ANTICHI    FASTI   E   PRESENTI   CONDIZIONI   DELLA    SICILIA  97 

Ogni  cosa  insomma  che  valga  ad  accresoere  la  ricchezza  e  la  pro- 
sperità generale  della  loro  regione,  prosperità  la  quale  poi  ridonda 
a  favore  di  ogni  singolo  cittadino. 

Gli  elettori  meridionali,  in  genere,  e  quelli  siciliani,  in  ispecie, 
sogliono,  al  contrario,  prevalentemente  domandare  ai  loro  deiputati 
piccoli  favori  personali,  ed  è  soltanto  di  questi  ohe  essi  si  ricordano 
il  giorno  delle  elezioni.  Quello  che  il  deputato  ha  fatto  nell'interesse 
generale,  della  regione  o  del  proprio  collegio,  si  dimentica  con  faci- 
lità. I  deputati,  che  ciò  non  ignorano,  sono  costretti  a  coltivare  prin- 
cipalmente gl'interessi  personali  dei  singoli  elettori,  e  ad  attender 
meno,  per  necessità  di  cose,  agl'interessi  generali.  Quelli  che  per 
avventura  fanno  il  contrario,  vengono  ordinariamente  eliminati:  il 
corpo  elettorale  non  li  rielegge. 

I  deputati  sanno  inoltre  che  gli  elettori,  nella  generalità  dei  casi, 
guardano  la  vita  politica  a  traverso  le  lotte  locali,  òhe  nelle  provincie 
meridionali  e  specialmente  in  Sicilia  sono  ardentissime.  Ogni  de- 
putato quindi  è  costretto  a  favorire  in  tutti  i  modi  possibili  i  propri 
amici  e  a  combattere  i  loro  avversari,  dai  quali  non  ha  molto  da 
spyerare,  qualunque  sia  il  suo  merito.  Se  egli  cerca  di  conciliarli, 
corre  pericolo  di  perdere  gli  uni  e  gli  altri. 

Se  gli  amici  dtl  deputato  hanno  nelle  mani  l'amministrazione 
comunale,  quest'ultimo,  se  non  vuol  perdere  il  loro  favore,  deve 
adoperarsi  che  vi  rimangano  anche  quando  amministrino  male.  Se 
sono  all'opposizione,  perchè  in  minoranza,  il  deputato  deve  aiutarli 
in  guisa  che  diventino  maggioranza,  o  che,  comunque,  afferrino  il 
potere  e  lo  conservino.  Ma  x>6r  fare  l'una  o  l'altra  cosa,  il  deputato 
ha  bisogno  dell'appoggio  del  governo  e  dei  suoi  organi,  e  special- 
mente del  Prefetto.  Per  ottenere  questo  appoggio,  il  deputato  non 
sempre  può  conservare  la  sua  libertà  politica  e  la  sua  attività  par- 
lamentare; egli  è  costretto  a  lavorare  e  votare  pel  Ministero,  bene 
o  male  che  faccia.  La  fedeltà  è  il  primo  requisito  che  si  richiede  nei 
deputati  amici  del  governo.  Chi  ha  questo  requisito,  e  d'ordinario 
lo  possiedono  i  mediocri,  quelli,  cioè,  che  non  ne  hanno  alcun  altro, 
acquistano  il  diritto  ai  più  alti  posti,  sono  eletti  nelle  più  impor- 
tanti commissioni,  sono  nominati  Sottosegretari  di  Stato  o  Ministri» 
anche  quando  non  abbiano  alcuna  preparazione  tecnica,  donde  il 
prepotere  della  burocrazia,  la  quale,  invece  di  obbedire,  comanda. 
A  questi  deputati,  in  fine,  suole  farsi  un  trattamento  di  favore  in 
ogni  tempo,  e  specialmente  nelle  elezioni. 

Se,  malgrado  ^c  ^..«àsioni  del  governo,  gli  elettori  non  li  eleg- 
gono, essi  vengono,  prima  o  poi,  nominati  senatori,  escludendo  gli 
uomini  di  merito,  ma  indipendenti.  E  ciò  non  ha  sempre  contribuito 
al  prestigio  dell'Alta  A.ssemblea. 

Io  potrei  illustrare  con  numerosi  esempi,  antichi  e  recenti, 
quanto  ho  detto  innanza;  ma  mi  guarderò  bene  dal  farlo,  perchè 
potrebbe  sembrar  pettegolezzo.  Del  resto  chi  segue  da  vicino  lo  svol- 
gimento della  nostra  vita  politica,  conosce  molto  bene  queste  cose. 
Mi  fermerò  piuttosto  ad  accennare  alle  gravissime  conseguenze  che 
derivano  da  un  sì  fatto  sistema. 

In  primo  luogo,  l'ingerenza  della  politica  nell'amministrazione 
perverte  quest'ultima  con  grave  danno  dei  'cittadini,  i  quali,  ammi- 

7  rTol.  OOXVI,  Berle  VI  —  1*  «ennaio  19£8. 


"98  ANTICHI    FASTI   E   PRESENTI   CONDIZIONI   DELLA   SICILU 

Distrati  male  e  trattati  con  parzialità,  finiscono  col  perdere  ogni  fede 
nella  giustizia  e  nelle  istituzioni.  Gli  odii  e  le  lotte  locali,  poi,  invece 
di  smorzarsi  si  acuiscono  e  si  perpetuano.  In  secondo  luogo,  il  regime 
parlamentare,  invece  di  fondarsi  sui  partiti  e  sui  programmi,  si 
fonda  sulle  clientele.  I  capi  di  governo  cercano  di  formarsi  la  mag- 
gioranza, dispensando  favori,  e  quanto  più  sono  larghi  nel  farlo, 
(più  è  numeroso  il  loro  seguito,  sul  quale  possono  contare  anche 
quando,  e  sopratutto  quando  incorrono  in  gravi  errori,  o  compro- 
mettono i  più  vitali  interessi  del  paese.  La  loro  opera  è  sempre  lo- 
data dalla  clientela  che  li  sorregge,  e  che  ha  interesse  di  mantenerli 
al  governo  per  ottenerne  i  favori. 

È  così  che  alcuni  uomini  politici  in  Italia  sono  diventati,  forse 
senza  volerlo,  veri  dittatori.  Ma  questa  specie  di  dittatura  personale 
è  peggiore  del  dispotismo,  perchè  il  despota  almeno  assume  la  re- 
sponsabilità dei  propri  atti  dinanzi  al  popolo;  mentre  il  dittatore 
cuopre  la  sua  responsabilità  con  i  voti  del  Parlamento,  e  quindi 
non  trova  remora  al  suo  arbitrio.  Gli  errori  da  lui  commessi  ven- 
gono attribuiti  a  difetti  d^lle  istituzioni,  le  quali  cadono  in  discredito 
e  diventano  odiose. 

Fu  con  un  ragionamento  di  questo  genere  che  gl'inconvenienti 
da  me  descritti  vennero  attribuiti  al  collegio  uninominale,  e  quindi 
si  suppose  che  allargando  la  circonscrizione  elettorale  ed  introdu- 
cendo lo  scrutinio  d'i  lista,  essi  sarebbero  cessati.  Ma  l'esperienza 
delle  ultime  due  elezioni  hanno  dimostrato  la  fallacia  di  tale  sup- 
posizione. L'allargamento  delle  circonscrizioni,  che  doveva  romi)ere 
i  rapporti  di  clientela  fra  elettori  ed  eletti,  e  fra  questi  e  i  gover- 
nanti, ha  modificato  ben  poco  tali  rapporti.  Ogni  candidato  porta 
nelle  liste,  che  si  formano  con  criteri  personali,  il  contributo  dei 
voti  che  gli  danno  i  propri  amici,  con  le  relative  preferenze,  salvo 
a  mercanteggiare,  e  non  sempre  lealmente,  le  altre  preferenze,  di 
cui  ogni  elettore  può  disporre.  È  a  questo  modo  ohe  funziona  il 
nuovo  sistema  elettorale,  dove,  come  nelle  Provincie  meridionali  e 
nella  Sicilia,  non  vi  sono  ancora  veri  partiti  organizzati. 

Il  collegio  uninominale  in  sostanza  continua  a  vivere  e  con  esso 
tutti  gli  antichi  inconvenienti,  i  quali  vengono  talora  aggravati  dalla 
concorrenza  sleale  e  fratricida  che  i  compagni  di  lista  sogliono  farsi, 
e  dalle  rivalità  che  si  determinano  fra  le  provincia  che  compongono 
ogni  singolo  collegio,  alcune  delle  quali  ottengono,  a  danno  delle 
altre,  un  maggior  numero  di  rappresentanti. 

Non  è  certo  questo  sistema  che  cementerà,  come  alcuni  spera- 
vano, la  compagine  nazionale,  e  che  farà  scomparire  la  corruzione, 
la  quale,  al  contrario,  si  esercita  più  largamente  di  prima,  con  La 
compra  dei  voti  di  preferenza,  assicurando  la  vittoria  ai  candidati 
meno  scrupolosi  e  che  dispongono  di  maggiori  mezzi.  La  verità  è 
ohe  la  radice  dei  mali  su  deplorati  è  nella  imperfetta  educazione 
politica  degli  elettori,  e  perciò,  fino  a  quando  essi  resteranno  quali 
sono,  è  vano  sperare  che,  mutando  i  metodi  elettorali,  gl'inconve- 
nienti possano  scomparire. 

Ora,  se  la  Sicilia,  dopo  60  anni  della  sua  liberazione,  non  ha 
ancora  le  strade  delle  quali  ha  bisogno;  se  la  manutenzione  dei  suoi 
porti  lascia  molto  a  desiderare;  ae  le  sue  campagne,  per  mancanza 


ANTICHI    FASTI   E   PRESENTI   CONDIZIONI   DELLA    SICILIA  99 

di  bonifiche,  sono  infestate  dalla  malaria;  se  frequenti  sono  le  inon- 
dazioni, perchè  i  suoi  fiumi  difettano  di  arginature  ed  i  suoi  monti 
di  boschi;  se  le  sue  industrie  non  sono  protette;  se  in  una  parola 
essa  non  ha  potuto  ottenere  tutto  quello  che  è  indispensabile  per 
elevarsi  e  prosperare;  ciò  è  dovuto,  in  gran  parte,  al  modo  come  si 
è  svolta  e  si  svolge  nell'isola  la  vita  politica. 

I  Siciliani,  che  vedono  trascurati  i  loro  interessi,  ne  attribui- 
scono la  colpa  al  governo,  senz'accorgersi  Ohe  la  causa  prima  dei 
mali,  che  deplorano,  risiede  in  loro  stessi.  Difatti,  mentre  nei  go- 
verni assoluti  è  il  monarca,  che,  di  suo  arbitrio,  provvede  ai  bisogni 
generali  delle  varie  regioni;  nei  governi  parlamentari,  invece,  cia- 
scuna regione  fa  valere  i  suoi  interessi,  premendo  sui  propri  rajp- 
presentanti,  e  questi  sul  governo,  dal  quale  cercano  di  ottenere 
quanto  più  è  possibile.  A  seconda  che  sia  maggiore  o  minore  l'ascen- 
dente e  la  pressione  che  questi  rappresentanti  sono  in  grado  di  eser- 
citare sul  governo;  maggiore  o  minore  è  quello  che  essi  ottengono  a 
favore  dei  loro  rappresentati,  sul  fondo  comune,  ohe  è  costituito 
dal  bilancio  dello  Stato.  Eissendo  questa,  e  non  altra,  la  natura  deJ 
regime  parlamentare,  è  stoltezza  lagnarsi  del  governo,  per  quello 
che  esso  fa  o  non  fa  rispetto  a  questa  o  a  quella  regione;  imperocché 
il  governo  è  la  risultante  delle  forze  (politiche,  nel  giuoco  parlamen- 
tare, ed  opera  non  già  secondo  criteri  assoluti  di  giustizia  distribu- 
tiva, ma  secondo  le  necessità  che  lo  premono,  ed  alle  quali  egli  deve 
necessariamente  obbedire. 

Se  la  Sicilia,  adunque,  vede  non  di  reido  trascurati  i  suoi  inte- 
ressi, ciò  dipende  principalmente  dal  modo  come  vengono  eletti  i 
deputati  e  da  quello  che  suole  chiedersi  con  preferenza  ai  medesimi, 
cioè,  favori  personali  ed  aiuti  nelle  com-petizioni  locali,  cose  tutte 
le  quali  asserviscono  il  deiputato  al  governo  in  guisa  che,  quando 
egli  chiede  provvidenze  d'indole  generale,  il  ministero  nicchia,  sa- 
pendo che  non  per  questo  il  deputato  gli  voterà  contro. 

La  deputazione  siciliana,  ipoi,  non  sempre  riesce  a  mettersi  d'ac- 
cordo per  chiedere  collettivamente  al  governo  date  provvidenze,  e, 
quando  vi  riesce,  chiede  talora  molto  piìi  di  quello  che  esso  può  con- 
cedere. Ciò  non  deriva  da  inettezza  o  mal  talento  dei  singoli  deputati 
siciliani,  come  alcuni  potrebbero  credere,  ma  sibbene  dal  fatto  che, 
essendo  molto  numerosi  i  bisogni  dell'isola  e  quasi  tutti  urgenti,  e 
non  sempre  jLrmonici,  riesce  difficile  l'accordo  fra  i  deputati,  vo- 
lendo ciascuno  di  essi  dar  la  preferenza  a  quei  bisogni  che  più  gli 
premono.  L'accordo  quindi  ordinariamente  si  consegue  col  doman- 
dare ai  governo  più  di  quello  che  in  dati  momenti  è  possibile  otte- 
nere, e  non  di  rado  si  finisce  per  non  ottenere  nulla.  Tutto  ciò  che 
ho  esposto  innanzi  costituisc<e  la  regola.  Eccezioni  ve  ne  sono  molte, 
e  nobilissime,  le  quali  f^no  onore  alla  deputazione  siciliana,  che 
deplora  lo  stato  anormale  di  cose,  in  cui  è  costretta  a  svolgere  la 
sua  attività  politica,  e  desidera  di  vederlo  oesscire  al  più  presto.  Il 
risveglio  che  si  è  verificato  in  questi  ultimi  tempi  per  organizzare 
nell'isola  i  partiti  «politici,  è  un  buon  sintomo,  perchè  tale  organiz- 
zazione renderà  più  autorevole  e  più  sicura  e  disciplinata  l'opera  di 
ogni  deputato. 


100  ANTICHI    FASTI   E   PRESENTI   CONDIZIONI  DELLA   SICILU 


VII. 

Certamente,  se  si  fosse  tenuto  conto  che,  aiutando  la  Sicilia,  La 
quale  abbonda  di  naturali  risorse,  l'intera  nazione  ne  avrebbe  indi- 
rettamente risentito  notevoli  benefìci,  si  sarebbe  (provveduto  ai  suoi 
più  urgenti  e  generali  bisogni,  senza  far  dipendere  ciò  dal  dina- 
mismo parlamentare,  da  me  sopra  accennato.  Così,  ad  esempio,  se 
si  fosse,  a  tempo  opportuno,  pensato  di  risolvere  il  (problema  del 
latifondo,  avrebbe  potuto  ricavarsi  dalla  Sicilia  una  considerevole 
quantità  di  cereali,  che  abbiamo  dovuto,  invece,  acquistare  all'estero 
a  prezzi  altissimi.  Oltre  a  ciò,  si  sarebbero  ottenuti  altri  benefici.  In 
un  discorso  ohe  io  feci  alla  Camera,  il  10  maggio  l'Oli,  dimostrai 
che  il  latifondo,  per  il  modo  come  viene  usufruito,  esaurisce  la  fer- 
tilità della  terra,  ostacola  la  trasformazione  della  cultura  e  lo  svi- 
luppo della  ipiccola  proprietà  coltivatrice,  impedisce  lo  sviluppo  della 
viaibilità  agraria  ed  il  bonificamento,  produce  l'assenteismo  dei  prot- 
prietarii  ed  il  parassitismo  degli  intermediari,  sciupa  le  forze  del 
lavoratore,  rende  malsani  ed  infetti  i  comuni  rurali,  alimenta  la 
mafia  e  la  delinquenza,  ed  impoverisce  la  classe  agricola,  costrin- 
gendola ad  emigrare.  Alcuni  di  questi  inconvenienti,  dopo  la  guerra, 
sono  cessati,  ma  ne  restano  sempre  tanti,  da  far  ritenere  che  il  lati- 
fondo costituisca  anche  oggi  una  vera  calamità  per  la  Sicilia.  Al- 
lora la  mia  voce  si  perdette  come  in  deserto  :  i  contadini  non  erano 
in  quel  tempo  elettori,  e  perciò  ben  pochi  s'interessavano  della  loro 
sorte;  ma  non  aippena  acquistarono  l'arma  del  voto,  tutti  comincia- 
rono ad  occuparsene,  compreso  il  governo,  il  quale  finalmente  mo- 
stra di  voler  risolvere  la  quistione  del  latifondo.  Però  io  ritengo  ohe 
i  mezzi,  dei  quali  intende  servirsi,  non  siano  adeguati  allo  scopo. 
Prima  di  spezzare  il  latifondo  e  di  procedere  alla  colonizzazione, 
occorrerebbero  molteplici  lavori  preparatori  :  costruzioni  di  strade, 
bonifiche,  bacini  montani,  ecc.;  lavori  che  dovrebbero  farsi  diret- 
tamente dallo  Stato,  imitando  in  questo  l'esempio  della  Prussia  e 
della  Nuova  Zelanda. 

Dovrebbero  inoltre  farsi  mutui  di  favore  ai  coltivatori  per  ren- 
dere possibile  la  costruzione  di  case  coloniche  e  la  nascita  di  vil- 
laggi, l'acquisto  di  concimi  e  di  macchine  agrarie,  senza,' di  che  la 
colonizzazione  sarebbe  destinata  a  fallire,  come  falliroDO  le  occupa- 
zioni di  teirre  tumultuariamente  verificatesi  in  questi  ultimi  tempi 
nell'isola.  Senza  dubbio,  per  fare  tutto  quello  che  è  necessario  per 
una  colonizzazione  razionale,  occorrono  larghi  mezzi,  l'impiego  dei 
quali  riuscirebbe  poi  fruttuoso,  in  quanto  ohe  non  solo  si  otterrebbe 
la  redenzione  materiale  e  morale  della  Sicilia,  ma  si  accrescerebbe 
la  ricchezza  e  la  prosperità  dell'intera  nazione. 

«  La  vecchia» società  che  si  adagia  sul  latifondo,  con  le  sue  mi- 
serie, con  le  sue  rivalità  e  con  i  suoi  odii  implacabili,  con  le  cricche 
camorristiche  e  parassitarie,  cadrà  per  sempre,  e  sorgerà  sulle  sue 
rovine  un  nuovo  mondo  sociale,  illuminato  dalla  luce  della  vera 
civiltà  e  della  giustizia».  Così  concludevo  il  mio  discorso  alla  Ca- 
mera nel  1911,  e  così  ripeto  oggi,  augurandomi  di  vedere  aJ  più 
presto  risoluto  il  problema  del  latifondo  in  modo  serio  e  radicale. 

Anche   un  altro  problema  deve  risolversi  senza  indugio,   per 


ANTICHI   FASTI   E  PRESENTI   CONDIZIONI  DELLA    SICILIA  101 

assicurare  la  prosperità  della  Sicilia  e  dell'intefro  paese:  quello  che 
concerne  la  pubblica  amnainistrazione. 

È  inutile  che  io  ricordi  i  danni  che  produce  il  pessimo  ordina- 
mento amministrativo,  che  vige  fra  noi;  perchè  tali  danni  sono  ormai 
noti  a  tutti.  Quando  si  pensa  che  nel  discorso  della  Corona  nel  1869 
si  riconosceva  la  necessità  e  l'urgenza  di  semplificare  ramministra- 
zione  e  di  rendere  i  funzionari  responsabili  dei  loro  atti;  e  che,  dopo 
cinquantadue  anni,  non  si  è  concluso  ancora  nulla,  e,  quel  che  è 
peggio,  si  è  lasciato  aggravare  il  problema  in  guisa  da  renderlo 
quasi  insolubile;  bisogna  riconoscere  che  il  nostro  è  un  paese  straor- 
dinario. Ci  voleva  che  gl'inapiegati  scioperassero  (sciopero  a  ragione 
deplorato  generalmente)  iperchè  il  governo  si  decidesse  ad  intrapren- 
dere la  riforma  dei  pubblici  servizi. 

Dopo  di  avere,  fino  a  poco  tempo  fa,  assunto  nuovi  impiegati, 
malgrado  si  sapesse  che  il  loro  numero  era  eccessivo,  e  che,  anche 
pagandoli  meschinamente,  ne  derivava  un  onere  finanziario  insop- 
portabile; si  sono  dovuti  chiedere  i  pieni  poteri  per  procedere  alla 
loro  decimazione.  Senza  dubbio,  questa  è  necessaria,  ma  essa  pro- 
durrà dolorose  c<Miseguenze:  molte  famiglie  che  già  sono  povere, 
cadranno  nella  miseria,  il  numero  dei  disoccupati  intellettuali,  alla 
cui  sorte  è  più  diflBcile  provvedere,  aumenterà;  quelli  poi  che  avran- 
no la  fortuna  di  conservare  il  posto,  è  diflBcile  che  restino  soddisfatti 
dei  miglioramenti  ottenuti,  ed  ora  che,  in  seguito  allo  sciopero,  non 
pochi  hanno  passato  il  Rubicone,  avvicinandosi  ai  socialisti,  po- 
tranno, un  giorno  o  l'altro,  creare  gravi  imbarazzi,  Bismarck  pre- 
vide che  le  nazioni  civili  sarebbero  state  schiacciate  un  giorno  dalla 
burocrazia  subalterna.  Auguriamoci  che  questa  previsione  non  si 
avveri  fra  noi.  Auguriamoci  altresì  che  si  riesca  a  dare  finalmente 
un  migliore  assetto  alla  pubblica  anuninistrazione. 

Mentre  prima,  però,  molti  si  contentavano  d'un  ragionevole  de- 
centramento, ora  alcuni  parlano  di  autonomia,  di  federazione:  si 
vorrebbe,  a  quanto  sembra,  far  dell'Italia  una  grande  Svizzera.  Ciò 
significa  passare  da  un  eccesso  all'altro.  L'unità  italiana  è  cosa  troppo 
sacra,  e  però  non  è  lecito  comprometterla  con  esperimenti  inconsulti. 
Semplificare,  decentrare,  rendere  responsabili  i  pubblici  funzionari 
e  pagcurli  bene,  per  ora  almeno,  potrà  bastare.  GU  effetti  di  una 
tale  riforma  saranno  benefici,  ed  io  confido  che  il  governo  dell'ono- 
revole Bonomi  riuscirà  ad  attuarla  nel  miglior  modo  possibile.  Quan- 
do i  cittadini  non  avranno  -piià  bisogno  di  ricorrere,  per  ogni  piccolo 
affare,  al  governo  centrale,  e  quando  sapranno  che  questo  non  potrà 
più  concedere  favori,  perchè  di  ogqi  atto  che  l'impiegato  compie, 
ne  risponde  personalmente,  non  si  rivolgeranno  più,  tranne  casi 
eccezionali,  ai  deputati,  e  quindi,  a  poco  a  poco,  si  scioglieranno  le 
clientele,  che  avvelenano  la  nostra  vita  xx)litica.  La  funzione  parla- 
mentare diventerà  normale.  Gl'interessi  pubblici  saranno  meglio  cu- 
rati, e  la  Sicilia  potrà  ottenere  molte  cose  che  finora  non  ha  potuto 
conseguire. 

Se,  come  io  spero,  queste  previsioni  si  avvereranno,  la  Sicilia, 
questa  terra  di  delizie"  e  di  vulcEini,  questa  terra  che  vide  sorgere 
e  tramontare  tre  civiltà,  progredirà  rapidamente,  e  raggiungerà 
presto  i  suoi  antichi  splendori.  ' 

M.  Vaccaro. 


LA    GARA    DELLA    PIETÀ 
PER  I  BIMBI    BALDUCCI 


Air  appello  lanciato  dal  Giornale 
d'Italia,  al  quale  ci  professiamo  pro- 
fondamente grati,  e  della  Nuova  Anto- 
logia per  raccogliere  i  fondi  onde  co- 
stituire una  borsa  di  studio  per  i  bimbi 
del  compianto  nostro  redattore  pro- 
fessor Primo  Balducci,  da  tutte  le  parti 
d'Italia  collaboratori  ed  amici  hanno 
risposto  con  un  vero  slancio  di  gene- 
rosità :  esso  è  di  per  se  stesso  la  te- 
stimonianza più  bella  della  stima  e 
dell'affetto  di  cui  Egli  era  dovunque 
circondato. 

Con  un  senso  di  solidarietà  umana 
veramente  commovente  si  sono  asso- 
ciati in  una  gara  di  pietà  uomini  delle 
più  differenti  condizioni  sociali,  daì- 
l'operaio  allo  scrittore,  dall'impiegato 
all'uomo  politico,  tutti  animati  da  un 
solo  impeto  di  amore  dinanzi  allo  stra- 
zio di  una  sventura  senza  pari. 

A  tutti  questi  generosi  vadano  i  rin- 
graziamenti più  fervidi  della  Nuova 
Antologia. 

Con  le  nobili  parole  con  le  quali 
la  nostra  esimia  collaboratrice  Fanny 
Zampini  Salazar  si  associò  nelle  pagine 
della  Nuova  Antologia  al  nostro  ap- 
pello, e  che  ci  è  caro  qui  riportare  di 
nuovo,  diamo  intanto  l'elenco  delle  of- 
ferte sin  qui  pervenute: 

«  Sarà  indubbiamente  accolto  con  pie- 
tà e  geneiosi  sensi  l'appello  nobilissimo 
che  il  nostro  Direttore  vuol  fare  per 
raccogliere  un  fondo  destinato  a  costi- 


tuire una  borsa  di  studio  a  favore  dei 
bimbi  Balducci,  sì  crudelmente  privati 
dell'ottimo  Padre. 

«  Egli  lavorava  per  essi  proponen- 
dosi di  farne  due  buoni  italiani  e  li 
lascia  senza  mezzi  di  coltivarsi! 

«  L'appello  arriverà  mentre  le  fami- 
glie affettuose,  in  tutto  il  mondo,  pre- 
parano i  doni  di  Natale  per  i  bambini 
fortunati  nei  caldi  nidi  domestici.  Non 
dubito  che,  intelligenti  e  vivaci  come 
sono,  essi  pei  primi,  vorranno  rinun- 
ziare al  superfluo,  per  assicurare  i 
mezzi  di  studio  ai  derelitti  fanciulli  il 
cui  Natale,  quest'anno,  non  avrà  alcuna 
gioia. 

«  Perchè  Dio  conservi  ai  bimbi  felici 
l'inestimabile  tesoro  di  un  buon  Padre, 
fino  ai  più  tardi  anni,  sieno  essi  ad 
invocare  dai  genitori  e  dai  nonni,  di 
offrire  agli  orfani  Balducci  una  parte 
di  quanto  è  loro  destinato  per  le  feste 
Natalizie. 

«  Rasciugare  le  lagrime  del  dolore 
inconsolabile  di  una  buona  madre,  of- 
frendole i  mezzi  di  provvedere  alla 
educazione  dei  figliuoletti,  che  sarà 
ormai  sola  ad  avviare  nel  mondo,  è 
anche  dare  ai  bimbi  felici  un  esempio 
salutare  ed  agli  orfani  un  alto  senso 
di  solidarietà  umana. 

«  E  sono  convinta  che  essi  sapranno 
corrisponderci,  rendendosi  sempre  de- 
gni della  stima  che  il  loro  Padre  ispirò 
in  quanti  oggi  hanno  a  cuore  di  solle- 
vare la  grande  loro  sventura  ». 


103 


Senatore    Maggiorino   Ferraris 

per  la  Nuova  Antologia  .    .     I 

..    5000  — 

Senatore  Maggiorino  Ferraris. 

.      1000  — 

Prof.  Alessandro  Bacchiani  .    . 

250- 

Prof.  Ernesto  Buonaiati   .     .    . 

►       250  — 

Dott.  Mario  Missiroli    .... 

.       250  — 

Dott.  Adriano  Tilgher .... 

.       250- 

Prof.  Ettore  Romagnoli    .     .     . 

50  — 

Prof.  Francesco  Paolo  Mule     . 

so- 

Dott. Giovanni  Bardi   .... 

lco— 

Fausto  Maria  .Martini  .... 

25  — 

Prof.  Nicola  Turchi 

50  — 

Guelfo  Mannucci ■ 

IS- 

Paolo Bianchi > 

IS— 

Alberto  Bergamini i 

300  — 

Tipografia  Courrier > 

500  — 

Dottoressa   Maria  Volpi,  della 

Nuova  Autologia 

100  — 

Prof.  Rodolfo  Bottacchiari  .    .     > 

15  — 

Ing.  Rodolfo  Barleni    .... 

10- 

Prof.  D.  S > 

50  — 

Maggiore  Claudio  Pugliese  .    . 

5  — 

Tullio  Giordana < 

300- 

Prof.a  Emma  Pugliese  Torre   . 

o  — 

Giorgio  Levi  della  Vida  .     .    . 

25- 

Prof.  Vittorio  Gian > 

50  — 

Casa  Editrice  Urbis ■ 

100- 

F.  Sùrico,  dirett.  delle  Lettere     > 

25  — 

Alice  Ferodi ■ 

25  — 

Colonnello  Pavese 

25- 

Luisa  e  Vittorio 

40  — 

Dario  Levi ■ 

25  — 

■Grazia  Deledda « 

50- 

Prof.  Domenico  Rende 

20  — 

Aw.  Ugo  Cristina > 

10- 

Società  Valsacco  per  la  fabbri- 

cazione dello  zucchero  .    .    .     > 

400- 

Federico  Mastrigli « 

50  — 

Arnaldo  Cervesato 

so- 

Luigi ed  Egle  Galvani.    .     .     .      • 

lco- 

Ferdinando  Nobili • 

100  — 

Aw.  FranckJin  De  Grossi    .    .     • 

a95 

Sorelle  Facchini • 

20  — 

Sen.  prof.  Francesco  Torraca  .     • 

25  — 

A.  U.  Mastelloni • 

10  — 

Angelina  Serafini ■ 

5  — 

Ing.  Ernesto  Mancini    .    .    .     .      > 

20- 

Gina  Lupi 

5- 

Giovanni  Persico > 

100  — 

50  — 

Donna  Fanny  Salazar  .     .     .     .      > 

50  — 

Giovanni  Costa > 

5P- 

B.  E.                   .... 

25 

Giacomo  Boni > 

100  — 

Prof.  Cesare  De  Lollis.    .    .    .      > 

lóO- 

A.  A.,  Iesi 1 

25  — 

A.  F.  Formiggini i 

100  — 

Benvenuto  e  Licia  Cagli  .    .     .      i 

100  — 

Prof.  Carlo  Segrè  , 

200  — 

Luigi  Tagliacozzo 

10  — 

Neil'  anniversario    della    morte 

del  cav.  G.  Battista  Luzzana. 

40- 

La  piccola  Ida  per  gli  orfanelli 

del  prof.  Balducci 

5  — 

N.  M.  Ferrari 

5  — 

Camillo  e  Maria  Ferraris     .    . 

100  — 

Antonio,  Mario  e  Guido  Pepe  . 

so- 

Reggiani Sigifredo,  maresciallo 
Prof.  Anna  Benedetti   .... 

lo— 

25  — 

Carlo  Glingler  e  figli    .... 

50- 

Aw.  Francesco  Andrea    .     .     . 

10- 

►       200- 

Senatore  Erasmo  Piaggio     .    . 

.       100  — 

Gonte  Luigi  Ferraris    .... 

.       100  — 

Deputato  Luigi  Luiggi 

Clarice  Tartufari  .     . 

Prof.  G.  Lesca.    .    , 

Prosperi  Ernesto  .     . 

Hans  Barth  .... 

Dott.  Giulio  Staderini 

Ing.  Clemente  De  Fonseca 

G.  E.  R.,  franchi  200  pari  a 

On.  sen.  Luigi  Rava.    .     . 

Alla  memoria  del  redattore-capo 
della  Smuova  Antologia  la  Bi 
blioteca  UflSciali  della  R.  Nave 
«  Giulio  Cesare  » 

Amalia  e  Giustino  di  Valmarana 

Comm.  Corrado  Ricci 

Umberto  Tesone  .     . 

Annamaria  .... 

F.  T 


Dott.  Max  Ascoli  .  .  . 
Aw.  Eugenio  Artom  . 
Insegnanti  Scuola  Comun 

gina  Elena  >  .  .  .  . 
Maria  Pia  d'Ormea.  . 
Famiglia  Preda    .    .    , 

D.  B 

S.  S 


Dott. -Libero  Collenz 
Adolfo  Apolloni    .     .     . 
Carlo  Franellich  .    .    . 
Luciana,  Marcella  e  Ciupi 
E.  T.  in  memoria  di  persona  cara 
Prof.  Giovanni  Jannone 


•  Re 


I—       N.  N. 


Raccolte  alla  Banca  Commer 
ciale  (sede  di  Roma)  dal  ca 
valiere  Silvio  Samoggia  con 
direttore  della-  Banca  stessa 

Edvin  Androvich    .    . 

Prof.  Osvaldo  Polimanti   .     . 

Ada  Ulivi 

Prof.  Nunzio  Vaccalluzzo.    . 

Antonio  Bisogni 

Dal  brigadiere  della  regia  guar 
dia  di  finanza  di  S.  Giustino 

Gaetano  Buoncristiano.    .    . 

Augusto  Mario  Rebucci    .    . 

Ada  Pettini 

Donna  Fanny  Salazar  (2*  off.) 

Francesco  Sapori 

Carlo  Ungarelli 

Maria  Luisa  Fiumi  .... 

Adolfo  Sassi 

L.  e  G.  G.,  in  memoria  del  loro 
figlio  morto  per  la  Patria, 

N.  N.  pubblicista  .... 

Dal  Comitato  di  New  York  del 

r  Italian  Relief  Fuud  of  Ame 

■  rica,  per  mezzo  del  suo  rap 

presentante  comm.  H.  Nelson 

Gay 

Giovanni  Bezzi  di  Taranto 

Zenaide  Bezzi,  id.     .     .     . 

Elena  Possante,  id.  .     .    . 

Famiglia  De  Angelis    .    . 

S.  Bulgari 

Manfredi  Porena  .... 

Personale  della  Tipografia  del 
Senato 

Emilio  Piazza 

G.  Contini 

Emilio  Girardini  .... 

Marchese  Paulucci  De   Calb«li 

On.  Baccelli 

Ersilia  Caetani  Loyatelli 


100- 

100- 

50 

25- 

50- 

20- 

50- 

339 

100- 


25- 
50 

50- 
20- 
10- 

so- 
lco 

100- 

150- 
50- 
50 
10- 
50- 

100- 

100- 
15- 
30- 
10- 
10- 

100- 


369- 
100- 
25- 
10- 
25- 
20- 

10- 
100- 
50- 
50- 
50- 
25- 
25- 


25  — 

10  — 
50  — 


3000- 
10- 
10- 
10- 
30- 
100- 
20- 

137- 

10- 

20- 

20- 

250 

200- 

200- 


104 


Maria  OttaTi 

. 

L 

200- 

Società  Italo-Danese  di  Genova     » 

100- 

On.  Mondello • 

100 

Donna  Sofia  Bertolini .     . 

100- 

Baronessa  De  Marinis  • 

100- 

Ettore  Levi  Della  Vida 

100- 

Raffaele  Simboli  .     .     . 

100 

Mario  Puccini  .... 

100- 

Dott.  Pintor      .... 

100- 

Generale  Barbarich  .     . 

100 

O.  V 

i 

50 

Senatore  Del  Lungo 

50 

Prof.  Luigi  Grilli      .     . 

70 

On.  Indri 

50 

Clerici 

50 

Rossana 

50 

Avv.  Carlo  Giacomelli . 

50 

Michele  De  Benedetti  . 

50 

Coram.  Vitta  Zelman  in  memo- 

ria del  figlio  morto  in  guerra 

50 

Giuseppe  Bruguier    .... 

50 

Marchese  Filippo  Crispolti 

50 

Bambini  Trasselli  -  Palermo 

) 

50 

Comm.  Fea 

50 

Marino  Marin 

50 

Attilio  Parazzoli  ...     .     . 

25 

Capitano  Emilio  Palàris  . 

25 

Filelfo  Foghetti    .     ,    ,     , 

25 

Tenente  Colonnello  Roluti 

20 

Antonio  Zardo      .... 

20 

Avv.  Francesco  Calvanese 

20 

Dott.  Vincenzo  Scoccia    . 

15 

Teodosio  Fiorenzi     .     .     . 

10 

Gaetano   Perugini     .     .     . 

10 

Dott.  Gino  Francesco  Gobb 

10 

Dott.  Antonio  Monti     .     . 

10 

Angiolo  Cabrini    .... 

10 

Maggiore  P.  Martorelli     . 

10 

Anna  Angelucci   .... 

5 

Prof.  Barbord 

5 

Elena  di  Majo 

50 

Società  Dante  Alighieri  dell' 

Àjì 

50 

R.  R.  da  Ancona  .... 

10 

Vittorio  Foschini      .     ,     . 

52 

Famiglia  Beriggi      .     .     . 

25 

I  piccoli   Lorenzino,    Gabrielli 

Ugo  per  il  Natale   dei  barn 
bini  Balducci 

.      .         20 

Petrucci  e  Ceccarelli    . 

. 

50 

Prof.  Felice  Momigliano.  .  .  L.  15  — 
Professori  del  R  Liceo  •  Ennio 
Quirino  Visconti  »  CProf.  Tri- 
nani  Carlo  L.  30-  Prof.  Leo- 
nardi Luigi,  L.  63:  Prof.  Cac- 
cialanza  Filippo,  65;  Prof.ssa 
Bicchierai  Olga,  L.  65;  Prof. 

Micheletti  Carlo  L.  30     .     .      .  253  — 
Regia  Università  degli  studi  di 

Roma 100  — 

Prof.  Raffaello  Onorato  Lastella     »  5  — 

G.  U 5  — 

Quirico  e  Luisa  Pellizza  ...»  50  — 

A.  L.  da  Biccari »  5  — 

Avv.  Prof.  Alessandro  Levi .    .      •  100  — 

Prof.  Vittorio  Rossi.     .     .     .     •     .  50  — 

«  Circolo  Marchigiano  »    ...»  200  — 

Comm.  Novi  Lena  Giuseppe    .     »  10  — 

S.  D 50  — 

Associazione  della  Stampa  Emi- 
liana, Bologna     .....      >  600  — 

A.  B »  15  — 

Prof.  Jolanda  Balboni 50  — 

Tommaso  Spadavecchia,  Mol- 
fetta,  fra  amici  frequentato- 
ri della  sua  Libreria    ...»  50  — 

Rosa  De  Marco »  50  — 

Adriana  Paucaer 50  — 

Prof.  Spezia  Pio »  10  — 

M.  N •  10- 

Amalia  Rossi  Merighi ....     »  10  — 

Lolò 50  — 

N.  N.  da  Bari 10  — 

N.  N.  da  Firenze »  5  — 

Raccolte   alla  Cassa  Nazionale 

per  le  Assicurazioni   sociali      »  1028.50 

Avv.  Giuseppe  Nielli  Panna     .      »  50  — 

Silvio  Cavazzuti »  20  — 

I  piccoli  Mario  e  Vittorio  Gian- 

nuzzi »  20  — 

Ugo  Fleres 20  — 

Cav.  Giuseppe  Visalli  ....     »  20  — 

Adalgisa  Persico »  25  — 

Operai  Tipografia  Courrier            »  125  — 
Direttori,   Professori  e    Alunni 

del  Collegio  Internazionale.     »  1008  — 

Nino  Angelucci •  20  — 

Michele  Cialdea    ....•.»  5  — 


Ugo  MbSSINI.  JSe«pon9aM« 


Bonn»  —  DItt»  Ann»nl  di  Mario  Ooani«r. 


LA    SANFELICE; 


POEMA    TRAGICO 


ATTO  SECONDO 

Sala  da  ricevimento  nel  palazzo  Sanfelice.  .Un  uscio  in  fondo  dà  nell'anti- 
camera, un  altro  a  destra  nell'appartamento  di  Luisa.  A  sinistra  è  una  fine- 
stra socchiusa.  I  mobili,  le  tende,  i  vasi,  gli  arredi  sono  in  istile  del  Direttorio. 


SCENA  PRIMA. 

Ritti  0  sediUi  qua  e  là  per  la  sala  conversano  Domenico  Cirillo^ 
Ettore  Carafa  conte  di  Ruvo,  Eleonora  Fonseca  Ppmentel,  donna 
GitUia  Carafa  duchessa  di  Cassano,  donna  Marianionia  Carafa 
duchessa  di  Popoli,  Luisa  Sanfelice  e,  un  po'  appartati  dagli 
altri,  Ferìumdo  Ferri  e  V abate  Altobello. 


La  Cassano. 

Qual  è  il  numero  giusto  delle  navi 
Neanidie? 

Il  Ruvo. 

Quelle  entrate  ieri  nel  golfo 
Son  dieci,  e  tutte  inglesi;  ma  stamane 
Ne  sono  state  segnalate  ancóra 
Cinque  tra  Ischia  e  Procida, 


La  PIMENTE3L. 


E  Franceeco 


Caracciolo  che  fa? 


Il  Ruvo. 


Rauna  a  furia 

La  scarsa  flotta,  come  può.  L'ho  visto 
Io,  girare  sul  molo  e  stimolare 
Ad  arrolarsi  i  marinai,  pregando, 
Minacciando,  piangendo.  Era  una  voce 
Gonfia  i^'aff anno  e  di  speranza,  infusa 
D'ira  e  di  tenerezza;  e  dal  suo  labbro 
L'anima  della  patria  urlava  tutta! 

Voi.   (XJXVI,  eerie  VI  —  16   gennak>  1922. 


106  la  sanfelice 

Luisa 
{battendo  le  mani) 

Ah  comfè  bello,  ciò! 

Il  Ferri. 

Sì,  per  la  moetra 
Sarà  bello,  non  dico.  —  Egli  è  ohe  noi 
Ci  teniamo  troppo  della  forma; 
Siamo  artisti  tutti,  e  insomnia  avremo 
Fondato  una  repubblica  di  sogno, 
Pia,  giusta,  umanitaria,  ma  non  buona 
Cerio  da  strangolar  con  le  possenti 
Dita  la  belva  della  tirannia. 
Ah  ah!  frignare  in  piazza  con  su  gli  occhi 

I  lucciconi,  per  trovar  soldati!... 
Ma  si  decreti  la  leva,  la  leva 

In  piassa,  tutto  il  popolo,  anche  i  bimbi, 
Anche  i  vecchi!...  Su,  vili!  Difendete 
La  patria  vostra!  avanti  tutti,  a  colpi 
Di  calcio  di  moschetto!  E  se  qualcuno 
Rimane  a  dietro,  fucilato!... 

D.  Cirillo. 

A  tale 
Patto,  non  credo,  cittadino  Ferri, 
Che  francasse  la  spesa  di  scrollare 

II  giogo  di  Tiberio. 

Il  Ferri. 

Eh  sì!...  ma  intanto 
È  a  Precida,  Tiberio,  e  le  sue  navi 
Avviluppano  Napoli  d'un  cerchio 
Di  fiamme.  Il  cardinal  Fabrizio  Ruffo 
Sale  per  le  Calabrie  incendiando. 
Saccheggiando,  uccidendo;  altri  soldati 
E  altre  navi  muovono  su  noi 
Di  Russia,  d'Austria,  fino  di  Turchia. 
Noi,  soli;  senza  denari  né  armi; 
Col  nemico  alle  porte;  anco  tra  poco 
Abbandonati  dalla  Francia:  or  dunque. 
Che  far  si  può? 

Il  Ruvo. 

Morirei 

Il  Ferri. 

Ecco!  la  frase, 
Il  bel  gesto;  né  avete  piìi  bisogno 
D'altro:  a  voi  basta!  Cittadino... 


la  sanfelice  107 

Il  Ruvo. 

Conte 
Di  Ruvo,  signor  mio!  Son  cordiale 
Repubblicano;  ma  non  ho  motivo 
Di  rinnegare  un  titolo  che  attesta 
La  virt\>  de'  miei  padri.  E,  per  l'esempio, 
Vuol  dir  qualcosa  che,  dietro  condanna 
Di  Ferdinando  di  Borbone,  salga 
Sul  palco  infame  io,  Ettore  Garafa 
Conte  di  Ruvo! 

La  Pimextel. 

E  non  già  solo!  È  il  nostro 
Supremo  orgoglio  questo  strazio  infame  * 

Della  nostra  repubblica!  Sì,  vinta! 
Sì,  oppressa!  sì,  colpita  al  cuore!  Ebbene: 
Più  santa,  o  patria!...  E  se  vittoriosa 
Noi  ti  glorificammo,  ora  in  ginocchi 
T'adoriamo  agonizzante,  o  madre! 
E  sfideremo  per  te  a  fronte  alta 
I  carnefici  tuoi!...  Conte  di  Ruvo, 
Vi  do  conv^no  su  la  ghigliottina! 

{Gli  stringe  la  mano). 

Luisa 
{abbracciando  la  Pimentel) 

Eleonora  mia,  no,  tu  non  devi 
Morire!  E  io?...  e  io?... -la  tua  sorella 
Piccola?...  Io  voglio  tiiorire  con  te, 
Eleonora! 

D.  Cirillo 
{a  Ltàsa) 

Su,  cara  bambina. 
Non  v'affliggete.  Viviamo  in  tempi 
Perversi,  è  vero,  e  ciascuno  dee  sempre 
Tenersi  apparecchiato  a  ogni  capriccio 
Della  fortuna;  ma  non  è  poi  certo 
Che  la  nostra  valente  Eleonora 
Abbia  a  morire,  come  afferma.  Forse 
Potremo  ancóra  vincere;  potremo 
Anco  saperci  difendere  in  guisa 
Da  dettar  patti  al  vincitore:  salva 
La  vita  a  tutti,  per  esempio.  E  questa 
Vostra  sorella  grande,  come  voi 
Dite,  viene  a  Parigi,  ove  da  un  pezzo 
Mi  propongo  d'andare  a  ritrovare 
L'illustre  amico  mio  dottor  Broussais, 
E  là  si  fa  conoscere,  e  diventa 
Come  inadama  di  Staèl. 


108  la  sanfelice 

L'Altobello 
{a  Luisa,  beffardh) 

Ed  a  voi 
Manda  una  bella  bambola  col  capo 
,       Pieno  di  vento,  come  .ara  usa  in  Francia. 


SGENA  II. 

I  PRECEDENTI,   BRUTO  e  il  GENERALE  MANTHONÉ. 

Bruto 
{armimziando) 
Il  cittadino  Manthoné. 

Il  Manthoné. 

Salute, 
Cittadini! 

Tutti. 

Salute,  generale! 

Il  Manthoné. 

Donna  Luisa,  buona  sera!...  Cerco 
Fra  g-rinvitati  vostri  il  cittadino 
Ministro  dell'interno. 

D.  Cirillo. 

Per  affari 
Di  Stato? 

Il  Manthoné. 
Sì,  gravi,  assai  gravi. 

Luisa. 

Ebbene, 
Generale:  a  quest'ora  don  Francesco 
Conforti  è  a  confessare  le  sue  buone 
Monache  di  sant'Anna. 

Il  Manthoné 
{con  amarezza) 

E  nel  frattempo 
Nàpoli  pende  sotto  la  minaccia 
D'una  congiura  spaventosa. 

Tutti. 

Quale? 


la  sanfelice  109 

Voci  dalla  via 
{coTitando) 

«  Facite  bene  e  camiciotte  : 
Vennerdì  sentirite  e  botte  » . 

Il  Manthoné. 

Udite?  E  noi  non  sappiamo  nulla! 
Non  possiamo  nulla!  Le  Unioni 
Realiste  cospirano,  d'accordo 
Con  le  navi  nemiche,  alla  rovina 
Della  patria... 

Il  Ferri 
{jproTompendo) 

Arrestate  tutt'i  capi 
Delle  Unioni,  sùbito! 

Il  Manthoné. 

Ma  forse 
Che  li  conosco?.,.  Qualcheduno  avea 
Promesso  di  scovarmeli... 

{Fissando  VAltobeCló). 

L'Altobello 
{tortuoso  ed  ambiguo) 

Conviene 
Andare  a  letto,  generale...  Dico, 
Una  presa? 

{Gli  offre  la  tabacchiera) 
Sì,  dico:  il  sonno  è  sempre 
Buono;  salvo  che  l'ultimo,  s'intende. 
Elh,  eh!  per  altro,  dormir  con  un  occhio 
Solo,  è  prudenza:  ci  si  vede  meglio 
Che  desti  e  con  entrambi  gli  occhi...  Poi, 
Forse  tutto  è  fandonia... 

Il  Manthoné 
{accostandosi  alVAltobellOy  con  voce  sommessa) 

Avete  qualche 
Idea? 

L'Altobello 

{a  volta  a  volta  alzando  e  abbassando  la  voce) 

Peuh!  chi  lo  sa?  Ne  avevo  una 

—  Dite  al  Ferri  d'attendere  qui  sotto  — 
Ma  me  la  deve  aver  mangiata  un  tarlo! 

—  Andate  via,  con  gli  altri...  —  Generale, 
È  più  agevole  assai  trovare  un  papa 

Che  un'idea,  ve  lo  giuro. 


110  la  sanfelice 

Il  Manthoné. 

Abate  mio, 
Voi  delirate  dal  sonno.  Signori, 
Chi  viene? 

Tutti. 
Tuttil 

Il  Manthoné 

(a  Lmsa) 
Buona  notte,  donna 

La  Pimentel 
{abbracciando  Luisa) 

Cara,  a  domattina! 

Gli  altri. 

Addio, 


Luisa! 


Cittadina! 


Luisa. 


Buon  sonno!  Buon  riposo 
A  tutti!...  Abate,  e  anche  a  voi!... 

L'Altobello. 

Fo  strada 
Con  gli  altri,  amica  dolce...  Ah,  caso  mai... 
Dico,  son  sempre  il  vostro  servo... 

Luisa. 

Grazie! 
{Escono  tutti  fìwrchè  Lmsa). 


SCENA  III. 

Luisa,  dopo  avere  spiato  lungamente  la  partenza  degl'invitati, 
apre  cautamente  la  porta  di  destra,  e  lascia  il  passo  a  Gerardo. 

Luisa. 
Bel  capitano,  che  cosa  avevate 
Di  sì  'ppeesantte  da  dirmi? 

Gerardo. 

Luisa, 
Son  tutti  andati  via? 


la  sanfelice  111 

Luisa. 

Tutti.  Ma  voi 
Siete  stravolto  in  faccia:  che  c'è  egli?... 
Non  mi  fate  paura!... 

Gerardo. 

Una  parola, 
Luisa,  e  fug^p...  I  minuti  mi  sono 
Contati. 

Luisa. 
Dite,  dite  presto! 

Gerardo 
[va  ad  aprire  Fuscio  del  fondo,  guarda,  poi  lo  richiude  a  chiave) 

L'alba 
Di  domam  sarà,  Luisa  mia, 
Una  sanguigna  alba  di  morte.  Ignoro 
S'io  potrò  esser  qui,  come  vorrei 
Con  tutta,  tutta  l'anima.  Per  altro 
Ho  provveduto.  Non  avete  dunque 
A  temere  di  nulla.  In  o^  caso. 
Prendete  questo  cartellino.  Basta 
Mostrarlo  a  chi  ve  ne  chiedesse. 

{Le  dà  un  cartellino  bianco) 
E  ora 
Addio,  Luisa.  Com^  v'amo!...  Alcuno 
Non  sappia  quello  che  v'ho  detto  :  è  rischio 
Di  vita!... 

{Muove  per  uscire). 

Luisa. 

No,  non  ve  n'andate!...  Come?... 

Io  non  intendo  nulla...  Che  è  mai 
Questo  segreto  orràbile?...  Gerardo, 
Ditemi  tutto! 

Gerardo. 
Non  ho  tempo! 

Luisa. 

Ah!...  forse 
La  congiura?... 

Gerardo. 

Chi,  chi  v'ha  detto?... 

\ 

Luisa. 

È  questo?... 
È  questo?... 


112  la  sanfelice 

Gerardo. 
No;  lasciatemi! 

Luisa. 

Mio  caro 
Gerardo,  ve  n©  supplico! 

Gerardo. 

Non  devo!... 
Non  posso!... 

Luisa. 

E  allora...  riprendete  dunque 
Il  vostro  dono!  Eg^li  mi  scotta  come 
Brace  di  fuocol 

Gerardo. 

È  la  vostra  salvezza 
Quella  carta...  e  la  mia!  Come  potrei 

Vivere... 

« 

Luisa. 
Riprendetela,  vi  dico! 

Gerardo 
[fuggendo) 
Luisa  mia!...  ci  rivedremo!  Amore! 

{Apre  ia  porta  per  uscire,  e  si  trova  faccia  a  faccia  con  V Alto- 
bello  e  il  Ferri.  Lidsa  nasconde  il  cartellino  nel  petto,  e  cade 
sfinita  sur  un  canapè). 

SCENA  IV. 
Luisa,  Gerardo,  TAltobello  e  il  Ferri. 

L'Altobello. 

Guarda  ohi  si  rivede!  Ve  n'andate, 
Capitano? 

Gerardo 

[tornando  indietro  e  simtUando  di  baciar  la  mano  a  Luisa,  con  voce 
soffocata  e  vibrante) 

Luisa,  avete  in  pugno 
La  vita  di  dieci  uomini  —  e  la  mia! 

[Esce  senza  salutar  gli  altri  due). 


LA  SANFELICE  113 

SGENA  V. 
Luisa,  I'Altobello  e  il  Ferri. 

Luisa 

[rizzandosi  con  grande  esaltazione) 

Ancóra  qui,  signori?  Io  vi  credevo 
A  casa  vostra.  Che  volete?  Come 
Entraste  qui?  Ma  dunque  io  son  ridotta 
Peggio  d'una  baldracca  a  cui  chiunque 
Capita,  senza  chiedere  licenza? 

Il  Ferri. 

Perdóno,  cittadina:  le  rampogne 
Vostre  non  sono  giuste.  Bruto,  il  probo 
Domestico,  ci  stava  annunziando, 
Quando  s'aiprì  la  porta... 

Luisa. 

Sì,  va  bene... 
Ditemi  che  volete!...  Ho  sonno...  Spero 
Che  potrò  andare  a  letto,  eh?  abate,  quando     , 
Mi  piaccia... 

L'Altobello. 

No,  donna  Luisa!  Proprio 
A  letto  non  andrete... 

Luisa. 

Ah!  lo  sapevo 
Io!  Schiava,  non  è  vero?...  Peggio 
Che  schiava...  cosa! 

*  L'Altobello. 

Siete,  salvo  errore, 
Un  po'  strana,  stasera...  Udite  prima, 
E  poi  giudicherete.  Il  generale 
Manthoné,  ricordate?  ha  fatto  cenno 
D'una  congiura  realista  contro 
La  novella  Repubblica.  Stavolta 
Ha  imbroccato,  purtroppo!...  La  congiura 
Esiste. 

Luisa. 
Esiste,  dite?... 

L'Altobello. 

E  se  n'udrà 
Presto  lo  scoppio.  Già  gli  usci  di  casa 
De'  patrioti  più  famosi  sono 
Segnati  d'una  bella  croce  nera. 
Anche  il  nostro... 


114  la  sanfelicb 

Luisa. 
Anche  il  nostro?... 

L'Altobello. 

Or  come  voi 
Foste  affidata  a  me,  cara  Luisa., 
Dal  cavalieiT  vostro  marito,  io  sono 
Sfegatato  de'  fatti  vostri,  e  credo 
Obbligo  mio  dii  sottrarvi  alla  morte 
Che  vi  sovrasta. 

Luisa. 
A  me?... 

L'Altobello. 

Sembrate  come 
Trasognata.  A  voi,  già!...  Chi  dunque,  appena 
Mezz'ora  a  dietro  aveva  in  casa  il  fiore 
Del  civismo  di  Napoli?...  Ora  a  me. 
Sicuro,  può  rincrescere  che  il  conte 
Di  Ruvo  o  quel  buon  uomo  del  Cirillo 
O,  più,  la  nostra  ardente  poetessa 
Eleonora  Pimentel,  che  v'ama 
Con  passione,  spenzoli  domani 
0  doman  l'altro  col  cappio  alla  gola... 

Luisa. 
Ah  ohe  orrore!... 

L'Altobello. 

Ma  voi,  figliuola  dolce. 
No,  proprio  no!...  Ne  va  dell'onor  mio. 
Bella  guardia  avrei  fatta  alla  compagna 
Dell'amico  lontano! 

Luisa. 
E  che  dovrei 

L'Altobello. 


nisolvere? 


Fuggire.  Una  paranza 
Offerta,  qui,  dal  cittadino  Ferri, 
Gì  mena  dritto  a  Procida,  ove  forse 
Vostro  marito  è  presso  il  re.  Vedrete, 
Tutto  s'aggiusterà. 


Eleonora? 


Luisa. 

Parte  ella  pure 


la  sanfelice  115 

L'Altobello. 

Fate  celia?  Quella 
È  ccHiiprocnessa  ornai  :  se  non  foss'altro 
Basterebbe  quel  suo  facinoroso 
Giornale  «Il  Monitore»!  E  poi,  già,  lei 
Fa  l'eroina  di  professione  : 
È  un'altra  cosa,  via! 

Luisa.  "^ 

Bene,  rimarco 
Anch'io!...  Voglio  la  mia  parte  de'  vostri 
Motteggi  anch'io!...  Sì!  anch'io,  anch'io,  anch'io 
Fo  l'eroina  di  professione. 
Abate! 

L'Altobello. 

Ah  ah!...  Mi  spiace.  In  o^i  caso. 
Voi  su  la  forca,  no!  Dunque  io  mi  reco 
Di  questo  passo  da  quel  sacripante 
Del  capitano  Baccher  a  pr^arlo 
Che  vi  protegga  lui. 

Luisa. 

Volete  a  forza 
Farmi  impazzire?...  Eleonora!...  mia 
Eleonora!...  E  se  ci  fosse  il  mezzo 
Di  sventar  la  congiura? 

'  Il  Ferri. 

Ebbene,  dite. 
Dite  quel  mezzo  ! . . . 

Lui^A. 
Ma  non  posso  io  dirlo!... 

Non  posso!... 

L'Altobello. 

Eh,  poco  male!  In  fin  de'  fini, 
Che  importa  a  voi  che  quella  vostra  amica 
Fanatica  —  s'intende,  ognun  per  sé 
E  Dio  per  tutti  —  abbia  a  salire  i  gradi 
Del  patibolo,  scalza,  in  grigia  veste 
Di  saja,  raso  il  crine,  con  i  polsi' 
Legati,  fra  gli  oltraggi  della  plebe 
Ruttante  vino  e  le  dimestichezze 
Immonde  del  carnefice? 

Luisa. 

Demonio!... 
Ohe  vuoi  da  me?...  Via!  via!  via!  via!...  No...  ecco...' 


116  LA  SANFELICE 

Domani...  sì...  domani  all'alba...  forse... 

La  congiura...  Ah,  che  faccio?... 

(Cade  a  tefgra  ginocchicmi  e  scoppia  in  singhiozzi) 

0  Madre  santa 
Del  buon  consiglio,  ispiratemi  voi! 

Il  Ferri. 

Cittadina  Luisa  Sanf elice, 

Voi  siete  una  cattiva  patriota. 

Il  vostro  stesso  rimorso  v'accusa! 

Voi  conoscete  le  nefande  trame 

De'  traditori  :  non  voglio  per  ora 

Creder  che  teniate  anco  di  mano 

All'odioso  tentativo.  Dunque 

Stasera  avete  raunato  in  casa  • 

Vostra  tanti  ins.igni  uomini  e  le  donne 

Più  generose,  quelle  due  Carafa, 

Le  madri  della  patria,  e  quella  bella, 

Nobile,  ardimentosa  Eleonora, 

Che  chiamavate  sorella,  pe  '1  gusto 

Di  consegnarle  alla  vendetta  altrui?... 

E  quel  Gerardo  Baccher,  quello  sgherro 

Del  dispotismo,  era  qui  rimpiattato 

Per  far  la  lista  della  ghigliottina?... 

Luisa. 

Ma  io  non  so...  non  so...  vi  giuro!...  Anch'io 
Questa  congiura  dell'inferno  aborro!... 
M'è  parso  solo  intendere  che  all'alba 
'  Di  domani...  Oh!...  oh!...  oh!...  pietà!...  Ma  sono 

Innocente,  io!...  (ma  sono  donna,  io!... 


\ 


Il  Ferri. 

È  tutto?  Or  bene!  Forse  non  avremo 
Tempo  d'agire,  più.  Traditi!  oppressi! 
Giustiziati!   Ma  sapranno  tutti. 
Lo  sdegnoso  saprà  conte  di  Ruvo, 
Sapranno  le  Carafa  oneste  e  grandi, 
Che  v'onoraron  di  lor  tenerezza... 

*    Luisa. 
Ah  noi... 

Il  Ferri. 

...  Saprà  Domenico  Cirillo, 
Spirito  probo,  candido  ed  austero. 
Saprà  la  vostra  Eleonora,  a  cui 
Gittavate  le  braccia  intomo  al  collo 
Forse  per  far  la  prova  del  capestro... 


Questo 


la  sanfelice  117 

Luisa. 

Ah  no!... 

Il  Ferm. 

Sapranno  tutti,  tutti,  tutti! 
Che  gli  avete,  voi,  dati  alla  balìa 
Del  manigoldo,  e  che  la  moribonda 
Patria  voi  stessa  finiste  con  quelle 
Vostre  pallide  mani!... 

Luisa. 

Ah  no!...  non  voglio! 

Il  Ferri. 

E  quando  saliremo  a  uno  a  uno 

Sul  palco  del  martirio,  e  dallo  spiazzo 

Voi  scruterete  trionfante... 

Luisa. 

Basta!... 
{Smarrita,  fuor  di  sé,  tende  il  cartellino  al  Ferri) 
Prendete...  È  tutto  quel  che  ho!... 

{Cade  in  terra  tramortita). 

Il  Ferri 
{leggendo  il  cartellino) 

Disegna 
Correr  subito!  Qui  ci  son  tre  firme 
Preziose.  Vedremo  se  stavolta 
Staranno  pur  su  le  pietosarie! 

{Esce  a  furia). 


SCENA  VI. 
L'Altobello  e  Luisa  svenuta. 

L'Altobello 
{mirando  la  giacente) 

Bella  da  far  dannare!  Anche  piìi  bella 
Così,  riversa  in  terra,  senza  guardo. 
Dolce  come  una  morta! 

{Si  china  per  toccarla) 
No:  rimiene, 
Eki  è  rotto  l'incanto...  Or  io  potrei 
Illudermi  che  m'ami...  Ecco,  m'ha  dato 
Tutt'i  suoi  baci,  e  sussultante  ancóra 
Giace,  ma  sazia  e  lassa,  al  fianco  mio!... 
Su,  su,  su,  bajel...  Aver  in  petto  un  mondo; 


US  LA  SANFELICE 

Sentirsi  sopra  ad  ogni  legge,  ad  ogni 

Morale  della  folla;  essere  solo, 

Uno,  colui  che  vuole  e  può;  sapersi 

Nato  con  pugno  da  dominatore, 

E  perder  tutto  per  un  po'  di  biondo 

E  bianco!...  Oh  degradazione!...  Egli,  egli 

Dee  morire...  Poi...  sì!...  La  donna  è  tanto 

Volubile!... 

Luisa 
[tornando  in  sé) 

Gerardo! 

L'Altobello. 

Amica  mia. 
Siete  qui.  Come  state? 

Luisa. 

Ah!...  non  fu  sogno!.. 
Etov'è?  dov'è? 

L'Altobello. 

Luisa,  non  volete 
Salvarlo? 

Luisa. 
Chi? 

L'Altobello. 
Gerardo. 


Pericolo? 


Luisa. 

Ei  corre  dunque 


L'Altobello. 
Di  vita. 

Luisa. 

Ah!  lo  sapevo. 
Sciagurata  che  fui!... 

L'Altobello. 

Potete  ancóra 
Salvarlo. 

Luisa. 
Come? 


la  sanfelice  119 

L'Altobello. 

Volate  a  cercarlo; 
Nascondetelo  qui.  Domani  voi 
Sarete  predicata  salvatrice  * 

Della  patria.  E  a  ninno  salterà 
Il  grillo  di  cercar  qui  proprio,  in  casa 
Vostra,  colui  che  voi  romanamente 
Denunziaste. 

Luisa. 
,  Io,  lo  denunziai?... 

L'Altobello. 
Ma  fate  presto,  o  egli  è  perduto. 

Luisa. 

È  vero... 
Grazie!...  La  mia  mantiglia...  il  mio  cappello... 
M'aspetterete  qui? 

L'Altobello. 

Come  vi  piace. 
{Luisa  esce  dalla  porta  del  fondo). 

SCENA  VII. 

L'Altobello 

{solo) 

{Cava  una  presa  dalla  tabacchiera,  seguendo  la  donna  con  gli 
■occhi,  e  richiude  la  porta  onde  quella  è  passata). 

La  volpe  è  assicurata  alla  tagliola. 

Cade  la  tela. 
{Continua). 

G.  A.  Cesareo. 

(Proprietà   letteraria:    tutti   i  diritti   riservati). 


LETTERE  A  MIO  PADRE  DALL'AMERICA 

(1866-1867) 


Boston,  23  dicembre  1866. 

Sono  in  America  da  tre  giorni  e  ho  già  ricevuto  tante  cortesie 
fui  accolto  con  tale  cordialità  da  rendermi  entusiasta  di  questo  Nuovo 
Mondo.  Anche  il  sole  venne  a  darmi  uno  splendido  benvenuto.  Dopo 
una  tempestosa  traversata  nell'Atlantico,  mentre  ima  fitta  nebbia  ob- 
bligava il  Giava  a  fermarsi  parecchie  ore  fuori  della  baja  di  Boston, 
una  Fata  benefica  strappò  d'un  tratto  il  velo  dal  panorama  della  città 
e  del  porto.  La  baja  è  seminata  di  collages,  di  fari,  di  segnali;  scogli 
in  giro  di  forme  bizzarre  la  rendono  assai  pittoresca;  nel  fondo  sta  il 
porto  di  strettissima  imboccatura  difeso  da  due  forti.  Della  città  si 
scorgono  solo  le  prime  case,  le  torri  e  la  cupola  della  State  house. 
Dopo  la  visita  della  Dogana,  passata  con  scrupolosità  meticolosa,  mi 
avvìo  all'Hotel. 

Subito  mi  accorgo  di  essere  in  un  paese  diverso  dalla  nostra  vec- 
chia Europa  :  le  vie  sono  solcate  da  rotaje  su  cui  scorrono  enormi  car- 
rozzoni, tirati  da  cavalli,  che  rimpiazzano  i  nostri  omnibus:  i  bracci 
di  mare  e  i  fiumi  si  attraversano  su  ferry  boals,  capaci  di  trasportar 
vagoni  ferroviari  e  mossi  dal  vapore,  che  -tengon  luogo  dei  nostri  mo- 
desti traghetti  :  carrozze  e  slitte  sì  leggiere  che  paiono  fatte  di  fil  di 
ferro,  e  finimenti  ai  cavalli  di  una  semplicità  sorprendente.  Scendo 
all'Hotel  Parker,  una  città  in  miniatura:  il  convegno  dei  forestieri  e 
dei  cittadini.  Al  pianterreno,  oltre  le  sale  e  i  restaurants,  botteghe 
ove  si  trova  da  rifornirsi  di  quanto  occorre,  lì  cibo  nazionale  direi 
che  è  l'ostrica:  ve  n'ha  di  ogni  dimensione  e  sono  preparate  in  zuppa, 
in  frittura,  in  insalata,  in  quaranta  maniere  diverse,  m'insegna  una 
padrona  di  casa. 

Boston,  25  dioembre  1866. 

I  cognati  di  Mr.  Timiens  (1),  Martin  Brimmer  e  Mr.  Perkins  e  le 
sue  sorelle,  mi  .accolsero  come  una  vecchia  cxDnoscenza.  L'altro  giorno 
fu  Mr.  Perkins,  che  dopo  avermi  presentato  al  Sommerset  Club,  e 
fatto  colazione  colà,  mi  guidò  nei  deliziosi  dintorni  della  città.  l\ 
giorno  appresso  Mr.  Brimmer  mi  condusse  a  Cambridge  a  visitare  il 
Collegio  di  Harvard  dove  inscrissi  il  mio  nome  dopo  quello  di  Grant 

(1)  Mr.  Timens,  un  gentiluomo  imparentato  alle  più  distinte  famiglie  di 
Boston,  avendo  sposato  una  milanese,  si  era  stabilito  n  Sfilano. 


V  LETTERE  A   -MIO   PADRE  DALL'AMERICA  ITÌI 

e  del  Principe  di  Galles.  Al  ritomo  sostammo  all'Union  Club,  di  ori- 
gine politica.  Fu  fondato  5  anni  or  sono.  La  città  di  Boston,  prima 
della  guerra,  era  divisa  anch'essa,  come  *le  altre  città  del  Nord,  in 
fautori  dell'azione  bellica  e  in  avversari.  I  primi,  i  repubblicani  avan- 
zati, per  contarsi  e  per  discutere  liberamente,  decisero  di  fondare  un 
Club,  esclusivamente  di  membri  del  loro  partito.  Il  concorso  fu  straor- 
dinario; l'apertura  di  questo  circolo  produsse  una  profonda  impres- 
sione nella  cittadinanza  che  vide  le  personalità  piìi  influenti,  sena- 
tor  Summer  alla  t€sta,  farsi  socie  dell'Union.  Questo  fatto  diede  vinta 
in  Boston  la  causa  al  partito  antischiavista.  Ora  non  ha  più  un  co- 
lore politico  pronunciato;  però  i  soci  in  generale  parteggiano  per  il 
Congresso,  il  quale  pretende  che  i  vinti  sudisti  si  sottomettano  rigo- 
rosamente ai  patti  imposti  dai  vincitori;  mentre  negli  altri  circoli  vi 
è  buon  numero  di  fautori  del  Presidente  Johson,  che  ha  un  debole 
per  gli  schiavisti,  e  vuol  mandare  ad  effetto  un  suo  piano  di  concilia- 
zione. Le  radicali  divergenze  fra  il  Presidente  e  il  Congresso  for- 
mano il  tema  di  ogni  discussione.  Ho  però  constatato  un  fatto  :  che 
oltre  la  questione  nazionale  la  nostra  italiana  occupa  pure  le  meiatf 
degli  Yankees.  «  Che  cosa  avverrà  del  Papa?  »,  chiedono  ansiosamente 
la  gente  e  la  stampa.  Poco  credono  alla  possibilità  di  accordo  fra 
Roma  e  Firenze  e  io  li  confermo  nel  loro  parere.  Nello  stesso  te'mpcf 
ritengono  sia  difficile  mantenere^un  Papa  senza  Reame. 

La  maggior  parte  dei  miei  interlocutori  conosce  Roma,  e  ha  la 
persuasione  che  il  prete  vi  abbia  un  gran  potere.  «  Prendetevi  il  Pon- 
tefice qui  in  America  »,  dico  io  scherzando.  «  Se  vuol  venire  buon 
padrone,  qui  c'è  posto  per  tutti,  anche  per  chi  rappresenta  le  id^e 
più  balzane  ».  Mi  assalgono  poi  di  domande  sul  meccanismo  dei  par- 
titi in  Italia,  pur  mostrandosi  ben  al  corrente  dei  fatti  nostri. 

Gran  pranzo  jersera  in  casa  Brimmer.  Alla  mia  bella  ed  elegan- 
tissima vicina,  che  sa  di  latino  e  d'italiano,  espressi  la  mia  mera- 
viglia per  essersi  l'anfitrione  scusato  con  me  di  non  aver  invitato  ra- 
gazze alle  quali  avrei  potuto  fare  la  corte,  mentre,  io  aggiunsi,  sarei 
dispostissimo  a  farla  anche  a  una  signora.  Ma  essa  molto  seriamente 
mi  rispose  che  è  verissimo  quanto  si  racconta,  cioè  che  le  Americane 
una  volta  maritate  rinunciano  alle  pazze  gioie  della  gioventù.  La 
vita  che  menano  in  Europa  le  signore  qui  la  fanno  le  ragazze  e  vice- 
versa. Sarà  poi  dav-vero  così? 

Dopo  pranzo,  rimasti  soli  gli  uomini,  si  discorse  di  politica  e  mi 
si  tempesta  di  domande  intomo  all'Italia,  e  al  suo  avvenire.  Un  com- 
mensale mi  narra  aver  ospitato  Garibaldi  a  Manilla.  Sono  tutti  am- 
miratori di  Garibaldi  e  di  Mazzini.  Sbarcato  di  fresco,  mi  accontento 
comprare  anziché  vendere,  sino  a  quando  mi  sia  orientato  in  que- 
sto amibiente  affatto  nuovo.  ^ 

Boston,  28  dicembre  1866. 

Ho  il  tavolo  ingombro  di  carte  da  visita  e  di  inviti.  La  cortesia 
dei  gentiluomini,  la  gentilezza  delle  signore  è  insuperabile  :  ricevono 
con  la  semplicità  aristocratica  della  vecchia  Inghilterra;  lasciano  an- 
che capire  di  sentirsi  di  una  casta  superiore  a  quella  dei  ricchissimi 
parvenus  di  Nuova  York. 

Q  Voi.   OCXVI,  serie   VI  —  16   gennaio   1922. 


122  LETTERE  A  MIO  PADRE  DALL'AMERICA 

Ieri  andai  al  ricevimento  di  Mrs.  Howes;  questa  gentildonna  di- 
morò a  lungo  in  Italia  e.  mi  nominò  famiglie  milanési  conosciute 
20  anni  or  sono.  È  colta  e  scrive  versi,  ciò  che  qui  non  fa  meraviglia. 
Le  sue  due  vezzose  figliole  seguono  le  orme  della  madre.  V'incontro 
il  poeta  Longfellow,  bella  figura,  dai  capelli  bianchi  spioventi,  col 
quale  m'intrattengo  molto  semplicemente.  Il  vescovo  di  Boston  si 
lagna  che  la  fede  incomincia  a  rilasciarsi  anche  in  questo  paese,  fra 
protestanti,  citati  fino  a  poco  fa  come  bigotti.  Venivo  appunto  dal- 
l'aver  letto  al  Club,  nella  Atlantic  Remie,  un  articolo  su  questo  argo- 
mento, e  il  suo  lamento  non  mi  riesci  nuovo.  Il  Vice-Governatore 
del  Massachusset,  al  quale  avevo  portato  il  giorno  innanzi  una  lettera, 
di  Mazzini  nel  suo  fondaco  di  pellami,  dove  lo  trovai  a\^olto  in  un 
grembiule  di  corame,  mi  propose  una  gita  alla  State  House.  Nella 
conversazione  generale  apprendo  che  l'yacht  Henriette,  di  20  tonnel- 
late, appartenente  all'editore  del  New  York  Herald,  ha  vinto  la 
corsa  sugli  avversari  Heatwing  e  Vesta  attraversando  l'Atlantico  in 
13  giorni  e  22  ore.  La  posta  era  di  60  mila  dollari.  Un  centinaio  di 
bianchi  furono  circondati  e  scalpati  da  il  mila  pelli  rosse. 

Ma  ciò  che  mi  ha  più  soddisfatto,  fu  di  avere  imparato  a  cono- 
scere, per  la  compiacenza  di  un  intervenuto,  l'origine  dei  nomi  Re- 
publicano  e  Democratico,  che  distinguono  i  due  grandi  partiti  degli 
Stati  del  Nord,  e  suonavano  illogici  al  mio  orecchio  europeo.  Sono 
di  antica  data;  anteriori  allo  scoppio  della  guerra.  Gli  abolizionisti 
trasformarono  il  primitivo  loro  appellativo  di  Whig  o  Moderati  in 
quello  di  Republicano;  gli  schiavisti  conservarono,  loro  malgrado,  le 
mutate  circostanze. 

I  Democratici  di  quel  tempo  erano  democratici  nel  vero  senso 
della  parola,  e  volevano  le  libertà  che  l'altro  partito,  detto  allora 
Whig,  ostacolava.  Per  ottenere  l'intento,  il  Democratico  si  intese  con 
gli  Stati  del  Sud,  e  mediante  reciproche  concessioni,  strinse  con  essi 
un'alleanza  che  gli  permise  di  attuare  il  vagheggiato  programma. 
Allorché  le  istituzioni  liberali  diventarono  inoppugnabili  leggi  dello 
Stato,  il  partito  Whig  le  subì  e  si  acquetò.  Ma  quando  si  affacciò  la 
nuova  grande  questione  della  soppressione  della  schiavitù,  e  della 
pretesa  degli  Stati  del  Sud  di  staccarsi  dalla  Confederazione,  i  vec- 
chi Whig  si  ricostituirono  e  formarono  il  partito  dell'Unione,  che 
chiamarono  Repubblicano,  per  dimostrare  che  volevano  a  ogni  cost" 
mantenere  la  Repubblica  unita.  I  vecchi  Democratici,  non  dimen- 
tichi dei  buoni  rapporti  con  gli  Stati  del  Sud,  conservarono  il  nome 
al  partito  che  si  adattava  alla  separazione,  e  voleva  pace,  prima,  du- 
rante, e  dopo  la  guerra,  à  prezzo  di  qualsiasi  transazione. 

Dico  di  proposito  «  dopo  la  guerra»  perchè,  sebbene  sia  finita  la 
lotta  con  le  armi,  ogni  gìomo«sorge  un'occasione  di  conflitto.  L'alta 
Corte,  per  esempio,  sospese,  dichiarandoli  arbitrari,  gli  ordini  dati 
dal  Congresso  ai  generali  che  esercitano  il  potere  militare  negli  Stati 
del  Sud,  di  usare  rigore  intransigente  v^erso  i  ribelli  recalcitranti.  I 
giornali  repubblicani  si  domandano  perchè  il  verdetto  di  nove  giu- 
dici, anzi  cinque  contro  quattro,  deve  prevalere  contro  la  volontà  della 
Nazione,  la  quale  espresse  categoricamente  il  suo  pensiero  eleggendo 
un  sì  gran  numero  di  Repubblic-ani  a  membri  del  Congresso.  Il  pre- 
sidente Johnson  dal  canto  suo  persiste  nell'opera  di  pacificazione  ano- 
dina; riprende  i  ribelli  in  seno  all'Unione,  tirando  un  velo  sul  pas- 


I 


LETTERE  A  MIO  PADRE  DALL'AMERICA  123 

sato,  parificando  i  debiti,  concedendo  amnistie  generali.  Così  ripe- 
teva pochi  giorni  or  sono  a  un  ex  colonnello  del  Sud.  Intanto,  mal- 
grado i  fulmini  del  Congresso,  che  dichiara  nulli  i  pagamenti  fatti 
in  biglietti  di  banca  dei  ribelli,  questi  hanno  ancora  corso  in  alcuni 
Stati;  ancora  leggo  di  vendite  di  negri  al  pubblico  incanto  nel  Mary- 
land. I  miei  amici  protestavano  che  sono  gli  ultimi  aneliti  del  vinto: 
che  gli  schiavi  liberati,  adulti  e  fanciulli,  si  affollano  nelle  scuole 
aperte  dagli  Yanckees  nel  Sud,  e  saranno  presto  in  grado  di  eserci- 
tare i  diritti  di  cittadini.  Citano  con  orgoglio  il  fatto  nuovissimo  e 
unico,  che  nel  prossimo  anno  due  negri  siederanno  nella  Legislatura 
del  Massachusset,  e  furono  eletti  in  una  sezione  dove  votarono  quasi 
solo  bianchi. 

Boston,  30  dicembre  1866. 

Fui  presentato  al  Governatore  del  Massachusset  nella  State  House. 
Questa  sede  del  Congresso  dello  Stato  del  Massachusset  è  troppo  pic- 
cola e  disadatta.  Nella  sala  delle  sedute  vi  sono  certi  scanni  tanto 
incomodi  che  mi  ispirano  pietà  quei  deputati  che  ci  hanno  a  sedere 
su.  In  ampie  vetrine,  insieme  con  altri  cimeli  della  guerra,  sono  con- 
sentale le  170  bandiere  dei  170  reggimenti  che  il  Massachusset  inviò 
contro  i  ribelli.  L'Hotel  de  Ville  è  assai  più  elegante  della  State  House; 
vi  ammiro  un  gran  scalone  in  legno  :  belle  le  camere  degli  Aldermen 
e  del  Consiglio.  Nell'Atheneum  una  biblioteca  e  un  meschino  museo 
di  scultura  e  di  pittura,  mal  tenuto,  non  fa  onore  a  una  città  così 
colta. 

Invece  il  Fire  OflBce  e  le  sue  dipendenze  sono  un  modello  al  quale 
non  credo  vi  sia  nulla  paragonabile  sul  nostro  continente.  Sparse  ppr 
la  città  vi  sono  150  cassette,  di  cui  tutti  i  policemen  hanno  la  chiave 
e  il  negozio  vicino,  di  cui  si  legge  l'indirizzo  sulla  cassetta  stessa. 
Allo  scoppiar  d'un  incendio  si  apre  la  cassetta,  si  gira  una  mano- 
vella e  rUflBcio  centrale  in  millesimi  di  secondi  conosce  la  località 
del  disastro.  Al  primo  segnale  tutti  i  pompieri  devono  mettersi  sul- 
l'attenti, ma  Eiccorre  solamente  una  macchina:  in  dieci  minuti  al 
più  si  sviluppa  il  vapore  necessario  per  far  funzionare  la  pompa.  Al 
secondo  segnale  Eiccorrono  le  macchine  del  circondario  prossimo  alla 
cassetta:  al  terzo  segnale,  quando  l'incendio  non  è  domato,  le  mac- 
chine dei  dodici  circondari  in  cui  è  diviso  il  servizio  volano  al  soc- 
corso. E  tutti  i  particolari  sono  scrupolosamente  accurati  :  numerosi 
galvanometri  accertano  che  la  corrente  elettrica  fra  le  cassette  e  gli 
uflBci  non  sia  mai  interrotta;  le  verifiche  si  succedono  ogni  20  minuti 
e  sono  registrate  automaticamente  su  liste  di  carta  che  si  svolgono 
con  movimento  di  orologeria:  è  meraviglioso. 

Visitata  coscienziosamente  la  città  in  lungo  e  in  largo,  gli  istituti, 
i  dintorni,  le  industrie;  veduti  i  monumenti,  a  malincuore  debbo  de- 
cidermi a  partire  (1).  Ma  non  troverò  un'accoglienza  così  geniale; 
cavalieri  perfetti;  schiettamente  cordiali;  signore  avvenenti,  squisi- 
tamente garbate,  supremamente  raffinate.  Debbo  resistere  a  cortese 

(1)  Nelle  lettere  descrivo  gli  istituti,  le  scuole,  i  penitenziari,  le  industrie, 
i  cantieri,  ecc.,  visitate  così  a  Boston  quanto  in  altre  città  degli  Stati:  non 
ripeto  tanti  minuti  particolari  per  non  tediare  il  lettore. 


124  LETTERE  A  MIO  PADRE  DALL'AMERICA 

insistenza  perchè  rimanga  sino  dopo  le  feste  natalizie  e  di  capodanno, 
quando  si  apriranno  i  salotti  a  splendidi  balli,  e  si  inaugurerà  la  Le- 
gislatura. A  rivederci,  cara  indimenticabile  Boston. 

Nuova  York,  6  gennaio  1867. 

Viaggiai  da  Boston  a  New  York  sulla  linea  che  costeggia  il 
mare;  attraversa  numerosi  fiumi  su  certi  ponti  di  legno,  che  saranno 
solidissimi,  ma  mancano  assolutamente  di  solidità  apparente,  come 
diciamo  noi  ing'egneri.  Sui  fiumi  più  larghi  il  convoglio  s'imbarca 
in  ferry  boats.  Barriere  ai  passaggi  a  livello  non  esistono,  né  guar- 
diani; i  passanti  sono  avvisati  da  un  cartellone  di  non  lasciarsi  schiac- 
ciare quando  passa  il  convoglio.  Arrivati  in  New  York  si  stacca  la 
mlacchina,  a  ciascun  vagone  si  attaccano  quattro  cavalli,  e  diventa  un 
omnibus  che  depone  e  raccoglie  passeggeri  a  ogni  angolo  di  via  :  è 
curiosissimo. 

In  cinque  ore,  il  giorno  dopo  il  mio  arrivo,  ho  raccolto  più  im- 
pressioni sulla  fisonomia  di  New  York  che  non  potrò  forse  racco- 
glierne nel  rimanente  del  mio  soggiorno.  Stavo  assestando  la  partita 
al  banco  del  Westminstèr  Hotel,  quando  un  tale,  vedendomi  in  mano 
monete  d'oro,  inusitate  qui,  dove  non  corre  che  carta,  indovinandomi 
straniero,  si  fece  presentare  dall'albergatore,  c^n  il  quale  era  tutta 
cosa,  e  si  offerse  di  menarmi  fra  le  meraviglie  della  città.  Accettai, 
tenendomi  però  in  prudente  riserbo,  per  tema  di  essermi  iml>attuto 
in  uno  dei  tanti  scrocconi  americani  e  intemazionali.  In  cambio  non 
ebbi  che  a  lodarmi  di  lui:  mi  parlò" delle  mie  conoscenze  di  Boston 
e  di  un'infìnitìi  d'altra  gente,  come  avesse  tutte  famigliarmente  pra- 
ticate: con  rapidità  di  eloquio  sbalorditiva  mi  raccontò,  usando  in- 
differentemente l'inglese,  il  francese,  l'italiano,  intramezzato  di  spa- 
gnuolo  e  di  tedesco,  di  aver  percorso  tutta  Europa,  gli  Stati  Uniti 
del  Sud  e  del  Nord,  mezzo  mondo.  Ogni  venti  passi  lungo  Broadway 
ferma  un  individuo,  cava  di  tasca  un  fascio  di  carte,  scribacchia  due 
parole;  conclude  un  affare  in  furia,  sotto  un'androne,  «  in  America 
le  faccende  si  trattano  ,così  »,  mi  ripete;  e  mi  narra  delle  fortune  co- 
lossali fatte  e  disfatte  in  pochi  minuti  sui  gradini  della  Borsa  con  i 
titoli  dei  pozzi  di  petrolio  e  delle  miniere:  storie  delle  Mille  e  una 
notte.  Entriamo  in  un  magazzino  di  carrozze:  che  miracoli  di  leg- 
gerezza e  che  grazia  di  proporzioni;  certi  buggies  pesano  65  libbre. 
Egli  è  ajnicone  del  proprietario.  In  un  vasto  deposito  di  piainoforti 
il  mio  cicerone  è  come  a  casa  sua,  siede  e  non  suona  male.  In  una 
esposizione  di  quadri  francesi,  dove  ammiro,  tra  i  'molti,  anche  dei 
Dorè,  egli  è  addirittura  padrone;  è  in  trattative  per  l'ac^juisto  in 
blocco,  per  una  certa  speculazione.  Ci  arrestiamo  davanti  alle  ma- 
cerie fumanti  di  una  fabbrica  divorata  dalle  fiamme  per  presentare 
le  condoglianze  al  disgraziato  che  contemplava  il  suo  disastro  e  nella 
fac<;ia  sconvolta  non  mostrava  la  proverbiale  impassibilità  ameri- 
cana. Eccoci  poco  appresso  su  e  giù  per  scale  e  elevetor  fra  i  cinque 
piahi  della  Gasa  Cleslin,  dove  si  vende  di  tutto,  stringendo  la  mano 
a  commessi  e  direttori.  Arriviamo  al  vecchio  e  meschino  Post  Offic< 
una  massa  compatta  fa  coda  allo  sportello;  dovrei  aspettare  il  mi' 
turno;  la  mia  guida  mi  fa  entrare  per  una  porticina  mascherata  • 
mi  confida  a  un  impiegato  milanese,  felice  di  ricapitarmi  subito  il 


I 


LETTERE  A  MIO  pAdRE  DALL'AMERICA  l25 

mio  corriere.  Mentre  le^go  le  mie  lettere,  il  tizio  corre  per  certo  suo 
negozio  di  un  fondaco  di  petrolio  lì  vicino.  Saltiamo  su  un  omnibus 
per  guadagnar  tempo;  ma  poco  vi  rimaniamo;  egli  scorge  un  passante 
col  quale  ha  a  che  fare,  e  balza  giù  per  afferrarlo.  Da  un  cambiava- 
lute, suo  intimo,  compero  con  il  mio  oro  dollari  al  corso  di  135.  Diamo 
una  capatina  nella  Borsa,  donde  esco  stordito  dagli  urli,  dalle  gesti- 
colazioni di  quella  gente  frenetica.  Con  una  brigatella,  raggranellata 
da  lui,  si  va  da  Del  Menico  a  inaffiare,  con  innumerevoli  cocktail, 
ostriche  larghe  come  piatti.  E  paga  lui  a  ogni  costo.  Mi  presenta  a 
un  vecchio  boxeitrr  che  s'è  fatta  una  fortuna,  che  ebbe  il  ghiribizzo 
di  diventare  deputato,  e  lo  è. 

Narro  per  sommi  capi  la  storia  della  nostra  corsa  vertiginosa; 
non  so  raccapezzarmi  nei  particolari.  Scommetto  aver  dato  non  meno 
di  cencinquanta  strette  di  mano,  essermi  soffermato  in  non  meno  di 
cinquanta  stazioni.  In  fine  l'amico  della  ventura  mi  depose  all'Hotel 
e  scomparve,  lasciandomi  intontito  come  una  talpa.  Chi  diavolo  sia, 
donde  sia  pio\'uto  non  so.  Certo  un  simile  tipo  non  può  estrinsecarsi 
che  nell'ambiente  di  New  York. 

I  Nuova  York,  16  gennaio  1867. 

Come  una  bacchetta  magica  le  lettere  degli  amici  di  Boston  mi 
apriiono  le  porte  della  migliore  società  di  qui.  Mi  accorgo  che  si  ha 
una  grande  deferenza  per  l'opinione  dei  Bostoniani.  Da  Boston  emana 
il  verbo  che  ispira  i  Repubblicani  degli  altri  Stati.  È  la  città  più 
calma,  la  più  sensata,  dove  non  si  sfoggiano  le,  cosi  dette  da  noi, 
americanate.  'V^i  sono  delle  ricchezze  solidamente  imbastite  e  serietà 
di  propositi.  Il  meeting  in  Boston  degli  uomini  di  colore  per  festeg- 
giare il  quarto  anniversario  della  emancipazione  proclamata  con  de- 
creto nazionale  da  Lincoln,  riuscì  il  più  imponente  fra  quelli  di  tutte 
le  altre  città  della  Repubblica. 

Nei  salotti,  ai  pranzi,  alle  serate,  dei  Weismart,  dei  Cork,  da  Ma- 
dame de  Boileau,  da  Madame  Coope,  incontro  personaggi  di  ogni 
categoria,  dame  e  daanigelle.  Queste  sono  sempre  abbigliate  all'ultima 
moda  di  Parigi;  la  sera  gran  decolleté,  e  code  smisurate:  al  giorno 
cappeir  e  abiti  montants.  Sempre  tutte  così  cortesi  e  preeiurose  di  far 
buona  accoglienza  al  nuovo  arri^•ato.  Alla  rnati^ée  musicale  di  Mrs. 
Brodgett  fui  presentato  a  tante  signore  che  mi  s'è  fatta  una  confu- 
sione nella  mente.  Una  miss  cantò  la  romanza  del  Trovatore  in  un 
italiano  che  mi  ce  ne  volle  per  restar  serio. 

Frequento  gli  studi  degli  scultori  e  dei  pittori;  Gifford  mostra  i 
suoi  quadri  famosi,  e  mi  fa  assistere  a  un  meeting  e  a  una  cena  di 
artisti  e  di  letterati  al  Century  Club,  la  più  allegra  che  si  possa  ima- 
ginare.  All'Union  League  Club,  dalle  pareti  nascoste  sotto  i  trofei 
guerreschi,  nei  Circoli  meno  rigidamente  repubblicani,  prendo  parte 
a  interminabili  discussioni  :  si  tratta  di  porre  in  istato  d'accusa  il 
presidente  Johnson,  nientemeno;  tutti  i  giornali  hanno  lunghe  co- 
lonne sull'argomento. 

E  a  proposito  di  politica  ho  letto  che  quella  vendita  di  schiavi  nel 
Marviand,  di  cui  ti  scrissi,  ha  sollevato  un  putiferio  «i  Washington  e 
provocò  interpellanze  e  dibattiti  nelle  Camere:  i  Repubblicani  non 
mollano  in  nessuna  occasione.  Ho  letto  anche,  e  ne  risi,  che  il  mio 


i26  LETTERE  A  MIO  PADRE  DALL'AMERICA 

bravo  albergatore  di  Parker  Hotel,  a  Boston,  è  stato  colto  in  frode 
dli  liquori  e  avrebbe  dovuto  andare  in  gattabuia  per  3  mesi.  Ma  poi, 
mi  dicono,  se  la  caverà  al  solito,  lasciando  correre  mance  agli  inca- 
ricati del  controllo.  Senza  il  contrabbando,  organizzato  su  vasta  scala, 
la  tassa  esorbitante  sui  liquori  in  pochi  anni  basterebbe  ad  ammortiz- 
zare i  debiti  degli  Stati  Uniti.  Ultimamente  si  scoperse  che  parecchi 
impiegati  del  Governo  erano  pure  manutengoli. 

Ho  fatto  colazione  dal  prof.  Botta  col  celebre  istoriografo  Ban- 
kroft,  con  Mr.  Field  che  pose  il  cavo  transatlantico  e  ora  è  direttore 
della  Gomipagnia,  col  Dr.  Bellows,  un'autorità  ecclesiastica  di  gran 
reputazione.  Alle  sue  prediche,  nella  sua  Chiesa  unitaria,  accorre  un 
pubblico  numeroso  e  sceltissimo.  A  me  apparve  come  un  vecchietto 
arzillo  che  tenne  di  buon  umore  la  brigata  con  storielle  delle  quali 
il  presidente  Johnson  era  il  comico  protagonista,  lì  nostro  senatore 
G'priani,  ben  noto  per  le  sue  avventure,  m'invitò  nei  suoi  vasti  pos- 
sedimenti in  Galifomia.  S'è  parlato  di  Mazzini  e  della  sua  ultima  cir- 
colare, pubblicata  quando  ero  a  Londra:  questa  non  ha  fatto  buona 
impressione  :  nei  giornali  e  nei  convegni  è  criticata  assai. 

Ho  conosciuto  anche  italiani  che  fanno  onore  al  nostro  paese, 
oltre  il  prof.  Botta,  il  sig.  Fabricatti  importatore  di  marmi,  Ban- 
delari,  Bixio,  Magni  del  nostro  Consolato.  Ma  non  sono  in  America 
per  incontrare  italiani,  e  non  voglio  lasciarmi  influenzare  dalle  loro 
idee  su  questo  paese,  e  formarmi,  invece,  un  concetto  dalle  mie  os- 
servazioni. Non  vado  neppure  a  udire  la  Ristori. 

Un  bell'originale  è  il  prof.  Boemer  del  College;  un  tedesco  che 
servì  a  Milano  nell'esercito  austriaco  con  Radesky  nel  '42.  A  Milano 
conobbe  famiglie  di  rinnegati,  dice  lui,  e  me  ne  diede  conto.  È  schia- 
vista sfegatato,  dichiara  i  negri  una  razza  inferiore,  e  non  può  sop- 
portare la  vista  di  quelle  facce  di  carbone  e  que'  capelli  lanuti.  Si 
dichiara  democratico  in  America  e  democratico  in  Europa,  opinioni 
difficili  a  conciliarsi  in  una  sola  mente.  Racconta  aneddoti  interes- 
santi del  suo  soggiorno  a  Milano  e  negli  Stati  Uniti.  È  assai  di- 
vertente. 

Gli  ufficiali  italiani  che' combatterono  fra  le  file  dell'esercito  del 
Nord,  non  ne  riportarono  un'impressione  troppo  favorevole  della  di- 
sciplina e  della  tenuta.  Secondo  il  loro  modo  di  vedere  avrebbero 
ragione:  fanno  il  confronto  con  i  reggimenti  di  truppe  europee;  ma 
questi  sono  organizzati  da  secoli,  quelli  improvvisati  durante  la 
guerra:  io  non  ho  un'opinione  concreta.  Certo  a  veder  passare  un 
plotone  preceduto  da  banda  e  da  numerosi  sapeurs,  mi  ha  un  po'  l'a- 
ria della  nostra  guardia  nazionale. 

Nuova  York,  20  gennaio  1867. 

Io  mi  compiaccio  d'incontrare  e  di  conoscere  Americani  di  o»gni 
classe;  lasciando  in  disparte  quelli  che  appartengono  alla  società 
scelta,  che  è  cosmopolita;  della  generalità,  meglio  che  un  mite  giu- 
dizio, valga  a  darcene  un  concetto  quello  che  ne  pensano  essi  stessi. 
Un  signore  di  qui  donò  5  mila  dollari  a  un  istituto  scolastico,  e  nella 
lettera  accompagnatoria  dice  che,  essendo  constatato  come  gli  Ame- 
ricani hanno  bisogno  di  ingentilirsi  nei  modi  e  nel  tratto,  intende 
che  gli  interessi  sieno  destinati  a  coniare  ogni  anno  una  medaglia 
da  accordarsi,  dietro  voti  degli  stessi  alunni,  a  quello  che  fra  loro  si 


ì 


LETTERE  A   MIO  PADRE  DALL'AMERICA  127 

fosse  mostrato  più  gentleman.  Stampa  e  pubblico  lodano  il  donatore, 
e  incitano  altri  a  seguirne  l'esempio.  Certo  un  po'  di  vernice  non 
nuocerebbe  alle  solide  qualità  di  questo  popolo.  Volessero  bere  un 
po'  meno  whisky  e  cocktails;  ma  nessuna  legge  draconiana  emanata 
vale  a  frenare  l'abuso  dei  liquori.  Come  nessuna  legge  riesce  a  sop- 
primere le  case  di  gioco,  altra  piaga  di  New  York.  Ve  ne  sono  di 
splendide,  sparse  da  Wall  Street  alla  Fifth  Avenue,  con  mense  peren- 
nemente imbandite,  dove  corre  a  fiotti  champagne  e  bordeaux,  tutto 
gratis,  e  dove  scompaiono  milioni  di  dollari.  Ma  come  rimediare 
quando  gli  impresari  sono  membri  del  Congresso? 

Del  sesso  gentile  non  posso  che  fare  elogi.  Le  fanciulle,  piene 
di  brio,  pure  non  abusano  dell'indipendenza  di  cui  godono  :  certo 
adorano  divertirsi.  Bisogna  vederle  allo  Skating  Rink  della  Fifth 
Avenue,  rendez-vous  del  mondo  elegante,  leggermente  succinte,  i 
biondi  riccioli  al  vento,  i  piedini  imprigionati  in  bijou  di  stivaletti, 
i  patini  lucenti  finamente  lavorati,  animate  della  voluttà  della  corsa, 
tracciare  sul  cristallo  del  ghiaccio  le  curve  più  audaci  :  come  pati- 
natrici non  temono  confronto:  del  resto  non  lo  temono  neppure 
quando  ballano,  o  si  danno  a  qualsiasi  esercizio.  Già  nella  scuola  im- 
parano la  franchezza,  la  disinvoltura.  Mr.  Lave,  commissario  per 
l'istruzione,  mi  condusse  a  visitare  la  scuola  di  ragazze  della  12* 
strada.  Mi  vidi  seduto  nell'aula  del  Department  Grammar  Senior, 
presentato  poonposamente  a  un'accolta  di  giovinette  dai  15  ai  20  anni, 
birichine,  graziose,  in  abitini  freschissimi,  che  mi  guardano  con 
aria  canzonatoria.  La  direttrice  piglia  dal  leggìo  di  una  alunna  il  fa- 
scicolo del  testo  delle  canzoni  e  me  lo  porge  onde  io  possa  seguire  il 
coro,  che  canta  quella  prescelta,  coll'aocompagnamento  del  piano. 
Apro  al  titolo  «  Tutto  è  bello  in  questo  mondo»,  e  in  margine,  a 
matita,  «  Tranne  Mr.  Gerard  »;  i'miei  sguardi  incontrano  quelli  della 
colpevole  e  per  poco  non  scoppiamo  in  una  risata.  Quando  entra 
Mr.  Gerard,  l'ispettore,  con  una  strizzatina  d'occhio  le  fo  capire  che 
consento  nella  sua  postilla.  Mr.  Gerard,  del  resto,  vecchio  e  brutto, 
è  adorato  dalla  scolaresca  per  la  sua  bontà:  da  argomenti  a  discus- 
sioni a  cui  nrkolte  prendono  parte;  mi  fa  percorrere  le  classi,  dove 
s'insegna  persino  l'astronomia.  Ciò  che  m'incanta  è  il  vedere  sola- 
mente facce  allegre  e,  quasi  senza  eccezione,  avvenenti;  anche  le 
maestre  hanno  poco  più  d'età  delle  scolare. 

L'altro  giorno  invece  una  donna,  non  più  giovane,  a  sua  volta 
s'impose  alle  mie  simpatie.  Mrs.  Ward,  condannata  da  dieci  anni  a 
giacere  su  una  sedia  a  sdrajo,  mi  fece  le  confidenze  dei  misteri  della 
sua  psiche,  e  dell'origine  morale  delle  sue  sofferenze.  Allevata  a 
Boston,  si  addottrinò,  con  intenso  studio,  nelle  scienze  speculative. 
Si  famigliarizzò  con  le  opere  dei  filosofi,  entrò  in  dimestichezza  con 
Longfellow,  con  Howe,  con  letterati  e  pensatori;  discutendo  con  loro, 
ragionando  e  meditando,  si  ridusse  poco  a  poco  a  non  credere  più  a 
nulla.  Ma  la  sua  mente  non  poteva  adagiarsi  nello  scetticismo  scon- 
fortante, e  il  dubbio  l'assalse.  I  figli,  crescendo  negli  anni,  le  chie- 
devano consigli,  sballottati  com'erano  fra  vari  membri  della  fami- 
glia, ognuno  appartenente  a  diversa  setta  religiosa.  L'amor  materno 
la  faceva  spasimare  non  sapendo  che  cosa  rispondere.  Studiò  di 
nuovo;  si  sprofondò  nella  Bibbia.  Codesta  protratta  tensione  dello  spi- 
rito distrusse  la  sua  salute;  temette  di  impazare.  I  medici  le  ordi- 


12  i  LETTERE  A  MIO  PADRE  DALL'AMERICA 

narono  Nizza  e  Roma.  A  Roma  l'atmosfera  della  basilica  Vaticana 
la  calmava;  la  cupola  del  Briinellesco  le  dava  l'idea  del  paradiso,  abi- 
tuata com'era  alle  disadorne  pareti  delle  chiese  della  riforma.  Un 
giorno,  in  San  Pietro,  affranta  dalle  interne  lotte,  eblje  una  visione: 
un  lampo  di  luce  le  indicava  la  via  da  segnire.  Iddio  le  parlava  e  le 
diceva  che  essa  doveva  affidarsi  a  un'autorità  superiore;  che  la  reli- 
gione cattolica  le  offriva  la  pace  nella  fede:  i^ preti,  pei  quali  non 
aveva 'stima,  erano  strumenti  che  non  contaminavano  la  santità  dei 
dogmi  e  dei  misteri.  Si  sentì  chiamata  là  dove  si  richiede  di  sacri- 
ficarsi per  gli  altri,  mentre  nel  protestantesimo  non  aveva  trovato 
che  egoismo.  Si  convertì,  e  abbandonandosi  con  deca  fiducia  all'in- 
fallibilità della  Chiesa  Cattolica,  ebbe  immediato  sollievo  alla  co- 
scienza malata.  Finito  il  lungo  racconto  delle  sue  torture  morali, 
Mrs.  Ward  si  aspettava  da  me  un  sermone  teologico.  Entrarono  altre 
visite  in  buon  punto  a  togliermi  dall'imbarazzo  di  sillogizzare  con 
codesto  geniale  San  Paolo  in  gonnella. 

Ho  visto  nel  cantiere  di  Mr.  Webb  la  culla  della  nostra  sfortu- 
nata nave  di  battaglia  He  (Pìtabia  :  che  stretta  al  cuore!  Al  suo  posto 
ora  si  sta  costniendo,  per  commissione  del  Governo  Americano,  un 
aff ondatone  di  modello  affatto  nuovo,  un  Iron  Ciad  Ram,  come  di- 
cono qui,  il  Dundeaberg;  è  di  7  mila  tonnellate,  ha  muraglie  d'ac- 
ciaio enormi;  è  lungo  358  piedi,  largo  72;  porta  4  cannoni  di  15  pol- 
lici di  diametro,  12  di  11  pollici;  i  primi  lanciano  palle  di  450  libbre; 
se  ne  attendono  meraviglie. 

Washington,  23  gennaio  1867. 

Washington  dopo  New  York  mi  dà  l'impressione  di  un  villag- 
gio. Infatti  un  détto  corrente  sintetizza  :  «  Boston  city  of  science,  New 
York   of  business,   Filadelfia  of  aristocracy,   Baltilnore  of  beauty, 
Washington  of  nothing». 

Ma  che  intensità  di  vita,  e  come  vi  si  sente  pulsare  il  cuore  della 
Nazione  in  quel  villaggio.  Ad  attestare  che  Washington  è  la  capi- 
tale degli  Stati  Uniti,  ci  sta  l'imponente,  maestosamente  decorata, 
mole  del  Gapitol,  nel  mezzo  di  un  parco  ricco  di  alberi,  di  ajuole, 
di  serre;  ma  tutt'intomo  campagna  ancora  quasi  nuda.  Dalla  cima 
della  cupola  si  scorge  il  tracciato  di  larghe  strade,  di  piazze,  di  qua-, 
drati  di  terreno  destinati  a  d/iventare  blocchi  di  case,  ma  per  ora 
nient'altro  che  ortaglie  e  pascolo  di  vaccine.  Il  Patent  Office,  la  Posta, 
il  Treasury  Department  sono  gli  altri  tre  palazzi,  che  torreggiano 
nella  solitudine,  cosparsa  di  casolari  insignificanti.  La  città  attuale 
incomincia  assai  più  in  là;  ha  per  arteria  principale  Pensilvania 
Avenue  e  si  spinge  sino  a  George  Town,  sulle  alture  oltre  il  Tevere. 
A  ovest  è  limitata  dal  Potomac  che  la  seiJara  dal  villaggio  dei  negri, 
antico  possedimento  del  generale  Lee,  e  sequestrato  a  profìtto  degli 
schiavi  emancipati,  fì  ben  popolata  di  monumenti,  di  case  signorili, 
di  uffici  pubblici.  Tale  in  iscorcio  la  fisonomia  di  Washington.  In 
una  prossima  i  particolari.  Questo  solo  voglio  dirti  subito:  ha  fatto 
pena  al  mio  sentimento  europeo,  devoto  alle  tradizioni,  lo  stato  di 
abbandono  in  cui  è  lasciato  l'antico  Gapitol,  che  udì  i  primi  vagiti 
oratori  dell'Unione.  Delle  aule  non  v'ha  piii  traccia  dopo  che  vi  si 
rinchiusero  i  prigionieri  di  guerra:  i  pochi  resti  servono  di  pollaio 
)ier  le  galline. 


LETTERE  A   MIO  PAD^E  DALL'AMEP.ICA  129 

Washington,  26  gennaio  1867. 

Sono  ospite  del  giovine  Romeo  Gantagalli,  incaricato  daffari  in 
assenza  del  Ministro  Bertinatti;  egli  mi  introduce  nel  mondo  della 
Capitale,  composto  oltre  che  dei  governanti,  degli  uomini  politici,  dei 
diplomatici,  dei  generali,  delle  gentildonne  ajppartenenti  aìle  più  alte 
sfere  di  ogni  parte  degli  Stati.  Trovo  alla  Legazione  i  due  italiani, 
Principe  Giannettino  Doria  e  Duca  Grazioli,  che  fanno  furori  nella 
ocietà  americana  per  la  distinzione  dei  anodi  con  cui  portano  il  ti- 
tolo nobiliare,  che  in  questo  paese  di  uguaglianza  politica  colpisce  le 
immagingLzioni;  in  loro  compagnia  visito  il  Treasury  Department. 

Cantagalli  mi  conduce  ad  assistere  nel  Capitol  a  una  seduta  del 
Senato  :  vi  si  discuteya  in  tema  di  tasse  :  ogni  giorno  si  approva 
l'applicazione  di  una  tassa  nuova;  è  una  frenesia;  si  fa  a  gara  fra  i 
rappresentanti  del  paese  a  chi  sa  escogitarne  di  più  onerose,  a  chi 
sa  meglio  inasprire  i  dazf  e  rendere  proibitive  le  imf>ortazioni.  Un 
Demostene  parlò  per  mezz'ora  per  persuadere  ad  aumentare  del  50 
per  100  il  dazio  su  un  sale  ammoniacale  che  si  adopera  in  certe  mani- 
fatture. Finito  il  discorso  un  collega  gli  domanda  notizie  di  codesto 
sale  e  del  suo  uso.  «  Io  non  ho  mai  avuto  la  minima  idea  che  diavolo 
possa  mai  essere»,  risponde  l'altro.  E  l'imposta  fu. approvata. 

Nella  Camera  dei  deputati  è  in  discussione  il  riordinamento  de- 
uii  Stati,  l'argomento  di  attualità.  Perora  un  ra'ppresentante  del- 
rOhio  con  forza  di  polmoni  e  gesti  analoghi  :  è  considerato  un  ora- 
tore di  prim'ordine,  ma  i  colleghi,  con  i  piedi  sui  deschi,  hanno  l'a- 
ria di  non  darsene  per  intesi.  Nelle  tribune,  stipate,  numerosi  negri. 
La  lotta  fra  il  Presidente  Johnson  e  il  Congresso  è  in  una  fase  acuta; 
gli  avversari  sono  accanitissimi.  Il  Congresso  lancia  invettive,  pro- 
nuncia discorsi  furibondi  contro  il  Presidente,  accumula  leggi  dra- 
coniane contro  gli  ex  ribelli,  col  pretesto  della  necessità  di  schiac- 
chiare  ogni  velleità  di  riscossa;  incrollabile  nel  volere  rigida  esecu- 
zione delle  severe  condizioni  imposte  nei  trattati.  Johnson,  impas- 
sibile, oppone  il  veto  presidenziale.  Stamane  poneva  il  veto  al  bill 
che  solleva  al  grado  di  Stato  il  territorio  del  Colorado,  notoriamente 
parteggiante  per  i  Repubblicani.  Egli  ha  per  sé  la  Suprema  Corte, 
la  quale  con  assidua  persiistenza  giudica  incostituzionali  gli  atti  degli 
agenti  governativi  negli  Stati  del  Sud,  autorizzati  dal  Congresso.  Ciò 
che  dal  pubblico  si  implora  è  che  questi  attriti  non  conducano  a  una 
nuova  guerra.  I  diplom.atici  esteri  non  sanno  a  che  santo  votarsi;  la 
scissione  fra  Presidente  e  Congresso  li  obbliga  alla  più  stretta  neu- 
tralità, sì  che  cercano  di  aver  il  mteno  possibile  a  che  fare  con  l'uno 
o  con  l'altro.  Se  un  rappresentante  estero  si  accosta  al  Presidente,  sia 
pure  per  affari  d'ufficio,  il  Congresso  si  adombra  e  viceversa  se  tratta 
con  un  membro  del  Congresso.  E  Seward,  Segretario  di  Stato,  ha  una 
polizia  potentemente  organizzata,  sì  che  ogni  fatto  dei  Ministri  delle 
potenze  e  del  loro  seguito,  è  spiato  e  sorvegliato. 

Ho  pranzato  dal  senatore  Charles  Sumner,  la  personalità  più 
spiccata  del  giorno,  il  leader  incontestato  degli  antischiavisti;  è  an- 
che una  bella,  maschia  figura,  che  impone,  mentre  attrae  per  l'affa- 
bilità dei  modi.  C'erano  Cantagalli,  Mrs.  Sumner,  Miss  Bigellow  e 
Miss  Felton,  tre  dame  intellettuali.  Conversazione  interessante  du- 
rante il  pranzo  su  ogni  sorta  di  soggetti.  Ritirate  le  signore,  il  se- 


130  LETTERE  A   MIO  P^DRE  DALL'AMERICA 

• 

natore  mi  intrattenne  lungamente  intomo  gli  argomenti  dell'ora  pre- 
sente. Si  parlò  dell'Italia,  che  ama,  mentre  ha  seguito  attentamente 
le  fasi  del  nostro  risorgimento.  Conobbe  e  ebbe  frequenti  convegni 
con  Cavour.  Mi  chiese  notisne  di  Garibaldi,  e  se  fosse  vero  avere  egli 
intenzione  di  organizzare  una  spedizione  in  aiuto  di  Creta.  Si  appas- 
sionò a  una  discussione  tra  Cantagalli  e  me  sulla  questione  romana. 
Conosce  a  fondo  la  letteratura  italiana  e  ingemma  il  discorso  di  cita- 
zioni dei  nostri  poeti.  Mi  disse  poi  essere  occupatissimo,  avendo  al 
fuoco  molte  pentole;  è  presidente  del  Comitato  degli  affari  esteri;  nel 
Comitato  repubblicano  che  raccoglie  materiale  per  giudicare  se  John- 
son deve  essere  impeached,  ha  un  lavoro  enornie,  che  non  deve  tra- 
sparire sino  a  quando  non  si  abbiano  in  mano  prove  irrefragabili. 
Può  anche  darsi  che  si  chieda  V impeachment  .della  Corte  Suprema, 
per  le  sue  decisioni  contro  i  bill  del  Congresso.  E  in  mezzo  a  questi 
e  tanti  altri  incarichi  deve  dare  indirizzo  e  norme  al  partito  del  quale 
è  capo.  • 

Al  ricevimento  del  dòpo  pranzo  intervennero  tutti  i  personaggi 
repubblicani  più  in  vista.  Con  uno  di  essi  ebbi  una  conversazione  a 
proposito  della  simpatia  dell'America  per  la  Russia,  mentre  la  prima 
è  il  paese  della  libertà  l'altra  dell'assolutismo  per  eccellenza.  «  La 
Russia»,  mi  diceva  il  mfio  interlocutore,  «  per  la  sua  posizione,  per 
la  sua  vastità,  per  le  sue.  risorse,  è  la  parte  del  mondo  che  può  meglio 
giovare  agli  interessi  americani.  Ora  vi  regna  il  dispotismo?  Ebbene, 
noi,  stringendo  intimi  rapporti  con  quelle  popolazioni,  vi  sparge- 
remo i  germi  della  libertà,  il  nostro  contatto  sarà  una  scuola.  Il 
russo,  vivendo  insieme  con  i  nostri  marinai,  con  i  nostri  soldati,  con 
i  nostri  operai,  incomincerà  coll'ammirarli,  poco  a  poco  a  imitarli, 
spinto  dallo  spirito  di  curiosità  e  di  emulazione,  e  avremo  l'onore  di 
portare  al  livello  delle  nazioni  piiì  civili  la  metà  del  vecchio  conti- 
nente». È  un  modo  ingegnoso  di  dare  carattere  umanitario  a  una 
vagheggiata  alleanza  politica. 

Washington,    28  gennaio   1867. 

Il  carnevale  è  ed  suo  culmine.  Le  orchestre  dei  salotti  fanno 
concorrenza  accanita  alle  concioni  del  Capitol,  e  affratellano  nelle 
danze  il  Nord  e  il  Sud.  Ho  ballato  nel  pomeriggio  con  le  imposte 
chiuse,  al  lume  del  gaz,  dal  Maire  di  Washington,  Mr.  Wallak,  e  la 
sera  stessa  dall'ammiraglia  d'Algreen.  Il  dì  seguente  accompagnai 
Mrs,  d'Algreen  al  ricevimento  alla  White  House.  Vi  andava  di  mala 
voglia  e  solo  ^perchè  la  sua  posizione  glielo  imponeva  :  infatti  ap- 
pena presentato  a  Mrs.  Patterson,  la  sorella  del  Presidente  che  fa- 
ceva gli  onori  di  casa  nel  salone  rosso,  attraversiamo  il  salone  bleu, 
poi  il  gran  salone,  poi  ce  la  caviamo.  Mi  condusse  però  dopo  da  Mrs. 
Dickson,  moglie  del  senatore  del  Kentucki,  un  democratico  della  più 
bell'acqua,  dove  trovai  un  bouquet  di  signore  del  Sud.  Ma  mi  spiegò 
Mrs.  d'Algreen  che  la  diversità  di  opinioni  non  aveva  potere  di  rom- 
pere la  vecchia  amicizia  per  Mrs.  Dickson  e  le  sue  figlie. 

Di  giorno,  quando  non  si  balla,  si  passa  dal  salotto  di  Miss  Ca- 
roli, la  professional  beauty,  a  quello  di  Mrs.  Ray,  di  Miss  Godard,  la 
bas  bleu  e  una  delle  più  corteggiate,  di  Mrs.  Card  e  via  via.  Poi  una 
ridda  di  gite,  di  picnic,  di  partite  sul  ghiaccio  o  al  croquet.  La  notte 
si  danza  sino  al  levar  del  sole.  In  uno  di  cotesti  convegni  fui  presen- 


LETTERE  A  MIO  PADRE  DALL'AMERICA  131 

tato  al  generale  Jackson,  il  quale  gentilmente  mi  invitò  al  suo  quar- 
tiere; là  mi  descrisse  le  operazioni  del  Corpo  d'Esercito  da  lui  co- 
mandato, e  me  ne  donò  il  piano  con  una  dedica  lusing-hiera.  In  altra 
occasione,  ed  essendo  su  terreno  neutrale  non  ne  ebbi  scrupolo,  mi 
intrattenni  a  lungo  con  l'ammiraglio  Tegetoff,  che  gli  Americani, 
malgrado  la  simpatia  per  l'Italia,  ammirano  entusiasti  perchè  ha 
vinto.  Subito  dimenticai  di  avere  di  fronte  un  nemico,  tanto  è  cor- 
diale, semplice,  e  nello  stesso  tempo  pieno  di  arguzie.  È  ammira- 
tore dell'America,  delle  sue  istituzioni,  della  sua  libertà,  della  sua 
democrazia:  è  il  primo  europeo,  nuovo  arrivato,  che  odo  esprimersi 
in  questo  senso.  Si  viene  a  parlare  di  Lissa  :  a  sentirlo  è  per  caso  che 
ha  vinto  la  battaglia  :  chances  de  la  guerre.  Rammentò  l'orribile  stretta 
al  cuore  provata  vedendo  inabissarsi  il  Re  d'Italia  e  que'  marinari 
che  si  aggrappavano  alle  sartie  nei  loro  ultimi  aneliti.  Toccando  della 
politica  dei  nostri  due  paesi  conclude  che  abbiamo  tutti  bisogno  di 
pace.  Sai  che  l'ammiraligo  Tegetoff  mi  richiama  lontanamente  Ga- 
ribaldi per  la  figura,  la  dolcezza  dei  modi  e  la  simpatia  che  ispira? 
A  proposito,  è  vero  che  il  principe  Umberto  sposa  una  arciduchessa 
austriaca? 

Washington,   l»  febbraio  1867. 

Mrs.  Sumner  è  la  figura  femminile  più  saliente  del  mondo  di 
Washington,  la  bellezza  severa  cui  la  chioma  corvina  dà  particolare 
risalto  in  mezzo  alle  sue  bionde  connazionali;  la  nobilita  del  porta- 
mento, il  riserbo  del  contegno,  la  fanno  ammirare  dovunque  essa 
appare.  Condivide  le  idee  di  suo  marito  e  lo  coadiuva  efficacemente, 
essendo  anche  dotata  di  alte  qualità  intellettuali.  Il  suo  spiritò  batta- 
gliero le  procura  avversari  che  non  le  risparmiano  sarcasmi  e  mali- 
gne insinuazioni.  Miss  Lansing,  una  democratica  di  Bufalo,  mi  di- 
ceva ironicamente  che  il  senatore  aveva  sposato  sua  moglie  perchè 
il  colore  degli  occhi  e  dei  capelli  gli  richiamavano  i  negri.  É  Miss 
Blair,  una  leggiadra  fanciulla  del  Sud,  per  accentuare  il  suo  di- 
sprezzo, pretende  che  Mrs.  Suniner  deve  avere  del  sangue  nero  nelle 
vene  :  e  una  compagna  aggiunge  :  «  del  resto  anche  Sumner  è  quasi 
un  negro  ».  D'altra  parte  essa  può  contare  su  amici  devoti.  Tra  que- 
sti, devotissimo,  il  Segretario  della  Legazione  di  Prussia,  Barone 
d'Holstein  (1),  con  il  quale  sono  entrato  in  dimestichezza;  sono  un 
assiduo  delle  sue  cene,  in  circolo  ristrettissimo,  con  Mrs.  Sumner  e 
altri  pochissimi  eletti. 

Sebbene,  quando  si  tratta  di  dissidi  partigiani,  io  mi  mantenga 
in  attitudine  di  prudente  riserbo,  Mrs.  Sumner  mi  accoglie  cordial- 
mente. L'altra  sera,  a  pranzo  da  suo  padre,  il  senatore  Hooper,  dove 
fra  gli'altri  commensali  v'erano  Lord  Bruce,  Ministro  Britannico,  e  il 
celebre  naturalista  Agazis,  di  ritorno  dal  Rio  delle  Amazzoni,  Mrs. 
Sumner  si  sfogò  con  me  contro  il  Presidente,  tenendosi  sicura  di  ve- 
derlo irrvpeached  fra  breve.  «  Mi  ha  invitato  a  pranzo  » ,  concluse,  fa- 
cendo una  smorfia  significativa,  «  ma  io  non  ci  voglio  andare  ». 

(1)  D'Holstein,  divenuto  poi  l'austera  eminenza  grigia  di  Wilhelmstrasse. 
Quando  lo  vidi  a  Berlino,  25  anni  più  tardi,  mi  accolse  festosamente,  tanto  da 
meravigliare  i  diplomatici,  che  non  potevano  indovinare  quante  care  memorie 
di  gioventii  gli  rammentava  la  mia  visita. 


132  LETTERE  A   MIO   PADRE  DALL'AMERICA 

Washington,  6  febbraio  1867. 

Ho  assistito  nnercoledì  al  ricevimento  del  generale  Grant.  Egli  ha 
l'aria  di  un  buon  borghese,  incapace  di  far  male  a  una  mosca;  si  dice 
che  si  lasci  menar  pel  naso  dalla  moglie,  una  vecchia  autoritaria. 
C'è  voluto  un'ora  per  entrare.  Egli  era  là  alla  porta  del  salone,  poi 
veniva  il  generale  Sheridan,  iridi  Mrs.  Grant.  Si  stringe  la  mano 
successivamente  ai  tre,  si  ondeggia  per  un'ora  nella  folla,  e  final- 
mente dopo  un'altra  oretta  di  spintoni,  si  riesce  all'aperto.  Iivuna 
specie  di  cantina  del  sottosuolo,  chi  ci  teneva,  ballava.  Grant  sta  orga- 
nizzando la  spedizione  contro  i  pelli  rosse,  dei  quali  ho  conosciuto 
qualche  campione.  Nel  costume  di  gala  sono  avvolti  in  ampi  man- 
telli scarlatti,  brache  rosse,  orecchie  tinte  in  rosso,  capelli  ritti  e  cre- 
sta nel  mezzo  della  testa;  cosi  li  vidi  qui;  in  guerra  indossano  giusta- 
cuori e  brache  di  pelle  di  bufalo  con  frange  a  vari  colori.  Poveri  in- 
diani! Sono  destinati  a  scomparire,  perchè  difendono  le  loro  terre 
contro  i  pionieri  invasori.  «  Sono  refrattari  alla  civilizzazione  », 
spiega  un  ufficiale,  «  e  non  c'è  altro  rimiedio  che  ridurli  con  la  forza  ». 
La  spedizione  farà  una  guerra  di  sterminio. 

Ben  più  grandioso  di  quello  di  Grant  fu  il  ricevimento  di  gio- 
vedì alla  Ga^  Bianca.  Insieme  con  Mrs.  Sprague,  Mrs.  Wallak,  Mrs. 
Card,  che  accompagnavo,  e  altre  distinte  signore  degli  Stati  Uniti, 
si  urtavano  la  imoglie  del  ciabattino,  del  sarto,  dei  piìi  umili  mestie- 
ranti per  arrivare  a  stringere  la  mano  al  Presidente  Johnson.  Intra- 
vidi nella  massa  persino  l'uniforme  grigia  dei  Confederati.  Non  si 
può  servirsi  delle  carrozze  perchè  i  cocchieri  fanno  parte  dei  visi- 
tatori; barzelletta  non  so  se  vera.  Certo  fa  impressione  questa  impo- 
nente dimostrazione  democratica. 

E  come,  da  veri  democratici,  si  accalorano  quando  si  tratta  di 
movimenti  liberali  in  qualsiasi  parte  del  mondo.  Il  Dr.  Howes,  che 
conobbi  a  Boston,  il  quale  ha  combattuto  nelle  prime  guerre  d'indi- 
pendènza della  Grecia,  iniziò  i  meetings  in  favore  degli  insorti  di 
Creta.  Il  suo  esempio  fu  imitato  dagli  uomini  più  influenti  nei  prin- 
cipali centri  del  Nord  e  si  raccolsero  somime  ingenti.^^Sta  bene:  ma 
non  sono  meno  necessari  i  meetings  di  beneficenza,  pure  numerosi  pel 
buon  nome  degli  Yanchees,  perchè'  nel  rapporto  che  ho  sott'occhi, 
pubblicato  da  un  Comitato  nominato  per  studiare  le  condizioni  delle 
classi  povere  in  New  York,  leggo  dettagli  raccapriccianti  :  in  cifre 
da  far  spavento  si  sonumano  i  covi  di  ladri,  i  tuguri  luridi,  i  bambini 
morenti  di  fame,  le  miserie  sotto  le  forme  più  schifose. 

Washington,  12  febbraio  1867. 

Il  temipo  orribile  ha  ridotto  le  strade  in  un  pantano;  si  attraver- 
sano su  certe  passarelle  di  legno  tutt'altro  che  comode.  Ho  dovuto 
fare  uno  studio  topografico  per  arrivare  alla  casa  del  Dr.  Verdi,  man- 
tovano, che  emigrò  dopo  la  presa  di  Roma  nel  '49,  ed  è  il  medico  più 
rinomato  nel  miglior  mondo. 'Mi  fece  un'accoglienza  cordialissima, 
lieto  di  stringere  la  mano  a  un  compaesano.  Dopo  la  visita  a  Verdi, 
corro  a  sgelarmi  nel  tiepido  boudoir  di  Miss  Petts,  e  a  chiacchierare 
gaiamente  con  Miss  Hagarty,  delizioso  tipo  bostoniano:  non  sj  fa 
scorgere  di  essere  versata  nelle  dottrine  astratte,  nelle  scienze  fisiche, 
nel  latino,  nel  greco,  anzi  con  brio,  con  freschezza,  scherza,  balla,  si 


I 


LETTERE  A  MIO  PADRE  DALL'AMERICA  133 

\ 

diverte.  Espande  Tentusiasmo  ^r  i  nostri  laghi  in  pretto  italiano,  ed 
è  beata  del  dono  che  le  faccio  di  un  autografo  di  Garibaldi.  In  cam- 
bio non  mi  dà  il  suo  ritratto;  sono  sempre  restìe  queste  americane  a 
dare  la  loro  imag-ine  :  mi  ebbi  quella  di  Mrs.  Sprague,  in  incisione, 
perchè  è  un'opera  d'arte  del  Banknote  Office.  La  sera  ballo  da  Gover- 
nor  Mot-gan,  dove  aveva  impegnato  il  gernian  con  una  novella  sposa 
di  San  Francisco,  Mrs.  Me  Creerj-,  che  insieme  a  sua  sorella,  moglie 
a  Mr.  Field,  giudice  alla  Suprema  Corte,  incontrerò  in  Italia  nella 
prossima  estate.  Qui  chiamano  gérman  il  cotillon.  Sulle  carte  d'in- 
vito è  scritto  «  al  germian  »  perchè  occupa  la  maggior  parte  della  se- 
rata. Dopo  un  paio  di  danze  si  dà  principio  al  german  che  sovente 
dura  sino  al  levar  del  sole  :  e  il  tempo  è  sempre  di  waltzer  o  di  galop. 
È  un'usanza  comoda  per  gli  innamorati  e  per  il  flirt  :  ma  quando  non 
si  ha  uno  scopo  la  pare  lunga  il  rimanere  per  cinque  o  sei  ore  appic- 
cicati magari  a  una  seccatrice.  I  buffets  e  le  cene  sontuosissimi.  Da 
Gerolt,  ministro  di  Prussia,  danzammo  sabato  solamente  sino  a 
mezzanotte,  per  riguardo  alla  domenica,  osservata  con  scrupolo  pu- 
ritano, tanto  che  diventa  una  giornata  insopportabilmente  noiosa. 
Mrs.  Sprague  portava  dai  Morgan  un  diadema  di  perle  e  di  diamanti, 
e  dav\^ero  era  la  regina  della  festa.  Glielo  dissi.  «  Non  si  dovrebbe 
permettervi  di  essere  regina  in  una  repubblica  »,  ed  essa  di  rimando  : 
«  Né  a  voi  di  essere  un  mio  cortigiano  ». 

Mrs.  Sprague  è  figlia  a  Ghase,  Ministro  del  Treasury  Depart- 
ment; una  bionda  personcina  piena  di  grazia  affascinante,  di  ele- 
ganza squisita:  con  spirito  indemoniato,  con  pronte  risposte  tiene  a 
bada  la  coorte  degli  ammiratori  :  i  suoi  ritrovi  sono  fra  i  più  ricer- 
cati. Il  suo  ballo  fu  il  clou  della  season:  rigida  nella  scelta  degli  in- 
vitati, destò  gelosie  e  pettegolezzi.  I  salotti,  addobbati  in  impecca- 
bile stile  parigino,  cosparsi  artisticamente  di  una  profusione  di  fiori, 
armonizzano  col  carattere  europeo  della  padrona  di  casa  che,  a  com- 
pletare l'illusione,  si  esprime  in  francese  purissimo.  Le  signore,  per 
desiderio  dell'anfitrione,  accennato  nelle  carte  d'invito,  erano  accon- 
ciate alla  marqinse  poudrée:  parecchie,  oltre  la  cipria  avevan  bel- 
letto :  e  molte  del  Far  Owest,  oltre  il  belletto,  toilettes  da  far  traseco- 
lare. Io  mi  rifiutai  perentoriamente  a  scegliermi  una  compagna,  e 
passai  gran  parte  della  serata  accanto  a  Mrs.  Sumner;  la  sua  capiglia- 
tura nerissima  spiccava  superba  in  mezzo  a  quelle  teste  incipriate. 
Mentre  Mrs.  Sprague  mi  passava  davanti  al  braccio  di  Cantagalli, 
che  con  lei  dirigeva  il  german,  mi  compiacevo  di  osservare  il  con- 
trasto fra  quei  due  generi  di  bellezza,  severo  l'uno,  vivace  l'altro, 
rivali  al  primato  nel  campo  mondano.  L'amor  proprio  di  Mrs.  Spra- 
gue fu  poi  piacevolmente  solleticato  dai  sinceri  complimenti  di 
noialtri  Europei  :  fida  più  nel  nostro  giudizio  in  fatto  di  buon  gusto 
che  in  quello  dei  suoi  ottima  connazionali,  i  quali,  forniti  di  qualità 
solide,  mancano  talvolta  della  finitezza  di  cultura,  indispensabile 
per  apprezzare  le  sfumature  delle  scene  sociali. 

Dopo  il  ballo  da  Miss  Sand,  una  figuretta  civettuola,  assai  ca- 
rina, figlia  del  commodoro  Sand,  ancora  un  ballo  da  Mr.  Wallak, 
quindi  parto  in  comitiva  per  una  spedizione  di  caccia  nella  Virginia. 

Luigi  Adamoli. 


AD  TELLUREM  ALENDAM 


Dopo  aver  trasformato  in  concime  o  letame  macero  le  immon- 
dizie nello  sterquàlinium  chiuso  secondo  i  precetti  degli  agronomi 
romani,  noto  qualche  semplificazione  consigliata  dall'esperienza. 

Poiché  le  immondizie  e  lo  stallatico  si  trasformano  più  rapida- 
mente e  completamente  in  letame  stando  ripairati  dal  sole  e  dalle 
intemperie,  quando  non  si  hanno  disponibili  recinzioni  murarie  o 
depressioni  naturaci  del  suolo  non  esposte  all'invasione  di  acque  tor- 
rentizie, né  di  troppo  difficile  smaltimento  delle  pioggie  sovrabbon- 
danti, é  preferibile  scavare  nel  terreno  fosse  profonde  quasi  due 
metri,  e  capaci  di  contenere  il  letame  di  un'annata,  tenuto  presente 
che  l'altezza  del  letame  macero  si  riduce  ad  un  terzo  appena  del 
cumulo  d'immondizie  radunate  nella  concimaia.  Quando  si  dispone 
di  molto  stallatico,  contenente  paglia  satura  di  escrementi  liquidi, 
é  di  somma,  importanza  ohe  nulla  vada  perduto,  né  del  colaticcio, 
ricco  di  nitrati,  me  dei  gas  ammoniacali  svolti  durante  la  fermen- 
tazione. 

La  terra  di  -scavo,  liberata  dai  sassi  mediante  semplice  vaglia- 
tura o  rastrellatura,  può  servire  come  scarpa  declive  al  perimetro 
e  come  letto  assorbente  nel  fondo  deJlo  sterquiliniwnv.  La  parte  re- 
sidua della  terra  vagliata  è  utilizzabile  quale  copertura  del  letame, 
—  spolverate  di  gesso  o  solfato  di  calce  —  perché  assorba  gradata- 
mente l'ammoniaca,  o  distribuisca  le  acque  di  rifiuto  che  vi  pos- 
sono essere  scaricate,  Comipleta  difesa  contro  l'eccessivo  prosciuga- 
mento si  ottiene  utilizzando  coperture  imipermeabili,  tra  le  quali 
molto  efficace  e  abbastanza  duratura  quella  di  lamiere  zincate. 

Stratificato  il  letame,  spolverato  di  gesso  e  ricoperto  di  terric- 
cio 0  di  vecchie  lamiere,  la  fermentazione  comincia  subito,  e  fa  salire 
la  temiperatura  al  grado  dell'ebollizione;  in  capo  a  due  mesi  il  nucleo 
della  massa,  completamente  annerito,  é  ancora  tanto  caldo  da  non 
poterlo  maneggiare,  e  incomodo  a  paleggiarsi  per  il  denso  vapore 
acqueo  che  svolge. 

Protetta  da  terriccio  o  lamiere,  la  massa  dello  sterquilimum 
continua  a  subire  l'azione  del  bacillìis  nitrificans  e  degli  altri  mi- 
crorganismi, che  lo  trasformano  in  nero  concime,  laetamen  ad  tellu- 
rem  alendam;  in  cui  il  calore  della  fermentazione  ha  distrutto  i 
semi  delle  male  erbe,  le  spore  delle  muffe,  le  uova  e  le  larve  degli 
insetti,  disseminati  a  miliardi  di  miliardi  nello  stallatico  e  nelle  im- 
mondizie. La  concimaia  del  viridarivm  palatinvm  funziona  secondo 
i  precetti  raccolti  dagli  agronomi  latini  alla  fine  della  Repubblica  ro- 


AD   TELLUREM    ALENDAM 


135 


mana,  frutto  di  esperienze  agricola  millenarie  della  civiltà  fenicia, 
condensate  nei  libri  che  Catone  sottrasse  alla  distruzione  di  Carta- 
g^ine  e  che  il  Senato  romano  fece  tradurre  in  latino  dalla  lingua 
punica. 

Il  tepore  che  dopo  un  mese  di  fermentazione  continuava  a  svol- 
gere la  massa  del  laelamen,  fu  utilizzato  nel  marzo  1921  per  far 
germogliare  i  tuberi  delle  nuove  qualità  di  batate  dolci  [convolvolus 
edulis),  procuratemi  dal  dottor  Th.  K.  Hunt  del  College  of  Agrictti- 
ture  all'Università  di  California  e  le  prime  forcinate  di  concime 
ben   fermentato  ed   ancor  tepido,   affrettarono  la  germinazione   di 


So//a/o  e//.  Ctt/cf 


Sezione  traversale  d'uno  stbrqviijnivk  profondo  circa  due  metri. 


questi  tuberi  sub-tropicali  restituendo  al  viridarium  palatinum  la 
funzione  di  un  orto  sperimentale  destinato  ad  arricchire  l'Italia  e 
l'Europa  di  nuove  piante  utili  all'uomo. 

Il  doti.  Hunt  venne  a  Roma  qual  dettato  all'Istituto  Intemazio- 
nale d'Agricoltura;  prese  molto  a  cuore  il  funzionamento  del  viri- 
dario  rivissuto  nel  Cinquecento  qual  giardino  sperimentale  negli 
Horti  FamesioTum,  che  accoglieva  e  propagava  fino  al  secolo  xvii 
i  semi  e  i  tuberi  di  piante  esotiche,  sopratutto  dell'America  centrale. 
e  meridionale. 

Tra  i  semi  e  i  tuberi  inviati  dalla  stazione  sperimentale  di  Ber- 
keley, mi  piace  ricordare  tre  varietà  di  granoturco  [zea  mays)  che 
ho  affidato  alla  R.  Scuola  pratica  di  Agricoltura,  sulla  via  Ardeatina 
ed  alla  «  Scuol*.  dei  giovani  coltivatori  »  (orfani  di  contadini  morti 
in  guerra)  presso  villa  Doria-Pamphilj,  ed  alcune  varietà  di  arachidi 
0  nocciole  americane  {pea  nuts)  e  di  patate  ordinarie  [solanum  tube- 
roswin)  selezionate,  che  servirono  a  controllare  l'efficacia  del  letame 
macerato  negli  Orti  Famesiani  col  sistema  antico  romano. 

Due  varietà  di  patate  ottenute  dal  College  of  Agriciilture  del- 
l'Università di  California,  superarono  a  meraviglia  il  primo  esperi- 
mento; la  Irish  Cobbler  (bianca  irlandese)  e  la  Green  Mountain 
(rosa  del  Massachusetts)  furon  distribuite  il  15  febbraio  a  quincunce 
entro  fossette  scavate  ai  vertici  di  triangoli  di  m.  0.60  di  lato,  con- 
tenenti il  letame  già  fermentato,  ma  ancor  tiepido,  e  le  patate  da 
semina  suddivise  in  pezzetti  di  circa  25  grammi,  con  una  gemma 
ciascuno;  in  guisa  che  per  ogni  metro  quadrato  bastasse  un  etto- 
grammo di  patata  madre.  Il  tepore  del  concime  ne  stimolò  la  germi- 


136  AD  TELLUilEM   ALENDAM 

nazione,  che,  agevolata  dalla  stagione  favorevole,  per  temperatura 
€d  umidità,  continuò  regolare,  producendo  fusti  nnolto  vigorosi,  i 
quali  rasgi unsero  il  pieno  sviluppo  in  soli  tre  mesi;  poi  lo  sviluppo 
c<3S9Ò,  e  prima  ancora  di  fiorire  come  le  patate  cresciute  in  Europa, 
le  due  nuove  varietà  californesi,  cominciarono  a  disseccarsi. 

Il  15  giugno,  dopo  4  mesi  dalla  semina,  le  piante  avevano  la 
fronda  vizza  e  il  fusto  aninerito,  e  le  feci  togliere.  Ma  invece  dei  tu- 
beri minuscoli  o  mediocri  delle  solite  patate  novelle  precoci,  ogni 
gemma  delle  nuove  patate  americane  aveva  prodotto  cinque  o  sei 
gix)ssi  tuberi,  perfettamente  lisci,  a  buccia  sottile  bionda,  traspa 
rente  sulla  polpa  candida  e  rosea;  e  di  un  peso  che  supera  molte 
volte  i  gr.  500  p-er  tubero.  Ogni  pianta  ha  fruttato  in  media  2  kg. 
di  tuberi;  il  doppio,  cioè,  delle  comuni  patate  nostrane  europeizzate. 

A  parte  il  maggior  rendimento,  è  degno  dell'attenzione  degli 
agricoltori  italiani  il  fatto  che  queste  nuove  varietà  di  patate  califor- 
nesi hanno  una  rapidità  e  regolarità  di  9vilupix>  veramente  singo- 
lare, in  rapporto  alla  breve  durata  della  vegetazione  ed  all'abbon- 
danza del  prodotto.  Per  verificare  come  si  comporteranno  i  nuovi 
tuberi  sino  al  febbraio  venturo,  li  ho  stratificati  in  cenere  asciutta; 
qualche  tubero  di  minor  conto  servì  ad  esperienze  di  cottura,  e  diede 
risultati  paragonabili  alle  migliori  varietà  nostrane. 

Altre  due  qualità  c;alifornesi  [Rwral  New  Yorker  e  Early  Ohio) 
vegetarono  fino  al  quinto  mese,  conservando  il  fusto  eretto  e  la 
fronda  verde  scura,  senza  alcun  indizio  di  malattie,  quantunque  la 
primayera  troppo  mite  ed  incostante  avesse  guastato  altre  solanacee, 
raccolsi  nella  seconda  metà  di  luglio  (cinque  mesi  dopo  la  semina) 
i  tuberi  del  Rvral  New  Yorker,  magnifici,  bianchi  e  lisci,  molti  dei 
quii  sorpassavano  i  500  gr.;  qualcuno  mostra  la  tendenza  alla  sal- 
datura del  tubero  maggiore  con  altri  più  piccoli.  Solo  il  1°  agosto, 
cinque  mesi  e  mezzo  dalla  semina,  le  fronde  ed  i  fusti  della  quarta 
varietà  di  patate  californesi,  la  Early  Ohio,  erano  appassiti,  mentn 
il  nome  di  primaticcia  dato  a  questa  varietà  avrebbe  dovuto  corri 
spondere  ad  una  maturazione  meno  tardiva.  Però,  in  compenso,  i 
tuberi  erano  pivi  sviluppati  t;  lisci;  taluni  superarono  in  peso  i 
700  grammi. 

Conservo  questi  tuberi  nella  cenere  fino  a  mezzo  febbraio  1922, 
per  distribuirli  alle  Scuole  pratiche  d'agricoltura  della  campagna 
romana  o  dei  Colli  albani,  desiderose  e  capaci  di  dedicarsi  alla  pro- 
pagazione di  un  vegetale  che  offre  in  breve  tempo  e  con  minime 
cure  un  prodotto  alimentare  di  rendimento  sup<?riore  a  quello  di 
molte  altre  piante  coltivate  in  Italia. 

• 

Mentre  i  germogli  delie  quattro  nuove  varietà  californesi  della 
patata  ordinaria  {solarium  tuberosum),  piantate  a  qinncimx,  di 
stanti  60  om.  l'una  dall'altra,  a  metà  febbraio,  sviluppavano  le  foglit 
ai  primi  di  marzo,  misi  a  forzare  in  letto  caldo  (stallatico  equino 
con  un  palmo  di  terra  alla  superfìcie  e  coperto  parte  a  vetri  e  parte 
con  tela  paraffinata  semi-trasparente)  alcune  nuove  varietà  di  batate 
dolci  {corìva'viUtis  eduUs),  tra  cui  la  Nancy  Hall,  Red  Bermuda. 
Red  &  Difi  Stein  Jersey,  Yellow  Strashurg,  che  germogliarono  tutto. 


AD   TELLUREM   ALENDAM 


13- 


IRISH 

■cobbler; 


grammi  5(J0 


GREEN 

ImountainJ 


grammi  5(X) 


RURAL 
.NE\)i'YORKER 


lÀ 


grammi    600 


grammi  750 


grammi    200 


Varietà  di  solanvh  tvbebosvk  selezionata  dall'Università  di  Califomift 
nei  terreni  sperimentali  sul  Pacifico,  confrontate  ai  tuberi  che  si  coltivano  dal 
secolo  XVI  in  provincia  di  Roma. 

10  Voi.   CCXVI,  serie  VI  —  16  gennaio  l9tZ. 


138     ,  AD  TELLUREM   ALENDAM 

Nel  magg-io  i  getti  o  talee  di  queste  nuove  varietà  subtropicafi 
americane,  essendo  passato  il  pericolo  delle  brine,  erano  già  pronte 
ad  essere  trapiantate  alla  distanza  di  60  centimetri  l'una  dall'altm 
in  terreno  sciolto,  prefcribiknente  huinìis  l^gero  ottenuto  con  la  de- 
composizione di  sijxizz3.ture,  ma  qualcuno  dei  tuberi  avendo  tardato 
a  germogliare  sotto  vetro  o  germogliando  da  sé  avendolo  tenuto 
a  parte  come  esperimento,  distribuii  le  talee  ritardatane  nelle  stesse 
buche  dalle  quali  estraevo  le  patate  comuni  già  mature  alla  metà 
di  giugno  e  nelle  quali  rimaneva  un  po'  del  letame  del  feb- 
braio, macerato  al  coperto  secondo  i  precetti  di  Vairone.  Le  talee 


^<rièO 


f^ 


\ 


OONVOLVVLVS     BOVUS. 

Nuove  varietà  di  batate  dolci  del  Texas,  New-Mexico,  Jersey  ed. altri  Stati 
meridionali  dell'Unione  americana. 

crebbero  vigorose  e  raggiunsero  nel  luglio  lo  sviluppo  di  quelle  col- 
locate ai  primi  di  miaggio  e  vegetarono  fino  al  principio  di  novembre 
quando,  dopo  qualche  nottata  fredda,  cominciarono  ad  abbrunire. 
Feci  togliere  i  tralci,  molti  dei  quali,  toccando  terra  nelle  inginoc- 
chiature, mettevano  le  radici;  li  affidai  alla  R.  Scuola  pratica,  d'Agri- 
coltura perchè,  disponendo  d'una  serra  fredda,  li  faccia  vivere  uno 
accanto  all'altro  fino  al  maggio  1922.  Feci  poi  scavare  i  tuberi  che, 
■malgrado  il  ritardo  di  un  niese  e  mezzo  nel  mettere  a  dimora  le  talee, 
presentavano  un  ottimo  sviluppo.  Spero  che  l'anno  venturo  la  R.  Scuo- 


AD   TELLUREM    ALENDAM  139 

la  pratica  di  agricoltura  vorrà  proseguire  e  controllare  l'esperimento; 
ma  per  ora  e  per  una  prova  iniziale  mi  pare  notevole  il  fatto  che 
la  stessa  buca  di  terriccio  misto  a  letame  ottenuto  secondo  l'uso 
antico  romano,  abbia  dato  due  raccolte  di  tuberi,  una  dalla  metà 
di  febbraio  alla  metà  di  giugno  con  patate  che  sorpassarono  il  peso 
di  700  grammi  e  l'altra  da  giugno  a  novembre  con  batate  dolci  che 
raggiunsero  i  2  chili  ciascuna,  sia  nelle  varietà  gialle  succolente 
che  ricordano  l'ottima  zucca  barucca  di  Chiog^a,  che  in  quelle  color 
crema,  bianche  e  dense,  che  egTiagliano  per  aroma  e  pasta  farinacea 
zuccherina  le  migliori  castagne  o  marroni  da  candire  dell'Amiata. 


* 
•  • 

Oltre  a  questi  tuberi,  ho  sperimentato  nel  reparto  della  flora  del 
Rinascimento  alcuni  tubercoli  di  Helianthus  decapetalus^  che  il  di- 
rettore dell'Istituto  botanico  di  Torino  mi  consigliava  di  propagare 
negli  Orti  Famesiani,  essendo-  stato  introdotto  a  Roma  dal  cardinale 
Odoardo  Farnese  verso  il  1616.  (0.  Mattirolo,  Prove  di  coltivazione 
delVH.  D.  Annali  della  R.  Acc.  d'Agricoltura  di  Torino,  1910>.  Que- 
sta composita  del  Nord  America,  è,  come  il  topinambour  [H.  tube- 
Tosus)  ed  il  girasole  [H.  annuus),  assai  ornamentale  per  la  ricca  fiori- 
tura color  giallo  oro;  i  suoi  numerosi  tubercoli,  sbucciati  con  acqua 
bollente  e  fritti,  son  gustosi  e  nutritivi,  contenendo  il  18  per  cento  di 
saccarosio,  inulina  e  idrati  di  carbonio.  Trattandosi  di  una  pianta  fo- 
raggera-alimentare  che  vive  in  ogni  terreno  e  resiste  al  gelo  ed  alla 
siccità,  ne  donai  i  tuberi  alla  Direzione  Generale  delle  ferrovie  dello 
Stato  affinchè  li  coltivi  per  utile  bellezza  nelle  arginature  e  scar- 
pate della  solitaria  maremma. 

Un  inerìiorandum,  pubblicato  lo  scorso  dicembre  dall'Ufficio  per 
i  combustibili  {Fuel  Research  Board)  di  Londra,  descrive  gli  espe- 
rimenti di  coltivazione  dell'elianto  tuberoso  [Jerusalem  artichoké) 
combinata  alle  fattorie  e  latterie  cooperative  ed  all'allevamento  di 
maiali;  combinato  all'estrazione  di  alcool  e  cellulosa  dai  tuberi  colti- 
vabili nelle  terre  abbandonate,  facendole  produrre  sostanze  alimen- 
tari, per  ricavarne  combustibile  liquido,  sostanze  utili  alle  industrie 
della  pace,  e  quali  solventi  o  materie  esplosive  in  tempo  di  guerra, 
fornendo  il  gambo  degli  elianti  una  fibra  convertibile  in  nitro-cel- 
lulosa. 

Elianti,  patate  e  batate  dolci  amano  un  terreno  ricco  di  potassa. 
I  tuberi  sperimentati  nel  1921  sul  Palatino  devono  in  parte  il  loro 
maggior  sviluppo  ai  fertilizzanti  potassici  estratti  dalla  leucite  per 
merito  del  barone  Alberto  Blanc.  Elemento  necessario  alla  vita  delle 
piante,  la  potassa  abbonda  in  Italia  nelle  roccie  laviche  di  alcuni  vul- 
cani spenti.  Il  risultato  degli  sforzi  combinati  dalla  scienza  e  dal- 
l'industria permette  di  fare  assegnamento  su  di  una  pratica  utTliz- 
zazione  di  tali  roccie,  sia  come  fertilizzante  diretto,  sia  come  fonte  di 
sali  potassici  solubili,  preziosi  oltreché  all'agricoltura  anche  all'in- 
dustria italiana,  tributaria  per  tali  materie  prime  all'estero. 

L'avvenire  economico-sociale  della  nostra  razza  domanda  che  in- 
tensifichiamo la  produzione  alimentare  fino  a  bastare  ai  bisogni 


140  AD  TELLUREM   ALENDAM 

dell'Italia,  per  liberarla  dah  gravoso  e  vergognoso  tributo  che  è  co- 
stretta a  pagare  in  oro  ad  altre  nazioni,  le  quali  ci  somministrano  uve 
da  mensa  e  farinacei,  marmellate  d'arancio  e  mosto  e  latte  condensato. 
Invece  di  convertire  l'energia  solare  di  cui  va  ricca  la  patria  nostra 
in  bevande  alcooliohe,  le  quali  intorpidiscono  lo  stomaco  e  illudono 
il  senso  di  fatica,  ma  non  sono  né  nutritive  né  ristoranti;  invece  di 
far  venire  dall'estero  le  sostanze  veramente  alimentari,  che  non  ^sap- 
piamo ottenere  in  casa  nostra,  bisogna  dedicare  ogni  cura  alla  sele- 
zione e  propagazione  di  piante  per  utilità  e  rendimento  economico  le 
più  adatte  ai  nostri  terreni  e  ai  nostri  climi. 

Nel  restituire  per  qualche  mese  il  Viridarium  Palatinum  dell'età 
imperiale,  gli  Horti  Famesiorum  del  Rinascimento,  alle  funzioni  di 
giardino  sperimentale,  alla  coltivazione  delle  piante,  che  quanto  a 
bellezza  e  valore  nutritivo  sono  le  più  utili  all'uomo,  ero  lieto  che  da 
questo  centro  d'irradiazione  dell'antica  civiltà  latina  partisse  l'esem- 
pio di  ciò  che  l'Italia  saprà  un  giorno  nuovamente  produrre  per  la 
gioia  e  il  nutrimento  dei  suoi  figli. 

GucoMo  Boni. 


IL  MONDO  DELLA  FANTASIA  E  DELL'ARTE 

DI  E.  T.  A.  HOFFMÀNN 


Quando  si  affenna  che  vero  e  grande  poeta  —  e  diciamo  poeta 
nel  senso  letterale  e  più  proprio  della  parola  —  è  solo  quello  che 
riesce  a  suscitare  in  noi  nuove  e  profonde  emozioni,  si  intende  senza 
dubbio  dire  che  tale  poeta,  nel  dare  forma  di  espressione  artistica  al 
suo  mondo  interiore,  ha  anche  la  facoltà  e  la  potenza  di  riprodurre  e 
dar  vita  a  una  parte  della  misteriosa  attività  del  nostro  spirito,  cioè 
dello  spirito  universale,  della  quale  noi  possiamo  talvolta  avere  ap- 
pena avvertito  l'esistenza,  ma  che  egli  riesce  ad  allargare,  approfon- 
dire e  nello  stesso  tempo  precisare,  illuminandola  con  la  sua  arte,  in 
modo  che  noi  sentiamo,  nell'erompere  delle  emozioni  nuove,  allar- 
garsi il  mondo  stesso  della  nostra  vita. 

Così,  quando  leggiamo,  ad  esempio,  le  liriche  del  Leopardi,  i 
canti  della  perenne  malinconia  e  dell'infinito  dolore,  noi  sentiamo 
improvvisamente  sorgere  e  ingigantire  quel  senso  di  nascosta,  vaga 
e  più  spcisso  incompresa  tristezza  che  pure  viv^  in  noi,  e  solo  allora 
e  solo  così  comprenderemo  e  intenderemo  appieno  l'anima  e  l'arte 
di  questo  grande  poeta.  Alla  stessa  maniera  quando  il  Goethe  ci  sol- 
leva con  molte  delle  sue  liriche  in  una  sfera  di  vita  serena  e  tran- 
quilla, come  una  zona  di  silenzio  e  di  azzurro,  sentiamo  come  dila- 
tarsi quel  lembo  di  cielo  che  una  serie  di  momenti  felici  lasciò  illu- 
minato in  un  angolo  del  nostro  spirito  e  diventare  viva  e  potente  la 
nostalgia  sognatrioe  verso  questa  piena  chiarità  di  luce. 

Questo  stesso  fascino  e  analoghe  ripercussioni  produce  su  noi 
la  prosa  di  Hoffmann,  il  poeta  della  fantasia  (1).  Per  essa  avviene 

(1)  Questa  definizione  potrà  sembrare,  per  lo  meno,  una  tautologia,  ma 
pivi  facilmente  si  vorrà  vedere  in  essa  l'espressione  d'uil  concetto  anacroni- 
stico —  in  tema  di  estetica  — ,  che,  riesumando  una  terminologia  ormai  sor- 
passata, rivela  un'assoluta  ignoranza  di  tutto  il  trentennale  movimento  filo- 
sofico che  fa  capo  al  Croce,  o,  forse,  anche  un  tentativo  di  reazione,  appunto, 
a  uno  dei  caposaldi  della  concezione  filosofica  ed  estetica  crociana.  Occorre 
pertanto  qualche  chiarimento. 

Chiamando  Hoffmann  il  poeta  della  fantasia,  abbiamo  soltanto  inteso, 
qui,  dare  speciale  rilievo  alla  prevalenza  che  l'elemento  fantastico  ha  nella 
produzione  hof fmanniana  ;  la  definizione  ha,  dunque,  un  valore  tutt' altro  che 
assoluto.  Senonchè  —  si  domanderà  —  può  esserci  vera  e  propria  creazione 
poetica  che  non  sia  tutta  e  solamente  creazione  fantastica?  Perchè,  eviden- 
temente, tutta,  qui  è  la  questione;  ma  noi  non  pretenderemo  trattarla  in  una 
nota  e  tanto  meno  oseremmo  sperare  mai  di  risolverla.  Noi  vogliamo  soltanto 
dire  che  proprio  in  questa  domanda  s'annida  ancora  il  nostro  dubbio  assil- 
lante, malgrado  la  chiara  precisa  affascinante  risposta  del  Croce.   Perchè,  in 


142     IL   MONDO  DELLA  FANTASIA  E  DELL'ARTE  DI  E.   T.  A.  HOFFMANN 

iafatti  che  quella  nostra  attività  fantastica,  la  quale  comunemente 
vive  in  noi  limitfita,  diremmo  quasi  disciplinata  per  virtù  d'un  na- 
turale equilibrio  con  le  altre  attività  d<?lla  nostra  vita  spirituale,  sia 
per  uno  sforzo  di  volontà,  sia  per  effetto  di  consuetudine,  si  sfrena 
d'un  tratto  libera  e  violenta.  E  portati  così  a  vivere  nel  mondo 
straordinario  che  Hoffmann  ci  pone  innanzi,  ricordiamo  che  questo 
stesso  mondo  abbiamo  talvolta  intravveduto  o  sentito  palpitare  in 
noi,  e  verso  di  esso  ci  siamo  lasciati  tal'altra  trascinare,  come  obbe- 
dendo a  una  vaga  e  irresistibile  attrazione,  nelle  nostre  fantasticherie. 
Ora  osso  ridiventa  nostro. 

Hoffmann  mostra  di  trarre  tutto  dalla  propria  fantasia,  dalla 
quale  egli  «  ascolta  le  storie  capricciose  e  bizzarre  »  che  narra  (1).  E 
la  fantasia  —  fonte  precipua  della  -sua  ispiraziome  —  tende  ad  ap- 
parire quasi  semipre  pura,  cioè  libera  da  ogni  influsso  di  sentimento 
o  di  riflessione,  perchè  mentre  quello  è  inavvertito,  quest'ultima  — 
die  logisierende  Vemunft  —,  come  la  chiama  Wagner,  è  del  tutto 
esteriore,  servendo  soltanto  a  logicamente  collegare  fra  loro,  come  un 
filo  tenue  e  invisibile,  le  successive  imagini. 

Occorre  peraltro  notare  subito  che  a  questa  pura  ispirazione  fan- 
tastica più  spesso  si  ajocompagnano  imagini  visive  e  auditive  —  co- 
loristiche, musicali  e  anche  olfattive  — ,  le  quali  conupletano  l'atti- 
vità creatrice  della  fantasia  e  servono  mirabilmente  quali  elementi 
sussidiari  dell'esppessione  artistica.   Soprattutto  straordinaria  è  in 

verità,  come  ci  lascia  perplessi  e  dubbiosi  la  necessità,  che  pur  logicamente 
s'impone  dopo  siffatte  premesse  teoriche,  dì  considerare  come  frammentaria 
la  Divina  CoTìit,media,  di  spezzare  cioè  la  sua  unità  poetica  e  quindi  la  com- 
mozione ch'essa  produce  in  noi,  fondamentale  e  unitaria,  perchè  aderente  al- 
l'intero Poema,  la  quale  può  bensì  avere  momenti  d'intensità  profonda  — 
come  in  quasi  tutta  la  parte  episodica  —  o  di  vibrazioni  appena  percettibili, 
altrove,  ma  che,  pur  tuttavia,  non  ci  si  rivela  mai  con  assolute  e  inassociabili 
soluzioni  di  continuità;  così  altrettanto  perplessi  e  tormentati  ci  lascerebbe 
l'analoga,  perchè  anch'essa  logicamente  inevitabile,  necessità  di  sfrondare, 
ad  €«.,  la  lirica  del  Leopardi  di  tutti  gli  elementi,  o  profondamente  meditativi, 
o  puramente  emotivi,  senza  i  quali  la  commozione  che  suscitano  i  suoi  canti 
disperati   resterebbe  inesorabilmente  stroncata  e,  comunque,  div^ersa. 

Noi  non  possiamo  negare  l'unità  dello  spirito,  ma  non  possiamo,  dunque, 
negare  neppure  la  sua  complessità,  donde  ha  origine  anche  l'attività  estetica, 
e  che,  pur  rivelandosi  ne'  suoi  molteplici  elementi  originari,  tutti  li  mostra 
atti  a  essere  ricongiunti  in  una  superiore  perfetta  armonia.  E^cco  perchè  la  de- 
finizione data  per  Hoffmann  è  sì  approssimativa,  ma  non  è  una  tautologia, 
né  un'inconsiderata  frase  vecchio  stile  e  tanto  meno  un  pr^esuntuoso  tentativo 
di  reaziono  o  di  superamento.  E^ssa  racchiude  soltanto  un  dubbio,  che  il  cri- 
tico, ponendosi  a  contatto  con  roi>era  di  Hoffmnnn,  non  ha  saputo  superare  e 
anzi  ha  sentito  accrescersi,  e  che  fatalmente,  viene  a  jwrre  un  punto  inter- 
rogativo sopra  un  problema,  cui  il  Croce  ha  enormemente  allargato  l'orizzonte, 
ma  sul  quale  egli  stesso  non  ha  mai  preteso  di  aver  detto  l'ultima  parola. 

(1)  Hoffmann  racconta:  <«  Appena  mi  fui  seduto,  mi  abbandonai  al  facile 
giuoco  della  mia  fantasia,  la  quale  mi  portava  figure  amiche,  con  cui  io  con- 
versavo di  scienza,  di  arte  e  insomma  di  tutto  ciò  che  può  riuscire  più  grade- 
vole ».  Bitter  Gluk,  Sàmtliohe  Werke  hrg.  von  E.  Grisebach.  voi.  T,  pag.  11. 
In  altro  luogo,  rivolgendosi  al  lettore,  dice:  «  Chi  ha  scritto  queste  pagine... 
ti  prega,  con  il  cuore  oppresso  dalla  tristezza,  di  considerare  con  animo  lieto 
e  magari  amichevole  le  strane  figure  che  il  poeta  deve  unicamente  a  quello 
spettro  che  si  chiama  Fantasia Klein  Zaches,  ed.  cit.,  voi.  V,  pag.  95. 


IL   MONDO  DELLA  FANTASIA  E  DELL'ARTE  DI  E.  T.  A.  HOFFMANN     143 

Hoffmann  la  sensibilità  musicale,  la  quale,  oltre  che  nella  sua  note- 
vole attività  di  compositore  e  di  critico  (i),  si  rivela  anche  qua  e  là 
in  tutti  i  suoi  racconti  e  specialmente  nelle  Kunstrùpvelleri.  Per  mode 
che  si  potrebbe  affermare,  senza  tema  di  esagerazione,  ohe  in  nes« 
5uno  scrittore  —  se  se  ne  eccettui  Wagner,  del  quale  Hoffmann  è  il 
più  diretto  e  il  più  grande  precursore  (2)  —  l'elemento  musicale 
abbia  avuto  un  influsso  uguale  a  quello  esercitato  sull'ispirazione 
dal  nostro  poeta.  Il  quale  rivendica  alla  musica  un  carattere  e  una 
funzione  di  assoluta  preminenza,  non  soltanto  nella  sua,  ma  in  tutta 
l'arte  romantica,  la  sola,  la  vera,  la  grande  arte  —  come  egli  la  con- 
siderava. «  La  musica  è  la  più  romantica  di  tutte  le  arti,  si  potrebbe 
quasi  dii'e  la  sola  genuinamente  romantica,  giacché  l'illimitatezza 
soltanto  le  si  può  rimproverare.  E  come  la  lira  di  Orfeo  aprì  le  porte 
dell'inferno,  così  la  musica  schiude  agli  uomini  un  regno  sconosciuto; 
un  regno  che  non  ha  nulla  di  comune  con  il  mondo  esteriore  dei 
sensi  »  (3) . 

È  naturale,  pertanto,  che  il  mondo  artistico  di  Hoffmann  si 
presenti  in  forma  piena  e  complessa;  si  potrebbe  dire  come  una 
mirabile  sinfonia  di  imagini,  di  suoni  e  di  colori  (4).  «Un  mondo 
variopinto,  pieno  di  visioni  magiche,  scintilla  e  fiammeggia  a  me 
d'intorno;  ho  la  sensazione  che  debba  venirne  fuori  qualcosa  di  gran- 
dioso, che  un'opera  d'arte  debba  sorgere  prodigiosamente  da  questo 
caos,  ma  non  saprei  certo  dire  se  essa  sarà  un  libro,  un'opera  mu- 

(1)  È  noto  come  Hoffmann  musicasse,  fra  l'altro.  Des  Kreuz  an  der  Ostsee, 
del  Werner,  Undine  di  La  Motte  Fouqué,  Die  lustigen  Musikanten  del  Bren- 
tano, che  peraltro  non  ebbe  succeseo.  Scrisse  e  musicò  inoltre  un'opera  roman- 
tica: Liebe  und  Eifersucht,  e,  più  tardi,  un'opera  romantica,  ora  perduta: 
Die  ungelandenen  Gàite  oder  der  Kanonikus  von  MaUand,  tratta  da  una  no- 
Tella  francese.  La  sua  attività  di  critico  musicale,  dedicata  specialmente  « 
Beethoven,  contenuta  nel  voi.  XV  della  citata  edizione  del  Grisebach,  meri< 
terebbe  uno  studio  a  parte. 

(2)  La  documentazione  di  questa  affermazione  potrebbe  essere  ricchissima, 
ma  essa  ci  porterebbe  troppo  lontani  dallo  studio  che  ci  propioniamo  di  faro 
sa.  Hoffmann.  come  novelliere.  Ad  ogni  modo,  per  maggiori  chiarimenti  V. 
Hans  v.  Wolzogen,  E.  T.  A.  Hoffmann  vnd  B.  Wagner.  Verlag  Deutsche 
Bucherei,  Otto  Koobs^  Berlin.  A  noi  basterà  ricordare  che  in  Hoffmami  si 
trova  già  chiaramente  accennata  la  teoria  wagneriana  dei  temi;  essa  appare 
oome  una  naturale  manifestazione  della  sua  straordinaria  sensibilità  musicale 
e  del  suo  temperamento  d'artista.  «  Una  volta  Fouqué  stava  narrando  non  «o 
pili  che  cosa  ;  Hoffmann  sedette  al  piano  e,  accompagnando  il  racconto  dell'a- 
mico, coloriva  i  vari  punti  con  toni  diversi,  ora  terribili,  ora  bellicosi,  ora 
teneri,  dolci  o  commoventi,  e  tutto  ciò  faceva  con  una  facilità  e  una  preci- 
sione sorprendenti  ».  Oehlenschaeger,  Lehenserinnerungen ,  voi.  Ili,  pag.  203. 

(3)  Kreisleriana.  Beethovens  Instrumental  -  Musik,  ed.  cit.,  voi.  I,  pag.  37. 

(4)  Hoffmann  aveva  perfettamente  intuito  il  valore  della  musica  sinfo- 
HÌca  ;  lo  si  potrebbe  agevolmente  dimostrare  attraverso  innumerevoli  esempi. 
Ne  citeremo  soltanto  uno,  tratto  dalla  descrizione  di  una  gara  dei  maestri 
cantori  di  Norimberga.  «  Ciascuno  avieva,  senza  dubbio,  una  sua  particolare 
melodia  ;  ma  come  ciascuna  parte  d'un  accordo  ha  un  tono  diverso  e  tuttavia 
tutti  i  toni  si  accordano  fra  loro  mirabilmente,  così  avveniva  che  anche  I© 
piii  svariate  melodie  dei  maestri  si  fondessero  le  une  con  le  altre  in  una  sola 
armonia  e  apparissero  come  i  raggi  d'una  medesima  stella  luminosa  ».  Der 
Kampf  der  Sànger,  voi.  VII,  pag.  27. 


144     IL   MONDO  DELLA  FANTASIA  E  DELL'ARTE  DI  E.  T.  A.  HOFFMANN 

sdcale,  un  quadro...»  (1).  E  questa  facoltà  di  raccogliere,  come  in 
un'unica  sinfonia,  varie  manifestazioni  che  la  Natura  può  talvolta 
sug'gerirgli,  ma  che  piià  spesso  la  sua  sensibilità  e  la  sua  fantasia 
creano  ed  elaborano  quasi  da  sole,  si  rivela  in  un'altra  confessione 
del  poeta:  «Non  tanto  nel  sogno,  quanto  in  quello  stato  di  delirio 
che  precede  il  sonno,  specialmente  quando  ho  ascoltato  molta  mu- 
sica, mi  avviene  di  percepire,  in  una  i>erfetta  armonia  fra  loro,  co- 
lori, toni  e  profumi.  Mi  sembra  allora  che  essi  si  rivelino  nella  stessa 
misteriosa  maniera  attraverso  un  raggio  di  luce,  per  poi  ricomiporsd 
in  un  unico  maraviglioso  concerto». 

Veramente  incomparabile  è  in  Hoffmann  la  potenza  della  fan- 
tasia, a  tal  punto  che  se  talvolta  gli  accade  di  dover  riassumere  al- 
cuni avvenimenti  già  noti,  l'imaginazione  di  nuovo  gli  si  accende; 
egli  non  può  né  sa  allora  sottrarsi  all'imperioso  bisogno  di  abban- 
donarsi ad  essa  liberamente  e  sulla  vecchia  storia  una  nuova  e  del 
tutto  diversa  egli  ne  crea  e  descrive  (2).  Più  di  frequente  la  fantasia 
lo  porta  tanto  al  di  tt.  del  verosimile  che  egli  perde  ogni  controllo 
su  se  stesso;  allora  una  ridda  di  imagini  confuse,  slegate  fra  loro 
si  sfrena;  il  poeta  ne  resta  soggiogato  e  come  sopraffatto  senza  la 
possibilità  né  di  liberarsene,  né  di  afferrarle  interamente,  ordinarle, 
fissarle.  Una  specie  di  delirio  lo  invade  e  lo  infiamma  e  tutte  le  ima- 
gini che  la  fantasia  gli  va  creando,  senza  posa,  sembrano  allora  rac- 
cogliersi tumultuariamente,  mettersi  in  movimento,  turbinare  in 
modo  vertiginoso.  «  Un  calore  tenue  si  insinuò  a  poco  a  poco  nel  mio 
intimo;  tutte  le  mie  vene  furono  invase  come  da  un  formicolio  strano 
e  cominciarono  ad  agitarsi  e  fremere.  Questa  sensazione  presto  si 
trasformò  in  imagini  e  mi  parve  allora  che  il  mio  io  si  fosse  spezzato 
in  cento  parti,  ognuna  delle  quali  avesse  nel  suo  moto  particolare 
una  sua  coscienza  della  vita,  in  modo  che  il  capo  perdette  ben  presto 
ogni  dominio  sulle  membra,  che,  come  vassalli  infedeli,  si  rifiuta- 
vano di  restare  sotto  il  suo  comando.  Allora  avvenne  ohe  le  imagini 
delle  singole  parti  cominciarono  a  girare  su  se  stesse,  come  punti 
luminosi,  sempre  più  veloci,  sempre  più  veloci,  sì  da  formare  un  cir- 
colo di  fuoco  che  rimpiccioliva  a  mano  a  mano  che  la  velocità  au- 
mentava, finché  tutto  apparve  come  una  luminosa  palla  immobile.  Da 
essa  sprizzavano  raggi  infuocati,  che  alla  loro  volta  cominciarono  ad 
agitarsi  in  un  giuoco  di  fiamme  multicolori.  Allora  pensai  :  ecco  le 
mie  membra  che  ricominciano  a  muoversi;  ora  io  mi  sveglio»  (3). 

Da  questi  incendi,  frammenti  di  luce  e  di  poesia  riuscì  ad  Hoff- 
mann di  raccogliere  e  fissare  qua  e  là  in  tutti  i  suoi  racconti,  ma  la 
maggior  parte  di  essi  —  come  meglio  vedremo  in  seguito  —  sfuggì 
a  lui  interamente.  A  noi  non  è  dato  allora  che  intuire  il  vano  sforzo 
che  tormentò  il  poeta  per  tradurli  in  parole. 

(1)  Lettera  a  Hippol  del  28  febbraio  1804.  V.  anche  Einieitung  del  Gri- 
sebiich,  pag.  xrvi. 

(2)  Quando  Medardo,  messo  in  prigione,  mol  narrare  quanto  è  avvenuto, 
perchè  nella  verità  egli  trova  la  sicura  dimostrazione  della  propria  innocenaa, 
«lice:  «Lavorai  oon  lena  fino  a  notte  tarda,  ma,  scrivendo,  la  mia  fantasia  si 
accendeva  e  tutto  veniva  assumendo  la  forma  d'un  racconto  imaginario,  finché 
la  mia  esposizione  risultò  un  cumulo  di  menzogne,  con  le  quali  speravo  di  na- 
•oondero  al  giudice  la  verità  ».  Elixiere  def  Teufels,  ed.  cit.,  voi.  II,  pag,  201. 

(3)  Elixiere  des  Teufels,  voi,  II,  pag.  165. 


IL   MONDO  DELLA  FANTASIA  E  DELL'ARTE  DI  E.   T.  A.  HOFFMANN     145 


* 
•  • 


Il  mondo  fantastico,  più  spesso  variopinto  e  canoro,  dal  quale 
Hofimann  trae  le  sue  visioni  vagamente  indefinite,  e  perciò  innu- 
meri e  rapidamente  soiccedentisi  le  une  alle  altre,  è  il  mondo  del 
maravigiioso.  Esso  è  in  sé  e  per  sé,  per  la  sua  stessa  natura,  invisi- 
bile e  inaccessibile;  tuttavia  mette  talvolta  foglie  e  germogli  che  noi 
possiamo  per  un  istante  intravedere  e  per  mezzo  dei  quali,  come  per 
logica  e  naturale  concatenazione,  riusciamo  a  intuire  e  anche  a  ima- 
ginare  la  loro  fonte  di  origine.  Queste  foglie  e  questi  germogli,  ema- 
nazioni dirette  del  maravigiioso  e  di  questo  meno  lontane  e  quindi 
meno  inaccessibili  a  noi,  costituiscono  il  fantastico.  «  Al  fantastico 
{Wunderlich)  appartengono  tutte  le  manifestazioni  della  conoscenza 
e  del  desiderio,  che  non  si  possono  concretare  e  tanto  meno  preci- 
sare con  alcuna  delle  nostre  facoltà  razionali;  maravigiioso  [Wun- 
derbar)  invece  si  chiajna  tutto  ciò  che  è  ritenuto  imp>oàsibile  e  inaf- 
ferrabile e  che  sembra  oltrepassare  ogni  limite  delle  forze  conosciute 
della  natura  ovvero  •contrastare  con  esse».  E,  precisando  ancora 
meglio  questa  sottile  e  pur  fondamentale  distinzione,  Hoffmann  sog- 
giunge :  «  Certo  è  che  il  fantastico  deriva  dal  maravigiioso,  e  che 
spesso  noi  non  riusciamo  a  vedere  il  tronco  deir albero  maravigiioso, 
dal  quale  hanno  origine  i  fantastici  rami  con  le  loro  foglie  e  i  loro 
germogli  »  (i). 

Evidentemente  tutto  ciò  è  solo  in  apparenza  vero,  che  questo 
mondo  maravigiioso  non  sorge  dal  nulla:  le  sue  lontane  invisibili 
origini  sono  pur  sempre  nella  natura,  di  cui  la  straordinaria  sensi- 
bilità del  poeta  raccoglie  le  voci  innumerevoli,  reali  o  illusorie,  i 
singoli  tenuissifmd  suoni  come  le  più  ampie  e  complesse  armonie,  i 
colori  come  i  profumi.  Perchè,  in  realtà,  la  relazione  fra  le  multi- 
formi manifestazioni  della  natura  e  il  mondo  maravùglioso  che 
sembra  vivere  autonomo  nella  fantasia  di  Hoffmann  è  innegabile. 
Si  potrebbe  anzi,  il  più  delle  volte,  stabilire  fra  essi  un  rapporto 
di  causa  e  di  effetto.  Senonchè,  nel  dominio  dell'arte,  il  procedimento 
appare  inverso,  ed  in  questa  apparenza,  che  noi  siamo  portati  a 
considerare  come  realtà,  è  tutta  la  forza  imaginativa  e  descrittiva  di 
Hoffmann.  Il  quale,  celandoci  appunto  questo  passaggio,  ci  porta 
immediatamente  nel  suo  mondo,  ohe  si  estende  al  di  là  e  al  di  sopra 
dei  fenomeni  naturali  e  visibili  :  un  regno  isolato  e  infinito,  nella 
cui  vita  più  vasta  e  più  intensa  della  comune,  riusciamo  tuttavia  a 
riconoscere  non  solo  le  voci  multanimi  della  Natura,  bensì  anche  il 
ritmo  della  nostra  stessa  vita  come  una  misteriosa  e  potente  riso- 
nanza. 

Qui  è  il  segreto  dell'arte  di  Hoffmann,  qui,  soprattutto,  è  na- 
scosta la  ragione  del  fascino  che  da  essa  emana,  avvincendoci.  Sco- 
perto questo  segreto,  occorre  un  poco  soffermarci  su  di  esso,  per 
indagarne  l'essenza.  Come  e  per  quale  misteriosa  virtù  si  manifesta 
questa  perfetta  risonanza  fra  il  mondo  fantastico  che  larte  di  Hoff- 
mann crea  e  avviva  e  la  nostra  vita  interiore?  Essa  non  deriva  già 
dal  ricordo  delle  impressioni  provate  da  fanciulli,  quando  i  racconti 
di  cose  incomprese  e  misteriose,  risvegliando  la  nostra  imagincizione, 

(1)  T>as  ode  Hans,  voi.  Ili,  pag.  134. 


146     IL   MONDO  DELLA  FANTASIA  E  DELL'ARTE  DI  E.   T.  A.  HOFFMANN 

suscitavano  in  noi  un  tumulto  di  emozioni  e  ci  lanciavano  in  un 
regno  fantastico  e  spesso  pieno  di  paura,  perchè  «quelle  storie,  così 
care  alla  nostra  infanzia,  non  potrebbero  mai  svegliare  echi  così  pro- 
fondi ed  eterni  nelle  anime  nostre,  se  in  queste  non  esistessero  già 
delle  corde  di  risonanza»  (1).  Questa  rispondenza  innegabile  e  per- 
fetta fra  il  nostro  mondo  interiore  e  quello  altrettanto  misterioso 
che  ci  circonda,  popolato  di  spiriti,  e  che  spesso  ci  si  rivela  nelle 
sue  mille  voci  (2)  e  nelle  sue  strane  visioni,  ha  quindi  una  causa  ben 
più  lontana  delle  nostre  reminiscenze  infantili.  Essa  è  un  riflesso  del- 
l'infanzia dell'umanità,  è  ancora  una  scintilla  di  quella  vita  imme- 
morabilmente lontana  che  pur  non  si  spense  mai  nello  spirito  umano 
attraverso  i  millenni.  L'uomo  non  aveva  ancora  imparato  a  espri- 
mersi con  parole  e  le  mille  voci  armoniose  della  Natura  egli  com- 
prendeva allora  profondamente,  perchè  le  cose  parlavano  il  suo 
stesso  lignaggio.  Erano  i  canti  della  natura  simili  ai  suoi  canti;  le 
Urmelodien  dell'universo  e  della  vita;  quando  la  poesia  dell'uomo 
e  le  voci  della  natura  formavano  una  sola  prodigiosa  sinfonia.  È 
per  virtù  di  questo  millenario  ricordo  che  l'uomo  ancora  oggi  com- 
prende il  canto  degli  alberi,  dei  fiori,  degli  animali,  delle  roocie  e 
delle  acque.  Così,  attraverso  il  mistero  della  nostra  vita  interiore, 
Hoffmann  riesce  a  gettare  un  ponte  fra  il  suo  mondo  imaginoso  e  la 
realtà  che  ci  appare  e  alla  quale  crediamo.  Analogamente,  in  questo 
suo  mondo  la  distanza  fra  le  cose  animate  e  inanimate  si  attenua, 
talvolta  scompare;  le  une,  anzi,  partecipano  spesso  della  vita  dello 
altre,  formando  una  sola  armonia  di  vita.  È  questa  l'incarnazione 
poetica  del  maraviglioso,  in  cui  creature  e  cose  si  uguagliano.  E  le 
stelle  avranno  sonrisi  e  parole,  come  il  sole  espanderà  sulla  terra  i 
suoi  raggi  dalle  innumeri  voci  carezzevoli,  intrecciando  colloqui 
d'amore  con  le  foglie  e  con  le  rugiade;  il  vento  urlerà  gridi  di  di- 
sperazione, di  odio  o  di  A'endetta  o  bisbiglierà  gentili  parole  d'amore; 
e  gli  alberi,  le  erbe  avranno  anch'essi  un  linguaggio  comprensibile 
all'uomo,  una  voce  ora  lamentevole  d'invocazione,  ora  sospirosa  di 
nostalgie,  ora  gioconda  e  melodiosa  come  il  chiaro  suono  di  cam- 
pane di  cristallo;  e  i  fiori  e  i  germogli  spanderanno  intorno  con  il 
loro  profumo  un  prodigioso  canto  dalle  mille  voci  di  flauto.  Traspor- 
tati in  questo  mondo  dalla  vita  univoca  ed  esuberante,  nessuna  sor- 
presa più  può  arrecare  che  il  profuimo  diei  fiori  salga  dai  calici  in 
lieivi  e  dolci  suoni,  e  che  questi  si  uniscano  al  mormorio  di  lontane 
fontane,  al  sussurro  degli  arbusti  e  degli  alberi,  al  gorgheggio  d^li 
uccelli  dal  color  del  cielo  in  accordi  misteriosi  di  nostalgie  profonde. 
E  nessuna  miaraviglia  neppure  che  una  scìa  d'azzurro  vagante  nel- 
l'aria o  la  variopinta  moltitudine  di  fiori  e  di  erbe  disseminati  in 
una  camipagna  solegg^iata  scoprano  fra  le  loro  pieghe  o  nel  loto 
grembo  multicolore  il  viso  o  la  figura  d'una  fata  buona  («  Klein 
Zaches  »),  o  che  cespugli,  sotto  la  carezza  del  sole,  si  muovano  e 

(1)  Ber  unheimliche  Cast,  vcA.  Vili,  pag.  93. 

(2)  ScHVBERT  —  ricordato  da  Hoffmann  —  aveva  pure  parlato  di  questi 
misteriosi  Naturtòne  nelle  sue  An^sichten  der  NachtseAte  d-er  Naturtcusenschaf- 
ten.  Hoffmann  dice:  «  Queste  voci  della  Natura,  simili  al  suono  profondamento 
lamentevole  di  voci  umane,  si  fa  sentire  ora  come  se  giungessero  aleggiando 
da  un'infinita  lontananza,  ora  come  se  risuonassero  vicinissime  a  noi  ».  Der 
unheimliche  Gasi,  voi.  Vili,  pag.  94. 


IL  MONDO  DELLA  FANTASIA  E  DELL'ARTE  DI  E.  T.  A.  HOFFMAliN     14? 

aippajano  come  bimbi  giulivi  n^la  luminosità  d'un  bosco,  pieno  di 
canti  {<i  Das  fremde  Kind»),  o  che  infine  le  figure  di  maravigliosi 
dipinti  acquistino  d'un  tratto  gesti  e  parole,  fino  a  raggiungere  pie- 
Dezza  di  vita  e  di  espressione  («  Artushof  »,  «  Meister  Martin  »,  «  Eli- 
xiere  des  Teufels  »,  ecc.). 

Abbiamo  cfui  unesieriorizzazione  animata  di  imagini,  di  suoni, 
di  colori,  di  profumi  e  anche  di  emozioni  —  die  leibìiaft  erscheinen 
—  come  ad  es.  in  «  Der  goldne  Topf  »  o  nelle  «  Kimstnoveklen  —  : 
concezione  artistica  fondamentalmente  romantica,  eminentemente 
lirica,  la  quale  peraltro  tende  in  Hoffmann  ad  assumere  ampiezze  e 
profondità  sconosciute  e  soprattutto  forme  di  espressione  precise,  di- 
remmo quasi,  più  umane  e  quindi  più  realistiche  che  non  nei  roman- 
^jci  della  seconda  e  ancor  più  della  prima  scuola.  È  questa,  tuttavia, 
la  parte  meno  origing^e  di  Hoffmann,  per  quanto  il  Màrchen  hoff- 
manniano  abbia  —  e  lo  vedremo  in  seguito  — ,  in  certi  sviluppi  di 
dementi  romajitici,  caratteri  particolarmente  propri. 

• 
*  * 

Perchè,  come  Hoffmann  con  questa  maravigliosa  esuberanza  di 
fantasia  sa  portarci  al  di  là  dei  fenomeni  naturali  visibili  e  invisi- 
bili, interpretando  e  rivelando  anche  tutto  ciò  che  in  essi  v'ha  di 
apparentemente  inerte  e  inanimato,  così  egli  tenta  condurci  in  un 
misterioso  mondo  che  va  oltre  le  facoltà  percettive  dei  nostri  sensi, 
oltre  La  vita  umana.  E  alla  stessa  maniera  con  cui  egli  si  sforza  di 
svelare  il  mistero  delle  cose,  altrettanto  si  mostra  scrutatore  attento 
e  profondo  della  nostra  vita  interiore,  multammo  e  spesso  nebulosa  : 
i  desideri  irrequieti  e  confusi,  le  aspirazioni  ancora  vaghe,  quel  ten- 
dere incessante  e  ansioso  verso  mete  infinitamente  lontane  e  inde- 
terminate, il  segreto  di  inuprowise  intime  gioie  o  di  ansie  inappa- 
gate e  insomma,  tutta,  quella  molteplicità  di  moti  interiori  che  trava- 
gliano e  talvolta  anche  rallegrano  lo  spirito  umano,  ^li  cerca  inda- 
gare precisare  ed  esprimere.  Qui  il  pathos,  che  sfiora  appena  il 
Màrchen  romantico,  raramente  oltrepassando  un  tenue  motivo  sen- 
timentale, s'accentua:  abbiamo  un  primo  accenno  d'un  vero  e  pro- 
prio contrasto  spirituale  che  preannuncia  il  dranraia.  Osservate  «  Die 
Bergwerke  zu  FaZun  »  :  il  passaggio  dal  Màrchen  romantico  al 
dramma  interiore  si  rivela,  da  questo  racconto,  immediato.  Elis 
Fròbom  somiglia  allo  studente  Anselmo  del  «  Goldner  To-pf  ì^;  ma 
la  sua  vita  si  svolge  in  modo  ben  diverso.  Due  anime  sembrano  vi- 
vere in  lui:  una,  la  mig-liope,  scende  nelle  profondità  della  terra, 
dove  si  sono  rifugiati  tutti  i  suoi  sogni,  dove  è  tutta  una  luminosa 
chiarità  di  orizzonti  e  di  vita,  simile  a  quella  che  inonda  il  «  Klein 
Zaches»;  mentre  1  altra  vaga  nella  notte  tenebrosa  della  vita  co- 
mune, nella  terra  piena  di  amarezze  e  di  malinconie,  sotto  il  cielo 
plumbeo,  piatto,  pesante  della  realtà.  Da  questo  contrasto  il  dramma 
scaturisce  inevitabile. 

Per  meglio  scrutare  questo  mondo  complesso,  .mutevole  e  spesso 
tumultuoso,  Hoffmann  si  soccorre  quasi  sempre  con  uno  stato  di  ap- 
parente semincoscienza  che  in  realtà  nient'altro  è  se  non  un  appar- 
tarsi, un  isolarsi  dell'io  dal  mondo  esteriore  per  dare  ad  esso  mag- 
giore intensità  di  penetrazione  e  di  percezione,  che  non  di  rado  ra^- 


148     IL   MONDO  DELLA  FANTASIA  E  DELL'ARTE  DI  E.  T.  A.  HOFFMANN 

giunge  la  perfetta  chiaroveggenza.  Tale  è  quel  particolare  stato,  fra 
il  sonno  e  la  v^lia,  durante  il  quale  l'uomo  si  abbandona  a  unA 
specie  di  Tràumerei,  in  cui  le  imagini  appajono  più  chiare,  dai  con- 
torni più  precisi;  ovvero  quello  stato  di  ipersensibilità,  in  cui  si  ma- 
nifestano i  presentimenti  —  le  Ahnungen  —  che  devono  servire  a 
rivelare  infallibilmente  gli  avvenimenti  lontani  nello  spazio  e  nel 
tempo.  Accanto  a  queste  Tràunuereien  spesso  troviamo  anche  uno 
stato  di  maggiore  raccoglimento  e  quindi  di  maggiore  libertà  e  atti- 
vità dello  spirito,  il  sogno,  nel  quale  Hoffmann  vede  una  continua- 
zione della  nostra  vita  interiore  normale,  intensificata  e  allargata, 
però,  per  effetto  di  quel  raccoglimento  e  di  quella  libertà  maggiore, 
e  altrettanto  vera  quanto  quella  che  si  svolge  durante  la  veglia.  Chi 
potrebbe  infatti  dire  dove  la  realtà  si  arresta  e  dove  comincia  l'ir- 
realtà della  vita?  Ovvero  se  il  sogno  è  una  realtà  illusoria,  chi 
può  affermare  che  anche  la  vita  non  è  tale?  (1).  «  Forse,  o  lettore, 
sei  anche  tu,  come  me,  del  parere  che  lo  spirito  umano  è  il  più 
maraviglioso  Màrchen  che  si  possa  imaginare  »,  e  non  solo  il  sogno 
«  che  noi  sogniamo  addormentati  sotto  le  coltri,  ma  più  ancora  quello 
che  continuiamo  a  sognare  a  occhi  aperti  per  tutta  la  vita  »  (2).  Nel 
sogno  dunque  ci  si  rivela  una  facoltà  nuova,  più  potente  e  più  con- 
sona al  nostro  appagamento,  una  realtà  più  alta  e  più  bella,  che  noi 
ci  sforziamo  di  raggiungei^e  e  di  vivere  {«Die  Jesmtenkirche  in  G.  », 
.<  Der  Sanctus  »).  «  Soltanto  durante  i  dolci  sogni  io  ero  felice,  beato... 
Giacevo  in  un  angolo  verde  del  bosco;  magiche  fragranze  mi  alita- 
vano intorno,  e  le  voci  della  natura  si  lasciavano  udire  fra  il  fìtto 
degli  alberi  come  un  lamento  melodioso...  e  mentre  le  armonie  della 
natura  ridivenivano  chiaramente  percettibili,  mi  sembrava  che  un 
nuovo  senso  si  risvegliasse  in  me  e  fosse  capace  di  comprendere, 
con  maravigliosa  chiarezza,  tutto  ciò  che  era  misteriosamente  avve- 
nuto »  (3).  La  voce  del  Maltese  non  era  dunque  la  voce  del  proprio  de- 
siderio e  della  propria  aspirazione?  Ed  ecco  che  nel  sogno  questo 
desiderio  viene  appagato:  un  accordo  delizioso  di  suoni,  una  mira- 
colosa chiarità  circondano  l'animo  del  sognatore;  un  mondo  nuovo 
gli  sd  rivela;  sono  geroglifici  strani,  che  egli  può  tuttavia  a  poco  a 
poco  riconoscere,  decifrare,  finché  da  essi  balza  fuori  la  visione  d'una 
terra  soleggiata  dal  paesaggio  incantevole  —  è  il  sogno  del  Lands- 
cìiaftsmaler  — ,  ovvero  la  figura  d'una  donna  altrettanto  maravi- 
gliosa: l'ideale.  È  la  rivelazione  della  sua  arte  (4). 

Simboli  dunque,  che  Hoffmann  però  considera  al  di  là,  non  al- 
l'infuori  della  realtà.  La  distanza  che  separa  la  vita  reale  dal  sogno 
risulta  per  lui  annullata;  e  le  due  attività,  compenetrandosi  e  inte- 
grandosi, assumono  un  valore  identico  con  la  sola  differenza,  ap- 
punto, che  l'uomo  nel  sogno  più  agevolmente  che  nella  Traumerei 
e  quindi  più  ancora  che  nella  veglia  può  scrutare  le  misteriose  pro- 
fondità della  propria  vita  interiore. 

Non  tutto  qui  però  è  il  mondo  fantastico  e  artistico  di  Hoffmann. 

(1)  Eludere  dea  Teufels,  voi.  II,  pag.  102;  Der  Sandmann,  voi.  III. 
pag.   22. 

(2)  V.  Prinzessin  Brambilla,  voi.  XI,  pag.  54. 

(3)  V.  Die  Jesuitenkirehe  v.  G.,  voi.  III,  pag.  105. 

(4)  V.  Die  Jesuitenkirehe  v.  0\,  voi.  III,  pag.  106. 


IL  MONDO  DELLA  FANTASIA  E  DELL'ARTE  DI  E.  T.  A.  HOFFMANN     149 

che  non  soltanto  lo  stato  di  Tràumerei  o  di  sogno  è  quello  che  alla 
sua  fantasia  può  rivelare  e  allargare  orizzonti  nuovi  di  vita  e  di  arte; 
li  poeta,  oltre  che  di  questi  stati  di  subcoscienza,  si  serve,  per  sco- 
prire e  guardare  in  questo  mondo  sconosciuto,  andhe  di  stati  pato- 
logici: l'allucinazione  {n  Raih  Krespel»,  u  Die  Brautwahl  »,  a  Der 
MagnetiseuT  »)  e,  financo,  la  pazzia  («  Die  Ràuber  »),  durante  i  quali 
la  sensibilità  umana  si  acutizza,  come  nel  sogno;  ovvero  di  fenomeni 
di  telepatia,  di  ipnotismo,  di  magnetismo,  di  medianità  («Die  Aben- 
teuer  dar  Sylvesternacht»,  «Der  ttnheimliche  Gasi»,  algnaz  Den- 
ner»),  per  i  quali  il  mondo  di  ciò  che  appare  si  identifica  per- 
fettamente con  la  realtà  obiettiva  che  cade  sotto  i  nostri  sensi. 

Ed  in  tanti  altri  modi  ancora  HofTmann  questa  realtà  riesce  a 
superare  per  portarci  in  un  mondo  di  mistero,  al  di  là  della  scienza 
e  della  vita,  dovunque  possano  esercitarsi  la  nostra  imaginazione 
e  la  nostra  sensibilità.  È  vero,  ad  esempio,  che  la  scienza  ha  inven- 
tato congegni  per  mezzo  dei  quali  noi  riusciamo  a  ingrandire  enor- 
memente gli  oggetti,  a  scoprire  anche  infinite  cose  invisibili  e  tutto 
un  tumulto  di  vita  che  a  noi  comunemente  sfugge?  Ebbene,  perchè 
non  deve  essere  possibile  inventare,  per  analogia,  un  apparecchio,  il 
quale  permetta  di  penetrare  il  pensiero  umano  che  si  nasconde  dietro 
le  parole?  Ed  eccoci  al  maraviglioso  Augenglas,  sulle  cui  sorpren- 
denti qualità  si  svolge  tutta  la  storia  fantasiosa  del  ^Meister  Floh*. 

Alla  stessa  maniera,  vi  sorprende  la  singolare  intelligenza  di 
qualche  piccolo  animale?  Di  solito  pensate,  o  dite,  semplicemente: 
Che  cara  bestiola!  Ma  se  questo  fenomeno  vi  colpisce  al  punto  da  re- 
stare assillati  da  mille  curiosità  e  dal  desiderio  irresistibile  di  inda- 
garne il  mistero,  vi  domanderete:  dove  può  arrivare  l'istinto  d'una 
bestia  e  dove  invece  si  può  e  si  deve  parlare  di  vera  e  propria  intel- 
ligenza? Non  ha  questo  animale  una  sua  coscienza?  E  qual'è?  Imagi- 
nate  di  essere  indotti  a  rispondere  affermativamente  alla  prima  di 
queste  domande,  a  cercare  poi  di  rispondere  alla  seconda,  ed  eccovi 
d'un  tratto  nel  bel  mezzo  della  straordinaria  storia  del  «  Kater  Murm. 
«  Mentre  osservavo  questo  accortissimo  gatto,  mi  sentii  stringere  il 
cuore,  pensando  in  quali  ristretti  limiti  è  contenuta  la  nostra  co- 
noscenza. Chi  mai,  infatti,  potrebbe  dire  o  anche  solamente  intuire  a 
che  punto  possano  arrivare  le  facoltà  spirituali  delle  bestie?»  (1). 

Hoffmann,  analogamente  a  quanto  avviene  nelle  manifestazioni 
della  natura  e  alla  nostra  misteriosa  facoltà  di  intenderle,  crede  che 
questa  coscienza  animale  abbia  anch'essa  un'origine  incommensu- 
rabilmente lontana.  Forse  essa  non  è  un  residuo  di  quel  medesimo 
sentimento  primitivo,  di  quéìVUrgefùhl  che  animava  un  tempo,  alla 
stessa  maniera,  gli  uomini  e  le  bestie  e  tutte  le  cose,  l'umanità  e  il 
creato,  e  che  si  rivelava  in  una  comune  divina  espressione  di  vita, 
come  in  una  unica  prodigiosa  armonia  di  vofei  e  di  colori?  «  Certo  — 
dice  il  cane  Berganza  —  io  sono  un  cane,  ma  i  vostri  privilegi,  cioè 
quelli  di  camminare  diritti,  di  vestire,  di  chiacchierare  a  vostro  bel- 
l'agio, non  possono  indubbiamente  avere  lo  stesso  valore  che  ha  in- 
vece la  virtù  di  conservare,  in  un  lungo  silenzio,  il  sentimento  della 
fedeltà,  capace  di  intendere  la  natura  nella  sua  più  profonda  e  santa 
intimità  e  dal  quale  scaturisce  la  più  alta  e  la  più  degna  poesia.  In 

(1)  Kater  Murr,  voi.  X,  pag.  30. 


I 


160       IL  MONDO  DELLA  FANTASIA  E  DELL'ARTE  DI  E.  T.  A.  HOFFMANN 

un  tempo  immiemorabilmente  lontano,  sotto  quel  ma^ifico  cielo  me- 
ridionale che,  illuminando  dei  suoi  raggi  l'animo  delle  innumeri 
creature,  ha  la  potenza  di  accendervi  e  suscitarvi  maravigliosi  cori 
di  giubilo,  io  ascoltavo  i  canti  degli  uomini.  Ebbene,  la  loro  poesia 
non  era  altro  che  un  eco  dei  canti  della  natura,  che  in  mille  modi 
risuonavano  in  ogni  creatura.  Il  canto  dei  poeti  era  la  vita  stessa  del 
creato...  »  (1). 

• 
•  • 

In  sostanza  ìb.  fonte  originaria  alla  quale  Hoffmann  attinge,  i» 
questa  sua  particolare  attività  cretrice,  per  poi  lanciarsi  nel  campo 
infinito  della  fantasia,  è  una  seur^ibilità  sempre  vigile  e  singolar- 
mente acuta.  È  difficile  seguire  Hoffmann  in  alcune  singolari  mani- 
festazioni di  questa  sua  attività  così  piena  d'intuizioni  vaghe  e  di 
rivelazioni  arditissime;  tuttavia  occorre  rendersi  conto  anche  di  questi 
elementi  dai  quali  scaturi?x:'e,  senza  dubbio,  la  parte  più  interessante 
e  più  originale  delia  sua  produzione.  Cercheremo  di  aiutarci  con 
qualche  esempio.  Vi  è  mai  capitato,  nelle  notti  lunari,  di  arrestarvi 
improvvisamente  dinanzi  alla  vostra  ombra,  che  avete  visto  d'un 
tratto  profilarsi  e  agitarsi  sulla  via  o  nel  folto  di  una  siepe  o  lungo 
un  muro?  V^i  è  mai  capitato  di  trattenere  inconsciamente  il  respiro  • 
tendere  ansiosi  l'orecchio  per  un  improvviso  grido  nella  notte  silen- 
ziosa 0  al  sibilo  del  vento  lungo  la  cappa  del  camino,  o  al  rumore 
indistinto  di  passi  alla  porta  della  vostra  stanza,  o  al  lamento  strano 
d'una  macchinetta  da  thè  che  arda?  [^tSandmann  »,  «  Das  òde  Haus  », 
«  Der  unheimliche  Gast  »).  Ebbene,  quella  subitanea  e  fuggevole  sen- 
sazione che  vi  colpì  di  sorpresa,  provocando  un  arresto  violento  del 
vostro  respiro  e  suscitando,  immediatamente  dopo,  in  tutto  il  vostro 
essere  un  brivido  misterioso  e  così  rapido  che  voi  difficilmente  po- 
treste dire  se  esso  sia  stato  quella  stessa  sensazione  o  se  fra  questa 
e  quella  abbia  avuto  il  tempo  di  insinuarsi  un  dubbio,  fu  breve, 
perch'^  subito  vi  rendeste  conto  della  realtà;  ma  imaginate  di  trovarvi 
in  uno  stato  d'animo  tale  da  non  potervi  liberare  da  Cfuella  sensa- 
zione e  da  essere  anzi  portati  a  svilupparla  e  ingigantirla;  in  breve 
tempo  voi  sarete  in  balìa  della  vostra  imaginazione,  entrerete  in  un 
mondo  misterioso,  pauroso,  la  <i\\\  esistenza  vi  apparirà  tanto  più 
reale  quanto  meno  voi  riuscirete  a  sottrarvi  al  dominio  della  vostra 
fantasia  e  delle  vostre  emozioni  successive. 

Così  avviene  in  Hoffmann;  la  realtà  di  questo  mondo  aissume  più 
spesso  in  lui  aspetti  tenebrosi,  spettrali;  egli  "è  allora  trascinato  a 
scrutare  le  profondità  abissali  dell'essere,  nella  sua  notte  piena  di 
tenebre  e  di  mistero,  dove  non  giunge  il  più  tenue  raggio  di  sole, 
rischiarata  soltanto,  talvolta,  da  un  incerto  chiarore  lunare,  sotto 
il  quale  vivono  e  agisK^ono,  in  contatto  con  le  potenze  diaboliche,  ma 
senza  interamente  distaccarsi  dalla  vita  comune,  i  fantasmi  creati 
dalla  fantasia  e  dall'angoscia  del  poeta.  {«  Das  Majorat»,  k  Fràulein 
von  Scuderia,  n  Das  Gelùbde  ì\  «Der  Vampj/r  »).  «Lo  spaventoso  è 
quello  che  si  riscontra  nella  vita  di  ogni  giorno,  quello  che  con  invin- 

(1)  Nachricht  von  den  neuesten  Schidcsalen  dei  SuTides  Berganza,  voi.  T, 
pag.  90. 


IL   MONDO  DELLA  FANTASIA  E  DELL'ARTE  DI  E.  T.   A.  HOFFMANN     l5l 

cibile  angoscia  tormenta  e  lacera  il  cuore  umano.  Ed  è  la  crudeltà 
degli  uomini  quella  che  genera  la  miseria;  sono  i  grandi  e  piccoli 
tiranni  che  senza  misericordia  e  anzi  con  diabolico  dileggio  creano 
questa  miseria  e  insieme  con  essa  le  vere  storie  di  spettri  »  (1). 

Dunque,  come  abbiamo  già  accennato,  più  che  pure  fantasie, 
queste  visioni  di  Hoffmann  vogliono  essere  anche  e  soptattutto  ri- 
velazioni profonde  dei  moti  misteriosi  del  nostro  spirito.  Esse  eser- 
citano sul  poeta  un  fascino  particolare  che  potentemente,  quasi  uni- 
camente, lo  attrae  e  lo  avvince.  Nathan.ael,  in  cui  Hoffmann  raffigura 
sé  stesso,  appare  senza  dubbio  un  visionario,  ma  la  fidanzata  Clara 
gli  spiega  come  il  suo  stesso  spirito  gli  crei  un  mondo  irreale  pieno 
di  mistero.  «  E  ti  voglio  subito  confessare  che,  come  io  penso,  lo 
Sf>aventevole  e  il  terribile,  dei  quali  tu  parli,  albergano  solo  nel  tuo 
intimo  e  che  il  mondo  esteriore,  il  solo  reale,  non  {partecipa  se  non 
in  piccolissima  parte  alle  tue  allucinazioni  »  (2) .  Ed  aggiunge  poco 
dopo  :  «  Tu  dirai  :  —  in  questa  fredda  disposizione  d'animo  non  pe- 
netra nessun  raggio  del  misterioso,  che  con  invisibili  braccia  s{>esso 
circonda  la  vita  dell  uomo;  Clara  vede  solo  la  variopinta  superfìcie 
del  mondo  e  di  essa  si  rallegra  come  un  fanciullo  il  quale  osservi 
un  frutto  dalla  corteccia  splendente  cernie  oro,  senza  avvedersi  del 
mortifero  veleno  che  dentro  esso  cela»  (3).  Eid  è  appunto  quando 
Hoffmann  vuole  scoprire  questo  «mortifero  veleno»  che  abbiamo  la 
rivelazione  dello  spettrale  [Gespenstisches) ,  In  quelle  parole  troviamo 
pertanto  la  chiave  dell'arte  di  Hoffmann  nelle  sue  manifestazioni  più 
originali.  Il  mondo  è  veramente  più  grande  di  quello  che  ci  appare; 
c'è  in  esso  un  lato  che  noi  non  vediamo,  né  cerchiamo  comunemente 
di  vedere  :  il  mistero  delle  cose  e  quello  ancor  più  complesso  e  enigma- 
tico del  nostro  spirito.  Silenziosi  soliloqui  dell'anima  e  della  co- 
scienza, dubbi,  preoccupazioni,  titubanze,  fuggevoli  presentimenti, 
dolori  ignoti  e  assillanti  rimorsi,  tutte,  insomma,  le  inespresse  e  ine- 
sprimibili voci  della  nostra  vita  interiore  che  formano  le  nostre  gioie 
incomprese  e  le  più  crudeli  amarezze;  un  lato  nascosto  sotto  la  va- 
riopinta superfìcie  delle  apparenze  visibili  e  sensibili.  Qui  l'arte  di 
Hoffmann  diventa  eminentemente  drammatica.  Senonchè  —  analo- 
gamente a  quanto  abbiamo  sopra  osservato  per  i  racconti  puramente 
fantastici  —  anche  auesto  misterioso  mondo  della  nostra  attività  spi- 
rituale ha  la  particolare  qualità  di  essere  strettamente  legato  a  quello 
che  cade  sotto  i  nostri  sensi  e  comune  a\V Alltàglichkeit;  anzi  é  una 
continuazione  di  questo  e  come  questo  é  altrettanto  vero.  «  È  la  pro- 
fonda verità  dell'impenetrabile  mistero  che  ci  circonda,  quella  che 
ci  afferra  con  una  tale  veemenza,  che  in  essa  noi  riconosciamo  lo 
spirito  che  ci  domina  e  ci  guida»  (4).  E  in  quanto  vero  e  reale,  ha 
un'esistenza  a  sé,  benché  esso  non  possa  essere  espresso  o  rappre- 
sentato se  non  come  la  proiezione  della  nostra  imaginazione  e  della 
nostra  sensibilità.  Per  modo  che,  come  il  principio  che  guida  l'ispi- 
razione poetica  è  sempre  fondamentalmente  uguale,  dal  romantico 
fantasioso  imaginai-e  del  sogno  o  della  Tràumerei  al  realistico  spet- 

(1)  Serapionsbriider,  voi.   IX,   pag.  175. 

(2)  Ver  Sandmann,  voi.  Ili,  pag.  15. 

(3)  Der  Sandmann,  voi.  Ili,  pag.  16. 

(4)  Dos  ode  Hans,  voi.  Ili,  pag.  133.        ' 


162     IL   MONDO  DELLA  FANTASU  E  DELL'ARTE  DI  E.  T.  A.  HOFFMANN 

trale  che  determina  il  dramma  catastrofico;  così  uguale  è  il  proce- 
dimento dell'espressione  artistica.  Il  senso  del  misterioso  vi  domina 
in -on trastato,  assoluto;  ma  ciò  che  ci  sembra  necessario  fissare  fin 
d'ora  è  che  questo  originario  elemento  emotivo,  anche  quando  è  evi- 
dente, risulta  assolutamente  soverchiato  dalla  conseguente  r  <• 
fino  a  divenire  spesso  irriconoscibile  nel  corso  delle  rappresi  ;  i 
successive.  Orbene,  sul  principio  fondamentale  di  questa  esterioriz- 
zazione animata  di  imagini  e  di  emozioni  si  svolge  la  svariata  e  fram- 
mentaria produzione  di  Hoffmann.  Tale  principio  è  la  base  stessa 
della  sua  unità. 

Cosicché  dal  puramente  fantastico  al  paurosamente  emotivo  ^li 
ci  incatena  pur  sempre  nel  mondo  del  maraviglioso,  il  quale,  nel- 
l'espressione artistica,  assume  ora  forme  liriche  ora  potentemente 
drammatiche,  a  seconda  che  l'attività  creatrice  del  poeta  si  risolve 
in  storie  fantasiose  dalla  chiara  luminosità  meridiana  ovvero  in  un 
conflitto  di  nascenti  passioni,  in  cupi  e  violenti  drammi  umani  dalle 
profondità  spettrali,  inesplorate. 

Nelle  une  e  negli  altri  si  chiude  il  circolo  della  creazione  fanta- 
stica di  Hoffmann;  nelle  une  e  negli  altri  si  esaurisce  la  potenza  della 
sua  arte  maravigliosa.  Poesia  ed  arte  si  sono  in  lui  sciolte,  distaccate 
dalla  realtà  visibile,  dalla  sua  vita,  dalla  vita  comune;  si  sono  allar- 
gate ad  abbracciare  nuovi  incomTnensurabili  spazi  popolati  di  vi- 
sioni irreali  e  di  spiriti  misteriosi.  Che  cosa  è  questo  mondo,  ch« 
cosa  sono  questi  spiriti?  È  un  mondo  superiore  al  reale,  infinitamente 
più  ricco,  più  vasto,  ma  analogo  ad  esso  e  ad  esso  congiunto;  sono 
spiriti  non  estranei  a  noi,  che  in  noi  ritornano.  Una  rivelazione,  dun- 
que, superiore  alla  nostra  vita,  nella  quale  il  poeta  cerca  un  appaga- 
mento di  desideri  sopiti  ma  non  morti  o  inesistenti,  sforzandosi  — 
purtroppo  senza  riuscirvi  —  a  ricomporre,  in  un'armonia  artistica,  la 
spezzata  armonia  del  suo  spirito. 

Rodolfo  Bottacchuri. 


IL  VECCHIO 


NOVELLA 


Felicetto,  quando  disse  alla  mc^lie  che  avrebbe  fatto  venire  dalU 
Marche  suo  padre,  che  era  vecchio  e  solo  e  non  sapeva  lavarsi  nep- 
pure un  moccichino,  non  s'aspettava  davvero  che  Mariuccia  s'impen- 
nasse, arcigna.  Mariuccia  era  tanto  arrendevole  e  docile  che  Felicetto 
non  aveva  mai  sentito  il  bisogno  di  comandare  o  di  alzar  la  voce. 
Non  l'alzò  neppure  quel  giorno  :  ma  sedette  a  tavola,  silenzioso  :  6  in- 
vano Mariuccia  gli  diceva:  assaggia  questo,  assaggia  quest'altro. 
Egli  ingollava  im  bicchiere  dietro  l'altro  e  non  toccava  cibo.  Ma 
riuccia,  dolente,  lo  guardava;  ma  non  ebbe  il  coraggio  di  pronun- 
ciare le  parole  che  le  tentavano  la  gola.  Avrebbe  dunque  torto  una 
moglie  la  quale,  dopo  aver  tolto  un  uomo  —  il  marito  —  dalla  mi- 
seria, e  datogli  una  casa,  due  poderi,  un  uliveto  e  una  vigna  che 
ci  si  raccoglieva  il  ben  di  Dio,  avrebbe  torto  se  questo  marito  la  tra- 
disse e  tutti  le  ridessero  dietro?  Sapeva  tutto,  lei  :  ed  era  stufa  arci- 
stufa di  una  vita  come  quella!  Oh,  non  tentasse  di  mentire!  C'erano 
persino  dei  testimoni  :  ehi  l'aveva  veduto  il  tal  giorno,  chi  il  tal'al- 
tro  :  dove  qui  e  dove  là  :  alla  macchia  di  Santa  Majia  o  alla  chiusa 
del  Tómbolo. 

Ma  Felicetto  beveva,  senza  guardare  in  faccia  la  moglie.  Pen- 
sando : 

—  Certo,  i  paronti  me  la  stanno  aizzando  contro  :  sebbene  nessun 
di  loro  possa  sapere  delle  mie  faccende  con  la  figlia  di  Goio;  ma  la 
ragione,  bisogna  vedere  da  che  parte  la  sia,  la  ragione.  Certo,  m'ha 
portato  una  dote,  Mariuccia;  ma  erano  campi  quelli  che  m'ha  por- 
tato? Se  non  ci  avessi  badato  io  fin  dal  primo  giorno,  non  so  che 
ci  si  poteva  tirar  fuori  da  quelle  sterpale!  E  mio  padre,  non  mange- 
rebbe poi  a  ufo,  mio  padre;  che,  sebben  vecchio,  può  lavorare:  e 
con  me  si  lavora,  perdio! 

Scolata  la  bottiglia,  Felicetto  senza  parlare  la  mostrò  alla  mo- 
-ilie:  la  quale  avrebbe  voluto  dire  qualche  cosa  (Felicetto  lo  capì, 
da  una  certa  mossa  delle  dita  che  stringevano  e  lasciavano,  ritmiche, 
il  collo  della  bottiglia)  ma,  com'era  sua  abitudine,  obbedì,  silenziosa. 
Tornò  dalla  cantina,  quasi  subito,  con  la  bottiglia  piena:  e  poiché 
Felicetto  s'ebbe  riempito  un  bicchiere,  mormorò  bonaria: 

—  Dopotutto  non  ti  ho  detto  di  no. 

Felicetto  si  ripulì  con  il  dorso  della  destra  i  baflB  umidi  e  sorrise  : 

—  Se  tutti  gli  uomini  mi  somigliassero  —  esclamò  —  la  ma- 
l'emm^fcarebbe  tutta  un  giardino. 

11  Voi.  CCXVI,  serie  VI  —  16  gennaio  1922. 


164  IL  VECCHIO 

—  Questo  lo  so  —  acconsentì  Mariuocia. 

—  E  se  penso  di  chiamare  mio  padre,  al  quale  non  voglio  certo 
il  bene  ohe  voglio  ai  nostri  poderi  e  a  te,  se  penso  di  chiamare  mi© 
padre,  la  ragione  c'è. 

—  Lo  credo  anch'io. 

—  E  allora,  una  moglie  non  s'allarma  a  quel  modo:  come  st 
io  volessi  divorarti  il  patrimonio  con  la  bocca  di  quel  povero  vecchi» 
senza  denti. 

Mariuccia  avrebbe  voluto  rispondere  e  spiegare:  che  non  cob 
quel  vecchio  lei  era  arrabbiata,  e  della  decisione  di  chiamarlo,  ma 
delle  voci  che  aveva  sentito:  e  ohe  ci  fosse  di  vero,  in  quelle  voci. 

Ma  Felioetto,  quand'era  mezzo  brillo,  parlava  sempre  lui  :  e 
Mariuccia  capì  che  se  anche  si  fosse  provata»  a  interrogarlo,  non 
avrebbe,  di  quella  tresca  che  si  diceva,  saputo  nulla  dal  marito.  Non 
era  la  prima  volta  ohe  Mariuccia  infiltrava  tra  un  tema  e  l'altro  del 
discorso  quel  suo  dubbio  cocente;  ma  Felicetto  glielo  levava  subito 
di  testa  :  o  con  una  barzelletta,  o  con  un  abbraccio  :  o  con  uno  scatlo 
Ili  rabbia: 

—  Per  ohi  mi  pigli? 

Felicetto,  ora,  parlava:  della  vigna,  ohe  ci  voleva  un  guardiana 
(lui  doveva  lavorare  alle  tine  di  cemento)  :  e  del  .cavallo,  che  biso- 
gnava curarlo  e  condurlo  al  pascolo;  e  delle  ulive  che,  quando  è  l'ora 
di  raccoglierle,  lui  non  poteva  star  sempre  lì  con  gli  occhi  sui  cor- 
belli. 

E  quando  s'alzò  con  le  gambe  un  po'  cionche,  s'appoggiò  a  Ma- 
riuccia con  entrambe  le  braccia:  e  poi  le  baciò  con  la  bocca  umid» 
di  vino  prima  una  palma  poi  l'altra. 

• 
•  • 

E  il  vecchio,  dopo  pochi  giorni,  arrivò.  Felicetto  volle  che  anche 
Mariuccia  venisse  a  incontrarlo  a  Ischia  di  Castro,  come  discendeva 
dall'automobile:  ma  che  non  s'aspettasse  un  vecchietto  civile!  «Ha 
fatto  anche  lui  il  contadino!  —  spiegò.  Ma  laggiù  nelle  Marche  che 
c'è  la  mezzadria  fanno  il  contadino  fino  alla  morte  solo  quelli  che 
hanno  figli  e  famiglia:  mentre  il  mio  vecchio,  che  ha  solo  me  e  ac- 
casato lontano,  viveva,  si  può  dire,  di  carità». 

Mariuccia,  quando  il  vecchio  discese,  disse: 

—  Madonna!  Ma  è  il  tuo  ritratto. 

Il  vecchio  svesciò,  di  tra  le  labbra  rinsecchite,  un  risolino:  e 
guardò  subito  il  paese  dov'era  disceso  con  occhietti  curiosi. 

—  Si  deve  star  bene  qui  —  pronunciò. 
Felicetto  gli  battè  una  mano  sulla  spalla: 

—  Questo  non  è  il  paese  nostro,  babbo;  ci  sono  sei  chilometri 
per  il  paese  nostro. 

—  Ma  un  dito  di  vino  me  lo  fai  bere? 

—  Venite,  venite  —  disse  Mariuccia.  Qui  a  due  passi  c'è  la  case 
delle  mie  sorelle.  Berrete  e  mangierete. 

Felicetto  si  oppose: 

—  Se  volete  bere,  vi  pago  mezzo  litro  all'osteria.  Ci  sono  i  so-  i 
mari  pronti  e  partiremo  subito  per  Pianiano.  \ 

—  Ma...  —  osò  Mariuccia.  # 


IL  VECCHIO  155 

Felicetto,  senza  rispondere  alla  mos'Ue,  si  caricò  sulle  spalle  il 
sacco  del  padre  e  s'incamminò  verso  l'osteria  : 

—  Tu  va'  pure  a  salutare  i  tuoi  parenti  —  disse  poi  a  Mariuccia. 
Noi  si  beve  e  ti  si  raggiunge  tra  cinque  minuti  sotto  l'arco. 

Spiegò  subito  al  padre  come  erano  fatti  i  paesi  e  i  paesani  e 
come  ci  si  vivesse: 

—  Voi  volete  lavarvi  la  faccia?  Bisogna  che  ci  pensiate  due  volte; 
f;ercnè  l'acqua  qui  si  misura  con  la  foglietta.  Ma  se  invece  volete 
bere,  un'occhiata  in  giro  e  il  vino  vi  cola  persino  dai  muri. 

—  Questo  mi  garba! 

—  Ma,  a  casa  mia,  il  vino  è  sotto  chiave  —  dichiarò  subito  Fe- 
licetto. 

—  Se  le  chiavi  le  hai  tu!  —  ii?se  il  vecchio,  dolcemente. 

—  Io  e  njia  moglie. 

—  Fa  lo  stesso. 

—  Ma  c'è  anche  da  lavorare!  —  aggiunse  Felicetto. 
Il  vecchio  alzò  la  Icsia  dal  bicchiere  e  sospirò  : 

—  Ho  le  ossa  tutte  rotte,  lo  sai?  Non  sono  più  tanto  in  gamba, 
come  l'anno  che  sei  venuto  a  vedermi.  Mi  reggo,  questo  sì;  ma  lavori 
grossi  non  li  potrei  proprio  fare. 

—  Vostro  figlio  non  vi  farà  fare  lavori  faticosi!  —  esclamò  Feli- 
cetto. —  Che  diamine!  Siete  il  padre  mio.  Ma  lion  lavorare,  chi  non 
lavora,  non  mangia. 

—  È  giusto.  - 

—  Ma  ci  starete  bene  a  casa  mia!  —  seguitò  Felicetto.  —  Lo  sa- 
pete che  siamo  ricchi? 

—  La  Provvidenza  ti  ha  aiutato  davvero. 

—  Dunque,  ricordatevi  bene.  Bere,  non  ve  ne  mancherà.  Ma  ci 
vuol  discrezione.  E  se  me  mi  vedeste  un  po'  alticcio,  non  vi  venga 
la  voglia  di  imitarmi.  Io  lavoro,  curo  il  bestiame,  mi  rompo  la 
st  pit^na.  Lo  sapete  che  fabbrico  tine  di  cemento  per  mezza  maremma? 
sjueste  sì,  sono  fatiche.  E  se  vorrete  bere,  venite  sempre  da  me.  Mia 
moglie  non  è  affatto  avara;  ma  ho  amor  proprio,  io:  e  non  voglio 
che  dica,  mia  moglie:  tra  padre  e  figlio,  mi  asciugano  la  cantina. 

—  Verrò  da  te,  sta  bene  —  assentì  il  vecchio. 

—  Ora  incamminiamoci  verso  l'arco,  che  è  tardi.  E  se  i  parenti 
di  Mariuccia  sono  lì  alla  finestra,  levatevi  U  cappello  con  garbo.  Gii 
ho  detto  che  siamo  contadini;  ma  con  educazione,  contadini. 

Mariuccia  era  sotto  l'arco:  che  li  aspettava.  Ma  i  parenti  non  si 
vedevano. 

—  Debbo  cavare  il  cappello  sì  o  no?  —  domandò  il  vecchio  a 
Felicetto.  —  Mi  par^  che  non  ci  sia  nessuno. 

Ma  Felicetto,  senza  rispondere,  sganciò  la  staffa  dal  somaro  che 
aveva  destinato  a  suo  padre:  e  lo  aiutò  a  salire: 

—  Tenetevi  ritto,  che  diamine!  Sembrate  di  pezza  e  non  di  carne 
e  ossa  come  noi. 

—  Son  vecchio,  toh! 

—  Queste  sono  le  briglie.  Il  sacco  lo  legherò  sul  somaro  mio.  Io 
non  ho  bisogno  di  andare  a  cavallo. 

Indi,  frustati  i  tre  asini,  un  dopo  l'altro,  Felicetto  si  avvicinò 
alla  moglie: 

—  Se  quelli  di  casa  tua  —  le  disse  sottovoce  —  voglion  fare  i 


166  IL   VECCHIO 

morti,  credi  che  io  me  la  pigli?  Quelle  quattro  stai  i       ferreno  che 
mi  hai  portato,  la  vita  gliela  ho  data  io! 

Mari  uccia  voleva  rispondere  :  ma  Felicetto  andò  di  co:  foda 

agli  asdni;  dove  giunto,  con  la  testa  alta  esclamò  : 

—  Jja  superbia  vuole  altre  spalle,  compari! 

• 

*  • 

Ma  Mariuccia  era  cosi  buona,  col  vecchio!  Costui,  i  primi  giorni, 
non  se  la  sentiva  di  lavorare  :  e  allora  Felicetto  gli  dette  un  fascio  di 
giunchi:  che  facesse  canestri  e  corbelli.  E  il  vecchio  lavorava,  fu- 
mava e  discorreva.  Mariuccia  tra  una  faccenda  e  l'altra  gli  buttava 
una  domandina:  che  gli  sembrasse  il  paese;  che  pensasse  dell'aria 
(è  pesa,  no?)  e  della  gente.  Quei  quattro  gatti  di  Pianiano,  donne  e 
uomini,  l'avevano  voluto  subito  conoscere,  il  padre  di  Felicetto:  e 
lui,  il  vecchio,  aveva  trovato  per  tutti  una  parolina.  Chi  gli  aveva 
mostrato  la  propria  cantina,  se  lo  vedeva  ogni  momento  intorno: 
o  con  la  scusa  di  un  fìamimifero,  o  con  una  domanda  o  con  l'altra. 
E  accarezzava  i  marmocchi  che  giuocavano  davanti  alla  porta:  di- 
cendo loro  barzellette  o  pizzicandoli:  finché  il  padre  o  la  madre 
s'affacciassero  sull'uscio  e  gli  dicessero  :  «  come  vi  garba  questo  paese? 
Lo  gradite  un  gocciolino?».  Egli,  prima  di  rispondere,  beveva;  poi 
si  ripuliva  con  il  dorso  la  bocca  e  diceva  che  nessun  paese  al  mondo 
gli  pareva  così  bello  e  pulito.  «  Bello  poi!  »,  e  le  comari  ridevano. 
«  Insomma,  insomma!  »  replicava  il  vecchio  con  gli  occhi  lustri,  non 
sapendo  che  aggiungere. 

Quanto  a  Mariuccia,  sebbene  Felicetto  le  avesse  detto  che  al 
vecchio  gli  piacevano  tutti  i  liquidi  meno  quello  che  a  Pianiano  si 
doveva  risparmiare,  e  guai  a  insegnargli  la  strada  della  cantina!  — 
Mariuccia  ci  prese  gusto  a  fargli  vedere  il  bicchiere  :  e  ogni  momento 
il  suocero  le  compariva  in  cucina  con  la  testa  bassa  e  gli  occhi  ride- 
relli. Non  parlava,  guardava.  Mariuccia  fingeva  di  non  capire:  gli 
domandava  che  pensasse  della  maremma:  e  se  gli  paresse  più  bella 
o  più  brutta  della  terra  maiTohigiana. 

Il  vecchio  ansimava  un  po',  prima  di  chiamar  su  il  fiato:  poi  ri- 
spondeva : 

—  Lo  sapete  che  dico?  Questo,  nuora  mia,  è  il  Paradiso. 
Mariuccia  allora  lo  minacciava  col  braccio  alzato: 

—  Siete  un  impostore!  Non  avete  visto  che  terre  magre?  E  la 
macchia  laggiù,  che  ci  si  guadagna  solo  un  po'  di  legna?  E  il  terreno 
marcio  che  fuma? 

Il  vecchio  abbassava  la  testa,  confuso.  Ma  si  ripigliava  presto: 

—  Quando  c'è  una  goccia  di  vino,  e  il  pane  non  manca.  Dio  ha 
dato  tutto. 

E  guardava  la  credenza,  dove  saipeva  che  Marietta  nasron<i<M  ,i 

la  carata. 

* 

•  • 

Ma  il  giorno  ohe  lo  vide  rotolare  fuori  dell'uscio,  ubbriaco  finito, 
quel  giorno  Felicetto  ragionò  persino  di  trattener  lui  solo  le  chiavi 
della  cantina.  E  a  Mariuccia  che  voleva  replicare,  ma  non  osava, 
disse: 


l 


IL   VECCHIO  157 

—  Se  tu  lo  ubbriachi,  non  ci  potremo  contare  neppure  come 
guardiano.  Io  non  ti  dico  di  non  dargli  da  bere  :  ma  quando  ha  la- 
vorato e  torna  a  casa,  sfinito.  Se  non  ha  lavorato,  porgig-li  il  catino 
dell'acqua. 

E  al  vecchio,  come  la  sbornia  fu  smaltita,  Felicetto  urlò  : 

—  Lo  sapete  che  vi  siete  ubbriacato? 

—  Io  non  lo  so. 

—  Va  bene.  Ma  canestri,  ora,  ne  ho  a  suflBcienza.  Domani  vi 
metto  aJruva  e  fermo  là. 

Il  vecchio  non  rispose.  Con  le  labbra  stringeva  la  punta  della 
lingua,  come  se  avesse  paura  che  g-li  cadesse  : 

—  Ci  siamo  intesi?  E  anche  i  paesani  ci  penserò  io  ad  avvertirli  : 
gira  di  qui,  gira  di  là,  o  che  siete  venuto  a  scolare  tutte  le  botti  di 
Pianiano? 

—  Ma  se  a  un  povero  vecchio  —  ribattè  timido  il  padre  —  gli 
neg-hi  un  dito  di  vino,  come  potrebbe  faticare  un  povero  vecchio? 

*  —  Io  non  ve  lo  nego,  babbo  —  disse  Felicetto,  rabbonito.  —  A  due 
passi  dalla  vigna,  ci  son  io  che  faccio  le  tine.  E  quando  avete  sete, 
farete  due  passi  e  berrete.  Ma  il  giusto,  berrete. 

—  Quand'è  così...  Io  non  pretendo  più  del  giusto! 

• 
•  • 

Ma  dopo  quindici  giorni  che  era  alla  \'igna,  il  vecchio  non  ne 
potex'a  più  di  tornare  al  paese:  prima  di  tutto  perchè  Felicetto  gli 
centellinava  i  bicchieri  (questo  è  il  terzo,  ohe!)  e  poi  perchè  non 
poteva  scambiare  parola  con  questo  o  con  quello.  Un  vecchio,  gli 
puoi  far  fare  quello  che  ti  piace  :  è  pasta  molle;  ma  se  gli  impedisci 
quei  due  o  tre  piaceri  che  lo  tentano,  s'affloscia,  perde  spirito,  gli 
manca  persino  l'appetito.  E  il  vecchio  un  giorno  non  si  levò  dal  gia- 
ciglio :  e  quando  Felicetto  andò  a  scovarlo  disse  al  figlio  che  la  diarrea 
lo  ammazzava.  Allora  Felicetto  gli  portò  un  grappolo  di  sorbe  che 
intanto  gliela  fermerebbero,  la  diarrea;  e  poi  gli  disse  di  avviarsi 
pian  piano  verso  il  paese,  che  Mariuccia  gli  preparerebbe  un  letto 
a  modo.  Ma,  giunto  in  paese,  il  vecchio  non  andò  subito  da  Ma- 
riuccia; e  gironzò  da  una  casa  all'altra,  lamentandosi  della  diarrea 
e  del  figlio,  che  certo  gli  aveva  mischiato  al  vino  l'acqua  cattiva  di 
qualche  fosso.  Donne  e  uomini  gli  dissero  che  ciò  era  impossibile  : 
ma  Rosa  di  Toniolo,  con  quella  faccia  smagrita  dalla  malaria,  gli 
di?se  in  un  orecchio:  «se  invece  di  essergli  padre,  a  Felicetto,  gli 
foste  figliolo,  lo  so  io  i  regali  che  vi  toccherebbero!  ». 

Il  vecchio  non  capì  :  e  allora  Rosa  lo  chiamò  a  sé,  lo  stagnò  su 
una  sedia;  e,  mesciutogli  un  bicchiere: 

—  Lo  volete  vedere  il  figlio  del  figlio  vostro?  No,  non  guardate 
qui  dentro.  Io  sono  la  mc^lie  di  mio  marito;  ma  guardate,  quando 
uscite  di  qui,  la  figlia  di  Goio,  davanti  ai  miei  scalini.  Lo  vedrete  se 
quel  biondino  che  sgambetta  lì  in  terra  è  o  no  il  ritratto  di  Feli- 
cetto!... 

—  E  Felicetto  lo  sa? 

—  Che  discorsi! 

—  E  Mariuccia  anche  lo  sa? 


158  IL  VECCHIO 

—  Non  lo  sa;  ma  lo  immag-ina.  che  diamine!  Quattro  gatti  che 
siamo,  volete  che  nessuno  gliel'abbia  detto?  Ma  è  cotta  di  lui,  Ma- 
riuccia;  e  sebbene  i  parenti  glielo  aljbiano  detto  e  gridato  (sono  coma, 
oh!)  lei  non  se  ne  dà  per  inteso...  Ma  voi,  per  amor  di  Dio,  non 
glielo  dite! 

Rosa  mesceva  al  vecchio  un  altro  bicchiere  : 

—  Che  ne  dite  di  queste  robe  ohe  succedono  nel  mondo? 

—  E  che  debbo  dire? 

^  Felioetto  è  stato  un  uomo  fortunato!  —  riprendevp.  Rosa  di 
Toniolo.  —  Avete  visto  che  cantina  che  ha?  Ma  sono  avari.  Scom- 
metto che  la  nuora  non  vi  ha  ancora  fatto  assaggiare  l'aleatico  della 
vigna  del  Poggio. 

—  Questo  aleatico  è  bianco  o  rosso?  —  e  il  vecchio  si  leccava 
le  labbra. 

—  Rosso  rubino,  che  diamine!  E  come  dolce! 

—  No,  che  non  me  lo  ha  fatto  assaggiare  —  piag-nucolò  il  vecchio. 

Rosa  di  Toniolo  voleva  dirgli  qualcos'altro;  ma  il  vecchio  pen- 
sava all'aleatico  roseo  rubino  e  s'incamminava.  «  Ora  che  son  malato, 
Mariuccia  me  lo  farà  cissaggiare  per  certo!  »,  pensava. 

Rosa  lo  richiamò. 

—  Lo  volete  vedere  il  nipotino?  —  gli  disse  in  un  orecchio.  — 
Guardate  quel  mocciosetto  lag'giù  che  giuoca  con  il  maiale. 

—  E  quello  sarebbe? 

—  Ma  siete  tonto!  È  il  figlio  di  Felicetto,  che  diamine!  E  della 
figlia  di  Goio. 

• 
•  • 

Mariuccia  gli  preparò  il  letto  con  la  bottiglia  calda;  ma  il  vecchio 
piagnucolava  che  non  aveva  sonno  e  che  per  guarire  quel  male  gli 
bastava  una  poltrona.  Mariuccia,  che  non  c'era  Felicetto,  si  arrabbiò, 
urlò  :  e  disse  persino  che  era  stufa  di  far  la  serva,  lei  che  era  nata 
signora...  Il  vecchio  stava  ad  ascoltare  quello  sfogo  (gli  occhi  di  Ma- 
riuccia sembravano  filettati  di  sangue)  senza  capire  :  e  d'altronde  lui 
pensava  all'aleatico  che  era  di  un  rosso  rubino  e  dolce:  come  per- 
suadere Mariuccia  a  spillarne  per  lui  almeno  un  bicchiere.  Mariucxiia 
continuava:  che  lei  era  di  famiglia  buonissima,  gli  antichi  padroni 
di  tutta  Pianiano;  e  se  s'era  decisa  a  sposare  quel  zotico,  l'aveva  fatto 
perchè  rimasta  senza  padre  e  madre,  sola  con  i  servi  :  (e  non  diceva 
che  Richetto  le  era  anche  piaciuto  perchè  bello  e  ballava  bene);  ma 
i  parenti  glieravevano  detto  e  ripetevano  sempre  che  con  un  avvo- 
cato tutto  si  rimediava:  lui  da  una  parte,  con  quel  figlio  che  le  era 
nato:  e  lei  dall'altro,  coi  suoi  d'Ischia  di  Castro.  Glielo  dicesse,  a 
suo  figlio  :  che  tanto  a  una  spiegazione  un  giorno  o  l'altro  ci  si  sa- 
rebbe venuti,  e  magari  a  una  tragedia.  Il  vecchio  ascoltava  abbas- 
sando la  testa;  tanto  che  Mariuccia,  convinta  che  il  vecchio  le  desse 
ragione,  non  si  quietò  finché  non  gli  ebbe  detto  tutto:  e  alla  fine 
anche  la  gola,  rauca,  non  le  rispondeva  più. 

Ma  il  vecchio  pensava  tanto  all'aleatico  che  non  aveva  capito 
niente:  e  neppure  capì  quand'essa  alzò  il  braccio  e  gli  buttò  pian- 
gendo le  ultime  parole: 


IL   VECCHIO  159 

—  Se  io  voglio,  stasera  stessa  dò  una  voce  ai  parenti  e  ci  divi- 
diamo! 

Con  gli  occhi  velati,  il  vecchio  guardava  in  terra  e  contava  i 
mattoni  :  arrabbiato  che  fossero  tanti  e  lui  non  si  raccapezzasse  ben€ 
nella  conta.  Tanti;  e  il  vino  ancora  non  si  vedeva. 

Ricordò  ad  una  ad  una  le  parole  di  Rosa  di  Toniolo:  che  quel 
vino  era  rosso:  rosso  rubino  e  dolce.  E,,  pensando  al  vino,  gli  si  riaf- 
facciò in  mente  anche  quel  bimbo  :  che  giuocava  con  il  maiale  da- 
vanti all'uscio  di  una  casa.  Che  diavolo  aveva  quel  bambino  che 
Rosa  glielo  indicava  e  diceva  :  guardalo?  Che  stupido!  Ma  era  il  figlio 
di  Felicetto,  quel  bimbo!  Aveva  ragione  Mariuocia  di  lamentarsi! 

—  Sapete  che  mi  ci  vorrebbe,  per  guarire?  —  disse,  il  vecchio  a 
Mariuccia  che  con  la  testa  tra  le  palme  sussultava  sul  tavolino. 

—  Che  vi  ci  vorrebbe? 

—  Dalle  mie  parti  —  riprese  il  vecchio  —  quando  ci  si  guasta  il 
tamburone,  si  va  in  cantina  a  spillare  un  po'  di  vino  dolce.  Voi  ce 
l'avete  il  vino  dolce? 

—  No  —  disse  secca  secca  Mariuccia.  —  E  poi  sapete  che  vi  dico? 
Felicetto  non  vuole  che  vi  dia  vino,  a  voi. 

—  Felicetto  non  ragiona  —  piagnucolò  il  vecchio,  tristemente.  — 
Ma  voi,  vi  ho  sentito  or  ora,  voi,  Mariuccia,  ragionate.  E  quando 
dite  che  Felicetto  è  cattivo,  io  anche,  che  sono  suo  padre,  vi  debbo 
dire  che  è  cattivo  davvero. 

—  Sfido  io!  Lo  dicon  tutti. 

—  Ma  se  non  mi  date  un  bicchiere  di  quello  rosso  rubino,  io 
come  guarisco? 

—  Non  ve  lo  dò. 

—  Ma  se  io  vi  portassi  qui  —  e  il  vecchio  sorrideva,  malizioso 
—  una  improvvisata,  che  direste  se  vi  portassi  qui  un'improwisataf 

—  Non  vi  capisco. 

—  Ma  dopo,  mi  capirete!  —  riprese  il  vecchio,  con  astuzia.  — 
Purché,  s'intende,  mi  contraccambiate  con  una  bottiglia  di  quello 
dolce.  Almeno  una  bottiglia! 

E  poiché  Mariuccia  lo  guardava,  senza  capire: 

—  Io  vi  dò  ragione  in  tutto,  capite.  E  se  voi  ce  l'avete  con  Feli- 
cetto, anch'io  ce  l'ho:  che  mi  ha  dato  a  bere,  per  avarizia,  il  vino 
annacquato  con  l'acqua  dei  fossi. 

—  Felicetto? 

—  Lui,  lui,  quel  figlio  snaturato!  E  io  vi  dò  ragione,  poverina. 
Ma  se  non  portate  il  vino,  io  non  ve  la  faccio  l'improvvisata.  In- 
somma, la  volete  una  prova  che  Felicetto  vi  fa  le  corna? 

—  Se  me  la  portate,  io  vi  conduco  addirittura  in  cantina. 

—  Quand'é  così,  aspettatemi. 

E  il  vecchio  gpondon  grondoni  s'avviò. 

• 
•  • 

Quando  la  figlia  di  Goio  con  la  gola  stretta  corse  da  Felicetto  a 
dirgli  che  Mariuccia  era  scappata  col  loro  figlio  in  braccio  a  Ischia 
di  Castro  dai  parenti,  Felicetto  scoppiò  in  un  urlo: 

—  Chi  é  stato? 


160  IL   VECCHIO 

E  saputo  che  suo  padre  medesimo  gli  aveva  fatto  quel  giuoco, 
Felicetto  arrotò  i  denti  dalla  bile:  e  via  da  Pianiano,  di  corsa.  La 
figlia  di  Goio  gli  andava  dietro,  ma  invano  gli  diceva,  affannata, 
alle  orecchie: 

—  Va'  piano:  tanto  quel  che  è  successo  non  lo  rimedierai. 

Ma  Felicetto  voleva  ammazzare  il  vecchio:  e  correva  per  questo. 

Non  lo  ammazzò  :  che  ci  si  misero  di  mezzo  tutti  i  pianianesi. 
Ma  quando  Mariuccia  ritornò  col  parentado  a  ripigliare  tutta  la  roba 
sua  e  a  Felicetto  gli  rimase  solo  il  mulino  dell'olio:  «ora  vi  acco- 
modo io  —  disse  Felicetto  a  suo  padre  — ;  e,  staccato  il  somaro  che 
girava  la  macina,  legò  a  quel  posto  il  suo  vecchio  :  il  quale,  non  che 
l'aleatico,  neppure  il  vino  bevve  più  :  perchè,  dopo  il  quinto  o  sesto 
giorno,  piegò  sulle  ginocchia,  schiattato. 

Mario  Puccini 


IL  DECENTRAMELO 


Uno  dei  problemi  fondamentali  riservati  all'esame  della  presente 
legislatura  è  senza  dubbio  quello  che  corre  sotto  la  denominazione 
di  decentramento  amministrativo  e  di  autonomia  comunale.  Partiti, 
gioi-nali,  uomini  politici  si  fanno  banditori,  nei  programmi,  nelle 
polemiche,  nei  comizi,  di  questa  necessità  del  decentramento  e  del- 
l'autonomia locale.  Le  voci  discordi  si  sperdono  senza  eco  nel  grande 
coro  dei  partigiani  delle  riforme- 
Ma  poiché  cLSsai  di  rado  si  scende  a  determincizioni  concrete 
dell'essenza  e  dei  particolari  delle  richieste,  molti  si  uniscono  al 
coro  senza  penetrare  l'intima  portata  della  riforma,  la  quale,  sotto 
la  frase  ellittica  che  ormai  la  identifica,  si  presta  ad  interpretazioni 
profondamente  divergenti.  Gli  stessi  seguaci  più  risoluti  del  decen- 
tramento non  nascondono  la  necessità  di  uno  studio  accurato  dei 
termini  particolari  del  problema,  attualmente  ancora  vago  e  inde- 
terminato. Ed  è  questo  studio  obbiettivo  che  ci  proponiamo,  all'in- 
fuori  di  ogni  considerazione  di  parte,  lieti  di  promuovere  la  pub- 
blica discussione  sull'importante  argomento  intorno  al  quale  questa 
Rivista  ha  recentemente  pubblicato  un  interessante  e  accurato  stu- 
dio dell'on.  senatore  Artom  (1). 

In  tempi  recenti  il  problema  del  decentramento  fu  anche  oggetto 
di  esame  nella  notevole  Relazione  della  Commissione  parlamentare 
di  inchiesta  sull'ordinamento  delle  Amministrazioni  dello  Stato  e  al 
Congresso  Nazionale  del  Partito  Popolare  Italiano. 

La  relazione  Gassis  si  occupa  del  problema  del  decentramento 
nella  parte  generale  e  in  apposito  allegato.  La  parola  «  decentra- 
mento »  è  dalla  Commissione  chiarita  nel  suo  triplice  e  differente  si- 
gnificato di  autarchico,  burocratico  e  istituzionale.  Dopo  un  esame 
dei  precedenti  storici  della  questione,  la  relazione,  al  paragrafo  sulla 
regione,  cita  e  riassume  gli  scritti  del  Minghetti,  del  Saredo  e  del  Ber- 
tolini,  e  le  opinioni  espresse  dall'on,  D'Alessio  alla  Camera  e  dal  de- 
putato Hennessy  al  Parlamento  francese.  Il  voto  conclusivo  della  re- 
lazione, dopo  aver  rilevato  che  il  decentramento  organico  si  appale- 
sava oggi  immaturo,  propone  un  largo  decentramento  burocratico  e 
la  semplificazione  dei  controlli. 

Nel  Congresso  nazionale  del  P.  P.  I.  quasi  una  intera  giornata 
è  stata  dedicata  al  tema  dell'autonomia  regionale.  Il  maggiore  inte- 
resse della  discussione  fu  dato  dal  duello,  ad  armi  cortesi,  tra  Don 
Sturzo  e  l'on.  Meda.  La  regione  era  definita  dal  relatore  «  ente  elet- 
tivo rappresentativo,  autonomo  autarchico,  amministrativo,  legisla- 
tivo ». 

(1)  E.  Artom,  L'antico  disegno  delle  regioni.  Cavour,  Farini,  Minghetti, 
in  Nuova  Antologia  del  1"  gennaio  1922. 


162  IL   lJti.i.Ai.i.\.\iLMu 

La  portata  di  tale  proposta  fu  logicamente  avvertita  dall'onore- 
vole Meda  quando  affermò  che  «  colorendo  così  il  concetto  dell'auto- 
nomia regionale,  lo  si  precostituisce  in  antitesi,  certo  non  voluta,  col 
concetto  della  compagine  statale  o  nazionale  ».  Don  Sturzo  accettò  la 
sostituzione  della  parola  leffislalivo  dell'ordine  del  giorno  con  quella 
di  deliberativo,  «  per  omaggio  all'on.  Meda  e  per  averlo  consenziente, 
quantunque  non  entusiasta,  nell'inizio  della  regione  »,  ma  chiara- 
mente afìfermò  la  necessità  di  tenere  saldo  il  concetto  ispiratore.  Nel 
concetto  di  Don  Sturzo  le  funzioni  che  dovrebbero  essere  riservate 
alle  regioni  sono  quelle  relative  ag4i  interessi,  circoscritti  nel  proprio 
territorio,  nel  campo  dei  lavori  pubblici,  dell'agnncoltura,  del  com- 
mercio e  del  lavoro,  della  scuola  e  dell'assistenza  sociale,  della  bene- 
ficenza e  dell'igiene.  La  regione  dovrebbe  avere  una  propria  finanza. 

Del  resto  neanche  nel  campo  popolare  la  questione  sembra  an- 
cora matura,  anche  prescindendo  dalle  divergenze  di  opinioni  rile- 
vate nel  congresso.  Finora  la  discussione  è  limitata  alle  affermazioni 
di  principio;  ma  sarebbe  bene  che  su  queste,  specialmente  dal  punto 
di  vista  politico,  i  vari  partiti  esprimessero  con  chiarezza  e  con  co- 
noscenza piena  dell'argomento  il  proprio  pensiero. 

Questo  fatto  spiega  l'opinione  diffusa  che  se  i  tempi  sono  pro- 
pizi le  risoluzioni  non  possono  ritenersi  certo  mature.  Siamo  dinnanzi, 
insomma,  più  che  a  una  elaborazione  serena  e  meditata  di  un  nuovo 
assetto  amministrativo  che  corrisponda  ai  bisogni  dei  tempi,  a  una 
vera  esplosione  e  reazione  dell'opinione  pubblica,  contro  l'inestrica- 
bile groviglio  di  leggi,  regolamenti,  normali,  circolari,  istruzioni, 
onde  lo  Stato  avvolge  ed  appesantisce  l'attività  degli  Enti  locali. 
Ma  poiché  questa  reazione  sorge  senza  fondarsi  su  un'analisi  com- 
pleta del  fenomeno,  può  ingenerare,  nella  forma  superficiale  ormai 
assunta  in  prevalenza,  equivoci  perturbatori  e  dannosi.  Cosi  la  for- 
mula «  la  terra  ai  con-tadini  »,  con  la  quale  si  volle  sintetizzare  il 
vasto  problema  agrario,  interpretata  in  modo  sostanzialmente  discor- 
dante dalla  legislazione,  dai  partiti  politici  e  dai  proprietari  terrieri, 
generò  illusioni  infeconde  e  produce  tuttora  controversie  e  lotte  inter- 
minabili. 

Sembra  quindi  indagine  essenziale  e  pregiudiziale,  per  una 
seria  discussione  sulla  riforma  del  nostro  sistema  amministrativo, 
determinare  quale  significato  sia  stato  attribuito  alla  formula  «  de- 
centramento amministrativo  e  autonomia  comunale»,  e  cercare  di 
porre  in  chiaro,  nelle  discussioni  politiche  e  nella  stampa,  la  posi- 
zione esatta  ed  attuale  del  problema,  se  non  si  vuole  che  il  coro 
di  unanimi  richieste  cui  si  è  accennato  non  si  converta  d'improv- 
viso in  un  fiero  contrasto. 

Invero,  quando  si  tenga  presente  il  concetto  dell'amministra- 
zione propriamente  detta  dal  ipunto  di  vista  scientifico,  con  l'espres- 
sione decentramento  amministrativo  si  dovrebbe  intendere  il  tra- 
sferimento agli  organi  locali  del  Governo  e  agli  Enti  locali  delle 
facoltà  e  attribuzioni  direttive,  oggi  rigidamente  accentrate  dai  Mini- 
steri. Su  questa  forma  di  decentramento  è  assai  facile  l'accordo  fra 
coloro  che,  respingendo  il  presupposto  di  una  potenza  taumaturgica 
e  trascendentale  d^li  organi  centrali,  scorgono  tutto  il  gravissimo 
danno  che  il  nostro  sistema  acoentratore  arreca  alla  vita  delle  pub- 
bliche Amministrazioni. 

Senonchè,  questa  interpretazione,  forse  la  più  corretta  dal  punto 
di  vista  scientifico  e  storico,   accolta  ormai  con  fervore  da  molti 


IL  DECENTRAMENTO  163 

g^ruppi  politici  medi,  può  dirsi  tu tt' altro  che  coincidente  con  la  con- 
cezione seguita  da  altre  correnti  politiche  e  delineata  nell'ultimo  di- 
scorso dell'on.  Giolitti  alla  Camera.'  Secondo  quest'ultima  tendenza, 
oltre  a  decentrare  le  funzioni  direttive  ed  esecutive  dello  Stato  (e  cioè 
1©  attribuzioni  specifiche  dell'Amministrazione  propriamente  detta), 
si  dovrebbe  trasferire  agli  Enti  antarchici  locali,  attualmente  esistenti 
e  da  creare  (regioni),  anche  parte  delle  funzioni  legislative;  concetto, 
questo,  che  evidentemente  non  è  contenuto  nella  formula  «  decentra- 
mento amministrativo». 

Dal  canto  suo  il  partito  socialista,  alla  cui  politica  si  deve  non 
piccola  parte  dello  sviluppo  assunto  dall'ingerenza  dello  Stato  nella 
vita  pubblica  locale,  è  stretto  dalla  evidente  contradizione  fra  le 
sue  necessarie  aspirazioni  a  una  sconfinata  libertà  negli  organismi 
pubblici  che  controlla  (amministrazioni  provinciali,  comunali,  oiere 
pie),  e  la  necessità  altrettanto  viva  di  i-eclamare  sempre  nuovi  inter- 
venti dello  Stato,  nel  reale  o  presunto  vantaggio  delle  masse  che 
rappresenta. 

Fra  queste  aspirazioni  ©  tendenze,  talora  convergenti,  tal'altra 
contrastanti,  compendiate  nell'espressione  «  decentramento  ammini- 
strativo »,  l'opinione  pubblica  è  affatto  disorientata  dal  punto  di  vista 
politico  non  meno  che  dal  punto  di  vista  tecnico  del  problema:  e 
1  incertezza  è  ag^gravata  dall'efflorescenza  rigogliosa  di  organismi 
ed  Enti  statali  creati,  soppressi  ©  ricostituiti;  dalle  simpatie  statoìatre 
di  alcuni  gruppi  politici  medi  impregnati  di  riformismo;  dall'orien- 
tajnento  social ist^gian te  di  tutti  i  Governi  succedutisi  al  potere  da 
qualche  anno.  Occorre  quindi  che  il  problema  sia  esaminato  nella 
sua  essenza  obbiettiva  e  pratica,  all'infuori  dalle  deviazioni  ed  esa- 
gerazioni dei  singoli  partiti,  nell'imponente  complessità  dei  suoi 
rapporti  politici  e  tecnici,  con  uno  spirito  scevro  da  ogni  preoccupa- 
zione che  non  sia  quella  di  mirare  a  un  assetto  meglio  rispondente 
alle  superiori  ed  imprescindibili  esigenze  del  Paese. 

* 

Quali  i  iprecedenti  remoti  e  prossimi  della  questione  ? 

È  noto  a  tutti  su  quali  basi  sìa  fondato  l'attuale  ordinamento 
della  nostra  Amministrazione.  La  medesima  influenza  che  operò 
dopo  la  rivoluzione  francese  sullo  sviluppo  del  nostro  diritto  pri- 
vato, penetrò  nei  nostri  congegni  amministrativi.  La  rigida  disci- 
plina napoleonica,  dopo  il  tumulto  del  periodo  rivoluzionario,  aveva 
accentrato  nelle  mani  del  governo,  con  la  legge  22  piovoso,  anno 
VIIP,  la  somma  dei  poteri  pubblici:  codesto  sistema  venne  quasi 
interamente  introdotto  nello  Stato  «ardo,  esteso  poi  a  tutto  il  Reerno 
con  la  legge  23  ottobre  1859,  modificata  solo,  e  timidamente,  nel  1865 
con  la  l^ge  del  20  marzo.  Fino  al  1877  la  direzione  del  Governo  ita- 
liano rirfiase  affidata  a  nove  Ministeri;  nel  1878  i  dicasteri  diven- 
tano 10;  un  altro  se  ne  aggiunge  nel  1889  e  un  altro  ancora  nel  1912. 

Attualmente  i  Ministeri  sono  15,  con  quattro  Sottosegretariati 
aventi  una  certa  autonomia,  oltre  al  nuovo  posto  di  Sottosegretario 
della  Presidenza  del  Gonsiglio. 

La  istituzione  dei  nuovi  Ministeri,  che  avrebbe  dovuto  effet- 
tuarsi mediante  una  razionale  riduzione  dei  servizi  nei  vecchi  Dica- 


164  IL  DECENTRAMENTO 

steri,  con  una  maggiore  specializzazione,  ma  anche  con  una  più  effi- 
ciente e  snella  coordinazione  delle  varie  funzioni,  avvenne  in  un 
modo  tumultuoso,  senza  direttive  precise,  più  per  motivi  di  carat- 
tere politico  (prevalenza  di  tendenze  informate  al  collettivismo  di 
Stato;  necessità  di  guerra;  ricostruzione  dei  territori  invasi  e  perfino, 
talora,  per  agevolare  la  formazione  dei  nuovi  governi,  con  un  porta- 
foglio di  più  da  distribuirei)  che  non  per  ragioni  connesse  e  dipen- 
denti dalle  reali  necessità  dell'Amministrazione. 

Caratteristica  delle  modificazioni  apportate  agli  organici  fu  un 
enorme  gonfiamento  dei  posti  direttivi:  le  sole  direzioni  generali, 
da  circa  60  prima  della  guerra,  diventarono  95;  aumentarono  in  pro- 
porzione i  segretariati  generali,  le  divisioni,  i  posti  d'ispettore,  ecc. 
Nel  momento  stesso  in  cui  veniva  pubblicata  una  relazione  d'in- 
chiesta (Villa-Ranelletti)  sull'Amministrazione,  che  deplorava  l'esu- 
beranza degli  ispettori  generali  e  amministrativi,  si  creavano,  con 
decreti  legislativi  emanati  in  base  alla  legge  dei  pieni  poteri,  altre 
fungaie  d'ispettori. 

Quasi  tutti  1  Ministeri,  mentre  si  studiavano  e  reclamavano  ri- 
forme per  ridurre  i  servizi,  moltiplicavano  gli  uffici  direttivi,  '  mo- 
dificando gli  organici  con  decreti-legge;  e  opponevano  così  le  più 
formidabili  barriere  ad.  ogni  onesto  tentativo  vòlto  a  semplificare 
l'Azienda  dello  Stato. 

Poiché,  com'è  ovvio,  i  nuovi  capi  di  servizio,  pur  di  dare  un 
contenuto  al  proprio  ufficio,  escogitarono  mille  nuove  forme  di  atti- 
vità da  parte  dello  Stato;  e  quasi  sempre  con  danno  del  Paese. 

Pertanto,  dati  i  difetti  numerosi  e  sostanziali  del  sistema  ìtsoì- 
cese,  logorato  da  una  applicazione  ohe  tenne  sempre  così  piccolo 
conto  delle  nuove  esigenze  dei  tempi;  data  la  soprastruttura  creata 
dalla  legislazione  di  guerra  soii  già  pesanti  e  macchinosi  congegni 
amministrativi;  era  ed  è  evidente  che  una  reazione  dovesse  sorgere 
contro  l'organismo  burocratico,  per  ottenerne  la  smobilitazione  e  per 
liberare  l'attività  degli  enti  locali  e  dei  privati  dal^e  pastoie  innu- 
merevoli che  rallentano  e  isteriliscono  ogni  sana  iniziativa. 


•  • 

In  quest'opera,  bisogna  riconoscerio  subito,  partiti  e  uomini 
politici,  se  furono  consapevoli  dei  malanni,  non  ebbero  una  visione 
chiara  dei  rimedi.  Fu  già  osservato  dal  compianto  Ghino  Valenti 
che  «  i  più  amano  lasciare  questa  grande  innovazione  del  decentra- 
mento in  una  forma  indeterminata,  quasi  un  ideale,  a  cui  è  confor- 
tante il  mirare,  ma  che  non  sarà  mai  in  pratica  raggiunto,  troppo 
essendo  le  difficoltà  di  ogni  specie  ohe  si  oppongono  alla  sua  attua- 
zione». 

Una  delle  poche  determinazioni  concrete,  fatte  dai  sostenitori 
della  riforma,  è  il  richiamo  al  precetto  Minghetti  del  1861.  L'argo- 
mento è  stato  anche  toccato  dall'On-  Oiolitti  nel  suo  ultimo  discorso 
di  governo  e  merita  di  essere  esaminato  almeno  nelle  caratteristiche 
salienti. 

Per  eseguire  la  ripartizione  del  nuovo  Stato  italico  in  circo- 
scrizioni amministrativo,  Fon.  Minghetti  presentò  il  io  marzo  1861 


IL  DECENTRAMENTO  165 

un  progetto  di  legge  .proponendo  la  suddivisione  del  territorio  in 
Regioni,  Provincie,  Circondari  e  Comuni.  L'innovazione  proposta 
al  sistema  allora  vigente  consisteva  in  principal  modo  nella  crea- 
zione dell'ente  regione.  La  ripartizione  territoriale  del  Regno  e  la 
formazione  delle  grandi  arterie  amministrative,  entro  cui  avrebbe  do- 
vuto scorrere  ordinata  e  rapida  la  vita  intema  dello  Stato,  poggiava 
su  questi  concetti  cardinali  :  il  Comune  doversi  considerare  come  la 
prima  fondamentale  e  più  intima  associazdone  delle  famiglie;  la 
Provincia  riguardare  non  già  come  formazione  fittizia,  ma  «  quale 
associazione  naturale,  fondata  sopra  interessi  comuni  sopra  tradi- 
zioni che  non  si  possono  offendere  senza  pericolo»  (1). 

Il  Circondario,  invece,  si  dichiarava  mantenuto  soltanto  per 
considerazioni  contingenti;  così  che  nella  relazione  del  Ministro  al 
rrogetto  si  legge:  «È  mia  opinione  che  il  Circondario  sia  destinato 
a  sparire  in  un  tempo  più  o  meno  remoto;  e  se  ovunque  fossero  in 
Itulia  vie  ferrate  e  facilità  di  comunicazione,  non  mi  sarei  peritato 
di  pronome  l'abolizione  »  (2). 

Regolata  la  vita  comunale;  conservato  il  Circondario  per  le  ra- 
gioni di  opportunità  sopra  ricordate;  disciplinate  le  funzioni  della 
Provincia,  cui  si  conferivano  nuove  franchigie,  la  costituzione  della 
regione  si  giustificava: 

1)  con  la  convenienza  di  provvedere  in  modo  rapido  ed  effi- 
cace ad  alcuni  servizi  comuni  a  più  provincie  (istruzione  superipre, 
belle  arti,  cura  delle  strade,  difesa  dei  fiumi); 

2)  con  la  necessità  di  creare  un  periodo  transitorio  nel  quale 
(unificato  tutto  il  sostanziale,  la  politica,  le  armi,  la  finanza,  la 
legislazione),  la  parte  amministrativa  potesse  durare  con  quella  va- 
rietà che  armonizzi  con  l'indole  diversa  dei  popoli  e  delle  loro 
usanze  (3). 

In  altri  termini  si  temeva  che  una  regolamentazione  unica  di 
tutte  le  regioni  italiche,  fino  allora  amministrate  con  regimi  tanto 
differenti,  fosse  destinata  a  turbare  le  tendenze,  le  abitudini,  gli 
interessi  accentrati  nelle  regioni,  con  danno  precisamente  di  quel- 
l'unità che  si  voleva  ad  c^ni  costo  salvaguardare- 

La  regione  così  formata  doveva  essere  un  ente  governativo,  un 
ente  gerarchico  e  non  una  amministrazione  autarchica. 

La  sua  attività  era  delineata  all'art.  1  del  progetto  nei  seguenti 
termini  :  • 

«  Tutte  le  Provincie  che  compongono  una  regione  costituiscono 
un  consorzio  obbligatorio  i>er  le  spese  relative  : 

1°  agli  Istituti  d'istruzione  superiore,  agli  archivi  storici,  alle 
accademie  di  belle  arti; 

2°  ai  lavori  pubblici  per  fiumi,  torrenti,  ponti,  argini  e  strade; 
quando  tali  spese  non  sono  poste  dalla  legge  a  carico  dei  Comuni, 
delle  Provincie,  dei  Consorzi  e  dello  Stato». 

Il  progetto  della  istituzione  delle  regioni,  che  vuoisi  riassu- 
messe l'antico  pensiero  di  Cavour  e  di  Farini,  non  fu  accolto  favo- 
revolmente negli  Uffici  della  Camera.  Indarno  l'on.  Minghetti,  nella 

(1)  Discorsi  parlamentari  di  M.  Minghetti,  voi.  I,  pag.  90  e  91. 

(2)  Atti  parlamentari  -  Documenti,   18^1j   pag.   33. 

(3)  Atti  parlamentari,  ibidem. 


166  IL  DECENTllAMENTO 

relazione  e  nei  discorsi,  ribadì  il  concetto  ohe  dalla  nuova  legge 
nessun  nocumento  sarebbe  derivato  all'idea  unitaria,  così  profon- 
damente sentita  da  tutti  negli  albori  del  nuovo  Regno. 

L'on.  Tecchio,  relatore  agli  Uffici,  avvertiva  che  «le  genti  sta- 
vano in  apprensione  di  qualsivoglia  scompartimento  che  rendesse 
immagine  di  antiche  circoscrizioni  politiche,  felicemente  abrogate. 
La  regione  presuppone  o  l'idea  di  una  unione  federale  o  men  ferm* 
la  fede  nell'unità  »• 

Così  il  tentativo  di  decentramento  ebbe  un  completo  insuccesso, 
spiegato  essenzialmente  dal  timore  assai  diffuso  negli  ambienti  par- 
lamentari che  la  riforma  nuocesse  all'unificazione  politica  non  ancora 
del  tutto  cementata.  Eppure  non  si  trattava,  come  già  si  è  accennato, 
della  istituzione  di  un  ente  amministrativo  autonomo,  il  quale  avreb- 
be potuto,  con  fondatezza,  far  temere  ostacoli  o  turbamenti  nel 
grandioso  moto  unitario  che  in  quei  tempi  si  andava  compiendo. 
La  regione  nel  progetto  Minghetti  era  considerata  come  ente  gover- 
nativo —  non  autarchico  —  e  definita  "  sede  di  un  governatore  che, 
come  delegato  del  Ministro  dell'Interno,  provvedesse  sul  luogo  a 
molti  affari  senza  che  fossero  portati  alla  capitale  e  conciliasse  la 
facoltà  regolamentare  delle  varie  parti  d'Italia  alla  unità  legisla- 
tiva della  Nazione  » . 

Tuttavia,  nonostante  la  più  perspicace  chiarezza  di  propositi,  il 
Parlamento  non  concesse  né  meno  l'onore  di  una  discussione  vera 
0  propria  al  progetto,  che  fu,  come  ben  disse  il  Saredo,  condannato 
senza  esame.  Così,  mentre  il  relatore,  on.  Tecchio,  iniziava  la  rela- 
zione affermando  «il  decentramento  amministrativo  è  teorema  uni- 
versalmente accolto»,  il  disegno  di  legge  veniva  relegato  agli  ar- 
chivi con  un'opposizione  tanto  fiera  e  universale  che  nessuno,  per 
50  anni,  osò  più  di  parlarne  alla  Camera,  e  l'on.  Crispi,  il  quale 
tentò  nel  1891  di  riproporre  la  questione,  dovè  lasaiare  il  Governo  in 
seguito  all'agitazione  prodotta  nel  Parlamento  da  tale  suo  intento. 

• 
•  • 

All'insuccesso  parlamentare  —  e  quindi  politico  —  della  tesi 
del  decentramento  fa  riscontro  lo  scarsissimo  interesse  che  la  que- 
sione  destò,  in  generale,  nel  campo  scientifico.  Pochi  furono  gli 
scrittori  che  si  occuparono  a  fondo  dell'argomento,  talché  alla  riso- 
luzione del  problema,  nel  riguardo  tecnico,  viene  oggi  a  mancare 
anche  quella  completa  elaborazione  e  preparazione  dottrinale  che, 
se  esistente,  potrebbe  costituire  un  saldo  punto  di  partenza  alle  di- 
scussioni e  alle  proposte  di  carattere  pratico  per  l'attuazione  della 
riforma. 

Tra  coloro  che  cercarono  di  continuare  il  pensiero  di  L.  C  Fa- 
rini  e  del  Minghetti,  ricorderemo  il  Bertolini  e  il  Saredo,  entrambi 
convinti  e  vivaci  propugnatori  della  istituzione  della  regione.  Il 
Bertolini  pone  in  rilievo,  nei  suoi  scritti  (1),  l'esistenza  di  elementi 
regionali  nel  nostro  paese;  esistenza  di  intendimenti,  rapporti,  in- 
teressi, solidarietà  che,  non  trovando  una  regolata  espansione  nel- 
l'oganismo  amministrativo,  diviene  spesso  una  causa  perturbatrice 

(1)  Bertolini,  Saggi  di  scienza  e  diritto  deW Amministrazione. 


IL  DICENTRAMKNTO  167 

nell'indirizzo  della  nostra  vita  pubblica.  L'ordinamento  regionale, 
secondo  il  Bertolini,  assicurerebbe  al  Paese  una  più  sollecita  e  op- 
portuna soddisfazione  dei  bisogni  locali:  mentre  offrirebbe  la  pos- 
sibilità di  «  localizzare  la  deliberazione,  l'onere  e  la  responsabilità 
di  una  notevole  parte  delle  spese,  che  oggi  incombono  allo  Stato»; 
funzione,  quest'ultima,  che  mal  si  potrebbe  affidaiie  a  consorzi  inter- 
provinciali, di  carattere  temporaneo,  privi  dì  autorità  e  del  neces- 
sario prestigio  (1). 

Giuseppe  Saredo,  nell'introduzione  al  commento  della  legge  co- 
munale e  provinciale,  fa  una  larga  esposizione  della  teoria  della 
regione,  ma  va  molto  al  di  là  del  Farini  e  del  Minghetti  nel  deli- 
neame  la  costituzione  e  le  funzioni.  Dopo  una  critica  dell'attività  e 
dei  compiti  della  provincia  attuale,  considerata  da  lui  quale  sem- 
plice espressione  geografica  e  come  organismo  burocratico  di  assai 
scarsa  utilità,  il  Saredo  accoglie  la  massima  giobertiana  :  «  il  sistema 
federale  tanto  giova  all'amministrazione  quanto  nuoce  nella  politica  », 
e  accostandosi  appunto  ad  un  sistema  federale  amministrativo,  pro- 
pone una  circoscrizione  regionale,  a  base  elettiva,  munita  di  larghi 
poteri,  con  a  capo  personaggi  politici  importanti  e,  perfino,  nìembri 
della  famiglia  reale  (2). 

Come  vedremo,  le  idee  del  Saredo,  tranne  alcuni  particolari, 
sono  oggi  più  prossime  ai  termini  della  questione  attuaie  di  quel 
che  non  siano  le  tendenze  e  i  progetti  del  Farini  e  del  Minghetti; 
e  le  citazioni  fatte  del  disegno  di  legge  di  Minghetti  da  molti  che 
si  occupano  della  questione,  senza  conoscerne  a  fondo  i  precedenti 
e  i  particolari,  sono  non  di  rado  erronee  e  anacronistiche.  Comun- 
que sta  di  fatto  che  le  obbiezioni  mosse,  in  Parlamento  e  fuori,  ai 
propositi  di  un  vigoroso  decentramento  e  alla  creazione  della  re- 
gione si  possono  compendiare  in  una  sola:  la  preoccupazione  che 
l'unità  del  Paese,  faticosamente  raggiunta,  possa  subirne  pregiu- 
dizio. L'obbiezione,  assai  seria  noi  tempi  della  formazione  del  Re- 
gno, ha  oggi  perduto  parte  del  suo  valore,  nonostante  abbia  tratto 
nuovi  elementi  da  una  serie  di  atti  inopport,uni  e  intemi>eranti; 
dai  voti  della  Consulta  siciliana,  che  voleva  conferito  al  Consi- 
glio Regionale  carattere  di  Parlamento  e  al  Governatore  preroga- 
tive regali,  alle  isolate  iniziative  di  deputati  siciliani,  sardi  e  meri- 
dionali, che  più  volte  si  adunarono  in  Commissioni  per  esaminare 
la  questione,  suscitando,  con  tali  manifestazioni  di  carattere  parti- 
colaristico, in  luogo  dei  necessari  consensi,  vive  diflBdenze  e  preoc- 
cupazioni. 

* 
•  • 

Non  deve  tacersi  che  il  movimento'  di  questi  ultimi  tempi,  che 
ha  portato  di  nuovo  in  discussione  il  decentramento,  sia  assai  povero 
di  idee  pratiche  e  manchi  molto  spesso  di  un  contenuto  che  possa 
formare  serio  oggetto  di  discussione.  Anche  in  recenti  manifesta- 
zioni si  è  visto  auspicare  al  decentramento  e  alla  regione,  quasi 

(1)  Localizzare  non  significa  ridurre:  e  lo  dimostrano  gli  enti  autonomi 
portuari  con  le  enormi  maggiori  spese  assunte  in  confronto  con  la  gestione 
precedente. 

(2)  SAREax),  La  legge  sull'Amministrazione  Comunale  e  Prov.,  voi.  I,  185. 


168  IL  DECENTRAMENTO 

<'ome  all'avvento  di  un  nuovo  regime  destinato  a  salvare  il  Paese 
da  una  imminente  rovina,  in  una  forma  luccicante  di  frasi  sonore, 
ma  con  scarsi  accenni  concreti  alle  riforme  da  attuare.  Inoltre  l'idea 
del  decentramento  ha  fatto  fiorire  —  com'era  fatale  del  resto  che 
avvenisse  —  nel  sempre  verde  giardino  della  patria  retorica,  copia 
abbondevole  di  luoghi  comuni,  ottimi  ausili  nei  discorsi  elettorali  e 
nei  comizi,  specialmente  pel  carattere  di  novità  concettosa  con  cui 
la  tesi  si  può  presentare  agli  ignari  ascoltatori.  Così  si  sono  riesumate 
le  glorie  del  libero  Comune  italico  del  Medio  Evo  per  invocare  ana- 
loghe libertà  in  favore  dei  Comuni  attuali.  Richiami  e  confronti  sto- 
rici sui  quali  molto  vi  sarebbe  da  dire  e  da  obbiettare,  se  si  volesse 
ritornare  anche  fugacemente  col  pensiero  alle  funzioni  dei  Comuni 
niedioevali,  ai  loro  rapporti  con  l'impero,  quando  lo  Stato  moderno, 
con  la  sua  vita  multiforme  e  complessa,  non  era  ancora  sorto. 

Concludendo,  la  questione  del  decentramento,  dopo  circa  cin- 
quant'anni  di  silenzio  quasi  completo,  si  imjpone  oggi  alla  discus- 
sione pubblica  più  per  l'esasperazione  prodotta  ai  mali  del  nostro 
sistema  amministrabivo  dalla  legislcLzione  di  guerra,  che  per  una 
elaborazione  meditata  di  un  migliore  ordinamento;  si  diffonde  più 
con  la  scintillante  e  verbosa  vacuità  delle  immagini,  che  con  pro- 
positi «concreti  di  rinnovazione;  e  minaccia,  purtroppo,  di  essere 
monopolizzata  dai  partiti  politici  estremi,  che  cercano  in  un  modo  o 
nell'altro  di  volgere  le  riforme  ai  loro  fini  particolari,  quando  in- 
vece occorre,  su  tale  altissimo  e  vitale  argomento,  che  tutto  il  Paese 
si  accinga  alle  inevitabili  riforme  con  uno  spirito  scevro  da  ogni  cri- 
terio partigiano. 

• 
•  • 

Se  si  vuole  davvero  prepajure  le  vie  alle  innovazioni  reclamale 
dai  nuovi  bisogni  occorre  proporsi,  anzitutto,  alcuni  quesiti  di  or- 
dine pregiudiziale  alla  questione  del  decentramento. 

Sta  bene  concedere  nuove  franchigie  agli  enti  locali,  ma  prima 
occorre  liquidare  i  numerosi  residui  di  guerra  che  ancora  oggi  oppri- 
mono l'economia  nazionale.  Tutto  ciò  che  la  guerra  e,  purtroppo, 
anche  il  regime  post-bellico,  hanno  creato  e  sovrapposto  alle  nor- 
mali attività  dello  Stato  dev'essere  coraggiosamente  distrutto.  Lo 
Stcìto  moderno  non  può  limitarsi  alla  funzione  del  gendarme;  ma 
non  deve  continuare  a  spingere  la  propria  invadenza  in  tutti  i 
meandri  della  vita  economica  e  sociale. 

Questa  è  una  tesi  che  trova  tutti  concordi  a  parole,  rca  che*  at- 
tende ancora  di  essere  tradotta  in  atto- 
Ned  giudizio  del  Paese,  lo  Stato  regolatore  dei  cambi  e  del  com- 
niercio  internazionale,  assuntore  di  imprese  industriali  e  di  forni- 
ture alimentari,  si  è  liquidato  tra  la  riprovazione  generale.  Ma  la 
demolizione  di  tutto  li  mastodontico  edifìcio  è  appena  agli  inizi; 
mentre  occorre  colpire  col  piccone  le  fondamenta  della  torre  babe- 
lica della  legislazione  di  guerra  e  c-ancellarne  anche  il  ricordo. 

Insieme  con  questa  opera  di  necessaria  demolizione  bisosrna 
determina.' e  con  preciso  rigore  quali  debbano  essere  le  atti /ila  riser- 
vate allo  Stato  per  garantirne  le  fondamentali  funzioni  e  la  vita 
unitaria.  Così  si  eviterà  a  tempo  il  disorientamento  degli  spiriti 


IL  DECENTRAMENTO  169 

dimostrando  che  —  al  contrario  di  quanto  affermano  alcuni  —  la 
rinuncia  da  parte  dello  Stato  a  tali  essenziali  funzioni  non  avverrà 
senza  l'inevitabile  sfaldamento  della  sua  compagine.  E  invero  tutte 
le  attività  ritenute  sinora  esclusive  dello  Stato,  principalmente  la 
legislativa  e  la  finanziaria,  sono  state  attaccate  dalla  propaganda 
pel  decentramento;  è  riihasta  fuori  di  discussione  la  sola  funzione  di 
polizia,  forse  perchè  così  si  pensa  che  sarà  piìi  facile  continuare  a 
dirne  male.  Non  è  fuor  di  luogo  porre  in  rilievo  il  pericolo  di  tali 
discussioni. 

Lo  Stato  deve  creare  il  diritto  e  attuarlo.  La  tutela,  preventiva 
e  repressiva,  del  diritto-  è  mancata  in  molte,  in  troppe  occasioni. 
Non  ne  incolpiamo  soltanto  gli  uomini.  Forse  le  contingenze  e  i  moti 
storici  sono  stati  superiori  alla  volontà  e  alle  possibiltà  del  gover- 
nanti. Ma  certo,  passate  le  crisi,  bisognava  correre  piìi  rapidamente 
ai  ripari.  Restaurare  il  principio  che  lo  Stato  è  l'unico  e  il  supremo 
regolatore  del  diritto  è  un  compito  che  attende  ancora  chi  lo  assolva. 

La  funzione  legislativa  può  essere  compiuta  da  Enti  diversi  dallo 
Stato?  Questa  domanda  bisogna  porsela  risolutamente  per  sgombrare 
il  terreno  da  alcune  affermazioni  dei  seguaci  del  decentramento  a  ol- 
tranza. I  quali,  dal  governatore  del  progetto  Minghetti,  sono  arrivati 
a  propugnare  l'idea  di  un  Consiglio  Regionale  elettivo,  munito  persino 
di  poteri  legislativi.  Se  il  proposito  fosse  attuabile,  risorgerebbe  in 
tutto  il  suo  vigore  il  concetto  federalista,  repugnante  al  sentimento, 
alle  tradizioni,  agli  interessi  del  nostro  Paese.  Ma  è  da  credere  che 
l'idea  non  ix)ssa  tradursi  in  atto'  anche  per  altre  circostanze.  Nel  Me- 
dioevo i  nostri  Comuni  trassero  le  maggiori  forze  dalla  disciplina  in- 
terna delle  varie  classi,  inquadrate  nelle  corporazioni  di  arti  e  me- 
stieri. Oggi  il  Comune  e  la  Regione  non  potrebbero  attingere  alcuna 
forza  di  cai'attere  locale  dal  movimento  classista.  I  sindacati,  queste 
leve  formidabili  e  talora  minacciose  della  società  odierna,  sono  per  la 
loro  intrinseca  natura  néizionali,  non  essendo  riusciti  finora  a  diven- 
tare veramente  intemazionali,  e  conducono,  volta  a  volta,  i  problemi 
5i  carattere  locale  in  sfere  sempre  piìi  vaste.  In  altri  termini  il 
sindacalismo  è  un  movimento  accentratore;  le  grandi  confederazioni 
del  lavoro  tendono  a  dettare  leggi  uniformi  per  tutte  le  regioni  nel 
mercato  della  mano  d'opera  e  del  salariato;  aspirano  ad  elevare  il 
tenor  di  vita  del  contadino  e  dell'operaio .  delle  regioni  povere  al 
livello  dei  lavoratori  delle  regioni  ricche. 

Ora  questa  tendenza,  con  la  quale  bisogna  a  ogni  modo  fare 
i  conti,  può  rappresentare  un  ostacolo  formidabile  al  decentramento 
locale  delle  funzioni  legislative.  E  perciò  è  da  ritenersi  che  gli  sforzi 
per  la  creazione  dei  parlamentini  regionali  cadranno  nel  vuoto.  Il 
sindacalismo  mira  invece  ad  assicurare  a  se  stesso,  come  entità  nazio- 
nale e  non  locale,  alcuni  poteri  legislativi;  e  il  tenlativo  si  presenta 
assai  più  serio  dell'altro.  Ma  di  certo,  quando  si  ammette  la  discus- 
sione sui  principi,  quando  col  decentramento  si  propugna  lo  spez- 
zettamento della  sovranità  legislativa  "  dello  Stato,  si  fornisce  ali- 
mento e  vigore  alle  tendenze  sindacali,  le  quali,  una  volta  violato 
il  criterio  rigido  della  intangibilità  della  funzione  legislativa,  hanno 
copia  di  argomenti  non  meno  validi  e  seri  dei  «  decentratori  »  per 
suffragare  le  proprie  richieste  di  parlamenti  del  lavoro  e  della  pro- 
duzione. Ed  è  da  augurarsi  che  tra  i  seguaci  dei  parlamenti  regio- 

12  Voi.  OCXVI.  serie  VI  —  16  gennaio  1922. 


170  IL  DECENTRAMENTO 

nali  e  i  sindacalisti  non  si  conciludano  patti  di  alleanza,  che  avreb 
bero  come  conseguenza  un  attacco,  a  fuochi  incrociati,  contro  l'at- 
tuale sistema  legislativo,  altrimenti  bisognerebbe  provvedere  a  tem- 
po alle  necessarie  difese. 

Parimenti  si  prevede,  in  occasione  dei  propositi  decentratori,  u» 
altro  grave  pericolo.  Si  vorrebbe  ohe  gli  enti  locali  avessero  la  più 
amipia  libertà  nella  politica  dei  tributi.  Anche  qui  il  malcontento 
oggi  diffuso  è  stato  alimentato  da  una  condannevole  inerzia  del  Par- 
lamento, il  quale  avrebbe  dovuto  da  molti  anni  sancire  quelle  riforme 
tributarie  che  sono  reclamate  dalle  mutate  esigenze  dei  tempi.  Ma 
in  luogo  di  discutere  i  rimedi  adeguati  si  passa  all'altro  estremo: 
quello  defila  completa  libertà  concessa  agli  enti  locali  in  materia  "di 
finanza.  Ognun  vede  dove  l'applicazione  di  tale  principio  condur- 
rebbe- Basti  riflettere  che  la  sola  tassa  di  famiglia,  conferita  ai 
Comuni  senza  limitazioni,  sarebbe  sufficiente  ad  attuare  rapidamente 
la  confìsca  e  l'annullamento  delle  proprietà.  Se  a  questo  si  vuol 
giungere,  lo  si  dica  e  discuta  chiaramente;  ma  che  si  voglia  gal>el- 
lare  per  dannosa  e  ingiustificata  l'azione  rogolatrice  dello  Stato 
nella  materia  dei  tributi  locali  è  un  po'  troppo. 

Tale  azione,  va^senza  dubbio  migliorata  e  resa  più  moderna, 
snella  e  aderente  alle  necessità  miove.  Ma  non  può  essere  abban- 
donata dallo  Stato,  se  non  si  vuol  consacrare  il  principio  della  pre- 
valenza delle  opposte  fazioni,  ohe  spesso  fanno  del  libito  licito  in 
loro  legge;  che  restituirebbe  agli  enti  locali  la  fisonomia  dei  Co- 
muni medioevali,  con  le  cacciate  dei  bianchi  o  dei  rossi  rese  possi- 
bili mediante  la  semplice  applicazione  dei  tributi  spogliatori. 

• 
•  • 

Quali  svolgimenti  delinea  il  problema  del  decentramento  nei 
Sguardi  della  scuola  nazionale? 

Ai  tempi  dell  Minghetti  si  diceva  molto  semplicemente  :  la  scuola 
elementare  ai  Comuni,  la  media  alle  Provincie,  la  superiore  alle 
Regioni.  La  situazione  presente  attua  completamente  il  rovescio 
di  tali  concetti.  Caduta  l'idea  della  regione;  assunta  subito  dallo 
Stato  la  scuola  media  e,  nel  1911,  anche  la  primaria,  oggi  è  in 
vigore  una  specie  di  regime  di  monopolio  degli  studi  da  parte  dello 
Stato.  Si  può  apportare  un  mutamento  a  codesto  regime  accentratore 
con  vantaggio  della  scuola? 

Se  i  molti  mali  e  difetti  della  scuola  derivassero  da  ragioni 
d'indole  amministrativa,  la  risposta  dovrebbe  essere  affermativa 
senz'altro.  Senonchè,  le  deficienze  e  insufficienze  della  scuola  ita- 
liana dipendono  da  cause  ben  diverse  e  più  profonde,  principalis- 
sima  quella  del  meschino  trattamento  economico  fatto  agli  inse- 
gnanti che  ha  allontanato  dalla  scuola,  e  non  ha  permesso  che  vi 
entrassero,  molto  fresche  e  capaci  schiere  di  giovani.  È  anzi  da  me- 
ravigliarsi come,  nelle  attuali  condizioni,  si  trovino  ancora  in  copia 
ottimi  docenti,  che  profondono  nell'insegnamento  tesori  di  attività  e 
di  sapere. 

Contro  un  decentramento  nell'amministrazione  della  scuola 
stanno  ragioni  di  carattere  ideale  e  politico,  e  motivi  di  ordine  pra- 
tico di  notevole  rilievo.  La  grande  maggioranza  del  paese  è  ancora 


IL  DECENTRAMENTO  171 

Oggi  convinta  che  tra  le  funzioni  essenziali  dello  Stato  debba  pri- 
meggiare quella  della  cultura-  Quando  si  pone  in  discussione  questo 
principio,  persino  Ton.  Trei^s  afferma  di  sentirsi  «  un  vilissimo 
codino».  Migliorare  ordinamenti  e  programmi;  assicurare  un  buon 
reclutamento  di  personale  mediante  un  ad^xiato  trattamento  eco- 
nomico; preparare  gli  insegnanti;  rinnovare  gli  ausili  tecnici  con 
modernità  di  criterio:  ecco  dei  compiti  tanto  urg^enti  quanto  vasti, 
sui  quali  i  consensi  dovrebbero  essere  unanimi.  Ma.  il  proposito  di 
lare  della  cattedra  un  centro  irradiatore  di  idee  'politiche  repugna 
anche  a  molti  uomini  di  parte,  pei  quali  è  ancor  vivo  l'ideale  di 
una  scuola  che  attragga  i  giovani  con  l'eterna  bellezza  del  vero  e 
ne  maturi  il  pensiero  in  un'atmosfera  alta  e  serena,  al  disopra  delle 
aspre  contese  partigiane.  Le  altre  obbiezioni  di  carattere  politico 
al  decentramento  scolastico  sono  di  così  viva  attualità  in  questi 
uiorni,  che  è  proprio  superfluo  ripeterle  qui.  Quanto  ai  contrasti 
pratici,  va  rilevato  il  fatto  che,  nella  enorme  maggioranza,  gli  inse- 
gnanti di  ogni  ordine  di  scuole  paventano,  con  fondatezza,  un  muta- 
mento di  regime,  e  si  sono  già  dichiarati  contrari  non  pure  all'aboli- 
zione, ma  anche  all'indebolimento  della  scuola  di  Stato.  Tale  opipo- 
aizione  è  tutt'altro  the  trascurabile,  non  soltanto  per  la  forza  che 
indubbiamente  hanno  le  grandi  federazioni  degli  insegnanti,  ma 
.sopratutto  perchè  l'opposizione  è  motivata  da  abbondanti  e  seri  mo- 
tivi. Tutto  ciò  tacendo  del  problema  finanziario,  davvero  imponente, 
in  ispecie  per  quanto  riguarda  le  Regioni  povere,  le  quali  ben  diflB- 
cilmente  riuscirebbero,  coi  propri  mezzi  soltanto,  a  sostenere  l'onere 
della  scuola. 

Questo  rapido  esame  conduce  a  concludere  che  non  sia  possibile 
diminuire  i  poteri  dello  Stato  nel  campo  legislativo,  tributario  e  sco- 
lastico, sebbene  urgano  riforme  radicali  per  int^rare  il  Parlamento 
con  organi  tecnici,  per  dare  un  nuovo  assetto  ai  tributi  generali  e 
locali,  per  allargare  il  respiro  alla  scuola  ed  estenderne  con  vigore 
'a  provvida  influenza. 

Quando  siano  ben  fermi  i  concetti  della  demolizione  delle  so- 
prastrutture di  guerra,  e  della  integrità  delle  funzioni  essenziali  dello 
Stato,  con  i  miglioramenti  imposti  dalle  nuove  esigenze  sociali,  si 
può  affrontare  con  tutta  tranquillità  il  problema  della  riforma  delle 
circoscrizioni  amministrative  e  delle  maggiori  franchigie  da  accor- 
dare agli  enti  locali. 

Il  Comune,  questo  organismo  compatto  e  duraturo  della  vita 
amministrativa,  nel  quale,  come  ben  disse  lo  Stein,  sta  la  radica 
della  nostra  vera  libertà  politica,  deve  ottenere  dallo  Stato  maggiori 
e  pili  ampi  poteri  di  autodeterminazione,  dev'essere  sciolto  da  alcune 
superflue  forme  di  tutela  nei  confronti  delle  quali  assume  l'aspetto 
di  un  eterno  minorenne.  Problema  di  lunga  lena,  che  va  discusso 
nelle  linee  generali  e  particolari  con  riguardo  a  tutti  gli  elementi 
di  natura  politica,  finanziaria,  sociale  che  concorrono  a  formarlo: 
problema  che  si  awierà  a  una  soluzione  solo  quando  si  uscirà  dal- 
l'indeterminato e  dal  vago  per  discuterlo  in  tutti  i  suoi  aspetti  con- 
creti e  pratici-  Allora  solo  si  potrà  distinguere  se  le  richieste  di 
autonomie  feriscono  il  principio  della  sovranità  dello  Stato  o  se  le 


172  IL  DECENTRAMENTO 

riforme  possano,  invece,  essere  accolte  senza  annullare  le  attività 
essenziali  dello  Stato.  • 

Sulla  soppressione  del  circondalo  l'accordo  può  raggiungersi 
facilmente,  trattandosi  di  organo  governativo  non  autonomo,  e  forse 
Tunica  difficoltà  sarà  di  carattere  prettamente  parlamentare,  con 
le  proteste,  i  voti,  le  pressioni  che  colpiranno,  dai  capiluc^hi,  i 
rappresentanti  politici,  poiché,  nonostante  tutto  il  male  che  si  dice 
della  burocrazia,  i  Comuni  sono  sempre  d'accordo  nel  ritenersi  di- 
minuiti quando  si  pensa  di  sopprimere  un  solo  ufficio  governativo 
nel  territorio  loro. 

Ben  più  grave  è  il  problema  nei  riguardi  delle  Provincie.  D'ac- 
cordo quando  si  dice  che  la  nostra  Provincia  non  ha  una  base  etno- 
grafica, che  la  circoscrizione  non  trova  fondamento  in  quelle  comu- 
nanze di  dialetto,  in  quelle  peculiarità  fisico-geografiche,  le  quali 
contraddistinguono,  invece,  le  varie  regioni.  Ma  bisogna  ammettere 
che,  in  sessant'anni  di  vita  amministrativa,  questi  enti  hanno  creato 
tale  un  complesso  imponente  di  rapporti,  di  interessi,  di  abitudini, 
da  rendere  estremamente  difficile  pensare  alla  loro  soppressione. 
D'altra  parte,  accanto  e  in  stretto  legame  con  l'ente  autarchico  pro- 
vinciale, esistono  uffici  statali  che  nessuno  oggi  può  pensare  di  sop- 
primere. 

L'on.  Giolitti  alla  Camera  ha  parlato  di  fiduzione  di  funzione 
della  Provincia.  Ma  se  le  attuali  sono  già,  di  per  sé,  limitatissime! 
Non  sarà  invece  necessario  cercar'e  di  introdurre,  in  favore  di  questi 
enti,  il  potere  di  ordinanza  già  in  uso  negli  Stati  esteri  e  conferire, 
in  tal  modo,  alla  Provincia  —  nell'orbita  delle  leggi  generali  —  quei 
maggiori  poteri  e  quelle  più  larghe  iniziative  che  saranno  ritenute 
necessarie  ? 

• 

Dopo  queste  premesse  si  può  parlare  ancora  della  creazione 
delle  Regioni? 

È  da  ritenere  che  una  discussione,  in  questo  campo,  sia  pro- 
fìcua soipratutto  per  chiarire  le  idee;  ma  allora  bisogna  poggiarla  su 
basi  precise. 

E  prima  di  tutto  :  quali  saranno  o  quali  potranno  essere  le  fun- 
zioni della  Regione?  In  qual  modo  si  pensa  di  costituirle?  Si  sono 
prevedute  tutte  le  difficoltà  della  istituzione  di  un  ente  di  così  grande 
rilievo,  a  base  elettiva,  e  col  sistema  proporzionale?  Come  verreb- 
bero regolati  i  rapporti  tra  l'ente  e  lo  Stato;  tra  le  varie  Regioni 
fra  loro;  tra  esse,  le  Provincie  e  i  Comuni  ? 

Non  si  tratta  di  questioni  particolari  e  di  dettaglio  (e  queste  pur 
sorgeranno  numerose  e  gravi),  bensì  di  argomenti  capitali,  che  toc- 
cano i  principi,  e  ohe  finora  sono  per  lo  più  trascurati.  Onde  è 
lecito  di  pensare  ohe,  prima  di  continuare  o  accodarsi  a  un'oi)era 
di  propaganda  ricca  di  frasi,  ma  nebulosa  nei  riguardi  politici  e 
davvero  misera  dal  lato  tecnico,  occorra  chiarire  e  discutere  almeno 
i  principi  e  le  linee  fondamentali  della  grave  questione;  senza  aprio- 
rismi condannevoli,  ma  anche  al  di  fuori  e  al  disopra  di  ogni  parti- 
colare interesse  di  pwirtito. 

Dante  Petaccia. 


IL   CONTE    GIACOMO   DE    MARTINO 
E  LA  SUA  OPERA  IN  CIRENAICA 


Nel  generale  quasi  oblioso  silenzio,  si  è  spenta  a  Bengasi  la 
operosa  vita  del  conte  Giacomo  De  Martino,  senatore  del  Regno  e 
-ovematore  della  Cirenaica.  I  giornali  hanno  riportato  la  trisiis- 
-;ma  notizia  e  l'han  fatta  seguire  da  brevi  rassegne,  molto  somi- 
-lianti  a  semplici  stati  di  servizio.  Non  mancavano  in  quei  giorni 
nei  periodici  colonne  e  colonne  dedicate  a  tutti  i  grandi  piccoli  av- 
venimenti di  ogni  giorno;  mancò,  non  diremo  lo  spazio,  ma  la  co- 
noscenza dell'opera  di  Giacomo  De  Martino.  Come  ciò  è  triste!  Chi 
-erive  queste  note  non  sa  rimediare  intieramente  a  questo  silenzio, 
ma  vuol  ricordare,  dell'Uomo  insigne,  la  magnifica  opera  svolta  in 
Cirenaica,  che  è  insieme,  per  la  sua  memoria,  tutto  un  grande  titolo 
dia  riconoscenza  degli  italiani. 


* 


Gran  signore  Giacomo  De  Martino  e  anche  iper  questo  magni- 
ficamente tagliato  alla  vita  e  allopera  di  comando  nelle  colonie. 
Povere  colonie,  mal  viste  in  Italia,  in  alto  e  in  basso,  tollerate  pur- 
•hè  non  se  ne  parli  ('singolare  incoraggiamento  a  tutti  coloro  che  vi 
iedicano  una  non  agevole  vita),  purché  non  costino  (strano  concetto 
er  territori  nei  quali  tutti  gl'imipianti  son  da  fare  e,  se  non  si  fanno, 
a  colonia  stenta  ed  è  inutile  alla  madre  patria,  e,  se  vi  si  fanno, 
debbono  costare),  purché  non  dieno  grattacapi  (e  se  grattacapi  non 
>ìànno,  maggiore  è  la  ragione  del  silenzio,  e  si  può  morir  sulla  brec- 
cia, come  Giacomo  De  Martino,  senza  neppure  il  tributo  di  rico- 
noscenza dei  concittadini) .  Ma  questa  é  una  digressione  :  dicevo  che 
Giacomo  De  Martino,  gran  signore  e  perchè  gran  signore,  ebbe  in 
è  una  delle  alte  ragioni  dei  suoi  successi.  Già,  il  mondo  si  demo- 
Liatizza,  l'eguaglianza  è  il  grande  principio  dell'oggi  e  del  domani; 
.erissimo,  ma  ricordate  voi  l'Italia  anche  di  trenta,  quarant'anni  fa, 
{uando  un  sindaco  era  un  piccolo  despota  e  un  senatore,  e  un  de- 
. lutato  passavano  entro  un'aureola  di  grandezza,  e  un  prefetto  era 
riamente  e  veramente  il  rappresentante  del  Re  e  del  governo 
a.  provincia?  e  l'Italia  era  una  scala  di  dignità,  più  alte  meno 
lite,  ma  tutte  profondamente  riverite?  Questo,  in  Italia,  trenta  qua- 
'anta  anni  fa.  Di  quante  volte  questo  periodo  è  indietro  una  colonia 
rispetto  alla  madre  patria?  Immaginate  un  governatore  borghese- 
mente schivo  di  pompa,  uso  a  fare  i  quattro  passi  in  città  con  a  lato 
il  suo  caudatario,   timoroso  delle  fatiche  degli  aspri  viaggi  nelle 


174       TL  CONTE  GIACOMO  DE  MARTINO  E  LA  SUA  OPK        i\   i  iiìFNATrv 

zone  senza  strade,  alieno  dalla  vita  di  tenda,  nemico  e  pauroso  del 
cavallo,  dimesso  e  quasi  in  disparte  nelle  parate,  preoccupato  di 
darsi  troppo  tono,  di  esser  troppo  e  indiscutibilmente  il  primo  sem- 
pre e  dovunque? 

Già,  e  vi  è  stato  chi  ha  mormorato  perchè  Giacomo  De  Martino 
era  l'antitesi  di  un  tal  ipotetico  governatore.  Egli  era  sempre  il  primo 
dovunque,  ma  cosi,  naturalmente,  come  la  sua  tempra  di  gran  si- 
gnore esigeva  :  e  veder  apparire  il  suo  corteo,  nelle  frequenti  uscite 
ufficiali,  con  lo  stendardo  tenuto  dal  drappelletto  battistrada  e  ap- 
presso la  scorta  al  trotto,  non  appariva  sfarzo,  ma  doveroso  natu- 
rale necessario  appannaggio  Suo  e  della  Sua  dignità:  ed  era,  nelle 
riviste  militari.  Egli  civile  e  sia  pure  il  primo  di  tutti,  era  vera- 
mente il  Capo  delle  forze  di  terra  e  di  mare  della  colonia,  era  vera- 
mente lo  specchio,  la  figura,  la  rappresentanza  del  grande  e  lon- 
tano Re.  E  così  nei  suoi  ricevimenti,  e  così  nel  suo  modesto  palazzo, 
rifacimento  di  una  vecchia  casa  araba,  modesto  ma  di  grande  di- 
gnitìi:  forse  perchè  riadattato  e  addobbato  sotto  la  sua  vigile  cura, 
forse  perchè  abitato  e  vivificato  da  Lui. 

Quanta  piccola  gente  ha  mormorato  delle  troppe  feste,  e,  in  oc 
CcLsione  dei  non  radi  festeggiamenti  ufficiali  di  avvenimenti  pur 
memorabili,  di  soverchie  spese  del  genere.  Ma  questa  piccola  gente 
ignorava  quante  altre  spese  meno  utili,  meno  rispettabili  eran  così 
risparmiate;  ignorava  o  fingeva  d'ignorare  quanto  prestigio  ne  de- 
rivava al  nostro  nome  d'italiani,  alla  stessa  piccola  gente  che  mor- 
morava, quanta  maggior  facilità  all'opera  più  delicata  e  ardua  di 
governo.  Perchè  una  cosa  bisogna  consacrare  alla  memoria  di  Lui, 
l'autorità  ohe  Egli  ed  Egli  solo  poteva  portare  in  certe  circostanze, 
quando  in  una  trattativa,  in  una  convenzione  da  stringere,  in  uno 
^  svolto  della  storia  coloniale,  allorché  dunque  vi  era  un  suggello  da 
porre,  una  via  da  tracciare,  bastava  il  suo  intervento  personale  per 
imporre  il  suo  punto  di  vista,  per  obbligare  a  seguire  quella  strada 
che  Egli  voleva.  Perciò  l'opera  di  Giacomo  De  Martino  ha  tanto 
rilievo  in  tutti  gli  avvenimenti  della  Cirenaica. 

• 
•  • 

Giunto  a  Bengasi  il  29  luglio  1919,  ebbe  innanzi  due  grandi 
problemi:  la  conclusione  di  un  durevole  accordo  con  i  Senussi; 
l'organizzazione  civile  della  Cirenaica,  con  la  simultanea  applica- 
zione dei  principi  di  \lil>ertà  già  accordati  alla  Tripolitania,  e  da 
adattare  alla  colonia  sorella,  cioè  da  studiare  e  redigere  e  porre  ix)i 
in  atto. 

In  rapporto  al  primo  problema.  Egli  trovava  in  Cirenaica  uno 
stato  di  fatto,  in  parte  tale  da  facilitargli  il  compito,,  in  parte  grave 
iper  noi  e  difficile  a  mutare.  Poteva  essergli  di  grande  giovamento 
l'esistenza  in  Cirenaica  di  una  condizione  di  pace,  per  la  quale,  da 
oltre  due  anni,  non  un  colpo  di  fucile,  si  può  dire,  vi  aveva  echeg- 
giato: effetto  benefico  e  salutare  di  un'intesa  precorsa  coi  Senussi, 
e  precisaanente  col  Sàied  Mohàmmed  Idria,  capo  della  potente 
confraternita,  intesa  che  è  nota  sotto  il  nome  di  «  modus  vivendi  »  e 
che  di  un  «modus  vivendi»,  cioè  di  una  tregua,  quasi  di  nn  armi- 
stizio, aveva  e  doveva  avere  tutti  i  caratteri. 


IL  CONTE  GIACOMO  DE  MARTINO  E  LA  SUA  OPERA  IN  CIRENAICA       175 

Era  nato,  questo  «  modus  vivendi  » ,  come  conseguenza  mediata 
della  rotta  inflitta  dagl'inglesi  al  predecessore  di  Idrìs,  il  lunga- 
mente nostro  nemico  ed  accanito  nemico  Sàied  Ahmèd-es-Scerìf,  e 
dal  conseguente  passaggio  dei  poteri  di  capo  della  confraternita  d^ 
quest'ultimo  al  cugino  Idrìs.  Allora  due  vie  si  aprivano  alla  nostra 
azione  cirenaica:  quella  di  una  vigorosa  campagna  militare,  che 
molti  dicono,  e  forse  è  vero,  ci  avrebbe  dato  in  balìa  il  paese  stre- 
mato, e  date  sotto  il  tallone  le  ipofpolazioni  affamate,  così  come  clas- 
sicamente si  immaginano  dei  vinti,  e  duramente  vinti,  in  confronto 
al  vincitore  trionfante.  Ma  sarebbe  stato  necessario  distrarre  delle 
forze  dal  teatro  europeo  della  guerra;  ma  sarebbe  stato  necessario 
nutrire  queste  popolazioni  affamate  dopo  averle  sottomesse,  quando 
la  madre  patria  appena  appena  poteva  inviare  in  Cirenaica  le  der- 
rate occorrenti  al  corpo  di  occupazione  del  tempo  e  alle  poche  mi- 
gliaia di  connazionali  stabilite  nel  ipaese;  ma  sarebbe  stato  neces- 
sario infine  contrastare  il  diverso  indirizzo  dell'amica  ed  alleata 
Inghilterra,  che,  col  suo  consueto  empirismo,  aveva  subito  intra- 
visto, nella  rotta  inflitta  ad  Ahmèd-es-Scerìf  e  nel  cambiamento  del 
cajx)  della  iconfratemità,  la  possibilità  di  stringere  rapidamente 
accordi  col  successore  Idrìs,  e  di  garentirsi  da  ogni  ritorno  offensivo 
dal  lato  d'occidente,  quando  attacchi  turchi  al  canale  dal  lato  di 
oriente  erano  ancora  possibili  e  pericolosi. 

Un  complesso  imponente  di  ragioni  contro  la  campagna  mili- 
tare: ma  oltre  a  queste  e,  direi,  più  forti  di  queste,  altre,  ben  più 
imponenti,  che,  in  condizioni  come  quelle  della  Cirenaica,  sconsi- 
gliavano un  siffatto  partito.  Una  campagna  militare,  in  un  paese 
che  si  vuol  tenere  stabilmente,  o  è  distruzione  della  (popolazione 
locale  e  allora  significa  distruzione  di  una  delle  ipoche  ricchezze 
dei^  paesi  poveri,  significa  un  enorme  crimine  storico  ripugnante 
alla  nostra  età  e  ai  metodi  di  un  esercito  e  di  una  nazione  civile,  o 
è  semplice  assoggettamento  e  crea  i  risentimenti  inestinguibili,  de- 
stinati a  rinascere  appena  le  circostanze  occasionali  dell'assoggetta- 
mento —  il  cessare  delle  condizioni  di  fame,  l'indebolimento  delle 
forze  di  occupazione,  che  non  possono  tenersi  indefinitamente  in 
forte  numero,  per  l'enormità  delle  spese  che  importano  —  sieno 
venute  meno. 

Si  sentiva,  è  vero,  parlare  allora  di  distrugger  la  Senussia... 
Come  se  fosse  possibile  distruggere  un  movimento  di  animi,  un 
atteggiamento  mistico,  un  sentimento  che  è  fatto  di  religione,  di 
riconoscenza,  di  interessi  creati,  tutto  un  organismo  ohe,  fra  ideali 
celesti  e  terreni,  irretisce  l'intiera  Cirenaica,  e  spinge  valide  piropag- 
gini,  attraverso  i  deserti,  in  Tripolitania,  nel  lontano  sud,  in  Egitto, 
in  Hegiàz  e  altrove!  Torniamo  a  quel  che  dicevamo:  o  distrugger 
le  popolazioni,  o  piegarle  sì  alle  circostanze  del  momento,  ma  sino 
al  tempo  della  riscossa,  che  avrebbe  trovato  nella  Senussia  il  suo 
più  potente  lievito. 

Perciò,  col  successore  di  Ahmèd-es-Scerìf  si  doveva,  come  si 
fece,  cercar  le  vie  dell'amicizia  :  dell'amicizia  che  avrebbe  permesso 
a  lui  di  rafforzarsi,  di  atteggiarsi  a  salvatore  del  paese  dagli  orrori 
della  guerra  e,  per  le  riaperte  vie  di  Egitto  e  per  il  non  molto  che 
l'Italia  avrebbe  potuto  lasciar  filtrare  dai  propri  presidi,  dagli  or- 
rori della  fame;  dellamicizia  che  avrebbe  ipermesso  a  noi  e  agli 


176       IL  CONTE  GIACOMO  DE  MAKTINO  E  LA  SUA  OPERA  IN  CIRENAICA 

inglesi  di  non  distrarre  forze  militari,  tanto  necessarie  altrove,  su 
quei  lontcìni  territori,  che  avrebbe  dato  a  noi  ocxjasione  di  mostrarci 
verso  le  popolazioni  in  veste  di  amici  che  sovvengono,  •  anziché  in 
quella  usuale  di  nemici  che  ardono,  uccidono  e  taglieggiano,  che 
ci  avrebbe  dato  campo,  nei  nuovi  rapporti  creati,  di  accostare  le 
popolazioni  e  i  capi  riottosi  e  di  porre  i  semi  di  un  effettivo  futuro 
raccolto  di  pacificazione,  che  infine  avrebbe  dato  agio  di  stabilire 
in  modo  non  equivoco,  di  fronte  alle  semplici  popolazioni,  che  nes- 
sun vero  motivo  religioso  ineluttabile,  incoercibile,  categorico  im- 
pedisce l'amicizia  di  un  grande  capo  di  tarica  islamica  verso  un 
governo  cristiano,  principio  positivo  di  compromissione  della  Se- 
nussia  con  l'Italia,  al  quale  La  Senussia  difficilmente  potrà  mai  più 
sottrarsi. 

Così  nacque  il  «  modus  vivendi  »  con  Idrìs,  che  stabilì  una  tre- 
gua dei  rispettivi  armati  sulle  rispettive  posizioni  e  permise  insieme 
collaborazione,  penetrazione  e  contatti  quanto  mai  utili  per  l'av- 
venire. Ma  certo  legalizzò  anche  l'esistenza  dei  campi  senussiti, 
posti  sulle  nostre  stesse  vie  di  comunicazione  terrestre  fra  i  van 
presidi,  e  spingenti  i  loro  «  caracòl  »  (piccole  guardie)  talora  sin 
qucLsi  al  mare;  legalizzò  l'organizzazione  politica,  amministrativa, 
giudiziaria  fiorita  intorno  a  quei  campi,  espressione  di  un  vero  po- 
tere politico  della  Senussia  sull'altipiano,  sin  presso  la  costa  ma- 
rittima. 

Così  sono  schematicamente  riassunti  i  presupposti  favorevoli 
e  sfavorevoli  ohe,  rispetto  alla  Senussia,  Giacomo  De  Martino  trovò 
stabiliti  allorché  ebbe  ad  assumere  il  Governo  della  Cirenaica. 

• 
•  • 

Ed  ora  vediamo  i  presupposti  dell'altro  problema  imposto  alla 
sua  attività  di  Governo,  quello  dell'organizzazione  della  colonia. 
Era  questa  organizzazione  una  creazione  prettamente  militare,  do- 
vuta ai  successivi  comandanti  il  corpo  di  occupazione,  che  erano 
stati  rivestiti  altresì  della  carica  o  delle  funzioni  di  governatori.  Con 
tutto  il  riguardo  al  molto  che  essi  avevano  saputo  fare,  si  trattava 
ad  ogni  modo  di  trasformare  in  civile  una  organizzazione  che  aveva 
carattere  ben  prevalentemente  militare. 

Ma  questo  appariva  ancora  il  compito  minore,  di  fronte  alla 
necessità  che  s'imponeva  di  adattare  e  poi  estendere  alla  Cirenaica 
la  legge  di  libertà  già  elargita  alla  Tripolitania,  quella  legge  fonda- 
mentale, che  è  sostanzialmente  una  carta  statutaria  coloniale.  Così, 
da  un'organizzazione  militare,  doveva  passarsi  ad  un'organizzazione 
civile,  fondata  su  sistemi  elettivi  e  su  una  larga  partecipazione  delle 
popolazioni,  per  mezzo  dei  costituendi  municipi  elettivi  e  del  costi- 
tuendo Parlamento,  al  governo  della  colonia.  Terribile  problema, 
in  un  paese  che  di  queste  forme  di  libertà  non  aveva  tradizioni,  ed 
anzi,  per  l'organizzazione  quasi  'patriarcale  delle  tribù,  potevan  tali 
forme  sembrare  pericolose  condannevoli  novità. 

Era  stato  detto  che,  in  Tripolitania,  la  legge  fondamentale  ci  era 
stata  estorta  dalle  popolazioni  piuttosto  che  liberamente  e  voluta- 
mente da  noi  elargita.  Saggio  era  diinostrare,  applicanaola  anche 
nella  pacifì'ca  Cirenaica,  tutta  la  stortura  dell'affermazione.  E  per- 


IL  CONTE  GIACOMO  DE  MAETINO  E  LA  SUA  OPERA  IN  CIRENAICA       177 

ante  Giacomo  De  Martino,  accogliendo  di  buon  grado  e  con  matu- 
rata convinzione  le  relative  istruzioni  del  Governo  centrale,  rag- 
giunse la  colonia  e  si  dispose,  dopo  un  attento  studio  della  situazione 
venerale,  a  preparare  la  legge  fondamentale  per  la*  Cirenaica,  è  le 
rinci'pali  leggi  di  sua  applicazione,  per  quindi  procedere,  con  la 
prontezza  di  realizzazioni  che  lo  distingueva,  a  tutta  la  preparazione 
necessaria  per  attuarle. 

Due  principi  fondamentali  egli  pese  ai  suoi  collaboratori  per 
tjuesta  materia:  quello  di  mutare  il  meno  possibile  nella  legge  fon- 
damentale della  Tripolitania.  anche  dove  vi  si  riconoscessero  delle 
mende,  per  non  frustrare  neppure  nelle  apparenze  la  eflBcacia  dimo- 
trativa  che,  dalla  seconda  aCT>licazione  di  essa,  doveva  scaturire; 
quello  di  mutarvi  però  quel  tanto  che,  rispondendo  alla  diversa 
costituzione  sociale  della  Cirenaica  in  confronto  a  quella  della  Tri- 
politania, rappresentasse  soltanto  un  omaggio  ad  una  diversa  realtà, 
e  giovasse,  per  il  rispetto  stesso  assicurato  a  questa  diversità,  a  ren- 
dere accetta  nella  colonia  la  novella  orsranizzazione. 

Sbarcato  come  si  è  detto  a  Bengasi  a  fine  luglio  1919,  ai  primi 
del  successivo  novembre  5^gli  inviava  al  Governo  centrale  io  schema 
di  Statuto  e  gli  schemi  dellordinamento  politico-amministrativo 
della  colonia  e  della  legge  elettorale,  che  dovevano  poi  diventare, 
con  poche  non  profonde  varianti,  i  testi  definitivi  regolanti  la  dif- 
fìcile materia. 

Potranno  mutare  uomini  e  metodi,  circostanze  e  direttive,  ma 
questa  prima  veste  data  alla  Cirenaica  sarà  il  tema  obbligato  di  ogni 
variazione,  di  ogni  elucubrazione,  di  ogni  lotta,  sarà  la  forma  ge- 
nerale entro  la  quale  dovrà  aggirarsi  tutta  la  successiva  nostra  opera 
in  quella  bella  colonia. 

La  variante,  saggia  e  prudente,  portata  nella  legge  fondamen- 
tale della  Tripolitania  per  poterla  applicare  in  Cirenaica,  fu  essen- 
zialmente questa:  il  riconoscimento  ufficiale  degli  aggruppamenti  di 
tribij,  propri  dei  beduini,  il  riconoscimento  ufficiale  dei  loro  capi 
tradizionali  maggiori  e  minori,  il  riconoscimento  ufficiale  delle  loro 
prerogative  e  funzioni.  La  tribìi  dunque,  aggregato  di  persone,  por- 
tata alla  dignità  di  organismo  di  governo,  quasi  come  un  surrogato 
della  circoscrizione  territoriale,  ed  in  qualche  modo  ad  essa  premi- 
nente. Di  conseguenza,  nelle  leggi  di  aipplicazione  dello  Statuto,  te- 
nuti distinti  i  luoghi  fabbricati,  destinati  a  diventare  prima  o  poi 
municipi,  dalle  altre  località  che  diremo  rurali,  e  quivi  gl'interessi 
più  propriamente  delle  popolazioni  affidati  agli  organismi  tradi- 
zionali di  tribù,  quelli  più  nettamente  territoriali  alle  circoscrizioni 
territoriali  di  mudirìa,  con  i  necessari  legamenti  e  rapporti  dagli 
uni  alle  altre,  con  una  predisposizione  non  forzata,  ma  naturale,  al 
coincidere,  che  si  avrà  un  giorno,  fra  i  due  ordini  di  organismi  di 
croxemo.  Correlativamente,  fu  riconosciuta,  come  in  Tripolitania,  la 
rappresentanza  al  Parlamento  delle  popolazioni  dei  luoghi  fabbri- 
cati in  ragione  di  un  rappresentante  ogni  tanti  abitanti;  mentre,  per 
le  località  rurali,  ferma  stando  un'analoga  proporzione,  la  rappre- 
sentanza al  Parlamento  restò  legata  all'appartenenza  alle  tribù,  così 
che  ogni  tribù  ave^e  un  rappresentante  ogni  tanti  suoi  componenti. 

pnde  nacque  che  le  popolazioni  beduine  potessero  conseiTare 
tutta  la  loro  tradizionale  organizzazione  e  una  notevole  autonomia 


178       IL  CONTE  GIACOMO  DE  MARTINO  E  LA  SUA  OPERA  IN  CIRENAICA 

per  i  loro  affari  intemi,  e  acquistassero  la  possibilità,  come  reale  ed 
effettiva  maggioranza  nel  paese,  destinata  quindi  ad  aver  il  maggior 
numero  di  rappresentanti,  di  far  sentire  la  loro  voce  preponderante 
anche  nella  trattazione  in  Parlamento  degli  affari  generali.  Potente 
leva  a  rendere  accette  tante  e  così  profonde  novità  di  legislazione. 

• 
•  • 

Simultaneamente  Giacomo  De  Martino  imprese  l'opera  dei  nuovi 
accordi  con  la  Senussia.  Profittando  del  viaggio  alla  Mecca  del  Sàied 
Idrìs,  riuscì  a  indurlo,  nel  ritorno,  a  sbarcare  a  Bengasi,  e  a  porgere 
per  la  prima  volta,  nel  capoluogo  della  nostra  colonia,  omaggio  per- 
sonale di  una  visita  ufficiale  al  governatore  italiano.  Sin  da  quel 
primo  incontro,  Giacomo  De  Martmo,  giuocando  a  carte  scoperte  e 
oonsacrando  sin  dal  principio  i  suoi  metodi  di  lealtà  e  dii  dirittura, 
))ose  al  Sàied  Idrìs  i  termini  del  futuro  accordo,  che  già  egli  aveva 
in  sé  maturato  e  ohe  erano  :  amministrazione  autonoma  a  Idrìs,  col 
titolo  di  Emìr-es-Senussi  (principe  senussita)  delle  oasi  dell'interno 
cirenaico;  onori  e  appannaggi  adeguati  a  tarle  dignità;  ritiro  da  parte 
di  Idrìs  dei  campi  armati  stabiliti  sull'altipiano  e  della  relativa  or- 
ganizzeizione  politica  ed  amministrativa;  rapporti  di  amicizia  e  di 
soliciarietà  da  regolare  per  l'utilità  delle  due  parti.  Il  tutto,  in  fun- 
zione e  in  rapporto  di  quegli  ordinamenti  di  libertà  che  erano  in 
preparazione,  e  che  dovevano  anche  a  Idrìs  sembrare  necessario  e 
sufficiente  presupposto  alla  soppressione  di  quei  campi  armati  che, 
residuo  di  una  linea  di  fuoco  contro  di  noi,  dovevano  diventare  senza 
scopo  dopo  la  stabilita  aniicizia;  né  d'altronde  avrebbero  potuto  in- 
tendersi e  ammettersi  come  strumenti  di  dominio  senussita,  su  parte 
di  quelle  stesse  popolazioni,  che  venivan  chiamate  dalla  legge  fon- 
damentale a  reggersi  coi  loro  propri  organismi  tradizionali  e  ad 
aver  voce  nel  Parlamento  centrale  della  colonia. 

La  lealtà  con  la  quale  Giacomo  De  Martino  dovette  illustrare 
a  Idrìs  tutto  ciò,  fu  resa  luminosa  e  potente  dall'annuncio  col  quale 
lo  prevenne  che,  forte  dell'amicizia  ormai  da  tempo  con  lui  esistente, 
forte  dell'intendimento  che  nutriva  di  rinsaldarla  sulle  basi  già  espo- 
stegli e  forte  dei  propositi  liberali  coi  quali  aveva  assunto  il  governo 
della  Cirenaica,  si  apprestava  a  dar  prova  e  di  questi  propositi  e 
della  volontà  di  amicizia  e  di  pace,  riducendo  per  sua  parte  e  di 
propria  deliberata  iniziativa  le  forze  militari  della  colonia.  Mirabile, 
sapiente  accorgimento,  che  gli  dette  tutta  insieme  e.  compduta  la  dif- 
ficilmente conquistabile  fiducia  dell'interlocutore  e  poi  di  tutte  le 
popolazioni,  fatte  rapidamente  certe  che  non  si  cercasse,  con  una 
lustra,  d'introdursi  destramente  nelle  tribti,  per  aggiogarle  con  l'in- 
i?anno  al  nostro  carro  e  poi  più  facilmente  o]Dprimerle. 

E  dal  luglio  ii)19  al  gennaio  1920  le  forze  della  colonia  furono 
infatti  ridotte  da  trenta  a  diecimiLa  uomini,  documento  di  una  vo- 
lontà d'i  ferro  in  Colui  che  applicava  una  sì  radicale  smobilizzazione, 
documento  di  una  visione  precisa  e  di  un  precisissimo  programma, 
ispirato  ad  un  tempo  alle  vere  esigenze  della  colonia  e  a  quelle  della 
politica  generale  italiana,  spinta  irresistibilmente  alle  forti  economie 
o  alla  smobilitazione  generale,  alle  opere  di  pace,  alle  feconde  in4e9e 
alla  vera  pacificazione  interna  ed  esterna. 


IL  CONTE  GIACOMO  DE  MARTINO  E  LA  SUA  OPERA  IN  CIRENAICA       179 

Quante  mormoi*azioni  allora  contro  la  riduzione  delle  forme 
militari  della  colonia;  quanti  interessi  feriti;  quanti  seducenti  sofismi 
sulla  necessità  di  corroborare  la  volontà  di  accordi  con  la  minaccia 
della  imposizione;  quante  difficoltà,  quante  resistenze,  da  rompere 
col  sole  istrumento  di  una  lucida  potente  volontà!  E  la  lucida  po- 
tente X-  'oi.tà  di  Giacomo  De  Martino  s'impose  e  trionfò. 

• 

•  • 

Tutto  questo  che  abbiamo  detto  è  dei  primi  cinque  mesi  del 
Suo  governo.  In  ciò  specialmente  rifulgevano  le  sue  capacità  di  go- 
verno, nel  muover  serrate  tutte  le  pedine  del  suo  giuoco,  e  nel  va- 
lersi alternativamente  della  posizione  dell'una  a  favore  del  giuoco 
dell'altra,  così  da  cor.durre  in  porto  più  azioni  in  una  volta,  per 
virtù  delle  ripercussioni  vicendevoli  che  Egli  sapeva  trame.  Uomini 
comuni  avrebbero  certamente  graduato  le  azioni  nel  tempo:  prima 
cercar  di  raggiungere  l'accordo  definitivo  con  la  Senussia,  poi  pen- 
sare all'applicazione  delle  libertà  al  paese,  poi  ridurre  le  forze  mi- 
litari, infine  avvisare -agli  istituti  economici  vòlti  a  far  risorgere  il 
paese.  Egli  intraprese  tutto  in  una  volta:  e  i  propositi  liberali  lo 
facevano  popolare  nelle  città  e  presso  le  tribù,  valevano  ad  appog- 
giare e  corroborare  presso  Idrìs  la  fiducia  di  pote>r  concludere  con 
questo  governatore  una  pace  onorata  e  durevole;  e  Gli  permettevano 
•di  esigere  come  un  diritto  delle  popolazioni  quella  soppressione  dei 
campi  armati  senussiti  e  delle  organizzazioni  politiche  e  ammini- 
strative fioritevi  intomo,  che  era  uno  dei  nostri  più  importanti  ob- 
biettivi; e  la  riduzione  delle  nostre  forze  militari  accreditava  in  tutto 
il  'paese  la  persuasione  della  nostra  prossima  stabile  pace  coi  Senussi, 
ciò  che  autorizzava  tutti  i  musulmani  a  stringer  contatti  con  noi, 
poiché  stretti  contatti  con  noi  aveva  il  pio  e  venerato  capo  della 
tarica;  ed  insieme  ne  nasceva  il  sollievo  delle  popolazioni  dalle  ine- 
vitabili angherie  militaresche,  il  rilascio,  a  tribù  e  privati  proprie- 
tari, di  terreni  e  di  fabbrcati  occupati  dalle  forze  che  si  andavano 
cosi  riducendo  e  altrimenti  dislocando;  e  ne  nasceva  la  fede  generale 
del  realizzare  e  del  concludere  con  quest'Uomo,  che  rifuggiva  aiper- 
tanjente  dagli  accorgimenti  soliti  e  quel  che  diceva  faceva,  con  ra- 
pidità di  ritmo  mai  vista. 

.  • 

•  • 

Dall'inizio  del  1920  in  poi  l'azione  si  intensifica:  i  propositi 
espressi  e  gli  annunci  recati  si  vanno  via  via  concretando  :  nel  giugno 
è  approvata  e  promulgata  la  legge  fondamentale  per  la  Cirenaica, 
e  il  governatore,  convocati  i  capi  e  i  notabili  della  maggior  parte 
della  colonia,  ne  fa  dar  pubblica  lettura  nella  piazza  grande  di  Ben- 
gasi.  ne  Spiega  il  contenuto  e  l'importanza,  circonda  l'avvenimento 
di  una  serie  di  solennità  e  di  grandiosi  festeggiamenti,  atti  a  fissar 
la  memoria  e  l'attenzione  di  tutto  il  paese  sul  grande  evento.  Poco 
appresso,  Egli  approva  con  proprio  decreto  l'odrinamento  politico- 
amministrativo  del  paese,  e  completa  l'instaurazione  del  governo 
civile  al  capoluogo  e  nei  commissariati  regionali  di  governo.  Simul- 
taneamente, pur  nell'attesa  della  legge  elettorale  non  ancora  appro- 


vata,  dispone  la  preparazione  generale  delle  elezioni,  prima  per  i 
municipi  e  per  i  capi  delle  tribiì  e  sotto-tribù,  più  avanti  per  i  de- 
putati delle  città  e  delle  località  rurali.  La  virtù  dell'azione  genera 
l'aziune  e  il  successo:  città  e  tribù  prima  titul)anti,  incerte,  sopra 
tutto  inerti,  risentono  il  fenomeno  del  mimetismo,  e,  come  hanno 
visto  le  operazioni  elettorali  iniziarsi  e  avanzare  e  compiersi  nelle 
città  tradizionalmente  rivali  o  nelle  tribù  rivali  o  vicine,  si  accostano 
ai  rispettivi  commissari  e  chiedono  di  poter  a  loro  volta  effettuare 
le  loro  elezioni.  Da  parte  della  Senussia,  già  legata  dal  «  modus  vi- 
vendi »  e  in  attesa  degli  accordi  definitivi,  nessuna  possibilità  di 
aperta  opposizione  al  movimento:  qualche  opposizione  di  gregari, 
prontamente  rilevata,  denunciata  come  atto  poco  amichevole,  e,  così, 
presto  e  ufficialmente  sconfessata  e  repressa:  onde  un  più  rapido 
successo  al  movimento. 

Fervono  in  pari  tempo  le  trattative  con  la  Senussia,  intraprese 
in  maggio,  riprese  in  agosto,  enormemente  agevolate  dal  successo 
del  movimento  elettorale.  Ai  primi  di  ottobre,  gli  accordi  sono  sti- 
pulati; ed  il  25  di  ottobre,  data  per  semipre  memorabile,  sono  fir- 
mati a  Er-Régima  con  solennità  grandissima,  fcresenti  innumerevoli 
capi,  centinaia  di  cavalieri,  tutto  il  fiore  della/intiera  Cirenaica,  ita- 
liani, arabi,  israeliti,  profondamente  compresi  dell'importanza  ca- 
pitale di  un  simile  accordo  fra  il  capo  di  un  potentissima  tanca 
musulmana  e  un  governo  cristiano. 

Chi  scrive  non  può  omettere  un  ricordo  personale:  la  notte  fra 
il  24  e  il  25  ottobre  si  trovava  in  viaggio  fra  Bengasi  ed  El  Abiar, 
e  tutta  la  zona  era  inondata  da  una  piena  luce  lunare,  la  bella  lattea 
argentata  luce  della  luna  di  laggiù.  E  tutto  il  paesaggio  era  popolato 
di  cavalieri  e  pedoni  in  cammino  per  le  festività  deJ  mattino  ap- 
presso :  erano  cavalli  che  s'impennavano,  sotto  uno  o  due  cavalieri, 
e  cammelli  (smisuratamente  ingranditi  per  la  prospettiva  e  la  luce 
lunaic)  i  più  con  due,  taluni  sin  con  tre  cavalieri,  e  i  candidi  ba- 
raccani  sembravan  serici  manti  trapunti  di  argento,  e  la  torma  silen- 
ziosa e  composta  rinnovantesi  continuamente  dava  il  senso  di  quel 
che  dovette  esser  l'aspetto  delle  grandi  trasmigrazioni  degli  antichi 
popoli  pastori.  Nulla  potrà  mai  cancellare  un  ricordo  sì  bello  e  si 
suggestivo,  che  parve  benaugurante  a  chi  lo  vide,  come  l'espressione 
vivente  di  tutti  i  consensi  cbe  convenivano  a  Er-Régima. 

• 
•  • 

25  ottobre  1920.  Quel  giorno  il  Sàied  Mohàmmed  Idrìs-es-Se- 
nussi  fu  Emiro  per  decreto  del  Re  d'Italia,  Emiro  e  capo,  per  delega 
di  Lui,  deiramministrazione  autonoma  delle  oasi  di  Cùfra,  Giara- 
bùb  e  Àùgila-Gialo,  con  capoluogo  a  Agedàbia.  Il  contenuto  dell'ac- 
cordo è  tuttora  segreto,  e  non  si  deve  quindi  neppure  riassumerlo. 
Ma  è  notorio  che  esso  comporta,  per  il  fatto  stesso  del  conferimento 
a  Idrìs  della  dignità  di  Emiro,  per  l'attribuzione  a  lui  di  una  delega 
amministrativa  aJ  governo  di  certe  regioni,  per  le  nonne  relative 
all'uso  della  bandiera  italiana,  per  il  riconoscimejito  della  legge  fon- 
damentale, p6r  la  saneita  obbligatorietà  di  taluni  ordinamenti  in 
tutto  il  territorio  della  colonia  comiprese  le  oasi,  la  più  ampia  ricon- 
ferma della  sovranità  italiana  su  tutta  la  Cirenaica.  Quel  principio 


IL  CONTE  GIACOMO  DE  MARTINO  E  LA  SUA  OPERA  IN  CIRENAICA       181 

scritto  nel  solenne  Decreto  Reale  5  novembre  1911,  all'indomani  si 
può  dire  del  nostro  sbarco  su  appena  poche  spiaggie  della  colonia, 
quel  decreto  di  annessione  che  fu  allora  soltanto  un'animosa  espres- 
sione di  volontà,  e  che  andò  poi  concretandosi  con  l'opera  delle  suc- 
cessive occuipazioni,  ma  non  aveva  mai  potuto  imprimersi  come 
realtà  di  fatto  al  di  là  di  una  fascia  costiera  profonda  pochi  chilo- 
metri, quel  Reale  Decreto  ebbe  la  sua  consacrazione  di  fatto  il  25 
ottobre  1920,  coll'accordo  di  Er-Règema.  Mirabile  risultato,  pel  quale 
non  fu  da\^ero  immeritato  riconoscimento  il  conferito  titolo  di  conte 
a  Giacomo  De  Martino. 

K  singolare  come  i  più  non  abbiano  visto  questo  centrale  essen- 
ziale punto  dell'accordo  di  Er-Règema,  di  gran  lunga  superante  in 
importanza  ogni  altra  stipulazione,  e  come  sia  corrente  in  Italia  e 
in  colonia  la  domanda:  «  Noi  abbiamo  dato  il  titolo,  abbiamo  dato 
onori  e  certamente  anche  appannaggi,  abbiamo  dato  un'amministra- 
zione autonoma,  e  che  cosa  otteniamo  in  cambio?». 

Come  se  in  questo  dare  appunto  e  in  questo  ricevere  non  fosse 
compreso  proprio  il  riconoscimento  della  sovranità  italiana  su  tutta 
la  Cirenaica,  fatto  già  da  tempo  acquisito  internazionalmente  è  vero, 
ma,  nell'interno  della  colònia,  potuto  prima  d'ora  stabilire  solo  pe- 
nosamente e  soltanto  intomo  ai  nostri  presidi  e  con  l'azione  di  decine 
di  migliaia  di  uomini. 

Questo  t  il  punto  saliente  dell'accordo  di  Er-Règema,  di  aver 
tramutato  in  fatto  pacifico,  da  non  mantenere  militarmente,  accet- 
tato dalle  popolazioni  e  dalla  stessa  Senussia,  la  sovranità  italiana 
in  Cirenaica.  Due  anni  e  mezzo  di  pacifico,  intenso,  accorto,  leale 
lavoro  hanno  cofteacrato  quel  che  anni  di  guerra  non  avevém  potuto 
conseguire,  perchè  la  guerra  lavora  sulla  materia  e  la  pace  si  ap- 
prende cigli  animi,  questa  veramente  durevolmente  conquistatrice, 
non  quella. 

Qual  meraviglia  che  da  qualche  parte  non  sien  mancati  sforzi, 
come  non  mancheranno  in  avvenire,  per  impedire  il  raggiungimento 
dellaccordo  prima,  per  farlo  naufragare  e  svanire  dopo?  Vi  è  sempre 
una  categoria  di  gente  che  delle  discordie  si  giova,  dei  dissidi  pro- 
fitta; e  vi  è  sempre,  in  un  paese  straniero  e  di  diversa  religione,  una 
corrente  di  odio  e  una  corrente  di  fanatismo,  sulle  quali  a  tal  fatta 
di  gente  è  sempre  possibile  far  leva  per  i  loro  biechi  intenti.  Così 
non  è  mancata  contro  gli  accordi  una  ostile  campagna  preventiva, 
né  è  mancata  una  serie  di  sforzi  intesa  a  renderne  tanto  diflBcile 
l'applicazione,  da  far  apparire  una  delle  parti  inadempiente  e  porre 
i^  primi  presupposti  per  rinnovare  i  dissidi  e  far  crollare  l'edifìcio 
faticosamente  alzato. 

A  questa  categoria  di  male  opere  appartengono  l'azione  volta  a 
trattenere  talune  poche  tribù  dal  procedere  alle  elezioni  statutarie 
dei  capi  maggiori  e  minori  e  dei  deputati  al  Parlamento,  e  volta 
altresì  a  far  richiedere  dalle  stesse  popolazioni  il  mantenimento  dei 
campi  armati  semissiti  sull'altipiano  cirenaico,  dei  quali  e  della  re- 
lativa organizzazione  politica  e  amministrativa  l'accordo  di  Er-Ré- 
gema  aveva  promesso  lo  scioglimento.  Era  pur  questa  una  delle 
più  importanti  clausole  dell'accordo  e  il  farla  venir  meno  avrebbe 
sicuramente  dato  buon  giuoco  ai  mestatori.  Ma  anche  a  ciò  l'opera 
di  Giacomo  De  Martino  soccorse  con  alta  sapienza  superando  in- 


182       IL  CONTE  GIACOMO  DE  MARTINO  E  LA  SUA  OPERA  IN  «RENAICA 

numerevoli  difficoltà;  ed  è  di  ieri  {3  novembre  1921)  il  suo  incontro 
ton  rEmiro  Idris  a  Bu-Mariam,  nel  quale  il  governatore  consacrò 
aW  scopfi  e  le  rag-ioni  dei  provvedimenti  di  comune  accordo  presi 
con  l'Emiro  di  fronte  a  siffatte  manovre,  con  le  seguenti  parole: 

«  Noi  veniamo  a  consacrare  oggi  il  patto  di  Er-Régema,  nei 
«  primi  atti  che  ne  devono  assicurare  in  tempo  breve  la  piena  ese- 
«  cuzione,  così  ch^,  sciolti  ora  da  Vostra  Altezza  —  secondo  che 
«  aveva  in  quel  patto  promesso  —  i  campi  armati  ed  i  caracòL  e 
«  tutte  lo  organizzazioni  che  ne  dipendevano,  con  la  presente  intesa 
«  noi  veniamo  insieme  a  garantire  in  modo  sicuro  la  instaurazione 
«  dello  Statuto  e  della  costituzione  delle  tribù,  secondo  quanto  è  da 
"  esso  stabilito, 

«  Le  forze  di  polizia  miste,  vostre  e  nostre,  che  terremo  7>er 
«  breve  tempo  sotto  la  giurisdizione  dei  nostri  Mudìr  e  dei  due  So- 
<  praintendenti,  vostro  e  nostro,  hanno  appunto  lo  scopo  di  assi- 
«  curare  che  anche  il  resto  del  Paese  non  ancora  organizzato,  si  or- 
«  ganizzi  sotto  lo  Statuto,  e  impedire  che  méne  di  male  intenzionati 
«si  frappongano  fra  il  volere  nostro  e  quello  del  paese...». 

Parole  alle  quali  l'Emiro  Idrìs  rispose  con  altre  di  pieno  as- 
senso e  riconferma,  e  di  omaggio  al  governatore  e  a  S.  M.  il  Re. 

Il  significato  di  tutto  ciò?  la  prevalenza  assicurata  alla  corrente 
di  pace  rappresentata  dall'Emiro  Idrìs  sulle  méne  e  gli  intrighi  di 
un'altra  intransigente  corrente;  quest'ultima  superataci,  dall'insuc- 
cesso, depressa;  i  campi  armati  sciolti  e  sopra  tutto  sciolte  le  orga- 
nizzazioni nettamente  politiche  ohe  vi  si  eran  formate  intomo,  e  che 
costituivano  il  potere  politico  della  Senussia  suH'altipiano.  Al  luogo 
di  queste  organizzazioni,  i  nostri  muéir,  che  avranno  a  disposizione 
forze  di  polizia  per  ora  miste,  e,  nella  zona,  che  è.  quella  delle  poche 
tribù  sobillate  a  non  far  le  elezioni,  due  sopraintendenti  nominali 
uno  dal  Governo  e  uno  dall'Emiro  Idrìs,  espressione  tangibile,  con 
le  forze  miste  di  polizia,  di  una  cooperazione  che  i  male  intenzio- 
nati sempre  mirarono  a  romipere  e,  non  riuscendovi,  ad  impedire 
che  le  popolazioni  vi  credessero.  ' 

Ora,  di  questa  cooperazione,  sono  stati  posti  i  segni  palesi  e 
giorno  verrà  ohe  l'opera  sarà  compiuta,  se  si  saprà  continuare,  nello 
spirito  e  nella  sostanza,  in  generale  e  nei  particolari,  l'azione  retti- 
linea di  Giacomo  De  Martino.  Le  difficoltà,  se  dovessero  sorgerne, 
non  saranno  figlie  di  quell'azione,  ma  dell'averne  deviato,  qtiod  Deo 
advertant. 

• 
*  • 

Abbiamo  dovutff,  per  non  trovarci  a  spezzare  la  trattazione,  ram- 
mentare sino  agli  atti  di  ieri  l'opera  di  Giacomo  De  Martino  per 
l'accordo  con  i  Senussi.  Nel  frattempo  però  quale  altra  vasta  pode- 
rosa opera  in  tutta  la  colonia!  La  più  gran  parte  delle  tribù  orga- 
nizzata ai  sensi  della  legge  fondamentale,  tutti  i  municipi  elettivi 
costituiti  e  funzionanti,  i  deputati  dei  centri  fabbricati  tutti  eletti 
ed  eletti  del  pari  la  più  gran  parte  dei  deputati  delle  tribù.  Il  Par- 
lamento già  convocato  e  funzionante  nelle  due  sessioni  primaverile 
e  autunnale  del  1921,  con  prove  di  feconda  operosità,  di  spirito  d'or- 
dine,, d'attaccamento  alle  novelle  apprezzate  istituzioni.  A  farne  parte 


IL  CONTE  GIACOMO  DE  MARTINO  S  LA  SUA  OPERA  IN  CIRENAICA       183 

»,  per  i  voti  unanimi  dei  colleghi,  a  presiederlo,  chiamato  uno  dei 
più  cospicui  componenti  la  famiglia  stessa  senussita,  il  Sàied  Sàfi- 
ed-Dìn,  rappresentante  in  Parlamento  delle  oasi  affidate  all'ammi- 
nistrazione autonoma  dell'Emiro,  unico  rappresentante  per  ora  ma 
non  perciò  meno  significativo  dell'unità  della  intiera  Cirenaica,  oasi 
autonome  comprese,  sotto  un  solo  governo.  I  municipi  operanti  e 
deliberanti  e  i  due  maggiori,  quello  di  Bengasi  e  di  Berna,  affer- 
matisi con  larghe  applicazioni  di  tasse  comunali,  volte  a  svincolare 
i  rispettivi  bilanci  dai  contributi  del  governo  e  dalle  maggiori  in- 
gerenze che  questi  contributi  naturalmente  coinvolgono,  bella  e  pro- 
mettente manifestazione  di  spirito  e  di  vitiaiità  municipali,  in  orga- 
nismi appena  costituiti,  ma,  come  ciò  appunto  dimostra,  sentiti  ed 
apprezzati.  Tutti  i  commissariati  civili  di  Governo,  nelle  varie  cir- 
coscrizioni, costituiti  e,  con  larghi  discentrati  poteri,  operanti  al 
bene  delle  singole  regioni  e  al  loro  progresso  morale  e  materiale. 
Le  comunicazioni  dovunque  sicure,  sino  a  permettere  la  ripresa  dei 
movimenti  commerciali  coi  lontani  paesi  del  sud,  dai  quali  già  son 
giunte  a  Bengasi  per  ora  piccole  carovane,  che  ne  sono  ripartite  con 
manufatti,  a  riattivare  un  commercio  che  può  esser  promettente, 
ed  è,  ad  ogni  modo,  manifesto  segno  della  sicurezza  ormai  imperante. 

Ah  non  solo  questo  limitato  «programma  economico  si  era  pro- 
posto Giacomo  De  Martino,  nella  sua  multiforme  comp'leta  attività. 
Bensì,  attraverso  una  gita  in  Cirenaica  promossa  a  mezzo  del  Tou- 
ring  Club,  e  alla  quale  parteciparono  agricoltori,  commercianti,  ar- 
cheologhi,  capitalisti  e  quanti  potevan  riportare  in  Italia  una  parola 
di  verità  sulla  Cirenaica,  e  quanti  potevano  esaminare  sul  luogo  le 
possibilità  di  lavoro  e.  di  iniziative  italiane,  attraverso  questa  gita  e 
gli  uomini  che  così  ebbero  agio  di  vedere  e  poi  tornarono,  Giacomo 
De  Martino  aveva  avviato  un  programma  di  valorizzazione  dell'in- 
tiera colonia,  mediante  un  costituendo  Sindacato,  che  non  certo  per 
colpa  di  Lui,  o  per  avergli  lesinato  o  misurato  incoraggiamenti  e 
aiuti,  ma  per  la  sopraggiunta  crisi  mondiale,  non  potè  poi  formarsi 
e  recare  i  suoi  benefìci  alla  colonia  e  alla  madre  patria. 

Questo  di  esser  superiore  alla  crisi  che  imperversa  nel  mondo 
non  era  nei  poteri  di  Lui.  Ma  ciò  che  Egli  poteva  fare  —  col  gran- 
dioso impulso  dato  alle  opere  pubbliche  —  con  le  assillanti  solle- 
citazioni volte  a  far  intraprendere  al  più  presto  possibile  i  lavori 
dei  porti  di  Bengasi  e  di  Derna,  —  con  il  trasferimento  a  Cirene 
lefla  Sopraintendenza  dei  monumenti  e  scavi  e  la  spinta  data  a 
uelle  ricerche  e  a  quelle  di  Tolemaide  (Tolmetta)  e  Apollonia  (Marsa 
^usa),  onde  rinascono  sorprendenti  monumenti  ed  escono  innumeri 
fatue  che  son  tutti  capolavori  —  quello  che  Egli  poteva  fare  stan- 
ziando forti  somme  e  spingendo  le  relative  erogazioni  p^  la  riatti- 
vazione degli  antichissimi  pozzi  e  cisterne,  che  eran  le  risen'^e  d'ac- 
qua della  fiorente  Cirenaica  d'altra  volta  e  son  la  premessa  neces- 
saria della  fiorente  Cirenaica  di  domani  —  sopratutto  quello  che  Egli 
poteva  fare  ^per  le  strade,  tutto  sentì,  vide,  provvide. 

Ho  già  notato  altrove  la  complessità  del  giuoco  generale  di  Gia- 
como De  Martino,  nel  multiforme  scacchiere  di  governo.  Questa 
delle  strade  fu  una  delle  sue  grandi  pedine.  Non  erano  ancora  tutte 
organizzate  le  tribù,  che.  proprio  in  mezzo  ad  esse,  designava  il 
tracciato  di  una  riuova  grande  via  dì  comunicazione,  e  destinava 


ÌSì       IL  CONTE  GIACOMO  DE  MARTINO  E  LA  SUA  OPERA  IN  CIRENAICA 

le  l/i  uppd  mi  <tprirl<i:  ì^ìlk^a;  ui  ihikiiìui  1  ipcicu-^iuiii,  i.iirchè,  al 
lora  che  i  carri'pi  armati  non  ancora  erano  prossimi  a  venire  sciolti, 
la  nuova  via  doveva  svincolare  le  nostre  comunicazioni  dal  controllo 
di  quei  campi,  cioè  rendere  liberi  i  nostri  movimenti  per  otmi  eve- 
nienza, creare  i  presupposti  per  ogni  eventuale  forte  d^ecisione  da 
prendere,  che  è  quanto  dire  premere  materialmente  sulle  popola- 
zioni toccate  daUa  novella  arteria,  moralmente  sui  detentori  della 
vecchia  via  di  comunicazione  e  su  quanti  speculavano  sul  rinascere 
dei  dissidi  fra  noi  e  i  Senussi,  oggi  fortunatamente  di  nuovo  scon 
giurati  e  giova  sperare  per  sempi-e. 

Questa  strada,  aperta  da  jun  anno  al  transito  nella  tratta  da 
Bengasi  a  Merg  per  la  via  di  Tocra,  destinata  a  raggiunger  Cirene 
e  Derna  attraverso  la  parte  piìi  bella  e  pili  fertile  della  colonia,  al 
traverso  quel  pittoresco  Dadi  el  Cuf  ove  sorgono  conifere  giganti  ii. 
un  ipaesaggio  schiettamente  alpestre,  destinata  ad  accorciare  le  co- 
municazioni fra  i  maggiori  centri  della  colonia  di  un  centinaio  di 
chilometri,  destinata  all'allacciamento  di  già  designate  numero.- 
strade  radiali  dall'altipiano  alla  costa;  questa  grande  arteria  desti- 
nata a  vivificare  la  colonia,  a  porre  le  premesse  del  suo  rifiorire,  a 
rinsaldarvi  il  nostro  possesso,  ad  assicurare  i  successi  del  presente 
e  a  preparare  l'avvenire;  questa  strada  che  Giacomo  De  Martino  si 
era  proposto  di  veder  aperta  quest'anno  sino  a  Cirene,  mentre  n^ 
preparava  il  proseguimento  sino  a  Dema  per  l'anno  venturo;  questa 
strada  della  quale  innumeri  volte  aveva  visitato  il  tracciato  durante 
i  lavori,  talora  accam'pandosi  sui  suoi  margini,  talora  -percorrendola 
nei  tratti  già  compiuti,  per  felicitare  e  spronare  ufficiali  e  soldati 
all'azione  sempre  più  alacre,  questa  strada  Giacomo  De  Martino  ha 
potuto  in  vita  inaugurarla,  con  una  di  quelle  sue  rapidissime  corse 
in  automobile,  che  lo  facevano  presente  dovimque,  e  nelle  quali  era 
di  meraviglia  a  tutti  per  la  resistenza  fisica  dei  suoi  settanta  e  più 
anni  e  per  il  disprezzo  di  cure  e  di  cautele  e  di  precauzioni,  col 
quale  diimostrava  di  sentirsi,  come  era,  molto  più  giovane  della  sua 
età.  E,  ahimè,  in  questa  inaugurazione  aippunto  —  era  la  quindi- 
cesima, era  la  ventesima  volta  che  traversaVa  così  la  colonia!  —  in 
questa  inaugurazione  appunto.  Egli  contrasse  la  polmonite  che  in 
pochi  giorni  l'ha  rapito  a  noi,  alla  colonia,  all'Italia,  che  tanto  an- 
.  Cora  avrebbe  ipotuto  giovarsi  della  Sua  opera  illuminata. 

A  noi  stringe  la  gola  il  pianto,  ma  non  a  noi  soli;  per  Lui,  ci\i 
tolicò  fervente,  "hanno  pregato  gl'italiani  della  colonia,  ma  forse  ar 
cor  più   fervorosamente  gli  arabi  nelle  loro  moschee,  gli  israeliti 
nelle  loro  sinagoghe.   Perchè  era  profondamente  amato  ed  ammi- 
rato: da  tutti.  Da  tutti,  e  il  popolo,  che  ha  le  pro(p>rie  predilezioni 
istintive,  il  popolo  dei  pastori,  dei  beduini,  il  popolo  che  vive  at- 
tendato nella  sterminata  distesa  dei  pascoli,  e  che  è  buono  perchè 
è  semplice,  è  leale  e  diritto  perchè  non  mai  contaminato  nor-"- 
dall'embrionale  perversione  cittadina  dei  piccoli   centri  colo 
questo  popolo  aveva  intuito  e  sentito  in  Lui  la  st<^ 
animo,  la  stessa  dirittura  e  lealtà,  poste  in  una  gr.f 
lo  era  appropriato,   con   una  parola  semplice,  denominandolo   «  il 
nostro  vecchio».  Omaggio  tenero  e  profondo,  che  riunisce  nfr.^Hn 
e  devozione. 
\ 


IL  CONTE  GIACOMO  DE  MARTINO  E  LA  SUA  OPERA  IN  CIRENAICA       185 


•  • 


Ho  toccato,  appena  toccato  della  Sua  opera,  nella  quale  Egli 
portava  un'attenzione,  una  vera  ipassione  di  ogni  giorno.  Taccio  del- 
l'Uomo, nella  Sua  intimità  bonaria  ed  arguta,  negli  affetti  fami- 
gliari profondamente  sentiti,  nella  mirabile  sanità  e  santità  fami- 
liare, quale  può  intendersi  di  un  uomo  che  si  era  sposato  a  venti 
anni  e  già  aveva  celebrato  da  qualche  anno  le  sue  nozze  d'oro. 
Quando  ricordava  i  primi  suoi  figli,  perduti  giovinetti,  ancoi:à.  la 
sua  voce  tremava  e  talora  gli  si  velava  di  pianto.  E  quanti,  quanti 
dei  Suoi  discorsi,  nei  quali  si  animava  a  poco  a  poco,  terminavano 
in  una  consimile  emozione,  sentiti  nelle  più  intime  fibre  da  que- 
st'uomo politico,  che  aveva  conservata,  attraverso  la  politica,  attra- 
verso il  potere,  attraverso  dieci  anni  e  più  di  governi  coloniali,  la 
cristallina  anima  di  un  fanciullo,  affacciantesi  e  bruciante  nelle  sue 
parole,  quante  volte  un  alto  ideale  ipalpitava  nelle  perorazioni  e  la 
celebrazione  dell'oggi  si  riaccostava  a  ricordi  del  passato  e  a  radiose 
visioni  dell'avvenire,  che  Egli  sentiva  sicuro,  d'Italia! 

Famiglia,  ardore  di  vita  e  di  opere,  Italia  grande,  sempre  più 
grande,  certo  i  suoi  occhi  si  son  chiusi  su  questi  grandi  pensieri, 
che  furono  la  sua  vita,  la  sua  fede,  la  sostanza  della  sua  anima  ap- 
passionata e  vibrante. 

Ernesto  Queirolo. 


13  VoL   CCXVI,  eerie   VI  —  16  gennaio  1922. 


UNA  RELIGIOSITÀ   INCONSAPEVOLE:  ADRIANO  TILGHER 


Filosofi  antichi.  Todi,   Atanor,   1921.  —   Voci  del  tempo.  Roma,   Libreria  di 
Scienze  e  Lettere,  1921.  —  Iai  crisi  mondiale.  Bologna,  Zanichelli,  1921. 

Fra  i  nostri  scrittori  di  argomenti  politico-sociali  e  filosofico- 
storici,  Adriano  Tilgher  occupa,  non  da  oggi,  una  posizione  emi- 
nente. La  forma  speciale  del  suo  ingegno,  raipido  e  preciso  nella 
intuizione,  sagace  nella  inrformELzione  erudita,  ricco  ognora  di  riso- 
nanze emotive  e  di  sùbite  capacità  di  comprensione,  lo  rende  ugual- 
mente felice  nella  evocazione  di  una  filosofia  scomparsa  da  secoli 
come  nella  analisi  scientifica  di  una  corrente  contemiporanea  di  pen- 
siero o  di  prassi  politica.  Sia  che  egli  indaghi  l'anima  originale  del 
primitivo  insegnamento  buddista  o  tenti  di  valutare  il  significato  e 
l'efficacia  del  neoplatonismo  morente;  sia  che  rechi  la  luce  della  sua 
sottile  esplorazione  su  un  problema  arduo  e  complicato  come  quello 
dei  rapporti  fra  religioni  misteriosofiohe  e  cristianesimo,  o  cerchi 
di  fissare  la  posizione  di  Felice  Ravaisson  nello  sviluppo  della  spe- 
culazione moderna;  A.  Tilgher  segna  sempre,  con  le  sue  pagine 
vive  e  penetranti,  l'orma  profonda  di  uno  spirito  acuto  e  sugge- 
stivo. 

Ma  un  grande  fatto  storico,  che  per  essere  a  noi  tremendamente 
vicino  non  cessa  per  questo  di  costituire  un  magnifico  terreno  spe- 
rimentalte,  si  direbbe,  per  l'applicazione  e  il  controllo  delle  leggi 
che  disciplinano  lo  sviluppo  e  le  vicende  dei  gruppi  umani  asso- 
ciati, la  guerra  europea  cioè,  ha  esercitato  con  più  assiduità  e  mag- 
gior larghezza,  le  sue  qualità  rimarchevoli  di  osservatore  e  di  cri- 
tico. I  saggi  ch'egli  Iha  pubblicato  su  vari  giornali  sugli  aspetti  più 
vari  del  formidabile  cataclisma,  ed  ora  racconti  sotto  un  titolo  unico  : 
la  crisi  mondiale,  rappresentano  uno  sforzo  imponente  di  dar  ragione 
di  un  fatto  che  peserà  sulla  evoluzione  ulteriore  della  vita  europea 
molto  più  di  quanto  noi  stessi  non  riusciamo  oggi  a  capacitarci,  e 
di  circosoriverne  il  significato  e  la  portata  nello  sviluppo  globale 
della  nostra  civiltà.  Sarebbe  stato  puerile  pretendere  ohe  a  tanto 
esigua  distanza  dagli  avvenimenti,  uno  sforzo  di  questo  genere 
potesse  raggiungere  adeguatamente  la  sua  meta  e  portare  ad  una 
valutazione  definitiva  di  un  evento  intorno  a  cui  si  addensano  tuttora 
le  nebbie  delle  nostre  passioni  e  della  nostra  partigianeria.  Il  Tilgher 
sembra,  a  volte,  quasi  oscillare  fra  spiegazioni  contradittorie  degli 
avvenimenti  tremendi  che  hanno  sconvolto  le  nostre  esperienze  e 
tagliato  alle  radici  tanta  parte  del  nostro  patrimonio  di  aspirazioni 
prebelliche.  Da  una  parte  egli  sembra  voler  applicare  alla  esplora- 


UNA  RELIGIOSITÀ  INCONSAPEVOLE:    ADRIANO  TILGHER  187 

zione  delle  cause  del  conflitto  mondiale  dei  criteri  strettamente  eco- 
nomici :  «  la  civiltà  capitalistica,  ^li  assevera  una  volta,  posava 
su  fondamenta  fragili,  che  un  giorno  o  l'altro  dovevano  venir  meno. 
A  un  certo  momento,  due  sistemi  produttori  —  inglese  e  tedesco  — 
nella  loro  caccia  agli  sbocchi  che  ne  assorbissero  i  prodotti  si  sono 
scontrati  in  un  cozzo  spaventoso,  che  ha  dato  fuoco  al  mondo» 
(pag.  60).  Ma  dall'altra  egli  nega  a  volte  perfino  la  possibilità  astratta 
che  ragioni  puramente  economiche  diano  una  spiegazione  soddisfa- 
cente delle  azioni  umane  :  «  se  c'è  cosa  che  la  guerra  mondiale  in- 
segni con  evidenza  irresistibile  è  che  l'uomo  (individui  e  nazioni) 
mai  o  quasi  mai  agisce  per  calcolo  freddo  e  riflesso  dei  suoi  interessi. 
Se  così  fosse,  da  secoli  la  terra  sarebbe  un  paradiso,  perchè  l'inte- 
resse bene  inteso  di  ciascuno  coincidendo  quasi  sempre  con  l'inte- 
resse di  tutti,  ciascuno  vivrebbe  d'accordo  col  prossimo,  praticando 
a  suo  riguardo  giustizia  e  benevolenza.  Infatti,  la  m.orale  utilitaria 
conclude  raccomandando,  non  la  frode  e  la  violenza,  ma  l'altruismo 
e  il  sacrificio,  è  ottimista  ed  in  politica  è  internazionalista  e  pacifista. 
Gli  uomini  agiscono  il  più  delle  volte  spinti  dall'impulso  oscuro  e 
confuso,  ma  efficace,  della  passione:  e  chi  è  in  preda  alla  passione 
è  sempre,  in  certo  modo  e  misura,  al  di  qua  o  al  di  là  dell'interesse  « 
(pag.  27). 

Cogliamo  qui  la  contradizione  casuale  di  uno  scrittore  vivo  ed 
appassionato,  che  esaminando  a  varie  riprese  i  medésimi  avvenimenti 
ne  prospetta  sotto  luci  eterogenee  la  complessa  ricchezza  e  il  mol- 
teplice contenuto,  o  non  piìi  tosto  il  dissidio  immanente  di  uno  spi- 
rito inconsapevolmente  fluttuante  fra  le  conclusioni  suggerite  da  una 
esteriore  tradizione  di  scuola  e  da  un  determinato  metodo  culturale 
di  valutazione  dei  fatti  storici  da  una  parte,  e  dall'altra  gli  intuitivi 
ma  indistinti  bagliori  che  sprizzano  da  un  temperamento  essenzial- 
mente lirico  e  drammatico?  Per  l'intelligenza  del  Tilgher,  la  storia 
e  la  vita  sociale  rappresentano  la  manifestazione  disciplinata  di 
leggi  infallibili  ohe  l'esperienza  e  l'indagine  critica  possono  scavare 
sotto  l'involucro  massiccio  dei  fatti,  o  non  più  tosto,  per  appurare 
e  proclamare  la  razionalità  e  l'eticità  dell'universo,  non  pare  ad  essa 
ohe  occorra  travalicare  la  zona  fuggevole  dell'empirico  e  raggiun- 
gere, attraverso  un  atto  di  fede,  l'Assoluto  e  l'Eterno  ? 

Se  attraverso  la  vasta  produzione  di  questo  scrittore  limpido  e 
robusto  noi  andiamo  a  cercare  le  idee  madri  e  gli  orizzonti  predo- 
minanti, noi  dovremo  nettamente  optare  per  la  seconda  alternativa. 
C'è,  in  Tilgher,  come  una  latente  fede  e  una  immatura  religiosità,  che 
attendono  di  svilupparsi  secondo  le  intime  e  infallibili  leggi  di  ogni 
vigorosa  esperienza  spirituale,  per  toccare  le  sponde  kiminose  e 
riposanti  del  soprannaturale  e  della  grazia. 

Non  vogliamo  qui  attardarci  a  mostrare  come  questo  acre  e 
continuato  dissidio  fra  una  suiperficiale  cultura  razionalistica  e  posi- 
tivistica, assuefatta  per  forza  d'inerzia  a  cercare  nei  fatti  la  legge 
della  loro  genesi  e  il  tipo  proporzionato  della  loro  spiegazione,  e  la 
profonda,  per  quanto  non  confessata,  esigenza  religiosa,  che  muove 
faticosamente  a  tentoni  verso  il  riconoscimento  solenne  di  Dio  e 
della  sua  ineffabile  orma  nel  mondo  fisico  e  morale,  costituisca  il 
motivo  reale  del  carattere  tuttora  ambiguo,  frammentario,  incoe- 
rente ed  evanescente;  onde  sono  accompagnate  le  idee  e  le  valuta- 


188  UNA  RELIGIOSITÀ  INCONSAPEVOLE:    ADEUANO  TILGHEfi 

zioni  ohe  Adriano  Tilgher  dispensa,  con  (prodigalità  signorile,  nelle 
sue  analisi  vibranti.  Da  qualche  tempo  a  questa  parte  egli  sembra 
raccogliere  le  fila  sparse  del  suo  pensiero  su  una  dicotomia  fonda- 
mentale, ch'eg^li  pone  a  limite  e  a  ripartizione  della  storia  della 
spiritualità  umana,  e  su  cui  insiste  con  particolare  predilezione. 
Egli  cioè  contrappone  la  visione  ciclica  della  storia,  cara  alla  men- 
talità classica,  alla  convinzione  deli'indefìnnto  progresso,  caratte- 
ristica defila  mentalità  moderna.  Si  potrebbe  in  realtà  obbiettare 
che  una  simile  contrapposizione,  oltre  che  essere  eccessivamente 
schematica  e  quindi  artificiosa,  salta  a  pie'  pari  l'azione  spiegata 
sulla  evoluzione  dellte  dottrine  sociali  dalla  esperienza  cristiana, 
delle  cui  essenziali  e  trascendentali  speranze  la  fiducia  nell'umano 
progresso  non  è  forse  che  una  deformazione  depauperata  e  una 
laiciz.zazione  grottesca.  Ma  non  è,  a  tutt'oggi,  il  destino  di  Adriano 
Tilgher  quello  di  marciare  sui  margini  della  fede  zamipillata  dal 
Vangelo  e  trasmessa  nei  secoli  dalla  Chiesa,  senza  addarsi  della 
propinquità  spirituale  che  ve  lo  trascina  e  senza  pervenire  all'umile 
riconoscimento  della  sua  verità  e  vitalità  imperitura? 

È  quello  che  mi  sono  spontaneamente  domandato  leggendo  la 
conclusione  che  egli  ha  posto  alla  sua  così  personale  rassegna  delle 
Voci  del  leiìipo.  Il  problema  filosofico  veramente  attuale,  veramente 
nostro,  osserva  il  Tilgher,  è  il  problema  della  storia,  cioè  dell'essere, 
della  vita  dell 'umanità  come  storia.  Il  secolo  xix  l'ha  risolto  con 
una  empia  e  funesta  divinizzazione  dell'attività  as^luta  e  dell'azione, 
:n  cui  si  è  riflessa  ideologicamente  e  sentimentalmete  la  rivoluzione 
profonda  che  l'apparire  dell'industria  moderna  aveva  prodotto  nei 
rapporti  fra  l'uomo  e  la  natura.  Di  questo  pseudo-misticismo  ateo 
dello  sforzo  umano  verso  il  miglioramento  della  tecnica  dell'esi- 
stenza, soggiacente  a  tutte  le  concezioni  sociali  del  mondo  contem- 
poraneo, Adriano  Tilgher  fa  una  critica  che  non  è  meno  spietata, 
perchè  incisiva  e  sintetica.  Egli  cioè  lo  prende  in  parola  e  poiché 
esso  si  è  fatto  un  idolo  dello  spirito  umano,  e  del  mondo  materiale 
ha  fatto  il  presunto  regno  di  Dio,  gli  dimostra  che  là  dove  non  v'è 
trascendenza,  non  v'è  religione;  dove  non  v'è  sanzione  e  dove  non 
è  ideale,  non  è  né  pure  progresso;  che  là  dove  non  è  Dio,  non  è  né 
pure'  azione  e  movimento  degni  di  questo  nome.  Ma  quando  egli 
esce  dalla  critica  negativa  per  affermare  una  sua  visione  ragrionevole 
e  coerente,  egli  ripiomba  miseramente  in  una  concezione  puramente 
immanentistica  della  realtà  storica,  che  non  è  specificamente  diversa 
da  quella  ch'egli  stesso  ha  con  pochi,  tratti  stritolato.  Afferma  infatti , 
che  di  contro  all'intelligenza  ed  al  volere  del  singolo  la  Storia  (la 
maiuscola  è  del  Tilgher)  è  il  vero  trascendente;  che  è  in  piìi  un  tra- 
scendente il  quale  è  anche  immanente,  poiché  la  storia  è  fatta  dagli 
individui  :  «  È  fatta  da  questi,  e,  insieme,  si  fa  da  sé,  seguendo  una 
logica  intima,  una  ragione  tutta  sua,  che  gli  individui  possono  bensì 
riconoscere  dopo  che  si  è  fatta,  ma  non  preveder©  in  anticipo,  per- 
ché la  storia  li  involge,  li  supera,  li  trascende  da  ogjii  parie,  ed  è 
di  contro  ad  essi  come  il  corpo  di  contro  alle  cellule,  il  tutto  di  contro 
alla  iparte,  l'Infinito  di  contro  al  finito,  l'Assoluto  di  contro  al  rela- 
tivo. Dio  di  contro  all'uomo»  (pagina  210). 

Dinanzi  alle  quali  aberranti  dichiarazioni  vien  fatto  di  doman- 
darsi per  quale  fenomeno  di  improvvisa  cecità  l'intelligenza  acutis- 


UNA  RELIGIOSITÀ  INCONSAPEVOLE:    ADRLANO  TILGHER  189 

sima  del  Tilgher  non  veda  che  questa  sua  divinizzazione  della  storia 
è  battuta  in  breccia  dalle  medesime  stringenti  argomentazioni  che 
egli  accampa  contro  lo  storicismo,  di  cui  si  è  imbevuta  quella  col- 
ira  moderna  ch'egli,  così  efficacemente,  dipinge  condannata  aJ  più 
squallido  dei  tramonti.  È  duro  per  lui,  evidentemente,  recalcitrare 
al  pungolo  che  lo  muove  e  lo  sospinge  invisibilmente:  ma  l'osser- 
vatore, che  ne  contempla  la  bella  attività  intellettuale,  non  può  farsi 
illusione  sulla  natura  della  crisi,  onde  è  evidentemente  travagliato  il 
suo  pensiero. 

Chiudendo  uno  dei  saggi  suoi  più  pregni  di  significato,  il  Tilgher 
dice  di  sé  :  «  Io  che  scrivo  appariertgo  alla  generazione  dell'esodo  che, 
lasciato  dietro  a  sé  l'Egitto,  terra  di  prosperità  ma  anche  di  oppres- 
sione, marcia  penosamente  attraverso  il  deserto,  ravvolto  tutto  in- 
torno dal  nemi)o  oscuro  e  tonante  della  storia  in  divenire,  e  per 
guidarsi  nel  tremendo  cammino  non  ha  che  la  colonna  di  fumo  e 
di  fuoco  che  procede  innanzi  a  lei,  conducendola  verso  una  ignota 
terra  promessa,  di  cui  solo  i  suoi  figli  contempleranno  le  rive». 

No:  chi  sa  di  marciare  verso  un  lido  di  pace,  non  ha  bisogno  di 
rimettere  il  raggiungimento  della  meta  ai  venturi.  Nel  suo  cuore  ha 
risuoriato  già  la  voce  di  un  rassicurante  messaggio.  I  suoi  occhi  pos- 
sono dischiudersi  allo  spettacolo  della  terra  promessa  (1). 

Il  giorno  in  cui  Adriano  Tilgher  si  sarà  reso  perfettamente 
conto  delle  conseguenze  fatali,  implicite  nel  suo»  atteggiamento  spi- 
rituale, la  rinascita  religiosa,  che  quanti  hanno  anime  di  credenti 
sentono  aleggiare  intomo,  attraverso  le  fenditure  di  un  mondo  sociale 
in  putrefazione,  avrà  trovato  in  lui  uno  dei  suoi  interpreti  più 
eloquenti  e  più  suasivi. 

Ernesto  Buonaiuti. 

(1)  In  un  recentissimo  volumetto,  apparso  quando  questa  nota  era  già 
redatta,  die  ha  avuto  subito  un  larghissimo  successo,  A.  Tilgher,  studiando  le 
forme  più  rappresentative  del  relativismo  contemporaneo  {Belativisti  contem- 
poranei, Roma.  Libreria  di  Scienze  e  Lettere,  1921,  3*  edizione),  ne  fissa  con 
acume  la  funzione  rivoluzionaria  e  lascia  intravedere  come  dalla  dissoluzione 
che  esso  effettua  della  storia  e  dei  suoi  miti^  il  relativismo,  riportando  diret- 
tamente all'azione  e  alla  sua  virtìi  creatrice,  prepara  inconsapevolmente  la 
reviviscenza  della  fede  e  la  rinascita  della  credenza  r^igiosa. 


TRA  LIBRI  E  RIVISTE 


I  nostri  editori  :  Antonio  Vallardi  —  Elementi  di  noologia  —  Scavi  in  Laguna  —  La 
questione  romana  —  "  Vittoria  „  di  Giorgio  Mcredith  —  Un  diario  di  guerra  —  Pisci 
coltura  olandese  —  From  Waterloo  to  the  Marne  —  In  biblioteca  —  Grafistoria  della 
Regione  Italica  —  Per  1  bimbi  Balducei. 


I  nostri  editori. 
Antonio  Vallardi. 

La  ditta  Antonio  Vallardi  vanta  an- 
tichissime origini:  nel  commercio  libra- 
rio il  nome  Vallardi  apparve  fino  dal 
1750  per  opera  di  un  Francesco  Val- 
lardi  che  in  Milano  nell'aurea  prospe- 
rità di  quei  tempi,  data  dal  soffio  in- 
novatore che  spirava  da  regnanti  come 
Maria  Teresa  e  Pietro  Leopoldo  di 
Toscana,  diede  un  fiorente  sviluppo 
alla  sua  bottega  posta  al  Cantoncel- 
lo,  sull'angolo  dell'antica  contrada  di 
Santa  Margherita  (destinata  a  sparire 
più  tardi  per  dar  luogo  all'attuale  via 
S.  Margherita  ove  appunto  oggi  am- 
mirasi all'angolo  del  vicolo  omonimo 
la  libreria  della  ditta  Antonio  Vallardi). 

Quella  bottega  era  il  centro  della 
vita  artistica  e  letteraria  di  Milano. 
Ivi  si  davano  convegno  il  Verri,  il 
Parini,  il  Volta,  l'abate  Oriani  ed  altri 
sommi. 

Interessante  sarebbe  seguire  la  vita 
di  quel  focolaio  di  intellettualità  mila- 
nese attraverso  gli  anni  perchè  gran 
parte  della  storia  di  Milano  di  quel- 
l'epoca è  ivi  collegata,  se  lo  spazio  lo 
acconsentisse.  Basti  dire,  per  lumeg- 
giare l'importanza  della  ditta,  che  le 
stampe  del  Vallardi  incise  in  rame  era- 
no ovunque  apprezzatissime  e  ricerca- 
tissime, tanto  che  Pietro  e  Giuseppe 
Vallardi,  successi  al  Francesco,  apri- 
vano per  tale  commercio  sul  principio 


del  secolo  xix  una  Filiale  a  Venezia 
ed  una  a  Parigi. 

Questa  ditta  però  nel  1865  cessava 
per  opera  di  Luigi  Giuseppe,  figlio  di 
Giuseppe,  il  quale  dedito  più  alia  let- 
teratura e  alla  critica  (sua  opera  nota 
è  la  Contessa  di  Challant)  trascurò  il 
commercio  fiorente  lasciatogli  dal  pa- 
dre, e  sarebbe  certamente  scomparso 
allora  il  nome  Vallardi  dalla  famiglia 
editoriale  se  la  solerte  vedova  di  Pie- 
tro non  avesse  dato  impulso  ad  un'al- 
tra ditta  Vallardi  dedicandosi  in  ispe- 
cial  modo  alle  stampe  sacre  e  non 
avesse  instillato  nei  propri  figli  Fran- 
cesco ed  Antonio  quell'amore  alla  no- 
bile arte  che  più  tardi  fece  fiorire  due 
delle  maggiori  Case  editrici  d' Italia  : 
le  attuali  ditte  Dr  Francesco  Vallardi 
e  Antonio  Vallardi. 

Mentre  Francesco,  lasciata  l'arte  me- 
dica (con  grave  scandalo  dell'I.  R.  Go- 
vernatore, il  quajle  n?l  concedere  la 
licenza  al  neo  editore  lo  rimproverava 
di  abbandonare  l' arte  salutare  per 
quella  libraria),  l'Antonio  continuava 
nel  commercio  della  madre  dandovi 
nuovo  impulso  ed  un  carattere  anti- 
quario ed  archivistico  alla  librerìa  di 
Via  S.  Margherita. 

Formò  con  l'acquisto  delle  bibliote- 
che araldiche  del  Tenenti,  Bonacina, 
e  del  Duca  Antonio  Litta  Visconti 
Arese  quel  noto  Archivio  Araldico  Val- 
lardi  dal  quale  uscì  nel  1875  per  opera 
del    Calvi,  Pullè,  Meroni   e  Casati,  la 


TRA    LIBRI    E    RIVISTE 


191 


famosa  opera  ancor  oggi  tanto  ricor- 
data: Le  famiglie  notabili  milanesi. 

Il  fondatore  dell'attuale  ditta,  dopo 
una  vita  di  austero  lavoro,  morì  nel 
1876  :  gli  successero  i  figli  Pietro  e 
Giuseppe,  per  virtù  dei  quali  l'azienda 
paterna  in  pochi  anni  assurse  all'at- 
tuale potenza  :  esempio  mirabile  del- 
l'accordo e  dell'amorevole  collabora- 
zione, essi,  consci  del  risveglio  nella 
cultura  italiana  e  della  necessità  di 
migliorare  la  Scuola,  dedicarono  fino 
dai  primi  anni  la  loro  instancabile  at- 
tività a  tale  programma. 

Entrarono  risolutamente  nel  campo 
editoriale  propriamente  detto,  iniziando 
pubblicazioni  scolastiche  elementari  ed 
iniziando  anche,  nell'intento  di  rendere 
indipendente  dall'estero  la  nostra  scuo- 
la, la  fabbricazione  del  materiale  sco- 
lastico e  degli  arredi  didattici. 

Venticinque  anni  or  sono,  sotto  la 
direzione  di  Guido  Fabiani,  vedeva 
la  luce  coi  tipi  del  Vallardi  il  primo 
numero  del  Corriere  delle  Maestre, 
giornale  didattico  che  tanto  aiuto  mo- 
rale e  materiale  portò  al  nostro  corpo 
insegnante  elementare  in  verità  allora 
un  po'  trascurato.  Cogli  stessi  tipi  nel 
1899  uscì  la  prima  dispensa  di  quel- 
l'opera originalissima  quanto  preziosa, 
L'Italia  nei  cento  anni  del  secolo  XIX 
giorno'  per  giorno,  illustrata,  che  Al- 
fredo Comandini  con  certosino  amore 
e  indiscussa  competenza  ha  creato  e 
tuttora  crea  (l'opera  è  giunta  al  1861) 
raccogUendo  ogni  minima  notizia,  ogni 
più  prezioso  documento  del  trascorso 
secolo  che  vide  gli  albori  del  compi- 
mento delle  nostre  aspirazioni  nazio- 
nali. 

Policarpo  Petrocchi  intraprese  col 
Vallardi  la  pubbhcazione  dell'Enciclo- 
pedia Thesaurus,  che,  se  la  morte  pre- 
coce dell'illustre  filologo  non  l'avesse 
interrotta  alle  prime  lettere,  sarebbe 
siata  un  vero  monumento  della  nostra 
lingua. 

Oltre  ai  libri  di  testo  per  le  Scuole 
elementari  s'andò  formando  man  mano 
una  Collana  di  Dizionari  linguistici  di 
cultura,  fra  i  quali  va   notato    per   la 


sua  particolare  fortuna  il  Nuovissimo 
Afelzi  (il  Larousse  Italiano)  che  ha 
raggiunto  oggi  la  bellezza  di  350  mila 
copie. 

Ma  non  solo  l'attività  editoriale  della 
ditta  si  interessò  della  educazione  della 
gioventù,  per  la  quale  creò  una  ricca 
collana  di  libri  di  amena  lettura  edu- 
cativa chiamando  a  collaborarvi  i  più 
atti  autori  del  tempo,  ma  ebbe  di  mira 
anche  l'educazione  del  popolo.  Per 
esso,  sotto  la  guida  di  quella  nobile 
anima  che  fu  Emilio  De  Marchi,  il  Val- 
lardi  iniziò  l'aurea  collana  di  opusco- 
letti  conosciuta  sotto  il  titolo  di  Buona 
Parola  nella  quale  i  più  sani  principi 
morali  ed  educativi  vengono  impartiti 
sotto  forma  di  piccoli  racconti  ed  epi- 
sodi: più  tardi  iniziò  \2i  Biblioteca  Po- 
polare di  Cultura  che  consta  oggi  di 
quasi  cento  volumetti,  mediante  la  quale 
notizie  tecniche,  letterarie  ed  artistiche 
sono  insegnate  al  popolo  in  nitida 
forma. 

Alla  morte  del  cav.  Giuseppe,  avve- 
nuta nel  1916,  le  sorti  dell'azienda  fu- 
rono affidate  ai  figli  di  questi  ed  al 
comm.  Pietro:  essi,  uniti  in  Società  in 
accomandita,  seguendo  il  fulgido  esem- 
pio in  unione  dei  loro  Padri  continuano 
nella  via  loro  magistralmente  tracciata. 
Dalle  giovanili  forze  molto  ci  dobbia- 
mo attendere  in  ispecie  per  quello  che 
riguarda  tutto  quanto  occorre  alla  mo- 
dernizzazione della  Scuola,  e  l'attesa 
non  sarà  certo  vana  se  dobbiamo  giu- 
dicare dalla  rinnovata  e  perfezionata 
produzione  della  ditta  in  questi  ultimi 
anni. 

Elementi  di  neologia. 

«  Più  si  ha  spirito,  ha  detto  Pascal, 
e  maggior  copia  di  tipi  umani  origi- 
nali si  scopre.  Solo  gli  uomini  comuni 
non  riescono  a  scorgere  differenze  fra 
gli  uomini  ».  Ma  l' individuare  i  mol- 
teplici tipi  nei  quali  si  specifica  lo  spi- 
rito umano,  cogliere  le  sottilissime  sfu- 
mature che  diversificano  anima  da 
anima,  sì  da  non  darsi  due  intelligenze 
identiche,  come  non  si  incontrano  due 
volti  umani  che  combacino,  è  gravità 


192 


TRA    LIBRI    E    RIVISTE 


ardua  e  singolare.  Nel  cristianesimo 
primitivo  il  discernimento  degli  spiriti 
è  considerato  come  un  dono  sopran- 
naturale di  Dei.  Oggi,  lo  si  vuol  fare 
uscire  dalla  tecnica  di  una  speciale 
scienza  :  la  noologia.  Di  questa,  Fran- 
cois Mentre,  in  un  libro  che  ha  qual- 
cosa di  esoterico  e  di  raffinato,  ma  che 
non  manca  di  osservazioni  fini  e  di 
erudizione  filosofica  ben  fondata  {Espè- 
ces  et  variétés  d'intelligences.  Paris, 
Editions  Bossard,  1921),  vuol  tracciare 
i  principi  generali  e  dettare  le  regole 
pratiche.  Noologia,  egli  dice,  è  lo  stu- 
dio dei  vari  generi  di  intelligenza.  Essa 
diflferisce  tanto  dalla  psicologia,  che  è 
la  scienza  dei  fenomeni  psichici  e  delle 
loro  leggi,  come  dalla  logica,  che  è  la 
tecnica  dell'  intelligenza,  l'arte  di  ra- 
gionare esattamente  e  di  dimostrare 
le  proprie  asserzioni.  In  cambio  essa 
si  ricongiunge  con  l'etologia  o  scienza 
dei  caratteri. 

Dopo  aver  esposto  con  larghezza  i 
metodi  di  cui  la  noologia  dispone  nella 
sua  esplorazione,  il  Mentre  s"  inoltra 
nella  classificazione  dei  molteplici  tipi 
di  intelligenza  umana,  segnalati  così 
attraverso  l'esperienza  della  vita  quo- 
tidiana, come  attraverso  le  conoscenze 
storiche.  Egli  non  manca  di  insistere 
sulla  pregiudiziale  che  non  si  deve 
pretendere  un  casellario  ben  definito  e 
rigidamente  chiuso  nei  suoi  scompar- 
timenti, per  una  realtà  così  complessa 
e  così  piena  di  interferenze,  come  è 
l'umana  intelligenza.  Ma,  posta  la  av- 
vertenza preliminare,  egli  crede  di  po- 
ter ravvisare  tre  famiglie  di  spiriti  o 
tre  grandi  dinastie  spirituali,  che  Io 
sviluppo  progressivo  della  scienza  per 
metterà  indubbiamente  di  definire  con 
una  precisione  screscente  :  i  pratici,  i 
contemplativi  e  i  meditativi. 

Questa  divisione  tripartita  riassume 
le  tendenze  direttive  dell'intelligenza, 
le  sue  modalità  essenziali.  Tali  ten 
denze  stesse  sono  vincolate  a  proprietà 
organiche,  in  virtù  della  solidarietà 
funzionale  che  governa  tutti  gli  esseri 
viventi.  Si  potrebbero  abbastanza  bene 
caratterizzare  rispettivamente    il    pra 


tico,  il  contemplativo  e  il  meditativo, 
dicendo  che  posseggono  una  intelli- 
genza muscolare,  una  intelligenza  ner- 
vosa, e  una  intelligenza  cerebrale.  Per- 
chè nulla  mancasse  alla  sua  esplorazione 
noologica,  che  vuole  costituire  come  la 
tavola  di  fondazione  di  una  nuova 
scienza,  il  Mentre  non  manca  di  regi- 
strare le  espressioni  somatiche  dei  tipi 
di  intelligenza  da  lui  classificati,  e  di 
chiamare  a  rincalzo  dei  suoi  risultati 
la  chirologia  (destinata  a  prendere  il 
posto  della  chiromanzia,  come  l'astro- 
nomia ha  soppiantato  l'astrologia)  e  la 
grafologia. 

Scavi  in  Laguna. 

Nell'articolo  Lagune  venete  pubbli- 
cato nel  fascicolo  1°  ottobre  1921,  la 
nota  I  a  pag.  233  andava  preceduta 
da  questi  paragrafi  che  per  errore  non 
furono  compiuti. 

L' ingegnere  F.  C.  Rossi,  capo  del 
Genio  Civile  di  Venezia,  poi  ispettore 
nel  Consiglio  Superiore  dei  lavori  pub- 
blici, desiderava  aggiungere  a  questa 
sua  proposta  di  bonifica  lagunare  un 
rilievo  topografico  su  cui  differenziare 
le  paludi  emergenti  dall'alta  marea; 
egli  avrebbe  voluto  depositarvi  i  fan- 
ghi scavati  nelle  vicine  barene  a  fior 
d'acqua,  creando  bacini  profondi  quanto 
basta  per  allevare  pesci  e  molluschi, 
facendo  al  tempo  stesso  sparire  le  feb- 
bri malariche  dalla  testata  del  ponte 
della  ferrovia,  e  triplicando  il  volume 
e  la  velocità  dell'acqua  di  mare  che 
entra  dai  porti. 

Nel  mio  articolo:  The  Lagoons  of 
Fenice,  una  fotografia  dall'alto  della 
torre  di  Torcello  mostra  il  deplorevole 
abbandono  delle  lagune  circostanti,  che 
non  ricevono  più  nemmeno  la  vente- 
sima parte  dell'acqua  marina  di  cui 
sarebbero  capaci,  perchè  ostruite  da 
sedimenti  e  vegetazione  salmastra. 

Dopo  eseguite  le  prime  fotogramme- 
trie con  l'areostato  militare  di  Monte 
Mario,  esortai  l'unico  patrono  che  aves- 
se allora  l'aviazione  italiana,  il  capi- 
tano Moris,  di  far  fotografare  a  zone 


TRA    I  iBRI    E    RIVISTE 


193 


le  nostre  lagune  durante  il  flusso  ed 
il  riflusso  marino,  per  documentare 
l'importanza  relativa  dei  vari  gruppi 
di  barene  e  paludi  che  la  marea  stenta 
ora  a  raggiungere. 

Prima  che  venissero  demoliti  i  fon- 
damenti della  torre  di  S.  Marco,  trac- 
ciai alla  base  dei  più  antichi  edifici 
monumentali  di  Venezia  e  delle  isole 
attigue,  una  livellazicme  estesa  alle 
prealpi,  per  determinare  ogni  variante 
nell'abbassarsi  di  circa  nove  centimetri 
al  secolo  dei  banchi  argillosi,  stratifi- 
cati orizzontalmente  di  torba,  sotto  le 
fanghiglie  lagunari;  banchi  della  po- 
tenza di  centinaia  di  metri,  i  quali,  co- 
stipandosi e  restringendosi,  attenuano 
il  danno  recato  dagli  scoli  di  terra- 
ferma, dalle  sacche  e  da  altre  inique 
concessioni  a  privati  sfruttatori  della 
laguna.  {g.  b.). 

La  questione  romana. 

Guglielmo  Quadrotta  può  già  regi- 
strare come  un  proprio  successo  di 
aver  contribuito  in  notevole  misura, 
col  suo  volume  La  Chiesa  cattolica 
nella  crisi  universale,  con  particolare 
riguardo  ai  rapporti  fra  Chiesa  e  Stato 
in  Italia  (Roma,  Bilychnis,  1921),  a 
suscitare  quel  fervore  di  polemiche  e 
di  proposte  intorno  alla  questione  ro- 
mana, su  pei  giornali  italiani  ed  esteri, 
di  cui  il  comm.  Giannini  ha  testé  rac- 
colto l'eco  migliore  in  un  fascicolo 
semiuffìcioso,  edito  sotto  gli  auspici 
dell'  Ufficio  Stampa  del  Ministero  degli 
Esteri  :  Una  nuova  discussione  sui  rap- 
porti tra  Chiesa  e  Stato  in  Italia  (Ro- 
ma, Libreria  di  Scienze  e  Lettere, 
1921).  Evidentemente  la  situazione  in- 
ternazionale scaturita  dalla  guerra,  l'ac- 
cresciuta efiìcienza  politica  del  ponti- 
ficato romano  nella  diplomazia  post- 
bellica, in  particolare  la  ripresa  dei 
rapporti  regolari  fra  la  Santa  Sede  e 
la  Repubblica  francese,  hanno  improv- 
visamente conferito  all'annoso  proble- 
ma una  subita  maturità  e  una  impro- 
rogabile urgenza.  Sono  ancora  molto 
discussi  in  Italia  e  all'estero  gli  studi 


importantissimi  del  sen.  F.  Rufiìni  pub- 
blicati in  questa  Rivista. 

Il  Quadrotta  ha  fornito,  per  il  suo 
esame  oggettivo,  una  messe  abbon- 
dante di  dati  positivi  e  di  principi 
teorici.  Dopo  avere  in  un'ampia  e  ni- 
tida prefazione  illustrata  in  maniera 
esauriente  la  posizione  attuale  della 
Chiesa  cattolica  nel  mondo  e  la  neces- 
sità della  revisione  dei  suoi  rapporti 
con  l'Italia,  egli  ha  rievocato,  con  am- 
pia documentazione,  gli  atti  pubblici 
più  salienti  compiuti  dal  Papato  du- 
rante il  conflitto  europeo.  Il  pontificato 
di  Benedetto  XV  è  stato  cosi  studiato 
helle  manifestazioni  più  rilevanti  e  più 
delicate  della  sua  attività.  Addentran- 
dosi quindi  nell'esame  specifico  della 
situazione  creata  al  Pontificato  dalla 
costituzione  dell' Italia  ad  unità  nazio- 
nale, e  nella  valutazione  della  legge 
delle  guarentigie  e  della  sua  effettiva 
praticità,  il  Quadrotta,  che  per  tutto  il 
volume  dà  prova  di  un  sereno  equili- 
brio di  giudizi  e  di  previsioni,  con- 
clude con  l'afiermare  esplicitamente 
che  «  ormai,  risolti  i  problemi  di  più 
vivo  e  immediato  interesse  per  la  vita 
dello  Stato,  anche  il  complesso  pro- 
blema dei  rapporti  fra  Stato  e  Chiesa 
deve  essere  affrontato  e  risolto  da  un 
governo  che  voglia  veramente  rifare 
V  Italia.  Forse  per  nessuna  questione 
l'Italia  ha  uomini  più  competenti  e 
autorevoli  per  la  profondità  degli  studi 
e  il  prestigio  nazionale:  probabilmente 
nessun  periodo  storico  ne  offrirebbe 
più  eguali.  Se  un  governo  dovesse 
dare  l'incarico  ad  una  commissione 
nazionale  tratta  dal  Parlamento  e  dalle 
Università  per  preparare  un  progetto 
di  legge  che  risolvesse  le  due  formi- 
dabili questioni  dei  rapporti  dello  Stato 
con  la  Chiesa  e  del  riordinamento  della 
proprietà  ecclesiastica,  non  si  trove- 
rebbe certo  in  imbarazzo  ». 


Che  anche  da  parte  ecclesiastica  si 
ritenga  giuntò  ormai  il  momento  pro- 
pizio per  risolvere  ed  appianare  con 
spirito    di    conciliante    longanimità    il 


194 


TRA   LIBRI   E  RIVISTE 


I 


vecchio  dissidio,  appare  da  mille  in- 
dizi. Tra  questi  va  posto  in  prima 
linea,  a  nostro  parere,  il  saggio  del 
P.  Nazzareno  Casacca  (//  Papa  e  l'Ita- 
lia. La  fine  del  dissidio.  Roma,  Buf- 
fetti, 1921),  teste  apparso  in  una  terza 
edizione,  notevolmente  ampliata  e  mi- 
gliorata. L'autore  di  questa  monogra- 
fia, colto  e  versatile  agostiniano,  che 
gode  largo  e  meritato  credito  in  Va- 
ticano, non  può  evidentemente  enun- 
ciare osservazioni  e  azzardare  ipotesi 
e  previsioni  cui  non  sia  stata  garantita 
in  anticipo  una  certa  sanzione  eccle- 
siastica. 11  Casacca  premette  in  alcuni 
capitoli  introduttivi  le  nozioni  indi- 
spensabili sulla  figura  morale,  teologica 
e  giuridica  del  Papato,  perchè  sia  pos- 
sibile valutare  convenientemente  le  ri- 
vendicazioni della  Santa  Sede,  dopo 
la  occupazione  di  Roma  e  la  legge 
delle  guarentigie.  Quindi  esamina  que- 
sta legge,  di  cui  riproduce  il  testo,  e 
ne  indaga  l'inconciliabilità  sostanziale 
con  quella  assoluta  e  suprema  autono- 
mia e  insindacabilità  del  potere  ponti- 
ficale, che  rappresenta  una  esigenza 
inalienabile  della  società  cattolica.  Ma 
la  parte  più  notevole  del  volume  è 
quella  in  cui  il  Casacca,  distinto  sot- 
tilmente il  dominio  spirituale  da  quello 
tetnporale  e  da  quello  territoriale;  de- 
finito quello  temporale  come  il  domi- 
nio mediante  il  quale,  con  un  sistema 
di  leggi  e  di  regolamenti  ecclesiastici 
■costituenti  il  forum  interno  ed  esterno 
della  Chiesa,  il  Papa  guida  autorevoi 
mente  i  cristiani  nella  vita  del  tempo 
e  regna  visibilmente  su  di  essi  in  con- 
formità della  natura  del  cristianesimo 
e  di  questa  chiesa,  che  appunto  è  vi- 
sibile e  temporale  :  circoscrive  senza 
eufemismi  «  le  pretese  del  Papa  »  in 
fatto  di  rivendicazioni  politiche  ed  enu- 
mera i  vantaggi  che  potrebbero  sca- 
turire dal  loro  leale  e  cordiale  soddi- 
sfacimento. Tali  pretese,  ormai  netta- 
mente delimitate,  si  riducono  in  fondo 
a  domandare  che  su  un  tratto  qual- 
siasi di  territorio,  sia  pure  infinitamente 
esiguo,  sia  riconosciuta  di  comune  ac- 
cordo   e    sanzionata    ufficialmente    la 


piena  ed  assoluta  sovranità  del  Pon- 
tefice, che  lasci  aperta  e  chiara  al 
cospetto  del  mondo  la  sua  supernazio- 
nalità.  u  La  sovranità  del  Papa,  conse- 
guenza della  sovranità  papale  propria- 
mente detta  —  scrive  il  Casacca  — 
per  le  sue  dimensioni  e  per  la  sua 
natura  non  solo  non  danneggerebbe 
afi"atto  l'unità  e  l'integrità  della  nazione 
e  del  popolo,  ma  sebbene  indipendente, 
concorrerebbe  anzi  a  moralmente  for- 
marla. Non  si  tratta  di  distaccare  una 
parte  di  territorio  da  darsi  ad  altra 
nazione,  nemica, che  potrebbe  eventual- 
mente rivolgerla  contro  l'Italia  stessa; 
ma  solo  di  riconoscere  nel  Papa,  nel- 
l'amico, nel  benefattore  il  suo  preesi- 
stente diritto  di  occuparne  pel  suo 
ufficio  una  porzione  quasi  trascurabile 
pel  maggiore  bene  dell'Italia  e  di  tutta 
l'umanità  ». 

Quando  pochi  mesi  or  sono  compa- 
riva la  seconda  edizione  del  volumetto 
del  Casacca,  qualche  recensionista  do- 
mandava all'autore  che  uscisse  daller 
ultime  genericità  e  dicesse,  chiaro  e 
tondo,  quali  avrebbero  dovuto  essere 
le  proporzioni  del  territorio  infinitesi- 
male, su  cui  dovrebbe  instaurarsi  la 
riconosciuta  sovranità  del  Pontefice, 
onde  avviare  la  questione  sul  sentiero 
della  sua  sollecita  sistemazione.  Il  Pa 
dre  Casacca  ha  raccolto  prontamente 
l'invito  e  nel  e.  XIII  di  questa  terza 
edizione  si  sforza  di  uscire  dalle  ge- 
neralità, per  lasciare  intendere,  sempre 
approssimativamente,  quale  potrà  es- 
sere l'ampiezza  del  territorio  soggia- 
cente alla  sovranità  papale.  «  Le  esi- 
genze del  Papa  in  materia,  egli  dichiara, 
saranno  corrispondt:nti  e  proporzio- 
nate al  triplice  titolo  della  sua  dimora, 
dei  suoi  uffici,  del  suo  decoro  ».  Non 
siamo  ancora,  come  si  vede,  alla  enun 
dazione  chiara  e  tonda  delle  rivendi- 
cazioni territoriali  pontificie,  ma  siamo 
già  sull.'i  buona  strada  della  ragione- 
volezza e  degli  accomodamenti.  Il  re- 
sto verrà  in  sede  di  trattative,  le  qual; 
tutto  considerato,  potrebbero  anchr 
non  essere  eccessivamente  lontane. 

(e.  b). 


TRA    LffiRI    E    RIVISTE 


195 


"  Vittoria  ,  di  Giorgio  Meredith. 

La  Nuova  Antologia  ha  presentat* 
all'Italia  Giorgio  Meredith  pubblicando 
tradotto  uno  dei  suoi  capolavori:  Diana 
{iP  settembre  1906-1°  dicembre  1906). 
|J  Del  fascino  che  l'Italia  per  le  sue 
bellezze  naturali  e  per  la  sua  storia 
esercitò  sull'animo  dell'insigne  roman- 
ziere, ha  parlato  in  questa  stessa  Ri- 
vista Laura  Torretta  in  uno  studio: 
Giorgio  Meredith  e  l'Italia  (16  dicem- 
bre 1915).  Annunziamo  perciò  con  molta 
soddisfazione  la  traduzione  di  Vittoria 
(Firenze,  L.  Battistelli  editore,  voi.  2") 
fatta  dal  prof  Piero  Rebora,  docente 
di  Letteratura  Italiana  all'Università  di 
Liverpool.  Il  traduttore  ha  superato  le 
difficoltà  formidabili  del  testo  —  il 
Meredith  è  uno  scrittore  cerebrale  as- 
sai complicato  non  alieno  da  preziosità 
di  gusto  raffinato,  vago  di  raffronti 
inattesi  e  di  metafore  ardite  —  con 
tatto  sagace  senza  perdere  la  specifica 
struttura  del  periodare  dell'Autore,  lot- 
tando trionfalmente  coU'originale. 

Vittoria  ha  per  isfondo  la  Lombar- 
dia nel  biennio  del  1847-48,  cioè  la 
vigilia  di  preparazione  e  il  periodo  di 
esplosione  delle  energie  nazionali  per 
l' indipendenza  e  la  tumultuosa  e  sfol- 
gorante vicenda  delle  cinque  giornate. 
La  protagonista  del  romanzo,  creatura 
entusiasta  d'istinto  e  d'impeto,  rispec- 
chia neir  intendimento  dell'Autore  le 
qualità  migliori  della  donna  italiana. 
Accanto  ad  essa  la  società  lombarda, 
divisa  da  amori  e  da  odi,  ma  tutta  av- 
volta dalla  stessa  atmosfera  quarantot- 
tistica.  Le  virtù  dei  nostri  patrioti,  le 
rare  doti  della  nostra  stirpe  non  meno 
dei  difetti  gravi,  e  sopra  tutti  l'indivi- 
dualismo prepotente  che  fomenta  le 
discordie,  sono  riprodotti  con  fedeltà 
<ii  storico  e  genialità  d'artista.  Mazzini 
appare  solo  al  principio  del  romanzo 
a  concertare  i  mezzi  e  il  momento 
dell' insurrezione;  ma  per  tutto  il  corso 
•dell'azione  si  sente  la  sua  presenza  di 
fatto,  più  che  sulle  edizioni  tedesche, 
sulle  nostre:  e  magari  sulle  più  pure 
e  antiche. 


Oggi,  che  Giovanni  Chiantore  ha 
pubblicato  moltissimi  libri  col  suo  no- 
me (e  si  vedano  VEros  del  Bignome 
e  le  riedizioni  del  Graf  recentissime), 
curati  e  studiati  anche  nei  particolari 
esterni  da  lui,  questa  convinzione  di- 
venta più  fondata:  e  noi,  poiché  egli 
ci  promette  oltre  che  ristampe  di  opere 
Loescher  esaurite,  anche  studi  nuovi 
di  filosofia  classica,  di  letteratura  ita- 
liana e  straniera,  di  testi  per  le  scuole, 
aspettiamo  con  fede  che  la  ditta'Loe- 
scher,  ora  scomparsa,  diventi  del  tutto 
italiana  nella  veste  esteriore  e  nel  con- 
tenuto: cosicché  i  due  nomi,  del  fon- 
datore e  del  successore,  si  confondano 
un  giorno  e  solo  si  possa  dire,  poiché  • 
questa  attività  si  svolse  del  resto  in 
Italia,  che  essa  è  se  non  d'origine,  al- 
meno nei  risultati,  nostra.  (/.  w.). 

Un  diario  di  guerra. 

Quando  verrà  il  tempo  in  cui  lettori 
comuni  e  critici  ricerchino,  con  viva 
curiosità  ed  ammirazione,  la  miglior 
nostra  letteratura  di  guerra?  Non  pre- 
sto, credo;  ma  vena,  e  si  ripeterà.  Ci 
vorranno  animi  caldi,  generosi  e  in- 
sieme pacati,  per  rivivere  e  intendere 
ciò  che  grandi  avvenimenti  ed  arte 
abbiano  durevolmente  costrutto.  I  diari 
polemici  dei  duci,  fortunati  o  no,  da- 
ranno allora  forse  ben  poco  per  que- 
sta letteratura,  perchè  essi  saranno 
piuttosto  d'interesse  storico;  pochis- 
simo forse  teatro,  novellistica,  romanzo, 
e  memorie,  sostanzialmente  interes- 
santi, ma  artisticamente  meschine.  Nella 
miglior  letteratura  di  guerra  pare  a  me 
che  un  posto  notevole  debba  avere  un 
volumetto  modesto,  ma  bello  e  buono. 
Modesto,  sì,  per  varie  ragioni.  Eviden- 
tissime: copertina  con  titolo  soltanto, 
nome  d'autore,  sigla  della  ditta  edi- 
trice (Zanichelli,  Bologna);  mole  (ap- 
pena 154  pp.).  Modesto,  perchè  finora 
passato  quasi  sotto  silenzio,  pur  avendo 
avuto  l'onore  del  premio  letterario  A. 
Cantoni,  e  pur  essendo  opera  d'un 
giovine,  che  compie  l'ufficio  di  critico 
con  molta  serietà  e  valentia.  Ma  forse 


196 


TRA    LIBRI    E    RIVISTE 


quest'ufficio  spiega  in  parte  il  silenzio? 
o  una  certa  sazietà  d'opere  del  gene- 
re? o  ritrosia  pudica  dell'autore  a  farsi 
battere  la  gran  cassa  di  quotidiani  e 
d'avvisi  editoriali,  che  in  ogni  libro 
annunziano  per  lo  meno  un  capolavoro 
non  mai  visto?  Comunque  sia,  il  libro 
merita  d' essere  conosciuto;  e  mi  piace 
additarlo,  nella  speranza  che  una  nu- 
merosa parte  dei  lettori  di  questo  au- 
torevole periodico  lo  cerchi,  lo  cono- 
sca bene  e  lo  divulghi. 

Il  Tonelli,  poco  dopo  iniziata  la 
nostra  guerra,  lascia  scuola  e  studi, 
per  essere  un  comune  combattente. 
Tale  resta,  perchè  vuol  restare,  finché 
non  dev'essere  un  ufficiale.  Soldato  e 
ufficiale,  si  trova  in  più  luoghi  della 
fronte,  compiendo  esemplarmente  il 
proprio  dovere,  tanto  da  meritarsi  una 
medaglia  al  valore.  E'  ferito;  fa  un  po' 
di  vita  d'ospedale,  e  di  convalescente  ; 
ritorna  sulle  Alpi  ;  cade  prigioniero 
per  il  nefasto  Caporetto;  vive  in  paesi 
di  dura  prigionia  con  soldati  e  ufficiali 
come  lui  ;  è  liberato  per  la  vittoria 
nostra,  dolente  di  non  essersi  trovato 
tra  coloro  che  le  avevan  dato  ali,  quali 
non  s'erano  viste  rfiai  e  non  si  ve- 
dranno forse  per  lungo  tempo  tra  com- 
battenti a  milioni.  Avrebbe  potuto  dire 
di  sé,  in  persona  prima  :  non  ha  vo- 
luto, per  giusti  motivi  :  ha  fatto  bene, 
anche  per  quello  dell'arte.  Il  suo  libro 
è  spigolatura  accorta  del  diario  sincero 
d'un  amico;  s'apre  il  24  giugno  1915. 
si  chiude  con  riflessioni  amare  sugli 
sciagurati,  che,  ineducati,  ingannati, 
gridarono  Viva  l' Austria,  tradendo  la 
Patria,  avendo  scontato  «  un  momento 
di  cieca  esasperazione  »  dopo  due  anni 
e  mezzo  di  guerra,  «  con  una  lunga 
prigionia,  che  per  tutti  significò  la  fa- 
me, la  malattia,  l'abbiezione  più  atro- 
ce ».  Animo  virile,  dopo  aver  combat- 
tuto fermamente,  schive  virilmente,  me- 
scolando alla  forza  la  tenerezza  filiale 
e  l'amorosa  (tra  le  armi  il  suo  pensiero 
e  il  suo  cuore  erano  spesso  richiamati 
alla  casa  paterna,  senza  la  madre,  per- 
ché morta,  e  a  una  giovane  amata, 
fatta  poi  sposa).  Più  che  fatti  numerosi 


e  diversi,  il  libro  è  anima  in  relazione 
al  tempo  :  di  qui  il  titolo,  parso  forse 
Cercato  e  inadeguato  a  qualcuno:  L'a- 
nima e  il  tempo  (sottotitolo  Stazioni 
spirituali  d'un  combattente).  Libro  bello, 
in  ogni  modo!  perchè  ben  costrutto, 
sentito,  vario,  umano  (quanti  brani  di 
vera  poesia,  qua  e  là,  o  per  scene  di 
natura,  o  per  ricordi  domestici,  o  per 
aneliti  verso  la  «  Piccoletta  »,  o  per 
meditazioni  e  gagliardi  incitamenti  di 
Italiano!);  libro  buono,  anche!  perchè 
la  sostanza  di  esso  é  una  sola  cosa 
con  l'arte,  da  cui  codesta  sostanza  è 
semplicehiente,  ma  pur  magistralmente 
foggiata.  Le  pagine  finali  sono  indi- 
menticabili, come  certi  quadri  epici  e 
certe  scene  grandiose  di  natura;  degne 
lor  sorelle  sono  quelle  della  rotta  sul- 
l'Altipiano, sulla  prigionia.  Esso  reste- 
rà. Piace  intanto  sperare  che  non  tardi 
ad  essere  largamente  conosciuto  ;  ciò 
che  vorrà  dire  ammirato  e  tenuto  caro 
coi  più  cari.  (G.  Lesca). 

Piscicultura  olandese. 

Oltre  che  dalle  pesche  d'alto  mare, 
l'Olanda  trae  molto  profitto  dalle  fa- 
mose aringhe  e  dalle  acciughe  che 
abbondano  vicino  alla  costa.  Lo  Zui- 
der  Zee,  il  Wadden  Zee,  lo  Zeeland 
e  gli  estuari  meridionali  olandesi  son 
tutto  un  vivaio  di  pesci,  di  crostacei 
di  molluschi,  esercitati  da  cooperativa, 
come  V Ansjovisverkoopverecniging  di 
Amsterdam,  fruttavano  l'anno  scorso 
22  milioni  di  chili  di  pesce,  7  milioni 
di  chili  di  gamberi  o  d'altri  crostacei, 
e  51  milioni  di  chili  di  molluschi,  dV- 
striche  e  telline. 

Una  diga    all'  imbocco  della  Zui(i 
Zee  lo  trasforma  in  laguna,  dove  g 
si  coltivano    magnifiche    aragoste,   ac- 
ciughe, anguille  e  grossi  gamberi.  N(  1 
Zeeland  le  scuole  di  piscicultura  hani 
iniziato    la    coltivazione  artificiale  d 
crostacei,    e    l' anno    scorso    produc 
vano  28520  aragoste  e  mandavano 
Germania  un  milione  e  mezzo  di  ci 
logrammi  d'aringhe  affumicate. 

Una  specialità  nel  commercio   olan- 


TRA    LIBRI    E    RIVISTE 


197 


dese  del  pesce  sono  le  acciughe,  che 
migliorano  tenendole  salate  in  barili, 
ankers,  di  trenta  chili  ciascuno.  Non 
meno  di  190,000  barili  venivano  con- 
sumati in  un  solo  anno  per  antipasti 
dalle  birrerie  tejdesche.  Pesce  mediter- 
raneo, le  acciughe  emigrano  nell'Atlan- 
tico e  verso  l'aprile  moltitudini  di  fem- 
mine entrano  nella  Zutder  Zee  a  deporre 
le  uova  della  nuova  generazione  che 
matura  durante  l'estate. 

La  piscicultra  in  Olanda  è  affidata 
ad  un  dipartimento  speciale  dal  mini- 
stero delle  industrie  con  un  ispettore 
capo,  con  27  ispettori  tecnici  e  un  mi- 
lione e  mezzo  di  franchi  in  oro  per 
sussidi  e  premi  d' incoraggiamento  ; 
senza  contare  le  scuole  e  le  stazioni 
sperimentali  nella  costa  del  Sceland,  i 
porti,  i  vivai,  le  riserve  e  i  gli  Aquari 
scientifici  od  industriali  di  Ymuiden  e 
nel  mare  del  Nord,  che  vivono  d'al- 
tri proventi. 

From  Waterloo  to  the  Marne. 

È  questo  il  titolo  che  il  libro  di  Pie- 
tro Orsi,  Gli  ultimi  cento  anni  di 
storia  universale,  ha  assunto  nella  tra- 
duzione inglese,  uscita  ora  in  una  ma- 
gnifica edizione  dell'editore  Collins  di 
Londra*. 

L'avere  un  editore  inglese  scelto  un 
libro  italiano  per  illustrare  la  storia 
mondiale  dell'ultimo  secolo  è  una  prova 
sicura  delle  qualità  singolari  del  libro. 
Noi  ci  compiacciamo  di  averle  rilevate 
fin  da  quando  uscì  il  primo  volume 
in  italiano  presso  lo  Sten  di  Torino  ; 
noi  facemmo  notare  allora  l'abilità  del- 
l'Orsi  nel  saper  scolpire  con  pochi 
tratti  di  penna  un  personaggio  storico 
e  nel  saper  condensare  in  un  partico- 
lare episodio  lo  spirito  di  un  fatto  ed 
il  carattere  di  un  ambiente,  il  suo  giu- 
sto senso  della  misura  che  nell'  im- 
menso materiale  dei  fattigli  fa  sceglie- 
re, coordinare  ed  armonizzare  quelli 
che  sono  veramente  essenziali,  la  im- 
pidità  del  pensiero  e  dello  stile  e  l'alta 
serenità  colla  quale  parla  degli  uomini 
e  delle  cose  più  discusse. 


\[  libro  dell'Orsi  servirà  a  diffondere 
presso  il  pubblico  inglese  cognizioni 
esatte  sopra  noi  ed  il  nostro  modo  di 
vedere  negli  avvenimenti  deha  storia 
contemporanea;  e  ciò  co.stituisce  un 
grande  vantaggio  pel  nostro  paese. 

In  biblioteca. 

Molti  anni  fa  Cammillo  Checcucci 
pubblicò  presso  gli  editori  Bocca  un 
suo  poema:  Vita.  Vita  davvero,  per- 
chè in  quelle  pagine  vibrava  qualcosa 
di  nuovo,  di  originale,  di  ardimentoso; 
e  il  canto  pareva  fiamma  che  investisse 
e  avvolgesse  l'universo,  la  terra,  l'ac- 
qua, l'aria,  la  luce,  il  regno  minerale 
e  vegetale,  l'etere,  la  forza  e  la  ma- 
teria... Ci  fu  chi  levò  a  cielo  l'opera 
del  nuovo  sconosciuto  poeta,  sì  da 
paragonarlo  al  Leopardi,  e  chi  ne  disse 
poco  bene,  se  non  corna  addirittura. 
Come  sempre  in  tutte  le  cose,  la  via 
di  mezzo  sarebbe  stata  la  giusta.  11 
Checcucci  sentiva  fortemente  e  forte 
mente  significava;  ma,  a  intermittenza. 
Disuguali  per  altezza  di  concepimento 
i  canti,  disuguali  per  struttura  e  forma 
le  strofe:  un  momento  d'impeto  lirico 
maraviglioso,  un  altro  fiacco  e  meschi- 
no; una  frase  altamente  poetica  e  com- 
prensiva, un'altra  inadeguata,  sciatta, 
volgare.  Un  miscuglio,  insomma,  di 
vera  e  propria  poesia  e  di  prosa  trita 
e  pedestre.  Nell'insieme,  tuttavia,  co- 
me abbiamo  notato,  un  qualcosa  di  vi- 
goroso che  faceva  pensare  e  rapiva 
ed  esaltava. 

Non  si  parlò  più  di  lui  per  molto 
tempo,  ed  egli  tacque  per  molto  tempo. 
Fece  una  breve  apparizione  di  nuovo 
nel  campo  letterario  pochi  anni  fa 
quando  il  Le  Monnier  ripubblicò  quel 
poema  nella  «  Biblioteca  Nazionale  », 
in  seconda  edizione.  Ma,  ch'io  sappia, 
nessuno  se  ne  accorse  o  mostrò  di 
accorgersene  :  forse,  e  soprattutto,  a 
cagione  dei  tempi  assai  poco  propizi  al- 
l'arte in  genere  e  alla  poesia  in  ispecie. 
Ora  egli  pubblica  ancora  (editore  il 
Cappelli)  il  suo  poema,  ma  con  un 
titolo  nuovo  :  //  Miracolo,  e  con   mo- 


198 


TRA    LIBRI    E    RIVISTE 


difìcazioni,  direi  quasi,  radicali,  con 
giunte  e  correzioni  che  non  possono, 
paraltro,  alterare  il  primitivo  giudizio 
sull'opera.  E'  un  rifacimento  che,  in 
parte,  non  elimina  i  difetti  della  prima 
redazione;  c'è  anzi  da  dubitare  che 
li  accresca,  con  le  non  poche  ridon- 
danze, disuguaglianze,  espressioni  va- 
ghe, inafferrabili  |e  di  poca  consisten- 
za. L'ultimo  canto.  Dio,  a  nostro  av- 
viso, è  il  più  bello. 


* 
*  * 


I. 


Una  nuova  edizione  delle  Odi  del 
Parini  è  dovuta  alla  instancabile  ope- 
rosità di  Angelo  Ottolini,  il  quale,  non 
soltanto  ha  arricchito  di  note  assai 
pregevoli  il  testo,  ma  lo  ha  fatto  pre- 
cedere da  una  assennata  introduzione, 
il  volumetto  fa  parte  della  «Collezione 
Universale  »,  iniziata  da  qualche  tempo 
dal  Caddeo  di  Milano  con  larga  sim- 
patia e  fortuna. 

E  l' Ottolini  ci  dà  anche  un'ottima 
scelta  di  liriche  di  Ugo  Foscolo  (Fi- 
renze, Bemporad),  uno,  ben  dice  l'edi- 
tore, dei  più  grandi  poeti  che  mai 
siano  stati,  perchè  con  lui  la  lettera- 
tura si  empie  di  contenuto  civile  più 
pressante,  più  vivo,  più  dolorante  che 
non  fosse  nel  Parini  e  nell'Alfieri,  i 
quali  non  si  erano  immersi,  come  lui, 
nella  corrente  dei  tempi.  Tra  gli  stu- 
diosi del  Foscolo,  TOttolini  è  uno  dei 
più  diligenti  e  coscienziosi,  ed  è  re- 
cente la  sua  nobile  fatica:  Bibliografia 
foscoliana.  Nessuno,  pertanto,  meglio 
ui  lui  poteva  darci  una  scelta  ben  fatta 
delle  liriche  del  sommo  poeta  dei  Se 
polcri.  La  intraduzione  e  le  note,  co- 
piosissime, sono  quanto  di  meglio  si 
possa  desiderare.  Avremmo  desiderato 
che  nel  volume  qualche  saggio  delle 
Grazie  non  fosje  mancato. 

Grafistoria  della  Regione  Italica. 

Un  grande  storico  italiano  lasciò 
scritto  che  la  storia  «  serve  come  rac- 
colta di  sperimenti  passati  ad  uso  di 
coloro  che  operano  il  presente  mirando 
all'avvenire  della  Patria  ». 

Vera    per   tutte  le   Nazioni,  questa 


tesi  ha  tanto  maggior  valore  per  l'Ita 
lia  in  quanto  essa  sola  ha  attraversato 
periodi  secolari  di  disordine  politico 
o  di  dominazione  straniera,  causati 
dalla  mancanza  del  sentimento  di  unità 
e  di  indipendenza  sia- nei  popoli  sia 
nei  loro  dirigenti. 

Tanto  più  grande  quindi  deve  essere 
l'interessamento  di  ogni  buon  italiano 
per  conoscere  il  passato  della  sua  Pa- 
tria, senza  indugiarsi  sugli  sterili  vanti 
di  essere  stati  la  prima  potenza  fra 
le  antiche,  la  prima  in  coltura  fra  le 
moderne.  E  il  freddo  e  virile  esame 
delle  situazioni  di  decadimento  che  ne 
metterà  in  luce  le  cause  e  spronerà  ad 
evitarle  in  avvenire. 

Per  conseguenza  sono  altamente  be- 
nemeriti i  cultori  delle  discipline  sto- 
riche che  colle  loro  opere  —  e  ne  ab- 
biamo di  grande  valore  —  divulgano 
la  conoscenza  del  nostro  passato  e 
coloro  che  facilitano  questa  conoscenza 
con  mezzi  che  solamente  il  grande 
amore  per  la  causa  può  suggerire  e 
concretare. 

E'  dell'opera  di  uno  di  questi  stu- 
diosi che  vogliamo  qui  parlare,  della 
Grafistoria  della  Regione  Italica  di 
E.  Ripamonti  Carpano.  (A.  Vallardi, 
Milano). 

Essa  è  raccolta  in  io  grandi  fogli, 
ciascuno  dei  quali  contiene  grafici  e 
cartine,  a  colori  smaglianti,  delle  an- 
notazioni e  dei  ricordi  storici. 

Il  grafico  del  primo  foglio  espone 
la  storia  delle  varie  regioni  e  provin- 
ce italiane  (ed  anche  di  singole  città 
se  ebbero  governo  particolare)  dalla 
fondazione  di  Roma,  anno  754  av.  C, 
al   1918. 

In  fogli  successivi  sono  disegnate, 
sempre  a  colori,  le  seguenti  genealogie: 

Re  Ostrogoti  e  Re  Longobardi  — 
Re  d'Italia  Carolingi  e  nazionali  —  Si- 
gnori e  Duchi  di  Milano  —  Signori  e 
Duchi  di  Modena  e  Ferrara  —  Casa 
Savoia  —  Re  di  Napoli  e  Sicilia  (dai 
Normanni  ai  Borboni)  —  Duchi  di  Par- 
ma e  Piacenza  —  Signori,  Duchi,  Gran- 
duchi  di  Toscana  e  Re  d'Etruria  — 
Imperatori  e  Re  tedeschi  ed  austriaci 


TRA    LIBRI  E   RIVISTE  199* 

che  dominarono  in  Italia  —  Marchesi  Per  i  bimbi  Balducci. 

e    Duchi    del    Monferrato  —  Signori, 

Marchesi  e  Duchi  di  Mantova.  Nel  pubblicare  questa  nuova  lista,. 
Infine  in  altro  interessantissimo  gra-  ripetiamo  l'espressione  della  nostra 
fico  è  descritta  la  Regione  Italica  du-  gratitudine  agli  amici  ed  ai  collabora- 
rante  la  rivoluzione  francese(i789-8i5).  tori  per  il  loro  cortese  concorso,  ono- 
Nei  IO  fogli  sono  altresì  incise,  a  co-  rati  di  inscrivere  tra  essi  il  nome  di  S.. 
lori,  9  caritne  che  in  modo  nitidissimo  £  Ivanoe  Bonomi,  Presidente  del  Con- 
rappresentano   Ja    situazione    politica  ^-^^-^  ^^.  Ministri,  che   volle   darci  il 

d'ItaUa    negli    anni    noi,  1493,  1713,  *    u  »  1 

o        o  o  000  o  suo  contributo  personale  come  antico 

1789,  1803,  1810,  1848,  1870  e  1918.  -   ,  ,         „  ,  ,  „  ^. 

Le    annotaztom    che    si    riferiscono  e  fedele  collaboratore  della  nostra  Ri- 

alla  vita  ed  opere  dei  personaggi  più  vista  : 

importanti  compresi   nelle  genealogie,  „   „   ,  _. 

.    ■  ,•      ;     •       •   *      °i  *•    r„„    ;  S.  E.  Ivanoe  Bonomi L.    S'>o 

ed   1   ricorat    storta,  intercalati    ira   1  ^     ,^^  ^.         ^  „        '.  ^ 

e  •  •    1-  i     j-  Cir.  Uff.  Pietro  Caffarel h     ....     ino 

grafici,  servono   meravigliosamente  di  ^         ^      ...     ^ 

.,,     .       •  j.  11.-   „„    j^i  Conte  Camillo  Spingardì to 

illustrazione  e  danno    ali  insieme   del  .,    .,         ^  v    o       -  •    •      o" 

lavoro  il  carattere  di  un  completo  sunto  r>'       d  ^ 

storico  pregevolissimo.  ^^""^  ^1"'^' 5'- 

Questa  descrizione,  sebbene  schele-  d    r  n     '       '         ^^ 

trica,  sarà    sufficiente    per  dimostrare  '^^°^-  ^-  ^albucci 50 

l'utilità  dell'opera:  per  ogni  buon  ita-  Istituto  Storico  Olandese  di  Roma    .      5. 

liano    desideroso  di  rinfrescare,  facil-  ^.g-na  Ma>ja  Hoogewerff    ....      ^. 

mente  e  piacevolmente,  i  suoi  ricordi  '^^^  ^^^^,^^^  "  Circolo  Verde  „  di 

storici;  per  gli  studenti  che  troveranno  ,         .,  j  ai      • 

'  ^      °     .  ,.     .  -,     rr-  Jean  Alaward  Algeri 30 

in  essa  un  rapidissimo  ed  emcace  au-  r-    1      n      n     •  r-     »  1 

.    *^         .  .     -  .  Giulia  Cavallari  Cantalamessa     .     .      20 

siilo    per    ripetere  1  corsi    frequentati  -,    ..  „•        t7  1 

,.  ^      .     ,r         ,.         .    ^         ^  .  '    Prot.  Diego  Valeri ao 

negli  anni  di  studio  ;    infine    pei  prò-  .      •    /-  7 

-   °     .  ...         .  '  .         ,.        ,        ,  Annie  Celu 20 

fessori  stessi  di  5tona,i  quali  malgrado  1-  .  •  •        d-  r-    *    • 

,  ,  j  ,,  Fabizio  e  Bianca  Cortesi 20 

la  padronanza  della  materia    avranno  ^     ^         ^,      di-  xt  ~. 

^  ...  .       .  Contessa  Olga  Penlipson  Numes.    .      20 

un  mezzo  tacile  e  pronto  per  rivedere  t-  /-         <- 

-  .      V  ^  .  Emma  Cossu-Cosenza 15 

un  fatto,  un  episodio,  una  successione,  „   „ 

una  data,  evitando  di  dover  sfogliare  ,,"  t^' 

,/        ,.,    ....     »  ^  V.  Pivera io 

e  consultare  libn  di  testo.  ,.        -,          •      i-    i-  ■ 

T  ,  1-    T-    T-.-  .•   ^  Dott.  Domenico  Carimi 10 

L  opera    di    L.  Ripamonti  Carpano  .  ,     t^  _. 

■^      ■:■  ,,  .   ,  Leonardo  Bertossa 10 

menta  di   essere    molto    conosciuta  e 

divulgata.  N^ìn 


/ 


LIBRI  E  RECENTI  PUBBLICAZIONI 


N.  G.  Barengo.  Demonietto.  — 
,  Vallardi,    Milano. 

A.  Barbieri.  Sua  Maestà  -Botuffo- 
lino.  —  Vallardi.  Milano. 

G.  Tarozzi.  Note  di  Estetica  sul 
«  Paradiso  »  di  Dante.  Firenze,  Le 
Monnier.    L.    5.50. 

P.  Iacchia.  Un  figlio  della  terra.  — 
«  Il  Solco  »,  Città  di  Castello.  L.  3.60. 

P.  Iacchia.  Il  sogno  di  Maia.  — 
«  Il  Solco  »,  Città  di  Castello.  L.  3.50. 

Novello  Papafava.  Appunti  mili- 
tari (1919-1921).  —  Taddei,  Ferrara. 
L.   8. 

E.  Raimondi  Vanni.  Il  buio  e  le 
stelle.  Fantasie  ritmiche.  —  Taddei, 
Ferrara.   L.  7. 

G.  Santini.  Al  di  là  della  Scienza 
e  del  Sistema.  Seconda  edizione.  — 
Firenze,    <(  La   Voce  ».    L.   5. 

E.  Bevii^cqua.  Il  problema  dei 
componimenti  scolastici.  —  Firenze, 
«  La  Voce  ».  L.  5. 

A.  Graziani.  Bìcardo  e  J.  S.  MiU. 
—  Laterza,   Bari.   L.   8.50. 

G.  Mosca.  Appunti  di  dintto  costi- 
tuzionale. Terza  edizione.  —  Socie- 
tà Editrice  Libraria,  Roma,  Milano, 
Napoli.   L.    16. 

M.  BoNTEMPELLi.  Viaggi  e  scoperte. 
Ultime  avventure.  —  Vallecchi,  Fi- 
renze. L.  6. 

A.  ViVANTi.  Gioial  —  Bemporad, 
Firenze. 

A.  V.  MiJLLER.  Una  fonte  ignota 
del  sistema  di  Lutero.  —  Quaderni 
di  «  Bilychnis  »,  n.  2,  1921.  L.  4. 


Per  intendere  le  teorie  di  Einstein. 

-  La  relatività.  Divulgazioni  scienti- 
fiche d'attualità.  —  Aliprandi,  Mi- 
lano. L.  3. 

R.  CoNTTJ.  Einstein.  Intorno  alla 
sua  opera  e  alla  sua  vita.  Estratti 
dalla  «  Scienza  per  tutti  ».  —  Son- 
zogno,  Milano.  L.  0.50. 

Hartmann  e  Kromayer.  Storia  Ro- 
mana. Trad.  di  G.  Cecchini.  Colla- 
na storica  a  cura  di  E.  Codionola.  — 
Vallecchi,   Firenze.   L.  10. 

C.  Pellegrini  Eugenio  Fromentin 
scrittore.   —  Taddei,   Ferrara.   L.   lÒ. 

E.  GiovANNBTTi.  Sotyricon.  Qua- 
derni della  «  Voce  ».  Prezzolini. 
L.   8.50. 

R.  Jesttrum.  Il  libro  della  noia. 
Quaderni    della    «  Voce  ».    Prezzolini. 

F.  DosTOiEvscHi.  Cuor  debole  -  Il 
piccolo  eroe.  Trad.  di  O.  Resnbvic. 
Quaderni  della  «  Voce  ».  Prezzolini. 
L.   6. 

A.  CoM ANDINI.  Il  1821.  Commemo- 
razione centenaria  con  23  illustrazio- 
ni e  bibliografia.  —  Treves.  Fuori 
commercio. 

A.  Monti.  L'idea  federalista  nel  Bi- 
sorgimento  Italiano.  —  Laterza,  Ba- 
ri. L.  8.50. 

F.  Db  Sanctis.  Manzoni.  Studi  e 
lezioni  a  cura  di  G.  Gentile.  —  La- 
terza,  Bari.   L.    12.50. 

L.  Pagliani.  La  costituzione  e  l'o- 
pera della  prima  direzione  della  So- 
cietà  Pubblica   in    Italia    (1887-1896). 

—  Biella,  Testa. 


PUBBLICAZIONI  STRANIERE. 


MAtTRioE  LB  Glat.  Bodda  fiUe  ber- 
bere et  autres  récits  marocains.  — 
Paris,    Librairie   Plon.   Fr.    7. 

H.  Lavedan.  Le  chemin  dit  salut- 
Gaudias.  2  voi.  —  Paris,  Librairie 
Plon.  Fr.   10. 

L.  RouGiER.  Im  structure  des  Theo- 
ries  Déductives  —  Paris,  Aloan. 
Fr.   7. 

C.  Gatjtibr.  L'Angleterre  et  nous 
—  Paris,   Grasset.    Fr.    7.50. 


H.  Robert.  Les  grands  procés  de 
l'histoire.  —  Paris,   Payot,  1921. 

M.  Vaitssard.  L'in-telliqence  Catho- 
lique  dans  l'Italie  du  XX  siede.  — 
Paris.   I.  Gabalda.   1921.   L.   10. 

G.  Hanotattx.  Histoire  de  la  Na- 
tion  Frnnfaise.  Tome  XII:  Histoire 
des  Lettres.  Premier  volume  par  Jo- 
seph Bédier,  Alfred  Jenrot  e  F.  Pi- 
OAVET.  —  Paris,  Plon. 


Ugo  Messiki,  Beapon»abile 


Roma  —  Dltt*  Armati  di  Mario  Ooorrior. 


LA  POLITICA  ECCLESIASTICA    ITALIANA 
ED  IL  PONTIFICATO  DI    BENEDETTO  XV 


Il  pontificato  di  Benedetto  XV,  di  quasi  quattro  anni  più  breve 
di  quello  dell' immediato  predecessore,  di  tanto  più  corto  dei  lunghi 
pontificati  —  ancora  così  presenti  —  di  Pio  IX  e  di  Leone  XIII,  si 
è  svolio  durante  il  tragico  periodo  della  guerra  europea,  ed  i  primi 
faticosi,  ed  in  apparenza  quasi  sterili,  tentativi  di  ricostruzione  dopo 
la  guerra.  Un  tale  papato  dovette  necessariamente  venir  considerato 
soprattutto  in  funzione  di  questi  eventi,  al  riverbero  loro:  tanto  più 
in  quanto  il  pontefice  fin  dalla  sua  elevazione  volle  non  rimanervi 
estraneo:  se  non  assunse  su  sé  quel  compito  anacronistico  ed  anti- 
storico, che  nel  fervore  dei  nazionalismi  esacerbati  gli  fu  rimprove- 
rato di  non  avere  assunto,  il  compito  di  giudice  universale  che  di- 
chiara la  ragione  ed  il  torto,  e  condanna  popoli  e  governi,  cercò  in 
ogni  modo  di  non  restare  estraneo  al  volgere  dei  tragici  eventi,  e 
perseguì  inanemente  la  mira  di  essere  mediatore  di  pace,  e  meno 
inanemente  l'altra  più  modesta  mira  di  attenuare  qualche  poco  gli 
orrori  della  guerra.  Non  è  qui  il  luogo  di  ricordare  come  varia- 
mente, e  di  rado  imparzialmente,  fosse  giudicata  l'opera  pontificia  : 
in  ciascuno  dei  due  campi,  ove  si  era  certi  di  combattere  per  la 
buona  causa,  non  ci  si  seppe  dare  pace  di  non  sentire  pronunciare 
la  condanna  dell'avversario,  si  sospettò  il  papa  di  tendenze  per  il 
nemico.  A  pochi  anni  di  distanza,  già  la  più  gran  parte  di  quelle 
accuse  e  di  quei  sospetti  appaiono  ingiusti:  ma  non  è  ancora  il 
momento  di  una  serena  visione,  che,  congiunta  ad  una  conoscenza 
completa  di  documenti,  consenta  di  dare  un  giudizio  definitivo  della 
politica  pontificia  durante  la  guerra. 

Più  fortunata,  se  non  nei  successi  ne>gli  apprezzamenti  che  ot- 
tenne, fu  la  cooperazione  pontificia  ai  tentativi  di  ricostruzione  eu- 
ropea. La  politica  papale  si  svolse  in  un'atm.osfera  di  dignità  severa 
e  di  spirito  cristiano,  ben  diversa  dall'atmosfera  che  aveva  circon- 
dato molti  degli  atti  dei  suoi  più  prossimi  predecessori  :  non  sforzò 
la  mano  per  ottenere  l'ammissione  della  S.  Sede  nella  Società  delle 
Nazioni,  non  mostrò  ire  per  l'insuccesso  né  risentimento  verso  quelli 
che  potevano  esseme  gli  artefici,  continuò  sulla  strada  deirop>era  pa- 
storale, volta  ad  invocare  aiuto  per  le  popolazioni  che  più  soffrivano. 

Alcuni  degli  atti  pontifici  del  dopo  guerra,  improntati  a  vera 
grandezza  cristiana,  trovarono  consenzienti  uomini  di  ogni  parte  : 

14  Voi.  CC?XVI,  serie  VI  —  !•  febbraio  1922. 


202  LA  POLITICA  ECCLESIASTICA  ITALIANA 

tale  rintervento  presso  il  Governo  soviettista  a  favor©  del  clero  or- 
todosso perseguitato,  ©  più  tardi  l'iniziativa  pei  soccorsi  al  popolo 
russo:  tal©  anche  la  protesta  mossa  pei  Luoghi  santi,  invocazioni' 
dei  diritti  ohe  dà  aJ  «  popolo  cristiano»  tutta  una  tradizione  di  gloria, 
di  lotte,  di  aspirazioni,  di  poesia,  di  leggenda,  invocazione  pura  per 
che  scevra  di  ogni  odio  di  razza,  di  ogni  volontà  di  conculcare  di- 
ritti di  altre  razze  e  di  altre  fedi. 

Fu  certo  papato  politico:  non  v'ò  papato  religioso  che  abbia 
storia  più  povera  di  questo:  la  sua  storia  religiosa  è  in  breve  rias- 
sunta, ove  si  dica  che  perseguì  le  traccie  del  predecessore,  elimi- 
nando ogni  fervore  ed  attutendo  ogni  asprezza  dell'opera  di  restau- 
razione religiosa.  Ma  se  anche  si  voglia  ammettere  il  giudizio  degli 
ortodossi  del  cristianesimo  integrale,  non  potersi  dare  papato  poli- 
tico ohe  non  sia  menomazione  del  papato  religioso,  deve  però  rico- 
noscersi che  il  pontificato  di  Benedetto  XV,  non  ebbe  —  come  n'eb- 
bero non  di  rado  quelli  di  Pio  IX  e  di  Leon©  XIII  —  atteggiamenti 
politici  contrastanti  chiaramente  con  la  tavola  dei  valori  etici  cri- 
stiani :  non  indulse  ad  oppressioni  né  a  stragi,  non  respinse  l'invo- 
cazione di  aiuto  che  provenisse  da  sofferenze  ingiuste. 

• 
•  • 

È  agevole  comprender©  come  di  un  pontificato  svoltosi  in  mo- 
menti così  densi  di  eventi  decisivi  per  la  storia  del  secolo  che  se- 
guirà, deb^no  restare  nell'ombra  alcuni  lati  secondari. 

A  prescinder©  dall'opera  inerent©  alla  guerra,  un  pontificato  che 
ha  compiuto  la  riconciliazione  con  la  Francia,  ohe  ha  visto  il  rista- 
bilimento delle  relazioni  ufficiali  tra  Inghilterra  e  S.  Sede,  interrotte 
da  quattro  secoli,  che  ha  fronteggiato  lo  scisma  czeco-slovacco  ed  è 
riuscito  a  ridurlo  a  proporzioni  minime,  che  ha  assistito  con  sagace 
accorgimento  alla  nascita  dell'autonomia  irlandese,  senza  sconten- 
tare l'Irlanda  cattolica  né  l'Inghilterra  protestante,  che  ha  superato 
nel  modo  più  felice  i  pericoli  che  potevano  correr©  le  relazioni  tra 
Chiesa  ed  Imperi  centrali  nell'ora  della  sconfitta,  che  ha  annodato 
relazioni  cordiali  con  tutti  i  nuovi  Stati  creati  dalla  guerra,  cordia- 
lissime con  la  Polonia;  cih©  ha  ristretto,  o  almeno  non  allargato,  le 
breccie  fatte  nelle  relazioni  tra  Chiesa  e  Stato  dalla  politica  di  Pio  X 
o  dagli  eventi  svoltisi  sotto  il  di  lui  pontificato  (si  considerino,  ad 
esempio,  le  relazioni  tra  S.  Sed©  e  Portogallo  in  questi  ultimi  anni)  : 
un  pontificato  siffatto  of^re  all'osservatore  troppi  lati  pieni  d'interesse 
perchè  si  attardi  a  scrutarne  gli  aspetti  secondari. 

Ma  da  noi  italiani  non  può  ^ssore  dimenticato  il  lento  insensi- 
bile progresso  fatto  in  questi  ultimi  anni  da  quello  ch'era  apparso 
fin  da  principio  ai  più  chiaroveggenti  il  fatale  andare  delle  relazioni 
fra  Chiesa  e  Stato  italiano:  l'avviamento  non  alla  conciliazione  cla- 
morosa (ricordi  infantili  delle  stampe  popolari  bene  auguranti,  con 
l'effigie  di  re  Umberto  e'  Leone  XIII  sotto  braccio,  scortati  da  coraz- 
zieri e  guardie  nobili  fraternizzanti!)  ma  ad  una  intensificazione 
progressiva  della  cordialità  dei  rapporti,  ad  un  assetto  normale  delle 
relazioni  tra  due  poteri  che  hanno  sul  medesimo  territorio  la  loro 


ED  IL  PONTIFICATO  DI  BENEDETTO  XV  203 

sede,  e  che  ài  av\  edono  di  non  aver  rag-ione  alcuna  di  contrasto  che 
li  separi:  l'avviamento  alla  conciliazione  di  fatto,  che  potrà  avere 
per  sue-gelJo  anciie  un  atto  ifiuridico,  l'adozione  di  una  formula,  ma 
che  potrà  restame  priva  senza  essere  per  questo  meno  intera. 

È  indiscutibile  ohe  in  questi  sette  anni  molto  si  è  camminato  su 
tale  via.  Il  merito,  se  di  merito  si  può  parlare,  è  soprattutto  degli 
eventi,  della  forza  stessa  dello  cose.  La  guerra,  se  pur  combattuta 
in  nome  d'idealità  e  per  id^lità  veramente  sentite,  è  pur  sempre 
una  grande  lezione  di  politica  realistica:  essa  ha  dappertutto,  se 
non  spazzato,  affievolito  il  culto  per  le  formule.  La  questione  della 
conciliazione  fra  Stato  e  Chieda  in  Italia  era  stata  a  lungo,  da  uo- 
mini di  ogni  parie,  considerata  soprattutto  come  una  questione  giu- 
ridica: una  elegante  questione  di  diritto,  risolvibile  con  l'adozione 
di  una  formula  perfetta.  L'impercettibile  ma  reale  evoluzione  ope- 
ratasi nella  mente  di  ciascuno  di  noi  ha  fatto  sì  che  nel  problema 
della  conciliazione  si  guardi  oggi  soprattutto  il  lato  intrinseco:  si 
senta  ch'essa  può  dirsi  avvenuta  se  da  un  lato  sia  scomparsa  non 
solo  ogni  antistorica  speranza  di  ritomo  al  passato,  ma  pur  ogni 
postumo  rancore  e  diffidenza  verso  il  regno  sorto  dalla  rivoluzione; 
se  dall'altro  sia  fatta  rinuncia  ad  ogni  sentimento  antichiesastico,  ad 
o^ni  idea  di  fare  dell'Italia  una  banditrice  di  razionalismo  nel  mondo. 
Queste  rinuncie  a  ciò  che  vi  fu  di  essenziale  negli  odi  passati  sono 
i  presupposti  necessari  e  sufficienti  alla  conciliazione  reale:  poco 
conta  quello  che  ne  sarà  il  suggello  giiiridico:  chi  davvero  abbia 
rinunciato  alle  avversioni  antivaticane  che  furono  elemento  sostan- 
ziale (e  necessario,  diciamolo  subito)  del  Risorgimento,  non  può  al- 
larmarsi alla  idea  di  veder  modificato  im  articolo  della  legge  delle 
guarentigie. 

Ma  la  guerra  non  ha  solo  richiamato  noi  tutti  ad  atteggiamenti 
mentali  più  realistici:  ha  anche  mostrato  agl'italiani  come  la  posi- 
zione mondiale  del  papato  fosse  più  elevata  ed  augusta  di  quel  che 
si  era  soliti  credere,  come  la  considerazione  di  cui  esso  gode  fosse 
ben  maggiore  che  tra  noi  comunemente  non  si  pensasse.  L'avere 
visto  tutti  i  principali  Stati  annodare  relazioni  ufficiali  col  Papato, 
ha  suscitato  in  Italia  fautori  della  conciliazione,  vi  ha  reso  meno 
repugnanti  alcuni  che  vi  si  sentivano  per  l'innanzi  irreducibilmente 
avversi. 

Agl'inizi  del  pontificato  di  Benedetto  XV  non  sarebbe  stato  fa- 
cile credere  che  in  sette  anni  si  sarebbe  compiuto  tanto  cammino. 
Moriva  un  pontefice,  che,  a  ragione  o  a  torto,  aveva  riscosso  sim- 
patie universali,  tra  gl'indifferenti  non  meno  che  tra  i  cattolici.  In- 
torno a  quel  papa  —  osteggiato  solo  dalla  eletta  ma  esigua  schiera 
modernista  —  eransi  create  leggende,  accettate  senza  controllo  ed 
accette  ai  più,  del  «  parroco  di  campagna  »  e  del  buon  italiano.  Gli 
succedeva  aliar  cattedra  di  S.  Pietro  l'allievo  prediletto  di  quel  car- 
dinal Rampolla  del  Tindaro  ch'era  stato  il  più  aspro  nemico  d'Italia, 
il  fautore  dei  sogni  di  Leone  XIII  più  ostili  alla  stessa  unità  italiana. 
I  primi  suoi  atti  non  erano  concilianti  :  la  benedizione  al  popolo  di 
Roma,  quella  benedizione  che  ha  assunto  un  valore  convenzionale 
ed  un  significato  diverso  a  seconda  ohe  sia  impartita  dal  loggiato 
esterno  o  da  quello  interno  di  S.  Pietro,  era  data  nell'interno  della 
chiesa  :   non  mancava,  se  pur  scevra  di  ogni  asprezza,  la  tradizio- 


204  LA  POLITICA  ECCLESIASTICA  ITALIANA 

iiale  protesta  per  la  privazione  della  necessaria  indipendenza  della 
S.  Sede.  Due  anni  più  tardi,  un  atto  imposto  al  Governo  dalla  opi- 
nione pubblica,  la  presa  di  possesso  di  palazzo  Venezia,  dava  luogo 
ad  una  protesta  pontificia.  Fu  solo  lentamente  che  si  scorse  nel  pon- 
tefice la  completa  assenza  di  ogni  ostilità  verso  l'Italia:  nelle  sue  in- 
vocazioni alle  Potenze  belligeranti,  nelle  sue  relazioni  con  esse  mai 
distinzione  alcuna  fra  quelle  che  erano  le  Potenze  aventi  un  rego- 
lare stato  civile  agli  occhi  del  legittimismo,  e  l'Italia  figlia  della  ri- 
voluzione. E  nessuna  diver-sità  nelle  concessioni  ecclesiastiche  fatte 
ai  combattenti  italiani  ed  a  quelli  di  altri  Paesi  :  quel  che  più  monta, 
nessun  incoraggiamento,  nessuna  equivoca  compiacenza,  nessuna 
messa  in  evidenza  della  camp«igna  tempora! istica  svolta  in  Germania 
da  uomini  di  ogni  partito,  campag^na  di  recente  così  bene  illustrata 
dal  Ruffini  sulla  Nuova  Antologia;  e  la  dichiarazione  che  la  S.  Sede 
non  attendeva  la  sua  completa  indipendenza  dalle  armi  straniere, 
era  la  implicita  ma  completa  sconfessione  della  politica  di  Pio  IX 
e  di  Leone  XtlI,  il  riconoscimento  della  sovranità  del  popKìlo  ita- 
liano, del  suo  pieno  diritto  di  risolvere  ogni  questione  connessa  col 
territorio  nazionale.  Ma  fu  dopo  la  guerra,  grazie  soprattutto  alla 
iniziativa  personale  di  un  prelato  di  grande  ingegno,  il  cardinale  se- 
gretario di  Stato  Gasparri,  il  canonista  illustre  che  ha  avuto  tanta 
pare  nella  compilazione  del  Codex,  che  si  prospettò  il  problema 
della  conciliazione  come  problema  di  cui  fosse  possibile  una  pros- 
sima soluzione.  Non  si  può  oggi  dire  se  la  morte  di  Benedetto  XV 
abbia  rinviato  all'infinito  l'attuazione  delle  speranze  dei  concilialo- 
risti:  certo  vi  è  stato  un  periodo  in  cui  fu  dato  a  tutti  scorgere  nella 
S.  Sede  un  desiderio  non  solo  intenso  ma  non  larvato  di  concilia- 
zione con  l'Italia:  alcune  interviste  del  cardinal  Gasparri,  come  quelle 
col  prof.  Buonajuti  e  col  prof.  Curatolo,  rappresentano  elementi 
davvero  importanti  acquisiti  alla  storia  delle  relazioni  fra  Stato  e 
Chiesa,  mentre  costituiscono  al  tempo  stesso  una  innovazione  rispetto 
alle  tradizioni  anteriori  della  diplomazia  pontificia,  ligia  alle  arcaiche 
riserve  ed  alle  classiche  reticenze.  Manifestazioni  ufficiali,  nello 
stretto  senso  del  termine,  di  questo  mutato  spirito  del  Vaticano  verso 
l'Italia,  non  si  ebbero,  né  si  potevano  forse  avere:  ma  non  va  di- 
menticato il  consenso  dato  dalla  S.  Sede  a  che  sovrani  cattolici  si 
recassero  a  Roma  a  visitare  il  re  d'Italia;  non  va  dimenticata  la  do- 
cilità con  cui  l'autorità  ecclesiastica  seguì  per  quanto  stava  in  lei  il 
tracciamento  dei  nuovi  confini  d'Italia,  sottraendo  alla  dipendenza 
metropolitana  di  Salisburgo  le  diocesi  di  Trento  e  di  Bressanone; 
non  va  scordato  come,  in  opposizione  a  quanto  seguiva  negli  anni 
di  acuto  dissenso  tra  Chiesa  e  Stato,  il  clero  italiano  e  quello  stesso 
romano  potesse  ricordarsi  durante  la  g-uerra  di  essere  parte  del  po- 
polo d'Italia,  e  recentemente  le  camipane  delle  chiese  di  Roma  suo- 
nassero la  gloria  del  milite  ignoto  e  clero  rwnano  salisse  a  bene- 
'  dime  la  cripta  su  quello  che  vuol  essere  il  monumento  della  rivolu- 
zione. Non  va  infine  obliato  come  nelle  due  elezioni  del  'i9  e  del  '21 
l'affluenza  dei  cattolici,  cattisi  in  partito  politico,  seguisse  col  con- 
senso pieno  ed  incondizionato  della  S.  Sede,  e  la  protesta  del  non 
expedit  fosse  relegata  tra  i  ricordi. 

Ma,  riconosciute  lealmente  le  benemerenze  del  pontefice  scom- 


ED  IL  PONTIFICATO  DI  BENEDETTO  XV  205 

parso  verso  La  conciliazione,  non  bisogna  tacere  quelle  delle  classi 
dirigenti,  delle  classi  di  governo  italiane. 

Se  la  diplomazia  pontificia  seppe  compiere  lo  sforzo  di  abban- 
donare atteggiamenti  e  comportamenti  tradizionali,  lo  stesso  sforzo 
seppero  effettuare  gli  uomini  politici  italiani  :  anche  quelli  personal- 
mente-ostili  al  cattolicesimo,  anche  quelli  legati  da  vincoli  settari  e 
non  rifuggenti  da  settarismo  nei  siiigoli  atti  della  politica  minuta, 
seppero  con  più  elevata  e  pacata  coscienza  guardare  al  problema 
delle  relazioni  con  la  S.  Sede. 

Dalla  costituzione  del  Regno  al  1914  molte  asprezze  antivaticane 
erano  cadute,  molte  avversioni  si  erano  mitigate:  gl'infatuamenti 
razioniilistici  che  facevano  guardare  alle  religioni  tutte,  al  cattolice- 
simo prima  di  ogni  altra,  come  a  detriti  del  passato,  non  sussiste- 
vano più  se  non  in  qualche  vecchio  custode  del  pensiero  di  una  ge- 
nerazione discesa  nel  sepolcro:  le  vecchi©  frasi  rettoriche  //  Vati- 
cano coltHlo  piantatù  nel  cuore  d'Italia  od  altre  dello  stesso  conio 
non  trovavano  da  tempo  indulgenza  presso  nessuna  persona  di  me- 
diocre gusto,  a  qualsiasi  partito  appartenesse.  Ma  tuttavia  qualche 
elemento  formale  si  era  tramandato  immutato:  era  di  stile  nel  lin- 
guaggio ufficiale  certo  anticlericalismo,  certa  ostentazione  di  laicità, 
certo  disconoscimento  della  necessità  di  una  integrazione  dei  compiti 
etici  dello  Stato  mediante  valori  religiosi.  Non  si  deve  dimenticare 
che  il  gabinetto  Salandra  alla  sua  costituzione  aveva  posto  nel  pro- 
prio programma  un  progetto  di  legge  (ennesima  edizione  di  progetto 
presentato  e  mai  approvato)  sulla  precedenza  del  matrimonio  civile  ; 
progetto  che  aveva  un  valore  puramente  politico,  che  doveva  affer- 
mare la  laicità  del  programma  del  Ministero,  ed  assicurargli  l'ade- 
sione dei  democratici  costituzionali. 

Nei  sette  anni  del  pontificato  di  Benedetto  XV  i  dirigenti  ita- 
liani seppero  rinunciare  a  questi  atteggiamenti  tradizionali.  Il  Ga- 
binetto Salandra,  se  volle  l'inclusione  nel  Patto  di  Londra  di  quel- 
l'articolo 15  che  a  molti  sembrò  anacronistica  cautela,  ebbe  però 
l'alta  indiscutibile  benemerenza  di  resistere  a  tutte  le  pressioni  di- 
rette ad  ottenere  una  modificazione  o  una  sospensione  della  legge 
delle  guarentigie:  questa  fu  rispettata,  per  quanto  spettava  al  Go- 
verno italiano,  nel  modo  più  assoluto:  i  membri  dell'ambasciata 
austriaca  e  delle  legazioni  tedesca  e  bavarese  presso  la  S.  Sede,  per 
approfittare  del  treno  diplomatico  che  riconduceva  al  confine  il  per- 
sonale delle  due  ambasciate  presso  il  Quirinale,  dovettero  pagare  il 
biglietto  di  viaggio:  il  Ministero  degli  Elsteri  italiano  significò  che 
non  riconosceva  la  loro  necessità  di  allontanarsi  da  Roma,  e  non 
poteva  considerarli  se  non  quali  viaggiatori  ordinari.  Per  merito  so- 
prattutto di  un  alto  funzionario  amministrativo,  che  gode  la  piena 
fiducia  del  Governo  e  godeva  la  simpatia  completa  del  Pontefice,  si 
resero  più  frequenti  e  più  intime  le  relazioni  ofiìciose  tra  Governo 
italiano  e  S.  Sede,  che  proseguirono  cordiali  come  non  mai.  Al- 
l'inizio della  guerra,  l'istituzione  di  cappellani  militari  e  di  un 
vescovo  castrense  mostrò  come  il  Governo  italiano  fosse  sulla  via  di 
abbandonare  ogni  antico  preconcetto  giacobino.  Durante  e  dopo  la 
guerra,  in  cerimonie  e  celebrazioni  ufficiali,  il  Governo  mostrò  di 
non  avere  discare  le  manifestazioni  cultuali,  l'unione  dell'elemento 
religioso  a  quello  patriottico.  In  discorsi  parlamentari  ed  extrapar- 


206  LA  POUTICA  ECCLESIASTICA  ITALIANA 

lamentari  membri  del  Governo  non  lesinarono  lodi  al  contegno  del 
clero,  ne  assunsero  in  certo  modo  la  difesa  contro  una  campagna 
di  denigrazioni  ohe  si  andava  svolgendo  tra  i  ceti  meno  colti  della 
borghesia.  Furono  risolte  di  mutuo  accordo  tra  i  due  poteri  le  pic- 
cole questioni  presentatesi  man  mano:  non  ultima  quella  sui  rapporti 
tra  il  più  elevato  prelato  palatino,  il  gran  priore  di  S.  Nicolò  di 
Bari,  e  l'arcivescovo  della  città.  Nella  unificazione  legislativa  delle 
nuove  Provincie,  il  Governo  mostrò  una  prudenza  encomiabile  per 
quanto  concerne  la  legislazione  ecclesiastica:  fino  ad  oggi  tutta  la 
legislazione  austriaca  è  rimasta  in  vigore,  e  non  è  un  mistero  che, 
almeno  negl'intenti  del  Governo,  innovazioni  non  debbono  compiersi 
se  non  sentiti  i  desiderata  della  S.  Sede  e  tenutone  tutto  il  possibile 
conto.  Né  va  dimenticato  che  la  campagna  giornalistica  dell'anno 
scorso  per  una  soluzione  anche  formale  della  questione  romana  ebbe 
un  tiepido  incoraggiamento  dal  Governo,  in  quanto  l'ufficio  stampa 
del  Ministero  degli  Esteri  raccolse  in  un  apposito  volumetto  quanto 
era  stato  scritto  sull'argomento.  Tutto  un  insieme,  insomma,  di  pic- 
coli atti  significativi,  testé  coronati  dalle  ma;nifestazioni  uflficiali  di 
lutto  per  la  morte  del  Pontefice. 

Ma  notevole  soprattutto,  se  pur  passato  tra  la  disattenzione  ge- 
nerale, fu  l'abbandono  di  un  principio  ch'era  davvero  un  caposaldo 
nella  legislazione  ecclesiastica  italiana:  non  dovere  lo  Sialo  sussidiare 
alcun  culto.  Questo  principio,  asserito  con  violenza  al  Parlamento 
subalpino  subito  dopo  la  promulgazione  dello  Statuto,  era  stato  il 
movente  della  prima  legge  soppressiva  delle  comunità  religiose, 
quella  del  29  maggio  1855.  Cavour  e  Rattazzi  avevano  risolto  l'anti- 
nomia del  rispetto  a  quel  principio  e  della  impossibilità  di  disinte- 
ressarsi delle  sorti  del  olerò  minore,  con  la  creazione  della  Gassa  ec- 
clesiastica, foggiata  sul  modello  del  Fondo  di  religione  austriaco; 
nel  '66  alla  Cassa  ecclesiastica  era  succeduto  il  Fondo  per  il  culto. 
Trattavasi  di  enti  con  personalità  affatto  distinta  da  quella  dello 
Stato:  avevano  un  patrimonio  proveniente  da  quello  degli  enti  ec- 
clesiastici soppressi,  riscuotevano  un  tributo,  la  quota  di  concorso, 
dagli  enti  ecclesiastici  più  ricchi  :  con  tali  cespiti  avevano  a  provve- 
dere ai  supplementi  di  congrua  ai  parroci.  Lo  Stato  non  forniva 
alcun  aiuto.  Nel  1918,  di  fronte  al  deprezzamento  della  moneta,  alle 
cattive  condizioni  economiche  del  Fondo  per  il  culto,  il  Governo 
sentì  la  necessità  di  abbandonare  il  principio  che  per  sessanta'rè 
anni  aveva  retto  la  politica  economica  dello  Stato  di  fronte  al  clero: 
prima  a  titolo  provvisorio,  poi  a  titolo  definitivo  fu  stabilito  il  con- 
corso del  Tesoro  dello  Stato  nel  pagamento  dei  supplementi  di 
congrua:  l'anno  scorso  il  Governo  presentava  un  progetto  di  legge, 
approvato  dal  Senato  e  tuttora  pendente  dinanzi  alla  Camera,  per 
rendere  stabile  tale  concorso. 

Nei  sette  anni  del  pontificato  di  .Benedetto  XV  questo  si  scorse 
nella  politica  del  Governo  italiano:  il  mantenimento  integrale  di 
tutte  le  posizioni  fondamentali  aventi  un  valore  spirituale  ch'erano 
state  la  base  della  nuova  Italia:  ma  l'abbandono  graduale  di  tutte 
quelle  che  avevano  costituito  le  posizioni  di  lotta,  gli  atteggiamenti 
di  rappresaglia,  più  propri  ad  un  partito  che  ad  un  governo,  le 
ostentazioni  giacobine:  l'accettazione  sincera  e  leale  della  verità  che 
cattolicesimo  e  papato  rappresentano  una  grande  forza  spirituale 


ED  IL   PONTIFICATO  DI  BENEDETTO  XV  207 

nel  mondo,  e  che  sarebbe  antinomia  voler  perseguire  fini  etici,  farsi 
assertori  d'idealità,  e  disconoscere  o  spregiare  quella  forza. 

Questa  era  la  posizione  reciproca  dello  Stato  italiano  e  della 
Chiesa,  allorché  inopinatamente  si  è  chiuso  il  pontificato  di  Bene- 
detto XV.  Il  papato  del  successore  segnerà  la  conclusione  definitiva 
dell'accordo,  o  una  nuova  tensione,  un  succedersi  di  ostilità  reci- 
proche? Manca  ogni  elemento  per  dirlo.  Ma  è  bene  registrare  quelli 
che  furono  in  questo  settennio  i  meriti  reciproci  :  la  S.  Sede  mostrò 
negli  ultimi  anni  un  desiderio  dell'accordo  formale  piìi  intenso  che 
il  Governo  italiano  non  mostrasse  :  ma  lo  Stato  non  era  rimasto  im- 
mobile nelle  sue  posizioni:  lentamente  e  silenziosamente  aveva  ab- 
battuto le  soprastrutture  ideologiche  che  si  frapponevano  alla  con- 
ciliazione. 

A.  G.  Jemolo. 


L 


LA    SANFELICE 

POEMA    TRAGICO 


ATTO   TERZO 

Una  stanza  disadorna  ed  ignuda  sotto  il  tetto  del  palazzo  Sanfelice.  A 
destra  un  uscio  dissimulato  dalT'intonaoo  della  parete  dà  sul  palco  morto;  a 
sinistra  un'altra  porticina  conduce  per  una  scaletta  alle  stanze  inferiori,  in 
fondo  è  una  terrazza  aperta,  dinanzi  la  quale  si  rizza  il  Castel  Nuovo,  fosco  e 
minaccioso  nell'alba.  Nella  stanza  sono  due  o  tre  vecchie  sedie,  un  divano 
stinto,  e  una  tavola  su  cui  posa  una  sciarpa  di  trina.  Campane  lontane  suo- 
nano,   a    tratti,    l'avemaria  dell'alba. 


SCENA  I. 
Gerardo,  poi  Luisa. 

r 

Gerardo 

{che  tenea  la  testa  appogg^iata  su  le  braccia  alla  tavola,  si  rizza 
da  sedere,  e  va  alla  terrazza). 

L'alba!...  Stamane  le  campane  han  voci 
Moste  e  soavi,  quasi  umane.  Dorme 
La  gran  città  perduta  in  un  silenzio 
Remotissimo.  Io  solo  veglio,  io  solo, 
E  me  ne  viene  al  cuor  non  so  che  oscuro 
Rimorso. 

Luisa 
[apparendo  su  la  porticina  di  ministra) 

Come?  già  levato? 

Gerardo. 

Vieni, 
.Amor  mio.  Sì,  lo  so,  tu  m'hai  da  dire 
Qualcosa.  Attendi!...  Solo  un  breve  indugio 
In  quest'ora  d'oblìo...  Vedi  tu  come 
Si  spensero  nel  ciel  l'ultime  stelle, 
Salvo   una  sola  che  fìanimeggia  grande 
E  abbagliante?  Così  parmi  che  sia 


LA  SANFELICE  209 

Caduta  dal  mio  core  og-ni  ansia  e  c^ni 
Memoria,  tutto,  fuor  che  quest'amore 
Radiante,  Luisa? 

Luisa 

{L'ablxraccia). 
{dandogli  un  buffetto  su  le  guance  per  chiasso) 

Eh!  com'è  proprio 
Vero  che  cambia  il  saggio  —  e  anche  il  birbo! 
Cosa  mi  c'è  voluto  in  quell'orrenda 
Nottata  per  persuaderti,  brutto 
Caparbio,  a  venir  qui! 

Gerardo. 

Che  vuoi?...  perdono!... 
Mi  sembrò  d'impietrare  appena  seppi 
Che  tutto  era  scoperto;  intravedere 
Credevo  insidie  e  tradimenti  ovunque; 
I  miei  compagni,  mio  fratello,  mio 
Padre!..,  Chi  sa  che  n'era  stato?...  Nulla 
Della  lor  sorte  tu  sapevi...  Ah!  quando 
Nelle  mie  notti  solitarie  vedo 
Colui,  quel  rinnegato  che  la  nostra 
Impresa  rivelò... 

Luisa. 

Sii  buono,  via! 
Forse  è  meno  colpevole  di  auanto 
Credi! 

Gerardo. 

Luisa!...  lo  conosci?...  Parla! 
Lo  conosci?... 

Luisa. 

No,  no!  Ma  che  rileva 
Questo  oramai?  Dimentica!  Chi  corre 
Più  rischio?...  E  io  son  qui,  che  t'amo! 

Gerardo. 

Ebbene  : 
Per  te,  per  te,  per  seguir  te,  mia  bella 
Maliarda,  trovai  quest'inumana 
Forza  d'abbandonarli.  Ora  son  salvi 
Però,  nevvero? 

Luisa. 

Sì  :  dentr'oggi  forse 
Verranno  scarcerati.  Il  cardinale 
È  alle  porte  di  Napoli  con  sue 
Atroci  masse  della  santa  Fede; 
Navi  iniglesi  e  del  re  fanno  crociera 


210  LA  SANFELICE 

Minacciosa  nel  golfo.  I  patrioti 
In  sant'Elmo  riparano,  tentando 
La  Sdiiprema  difesa.  Ahimè!  per  sempre 
Caduta  è  la  Repubblica. 

Gerardo. 

Non  s'ama 
Fors'egli  ancóra,  piccola  ribelle, 
Sotto  la  monarchia? 

Luisa. 

Siete  un  cattivo, 
Mio  capitano,  voi!...  Ma  quella  cara 
Eleonora  Pimentel,  l'amica 
Fiera  e  fedele? 

Gerardo. 

Non  angustiarti: 
Il  re  perdonerà. 

Luisa. 
Credi?... 

Gerardo. 

Al  bisogno, 
Io  stesso  chiederei  misericordia 
Per  lei,  né  me  la  negherebbe. 

Luisa. 

Come 
Sei  buono,  o  mio!  mio!  mio!...  Vorrei  che  tutto 
Almeno  terminasse  senza  sangue  : 
Che  spavento,  mio  Dio!...  Ma  bravo!...  e  poi 
Chi  sa  se  ancor  ti  piacerò  con  quella 
Monterà  bianca  che  md  fa  sembrare 
Una  gattina  d'Angora?...  Di  certo 
Bisognerà  rimetterla,  secondo 
L'etichetta  di  prima.  Ah!  la  regina 
Se  ci  facesse  akneno  questa  grazia 
D'adottare  la  moda  de'  capelli 
Pettinati  alla  Bruto! 

Gerardo. 

Civettuola! 
Non  ho  bisogno  della  tua  proterva 
Zazzeretta  di  paggio  per  amarti  • 

Teneramente! 

{L attira  per  baciarla). 

Luisa 
[sfuggendogli): 
.Anch'io,  con  tutto  il  cuore! 


la  sanfelice  211 

Gerardo. 

Sapete  voi,  mia  lodoletta  bionda, 
Che  iersera,  schizzando  a  un  tratto  via 
Di  qui,  lasciaste  nelle  mie  predaci 
Mani  un'aerea  piuma  delle  vostre 
Tiepide  ali? 

Luisa. 
Dov'è? 

Gerardo 
[prendendo  il  velo): 
Guardate! 

Luisa. 

Oh  come 
Me  ne  vergogno!...  E  ride  anche,  il  briccone!... 
No,  dammi  la  mia  sciarpa! 

Gerardo. 

Ah  questo  è  quanto 
Si  vedrà!  Non  è  mica  ora  più  tua. 

Luisa. 
Sissignore,  eh 'è  mia! 

Gerardo. 

Ma  no,  ti  dico! 
Questa  notte  v'ho  posto  tanti  baci 
E  tanti,  che  n'è  colma.  Or  dunque  prendi 
La  sciarpa,  e  damma  i  baci. 

[La  prende  improvvisamente  e  la  bacia). 

Luisa. 

Ah!...  prepotente! 

[balzando  e  tendendo  V orecchio): 

Taci!...  qualcuno  sale...  Nella  tua 
Soffitta,  lesto!... 

[Gerardo  apre  l'uscio  di  destra,  e  si  nasconde  nel  palco  morto. 
Entra  VAltobello). 

SCENA  IL 

t 
Luisa  e  Z'Altobello. 

L'Altobello. 

Il  nostro  amico  dorme? 

Luisa. 
Sì:  favellate  piano. 


212  la  sanfelice 

L'Altobello. 

Eh!  vi  dovrebbe 
Attaccare  un  bel  vóto! 

Luisa. 

Che  c'è  egli 
Arijcòra? 

L'Altobello. 

Meno  male  che  s'è  posto 
•     In  salvo  qui,  dalla  liberatrice 
Della  patria. 

Luisa. 
Ma  dunque?... 

L'Altobello. 

È  un'ora  appena 
Che  la  Commissione  militare 
S'è  rannata  a  giudicare  i  suoi 
Compagni  di  delitto. 

Luisa. 

E  suo  fratello 
Anche?...  e  suo  padre?...  Ah  Dio!  Dio!  Dio!  Dio!...  Come?. 
Ma  come?...  Se  iersera  si  parlava 
Di  scarcerarli?... 

L'Altobello. 

La  cattiva  gente! 
Che  farci?  Al  mondo  c'è  le  creature 
Probe,  caritatevoli,  incapaci 
Di  far  male  a  una  mosca,  come  voi 
E  me;  ma  anche  c'è  di  quei  birboni 
Che  provano  chi  sa  che  acre  gioia 
Nocendo  altrui.  Qualche  sopravanzato 
Germe  del  tempo  originario,  quando 
Questa  leggiadra  immagine  di  Dio 
Oh'è  l'uomo,  si  deliziava  il  senso 
Spaccando  il  cranio  con  la  clava  al  suo 
Simile,  per  vederlo  dai'e  i  tratti 
Nel  bel  rosso  del  sangue. 

Luisa. 
,  Insomma?... 

L'Altobello. 


Giunse 


Alla  Commissione  esecutiva 
Ieri,  sul  tardi,  una  petizione 
Sottoscritta  da  centotrentasei 
Patrioti,  che  vogliono  il  giudizio 


LA  SANFELICE  213 

E  la  condanna  de"  cospiratori; 

E  quel  mangiatiranni  di  Fernando 

Ferri  era  il  capolista. 

Luisa. 

Il  Ferri?...  Ah,  dunque 
Voi!  foste  voi!  Qualcosa,  sì,  qui  dentrr. 
Me  lo  dice.  Guardatemi... 

L'Altobello. 

Ma,  ingrata 
Amica,  s'io  mi  fossi  posto  in  capo 
Di  perdere  quei  giusti,  è  già  un  bel  pezzo 
Che  avrei  denunziato  il  nostro  caro 
Protetto:  convenitene! 

Luisa. 

Suo  padre!... 
Il  f ratei  suo,  ch'egli  idolatra!...  E  poi? 
E  poi?  Che  ha  fatto  la  Ck)minissione?... 
Ah,  che  di^razial... 

L'Altobello. 

Nulla  fin  adesso; 
Ma  darà  tosto  la  sentenza.  I>ee 
Sbrigursi,  perchè  già  Fabrizio  Ruffo 
Attacca  il  ponte  della  Maddalena, 
E  Napoli  domani  sarà  sua. 
Bel  fegato,  però,  quel  cardinale 
Di  ventura!... 


SCENA  III. 
Luisa,  TAltobello  e  Bruto;  -poi  Fernando  Ferri. 

Bruto. 

C'è  abbasso  il  cittadino 
Ferri  e  domanda  di  parlarvi,  abate. 

L'Altobello. 
Vengo  subito. 

Lu^SA. 

No:  digli  che  salga! 
Vo'  sapere  ogni  cosa. 

{Brillo  esce). 

L'Altobello. 

Era  pili  saggio 
Lasciar  prima  andar  me.  Se  l'altro  udisse? 


214  la  sanfelice 

Luisa. 
Non  udrai 

{Entra  il  Ferri). 

Il  Ferri. 

Buone  nuove,  virtuoso 
Cittadino,  e  anche  voi,  Clelia  e  Camilla 
Della  nostra  Flepubblica!... 

L'Altobello. 

Badate, 
Caro.  Clelia  e  Camilla  eran  ragazze, 
Dicono. 

Luisa 

{al  Ferri) 
Ebbene?  i  prig-ionieri?... 

Il  Ferri. 

Salvo 
Un  vóto,  a  morte! 

Luisa 
{con  abbattimento  pirofondo) 
Ah!... 

Il  Ferri. 

Confessò  ciascuno 
Imiperterrito.  L'armi,  le  coccarde 
Rosse,  i  tamburi  con  gli  emblemi  regi 
Un  po'  dovunque  sequesirati,  tutto 
Riconobbero.  Quando  il  generale 
Presidente  lodò  con  alte  e  belle 
Parole,  o  cittadina  Sanfelice, 
Il  magnanimo  zelo  che  vi  punse 
A  rivelare  la  congiura  obliqua. 
Il  Baccher  padre  tentennò  del  capo 
Amaramente  bofonchiando:  Specchio 
Di  pudicizia  giacobina!  In  somma 
Saranno  tiutti  fucilati. 

Luisa. 

Quando? 

Il  Ferri. 

Alcuni  tra  mezz'ora,  altri  domani 
All'alba.  Gheh!  v'incresce?  Anche  colui 
Che  ci  sfug^,  quel  pazzo  temerario 
Che  vi  die  il  cartellino  —  e  il  padre  suo 
E  i  suoi  compagni  l'hanno  in  conto  quasi 
Di  traditore  —  ebbe  la  pena  stessa; 


LA  SANFELICE  215 

S'intende,  in  contumacia.  È  stato  dato 
Ordine  a  trenta  militi  d'armarsi 
E  allinearsi  su  la  piazza. 

Luisa. 

Quale 
Piazza? 

Il  Ferri. 
Codesta. 

Luisa.  , 

Questa? 

Il  Ferri. 

Sì  :   saranno 
Tratti  fuori  dal  carcere  co'  polsi 
Ledati  dietro,  e  moschettati  a  due 
A  due  sotto  la  torre.  Eccovi  dunque 
Accontentato,  cittadino... 

{alVÀltobeUo) 
...  voi 
Che  proponeste  a'  giudici  quel  luogo 
Come  il  più  acconcio  e  il  più  sicuro. 

Luisa 

[air  AltobeUó) 

Ah  Giuda! 
Me  lo  diceva  il  cuore!  Uscite  entrambi! 
Assassini!  assassini! 

L'Altobello. 

Eh!  fate  bene 
A  questo  mondo! 

Il  Ferri. 

Cittadina!  viva 
La  Repubblica! 

[UAltobello  e  il  Ferri  escono). 

SCENA  IV. 
Luisa  sola,  poi  Gerardo. 

Luisa 
{andando  su  e  giù  per  la  stanza  con  le  mani  convulse  fra  i  capelli) 

E  adesso?...  cosa  dirgli?... 
Mezz'ora!...  No:  bisogna  farlo  uscire 
Di  qui...  Ma  dove?  E  con  la  piazza  ingombra 
Di  gente!...  Almeno  mi  venisse  in  capo 
Una  scusa...  non  so...  Che  orrore!.'..  Sotto 


216  LA  SANFELICE 

Gli  occhi  suoi,  là!  là!  là!...  Ma  ciò  non  dee, 
Non  può  essere,  no!  Su!  trova,  trova, 

{si  dà  de'  pugni  nel  capo) 

Ma  trova'dunque!...  Ah!  ecco!... 

{Si  passa  la  mano  su  la  fronte  e  su  gli  occhi,  e  atteggiando  il 
viso  di  letizia,  apre  l'uscio  di  destra:  entra  Gerardo). 


Ebbene? 

Salvi, 


Gerardo. 

Luisa. 

Salvi  tutti. 

Gerardo. 
Sì,  liberi? 

Luisa. 

Fra  poco... 
Sai  bene,  un  po'  di  strascico  c'è  sempre 
In  tali  cose.  Ho  fatto  dire  a  entrambi, 
A  tuo  fratello  e  al  padre  tuo,  che  noi 
Andremo  ad  aspettarli  nella  mia 
.Villa  d'Aoenra.  Vieni! 

Gerardo. 

Nella  tua 
N'illa  d'Acerra?  E  per  che  fare? 

Luisa. 

Vieni!... 
Poi  ti  dirò...  C'è  un  ordine,  capisci?... 
Perchè  le  miasse  della  scinta  Fede 
Sono  alle  prese  già  co'  patrioti 
Sul  ponte  della  Maddalena. 

Gerardo. 

Ho  inleso. 
Gara!  tu  temi  che  mi  batta  io  pure, 
Nevvero?  No,  no,  via:  rimangx)  presso 
Alla  frugola  mia,  va  bene?  Tanto, 
Il  cardinale  non  avrà  bisogno 
Di  me  per  dar  la  sferza  a  questi  quattro 
Gatti  di  demagoghi. 

Luisa. 

Fammi  dunque 
La  carità,  Gerardo  :  {indiamo!  Ho  troppo 
Sofferto  qui  :  non  voglio  più  vedere 
Altri  pianti,  altre  stragi!  Ingrato  mio! 
Non  ami?...  Ascolta...  ascolta!...  È  una  tranquilla 


LA  SANFELICE  217 

Dimora,  e  dietro  ha  il  monte  erto,  e  dinanzi 
Cenila  or  sì  or  no  la  baja  affaccia 
Tra  le  selve  de'  lauri  e  degli  ulivi. 
Colà  passai  l'infanzia.  Oh  le  farfalle 
Che  v'ho  chiappate!...  grandi,  sai,  di  tutte 
Le  tinte,  e  come  s\'^olano  leggiere! 
Ma  correvo  lor  dietro,  e  se  qualcuna 
Veniva  a  dindellarsi  su  la  cima 
D'un  fiore,  io  trattenea  l'alito,  e  adagio 
Adagio,  mav\'ertita  come  un'ombra. 
Protendevo  le  dita  e...  paff!  l'avevo 
Còlta...  Oh  le  mie  farfalle! 

Gerardo. 

E  proprio  adesso 
T'è  rivenuta  quella  voglia,  mimma 
Gaipricciosetta? 

Luisa. 

E  poi,  senti!  Ma  senti!... 
Nella  valle  ove  con  prolissa  chioma 

I  vetrici  si  mirano  nel  rio 

M'è  noto  un  antro  tutt'intomo  verde 
Di  muschio  e  capelvenere.  Mi  scoti? 

II  pesco  v'è  così  soave,  mentre 
Arde  fuor  la  canicola,  e  lontano. 
Nella  gran  calma  accidiosa  s'ode 

Il  campano  tinnir  di  qualche  mandria... 
Vieni!... 

Ghiardo. 

Ma  qui... 

Luisa. 

No,  non  sai  tutto!  A  una 
Segreta  incavatura  della  grotta 
È  sospeso  un  sedile,  e  due  persone 
Ci  stanno  appena.  Vuoi?  vuoi?  Non  son  dolci 
Dunque  i  miei  baci?  Che  t'importa  adesso 
Del  mondo?  Vieni! 

{S'ode  nella  piazza  i  tamburi  sonar  la  sordina). 

Gerardo. 

E  come  non  verrei 
Se  tu  m'attiri  con  quegli  occhi  dove 
Mi  s'inabissa  l'anima?  Lo  sai: 
M'affascini!...  m'affascini!...  Sì:  soli, 
Amanti,  insieme,  ove  vuoi  tu! 

{L'abbraccia). 

Luisa. 

T'adoro! 
Vieni!  ma  vieni? 

15  Voi.  OCIVX,  serie  VI  —  1*  febbraio  1922. 


218  LA  SANFELICX 


Funebre? 


Gerardo 
{sobbalzando) 
CShe  è  questo  rullo 


Luisa. 

Nullal...  non  pensare  a  niillal... 
Vieni!...  Voglio  esser  tua,  come  non  sono 
Mai  stata.  Vieni!...  Il  tempo  fugge. 

Gerardo. 

Attendii: 
Che  è?  che  è? 

Luisa 

{avvinghiandosi  al  collo  di  Gerardo)  , 

No:  guardami!...  Non  voglio 
Ohe  tu  mi  lasci!...  Son  la  tua  Luisa, 
La  tua  Luisa  piccola,  ne\^ero? 

Gerardo. 

Ma  non  ti  lascio!...  Attendi!...  Io  non  capisco 
Che  accade  mai!... 

{S'affacaia  alla  soglia  della  terrazza  e  gitarda  giù;  poi  si  volge 
con  gli  occhi  esterrefatti). 

Luisa!... 

Luisa 
{cade  in  ginocchi  con  la  testa  fra  'le  mani) 

Gerardo 
{con  singulti  strazianti) 
Ah!  ah! 

Luisa 
{con  vn  fil  di  voce) 

Perdóno! 

Gerardo  j 

{tornando  su  la  terrazza)  \ 

Ferdinando  La  Rossa,  il  forte  e  onesto  ; 

Ferdinando,  il  gran  cuore  senza  paura  ^ 

Come  senza  malizia...  Il  f ratei  suo  ' 

Giovanni,  bello,  temerario  e  destro  \ 

Come  un  conquistatore...  Anche  Natale  ♦. 
D'Angelo...  Ah!...  il  mio  Gennaro!...  il  mio  Gennapo!...        V 

Fratello  mio!  Ì 

{tornando  a  Litisa)  | 

TMsgraziata!...  Dunque 
Tu  lo  sapevi?  A  morte  tutti?...  a  morte?... 


I 


LA  SANFELICE  219 

Natale  D'Angelo  e  Giovanni  La  Rossa 
{dalla  piazza) 

Viva  Dio!  viva  il  Re! 
{S'ode  ima  scarica  di  moschetteria.  Gerardo  corre  su  la  ter- 
razza). 

Gerardo 
{a  voce  alta  e  vibrante) 

Gennaro!...  o  mio 
Gennaro!...  aspetta!  Anch'io  scendo  a  morire 
Con  voi  tutti,  fratelli!...  0  Ferdinando 
La  Rossa,  abbraccia  il  tuo  Gerardo!...  Io  vengo! 
Viva  Dio!  viva  il  Re! 
{Rieintra,  e  si  cMtìa  su  Luisa  aggiaccata  per  terra) 

Luisa,  o  triste 
Mia  fidanzata  nella  morte,  un  bacio! 
L'ultimo!...  Addio. 

Luisa 
{tendendo  disperatamente  le  braccia) 
No!.  No! 
.  {Gerardo,  sul  punto  d'uscire  per  la  porticina  di  sinistra^  s'im- 
batte nell'abate  Altobello,  che  entra). 


"       SGENA  V. 
Luisa,  Gerardo  e  '/'Altobello. 

L' Altobello. 

^  Bel  capitano, 

Buon  viaggio!  Vi  siete  messo  a  un  malo 
Sbaraglio,  quando  vi  saltò  quel  grillo 
Di  perseguitar  me,  servo  di  Dio. 

Gerardo. 
Dio  non  può  fare  ch'io  non  muoia  come 


Un  gentiluomo  e  voi  non  viviate 
Come  un  ribaldo! 


SCENA  VL 
Luisa  e  T Abate  Altobello. 


{Esce), 


{Luisa  si  trascina  in  ginocchi  fin  su  la  soglia  della  terrazza  e 
s'appoggia  della  mano  allo  stipite,  guatando  atterrita). 


220  la  sanfelice 

Luisa. 

È  là!...  è  lai...  Gerardo!... 
La  sciarpa!...  Bacia  la  mia  sciarpa!...  Ah,  quanto 
M'amava!...  No!...  noi...  no!...  Gerardo  mio! 

Gerardo  e  Gennaro 

[daUa  piazza) 

Viva  Dio!  viva  il  Re! 

[S'ode  im' altra  scarica  di  moschetteria.  Luisa  si  copre  con  le 
palme  la  faccia  e  s'accascia  per  terra). 

Luisa.  ^ 

Tutto...  è  finitol 
[V Abate  Altobello  giurrda  imptissibile). 

Cade  la  tela. 

G.  A.  Cesareo. 

(Proprietà   letteraria:    tutti   i  diritti  riservati). 


LETTERE  A  MIO  PADRE  DALL'AMERICA 

(1866-1867) 


Shangai,  ,14  febbraio  1867. 

Siamo  in  mezzo  ai  ribelli,  e  abbiamo  attraversato  contrade  dove 
ebbero  luogo  furiose  battaglie.  Ieri,  dopo  aver  danzato  da  Mrs.  Wal- 
lak  sino  alle  sei  del  mattino,  alle  sette  e  mezzo  abbiamo  lasciato  Wa- 
shington, Cantagalli,  Van  Havre  della  Legazione  di  Olanda,  il  prus- 
siano d'Holstein,  di  Bassano  e  Benedetti  della  Legcizione  di  Francia, 
il  francese  Dufour  ed  io,  equipaggiati  per  la  caccia.  Il  treno  ci  tra- 
sporta lungo  la  valle  del  Potomac,  incantevole  per  superbi  boschi  di 
querce,  di  noci,  di  olmi,  di  salici  piangenti  giganteschi,  a  traverso 
campagne  di  granturco,  difese  da  curiose  staccionate  a  zig-zag. 

Ma  alla  placida  maestà  della  natura  fanno  doloroso  riscontro 
le  testimonianze  della  ferocia  umana  :  tutta  la  regione  è  seminata  di 
mine:  a  Monocarj-,  dove  il  treno  si  ferma  5  minuti,  caddero  a  mi- 
gliaia i  combattenti  :  a  Harper  ferry,  attraversiamo  il  Potomac  su  un 
ponte  in  ferro  di  insuperabile  leggerezza;  ma  anche  qui  avanzi  di 
case  bruciate  o  demolite  dal  cannone;  alla  stazione  della  ferrovia 
tettoie  dilaniate,  qui  John  Brown  iniziò  la  lotta  immane  che  terminò 
con  la  emancipazione  di  4  milioni  di  schiavi.  Entriamo  nella  vallata 
del  Shenandoah,  che  fu  sistematicamente  devastata  dalla  cavalleria 
di  Sheridan.  I  compagni  di  viaggio  indigeni  ci  mostrano  a  ogni  tratto 
un  rudere,  a  cui  è  attaccato  un  triste  ricordo.  In  luogo  delle  an- 
tiche masserie,  meschine  catapecchie.  A  Martinsburg  ci  aspetta  una 
folla  compatta  di  curiosi,  avvisati  telegraficamente  del  nostro  ar- 
rivo. Ci  fa  da  cerimoniere,  per  eccezione  fra  tanti  sudisti,  un  repub- 
blicano che  si  buscò  quattro  ferite,  combattendo  contro  i  Confede- 
rati. Presentazioni,  strette  di  mano  senza  fine,  «  You  mus  bave  a  title 
of  course  ».  Quella  brava  gente  non  concepisce  un'Europeo  di  conto 
senza  un  titolo  :  credo  sieno  rimasti  un  po'  delusi  dovendo  accon- 
tentarsi di  chiamarmi  modestamente  «  Captain  »,  come  loro  insegna 
Cantagalli,  storpiando  poi  il  mio  nome  nei  modi  più  bizzarri. 

Dopo  un  pranzo  frugale,  un  piatto  e  contomo  di  legumi,  passeg- 
giamo per  la  cittadina  di  5  mila  abitanti,  dalle  case  di  legno  e 
dalle  strade  orribili.  La  Banca  e  la  Corte  di  Giustizia  sono  due  stam- 
berghe che  starebbero  comodamente  sotto  il  nostro  porticato.  La 
chiesa  cattolica  e  presbiteriana,  ora  ridonate  al  culto,  servirono  una 
come  stalla,  l'altra  come  ospedale.  Teatro  di  sanguinosi  combatti- 
menti, Martinsburg  risente  ancora  dei  colpi  ricevuti.  Un  sudista 
mi  descrive  la  carica  di  cavalleria  nelle  vie,  mentre  egli  sparava  dalla 


222  LETTERE  A   MIO  PADRE  DALL'AMERICA    (1866-1867) 

finestra.  Passata  la  notte  nell'unica  locanda,  stamane  siamo  partiti 
con  i  nostri  accompagnatori,  su  vecchi  carri  di  ambulanza,  offrendo 
esilarante  spettacolo  ai  biricchini  che  si  recavano  a  scuola.  Siamo 
sballottati  su  una  strada  infame,  sempre  a  traverso  un  paesaggio  me- 
raviglioso, fra  alberi  secolari  dei  quali  molti  abbattuti,  imputridi- 
scono, mentre  fu  loro  levata  la  corteccia  per  la  concia  delle  pelli; 
unico  indizio  della  esistenza  di  uomini,  una  loghtU  di  legnaioli 
fatta  di  rami  d'alberi  impastati  di  fango.  Felici  di  sgranchirci, 
imprendiamo  a  piedi  la  salita  delle  colline,  lasciando  al  basso  la 
vegetazione  a  foglia  caduca,  e  penetrando  nei  boschi  di  conifere. 
Passiamo  a  guado  il  ifiume  Back  Creek,  che  dà  il  nome  anche  alle 
montagne,  ed  eccoci  nello  settlement  del  sig.  Kitcher,  che  ci  accoglie 
con  la  proverbiale  cordialità  dei  Sud  Americani,  nell'abitazione  im- 
provvisata, in  cui  servizi  e  comodità  sono  ancora  in  istato  embrio- 
nale. Il  nostro  ospite  è  membro  del  Congresso;  è  padrone  di  700  acri 
di  terreno,  che  lo  facevano  vivere  agiatamente;  la  guerra  spazzò  via 
villa,  cascinali,  bestiame,  coltivatori.  Bisogna  da  capo  dissodare,  edi- 
ficare, popolare;  egli  vi  si  è  accinto  serenamente,  con  pacata  energia; 
incontriamo  un  suo  figliuolo  che  riconduce  un  carico  di  legna;  altri 
lavorano  nei  campi.  Nel  fango  sino  ai  ginocchi,  visitiamo  stalle,  fie- 
nili, colombai,  imbastiti  alla  diavola,  con  tronchi  mal  connessi,  in 
attesa  di  miglior  vita.  Da  tenace  Yankee  sarebbe  pronto  a  subire  le 
conseguenze  di  un'altra  guerra  anziché  rinunciare  al  completo  trionfo 
dei  suoi  principii. 

Per  non  far  torto  a  nessuno,  andiamo  a  cenare  da  un  vicino,  que- 
sto democratico.  Al  sig.  Granton  appartengono  800  acri,  coltivati 
a  grano,  mais,  avena,  su  cui  pascolavano  non  so  quanti  capi  di  ca- 
valli, buoi  pecore,  polli;  possedeva  20  famiglie  di  negri,  e  smaltiva 
i  prodotti  sul  mercato  di  Richmond.  Anche  qui  la  guerra  fece  tabula 
rasa.  Ora  tiene  a  coadiuvarlo  8  famiglie  di  salariati,  che,  a  sua  con- 
fessione, gli  fanno  un  lavoro  assai  più  redditivo  di  quello  dei  nume- 
rosi schiavi.  Buona  la  cena  al  lume  di  una  candela  di  sego,  imban- 
dita dai  figli  e  dalle  figlie.  Il  sig.  Granton  è  favorevole  alla  politica 
di  Johnson,  ma  non  ha  simpatia  per  la  sua  persona:  discutendo  con 
molta  calma,  disapprova  il  modo  violento  con  cui  fu  abolita  la  schia- 
vitìi,  mentre  i  negri  non  erano  preparati  alla  libertà;  non  sanno  va- 
lersene, e  fu  crudeltà  l'averli  abbandonati  a  loro  stessi;  conveniva 
lasciar  agire  il  tempo:  così  la  pensano,  dice,  tutti  i  suoi  conterranei. 
Le  ambulanze  ci  riportano  a  dormire  dal  sig.  Kitchne,  Io  ti  scrivo, 
poco  edificato  sui  progetti  di  caccia  di  domani.  Basta,  vedremo.  In- 
tanto piove  a  rovesci. 

Washington,  17  febbraio  1867. 

Che  fiasco  la  caccia;  ma  come  interessante  la  spedizione.  Il  sig. 
Pendleton,  del  quale  ci  avevano  vantate  le  qualità  venatorie,  o  non 
le  ha  mai  avute,  o  le  ha  dimenticate  :  una  vera  mistificazione:  cosa 
del  resto  non  rara  in  America,  dove  è  savio  consiglio  non  contare  su- 
gli altri:  ognuno  provveda  da  se  ai  casi  propri.  Non  cani,  non  batti- 
tori, punto  provisioni;  tre  pretesi  cacciatori,  mal  in  arnese,  non  sanno 
dove  guidarci  :  rimangono  intontiti,  a  bocca  aperta,  vedendo  cadere 
un  fagiano,  colpito  a  volo.  Il  fatto  è  ohe  nessuno  qui  trova  il  tempo 


I 


LETTERE  A   MIO  PADRE  DALL'AMERICA    (1866-1867)  22S 

per  cacciare,  neppure  per  diporto.  Facciamo  di  necessità  virtù,  pi- 
gliamo con  noi  dei  cagnetti  da  pagliaio  e  ci  addentriamo  nella  selva, 
malgrado  la  pioggia.  Che  incanto  di  paese;  quei  macchioni  di  larici, 
dal  verde  tenero,  sono  una  bellezza  :  in  poche  ore,  percorrendo  forse 
due  miglia,  abbiamo  scovato  un  cervo,  caprioli,  dindi,  volpi  e  fagiani 
a  bizzeffe;  è  la  terra  promessa  dei  cacciatori.  Ma  l'acqua  cade  a  tor- 
renti; è  inutile  insistere;  ripariamo  in  una  loghut  in  attesa  di  uno 
squarcio  di  sereno.  Si  accendono  le  pipe,  si  svitano  i  coperchi  delle 
fiasche  di  Wisky^  ci  asciughiamo  alla  meglio  gli  abiti  inzuppati;  si 
pigliano  in  giro  i  compagni  che  sballano  racconti  di  avventure  favo- 
lose fra  i  Sioux,  nelle  prairies  dell'Ovest,  alla  caccia  del  bufalo.  En- 
trano a  ricoverarsi  alcuni  paesani  con  pastrani  grigi,  capelli  e  barbe 
prolisse,  con  certe  canne  di  revolver  nella  cintura  e  certe  vecchie  ca- 
rabine che  mi  puzzano  d'aver  buttato  giù  più  d'un  Yankee:  hanno 
tutta  l'apparenza  di  superstiti  dei  guerillas  di  Mosby,  che  scorazza- 
rono in  questi  paraggi.  Li  invitiamo  a  bere,  e  scambiamo  cortesie. 
Continuando  il  diluvio,  ci  avviamo  alla  masseria,  ripromettendoci  la 
rivincita  il  giorno  dopo. 

Quale  amaro  disinganno.  I  cavalli  sono  attaccati  e  se  non  par- 
tiamo immantinenti,  si  arrischia  di  non  poter  più  attraversare  il  Bak 
Creek,  già  gonfiato,  e  di  rimanere  bloccati  a  Shangai,  Dio  sa  sino 
a  quando.  Strette  di  mano  frettolose,  assalto  ai  furgoni  e  via.  Nel  Bak 
Creek  i  cavalli  hanno  l'acqua  sopra  la  pancia.  Arriviamo  dopo  quat- 
tro ore,  indolenziti,  fradici,  affamati,  alla  locanda  di  Martinsburg 
dove,  dopo  una  cena  succulenta,  seduti  intomo  a  un  buon  fuoco,  non 
invidiamo  il  comfort  del  Grand  Hotel.  Giunti  qui  jersera,  sgattaio- 
liamo mogi,  a  orecchie  basse,  ognuno  al  suo  alloggio,  in  attesa  delle 
canzonature  che  ci  aspettano  dopo  le  smargiassate  con  cui  preconiz- 
zavano nei  salotti  un  ritomo  con  la  pelle  dell'orso. 

Io  però  sono  contento  della  gita:  mi  diede  occasione  di  vedere 
paesi  e  costumi  all'infuori  dei  consorzi  cittadini,  di  apprezzau^,  in 
una  delle  forme  più  impressionanti,  la  ferrea  volontà  della  razza.  Il 
ricordo  di  Shangai  rimeirrà  vivo  nella  mia  mente  quanto  quello  dei 
centri  popolosi.  Non  novera  che  una  trentina  di  settlement^  con  tre- 
cento abitanti  al  più;  ma  cpiale  mirabile  esempio  ci  danno  quei  forti 
che,  sprezzanti  degli  agi,  con  attività  instancabile,  si  affidano  alla 
terra  per  il  ripristino  delle  fortune  distrutte,  per  il  progressivo  incre- 
mento della  loro  sorte.  Nello  stesso  tempo  la  scuola  raccoglie  una 
quarantina  di  ragazzi,  e  un  d'essi,  che  interrogai,  mi  raccontò  che  vi 
si  insegna  grammatica,  storia,  geografia,  aritmetica.  E  tutti  leggono 
giornali,  e  stupii  di  sentire  codesti  rudi  settlers  più  informati  di  me 
degli  affari  del  mio  paese.  Volessero  solamente  avere  un  concetto  più 
esatto  di  quanto  promettono  :  secondo  le  lettere,  che  lessi,  dovevamo 
aspettarci  di  trovare  preparativi  grandiosi  :  e  non  avevano  nemmeno 
l'idea  dell'arte  venatoria. 

Richmond,  20  febbraio  1867. 

Questa  sgraziata  Vig^nia  in  che  stato  è  ridotta  :  dal  treno  scorgo 
alberi  abbattuti,  barriere  frantumate,  blookhouse  abbandonati,  avanzi 
di  trincee.  Richmond,  capitale  dei  Secessionisti  durante  la  guerra,  è 
arsa  a  metà.  I  Confederati,  quando  furono  costretti  ad  abbandonarla. 


224  LETTERE  A   MIO   PADRE  DALL'AMERICA   (1866-1867) 

vi  appiccarono  il  fuoco.  I  Federali,  entrando,  salvarono  quanto  me- 
glio poterono  dalle  fìanune.  Da  ciò  che  rimane,  dai  monumenti  in- 
tatti, si  capisce  come  fosse  considerata  una  delle  città  più  importanti 
dell'Unione.  Intanto,  malgrado  la  sconfìtta,  mantiene  il  carattere  ri- 
belle. I  ritratti  di  Davis  e  di  Lee,  il  presidente  e  il  generale  in  capo 
dtei  Confederati,  tengono  nelle  vetrine  e  per  ogni  dove,  il  posto  occu- 
pato dai  ritratti  di  Lincoln  e  di  Grant  nelle  città  del  Nord.  Le  signore 
per  le  strade  in  gramaglie.  Apro  un  giornale,  è  pieno  di  improperie 
contro  Sumner,  e  di  insinuazioni  contro  Mrs.  Sumner,  per  le  sue 
soirées  frequentate  dai  bei  giovani  delle  legazioni  europee.  Passa  un 
battaglione  di  uomini  di  colore  e  i  bianchi  scantonano  e  volgono  il 
viso,  mentre  i  negri  accorrono  ad  ammirarlo.  Non  v'ha  modesto  spet- 
tacolo a  cui  non  si  affollino  negri,  ebri  d'indipendenza;  passo  davanti 
a  una  scuola  di  ragazze  negre,  recentemente  istituita,  e  che  urta  ma- 
ledettamente i  nervi  alla  popolazione  bianca.  Ho  lettere  pel  coman- 
dante militare,  un  Federale,  e  per  John  Grining,  un  Sudista  :  natural- 
mente mi  affretto  a  presentarmi  a  quest'ultimo;  in  paese  ribelle  pre- 
ferisco stare  con  i  ribelli. 

Mr.  Grining  mi  conduce  al  cimitero,  dove  sono  sepolti  20  mila 
soldati  confederati.  Il  vasto  giardino,  che  lo  fiancheggia,  era  il  con- 
vegno della  società  brillante  di  Richmond;  eleganti  carrozze  vi  por- 
tavano cavalieri  e  dame  che  scendevano  a  passeggiarvi.  Ora  è  de- 
serto; mi  mostrò  la  casa  di  Davis,  e  il  quartiere  generale  di  Lee,  nella 
parte  eminente  della  città.  Mi  narrò  particolari  dell'assedio,  quando 
un  bicchierino  di  wisky  si  pagava  7  dòllari,  e  come  i  Confederati, 
stremati  di  gente,  mandassero  pattuglie  per  le  strade  a  raccattare 
vecchi  e  fanciulli,  che  vestivano  e  armavano  e  inviavano  a  riempire 
gli  enormi  vuoti  dei  reggimenti  che  occupavano  le  tre  cerchie  di  forti, 
a  3,  a  5,  a  7  miglia  dall'abitato.  Ora  il  comandante  Federale  funge  da 
Governatore  con  poteri  illimitati,  e  sebbene  non  sia  proclamato  lo 
stato  d'assedio,  né  la  legge  marziale,  sebbene  vi  sia  libertà  di  stampa, 
l'autorità  militare  interviene  e  mette  l'alto  là  quando  le  pare.  Il  mio 
Cicerone  loda  però  molto  lo  slancio  umanitario  con  cui  i  Federali  si 
adoperarono  a  segnere  gli  incendi,  accesi  per  cieca  rabbia  dai  Con- 
federati in  fuga;  grazie  a  tale  pronto  intervento,  furono  sottratti  alla 
distruzione  interi  quartieri. 

Memphis,  23  febbraio  1867. 

Un  bello  spirito,  salutandomi  a  Washington,  mi  diceva  :  «  An- 
date incontro  a  uno  dei  più  grandi  pericoli  del  mondo;  quattro  giorni 
di  ferrovia  americana».  Non  immaginavo  che  ciò  fosse  tanto  giu- 
sto :  si  cammina  su  rotaie  messe  giù  alla  meglio,  malamente  inchio- 
date sulle  traversine,  poggiate  sul  terreno  vergine,  ora  sassoso,  ora 
fangoso;  non  ombra  di  ballast.  Si  passano  passerelle  di  legno  che 
sembra  non  possano  sopportare  il  peso  del  convoglio,  e  quando  meno 
te  lo  aspetti  ecco  un  ponte  in  ferro,  solido  e  ben  costrutto  ;  così  quello 
sul  fiume  Kanaliwa.  Ben  inteso  si  va  adagio  su  un  tale  armamento. 
Le  carrozze  però  sono  comode,  e  la  notte  non  mancano  mai  gli  slee- 
ping  con  buoni  letti.  Dalla  piattaforma  del  vagone  di  coda  si  gode  a 
bell'agio  dello  spettacolo  del  paesaggio  e  delle  ondulazioni  dei  Monti 
Allegany;  delle  colline  e  delle  vallette  sono  molli  e  aggraziate;  nu- 


LETTERE  A   MIO   PADRE   DALL'AMERICA    (1866-1867)  225 

merosi  i  corsi  d'acqua;  boschi  stupendi;  c^mpa^e  di  mais  e  di  avena 
a  perdita  d'occhio.  Una  selva  di  aceri  zuccariferi  ferma  la  mia  atten- 
zione; a  ogni  fusto,  all'altezza  di  un  metro  dal  suolo,  sono  praticate 
due  incisioni  :  vi  sono  introdotte  due  cannule,  e  da  quelle  cola,  nel 
sottoposto  bacino  di  legno,  un  umore  dolcissimo,  usato  in  luogo  di 
zucchero.  Non  so  perchè  non  si  importino  in  Italia,  mentre  attec- 
chirebbero benissimo  anche  da  noi. 

Rovescio  della  medaglia:  la  malinconia  delle  macerie  e  delle 
brutte  catapecchie  improvvisate;  i  milioni  di  metri  cubi  di  legname 
sciupati,  abbandonati  a  terra  a  imputridire;  la  stancante  monotonia 
del  panorama,  per  quanto  ridente;  quelle  quercie  colossali,  quei  ver- 
deggianti pascoli  sempre  gli  stessi;  quelle  eterne  barriere  a  zigzag, 
stancano  gli  occhi;  quell'incessante  muggito  delle  locomotive  strazia 
gli  orecchi.  Gossl  mai  si  darebbe  per  un  po'  di  varietà!  Poi  la  valanga 
di  interrogazioni  con  cui  ti  assale  chiunque  salga  sul  treno  appena 
abbia  fiutato  l'europeo. 

Scendo  a  Bristol,  un  villaggio,  sebbene  conti  15  mila  abitanti, 
per  metà  in  Virginia,  per  metà  nel  Tenessee:  la  notte  non  una  sola 
lampada  accesa,  cosicché  si  arrischia  di  impigliarsi,  senza  speranza 
di  cavarsela,  nella  melma  glutinosa.  L'albergatore,  un  giovialone, 
con  un  diluvio  di  chiacchiere  contro  gli  Yankees,  mi  porge  dei  sigari 
pessimi,  e  dichiara  di  non  tenerne  di  buoni  per  pagar  minor  tributo 
all'odiato  Governo  di  Washington. 

Me  ne  vengo  giù  a  traverso  gli  Stati  del  Tenessee,  della  Georgia. 
dell'Alabama,  del  Mississipì,  toccando  Knoxville,  Cleveland,  Ghat- 
tanoga,  immortalata  dalle  vittorie  di  Sheridan,  Atene  Corinto  e  altri 
embrioni  di  borgate,  decorati  dì  nomi  pomposi.  Finalmente  ville  e 
giardini,  in  cui  abbondano  le  magnolie,  annunciano  la  vicinanza  di 
Memphis.  Dopo  tante  solitudini,  dopo  quei  luoghi  di  mediocre  im- 
portanza e  poco  seducenti,  allarga  il  cuore  il  giungere  in  un  centro 
pieno  di  animazione,  magnificamente  situato  sulle  rive  del  Mississipì, 
quale  è  Memphis. 

Dalla  finestra  del  Gayoso  House,  quasi  interamente  ristaurato, 
ho  la  vista  stupenda  del  fiume  maestoso,  degli  immensi  steamboats 
che  Jo  solcano;  su  l'un  d'essi  un  organo  suona  per  forza  di  vapore, 
onde  stimulare  i  facchini  che  lo  stanno  caricando,  e  mette  allegria. 
Sul  vasto  piazzale  del  qtuii  si  accumulano  merci  di  ogni  sorta,  sacchi 
di  grano,  balle  di  cotone,  attrezzi  rurali,  e  brulica  una  folla  di  negri, 
di  gente  d'ogni  colore,  di  carri  e  di  carriole.  Tntt'intomo  magazzini  di 
tutte  le  dimensioni.  Uno  dei  più  grandi  è  ridotto  a  caserma;  le  senti- 
nelle, dal  largo  cappello  piumato,  rammentano  ai  vinti  la  sconfìtta  :  e 
non  sanno  darsene  pace.  All'apparenza,  contemplando  l'attività  che 
regna  al  porto,  non  si  direbbe  che  una  guerra  disastrosa  abbia  pas- 
sato su  questa  contrada;  eppure  si  asseriva  che  prima  il  commercio 
fosse  enormemente  più  intenso.  Ma  la  posizione  di  Memphis  è  tede, 
che  è  questione  di  pochi  anni,  forse  di  pochi  mesi  il  ritornare  all'an- 
tica floridezza. 

Sono  andato  al  teatro;  lo  spettacolo  era  discreto,  ma  insopporta- 
bili i  fischi  assordanti  con  cui  il  pubblico  irrequieto  esprime  la  sua 
ammirazione.  Le  toilettes  delle  signore  un  po'  troppo  chiassose.  Non 
posso  assistere  al  ballo  che  il  proprietario  dell'albergo  dà  ai  suoi 


226  LETTERE  A   MIO   PADRE  DALL'AMERICA    (1866-1867) 

ospiti;  mi  mostra  i  preparativi  sfarzosi.  Peccato!  avrei  tanto  amato 
assistere  a  un  ballo  di  ribelli,  dopo  averne  frequentati  tanti  dei  trion- 
fatori. 

A  bordo  deAV  Arthur  sai  MiaaiflBipi 
27  febbraio  1867. 

Ripiglio  a  bordo  il  filo  delle  chiacchiere  interrogo  a  Memphis, 
mentre  stavo  per  salire  in  ferrovia.  A  mano  a  mano  che  il  treno  pro- 
cede il  clima  si  fa  mite,  sui  rami  germogliano  le  foglie,  incominciano 
i  campi  di  cotóne.  Faccio  sosta  a  Jackson  dove,  fra  le  catapecchie  di 
legno,  il  Gapitol  e  la  State  House,  in  completo  abbandono,  attestano 
soli  che  essS,  fu  la  capitale  dello  Stato  del  Mississipì.  Tentai  l'ascen- 
sione della  cupola,  ma  c'era  da  romx)ersi  l'osso  del  collo.  Qui  Sheri- 
dan  battè  Jaw  Johnson.  Tutt'intomo  il  terreno  è  ancora  seminato  di 
ossami,  di  scheletri,  di  cavalli,  di  schegge  di  bombe,  di  frantumi  di 
armi,  di  stracci;  nel  fondo  della  scena  lugubre,  in  una  trincea,  giace 
un'enorme  cannone  mezzo  sepolto  nel  fango,  a  cui  dei  teschi  fanno 
orrenda  corona.  L'Hotel  dove  pransw,  assai  male,  era  il  quartier  ge- 
nerale dei  Confederati;  fu  arsa  e  si  sta  ricostruendo.  L'oste,  accerta- 
tosi che  io  ero  forastiero,  si  diffonde  nei  particolari  dell'eccidio,  nella 
miseria  della  città  che  contava  4  mila  abitanti,  ora  solo  2  mila  e  po- 
veri. Mi  attento  di  confortarlo,  con  l'argomento  che  in  questi  paesi 
si  fa  presto  a  riaversi;  egli  crolla  il  capo,  impreca  agli  Yankee,  di- 
spera di  vedere  rifiorire  la  sua  Jackson,  almeno  per  una  generazione; 
rimpiange  il  passato,  quando  col  lavoro  degli  schiavi  si  raccoglieva 
cotone  a  josa. 

Impieghiamo  4  ore  a  percorrere  le  45  miglia  che  ci  separano  da 
Vicksburg,  in  un  treno  che  fa  balzi  di  caprioli,  passando  viadotti  su 
cavalietti,  che  mettono  raccapriccio  a  guardarli.  In  fondo  però  co- 
desti Americani,  col  loro  sistema  di  andare  alla  spiccia,  allacciano 
con  ferrovie  gli  angoli  più  reconditi  del  vasto  territorio,  né  perciò 
contano  molti  più  disastri  che  da  noi  in  Europa. 

Il  treno  si  ferma  sulla  sponda  del  Mississipì,  di  cui  non  si  finisce 
mai  di  amanirare  l'impónente  grandiosità.  VicksbuiTg  è  una  graziosa 
cittadina,  che  ha  già  il  fare  del  Sud;  pare  di  essere  in  Sicilia,  respi- 
rando quest'aria  balsamica.  Le  villette  dei  dintorni  sorgono  su  mon- 
ticelli  e  sono  circondate  di  giardini,  in  cui  predomina  il  lauro;  il 
tutto  di  assai  vago  aspetto.  Fu  assediata  dalle  truppe  del  generale 
Grant.  Un  invalidò,  ex  Confederato,  che  incontro  a  caso,  mi  indica 
le  trincee  che  costarono  più  sangue,  il  punto  dove  Grant  diede  l'as- 
salto finale,  la  lapide  commemorativa  che  segna  il  posto  dove  Grant 
accettò  la  resa  del  generale  Pemberton.  Mi  mostra  le  tracce  del  ca- 
nale iniziato  da  Grant  per  deviare  il  fiume,  che  fa  un  gomito  intomo 
a  Vicksburg,  onde  obbligare  la  piazza  a  cedere,  sull'esempio  di  Ciro 
a  Babilonia.  Ma  neppure  la  caparbietà  dell'Yankee  riuscì  a  superare 
la  spropositata  difficoltà  dell'impresa,  e  ei  dovette  accontentarsi  di 
attaccare  i  fortilizi  con  i  mezzi  usaìi  dal  comune  dei  mortali.  Ac- 
canto al  luridume  dei  ricordi,  l'accampamento  dei  Federali,  con  pu- 
lite baracche,  disposte  in  bell'ordine,  orticelli  curati  amorosamente 
dai  soldati,  e  sulla  fronte  due  cannoni  moderni,  montati  su  lucenti 
affusti  d'acciaio.  Le  sentinelle  mi  vietano  l'entrata. 


LETTERE  A   MIO   PADRE  DALL'AMERICA    (1866-1867)  227 

La  più  bella  veduta  di  Viksburg  la  ho  all'ultimo  momento, 
quando  si  salpa,  dal  ponte  dello  steamboat  sul  quale  sono  imbarcato. 
È  un  paese  galleggiante  codesto  mastodontico  naviglio  :  vi  sono  am- 
massati branchi  di  pecore,  di  maiali,  di  cavalli,  di  mule  (ve  ne  sono 
di  bellissime;;  balle  di  cotone,  barili  di  wisky^  qucurti  di  lardo.  Nella 
prima  classe,  al  piemo  superiore,  104  letti  nelle  cabine  collocate  in- 
torno al  lussuoso  salone,  lungo  90  dei  miei  passi  e  largo  8,  in  cui, 
all'occorrenza,  si  possono  accomodare  100  altre  cuccette.  Lia  parte 
meglio  addobbata  è  riservata  esclusivamente  al  sesso  gentile;  ana- 
tema al  reprobo  che  non  rispetta  la  clausura. 

Per  lungo  tratto  a  valle,  il  re  dei  fiumi  dell'America  scorre  fra 
rive  selvagge,  coperte  di  fitte  foreste,  fra  le  quali  appare  raramente 
una  capanna  da  boscaioli.  Si  direbbe  che  unicamente  gli  steamboats 
sieno  degni  di  solcare  le  sue  torbide  acque  :  ne  incontriamo  a  lunghi 
intervalli;  la  notte,  illuminati,  sono  di  un'effetto  fantastico;  all'infuori 
di  essi  mai  vidi  una  sola  barca:  migliaia  di  anitre  selvatiche  si  le- 
vano quasi  sotto  le  ruote  per  perdersi  fra  i  giunchi  e  il  folto,  e  danno 
un  po'  di  vita  alla  impressionante  solitudine.  A  Grand  Gulf  un  testi- 
monio dell'azione,  mi  addita  le  alture  donde  i  Confederati  cannoneg- 
giarono 15  cannoniere  dell'ammiraglio  Ferragut.  Allo  scalo  di  Nat- 
chez,  fra  le  tenebre,  tizzoni  resinosi  accesi  vestono  di  bagliori  le  teste 
tignose,  le  membra  di  pece  di  diavoli  che,  al  cenno  imperioso  di  un 
Belzebù  bianco,  a  furia  di  schiamazzi,  spingono  a  terra  anime  di 
dannati  incarnate  nei  corpi  di  montoni  e  di  porci. 

Guardando  questa  bolgia  Dantesca,  il  pensiero  corse  a  ricordare 
con  emozione  gli  eroi,  che  per  fede  ai  principi,  con  ineffabile  carità 
cristiana,  con  sublime  abnegazione,  versarono  fiumi  di  sangue,  pro- 
fusero sostanze,  per  emancipare  simili  esseri,  abbrutiti  non  so  se  più 
dallo  staffile  o  dall'essere  di  razza  inferiore.  Mi  domfindo  se  tali  esseri 
meritavano  l'enorme  sacrifizio.  Mi  domando  se  mai  si  riescirà  a  di- 
rozzarli, a  farne  dei  membri  coscenti  dei  diritti  e  dei  doveri  dell'uomo 
libero,  come  l'intendono  i  miei  amici  filantropi  del  Nord;  se  mai  si 
completerà  l'opera  di  redenzione  da  loro  intrapresa  con  imperturba- 
bile fiducia.  Bah!  Mentre  per  poco  non  mi  intenerisco,  buttando  giù 
queste  impressioni,  quella  brutta  faccia  di  negro,  che  fa  il  servizio 
della  cabina,  entra  gesticolando  da  energumeno,  mi  si  pianta  din- 
nanzi, e  apre  la  bocca,  con  que'  denti  di  morto,  a  un  sorriso  idiota, 
interminabile,  che  mi  invoglia  a  pigliarlo  a  pugni,  e  finisce  col  far 
ridere  fino  alle  lagrime  anche  me. 

Ci  accostiamo  a  una  riva  deserta  a  far  legna;  tanto  i  vapori  sui 
fiumi  quanto  le  lecomotive  in  terra,  si  fermano  a  rifornirsi  di  com- 
bustibile dalle  cataste  preparate  in  piena  foresta;  è  meno  costoso  del 
rifornimento  nelle  stazioni.  A  Bayon  Sara  si  sbarcano  le  mule  che  ci 
danno  il  divertimento  di  una  corsa  pazza  giù  per  le  praterie.  Oltre 
Baton  Rouge,  anticamente  capitale  della  Luisiana,  che  già  presenta 
abitazioni  dall'aspetto  civilizzato,  aggruppate  intomo  a  un  Gapitol 
di.  bizzarra  architettura  tutta  a  torrette,  il  paese  assume  poco  a  poco 
carattere  meridionale:  le  pianticelle  di  cotone  si  alternano  con  le 
canne  da  zuccaro:  appaiono  palmeti  e  muse,  e  aranci  e  agrumi  d'osmi 
specie,  in  fiore:  collages  civettuoli  con  le  verande;  fattorie  nascoste 
fra  il  verde.  Eccoci  finalmente  a  Nuova  Orleans. 


228  LETTERE  A   MIO   PADRE   DALL'AMERICA  (1866-1867) 

Nuora  Orleans,  !<>  marzo  1867. 

Godo  tanto  il  buon  caldo,  la  vegetazione  semitropicale,  la  gaiezza 
degli  abiti  prima verili,  la  dolce  sorpresa  di  assidermi  al  caffè  in  fac- 
cia a  un'aranciata,  invece  di  ingoiare  un  cocktail,  in  piedi  nel  bar;  di 
guardare  le  signore  in  grande  decolleté,  da  Bellànger,  la  Gonfisene 
alla  moda,  in  Ganal  Street,  prendere  il  gelato  quando  escono  dal 
teatro.  Ma  più  di  tutto  godo  mescolarmi  alla  folla  giuliva,  che  san- 
tifica la  festa  riversandosi  per  i  giardini,  per  i  resturants  della  città  e 
dei  sobborghi,  e  eino  a  notte  inoltrata  fa  il  chiasso  dai  confettieri  e 
si  diverte  nei  teatri.  Ricordando  la  musoneria  delle  domeniche  pro- 
testanti, mi  inchino  a  questi  padri  Gesuiti,  che  governano  le  coscenze 
della  massa  cattolica,  certo  con  sistemi  non  di  nostro  genio,  ma  le 
permettono,  dopo  gli  uffici  nella  chiesa  sfarzosa,  di  sollevare  aperta- 
mente anima  e  corpo  dalle  fatiche  della  settimana.  Questa  è  l'affer- 
mazione più  convincente  della  latinità  della  metropoli  della  Luisiana. 
Venendo  da  quei  centri  annebbiati  del  Nord,  Nuova  Orleans,  lumi- 
nosa, festosa,  arieggiata,  mi  fa  l'impressione  della  più  bella  città  che 
abbia  vista  dacché  toccai  gli  Stati.  E  ha  di  belle  costruzioni  :  case  in 
pietra  o  in  mattoni,  con  verande  in  ferro  ben  lavorate,  sebbene  un 
po'  pesanti,  contrade  ben  lastricate,  solcate  da  una  rete  di  rotaie,  su 
cui  scorrono  carrozzoni  dipinti  con  arabeschi  all'uso  dei  veicoli  del 
secolo  passato,  tirati  da  un  mulo.  Una  profusione  di  luce  nelle  strade, 
nelle  ampie  e  ricche  botteghe,  nelle  spaziose  pasticcerie  che  tengono 
luogo  dei  nostri  caffè. 

Ganal  Street,  l'arteria  principale,  sta  alla  pari  dei  Gorsi  più  rino- 
mati di  molte  capitali  :  nel  mfezzo,  da  un  capo  all'altro,  si  stende  un 
vago  tappeto  erboso,  adomo  di  piante  variate;  i  marciapiedi  sono  po- 
polati giorno  e  sera  da  moltitudine  variopinta,  allegra,  che  allarga  il 
cuore  a  guardarla.  Jackson  Square,  pieno  di  aranci,  di  nespole  del 
Giappone,  di  muse,  con  fiori  e  frutti,  ha  nel  mezzo  la  copia  della 
statua  dfel  generale  Jackson  esistente  a  Washington  :  è  in  atto  di  sa- 
lutare i  cittadini  che  lo  ricevono  festanti  per  la  vittoria  contro  gli  In- 
glesi alla  foce  del  Mississipì.  La  chiesa  dei  Gesuiti,  su  disegno  di  uno 
dei  Padri,  vale  poco. in  fatto  di  architettura;  il  Gollegio  che  le  sta  ac- 
canto è  in  stile  moresco.  Di  architettura  moresca  è  anche  il  Moresque 
building,  tutto  in  ferro,  che  occupa  un'intero  block,  e  fu  costruito 
da  un'italiano,  che  fallì  a  metà  dell'impresa.  Vi  si  tiene  oggi  un  ba- 
zar di  beneficenza  a  profìtto  dei  soldati  ex  Gonfederati.  Le  sigmore 
venditrici,  in  generale  nere  di  occhi  e  di  capelli,  molto  eleganti,  sono 
coadiuvate  da  ex  ufficiali,  tra  i  quali  distinguo  il  generale  Hood,  che 
cammina  con  le  grucce,  per  ferite  riportate  nel  Tenessee,  alla  testa 
del  suo  corpo  d'esercito  sudista.  Vi  vedo  un  buggy  destinato  ai  figli 
di  Jefferson  Davis,  l'ex  presidente  dei  ribelli.  La  Ristori  vi  declama 
dei  versi.  Non  conoscendo  ancora  nessuno,  risjmrmio  di  essere  prelato. 

L'Hotel  St.  Charles,  monumentale,  è  il  ritrovo  degli  uomini  di 
affari  e  dei  cavalieri  d'industria  del  Sud.  Il  suo  peristilio  è  una  borsa, 
e  all'occasione  vi  si  scambiano  colpi  di  revolver.  Non  c'è  da  scher- 
zare col  sangue  latino;  permane  la  consuetudine  del  duello;  gli  scon- 
tri hanno  luogo  alla  spada,  al  fucile  a  due  canne,  e  persino  al  col- 
tello, e  di  solito  a  morte.  Tre  giorni  or  sono  un  marito  sfidò  un  tale 
che  aveva  insultato  sua  moglie;  si  batterono  al  fucile,  spararono  nello 


LETTERE  A   MIO  PADRE  DALL'AMERICA  (1866-1867)  229 

stesso  istante  e  caddero  morti  tutt'e  due.  Però  ora  si  vanno  calmando 
i  bollenti  spiriti,  forse  per  influenza  degli  Yankee,  i  quali  tutfal  più 
si  pic-chiano  alla  box.  Io,  per  consiglio  di  conoscenti,  discesi  al  tran- 
quillo St.  Louis  Hotel. 

Ritomai  a  rivedere  il  Mississipì,  in  compagnia  di  un  compia- 
cente Orleanese,  per  avere  un  po'  contezza  esatta  dei  siti,  appena  in- 
travisti sbarcando.  Egli  mi  spiegò  che  il  suolo  della  città  è  in  gran 
parte  sotto  il  livello  del  fiume,  ciò  che  obbliga  a  scaricare  le  acque 
delle  fogne  nel  Icigo  Pontchartrain,  dall'altra  parte  della  penisola,  e 
che  si  riversa  nel  mare!  Quando  il  fiume  si  gonfia,  malgrado  i  prov- 
vedimenti precauzionali,  i  condotti  alle  volte  si  ostruiscono,  e  si 
hanno  parziali  inondazioni.  Il  terreno  poi  in  questi  paraggi  non  è 
solido;  prova  ne  sia  l'edificio  della  Dogana,  fatto  erigere  dal  generale 
Beauregard,  ostinato  nella  persuasione  del  contrario,  il  quale  già  si 
affondò  di  3  piedi. 

Ricondottomi  sulla  spianata  degli  approdi,  formata  in  parte  di 
terra  riportata,  in  parte  di  assiti  poggiati  su  piloni  di  legno,  veden- 
domi estatico  dinanzi  al  mera\'iglioso  spettacolo  dell'immenso  traf- 
fico e  degli  innumerevoli  steaniboats  e  steamer  d'alto  mare,  allineati 
ai  guai,  la  mia  guida  assevera  che  il  movimento  attuale  non  dà  che 
una  pallida  idea  di  quello  che  era  prima  della  guerra.  Qui  si  accu- 
mulano i  prodotti  principali  del  paese,  cotone  e  zuccaro.  La  coltiva- 
zione del  cotone  è  per  ora  limitata  alle  fattorie  dell'alta  Luisiana, 
mentre  nella  bassa  si  dovette  rinunciarvi  e  accontentarsi  della  canna 
da  zuccaro,  in  causa  di  un  bruco,  che  favorito  dalla  temperatura  della 
regione,  infestava  le  piantagioni,  penetrava  nelle  capsule,  e  distrug- 
geva senza  remissione  l'intero  raccolto.  Il  commercio  perduto  è 
quello  del  tabacco.  Tutti  i  noti  tabacchi  del  Kentucky,  scendevano  a 
a  questo  scalo,  donde  si  distribuivano  nel  mondo  intero.  Gol  blocco 
del  fiume  gli  e^xwrtatori  in\'iarono  i  loro  prodotti  per  ferrovia  a  New 
York.  Ancora  sono  legati  ai  capitalisti  di  quella  metropoli  per  le 
grosse  somme  loro  avanzate,  ma  non  v'ha  dubbio  che,  superata  la 
crisi,  il  commercio  del  tabacco  abbia  a  riprendere  la  via  più  eco- 
nomica. 

Nuova  Orleans,  2  marzo  1867. 

Canal  Street  divide  la  città  in  due  parti  distinte;  all'Ovest  i  quar- 
tieri degli  Americani,  laboriosi,  dediti  agli  affari  e  ai  traffici,  hanno 
già  rifatto  e  disfatto  fortune,  hanno  già  riparato  ai  danni  della  guerra. 
Dall'altro  lato  la  famosa  società  creola,  di  origine  francese,  aristocra- 
tica, orgogliosa  dei  suoi  immensi  latifondi,  sui  quali  manteneva  eser- 
citi di  schiavi,  e  menava  vita  da  Sardanapali.  La  sua  opulenza  fu 
terribilmente  scossa  per  la  emancipazione  dei  negri  che  lasciarono 
le  terre  incolte.  Possedendo  essa  il  suolo,  risorgerà,  quando  il  lavoro 
libero  sarà  assettato  e  darà  anzi  migliori  frutti.  Ma  la  concorrenza 
degli  Americani  è  ora  formidabile,  e  diflBcilmente  i  creoli  riprende- 
ranno la  primiera  incontestata  supranazia  sociale.  In  seguito  alla 
vittoria  del  Nord  i  negri  disertarono  le  piantagioni  o  ne  furono  tolti 
a  forza;  ma  la  loro  illusione  di  poter  vivere  senza  faticare  fu  di  corta 
durata,  e  ritornano  alle  fattorie  per  naturale  riflusso,  indipendente- 
mente da  ogni  ingerenza  estranea. 


230  LETTERE  A   MIO   PADRE  DALL'AMERICA    (1866-1867) 

Zelanti  riformatori  del  Nord,  co^  lodevole  proposito  di  tutelare  i 
nuovi  emancipati  nei  loro  rapporti  con  gli  antichi  padroni,  istitui- 
rono il  Freemens  bureau.  I  negri  dovevano  iscriversi  al  bureau,  dov© 
il  piantatore  si  sarebbe  presentato  a  chiedere  i  lavoratori  che  gli  oc- 
correvano; il  bureau  glie  ne  forniva  quanti  ne  voleva,  riscuoteva  le 
paghe  che  versava  al  negro,  vegliava  all'esecuzione  dei  contratti. 
Doveva  poi  soccorrere  e  curare  i  negri  non  ancora  occupati,  procu- 
rare loro  il  modo  di  imparare  le  nozioni  indispensabili  per  esercitare 
scientemente  il  diritto  di  voto.  Bellissimo  prowedimehto  in  teoria; 
nella  pratica  fallì.  Impiegati  rapaci  intascavano  i  salari,  lasciando 
morire  di  fame  i  loro  amiministrati,  li  facevano  lavorare  per  proprio 
conto  senza  compensarli;  pigliavano  regali  dai  padroni;  tanto  che  il 
FreemerCs  bureau  mette  ancora  spavento  ai  poveri  negri  al  solo  no- 
minarlo. Né  c'è  da  stupirsi,  perchè  anche  i  funzionari  dello  Stato, 
magari  nelle  alte  sfere  della  gerarchia,  rubano  e  si  fanno  ricchi  ves- 
sando i  contribuenti  con  sorprusi  e  angherie.  Questo  discorso  mi  te- 
neva un  socio  al  Club  e  te  lo  trascrivo  non  garantendo  che  non  con- 
tenga esagerazioni. 

Io  seguo  il  consiglio  datomi  da  un'illustre  scienziato  :  quando  si 
osserva  un  fenomeno  notare  i  minimi  particolari,  aprendo  occhi  e 
orecchi;  non  soffermarsi  a  formfulare  giudizi  e  critiche;  le  deduzioni 
si  fanno  dopo,  ragionando  nella  calma  del  proprio  gabinetto.  E  il 
fenomeno  che  sto  osservante  sono  gli  Stati  Uniti. 

Debbo  però  dire,  a  onor  del  vero,  che  il  mio  informatore  concluse 
ammettendo  che  vi  sono  apostoli  sinceri,  degni  del  maggior  rispetto, 
che  vengono  dal  Nord  a  impiantare  scuole  per  la  gente  di  colore  con 
buoni  maestri,  a  predicare  la  buona  novella  con  pazienza  evangelica. 

Raguagli  precisi,  perchè  basati  su  esperienza  personale,  mi  sono 
fomiti  dal  sig.  Forstall,  il  gran  finanziere,  che  mi  accoglie  sempre 
cordialmente  nella  sua  splendida  residenza.  Il  sig.  Forstall,  malgrado 
i  suoi  70  anni,  conserva  un'attività  invidiabile,  e  una  lucidità  di  spi 
riti,  che,  data  la  profonda  conoscenza  delle  condizioni  del  paese,  pas- 
sate e  presenti,  gli  permette  di  argomentare  sulle  future.  Prima  della 
guerra  i  suoi  numerosi  schiavi  vivevano  sotto  un  regime  patriarcale; 
ei  provvedeva  largamente  al  loro  sostentamento,  si  occupava  del  loro 
benessere;  formavano  una  famiglia.  In  seguito  all'invasione,  i  soldati 
federali  strapparono  i  negri  dalle  piantagioni  per  rompere  le  abitu^ 
dini  dolla  servitù,  sì  che  molti  di  quei  poveri  diavoli,  non  usi  alla 
libertà,  incapaci  di  sopperire  ai  bisogni  della  vita,  morirono  di  stenti 
e  di  malattie.  Mi  diede  a  leggere,  a  questo  proposito,  una  lettera  cu- 
riosissima inviata  da  lui  a  Londra  all'epoca  della  occupazione  del  ge- 
nerale Buttler,  in  cui  appunto  descriveva  le  dure  prove  a  cui  era  sot- 
toposta la  Luisiana.  Ora  quasi  tutti  i  suoi  vecchi  servitori  sono  di 
nuovo  sulla  piantagione,  come  liberi  lavoratori.  Per  nulla  al  mondo 
ritornerebbe  al  primiero  sistema,  mentre  il  capitale  impiegato  in 
schiavi  era  enorme,  sempre  soggetto  a  deperimento,  e  il  manteni- 
mento di  tutta  quella  gente  richiedeva  spese  fortissime,  e  infinito  tra- 
vaglio. Ora  paga  i  lavoranti  un  dollaro  al  giorno  sotto  forma  di  boni, 
con  i  quali  possono  comperare  cibo  e  vestiti  nei  magazzeni  impian- 
tati sulla  piantagione.  Alla  fine  della  settimana  saldano  i  conti.  Non 
trova  gran  differenza  fra  la  quantità  di  lavoro  prodotta  dal  negro  e 


LETTERE  A   MIO   PADRE  DALL'AMERICA    (1866-1867)  231 

quella  di  un  bianco.  Anche  fra  i  negri  si  incontrano  quelli  che  spen- 
dono quanto  guadagnano  e  quelli  che  mettono  da  parte  :  ma  lo  stesso 
avveniva  quando  erano  schiavi.  Il  sig.  Forstall  insiste  poi  cortese- 
mente perchè,  io  lo  segna  a  vedere  le  sue  culture,  il  funzionamento 
delle  macchine,  l'impianto  modernissimo  per  la  raffinazione  dello 
zuccaro  nella  sua  tenuta,  ben  nota  per  essere  una  delle  più  estese 
della  Luisiana,  e  per  la  larga  ospitalità  che  vi  si  offre. 

Con  la  parola  misurata  del  sig.  Forstall,  fa  singolare  contrasto  la 
foga  passionale  dei  g-iovani,  che  prorompe  impetuosa  appena  si  toc- 
chi il  tasto  della  politica,  dovunque  io  mi  incontri,  al  Club,  nei  caffè, 
nei  convegni  mondani.  Alla  serata  di  Madame  Segnin,  figlia  del 
sig.  Peychot,  mi  si  raccolse  intomo  un  gruppo  di  uomini  ai  quali  non 
pareva  vero  di  versare  in  seno  a  un  Europeo  la  piena  del  risentimento 
che  ribolle  nei  petti  dei  sudisti. 

Ci  siamo  sottomessi  in  buona  fede,  abbiamo  accettato  la  condi- 
zione di  vinti,  e  non  ci  ribelleremo  più;  malgrado  gli  insulti  continui, 
dopo  la  sottomissione  non  s'ebbe  mai  l'ombra  di  un  tentativo  di  ri- 
prendere la  guerra,  né  ne  avremmo  i  mezzi  dacché  ci  hanno  tolte  le 
armi  e  hanno  devastato  le  nostre  campagne.  La  schiavitù  è  caduta; 
più  tra  noi  nessuno  la  vorrebbe  rialzata.  La  crisi  è  stata  violenta,  ma 
ora  che  l'amputazione  è  fatta  ce  ne  troviamo  bene,  e  apprezziamo  i 
vantaggi  del  lavoro  libero.  Ora  abbiamo  bisogno  di  pace,  di  indip)en- 
denza  per  risorgere,  far  rifiorire  il  pciese  a  profìtto,  non  solo  nostro, 
ma  dell'Unione  intera.  E  invece  con  ogni  sorta  di  angherie  ci  impe- 
discono di  ricostituirci;  con  odiosi  balzelli  opprimono  il  commercio 
che  tenta  di  riavviarsi.  Ci  tengono  sul  collo  generali  e  giudici,  dai  po- 
teri indefiniti,  superiori  alle  leggi,  che  senza  un'avviso,  senza  pro- 
cessi, ci  tolgono  le  sostanze  o  ci  cacciano  in  prigione.  Con  qual  cuore 
possiamo  accingerci  a  coltivare  il  nostro  suolo,  quando  l'autorità  di 
un  soldato  può  sequestrarcelo,  sotto  pretesto  di  farci  scontare  una 
colpa,  spesso  immaginaria,  cormnessa  anni  sono  contro  la  Maestà  del- 
lUnione?  Vogliono  una  garanzia  sicura  della  nostra  tranquillità, 
prima  di  sollevarci  dall'incubo  di  questo  stato  insopportabile,  ma 
quale  maggior  garanzia  della  nostra  deboleziza  e  dell'abolizione  della 
schiavitù?  L'unica  cosa  alla  quale  non  ci  sottometteremo  mai  e  p)0i 
mai,  è  di  avere  equiparati  a  noi  i  negri  nel  diritto  al  voto.  Ci  vogliono 
imporre  4  milioni  di  elettori,  esseri  inferiori,  che  in  certe  località 
sono  in  una  maggioranza  schiacciante,  nostri  nemici,  che  si  distri- 
buiscono le  cariche  al  solo  scopo  di  vendicarsi,  senza  capacità  di 
sorta.  Vengano  codesti  signori  Yankee  a  vedere  quale  razza  di  idioti 
ci  vogliono  dare  a  compagni  nel  reggere  i  nostri  destini.  Sieno  istruiti, 
fatti  degni  della  cittadinanza  americana,  e  li  accetteremo;  ora  sarebbe 
un  abbrutirci  il  mischiarsi  con  loro.  E  per  questa  loro  pretesa  assurda 
hanno  sospeso  il  diritto  di  voto  a  noi,  vogliono  ridurci  a  territorio; 
per  questo  ci  mantengono  sotto  legge  più  barbara  che  quella  della 
Russia,  la  legge  dell'arbitrio.  La  Legislatura  dello  Stato  siede,  deli- 
bera, ma  il  generale  Sheridan,  comandante  militare  in  Luisiana,  con 
un  cenno,  quando  gli  pare,  sospende  l'esecuzione  dei  decreti  e  delle 
leggi  da  essa  emanate. 

Né  le  queremonie  di  questi  signori  mancano  di  fondamento,  La 
Tribune,  il  giornale  radicale  di  New  Orleans,  gongola  perchè  nelle 


232  LETTERE  A    MIO   PADRE  DALL'AMERICA    (1866-1867) 

due  Camere  a  Washington,  è  stato  approvato  a  grande  maggioranza, 
malgrado  l'opposizione  del  Presidente,  un  bill  proposto  da  Sherman, 
di  cui  ho  sottocchio  il  testo,  Ck)n  esso  si  dà  ai  Ck)mandanti  militari, 
negli  Stati  ex  ribelli,  diritto  di  vita  e  di  morte  sulle  persone,  di  se- 
questro dei  beni,  a  discrezione  del  loro  criterio;  facoltà  di  nominare 
e  di  cassare  magistrati,  incarico  di  costituire  le  Commissioni  che  do- 
vranno compilare  le  liste  elettorali  sul  programma  del  voto  uni- 
versale senza  riguardo  a  colore.  Le  elezioni  avranno  luogo  proba- 
bilmente fra  poche  settimane;  vi  sarà  scam^bio  di  revolverate  fra  bian- 
chi e  neri,  un  po'  di  massacro,  come  se  ne  ebbe  l'esempio  il  30  luglio 
scorso  di  infausta  memoria.  Et  voila! 

Nuora  Orleans,  3  marso  1867. 

Mi  sono  alzato  alle  5  per  andare  al  mercato  sulle  sponde  del  Mis- 
sissipì,  dalla  parte  francese.  Sotto  enormi  tettoie  sono  messi  in  ven- 
dita grappoloni  di  bananes,  aranci  e  castagne  provenienti  dall'Italia, 
nespole  del  Giappone,  ananas,  cocco,  erbaggi,  fiori,  carni,  pesci.  Fa- 
miglie di  indiani  Chacas,  venuti  dalle  rive  del  lago  Poutchartrain, 
accoccolati,  indolenti,  luridi,  vendono  erbe,  polvere  verde,  che  non 
so  cosa  sia,  canestri  di  loro  fabbricazione;  in  mezzo  a  tanto  ben  di 
Dio,  pa-ssano  le  cuoche  negre,  la  testa  avvolta  in  fazzoletti  sgargianti; 
è  una  ridda  di  colori,  un  caleidoscopio  dei  più  divertenti. 

Pigliai  poi  il  car  senza  stella  (il  car  contradistinto  della  stella  è 
per  i  negri)  e  feci  una  giratina  nel  4°  Distretto,  fra  i  collages  e  gli 
ameni  giardini,  dove  i  ricchi  americani  godono  gli  agi  domestici, 
dopo  aver  sbrigato  gli  affari  in  Carondelet  Street.  Arrivo  quindi  al- 
l'appuntamento con  il  nostro  Console  Samminiatelli,  che  mi  portava 
al  Gockpit  a  vedere  i  combattimenti  dei  galli.  Assistemmo  a  3  scontri; 
due  campioni  rimasero  sul  terreno;  un  terzo  fu  ritirato  moribondo. 
Sotto  una  tettoia,  intorno  al  piccolo  circo,  prendono  posto  gli  spet- 
tatori, seduti  su  gradini  a  anfiteatro.  I  galli  vengono  pesati,  indi  pre- 
sentati al  pubblico  dai  due  iraineurs,  e  appena  sono  messi  di  fronte, 
incominciano  le  scommesse,  che  si  incrociano  in  francese,  in  spa- 
gnolo, fra  grida  e  incitamenti  e  bravo  sino  quasi  alla  fine  della  lotta, 
quando  si  propone  20  a  i;  si  vide  in  fatti  il  caso  di  galli,  che  nell'a- 
gonia, diedero  un  colpo  di  sprone  al, cuore  dell'avversario,  sicuro 
della  vittoria,  e  lo  stesero  morto.  Quelle  ardite  bestiole  si  azzuffano 
con  accanimento,  ma  nello  stesso  tempo  con  maestria;  si  osservano, 
si  inseguono,  si  evitano,  si  attaccano  col  becco  alla  cresta  del  rivale, 
e  ritti  sulle  zampe  gli  ficcano  lo  sprone  nel  petto  e  nel  collo.  Negli 
intermezzi  fra  gli  attacchi  i  iraineurs  spruzzano  d'acqua  le  ferite, 
asciugano  il  sangue,  li  accarezzano  :  il  combattimento  finisce  quando 
uno  dei  campioni  rimane  ucciso  o  colle  zampe  all'aria.  Dietro  le  gra- 
dinate vi  è  un  po'  di  rouletle,  un  po'  di  dadi,  tanto  per  far  passare 
il  tempo  fra  un  duello  e  l'altro.  Il  sito  è  bem  pieno  di  canaglia.  Non  vi 
erano  inglesi  perchè  domenica. 

Saliamo  uscendo  dal  pit,  sulla  ferrovia  che  ci  porta  sulla  riva 
del  lago  Pontchartrain,  a  traverso  una  palude,  ingombra  di  latanie  e 
di  piante  acxfuatiche;  nelle  sue  acque  pullulano  ogni  sorta  di  animali 
curiosi,  bull  frog  ossia  rane  enormi,  allicratori  :  di  questo  ho  la  prova 
perchè  il  signor  Rieu  mi  procurò  delle  pelli;  un  pesce,  il  grognard, 


LETTERE  A   MIO   PADRE  DALL'AMERIC\    (1866-1867)  233 

mette  il  muso  a  galla  e  manda  un  grugnito;  ne  assaggiai  le  carni 
al  Restaurant,  come  dicono  qui,  di  Bondro,  ma  non  udii  il  grugnito. 
Sulla  riva  opposta,  in  mezzo  a  una  folta  boscaglia,  mi  si  addita  la 
casa  di  un  tale  Rocchi  di  Saronno,  che  ha  fatto  moneta,  e  che  poi  in- 
contrai con  un  altro  dei  nostri,  pur  in  \'ia  di  far  quattrini,  un  Campi- 
glio di  Comabbio.  Nei  creek  del  lago  si  raccolgono  le  migliaia  di 
piedi  cubi  di  conchigliette,  che  rimpiazzano  vantaggiosamente  la 
ghiaia  per  le  strade,  per  il  macadarn,  per  i  \*iali  pubblici  e  dei  giar- 
dini, giacché  non  si  trova  un  solo  sassolino  nei  dintorni  di  Nuova 
Orleans.  Le  conchiglie  più  grosse  si  cuociono  nei  forni  per  calce.  Le 
pietre  per  costruzione  e  pel  lastrico  vengono  per  acqua  da  lontano. 

Finiamo  a  pranzare  da  Victor,  uno  dei  tanti  Restaurant  francesi, 
che  con  Moreau,  il  St.  Charles,  il  Cosmpolitan,  il  Pélérin,  si  dispu- 
tano la  clientela  dei  ghiottoni  :  vi  si  gustano  squisiti  pesci  del  Missis- 
sipì,  il  sheephead^  in  francese  cassecurbot,  il  pesce  rosso,  e  il  preli- 
bato pmnbalot,  raro  in  questa  stagione.  Non  troviamo  più  posto  al 
St.  Charles  Theatre  dove  si  dava  il  Faust,  essendo  domenica,  e  dopo 
avere  discusso,  filando  pel  Corso,  e  titubato  fra  le  farse  dell'Olimpie 
Music  Hall,  il  Rip  Van  Winkle  al  Variety,  VOrphée  aitx  Enfers  in  te- 
desco al  National  Theatre,  concludiamo  con  l'adagiarci  pigramente  a 
un  tavolino  da  Bellanger  ad  adocchiare  le  belle  creole. 

E  per  chiudere  allegramente,  ti  racconto  il  casetto  umoristico 
che  m'è  capitato.  Mi  ero  accorto  che  signore  e  ragazze  volgevano  mar- 
catamente la  faccia  se  appena  le  guardavo,  e  nei  car  mi  volgevano 
addirittura  le  spalle  con  aria  di  sprezzo;  mentre  in  generale  le  Ame- 
ricane non  sdegnano  di  essere  ammirate.  Ebbi  la  spiegazione  dell'e- 
nigma, che  avevo  tentato  invano  di  sciogliere  e  che  mi  seccava,  da 
un  conoscente  al  quale  amiche  sue  chiesero  se  ero  un  ufficiale  fede- 
rale, perchè  indossavo  un  completo  bleu  scuro.  Mi  affrettai  a  mutare 
d'abito,  e  fui  immantinente  ricomfpensato  con  occhiate  meno  ostili. 

Nuova  Orleans,  5  marzo  1867. 

La  corporazione  dei  pompieri  è  tutto  ciò  che  v'ha  di  più  popo- 
lare nella  Luisiana.  Vive  di  volontari  da  ogni  ceto  di  cittadini.  I  gio- 
vani delle  famiglie  più  distinte  si  inscrivono  in  una  delle  compagnie, 
e  prestano  servizio  attivo,  almeno  per  qualche  anno,  rimanendo  poi 
soci  onorari;  vi  si  preparano  sino  da  ragazzi  giocando  al  pompiere, 
come  da  noi  si  gioca  al  soldato.  Si  insinua  che  vi  sia  chi  fa  il  pom- 
piere per  schivare  di  andare  giurato,  pagando  la  multa  quando  man- 
chi all'appello  per  accorrere  al  fuoco;  tutto  il  mondo  è  paese.  Ieri, 
4  marzo,  si  solennizzò  con  gran  pompa  l'anniversario  della  costitu- 
zione del  Corpo,  considerato  festa  nazionale. 

Già  di  buon  mattino  le  vie  per  cui  deve  passare  la  processione 
sono  zeppe  di  gente;  le  verande  sono  gremite  di  brillanti  signore.  La 
colonna  si  formò  in  Canal  Street  e  si  mise  in  marcia  verso  le  li.  Alla 
testa  il  Gran  Marshal  con  i  suoi  aiutanti,  a  cavallo,  in  abito  borghese, 
cinti  di  sciarpe  azzurre.  S^uivano  le  24  compagnie,  precedute 
c^Tiuna  dal  Ghief  Engineer  a  cavallo,  dal  banderiale  con  lo  sten- 
dardo e  da  una  banda  musicale;  i  pompieri  attaccati  a  una  corda  trai- 
navano la  caldaia,  la  scala  e  la  pompa;  il  costume  semplice;  panta- 
loni neri,  camicie  di  lana  rossa,  o  bianca  o  bleu  ricamata,  larga  cin- 

Ig  Voi.  OCSVI,  serie  VI  —  1*  febbraio  1922. 


*234  LETTERE   A    MIO    PADRE   DALL'AMERICA    (1866-1867) 

tura  di  cuoio,  elmo  di  corame  nero,  e  scudi  e  numeri  e  motti  che  di- 
stinguono le  Compagnie.  I  foreìrien,  o  sergenti,  in  elmo  bianco,  I  ca- 
valli, bellissime  bestie  del  Kentucky,  camminano  liberi  a  fianco  dei 
pompieri,  che  hanno  una  speciale  predilezione  per  questi  loro  com»- 
pagni  di  fatiche.  Le  macchine,  un  prodigio  di  perfezione,  di  solidità 
e  di  leggerezza.  Durante  il  tragitto  fu  segnalato  un  incendio  nel  3** 
Distretto;  la  colonna  si  fermò;  la  Ciompagnia  cui  incombeva  l'accor- 
rere, in  un  lampo  si  staccava  dalle  file,  e  arrivava  sul  posto.  Spento 
in  pochi  minuti  il  focherello,  rientrava  nei  ranghi,  e  riprendeva  la 
marcia.  Alle  tre  la  funzione  era  finita;  e  i  pompieri,  riposti  arnesi  e 
cavalli,  si  riunivano  a  fraterno  banchetto  con  i  rappresentanti  delle 
Corporazioni  di  Mobile  e  d'altre  città  del  Sud,  recatesi  alla  Metro- 
poli per  l'occasione. 

Essendo  oggi  martedì  grasso,  gran  baraonda  di  mascherotti  per- 
corrono le  vie.  Solo  la  mascherata  di  questa  sera  è  decorosa  e  comr 
binata  con  humour:  il  «Trionfo  di  Epicuro»,  rappresentato 'da  un 
corteo  di  vivande  che,  in  proporzioni  colossali,  imitavano  artistica- 
mente le  portate  usuali. 

Ti  cito  questa  nmscherata,  che  non  ha  in  sé  nulla  di  particolare, 
per  venire  ai  membri  che  si  nascondono  sotto.  Nessuno  sa  chi  siano: 
appartengono  alla  Mistic  Crew,  una  società  misteriosa,  di  cui  l'esi- 
stenza si  manifesta  con  questi  trattenimenti  popolari,  e  con  le  feste 
da  ballo  pel  mondo  elegante,  che  sono  il  gran  successo  della  sta- 
gione. Gli  inviti  sono  diramati  dalla  Mistic  Crew  senz'altra  firma,  e 
sono  ambiti  dalle  più  nobili  gentildonne.  Sotto  la  stessa  forma  ano- 
nima, venti  cavalieri  sono  pregati,  e  se  ne  vantano,  di  fare  gli  onori 
nel  ritrovo  prescelto,  dalle  sale  addobbate  con  sfarzo  principesco, 
e  dove  è  imbandita  una  cena  squisita.  Posso  far  fede  della  segretezza 
assoluta  della  provenienza  dei  biglietti,  pel  fatto,  e  me  ne  dispiacque 
tanto,  che  personaggi  influenti  invano  tentarono  di  farmi  ottenere 
una  carta  d'entrata  al  ballo  di  stasera  della  Mistic  Crew  nel  Variety 
Theatre;  a  quanti  si  indirizzarono  tutti  protestarono  di  non  saperne 
nulla,  A  dir  vero  codesta  manìa  del  mistero  mi  ha  un'aria  un  po'  fan- 
ciullesca. Si  può  scusare  con  la  non  infondata  supposizione  che  scopo 
del  Sodalizio  sia  la  beneficenza,  e  che  le  persone  che  lo  compongono, 
indubbiamente  facoltose,  amino  distribuire  i  soccorsi  sotto  il  velo  del 
più  stretto  incognito. 

8  marzo. 

Il  tempo  ha  voluto  mostrarmi  di  avere  anche  qui  i  suoi  momenti 
di  cattivo  umore;  da  tre  giorni  piove  e  fa  freddo.  Domani  il  Mari- 
posa,  la  farfalla,  mi  porterà  sulle  sue  ali  a  Cuba,  la  perla  delle  An- 
tille,  al  palse  del  sole,  fra  le  foreste  imbalsamate,  e  dove  la  schia 
vitù  è  ancx)ra  in  fiore, 

Giulio  Adamou. 


IL  VILLAGGIO  DEL  PARIMI 
E  IL  POETA  ALESSANDRO  ARNABOLDI 


Lucido,  ceruleo  lago  quello  di  Pusiano  nella  Brianza,  la  dolce 
regione  un  giorno  di  moda  nel  bel  mondo  milanese.  È  il  «vago 
Èupili  mio  »  del  Panni.  Chiuso  «  in  sì  breve  sponda  »  ci  raccoglie  a 
meditazione  tranquilla.  Oltre  il  grande  poeta  del  Giorno,  altri  poeti 
lombardi  lo  cantarono:  Giulio  Carcano,  Samuele  Biava,  Alessandro 
Ameboidi. 

Nel  Journal  d'Italie  (ripubblicato  nel  1911  con  pagine  inedite) 
lo  Stendhal  sogna  di  vivere  sul  lago  di  Pusiano.  Censura  la  villa 
che  il  generale  napoleonico  Pino  s'era  ivi  costrutta,  e  parla  di  vol- 
gari avventure  e  gite  lacustri  in  barca. 

Un  lembo  dei  monti  della  Valsassina,  donde  originò  la  famiglia 
feudataria  del  Manzoni,  incornicia  da  un  lato  il  lago:  dagli  altri, 
«  colli  beati  e  placidi  »  la  cingono  con  «  dolcissimo,  insensibil  pen- 
dio». I  versi  del  Parini,  che,  nato  sulla  verde  collina  di  Bosisio, 
t-agnato  dall'Èupili,  bramava  di  finire  in  Bosisio  natia,  le  ultime 
«ore  fugaci  e  meste»  ci  spuntano  sulle  labbra  a  ogni  passo,  e  illu- 
strano il  paesaggio  ridente  e  gentile.  A  ogni  passo  è  un  quadro.  Si 
direbbe,  quasi,  che  qui  sarebbe  dovuto  nascere  un  poeta  mite  e  cam- 
pestre, persino  un  arcade,  non  quel  terribile  censore  di  costumi. 
Sul  lago,  sembra  aleggiare  una  melodia  di  pace;  dal  rustico  abituro 
(oggi  monumento  nazionale)  dove  nacque  all'immortalità  Giuseppe 
Parini,  sembra  raggiare  una  luce  di  gloria. 

La  camera  dove  si  dice  egli  sia  nato,  è  ampia,  ha  tarlati  travi- 
celli, consunto  impiantito,  e  una  sola  finestra,  piccola,  verso  una 
scena  lieta  di  verzura.  Le  nude  pareti,  colorite,  non  certo  da  molti 
anni,  in  una  tinta  caffè  e  latte,  recano  i  nomi  di  numerosi  visi- 
tatori e  visitatrici:  e  qualche  pensiero  volgare  e  qualche  altro  che 
vorrebbe  essere  profondo  perchè  è  oscuro.  Un  letto  di  ferro  indica 
che  la  camera  è  abitata.  Da  chi?...  Da  contadine  di  Bosisio. 

La  prima  volta  che  visitai  la  casa  del  poeta,  cadeva  la  sera.  Sul 
cieio  d'ottobre  nuvole  fantastiche  ardevano  agli  ultimi  bagliori  del 
tramonto.  Le  qu^^oie  secolari  fremevaiK)  e  il  lago  rabbrividiva  al- 
l'aura pungente.  Campane  vicine  e  campane  lontane  suonavan  VAve 
[Maria,  che,  su  altri  coli,  sugli  Euganei,  aveva  un  giorno  commossa 
l'intorbidata  anima  d'un  bardo  peccatore:  lord  Byron.  Nella  casa 
del  Parini,  si  v'edeva  oscillarle  qualche  lume.  E  un  bambino  saliva 
quella  rustica  scala  donde  il  Parini,  fanciullo,  scendeva  per  guidare 
forse  qualche  armento  del  i>adre. 


236         IL  VILLAGGIO  DEL  PARINI  E  IL  POETA  ALESSANDRO  ABNABOLDI 

Francesco  Reina,  nella  nota  biografica  che  comjpose  al  domani 
della  morte  del  suo  celebre  amico-poeta,  lo  dice  nato  da  genitori 
civili.  Alessandono  Amaboldi  (del  quale  ora  intendo  parlare)  in  \ina 
lettera,  tuttora  inedita,  died  1879,  a  Bernardino  Zendrini,  che  lo  ri- 
chiedva  di  notizie  sul  villaggio  e  sui  parenti  del  cantore  del  Giorno, 
porg«iva  invece  notizia  opposta;  notizia  attinta  appunto  là,  a  Bo- 
sisdo,  dov'egli,  l'austero,  nobile  poeta  milanese  dimorava  più  mesi 
dell'anno,  accanto  appunto  a  quella  casa,  a  quel  rustico  santuario, 
ch'egli  adorava.     ' 

È  un  brano  di  lettera  che  non  manca  di  qualche  comicità  : 

«  Quantunque  il  Parini,  nell'atto  di  nascita,  appaja  figlio  d'uir 
ìnesser  Prancesco  e  d'una  signora  Angiola,  padre  e  madre  erano  con- 
tadini: un  po'  più  civili  degli  altri,  ma  contadini.  Anzi,  un  vecchietto 
mi  diceva,  molti  anni  or  sono,  ohe  da  quanto  gli  era  stato  detto  da 
un  suo  parente  assai  più  anziano  di  lui,  il  Parini  fanciullo  avrebbe 
condotta  al  pascolo  la  vaccherella,  al  pari  degli  altri  contadinelli. 

«  Quegli,  ohe  abita  ora  la  casetta  deil  Parini,  qui,  a  Bosisio,  e 
ne  è  anche  il  proprietario,  faceva  il  sarto;  ma  adesso,  avendo  toccati 
gli  ottant'anni,  e  trovandosi  indebolito  nella  vista,  si  è  messo  a  ven- 
dere pane  e  acquavite.  Fu  mio  collega  nella  Giimta  municipale  di 
qui,  e  chiamasi  Gerolamo  Appiani;  ma  non  è  parente  del  jnitore 
delle  Grazie,  che  nacque  a  Milano:  la  famiglia  di  Andrea  Appiani 
era  però  anch'essa  di  BoeàLsio. 

«  Chi  domandasse  all'ex  sarto,  ed  ora  panivendolo  ed  acquavi- 
taio, ohe  cosa  abbia  fatto  il  Parini  di  bello,  non  avrebbe  altra  ri- 
sposta se  non  che  il  Parini  era  una  gran  crappa  (testa).  A  malgrado 
di  ciò,  l'Appiani  prova  una  certa  soddisfazione,  quasi  un  senso  di 
vanità,  neH"abitame  la  casa,  ed  ha  piacere  che  alcuno  venga  a  vi- 
sitarla. 

«  Dalla  casuccia  d'ondfe  il  Parini  usciva  per  recarsi  a  Milano 
a^gli  studii  e  alla  gloria,  esce  adèsso,  nei  giorni  di  festa,  qualche  vil- 
lanzone, oc^li  occhi  imbambolati,  •colle  gambe  malferme  e  col  cer- 
vello pieno  dei  fumi  della  grappa  del  signor  Appiani,  a  vociare  per 
le  vie,  ed  anche  a  regalare  gli  amici  di  qualche  colpo  di  falcetto. 

«  Sopra  l'uscio  d'ingresso  della  casupola  v'ha  una  piccola  lapide 
nera,  mezzo  nascosta  adesso  da  due  file  di  vite,  sulla  quale  l^geei  : 

Giuseppe  Parini 
nacque  in  questa  casa 

IL  23  MAGGIO  1729 

«  Venne  posta  dalla  Gommisione  che  curò,  nel  1847,  l'erezione 
del  modesto  monumento  che  si  vede  all'ingresso  dèi  paese  arrivando 
da  Lecco.  L'Appiani  non  voleva  dapprima  ohe  fosse  infissa  nel  muro  : 
temeva  ohe  alla  sua  casa  s'imponesse  una  servitù,  e  s'era  offerto, 
quando  la  lapide  fosse  stata  affkiata  a  lui,  di  calarla  con  una  cordi- 
cella da  un  loggiatello  soprastante  aU\iscio,  ogni  qualvolta  che  ne 
fosse  richiesto  dalla  Commissione  o  dall'ammiimstTazione  comunale. 
La  cosa  era  un  po'  buìÌTa,  e  ci  volle  non  piccolo  spondio  d'eloquenza 
per  indurre  il  buon  uomo  a  migliore  consiglio  » . 

«  Se  in  qualche  biografia.  Ella  leggesse  che  il  Parini  nacque 
il   22  magg'io,  l'indicazione  è  inesatta.   Credo  di   farle  cosa  grata 


IL  VILLAGGIO  DEL  PARINI  E  IL  POETA  ALESSANDRO  ARNABOLDI        237 

mandandole  copia  dell'atto  di  nascita,  del  Panni,  tratto  dai  registri 
della  parrocchia.  L'ho  copiato  con  tutti  gii  errori  di  scritturazione 
perchè  serbi  il  carattere  dell'originale». 

Ben  altra  liscrizione  che  magnanimi  lombardi,  preparatoli  delle 
Cinque  Giornate,  avevano  scelta  i>er  Giusetppe  Parini,  nel  1847, 
quando  si  recarono  a  Bosisio  per  inaugurarvi  quel  monumentino 
al  poeta,  che  ai  loro  cuori  frementi,  in  quella  vigilia  di  magnifiche 
audacie,  sembrava  il  poeta  delle  loro  ribellioni,  il  loro  nume  fami- 
gliare! Essi  intrec^^iarono,  dinanzi  all'abituro  del  Parini,  mazzolini 
di  fiori  tricolori;  pronunciarono  discorsi,  che  non  velavano  la  fìamjma 
dei  cuori  presaghi  del  domani.  E  un  giovane  ventenne,  Alessandro 
Arnaboldi,  recitava  suoi  versi,  applauditi  in  quel  mc«n©nto,  che,  au- 
spice il  cantore  del  Giorno,  sembrava  aprire  un'era  nuova  di  di- 
gnità civile. 

I  versi  andarono  smarriti  :  non  li  trovo  fra  le  molte  carte  lasciate 
dall'Amaboldi;  ma  la  bell'epigrafe  fu  conservata: 

A  Giti  SEPPE  Parini  —  gloria  dell'ingegno  lombardo  —  che  nuovi  sentieri 
aprì  all'italica  poesia  —  e  la  fé'  potente  interprete  —  d'alti  pensieri  e  di  sde- 
gni magnanimi  — 'derisor  sublime  dei  fiacchi  costumi  —  banditor  sincero  delle 
verità  più  utili  —  maestro  d'uno  stile  pellegrino  temprato  —  che  obbedisce 
al  concetto  e  gli  cresce  energia  —  alcuni  estimatori  —  perchè  qpi  dove  povera- 
mente nacque  —  e  primo  s'L^rò  al  riso  —  di  ciek>  m  lieto  —  abbia  il  nome 
di  lui  perenne  ossequio  —  P.  nel  mdcccxlvii. 

L'epigrafe  era  dettata  da  Achille  Mauri,  l'educatore  lombardo, 
patriota  della  vigilia,  unito  a  Cesare  Correnti,  a  Giulio  Carcano,  a 
Carlo  Tenca,  a  Cesare  Giulini,  e  s^retario  del  Governo  provvisorio 
nel  '48,  morto  senatore  del  regno  a  Pisa  nel  1883. 

Achille  Mauri  si  strinse  da  quel  giorno  memorabile  in  calda 
amicizia  con  Alessandro  Arnaboldi. 

* 

II  giovane  ventenne,  ohe  nel  1847  leggeva  quei  versi  in  omaggio 
al  Parini,  si  serbò  per  tutta  la  vita  devoto  al  culto  del  suo  poeta. 
L'abitare  così  di  frequente  sul  lago  caro  al  Parini  e  proprio  accanto 
alla  casa  nativa  di  lui;  il  calcare  di  continuo  quei  colli  vitiferi,  se 
non  la  «  bella  innocenza  »  che  «  di  fior  singhirlanda  il  crin  »  alimen- 
tarono, anch'essi,  quel  profondo  sentimento  che  divenne  religione  in 
Alessandro  Arnaboldi.  Questi  fu  uno  degli  uomini  più  dotati  di 
tempra  religiosa  ch'io  abbia  conosciuto:  non  parlo  di  religione  cat- 
tolica o  cristiana  propriamente  detta;  parlo  della  reverenza  profonda 
ch'egli  sentiva  per  ogni  antichità,  per  l'arte,  per  ogni  bellezza  della 
Natura  ©  del  Genio,  per  ogni  grandiosa  austera  memoria  dell'uma- 
nità. 

Quando  ritornava  al  suo  Bosisio  da  Milano  (dove  per  volere  del 
padre  era  segretario  al  municipio)  egli  col  suo  passo  grave  e  lento, 
andava  ad  abbracciare  subito  antichissime  querele,  come  ossequioso 
nipote  corre  ad  abbracciare  gli  avi  venerandi  che  lo  aspettano.  La 
sua  stessa  poesia  ritiene  di  quel  suo  gesto,  quasi  direi,  sacerdotale: 
sono  un  tempio,  per  lui,  la  Natura,  il  mondo;  è  altare  la  vita.  In 
fondo,  egli  è  un  panteista,  e,  per  questo,  egli  prediligeva,  sopratutti 


238        IL  VILLAGGIO  DEL  PARINI  E  IL  POETA  ALESSANDRO  ARNABOLDI 

i  poeti,  gli  antichi  e  il  Goethe,  che  animia  veramente  tutta  la  Natura^ 
e  grida  :  Vieni,  o  anima  universale;  ci  comtpenetra! 

Koman,  Weltseele,  ims  zu  durchdnngenj 

A  Voi  fango  Goethe,  rAmaboldi  consacrò  un  carme  reverente  : 

....,  La  Natura  e  l'Arte 
Gii  eran  numi  supremi  ;  e,  quante  volte 
In  dilette  persone  il  percotea 
Irreparabil  la  sventura,  un  novo 
Da  que'  suoi  numi  egli  attingea  vigore 
Onde  il  turbato  cor  non  si  tradisse 

Nel  cospetto  del  mondo,  e  al  par  di  prima 
Fattio  tranquillo  assecondasse  i  voli 
Luminosi  del  genio.  Insigne  ei  quindi 
Fra  le  genti  apparia  dell'infinita 
Serenità,  che  riposava  in  fronte 
All'olimpico  Giove... 

Il  quale  non  si  consumava,  sublime  meteora,  per  illuminare  gli 
altri;  consumava  gli  altri,  le  anime  femminili  che  lo  amavano,  per 
illoiminare  se  stesso.  Federica  Brion,  rinnamonata  giovanetta,  subì 
anch'essa  in  lagrime  il  suo  abbandono,  e  perdonò.  L'Arnaboldi  è 
mirabile  quando,  nel  carme,  parla  di  Federica,  di  quell'amore  e  di 
quell'abbandono. 

Volfango  Goethe  conta,  per  la  tecnica,  fra  i  più  notevoli  versa 
di  Alessandtro  Arnaboldi.  E  Versi  s'intitola  apimnto  il  volume  che 
gli  diiè  fama,  nel  1872,  e  per  il  quale  Francesco  Dall'Ongaro,  che 
avea  arriso  a  Giovanni  Verga,  giovane  autore  della  patetica  Storia 
d'una  capinera,  prodigò  pronti  elogi.  E,  con  lui,  altri  poeti  non  in- 
vidi, e  critici  non  di  bassa  corte,  specialmente  lombardi,  salutarono 
in  Alessandro  Arnaboldi  «e  un  nuovo  poeta  »  fedele  alle  tradizioni 
claissiche,  ma  ardito  nello  sc^liere  temi  moderni,  che  non  si  sareb- 
bero detti  fecondi  di  poesia.  Tra  questi  :  Le  banche  popolari,,  di  cui 
tanto  si  parlava  prima  dei  '70  mei^cè  l'apostolato  dello  Schulze-Delitz, 
propagato  dalla  fervida  parola  di  Luigi  Lurzatti  fra  noi.  Epqpure, 
r Arnaboldi,  fa  scattar  dalla  selce  la  scintilla.  Eigli  penetra,  in  quel 
canto,  nelle  ombre  della  vita  operaia  più  dura,  e  intravede  la  ri- 
scossa dei  lavoratori,  il  conflitto  civile,  le  barricate,  il  sangue  fra- 
temo: 

Ma...  delirio!  Ogni  via  già  s'asserraglia! 

Già  nerbo  a  rei   furori 

Ahi!   ministran  le  picche  ed  i  fucili. 

Siccome  urlìo  di  demoniaci  cori, 
!  Già  ^'ode  imperversar  dai  campanili 
|La  scellerata  social  battaglia! 

Sono  imbelli   preghiere 

Gementi  all'ombra  di  riposte  stanee 

E  fumea  di  cai-tucce,  è  tuono,  è  schianto, 

£)  sparpagliato  tempestar  di  paglia! 

Son  bramiti  di  fiere!... 


IL  VILLAGGIO  DEL  PARINI  E  IL  POETA  ALESSANDRO  ARNABOLDI        2B9 

L#a  canzone  è  del  1865,  si  noti.  Il  Comunismo  dell' Aleardi  è 
del  1859.  Ricordiamo  queste  date  per  la  storia  della  poesia  sovver- 
siva che  non  è  scritta  ancora. 

E  ricordiamo  anche  La  filandaia  dello  stesso  Amaboldi,  che  data 
dal  1873;  pietosa  elegia  per  ima  operaia  giovinetta  consunta  dal  tra- 
vag^lio  patito  in  un  setificio: 

Innanzi  l'alba. 

Si  lasciava  lontan   già  molta  tratta 
Il  paterno  tugurio,   e  non  redìa 
Che  al  freddo  raggio  de  le  stelle.   Poco 
Rame  era  il  prezzo  de  la  sua  fatica. 
State  e  inverno  ogni  dì  per  sette  e  sette 
Ore  durata.  Tra  gli  estivi  ardori 
Ne'  suoi  caldi  vapor  la  rawolgea 
La  bacinella.   Quando  cielo  e  terra 
Distinguer  le  impedia  nebbia  profonda, 
Per  lo  tristo  cammin  l'aura  notturna 
L'alito  le  mozzava  e  a  lunghe  coree 
La  sospingea.  Misero  il  cibo  e  scarsa 
La  misura  del  sonno. 

E  tutto  il  resto  è  pure  commovente.  Si  pensa  a  Silvia  del  Leo- 
pardi, Ma  la  cara  fanciulla  di  Recanati  che  «  all'opre  femminili  in- 
tenta »  faceva  risonare  «  le  vie  d'intorno  »  al  suo  «  perpetuo  canto  » 
cade  spenta  dalla  crudeltà  della  Natura;  la  filandaia  del  poeta  lom- 
bardo cade  spenta  dalla  crudeltà  degli  uomini. 

A  la  durezza  umana^ 

Che  da  le    rócche  edgnorili  è  scesa  * 

Tra  le  ruote  e  il  fragor  de  l'opificio. 
Se  pietà  non  ha  voce,  almen  contrasti 
Sapienza,   che  vede   il  repentino 
Intristirsi    dei   sangui . . , 

E  il  poeta  si  domanda: 

Dove  sono  omai 

Le  colligiano  di  che  il  mio  Parini 
Cantava  i  fianchi  baldanzosi  e  il  volto 
Tra  il  bruno  e  il  rubico^ndo?  Ove  vi  è  dato 
La  bellezza  mirar  casta  e  serena 
D'una  Lucìa? 

Ben  altra  era  la  setajuola  Maddalena,  che  lo  Stendhal  del  Jour- 
nal (Tltalie  trovò  sulle  vìxe  del  lago  di  Pusiano! 

A  Pusiano,  sulla  riva  settentrionale  del  lago,  un  palazzo  ap- 
parteneva al  libertino  e  mercante  di  granaglie  arciduca  Ferdinando 
d'Austria,  figlio  di  Maria  Teresa;  e  quel  palazzo  fu  poi  tramutato 
in  filanda.  Ma  altre  filande  s'incontrano  nei  dintorni.  L' Amaboldi 
non  poetava  quindi  di  maniera;  poetava  dal  vero,  come  quel  Tom- 
maso Hood,  il  cui  Canto  della  carmcia  commossie  a'  suoi  giorni  l'In- 


240        IL  VILLAGGIO  DEL  PARINI  E  IL  POETA  ALESSANDRO  ARNABOLDI 

ghilterra  e  fece  aumentare  la  miseranda  mercede  delle  povere  cuci- 
trici. L'Amaboldi  tradusse,  da.  Roberto  Browning,  dal  Goldierige,  dal 
Keats,  e  da  altri  poeti  inglesi  :  e  si  provò  a  volgere  in  italiano  anche 
quel  canto  di  rivendicazione  della  camicia. 

• 

Sempre  elevati  il  pensiero,  il  sentimento  e  il  discorso  poetico 
dell' Arnaboldi.  L'erudizione  s'insimia  sin  troppo  nella  lirica,  che 
manca  di  slancio,  d'impeto,  talvolta  dii  apparente  calore;  ma  sempre 
s'aggira  in  una  sfera  eletta. 

Un  amore  delicatissimo,  occulto  per  utkl  dama  che  ancor  vive, 
amore  soffocato  per  la  tema  d'essere  respinto,  ispira  al  solitario  poeta 
le  Memorie,  donde  emana  un  profumo  di  gentilezza  suprema.  Ma 
quando  la  frase  può  essere  non  squisita  se  il  sentimento  è  squisito? 

Una  reliquia  di  Molière  (un  osso  del  grandissimo  commedio- 
grafo conservato  nel  museo  di  Cluny  a  Parigi)  si  collega,  con  un  filo 
psicologico,  alle  Memorie.  Anche  il  Molière  amò  'invano;  amò  Ar- 
manda  Béjart;  ed  è  verosimile  che,  senza  quell'amore  infelice,  non 
avremo  Le  Misanthrope. 

Nella  accarezzata  ode  saffica  alla  Musa,  che  chiude  il  volume 
dei  Versi,  il  poeta  ramamenta: 

Molto  scoprii  della  beltà  pensosa 
Negli   sguardi   cileetri   e   nel   cinabro 
Che  natio  sulla  morbida  si  posa 
Linea   d'un   labro. 

Ma  noi  non  vediamo  di  codeste  intime  scoperte  le  traccie,  nem- 
men  nel  seoond£>  volume,  Nuovi  versi,  apparso  anch'esso  a  Milano, 
ma  sedici  anni  dopo  del  primo.  Troppo  gelosa  e  pudica  quell'indole 
per  dire  tutto;  proprio  al  rovescio  di  tanti  poeti,  che  dicono  troppo.  Ma 

c'est  ton  mética-,  misérable  pòete, 

deplora  Alfredo  de  Musset, 

c'est  ton  métier  de  faire  de  ton  àme 

Une  prostituée.... 

Tout  demande  sans  cesse  à  sortir  de  ton  coeur! 

Ah,  non  tutti  dicono  come  il  Verdi  :  «  Le  miie  gioie  e  i  miei  dolori 
me  li  sono  sempre  tenuti  per  me  ». 

• 

•  • 

L'Amaboldi,  quando  Lasciò  per  sempre  il  posto  di  segretario  nel 
Municipio  di  Milano,  dove  componeva  per  il  sindaco  Giulio  Bellin- 
zaghi,  forte  banchiere,  ma  non  forte  letterato...  quei  discorsi  ufficiali 
per  solenni  occasioni  civili,  che  restano  modelli  del  genere,  diede  la 
più  bella  rifiatata.  Addio  per  sempre  o  protocollate  posizioni!  o 
emarginale  note!  o  atti  evasi!  o  incartamenti  sospesi!  o  vidimazioni!... 
L'Amaboldi  sd  rifugiò  a  Bosisio,  e  là  distribuiva  ogni  mese  tutta  la 
propria  pensione  ai  contadini  più  bisognosi,  «con  quel  tacere  pu- 
dico »  che  anco  le  rustiche  nature  possono  apprezzare...  qualche  volta.» 


k 


IL  VILLAGGIO  DEL  PARINI  E  IL  POETA  ALESSANDRO  ARNABOLDI        241 

E,  assetato,  sempre  assetato  di  grandiose  memorie  classiche,  im- 
prese solo  soletto  un  lungo  viaggio  nella  Magna  Grecia  e  nella  Si- 
cilia; e  cantò  Pompei  e  La  Favorita  di  Palermo,  La  Sibilla  Cumea  e 
Galatea,  Pitagora  ed  Empedocle,  Pesto  e  l'Etna,  Lucio  Licinio  Lu- 
oullo  e  Vincenzo  Bellini,  la  grotta  azzurra  di  Capri  e  il  Mar  Jonio... 
Fu  un  beato  immergersi  del  pensoso  suo  spirito  in  un  oceano  di 
luce;  fu  una  risurrezione  delle  radiose  visioni  e  leggende,  nelle  stesse 
splendide  ri\'e,  nelle  stesse  terre,  dove  nacquero  un  dì.  I  versi  al- 
l'Jonio  non  pareggiano,  peraltro,  quelli  deireffervescente  Nicola  Sole, 
tanto  amato  da  Giuseppe  Verdi;  di  Nicola  Sole,  il  poeta  di  Basilicata, 
che  dona  alla  Magna  Grecia  e  all'ionio  un  inno  ch'è  tutto  una 
musica  : 

Oh,    quante  ville, 

Quante  città  per  quel  tacito  lido! 
Quanta  gagliarda   gioventù,    qual    forte 
Popol  vi   stette,  splendidio,  gigante 
Immaginar!  Eran  per  lui  le  nubi 
Popolate  d'eterni  alberi,   laghi, 
Fiumi,  boschi,  dirupi  eran  di  arcane 
IntelUgenze  alberghi.  Armoniose 
Nereidi  quest'acqua  ivan  fendendo. 
Fuor  de  l'intime  selve  uscian  le  ninfe 
Al  niveo  lume,  onde  ridea  Diana. 

E  via  via...  Chi  non  pemsa  agli  squarci  più  smaglianti  delle  di- 
sine Grazie  del  Foscolo?...  Le  altre  liriche  di  quel  ciclo  dell' Arnaboldi 
risentono  dell'emozione:  perch'egli  si  ferma  all'emozione,  non  ar- 
riva alla  passione. 

Ma  Bosisio,  ancora,  il  villaggio  del  Parini  era  quello  che  lo  ri- 
chiamava alle  contemplazioni  tranquille.  A  Milano,  egli  abitava,  in 
via  Brera,  nella  casa  stessa  dove  aveva  dimorato  Alessandro  Volta, 
il  cui  pio  fantasma  chi  sa  quante  volte  egli  avrà  con  la  mente  as- 
sorta visto  errare  nei  silenzii  della  notte  in  quelle  stanze,  oggi  ab- 
battute e  trasformate  per  obbedire  ai  gusti  moderni! 

A  Bosisio,  si  estendono  vaste  torbiere,  e  Un  fumo  di  torba  è 
appunto  una  lirica  in  tornite  ottave;  metro  che  l'Àrnaboldi  sapeva 
maneggiare  con  tocco  delicato,  anzi  amorosamente  niellare  come  una 
coppa  signorile;  e  quale  coppa  più  signorilmente  italiana  dell'ottava? 

Sono  voluminosi  i  fasci  di  versi  inediti  lasciati  dal  poeta:  la  ver- 
sione del  primo  canto  ù&WEneide,  un  dramima  storico,  Liàsa  Strozzi, 
un  altro,  Il  conte  Caracciolo,  un  altro  ancora,  Waltheo,  Vidtimo  dei 
capi  sassoni,  e  un  poema  Gli  aranci,  e  un  melodramma  /  martiri, 
con  Nerone.  Numerosi  spuntano  i  ricordi  di  Bosisio  nelle  lettere, 
anch'esse  accurate,  che  il  poeta  scriveva  a  pochi  amici  italiani,  te- 
deschi, inglesi;  traduttori  quest'ultimi  delle  sue  liriche  più  concet- 
tose e  più  belle  come  Eugenio  Lee  Hamilton,  fratello  di  Vemon  Lee, 
benemerita  degli  studii  del  nostro  Settecento,  e  che  anch'essa  corri- 
spondeva, in  buon  italiano,  da  Firenze,  col  poeta  lombardo,  lusin- 
gato di  quella  corrispondenza. 

L'amicizia  era,  per  l'Àrnaboldi,  un  sentimento  sacro,  geloso; 
nulla  poteva  illanguidirlo.  Egli  fu  amico  del  coltissimo  colonnello 


242        IL  VILLAGGIO  DEL  PARINI  E  IL  POETA  ALESSANDRO  ARNABOLDI 

Cesare  Airag-hi,  travolto  fra  le  orde  abissine  di  Adua  in  quel  1"  marzo 
nefasto  che  vorremimo  dimenticare.  «  II  povero  colonnello  Airaghi! 
(scriveva  l'AmaboIdi  a  un  amico).  Ho  parlato  a  lungo  di  lui  con  un 
amico  mio,  già  intimdssiino  suo,  e  per  mozzo  del  quale  avevo  fatto 
akund  anni  sono  la  conoscenza  di  quell'uomo  impareggiabile.  Fu 
visto  cadere...  I  giornali  narrano  meraviglie  del  modo  con  cui,  pre- 
cedendo a  cavallo  il  suo  r^gimento  lo  trascinava  alla  pugna,  strap- 
pando ned  soldati  entusiastici  applausi.  Doveva  essere  nominato 
membro  d'oiìóre  della  Socdetà  geografica  kediviale,  residente  al 
Cairo,  ,per  un  imiportanfce  lavoro  sul  Bembelus  da  lui  per  il  primo 
scientificamente  esplorato  ». 

• 

Gli  ultimi  anni  del  nobile  poeta  furono  infelicissimi.  Egli  era 
tormentato  da  atroci  dolori  agli  arti,  iinceppato  nel  camminare;  non 
ci  vedeva  quasi  piìi.  Strane  smanie  s'impossessarono  dello  sventurato. 
Lo  si  vedeva  per  via  impartire  con  gesto  solenne  benedizioni  alla 
folla,  che  lo  guardava  con  curiosità  e  pietà.  Quell'alta  persona,  quel 
signore  austero,  ohe  aveva  l'aria  d'un  filosofo  teutonico,  andava  bran- 
colando. 

Il  18  settembre  del  1896  la  morte  lo  colse  a  Milano,  dov'era  nato 
il  19  dicembre  1827.  Morì  in  quel  mite  mese  pittoresco  che  di  con- 
sueto egli  passava  nel  suo  Bosisio  fra  gli  ultimi  sorrisi  della  bella 
srtagione  e  fra  i  suoi  cari. 

Nel  lago  di  Pusiano,  sorge  unta  poetica  isoletta  di  antichi  cipressi 
e  di  pioppi  :  appunto  Visola  dei  cipressi.  Romantici  poeti  sospirosi 
narrarono  storie  d'amori  infelici,  svoltesi  all'ombra  di  quegli  alberi; 
e  là,  io  sognavo  che  avrebbe  dovuto  riposare,  per  sempre,  alla  vista 
dell'amato  villaggio  pariniano,  il  poeta  contemplativo,  così  dimenti- 
cato dagli  storici  della  letteratura,  dai  critici;  non  da'  suoi  superstiti 
amici,  che  serbano  di  lui  la  candida  memoria  dovuta  agli  spiriti  pura. 

Raffaello  Barbiera. 


WILLIAM  ERNEST   HENLEY 


Out  of  sorrow  have  the 
worids   been   buiit. 

O.   WiLDE. 

La  storia  dtìlla  letteratura  inglese,  come  ogni  altra,  si  divide- 
in  aggruippamenti,  o  periodi,  rispondenti  a  un  peculiare  movimento 
spirituale;  è  oatvìo  però  che  nulla  di  nettamente  distinto  ipossa  esservi 
nel  dominio  del  pensiero,  dove  la  fitta  rete  delle  idee  s'interseca,  si 
aggroviglia,  si  fonde,  si  snoda,  come  il  nastro  serpeggiante  di  un 
sentiero  alpino-  Con  la  morte  del  Tennyson  e  del  Meredith  (rispetti- 
vamente 1892,  1909)  si  considera  chiuso  il  periodo  vittoriano;  ma 
le  energie  latenti  avevano  già  sprigionato  scintille  nuove,  e  la  trasfor- 
mazione dell'ideale  poetico  aveva  subito  già  quei  grandi  mutamenti, 
cosi  palesi  nella  letteratura  dell'Inghilterra  d'oggi  e  di  ieri,  I  pre- 
raffaelliti, perseguendo  il  mito,  la  leggenda,  il  sogno,  avevano  tro- 
vato il  simbolo.  Oscar  0'  Flahertie  Wills  Wilde  va  più  lontano  de' 
suoi  maestri,  il  Ruskin  e  il  Pater,  e  crea  un'arte  fuori  deHa  vita. 
Ma  poiché  la  vita,  presto  o  tardi,  ci  riprende  nelle  sue  spire  ed  è 
impossibile,  quasi,  ohe  il  grido  di  questa  nostra  imianità  dolorosa 
non  presti  al  poeta  qualcuna  delle  sue  note,  e  poiché  è  inconcepi- 
bile che  l'artista  vero  non  veda  «  the  worm  that  dieth  not  » ,  così 
lo  stesso  Wilde,  dopo  la  tragedia  che  ne  turbò  l'esistenza,  scrive: 
«  lo  vedo  adesso  che  il  dolore^  essendo  la  suprema  eiìiozione  della 
quale  Vuomo  è  capace,  è,  a  un  tempo,  il  tipo  e  la  prova  di  ogni 
grande  arte  »  (1).  E  ancora,  là  dove  ragiona  della  verità  nell'arte, 
aggiunge  :  «  Il  vero  in  arte  è  lumone  di  una  cosa  con  sé  medesima: 
l'esterno  divenufy  espressione  delV interno:  Vamma  incarnata,  il  corpo 
permeato  di  spirito.  Per  questa  ragione  non  vi  è  verità  paragonabile 
al  dolore»  (2). 

Oscar  Wilde  è  fra  le  figure  piìi  importanti  del  crepuscolo  vitto- 
riano, quel  crepuscolo  che  s'indugia  fino  a  parere  l'alba,  ma  che 
s'illumina  dei  colori  del  tramonto,  malgrado  lo  informi  l'anima 
del  genio.  Wilde  fu,  in  certo  qual  modo,  il  trasformatore  di  queste 
energie  latenti,  ma,  insieme  ai  criteri  estetici  da  lui  divulgati,  ab- 

NoTA  DELLA  REDAZIONE.  —  Questo  articolo  non  fa  cenno  del  magistrale 
studio  di  John  Drinkwater  sopra  W.  E.  Henley,  perchè  già  composto  quando* 
comparve  il  numero  di  gennaio  della  Quarterly  Bevieir. 

(1)  O.  Wilde,  De  Profundis.  Tauchnitz  ed.,  pag.  53. 

(2)  Id.,  op.  cit.,  pag.  54. 


^44  WILUAM   ERNEST   HENLEY 

biamo  altri  elementi  di  ricostruzione  e  trasformazione,  fra  i  quali 
la  «Celtic  Renascence»,  impersonata  dall'irlandese  W.  B.  Yeats, 
la  caratteristica  ribellione  (ohiamamola  così)  di  Max  Beerbohm,  che 
si  riflette  nella  pubblicazione  del  «  Yellow  Hook  »  1894-1897)  e  del 
«  Savoy  »  (1896),  e  infine  l'azione  nobile,  virile  di  William  Ernest 
Henley  (1849-1903). 

Non  molti,  in  Italia,  conoscono  l'Henley,  né  questo  può  mara- 
vigliare perchè,  anche  in  Inghilterra,  il  vivace  critico,  poeta  e  gior- 
nalista non  ebbe,  fino  ad  ora,  quel  plauso  che  gli  amici  gli  hanno 
da  tempo  tributato. 

L'Henley,  minato  dalla  tubercolosi  ossea,  conobbe  perfettamente 
il  destino  terribile  che  gli  sovrastava,  ma  pure  9epi>e  levarsi  al  di- 
sopra della  sua  duplice  sofferenza  —  vincere  quell'egoismo  insana- 
bile* che  sembra  pesare  sugl'infermi;  ed  egli,  il  grande  invalido,  in- 
segnò l'azione,  sorgente  di  serenità  e  di  gioia  —  disse  l'indulgenza 
per  gli  umili  —  inneggiò  al  trionfo  della  volontà  :  «  lo  sono  il  pa- 
drone del  mio  destino  —  io  sono  il  duce  della  mia  anima  »;  levò 
il  canto  alla  patria,  con  accento  di  figlio  —  narrò  la  dolcezza  degli 
affetti  famigliari  e  vide,  con  occhi  d'amore,  la  proifonda  bellezza 
di  Londra,  la  città  popolosa,  alveare  di  uomini. 

La  persona  dell' Henley  ne  rispecchiava  l'arditezza  del  carattere, 
^  l'Qgborn  così  lo  descrive  (1):  «  Egli  aveva  il  torso  di  un  lottatore 
nato,  le  spalle  piramidali  e  lunghe,  reni  agili  e  sciolte  —  e  la  ferma 
volontà  di  vincere  di  un  Fitzsimimons  (2)  brillava  nel  suo  occhio 
irrequieto»  Si  annuncia  una  biografia,  ad  opera  di  Mr.  Charles 
\Vihibley;  e  intanto  l'editore  Macmillan  ha  riunito  gli  scritti  di  lui 
in  cinque  volumi,  dei  quali  il  primo  contiene  i  poemi,  il  secondo  e 
il  quarto  i  saggi  critici,  già  pubblicati  su  giornali  e  riviste,  il  terzo  i 
drammi,  scritti  in  collaborazione  con  Roberto  Luigi  Stevenson,  e 
finalmente  il  quinto,  Lt/ra  Heroica,  raccolta  di  versi  dedicati  ai  ra- 
gazzi, e  desunta  dal  primo  volume.  Il  già  citato  Mr.  E.  B.  Osbom, 
in  due  saggi  interessantissimi,  pubblicati  nell'aprile  scorso  sull'Oft- 
server,  afferma,  con  affettuoso  coraggio,  che  la  moderna  generazione 
di  scrittori  inglesi  deve  più  all'Henley  di  quanto  non  debba  al  Dr. 
R.  Bridges,  il  poeta  laureato,  grecista  imipeocabile,  o  a  Thomas 
Hardy,  poeta  e  prosatore  arguto  e  forbito.  Anzi,  a  questo  propo- 
sito, il  medesimo  Mr.  Osborn  aggiunge:  se  avessero  senso  di  gnu- 
stizia  poetica,  i  giovani  dovrebbero  consacrarsi  alVombra  potente 
di  lui  (dell'Henley),  così  come  si  dedicano  ai  due  vivi. 

Pur  concedendo  all'opera,  di  William  Ernest  Henley  il  giusto 
valore,  bisogna  riconoscere  che  egli,  come  un  altro  illustre  suo  pre- 
decessore, il  Ck>leridge,  fu  più  grande  del  proprio  pensiero  rivelato, 
poiché  fu  la  coscienza  che  illumina,  il  cuore  che  pulsa,  il  maestro 
vero  che  accende  la  lampada  per  rischiarare  la  via  ai  giovani.  In- 
torno all'Henley,  per  affettuoso  consentimento,  e  per  devota  ammira- 
zione, si  strinseiro  taluni  fra  i  più  notevoli  araldi  del  pensiero  con- 
temporaneo: Roberto  Luigi  Stevenson,  Andrea  Lang,  Tommaso 
Hardy,  Carlo  Wells,  Rudyard  Kipling. 


(1)  Observer,  Aprii  17th  1921. 

(2)  Famoso  lottatore. 


WILLIAM    ERNEST   HENLEY  245 

* 

Guglielmo  Emesto  Henley,  nato  nel  1849  e  morto  nel  1903,  fu 
educato  alla  Crjpt  Grammar  School  di  Gloucester.  Se  noi  conside- 
riamo l'infanzia  dolorosa  di  lui,  l'adolescenza  turbata  da  attacchi  di 
tubercolosi  ossea,  onde  più  tardi  si  rese  necessaria  l'amputazione  di 
un  piede,  sentiremo  raddoppiato  il  senso  di  reverenza  che  l'Henley 
c'ispira;  se  non  che  la  robustezza  dei  concetti  e  l'indipendenza  ar- 
dita dell'autore  ci  avvisano  che,  non  al  lume  della  pietà  umana  si 
giudicano  gli  artisti,  ma  francamente,  cuore  a  cuore,  intelletto  a  in- 
telletto. 

Esamineremo  sopra  tutto  il  volume  delle  poesie  (1),  nel  quale  il 
pensiero  dell'Henley  si  rivela  nella  sua  schietta  originalità  e  nel  tem- 
perato ardimento  del  verso.  La  dedica  alla  moglie  offre  una  visione 
chiara  dell'animo  del  poeta.  Prendi,  cara,  questo  fascio  di  canti  — 
perchè,  vecchi  o  nuovi  che  sieno  —  quanto  havvi  di  buono  in  essi 
appartiene  —  soltanto  a  te;  —  e,  ricantando  come  qiumdo  tutto  era 
griovane  —  essi  richiameranno  —  quegli,  altri,  vissuti,  ma  "non  can- 
tati —  i  migliori  fra  tutti.  Aprile  1 888-Settembre  1897. 

Le  poesie  che  aprono  il  volume,  e  intitolate  In  Hospital,  (pubbli- 
cate dapprima  nel  1888)  sembrano,  nella  rude  efficacia  dei  tratti,  sboz- 
zate nel  granito,  un  granito  che,  per  miracolo  soprannaturale,  tra- 
sudi qua  e  là,  dove  il  solco  è  più  profondo,  delle  goocie  di  sangue  : 
sono  versi  umani,  \e>TÌ  come  la  vita,  forti  come  il  dolore,  nei  quali 
voi  cogliete  il  senso  delle  cose  non  dette,  nell'accurata  minuziosità 
del  particolare.  Questi  versi  furono  scritti  fra  il  1873  e  il  1875,  quando 
l'autore  dovette  entrare  nella  vecchia  Infermeria  di  Eldimbui^go,  per 
subire  l'amputazione  di  un  piede.  L'Enter  Palient  apre  la  serie  con 
un  quadro  sobrio  della  prima  ammissione  del  paziente  nell'ospedale. 
Le  nebbie  mattutine  visitano  ancora  la  pietrosa  vifi  —  la  nordiea  aria 
estiva  è  frizzante  e  fredda;  —  ecco  l'Ospedale,  grigio,  quieto,  vec- 
chio, —  dove  la  Vita  e  la  Aforte  s  incontrano  come  mercatanti  anvici. 

—  A  traverso  il  sonoro  spazio  e  la  ventilata  penombra  —  un'esile 
bimba  ignota  —  così  vecchia  e  pur  tanto  giovane!  —  col  picciol 
braccio  ingessato  appeso  al  collo ^  —  mi  precede  gravemente  nella 
sala  d'aspetto.  —  lo  le  zoppico  dietro,  scoraggilo.  —  //  grigio,  vecchio 
soldato-portiere  mi  fa  cenno  di  proseguire  —  e  avanti  io  mi  trascino, 

—  e  sempre  più,  mi  vien  meno  il  coraggio,  tanto  —  una  tragica  mi- 
seria sembra  avvolgere  queste  scale  e  i  cagrrùdoi  di  pietra  e  di  ferro, - 

—  freddi,  squallidi,  puliti  —  mezzo  Ospizio  e  mezzo  Penitenziario. 

La  vita,  dirò  meglio,  l'anima  dell'ospedale  si  delinea  man  mano 
nelle  poesie  che  s^nono,  in  tratti  rapidi,  vivi,  senza  crudezza  però, 
né  particolari  disgrustosi.  Abbiamo  l'ansia  inconfessata  che  turba 
anche  il  forte,  la  vigilia  di  dolore  che  precede  l'operazione,  la  descri- 
zione, per  brevi  ed  efiBoaci  linee,  dei  pazienti,  delle  infermiere  (vec- 
chio e  nuovo  stile),  dei  visitatori,  della  primavera  che  sveglia  le  corsie 
col  canto  del  merlo  giù  nella  siepe,  mentre  la  musica  dei  ricordi 
trilla  nella  canzone  di  un  passante.  Uno  di  questi  componimenti. 
La  visita  del  clinico,  grave,  impressionante  nella  scultorea  sobrietà 
del  verso,  di  struttura  ine^ale,  ma  così  unito  dal  pensiero,  onde  le 

(1)  W.  E.   Henley,  Poenus.  Macmillan,  Londra,   1921. 


tì46  WILLIAM   ERNEST    HENLEY 

pause  appaiono  le  'naturali  interruzioni  di  ohi  vede  tutto  un  mondo 
di  dolore,  e  tenta  rivelarlo  con  una  parola,  è  fra  i  più  caratteristici. 
St!  —  a  traverso  gli  echi  ddl  corridoi,  più  forte  e  più  vicirto  —  viene 
un  gran  scalpifcìo.  ■ —  Svelti!  —  accomodate  le  coltri,  e  state  com- 
posti! —  Ecco  il  Professore!  —  Egli  entra  primo  —  con  Vaspetto  vi- 
vace che  gli  corbosciarrito;  —  da  sotto  'le  larghe,  bianche  sopracciglia 
gli  occhi  benevoliìi  —  vi  acqitetano  e  v'incoraggiano.  —  Vinferm^ra 
dalla  bianca  cuffia  \fi  dal  bianco  grembiale  —  lo  segue  da  vicino  — 
vn  asciugamano  stU  braccio  —  e  in  mano  il  calamaio,  i^to  di  penne 
d'oca. 

Segue  la  descrizione  degli  studenti  che  muovono  in  massa,  e  fan 
circolo  intorno  al  primo  letto  della  corsia,  sopra  del  (juale  il  profes- 
sore già  s'incurva,  aiutato  dagli  assistenti:  il  cerchio  degli  astanti, 
veduto  per  di  dietro,  ricorda  al  poeta  l'addensarsi  della  folla  intorno 
a  un  giocoliere,  sulla  pubblica  via  :  «  spalle  alte,  basse,  larghe,  strette, 

—  rotonde,  quadrate^  aguzze,  incurvate,  e,  dal  mezzo  una  voce  — 
grave  e  fluidamerUe  scandente  —  risuona;  poi  cessa:  e,  improvvisa- 
mente, —  {osservate  lo  sforzo  delle  spalle)  —  fuor  dal  tremitio  si- 
lenzio —  soffra  il  s^ibilo  nelVaria  -^  viene  nin  lamento  roco,  e  il  suono 

—  di  un  respiro  trattenuto  fra  i  denti  —  serrati  in  volontaria  stretta. 

—  //  Maestro  —  rompe  la  folla  e  s'avvia,  —  asciugandxìsi  le  mani, 

—  verso  il  letto  vicino.  —  Gli  scolari  sciam/ino,  susurrando,  dietro  di 
lui.  • —  Ora  possiamo  vedere.  —  Il  paziente  'numero  Uno,  —  siede 
piuttosto  pallido  —  con  le  coltri  tirate  in  su,  mostrando  il  piede  — 
{Afvimè,  povera  imtmagine  divina)  —  ravvolto  in  umide,  bianche 
bende  —  brillarUemente  orride  per  rosso». 

In  Apparition  abbiamo  il  ritratto  dell'amico  Stevenson,  allora 
trentottenne.  Si  è  detto  ohe  nessun  pittore  ha  mai  riprodotto  con  ef- 
ficacia maggiore  la  figura  del  grande  scrittore:  l'Henley  ne  traccia 
l'aspetto  esterno,  leggendo  l'anima  a  traverso  l' involucro. 

«  Dalle  gambe  e  il  petto  stretto,  indicibilmente  sottile,  —  dal 
piede  snello  e  dalle  dita  deboli:  nel  viso  di  lui  —  magro,  ossitto,  di 
becco  aquilino,  [con  segni  di  razza,  —  labbra  Ordite,  accese,  mutabili 
come  il  Trmre,  ■ —  i  brunii  ^cchà,  radianti  di  vivacità  —  in  essi  splende 
una  brillante  romantica  grazia,  —  uno  spirito  intenso  e  raro,  con 
tracce  su  tracce  —  di  passione,  audacia  ed  energia  —  valoroso  nella 
buona,  e  noncurante  iveltavversa  fortuna,  —  vanitosissimo,  somma- 
mente gene\roso,  austeramente  critico,  —  buffone  e  poeta,  amante  e 
sensuale  —  parecchio  di  Ariel,  un  po'  di  Puck,  —  7nolto  di  Antonio, 
e,  più  di  tutto,  di]  Amleto,  e  qualche  cosa  del  catechista». 

In  Ave  Caesar!  è  salutata  la  Morte,  madre  di  Vita,  motivo  domi- 
nante nella  poesia  dell'Henley,  onde  dolore  e  gioia  sono  una  cosa, 
nei  rapporti  dell'eternità  imperscrutabile.  Abbiamo  detto  che  la  vita 
dell'ospedale  è  tutta  rappresentata  in  questi  suoi  componimenti  (ven- 
totto  in  mimerò),  e  che  i  diversi  tipi  che  si  possono  incontrare  in.  un 
luogo  del  genere,  sono  descritti  con  caratteristica  efficacia.  La  serie 
si  chiude  con  Discharged  (licenziato),  così  viva  d'impressioni,  e  mi- 
rabile per  la  visione  ottimistica  delle  cose,  tanto  naturale  in  chi  ha 
creduto  di  non  rivedere  più  le  vie  consuete,  e  al  quale  il  mondo  ap- 
pare in  tutta  la  sua  onesta  bellezza. 

Portatemi  fuori  > —  nel  vento  e  nella  luce  del  sole,  —  nel  bellis- 
simo morulo.  —  Oh!  la  meraviglia,  Vincanto  delle  strade!  —  Valtezza 


WILLUM   ERNEST   HENLEY  2:17 

e  la  forza  dei  cavalli,  —  il  fruscio  e  Veco  dei  passi,  —  il  rumore  smor- 
zato e  il  rotolar  delle  ruote!  —  Rapido,  un  tram  fluttua,  enorme, 
verso  di  noi.  —  ...  è  un  sogno?  —  l  odore  del  fango  nelle  mie  narici 

—  soffia  ardito  come  il  respiro  del  mare!  —  Come  in  passato,  —  on- 
deggianti gonne  —  vagamente  e  stranamente  provocanti  ■ —  s'agitano 
e  accennano.  —  Oh,  laggiù!  —  È  vero?  —  Il  lampeggiar  d'una  calza! 

—  Improvvisa,  una  guglia  fora  la  nebbia!  < —  Oh,  le  case;  • —  la  lunga 
fila  di  alte  case  grigie,  —  attraversate  di  luce  e  di  ombra!  —  Queste 
sono  le  strade!...  ognuna  di  esse  e  un  viale  che  mi  conduce  —  do- 
vunque  do  voglia!  —  Libero!...  —  la  testa  in  fìamane,  nervoso,  de- 
bole, —  io  seggo,  e  la  carrozza  rotola  innanzi  con  me  —  nel  maravi- 
glioso  moTìdo! 

Negli  Echi,  abbiamo,  nel  mutevole  ritmo,  l'ondeg-gicire  del  pen- 
siero del  poeta,  quando  l'anima  rivive  la  spensieratezza  delle  ore  di 
gioia  e  l'ansia  dei  giorni  amari.  Abbi^amo  il  palpito  improvviso,  nato 
dalla  speranza,  che  s'innesta  sulla  disperazione,  come  fiore  purpureo 
sul  verde  bruno  di  un  rovo;  l'amore  che  è  follia,  amore  che  è  seig- 
gezza.,  canti  goliardici,  note  di  tristezza  amara,  dolore  rass^nato, 
morte  che  è  sogno  e  risveglio  di  vita,  —  tutto  passa  in  questa  rac- 
colta di  versi,  raramente  contradistinti  da  un  titolo,  che  s'affollano 
come  echi  della  montagna,  destati  da  cause  ignote.  Ci  sono  dei  gioielli 
fra  gli  Echi,  come  Mairi  DUectissimae,  Priends,  old  friends,  ed  altri. 
Citeremo  solo,  perchè  rispecchiano  uno  dei  motivi  dominanti  nella 
poesia  dell'Henley,  i  versi  che  cominciano  :  /  am  the  Reaper. 

Io  sono  il  Mietitore,  —  Le  cose  tutte,  con  attento  raffio  —  silen- 
ziosamente  raccolgo.  —  Pallide  rose,  toccate  dalla  Prinutvetra,  —  alte 
spighe  in  estate,  —  frutti  rifchi  delVautunru),  e  fragili  infiorescenze 
invernali  —  mietendo  e  ancora  mietendo  —  ie  cose  tutte,  con  attento 
raffio  —  a  tempo  raccolgo.  —  Io  sono  il  Semifiatore.  —  Tutta  la  vita 
che  ancora  non  ha  presio  forma  —  corre  a  traverso  il  mio» grembiale 
da  semi.  —  Atomo  con  atomo  congivngo,  —  ognuno  di  essi,  affret- 
tando Valtro,  —  cade  !«  traverso  le  mie  moTd,  —  ognora  mutando, 
eppure  immutalo.  —  Incessanterrhente  io  semino.  —  Vita,  incorrut- 
tibile Vita,  ' — •  scorre  dal  mio  grembiale  da  semi.  —  la  creo,  io  spezzo. 
—  Son  la  marea  e  il  flutto,  ■ —  qui  e  al  di  là.  ■ —  Affrettato  a  traverso 
il  groviglio  e  ile  sinuosità  —  della  natura  infinita,  —  cieco  e  silen- 
zioso, io  foggio  ogni  essere.  —  Io  prendo,  io  do.  —  Son  la  Matrice 
e  la  Tomba.  —  V Adesso  e  il  Sempre. 

In  Rhymes  and  Rhythms  abbiamo  ancora  la  marea  della  vita, 
col  flusso  e  il  riflusso  degli  avvenimenti,  ora  tristi  ed  ora  gai.  La 
versificazione  appare  qua  e  là  meno  accurata,  e  meno  grave  è  il  tono, 
piuttosto  pungente  e  amaro,  a  volte;  così  come  in  Hawthom  and 
Lavender  la  vena  dell'autore  sembra  sovente  inaridire,  e  la  fretta 
del  giornalista  turbare  la  concezione  del  poeta.  C'è  meno  anima  e 
meno  saggezza,  come  se  il  fiume  della  vita  avesse,  a  un  tratto,  unito 
il  suo  corso  con  qualche  corrente  limacciosa,  e  ne  rimanesse  turbato. 
Dove  l'Henlìey  ritoma  pieno  ed  intero,  pittore  appassionato  e  psi- 
cologo profondo,  è  in  London  Voluntaries.  È  Londra,  bella  del  suo 
sole  stanco,  del  suo  fiume  maestoso,  delle  albe  roride,  del  verde  dei 
parchi,  delle  vie  rigurgitanti,  dei  tramonti  miti  e  deliziosi,  —  mentre, 
sovrano  e  forte,  il  cuore  della  metropoli  immensa  pulsa  del  ritmo 
medesimo  che  muove  il  lavoro  de'  suoi  fitgli.  Seguono  London  Types^ 


248  WILLIAM   ERNEST   HENLEY 

dove  sono  desoritti  i  tipi  più  eccentrici  della  vita  londinese,  figure 
care  e  ben  note  a  coloro  che  conoscono  la  capitale  britanna  :  il  con- 
duttore di  omnibus,  i  guardiani  della  Torre  di  Londra,  ombre  visi- 
bili di  un  passato  che  sembra  rivivere  in  ogni  angolo  o  cella  della 
fortezza  cupa,  gli  allievi  del  Christ  Hospital,  che  portano  ancora  il 
costume  rie'  tempi  di  Edoardo  VI,  il  giornalaio,  il  policeman,  la  fio- 
raia, tutti  i  tipi  speciali  e  caratteristici  della  Londira  di  oggi  e  di  ieri. 

For  En^taruTs  sake  (1900)  è  la  nobilissima  contribuzione  del- 
l'Henley  alla  poesia  patriottica  del  periodo  della  guerra  boera,  poesia 
che,  aiutata  dall'opera  dell'amico  Kipling,  contribuì  a  formare  lo 
spirito  animatore  dell'Inghilterra  moderna.  Il  cuore  del  poeta  batte 
col  cuore  stesso  della  nazione. 

I  saggi  critici  sono  raccolti,  come  già  abbiamo  detto,  nei  voliuni 
che  s'intitolano  Essays,  l'uno,  Views  and  Reviews,  l'altro.  Molta  del- 
l'attività di  critico  dell'Henley  è  qui  radunata.  È  impossibile  entrare, 
utilmente,  in  questo  campo  dove,  da  Fielding  e  Smollett,  passiamo  a 
una  rassegna  del  mondo  byroniano,  a  Balzac,  a  Victor  Hugo;  da 
Burns  all'Hazlitt,  e  da  Talma  e  M.lle  Mars  a  Spontini  e  Lesueur  e 
al  Cherubini.  Giudizi  interessanti  e  vedute  originali  sprizzano  ad 
ogni  riga  della  prosa  agile  e  snella  dell'Henley.  Caratteristiche  le 
idee  sul  ramantìcismo,  che  il  Nostro  chiama  «  un  ritomo  a  più  che 
umana  natura  » ,  e  originale  il  concetto  che  Napoleone  sia  stato  la 
prima  c^usa  del  romanticismo  in  Francia,  che  —  scrive  l'Henley  — 
n  essendo  egU  italiano  era  anche ^  alla  propria  maniera^  un  artista  ». 

Un  esame  piìi  minuto  e  accurato  dell'opera  di  questo  scrittore 
(pur  trascurando  di  notare  la  varia  fortuna  dei  drammi  scritti  in  col- 
laborazione con  lo  Stevenson),  ci  conduce  alla  conclusione  che  l'Hen- 
ley è  una  forza  viva,  creatrice  di  caratteri,  essendo  egli  stesso  un 
carattere;  e  troviamo  in  lui  l'uomo  che  il  Carlyle  vuole  riconoscere 
dietro  ogni^  libro,  come  forza  informativa.  Epperò  la  nostra  ammira- 
zione per  l'Henley,  uomo,  non  ci  porta  a  un  giudizio  errato,  o  sover- 
chiamente indulgente,  per  la  sua  opperà  d'arte.  L'anima  dominatrice 
di  im  poeta  non  può  menomare  il  valore  intrinseco  della  sua  opera 
d'arte,  quando  la  forza  di  lui  è  forza  di  azione,  impulso  di  vita, 
sana  e  feconda.  Questo  è  il  caso  di  Guglielmo  Ernesto  Henley. 

Anna  Benedetti. 


LUCI  E  SPECCHI 

(RACCONTO  A  DRITTO  FILO  DI  UN   FILOSOFO  GALANTUOMO) 


Domenica  scorsa  è  accaduta  fra  me  e  mia  moglie  una  scena 
piuttosto  complicata:  un  temporale  con  tutto  il  necessario:  lampi, 
tuoni,  fulmini,  saette,  il  finimondo;  ma,  come  succede,  l'aria  è  di- 
\  entata  dopo  più  respirabile  e  credevo  che  si  fosse  stabilmente  messo 
a  sereno,  quando  ieri  mi  sono  nsto  consegnare  una  specie  di  mano- 
scritto, un  mezzo  zibaldone,  sia  detto  coi  dovuti  riguardi  alla  laurea 
della  mia  signora. 

—  Cos'è?  —  le  ho  chiesto  —  una  novella,  un  atto  unico?  Tu  sai 
che  non  è  il  mio  genere. 

Ella  mi  ha  risposto  di  no;  che  si  trattava  di  alcuni  appunti  auto- 
biografici e  che  per  lei  era  una  cosa  essenziale  che  io  glie  li  avessi 
letti. 

Pazienza!  Quella  povera  Delia  ha  i  r^rvi  scossi,  non  volevo  con- 
traddirla, senza  contare  che  una  donna  sapiente  è  meglio  pesiarìe 
un  piede  che  non  prenderle  sul  serio  i  prodotti  della  sua  intellettua- 
lità! Manoscritto  più,  manoscritto  meno...  Ne  leggo  tanti  su  -argo- 
menti filosofici  per  la  mia  rivista  che  potevo,  dopo  tutto,  sacrificare 
un'ora  alle  divagazioni  psicologiche  di  una  giovane   bibliotecaria. 

Così,  pazientemente,  diligentemente,  ho  sfogliato  quelle  trenta- 
cinque cartelline  ricoperte  di  una  scrittura  minuta,  a  zampe  di  mosca, 
dalle  lettere  martoriate  come  i  pensieri,  dai  periodi  l'uno  dietro  l'al- 
tro, come  le  carte  da  giuoco,  quando  si  piegano  e  si  mettono  diritte, 
per  farle  fare  i  soldatini,  che  un  buffetto  dato  sull'ultima  le  fa  ca- 
scare tutte  in  una  volta. 

Ma,  corpo  di  bacco,  quale  sapienza  nel  torturarsi,  quale  inesau- 
ribile voluttà  nel  prendere  le  circostanze,  anunucchiarsele  intomo  e 
fabbricarsene  altrettanti  aculei  per  il  proprio  tormento.  Tutto  inven- 
tato quello  che  Delia  racconta?  Tutte  fìsime?  No,  no,  siamo  leali. 

Quella  ragazzaccia  di  Lena  —  un  tipo  terribile,  un  tipo  da  film 
americana  —  mi  si  era  aggrovigliata,  ed  io  me  ne  sentivo  contami- 
nato, sentivo  che  l'aria,  la  buona  aria  sana  entro  cui  ho  bisogno  di 
spaziare,  mi  diventava  greve.  In  altri  termini,  sì,  ero  preso  dal  mal 
d'amore,  malattia  alla  quale  il  mio  organismo  è  refrattario,  rifug- 
gendo io,  per  temperamento,  dalle  complicazioni  di  qualsiasi  sorta, 
sopratutto  sentimentali. 

La  situazione  pericolosa  dunque  esisteva,  questo  è  vero,  ma,  in 
fondo,  ero  tranquillo,  sapendo  che  la  mia  coscienza,  robusta  comare 

Nota.  —  Vedi  Nuova  Antologia,  fascicolo  1°  novembre  1921. 
17  VoL  CCXVI.   serie   VI  —  1'  febbraio  1922. 


2oO  LUa  E   SPECCHI 

senza  educazione,  sarebbe  sopraggiunta  nel  momento  critico  a  ribut- 
tarmi indietro  con  vigorose  spinte  e  un  suo  vociare  popolaresco. 

Se  ne  è  incaricata  mia  suocera?  Tanto  meglio.  Trovarsi  a  tu  per 
tu  con  la  propria  coscienza  è  sempre  un  alTaraccio,  perchè,  anche 
vincendo,  rimane  imipermalita  e  si  stenta  non  poco  a  rifar  le  paci. 

Non  si  deve  esagerare  peraìtro,  guardiamo  le  cose  nella  loro 
cruda  realtà  e  giacché  mia  moglie  ed  io,  si  vive,  io  per  forza,  lei  per 
amore,  pel  regno  dell'inchiostro,  metterò  anch'io  un  po'  di  nero  sul 
bianco,  dopo  di  che  mia  moglie  strapperà  il  mio  manoscritto,  io 
strapperò  il  suo,  le  patrie  lettere  non  si  vestiranno  in  gramaglie,  e 
IO  tornerò  alla  mia  pace,  al  mio  onesto  lavoro,  alla  metodicità  delle 
mie  occupazioni,  a  decidere  se  i  pensieri  dell'altrui  pensiero  valgono 
le  spese,  carta,  stampa,  onorari,  di  un'accreditata  rivista  bimensile, 
la  quale  naviga  a  vele  abbastanza  gonfie  nel  nw-rc  nmgnum  delle 
filosofiche  dissertazioni. 

Io  mi  sono  ammogliato  per  amore  dell'acqua  corrente.  L'acqua, 
per  me,  è  l'elemento  degli  elementi  e  trovo  che  perfino  gli  osti  hanno 
ragione  quando  ne  allungano  il  vino:  l'acqua  sta  bene  dovunque  e 
fa  bene  sempre  :  mi  piace  se  cade  dal  cielo  o  da  un  picco,  pioggia  o 
torrente;  mi  piace  nelle  bacinelle  quando  ci  tuffo  la  testa  d'estate  e 
d'inverno;  mi  piace,  in  piccolo,  nei  bicchieri  e  sui  petali  dei  fiori; 
mi  piace  in  grande  nei  laghi,  immensa  uel  mare.  Se  vivessimo  nei 
tempi  beati  della  mitologia  e  una  divinità  qualsiasi  mi  volesse  tra- 
sformare in  qualchecosa,  domanderei  di  poter  diventare  un  fiume, 
un  pingue  fiume,  barbuto  di  alghe,  con  folti  canneti  sulle  mie  rive; 
tra  il  verde  delle  canne  uno  zufolare  di  agricoltori  in  riposo  e,  nei 
momenti  di  spleen,  potermi  gonfiare,  distendermi,  farmi  letto  delle 
pianure  e  poi,  rabbonito,  restringermi,  per  riprendere  del  mio  solito 
passo  la  strada  verso  il  mare. 

Adesso  purtroppo  queste  belle  metamorfosi  non  sono  più  di 
moda;  si  è  costretti  a  morire  con  le  medesime  spoglie  sotto  cui  si  è 
nati  e,  volendo  cambiare  ad  ogni  costo,  bisogna  contentarsi  a  disdire 
oggi  quanto  si  affermò  ieri.  Eki  anche  qui  ci  sarebbe  da  confutare, 
perchè,  aguzzando  l'occhio,  si  scoprirebbe  che  dire  e  disdire  vanno 
più  d'accordo  che  non  paia. 

Comunque  io  possedevo  un  compagno,  un  eccellente  compagno 
di  università  —  oggi  rompe  il  pane  della  mal  sopportata  scienza  ita- 
liana nelle  scuole  di  una  colonia  francese  —  il  quale  era  inarrivabile 
nel  trovare'  camere  ammobigliate  per  i  suoi  amici  e  per  sé.  Io  lo 
avevo  pregato  di  scovarmene  una,  magari  spoglia  e  ad  alto  prezzo, 
con  le  finestre  a  piomibo  sul  Tevere. 

—  Vedi  quella  signorina?  —  mi  disse  un  giorno  nell'atrio  del 
l'Università.  —  Non  quella  pitturata  che  si  dimena  e  gesticola;  quel- 
l'altra, piccolina,  ricciolina,  che  sorride  appena  non  si  capisce  a  chi, 
perchè,  quantunque  abbia  gli  occhi  a  fanali,  non  guarda  in  viso 
nessuno. 

—  Sì,  la  vedo!  Un  po'  scarna  e  palliduccia;  carina  peraltro.  Ma 
io  che  c'entro? 

—  Le  finestre  della  sua  casa  danno  tutte  sul  Tevere. 

—  Beala  lei!  E  tiene  pensionanti  nella  sua  casa? 

—  Non  credo. 


LUCI   E   SPECCHI  251 

—  Allora? 

La  signorina  ci  passava  accanto,  a\^'iata  ad  uscire;  il  mio  amico 
la  fermò. 

—  A  quando  la  discussione  della  tesi  di  laurea,  signorina? 

—  A  giorni. 

—  Si  stava  parlando  di  lei  —  e  mi  presentò.  —  Il  signor  Tal  dei 
Tali,  Laureato  in  filosofia  e  nonpertanto  infelice. 

—  Innamorato?  —  chiese  la  signorina,  ridendo  e  chiudendo  nel 
ridere  le  palpebre  dai  lunghi  cigli;  il  che  dava  alla  pallida  e  alquanto 
triste  fìsonomia  una  espressione  inaspettata  di  maliziosità. 

—  No,  signorina,  io  ho  definito  l'amore  una  menzogna  conven- 
zionale. Dunque,  capirà...  —  tenevo  le  mani  nelle  tasche  dei  panta- 
loni, le  spalle  alzate  a  rannicchiarvi  il  collo  e  battevo  forte  un  piede 
dopo  l'altro,  come  faccio  se  mi  capita  d'inciampare  in  una  conversa- 
zione fuori  programma. 

Il  mio  amico  —  io  sbaglio  o  aveva  un  debole  per  Delia  e  gli  fa- 
ceva comodo  di  trattenerla  —  intervenne  perchè  la  conversazione 
non  cadesse, 

—  Ck>sa  \a  parlando  del  sole  ai  ciechi,  signorina?  L'amore  non 
ha  frecce  per  il  cuore  atrofizzato  di  questo  semovente!  Si  trattasse 
di  me...  non  dico... 

—  Anche  lei  infelice? 

—  Io?  In  c[uesto  momento?  Lascianio  andare,  signorina...  L'essere 
comune  che  ho  avuto  l'onore  di  presentarle,  è  tormentato  anche  lui 
da  un  ideale.  Anela,  e  senza  riuscirv-i,  a  prendere  in  afl&tto  una  ca- 
mera da  letto  con  le  finestre  sul  Tevere.  Ecco  perchè,  vedendola  pas- 
sare, il  discorso  è  caduto  sopra  di  lei. 

Delia  mi  guardò  in  aria  dubitativa,  ed  io  la  fissai  sprofondando 
di  più  le  mani  nelle  tasche,  assumendo  una  fisonomia  di  canzona- 
tura, per  prevenirla  nel  caso  ch'ella  avesse  l'intenzione  di  canzo- 
narmi. 

Mi  confessò,  appena  fidanzati,  che  la  mia  persona  solida,  la  mia 
faccia  schietta,  l'arco  ampio  delle  sopracciglia,  perfino  il  mio  sopra- 
bito color  nocciuola  di  una  eleganza  assai  discutibile,  le  produssero 
in  quel  primo  incontro  un  effetto  fascinatore,  che  io  ero  lontanissimo 
dal  sospettare;  anzi  mi  pareva  di  rappresentare  fra  quei  due  la  parte 
del  terzo. 

—  Già,  il  fiume,  il  Tevere  e  una  finestra  che  lo  domina.  Come 
chi  dicesse  un'idea  da  uno  spiraglio  sulla  vita  che  fugge. 

Ero  stupido,  lo  sentivo,  no  per  soggezione,  non  ci  pensavo  af- 
fatto; ma  perchè  il  trovarmi  preso  in  una  conversazione  oziosa,  ob- 
bligato ad  una  ginnastica  intellettuale  di  cui  non  vedo  lo  scopo,  mi 
dà  sempre  nei  movimenti  delle  idee  la  goffaggine  melanconica  di 
chi  si  eserciti  sul  trapezio  per  ammazzare  il  tempo. 

—  Ce  lo  conduca  uno  di  questi  giorni,  dopo  colazione,  a  pren- 
dere il  caffè  —  disse  Delia  al  mio  amico,  e  parlando,  sporgeva  un 
poco  il  labbro  inferiore. 

—  La  presenterò  a  mia  madre  e  mia  sorella,  si  affaccerà  sul  Te- 
vere... Insomma,  venendo  mi  farà  piacere. 

Nel  corso  della  settimana  io  andai  in  compagnia  del  mio  amico, 
poi  ci  tornai  solo,  seguitai  a  tornarci,  finché  divenne  per  me  una 
gradevole  abitudine  uscire  dalla  trattoria,  attraversare  piazza  Navona, 


262  LUCI   E   SPECCHI 

camminare  adagio  per  il  corso  Vittorio  Emanuele,  col  sigaro  acceso 
e  la  testa  ad  un  libro  ohe  aveva  letto  o  ad  un  articolo  da  scrivere,  e, 
così  almanaccando,  passare  senza  prestarvi  attenzione,  dal  rumore 
dal  corso  popoloso  al  silenzio  della  via  deserta,  infilare  la  scala  di 
marmo  e,  dopo  aver  suonato  alla  porta  del  secondo  piano,  attendere, 
col  pensiero  svagato,  che  la  domestica  venisse  ad  aprire,  pacifica- 
mente tarda. 

Pareva  che  il  metodo  —  questo  eccellente  signore  dalla  papalina 
di  velluto  e  le  pantofole  ricamate  in  punto  a  croce  —  fosse  il  pro- 
prietario dell'appartamentino  e  solo  neiravvertirne  la  vigile  presenza, 
io  gustavo  il  benessere  che  si  prova  accettando  l'invito  a  pranzo  di 
uno  zio  autorevole,  rispettabile,  dalla  credenza  ben  provvista,  dal- 
l'eloquio ponderato  e  savio.  Insomma  ero  nel  mio  ambiente. 

La  signora,  energica,  poco  discorsiva,  si  alTaccendava  tenendo 
le  mani  in  moto,  lo  sguardo  in  giro;  ma  senza  affanno  o  rumore; 
Delia,  seduta  al  suo  tavolo,  gli  occhi  imbambolati  per  il  troppo  leg- 
gere, le  dita  fragili  macchiate  d'inchiostro;  la  sorella  minore  o  era 
uscita,  o  stava  per  uscire  e  la  vedevo  di  rado,  alla  sfuggita,  tipo 
strano,  mutevole,  ohe  variava  con  un  oscillare  del  capo  e  un  ondulare 
delle  reni. 

Una  volta,  io  me  ne  andavo  e  lei  rincasava,  me  la  vidi  cammi- 
nare incontro  a  passi  di  fomiica,  svelti,  fitti  e  la  punta  di  un  piede 
riusciva  appena  ad  avanzare  sull'altra  tanto  il  fondo  della  gonna 
strettissima  la  stringeva  ai  malleoli. 

—  Come  fa  a  camminare  così  legata?  Non  ha  paura  di  cascare 
in  avanti  tutta  di  un  pez>zo? 

—  Lei  si  sbaglia.  Io  così  ci  cammino  benissimo,  perchè  è  di 
moda  —  e,  impalata,  coi  gomiti  stretti  all'indietro  scomparvero  lei 
e  il  saio  cappello  senza  fine,  lasciandomi  esterefatto.  Una  profonda 
stui>efazione  :  ecco  il  senso  che  mi  produceva  quella  ragazza!  Mentre 
in  Delia,  che  pure  conduceva  una  vita  di  cerebralità  irrazionale,  ogni 
atto  mi  pareva  logico  —  oh!  Dio!  sì,  via  banaluocio!  —  in  Lena,  che 
conduceva  la  vita  normalissima  delle  signorine  in  maggioranza,  tutto 
mi  pareva  straordinario,  fuc«n  del  comune,  di  un  esotismo  d'oltre 
oceano.  Mossette,  attucci,  languori  di  piccola  musmè  e,  al  tempo 
stesso,  a  scatti,  rudezza  maschile  di  emancipata  fanciulla  anglosas- 
sone. D'altronde  me  ne  rendo  conto  adesso;  allora  non  ci  badavo. 
Sorridevo  nel  vederla,  ridevo  nell 'ascoltarla  e  mi  sorprendevo  a  di- 
videre le  sue  idee,  anche  quando,  a  lume  di  raziocinio,  dovevo  rico- 
noscerne il  bislacco  e  la  vuotaggine. 

Non  mi  era  mai  saltato  in  mente  che  le  mie  assiduità,  oramai 
cotidiane,  in  quella  casa  potes^ro  portarmi  delle  conseguenze.  Ci 
andavo  volentieri,  mi  ci  trovavo  a  meraviglia  e  non  supponevo  che 
potesse  trattarsi  di  pensare  ad  altro.  Ma  avvenne  un  episodio  de- 
cisivo. 

Maturavo  il  progetto  di  fondare  una  rivista  di  pensiero  e  dovetti 
recarmi  prima  a  Firenze,  poi  a  Milano  per  un  paio  di  settimane. 
Una  persona  educata  o  appena  riflessiva,  ne  avrebbe  avvertite  le 
signore,  avrebbe  scritto,  si  sarebbe  in  qualche  modo  fatta  viva!  Io 
peraltro  non  sono  educato,  non  sono  neppure  maleducato  o,  quanto 
meno,  non  ho  nessuna  intenzione  di  esserlo;  ma,  non  esigendo  nulla 
dagli  altri  in  fatto  di  convenzionalità,  non  mi  sento  tenuto  a  niente. 


Lua  E  SPECCHI  253 

e  circa  la  riflessività,  io  a  forza  di  riflettere  sulle  cose  dimentico  di 
eseguirle. 

Il  giorno  stesso  del  mio  ritorno  a  Roma  peraltro  non  mancai 
all'ora  solita  di  recarmi  a  visitare  le  sigiiore. 

Appena  ebbi  suonato,  udii  lo  squillo  violento  di  un  campanello 
interno  e  la  domestica  venne  ad  aprirmi  con  precipitazione. 

Delia,  presso  la  soglia  del  salotto,  aveva  i  riccioli  scomposti,  le 
gote  in  fiamme. 

—  È  lei,  professore? 

—  Precisamente,  signorina.  Come  sta? 

—  Io?  Per  carità,  non  me  ne  parli!  Come  vuole  che  stia  dopo 
i^lue  settimane  di  ansia?  Lei  piuttosto.  Cosa  le  è  successo? 

—  Successo?  A  me?  Che  idee! 

—  Ma  dove  è  stato?  Che  ha  fatto? 

—  In  viaggio  per  i  miei  affari  ed  ho  concluso  parecchie  cosette! 

—  E  noi?  Ed  io?  Sa  che  ho  immaginato  perfino  che  fosse  morto? 

—  Non  esageri,  signorina,  alla  mia  età  generalmente  la  pelle 
è  dura... 

—  Allora  è  peggio!  Allora  si  prende  giuoco  di  me!  —  e  Delia 
cominciò  a  singhiozzare,  nascondendo  il  viso  nel  fazzoletto. 

Rimanevo  stordito,  mortificato.  Povera  ragazza!  In  quello  stato 
di  eccitazione  e  in  lacrime  per  causa  mia! 

—  Vuole  che  chiami  sua  madre?  —  domandai  tanto  per  rivol- 
gerle una  cfualsiasi  espressione  gentile. 

Delia  mi  fissò  trepidante  coi  grandi  occhi  bagnati. 

—  Mia  madre?  Lei  xuoì  parlare  con  mia  madre? 

—  Io,  no!  Dicevo  per  lei! 

Di  nuovo  si  nascose  il  volto,  di  nuovo  si  mise  a  singhiozzare. 

—  Povera  me!  Doveva  proprio  toccarmi  un  simile  martirio. 

—  Quale  martirio,  signorina  Delia? 

—  Questo!  Lei  non  capisce,  non  potrà  mai  capire! 
Invece  capivo,  vedevo  con  la  massima  chiarezza. 

L'eterna  storia  della  paglia  accanto  al  fuoco.  La  paglia  era  lei, 
il  fuoco  ero  io.  Pare  ciie  io  produca  effetto  sulle  ragazze.  Non  le  col- 
tivo, non  sono  azzimato,  non  ho  niente  del  don  Giovanni,  le  donne 
esistono,  so  bene  che  bisc^na  fare  i  conti  con  loro  in  taluni  momenti 
tipici,  ma,  non  perciò  debbono  arrogarsi  nella  mia  vita  una  parte 
preponderante;  eppure  devo  riconoscere  che  mi  svolazzano  in  tomo 
come  uccelletti  affascinati,  il  che  quasi  m'umilia,  certo  mi  indispet- 
tisce, essendo,  a  mio  giudizio,  il  ruolo  di  uomo  fatale,  un  ruolo  da 
imbecille. 

Si  aggiunga,  per  mia  disdetta,  che  le  pene  degli  altri,  specie 
degli  esseri  deboli,  esercitano  sul  mio  temperamento  l'effetto  del- 
l'aspirina; mi  deprimono,  mi  stordiscono,  mi  pongono,  spiritual- 
mente parlando,  in  uno  stato  sudaticcio  di  apatico  dormiveglia. 

—  Signorina,  glielo  chiedo  per  piacere,  non  pianga.  Vederla 
soffrii'e  mi  tormenta;  sono  capace  di  averne  il  mal  di  testa,  molto 
più  che  ho  perduta  la  notte  in  treno. 

—  Sì,  ha  ragione,  ma  io  non  riesco  a  vincermi.  Oltre  tutto,  io 
le  ho  rivelato  il  mio  secreto;  le  ho  mostrato  a  nudo  la  mia  anima! 
È  atroce!  È  orribile!  —  e  seduta  davanti  al  tavolo,  con  la  fronte  ap- 
poggiata sopra  un  lessico  rilegato  in  pergamena,  sembrava  volesse 


254  Lua  E  SPECCHI 

sprofondarvisi  per  sottrarsi  alla  mia  vista.  Infatti,  povera  ragazza, 
quale  situazione  sarebbe  stata  la  sua  dopo  una  scena  simile! 

E  anch'io,  quale  situazione!  D'interrompere  le  mie  visdtie  non  me 
la  sentivo;  oramai  quelle  due  ore  del  pomeriggio,  sopprimendole, 
avrebbero  scavato  un  buco  nelle  mie  giornate;  un  buco  oscuro  da 
cui  mi  sarebbero  arrivati  buffi  d'aria  gelida  a  darmi  fastidio. 

Stavo  irresoluto,  non  sapendo  se  andarmene  o  mettermi  a  se- 
dere, quando  ecco  che  torna  la  madre  dall'aver  fatto  le  sue  devo- 
zioni nella  chiesa  vicina.  Era  vestita  di  grigio  e  teneva  nelle  mani 
guantate  un  grosso  libro  di  preghiera. 

La  salutai  con  evidente  imbarazzo: 

—  Ben  tornata,  signora;  lei  prega  spesso  e  fa  bene. 

—  Non  c'è  altro  nella  vita,  caro  professore.  E  si  convinca  che  la 
filosofìa  non  esclude  la  religione. 

—  Anzi,  il  contrario.  Basterebbe  san  Tommaso  a  provarlo. 

—  Sicuro,  e  anche  sant'Agostino;  ma  tu.  Delia,  perchè  piangi? 
Cos'è  avvenuto  tra  di  voi?  —  e  si  rivolse  a  me,  sollevando  la  veletta 
sulla  faccia  bianca  ed  energica. 

—  Niente,  mamma,  lui  non  ha  nessuna  colpa.  Sono  io  la  sciocca. 

—  Sa  —  mi  disse  la  signora  con  alterezza  triste  —  se  la  mia  po- 
vera figliuola  è  infelice  per  causa  sua,  lei,  professore,  non  creda  per 
questo  di  essere  legato  da  nessun  vincolo. 

—  Ci  mancherebbe  altro!  —  Delia  esclamò,  alzandosi  e  buttan- 
dosi indietro  i  riccioli  scapigliati. 

—  Libero  come  l'aria  e  non  si  prenda  soggezione  di  tornare.  Io 
le  garantisco  che,  in  presenza  sua,  non  piangerò  mai  più. 

—  Delia  ha  trovato  la  nota  giusta.  Lei  può  tornare,  anzi  mi  farà 
piacere;  ma  adesso,  in  un  tal©  momento  di  trambusto,  mi  parrebbe 
che  lei  potesse  andarsene... 

Andarmente?  Era  una  parola.  Intanto  so  trattava  di  recare  di- 
sturbo alle  due  signore,  le  quali  si  erano  messe  a  sedere  accanto  e 
con  le  seggiole  mi  ostruivano  il  passaggio  fra  il  tavolo  e  il  muro  per 
arrivare  all'uscio;  poi  bisognava  licenziarsi,  esprimersi  in  qualche 
modo,  consolare  la  figlia,  scusarsi  con  la  madre,  saper  trovare  una 
di  quelle  espressioni  felici,  che  mi  tradiscono  inevitabilmente  quando 
più  dovrebbero  aiutarmi. 

Mi  avvicinai  alla  finestra  che  era  spalancata,  e  mi  posi  a  guar- 
dane il  fiume,  sentendomi  la  testa  così  vuota  che  non  sarei  riuscito  a 
pescarci  un'idea,  neppure  per  salvarmi  la  vita. 

Regnava  nella  stanza  il  più  assoluto  silenzio,  ed  io  capivo  che 
toccava  a  me  parlare,  che  esse  non  avevano  altro  da  aggiungere,  che 
se  non  avessi  parlato  io,  il  silenzio  avrebbe  potuto  prolungiar?.i  .il- 
l'infinito. 

—  I>el  resto  —  dissi  voltandomi  e  mettendomi  le  mani  in  i<i>ra 
—  del  resto  non  bisogna  esagerare;  ogni  guaio  ha  il  suo  rimedio. 
Giacché  la  signorina  Delia  ha  avuto  la  disgrazia  di  prendermi  sul 
serio,  io  sono  qua,  io  non  fuggo... 

Delia  di  nuovo  balzò  in  piedi,  palpitante,  col  petto  ad  onde,  tal- 
mente e  meravigliosamente  sincera  che  ne  rimasi  commosso  e  ri- 
scaldato. 

—  Sicuro,  contenti  noi,  contenti  tutti.  Lavorerò  io,  lavorerà  anche 


h 


LUCI   E   SPECCHI  255 

lei,  se  vuole.  Qualcosellina,  io  ce  l'ho  e  il  diavolo,  in  genere,  non  è 
tanto  brutto  come  si  dipinge. 

Il  diavolo  non  c'entrava,  ma  nessuno  ci  badò.  La  signora  si  tolse 
i  guanti,  si  tolse  il  cappello  e  mi  strinse  una  mano  nelle  sue  con 
effusione;  Delia,  appesa  al  mio  braccio,  tremava  più  di  una  foglia, 
batteva  i  denti,  ripetendo  fra  sé  : 

—  È  un  sogno!  Pare  una  favola!  Purché  sia  vero! 

Uscendo  un'ora  dopo,  ufficialmente  fidanzato  e  con  la  data  del 
matrimonio  già  stabilita,  perché  io  detesto  le  circostanze  in  bilico  e 
una  cosa  quando  è  fissata  vai  meglio  liquidarla  il  più  presto  che  si 
può,  mi  ricordai  all'improvviso  di  quell'altra,  della  sorellina  più 
piccola.  Oh!  cosa  ne  penserà?  E  io  cosa  ne  pensavo?  Se  fosse  stata 
anche  lei  presente,  forse  non  mi  sarei  impegnato.  Dovevo  vederla  a 
pranzo  e  a  cena;  con  molta  probabilità  l'avrei  di  faccia  perchè  io, 
naturalmente,  starei  fra  mia  suocera  e  mia  moglie.  Purché  non  af- 
fetti l'inappetenza;  purché  non  si  cibi  a  dosi  omeopatiche;  io  ho  uno 
stomaco  divoratore;  mangio  di  gusto  e  mi  piace  di  veder  mangiare. 
La  gente  che  ingoia  la  minestra  con  le  labbra  disgustate  di  chi  in- 
goia olio  di  ricino,  mi  toglie  il  buon  umore  ed  a  me,  prendendo  i 
pasti,  piace  di  essere  gioviale.  Frizzi,  sche>rzi,  risate,  parole  amene 
mi  fioriscono  dalla  tovaglia  come  immagini  ad  un  poeta  dal  chiaro 
di  luna.  Lena  diafana,  anzi  incorporea,  doveva  specchiarsi  nel  fondo 
dei  piatti,  mentre  i  piatti  io  li  voglio  ben  colmi  e  ripetutamente  se 
occorre.  Quale  antitesi  a  mio  scapito!  Timori  ihfondcU/i!  me  ne  con- 
vinsi, tornato  dal  viaggio  di  nozze,  la  prima  sera  che  ci  trovammo 
raccolti  in  quattro  intomo  al  desco  famigliare. 

—  Sai,  non  ti  scandalizzare,  io  mangio  sul  serio  —  disse  quella 
ragazza  con  voce  ardita,  rompendo  in  due,  con  gesto  deciso,  un  fi- 
loncino di  pane.  —  Forse  ho  il  verme  solitario,  non  mi  sazio  mai  — 
e  tutti  i  lineamenti  all'insù,  mento,  Icibbro  superiore,  zigomi,  soprac- 
ciglia, meno  il  naso  che  ne  scendeva  diritto,  regolare  nella  bizzarria 
dell'insieme,  si  arricciarono  in  una  smorfìetta  canzonatoria  al  mio 
indirizzo.  Il  fatto  che  io  avevo  sposato  sua  sorella  evidentemente  le 
dava  di  me  un  concetto  assai  meschino. 

—  Ah!  tu  mangi  sul  serio?  Io  invece  mangio  per  chiasso;  vedrai! 
Dovette  ammirarmi;  lo  confessò  e,  vedendo  una  superstite  fetta 

di  carne  nel  piatto  dd  mezzo,  si  affrettò  con  precipitazione  ad  im- 
mergervi la  forchetta,  mentre  io,  svelto,  facevo  altrettanto. 

—  Se  tu  sei  un  gentiluomo,  non  insistere,  Urbano.  Io  ho  ancora 
appetito. 

—  Ho  ancora  appetito  anch'io  e  non  ci  tengo  ad  essere  un  gen- 
tiluomo. 

Mia  suocera  con  un  colpo  di  coltello  divise  in  due  la  porzione 
contesa  e  la  disputa  ebbe  fine. 

Diventammo  subito  amici;  due  amici  burloni,  sempre  lì  a  bistic- 
ciarsi, a  cercare  vicendevoli  difetti  per  metterli  in  evidenza,  a  indi- 
carci coll'occhio  il  boccone  più  scelto  per  gareg^are  di  astuzia  a 
portarcelo  via.  Sx)essis9Ìmo,  dopo  il  pranzo,  Lena  prendeva  il  \'io- 
lino,  io  sedevo  al  pianoforte  ed  allora,  guardandola  di  sfuggita, 
eretta,  fiera,  i  capelli  rossigni  come  sparpagliati  nell'aria,  non  riu- 
scivo a  capacitarmi  che  quel  viso  assorto,  aggrondato,  fosse  il  viso 
di  DOGO  fa. 


2Ùtj  LLLl    t    bPELLllI 

E  mia  moglie?  Era  stata  nominata  bibliotecaria  con  destinazione 
alla  biblioteca  Angelica,  dimodoché  rimaneva  assente  mota  della 
giornata  e  anche  quando  si  trovava  in  casa  pareva  assente  più  ohe 
mai,  assorbita,  narcotizzata  dal  troppo  leggere  e  il  troppo  pensare. 
Prima  di  sposarla  non  avrei  supposto  chs  un  esile  corpo  femminile 
potesse  portarsi  in  giro  un  così  smisurato  carico  di  sapienza!  Io  ne 
rimanevo  disorientato,  agghiacciato,  ne  provavo  un  gelo  e  nel  vibrare 
de'  suoi  nervi  sentivo  il  riflesso  di  vibrazioni  estranee.  Lei,  poverina, 
faceva  il  possibile  e  l'impossibile  per  nascondere  una  tale  deformità; 
rivolgeva  parole  irriverenti  a  poeti  e  prosatori,  affettava  scetticismo 
sul  conto  dei  piìi  accreditati  avvenimenti  storici,  sosteneva  teorie  di 
anarchia  intellettuale  e  tutto  ciò  aumentava  il  suo  disagio;  contri- 
buiva a  vincolarla  di  più  in  ogni  sua  manifestazione. 

.Altra  aggravante:  fra  lei  e  sua  madre  si  erano  date  la  missione 
infausta  di  portare  il  lutto,  vita  naturai  durante,  per  una  grave  sven- 
tura accaduta  in  famiglia  tanti  anni  prima. 

All'indomani  del  fidanzamento  la  signora  mi  aveva  chiesto  con 
solennità  un  colloquio  riservatissimo  e  si  era  creduta  in  dovere  di 
narrarmi  ne'  più  minuti  particolari,  la  tragedia  della  sua  giovinezza. 
II  marito,  un  gaudente  senza  Dio,  né  legge,  un  avventuriero  del  pia- 
cere stile  1830,  dopo  averne  fatto  di  tutti  i  colori,  s'innamorò  e  in- 
namorò fino  al  delirio  una  giovinetta  di  buona  famiglia,  la  portò  via 
dal  nido  al  rombo  di  una  macchia  e  sul  più  bello  delle  ebbrezze, 
sentendosi  alle  calcag'na  i  genitori  e  i  questurini,  freddò  la  ragazza, 
si  freddò  e  i  due  cadaveri  furono  trovati  sotto  una  coperta  di  da- 
masco in  un  grande  letto  di  un  albergo,  a  Siena. 

—  Da  quell'era  —  mia  suocera  aveva  conclixso  —  mi  sono  im- 
posta e  ho  imposto  alle  mie  figliuole  un'esistenza  di  austerità. 

—  E  perché,  cara  signora?  Che  c'entra  qui  l'austerità  sua  e  delle 
figliuole? 

—  Nei  solchi  scavati  dal  dolor©  non  fioriscono  rose  —  aveva  ella 
insistito,  stringendo  forte  le  dita  intrecciate  e  le  mascelle. 

—  Lasci  andare  il  dolore  e  lasci  andare  le  rose;  dopo  quindici 
anni  mi  pare  che  sia  il  caso  di  rassegnarsi. 

—  Il  guiaio  é,  figliuolo,  eh©  io  non  riesco  a  perdonar©;  io  sono 
ancora  avvelenata  di  odio  contro  quell'uomo  che  fu  mio  marito  e 
contro  quella  donna  che  fu  la  nostra  rovina. 

—  Lasci  correre,  lasci  correre...  Se  la  vita  futura  esiste  —  e  io 
ci  credo  —  quei  due  disgraziati  avranno  abbastanza  gatte  da  pelare 
all'altro  mondo  senza  che  lei  aggravi  col  suo  rancore  la  loro  con- 
dizione. 

Si  era  alzata  quasi  offesa  ed  io  avevo  capito  che  avrebbe  deside- 
rato alquanto  più  di  pathos  nel  mio  contegno. 

Questo  brutto  avvenimento  lontano  ogni  tanto  ricompariva  per 
un  verso  o  per  un  altro;  ogni  tanto  sentivo  mia  suocera  sospirare. 
Delia  farle  eco  ed  insieme  ripetere  a  mezza  voce:  «  È  imitile,  si  ha 
bel  fare,  certe  ferite  non  si  rimarginano». 

Una  mattina  vidi  Lena  uscire  dalla  sua  stanza  scarmigliata,  ge- 
sticolante, una  vera  furia. 

-  Tutte  le  ragazze  si  vestono  di  rosso,  di  giallo,  di  verde,  d- 
qualsiasi  tinta!  'E  io,  perchè  no?  Io  perchè  di  grigio,  di  marrone,  di 


Lua  E  SPECCHI  257 

nero,  di  tetraggine?  Il  verde  pisello  è  di  moda  e  io  metterò  il  mio 
vestito  verde  pisello,  dovesse  cascare  il  mondo. 

Entrò  a  precipizio  nel  mio  studio,  dove  io  mi  ero  ritirato  in 
fretta,  per  non  immischiarmi  in  affari  che  non  mi  riguardavano, 
chiuse  la  porta  con  violenza  e  si  abbandonò  a  uno  sfogo  di  parole 
arruffate. 

—  Mio  padre  può  aver  avuto  torto  o  ragione,  io  non  c'entro.  Avevo 
quattro  anni  allora.  Intanto  però  trovo  sconveniente  questo  biasimo 
che  non  finisce  mai.  E  dopo  tutto  cosa  pretendono?  Si  è  punito  da  sé, 
è  morto;  cosa  poteva  fare  di  più?  Io  lo  amo  e  lo  rimpiango.  Doveva 
essere  allegro,  sono  sicura  che  sarei  stata  la  sua  beniamina  e  mi 
avrebbe  fatto  vestire  a  gusto  mio.  Lo  lascino  dunque  in  pace  e  lascino 
in  pace  anche  me. 

Aveva  mille  ragioni;  non  glielo  dissi,  ma  in  cuor  mio  le  detti 
mille  ragioni.  Il  color  verde  pisello  poi  doveva  andarle  assai  bene 
così  fulva  e  incarnata,  con  quegli  occhi  cangianti  e  il  viso  di  una  ca- 
pricciosità crudele. 

Fece  presto  a  calmarsi,  capì  che  io  stavo  dalla  sua  parte,  mi  sor- 
rise, mi  tolse  dalle  mani  il  libro  che  stavo  leggendo,  si  strinse  nelle 
spalle,  vedendone  il  titolo  astruso,  e  si  affacciò  alla  finestra  piena  di 
sole.  Nel  mirarla  curva,  fluida,  con  una  specie  di  tunica  lieve  sulle 
forme  evanescenti,  le  gambe  snelle  come  nude  sotto  la  trasparenza 
della  stoffa  leggera,  le  braccia  penzoloni  fuori  del  davanzale,  provai 
un  senso  improvviso  di  tristezza.  La  coscienza  mi  s'intorbidava,  la 
vista  anche.  Mi  pareva  che  la  strana  creatura  fosse  emersa  dalle  acque 
del  fiume  per  la  mia  dannazione  e  che  nel  fiume  dovessimo  scompa 
rire  insiem.e. 

Mia  suocera  aprì  la  porta  ed  entrò,  girando  uno  sguardo  scruta- 
tore, (juasi  grifagno.  Lena  stava  alla  finestra  per  conto  sub;  io  sfo- 
gliavo un  libro  per  conto  mio;  cosa  c'era  di  allarmante-  Eppure... 
Eppure... 

Da  quella  mattina,  Lena  tenne  verso  di  me  il  contegno  di  una 
complice.  Non  c'era  nulla,  il  gran  nulla,  e  non  pertanto  si  compor- 
tava come  se  fra  noi  ci  fosse  qualche  cosa. 

Parlava  meno,  non  mi  rivolgeva  più  né  frizzi,  né  dispetti;  nel 
suo  ridere  avvertivo  un  gorgheggiare,  un  picchettare;  nella  sua  voce 
cadenze  e  soste;  nelle  parole  un  doppio  fondo  e  avevo  l'impressione 
fastidiosa  che  Lena  mi  girasse  intomo  svolgendo  filo  da  un  gomitolo. 
Me  ne  sentivo  legato,  invischiato,  anch'io  parlando  poco,  evitando 
confidenzialità  e  una  volta  che  nel  passarmi  vicino  mi  dette  forte  di 
gomito  come  per  distrazione,  io  mi  allontanai  di  un  passo  e  brusca- 
mente le  dissi  : 

—  Non  potresti  deciderti  a  lasciarmi  tranquillo? 

Fu  appunto  in  seguito  a  tale  episodio  che  si  svolse  fra  noi  una 
scena  preoccupante  nella  sua  schematica  semplicità  : 

Stavo  nel  mio  studio  a  redigere  stentamente  un  articolo  edito- 
riale per  la  mia  rivista  e  polemizzavo,  sen2:a  il  mio  abituale  umo- 
rismo, con  una  rivista  di  studi  religiosi  a  proposito  della  scolastica, 
quando  un  profumo,  un  fruscio,  mi  fecero  alzare  la  testa  e  vidi  Lena 
accanto  al  mio  tavolo,  in  aria  dispettosa  ed  altera: 

—  Cosa  vuoi?  —  e  se.guitai  a  scrivere,  o  mesrlio  a  farne  le  viste. 


258  Lua  E  SPECCHI 

—  Niente,  volevo  dirti  che  siamo  soli  in  casa.  Mia  madre  non 
supponeva  forse  che  io  rincasassi  presto,  ed  è  uscita.- 

—  Ebbene?  Se  tua  madre  è  uscita,  tornerà.  È  una  notizia  banale. 

—  Credi?  Allora  perchè  tremi?  —  Rise  buttando  indietro  il  capo 
e,  dopo  una  pausa  soggiunse  :  —  Tu  questa  mattina  mi  hai  detto  di 
lasciarti  tranquillo.  Io  sono  qui  adesso  per  risponderti  che  tranquillo 
non  ti  voglio  lasciare.  Intanto  sappi  che,  fino  ad  oggi,  tu  sei  l'unico 
individuo  dell'altro  sesso  che  mi  sembri  degno  di  considerazione,  e 
non  importa  ohe  tu  sia  il  marito  di  mia  sorella.  Nel  linguaggio  cor- 
rente questo  si  chiama  cinismo,  non  è  vero?  Ebbene  chiamalo  come 
ti  pare,  io  sento  così. 

Era  pazza,  evidentemente,  ma,  purtroppo,  di  una  pazzia  conta- 
giosa. Non  pertanto  le  dissi,  irritato: 

—  Sei  una  inconsciente  perfetta. 

—  E  tu  sei  livido.  Perchè? 

—  Dovrebbero  chiuderti  al  manicomio. 

—  E  tu?  Hai  lo  sguardo  smarrito;  lo  sguardo  di  un  pazzo  .uirnt 
tu.  Perchè? 

—  Vattene. 

—  Cosa  ti  fa  che  io  vada?  A  ogni  modo  mi  hai  vicina,  sempre, 
vedendomi  o  no. 

—  È  una  farsa  che  deve  finire.  Parlerò  a  tua  madre. 

—  Ecco!  Ecco!  Se  lo  farai,  ti  stimerò!  Penserò  che  hai  coraggio 
da  vendere;  ma  non  lo  farai.  Solo  guardandoti  in  faccia  capisco  che 
non  lo  farai! 

Non  lo  feci;  non  ci  pensai  neppure!  L'indomani,  a  tavola,  ebbe 
l'audacia  di  sfidarmi,  di  chiedermi  in  presenza  di  mia  suocera  e  di 
mia  moglie  : 

—  Volevi  parlare  alla  mamma  di  quella  cosa?  Perchè  non  lo  hai 
fatto? 

—  Parlarmi  di  che?  —  mia  .suocera  domandò. 

—  Le  solite  sciocchezze  di  Lena  —  io  risposi  evasivo,  mentre  il 
viso  affilato  di  Delia  si  abbandonava  sul  petto,  come  sopraffatto  dal 
peso  di  una  vergogna  non  sua,  eppure  insostenibile.  C'era  tanta  bontà 
nobile  e  mansueta  in  quel  gesto  che  ne  rimasi  umiliato  e  anche  in- 
disposto. 

Che  ambiente,  benedetto  Iddio!  Saturo  di  passione,  tutti  noi  sotto 
la  minaccia  permianente  di  un  corto  circuito,  senza  che  nessuno  tro- 
vasse la  forza  di  scappare  e  trascinare  gli  altri  fuori  della  cerchia 
pericolosa.  Doveva  proprio  toccare  a  me  capitarci  dentro!  A  me,  ne- 
mico giurato  degl'intrighi,  specie  amorosi,  nato  e  creato  per  il  piano, 
l'aperto,  il  sereno,  che  fra  tutte  le  ambite  e  illustranti  qualifiche, 
l'unica  a  cui  aspirassi,  a  cui  tenessi,  era  la  qualifica  di  galantuomo! 
Sentirmi  oscillare  e  mancare  sotto  i  piedi  il  terreno,  sempre  così  ben 
battuto,  della  mia  rettitudine,  mi  rendeva  taciturno,  burbero,  con 
mia  suocera,  ingiusto  verso  mia  moglie.  Quanto  a  Lena,  potendo, 
l'avrei  con  piacere  sequestrata  nel  fondo  di  una  torre,  dove  peraltro 
mi  fosse  possibile  andarla  a  vedere  qualche  volta,  magari  da  un  fine- 
strino. 

Per  colmo  di  complicazione  mia  moglie  cadde  ammalata  e  con 
un'ammalata  grave  da  assistere  in  comune,  l'intimità  fra  me  e  Lena 
s'intensificò! 


LTJa  E  SPECCHI  259 

Ci  davamo  il  cambio  —  infermiere  Delia  non  ne  voleva  —  ma. 
io  sono  goffo,  inadatto  ai  mo\imenti  delicati  del  termometro  quando 
si  osserva,  del  g-ontagocce,  del  cucchiaio  da  empire.  Urto,  mi  di- 
straggo, rovescio  e,  cercando  con  le  grosse  dita  fra  i  medicinali,  o 
sbaglio  o  fracasso;  sicché,  mentre  io  assistevo  l'ammalata,  mia  suo- 
cera e  Lena  dovevano  assistere  me.  Ora  è  finito,  ben  finito,  definiti- 
vamente finito;  si  vede  che  dovevo  subire  anch'io  la  crisi  della  denti- 
zione e  della  scarlattina  sentimentale  e,  pazienza,  se  le  circostanze 
me  l'hanno  fatta  subire  nelle  peggiori  condizioni.  Ora  sono  immuniz- 
zato e  posso  sfidare  qualsiasi  contagio,  ma,  certo,  ripensando  a  quei 
mesi,  mi  pare  impossibile  di  averla  scampata. 

Nel  contegno  di  Lena  c'erano  intanto  talune  mosse  di  una  tale 
impreveduta  arditezza  che,  all'urto,  io  dovevo  inevitabilmente  oscil- 
lare, non  foss'altro  per  la  sorpresa.  Passavano  giorni,  magari  una  o 
due  settimane,  che  di  me  non  si  occupava  né  in  male,  né  in  bene. 
Suonava,  trascorreva  le  intiere  serate  al  letto  di  sua  sorella  ad  aguc- 
chiare, ovvero  a  chiacchierare  del  piiì  e  del  meno  con  brio,  magari  con 
assennatezza,  e  mi  faceva  trovare  sul  tavolo  lunghe  strisce  di  bozze 
rivedute  meticolosamente. 

—  Tanto  m^lio,  tanto  meglio. —  dicevo  a  me  stesso,  sciupando 
intere  mezz'ore  affacciato  alla  finestra,  fumando,  guardando  il  giallo 
dell'acqua  in  corsa.  Quante  cose  instabili  nella  vita!  Ma  nulla  è  più 
instabile  del  pensiero  e  nessun  pensiero  é  più  instabile  di  quello  che 
svapora  da  un  cervello  femminile.  Chi  mai  potrà  vantarsi  di  capirci 
qualche  cosa?  Nemmeno  il  signore  Iddio  che  l'ha  creato.  Mi  allon- 
tanavo dalla  finestra  coi  gomiti  indolenziti  e  la  bocca  amara  a  forza 
di  masticare  l'erba  del  voglio  e  non  voglio.  Per  esser  franco  l'asso- 
luta indifferenza  di  Lena  mi  scavava  in  mezzo  allo  stomaco  una  buca 
che  il  cibo  non  riusciva  a  colmare. 

Le  cose  stavano  così,  quando  una  notte  a  mezzanotte  —  come  nei 
racconti  fantastici  ed  invece  era  tutta  realtà  —  Delia,  dopo  una  inie- 
zione calmante  riposava  tranquilla  e  mia  suocera,  stracca  morta, 
l'avevamo  mandata  a  letto;  era  la  mia  notte  di  turno  per  la  veglia  e, 
giacché  le  comodità  non  mi  dispiacciono  e  qualunque  sia  il  mio  stato 
d'animo  il  benessere  materiale  non  ne  ha  la  colpa,  né  deve  scapitarci, 
avevo  collocato  urla  poltrona  a  sdraio  nel  salottino  attiguo  alla  stanza 
di  mia  moglie,  avevo  infilate  le  pantofole,  mi  ero  avvoltolato  morbi- 
damente dentro  le  pieghe  di  un  plaid  e  mi  ero  tirato  sugli  occhi  la  vi- 
siera di  un  berretto  da  viaggio  di  seta  grigia  non  troppo  poetico,  ma 
abbastanza  elegante  e  assai  confortevole.  Mi  trovavo  come  in  uno 
scompartimento  di  prima  classe  e  Lena,  che  avrebbe  dovuto  andarsi 
a  coricare,  rimaneva  immobile,  seduta  a  poca  distanza,  sopra  l'an- 
golo di  un  divano,  assorbita  nella  lettura  di  un  picx^olo  volume  mezzo 
sfogliato.  Il  sonno  mi  scendeva  adagio  sulle  palpebre  e  il  rumore  del 
vento  sul  fiume,  simulando  il  rumore  di  un  treno  in  marcia,  mi  dava 
l'impressione  di  viaggiare.  Sentii  che  Lena  si  alzava,  camminando 
sulla  punta  dei  piedi,  la  sentii  uscire,  rientrare,  riprendere  il  suo 
posto  e  dire,  quasi  in  un  bisbiglio  : 

—  Meno  male  che  sta  quieta.  Dorme. 
Io  mi  scossi. 

—  Chi  é  che  dorme? 


260  LUa   E   SPECCHI 

—  Delia. 

—  È  buon  segno.  E  tu  perchè  non  vai  a  dormire? 

—  Non  ho  sonno.  Ho  letto  questo  libro  che  mi  ha  impressionata. 
Mi  tolsi  il  berretto,  mi  svincolai  dal  plaid. 

—  Sono  in  pantofole,  ti  chiedo  scusa. 

Lena,  insolitamente  pensosa,  lanciò  un'occhiata  alle  mie  calze, 
poi  distratta  mi  disse: 

—  Porti  delle  calze  di  uno  chic...  Mi  sono  già  accorta  che  sei 
trasandato  solo  nell'apparenza... 

Io  la  interruppi  per  domandarle  cosa  c'era  d'impressionante  nel 
libro  che  andava  leggendo. 

—  È  una  commedia  di  Ibsen  Gli  spettri.  L'hai  letta? 

—  Mi  pare  di  si,  molto  tempo  fa. 

—  Ti  piace? 

—  È  tetra. 

—  È  vera,  di  una  verità  spaventevole.  Quel  padre  morto  che  ri- 
vive nel  figlio  coi  suoi  vizi  e  le  sue  colpe,  scusa  molte  cose  nella  vita. 
Non  sei  di  questa  opinione? 

—  No.  I  morti  sono  ì  morti,  noi  siamo  vivi  e  dobbiamo  sceglierci 
la  nostra  sorte. 

—  Dici  così  per  non  darmi  ragione;  eppure  io  sento  che  Ibsen 
ha  messo  il  dito  in  una  piaga.  Credi  tu  che  io  non  sarei  pronta,  in 
questo  minuto,  a  commettere  una  pazzia,  la  peggiore  delle  pazzie,  per 
soddisfare  me  stessa?  E  mi  fa  piacere  sentirmi  sentenziare  da  un 
grande  scrittore,  nobile,  che  non  sono  io  la  malvagia;  che  in  me  agisce 
la  malvagità  di  uno  scomparso.  /Mlora  io  sono  irresponsabile;  posso 
commettere  ogni  sorta  di  cattive  azioni  senza  meritare  rimproveri  e 
torturarmi  coi  rimorsi. 

Parlava  quieta  e  convinta,  il  viso  serio,  intento,  sollevato  verso 
di  me,  le  ginocchia  strette  nelle  mani  allacciate,  in  una  posa  di  lan- 
guore dolce,  di  stanchezza  abbandonata. 

Io  sentivo  una  vampa  salirmi  dai  calcagni  alla  nuca,  lambirmi 
le  tempie  e  nel  mio  sang-ue  si  scatenava  una  bufera. 

—  Perchè  non  mi  rispondi?  Perchè  mi  calpesti  il  cuore?  —  Lena 
domandò  umilmente.  —  Se  tu  volessi  noi  si  fuggirebbe  insieme,  non 
per  morire,  come  lui,  il  mio  spettro,  per  vivere  felici.  Sappiamo  es- 
sere eroici;  spezziamo  tutti  questi  nodi. 

—  Stai  zitta,  non  farneticare  —  io  dissi,  alzandomi  e  non  ricono- 
scevo la  mia  voce  —  l'eroismo  vero  consiste  nel  restare  al  proprio 
posto!  Certi  nodi  spezzarli  è  viltà;  lasciarsene  stringere,  forza,  unica 
forza. 

Non  si  ribellò,  non  protestò;  nemmeno  una  sillaba  le  uscì  dal 
labbro;  ma  in  quel  suo  silenzio  io  sentivo  un  tumultuare  di  voci  di- 
scordi e,  alto  più  di  ogni  voce,  un  ridere  secco  di  scherno. 

Trascorremmo  il  restante  della  notte  nella  camera  di  Delia,  io 
da  una  parte  del  letto.  Lena  dall'altra  e,  fra  noi,  la  povera  ammalata 
giacente  nel  suo  dolore. 

Appena  mia  moglie  fu  entrata  in  convalescenza,  la  terribile  ra- 
gazza partì  in  escursione  e  così  ebbi  alcune  settimane  di  respiro  per 
rimettermi  in  equilibrio. 

Mia  moglie  mi  fu  d'immenso  aiuto.  Io  la  vedevo  rifiorire  nel  corpo 
che  riprendeva  vigore,  e  nell'anima  in  cui  germodiavano  le  sensa- 


LUa   £    Sx^ECCHl  -^bi 

zioni  a  sostituire  le  idee.  Mi  seguiva  fedele,  paziente,  con  una  inter- 
rogazione ansiosa  nei  larghi  occhi  sem'pre  attoniti,  e  coll'aria  di  chi 
aspetti...  Mi  sentiva  lontano,  aspettava  che  io  arrivassi  e,  forse,  a 
poco  a  poco,  di  passo  tardo,  ma  fermo,  un  giorno  o  l'altro  avrei  finito 
col  superare  spontaneamente  lo  spazio  che  ci  divideva,  se,  al  ri  tomo 
di  Lena,  non  avessi  sentito  gravarmi  addosso  il  sospetto  di  mia  suo- 
cera, la  quale  mi  faceva  oggetto  di  vigilanza  umiliante  e  snervante. 

Un  sogguardarmi  di  sfuggita  durante  i  pasti,  una  sospensione 
attenta  del  viso  ad  ogni  mia  parola;  già  pronta  per  uscire,  un  osten- 
tato indugiare  finché  Lena  o  io  non  l'avessimo  preceduta,  e  allusioni 
al  duro  destino  della  sua  vita;  e  quei  due  morti  di  quindici  anni  fa, 
che  nei  ricordi  sospirosi,  rigalleggiavano  a  farmi  uscire  di  casa  e 
spesso  anche  dai  gangheri,  ^ 

Avrei  voluto  farla  finita,  prendermi  Delia  ed  andarmene;  ma 
sarebbe  stato  necessario  spiegarsi  e  io  so  che  le  parole,  in  alcune  si- 
tuazioni, somigliano  a  colpi  di  martello  sopra  l'involucro  di  un  alto 
esplosivo.  Si  corre  rischio  di  far  tutto  saltare  in  aria.  E  poi  quali  pa- 
role? Cosa  potevo  dire?  Che  una  ragazza  pazza  e  bella,  i>er  puro  spi- 
rito di  contraddizione,  aveva  preso  a  perseguitarmi  e  che  io,  quan- 
tunque sia  uomo,  fornito  degli  occhi  e  del  resto,  una  brutta  notte  le 
avevo  quasi  lasciato  nelle  mani  il  plaid  che  mi  fungeva  da  mantello? 
Avrei  fatto  ridere  perfino  mia  suocera,  che  è  tutto  dire.  Di  fronte  ad 
una  donna  giovane,  seducente,  ansiosa,  un  uomo  può  anche  riuscire, 
con  molta  buona  volontà,  a  mantenersi  un  galantuomo,  a  patto  pe- 
raltro che  non  lo  racconti,  che  non  se  i^  vanti.  La  vita  sociale  è  un 
tessuto  di  stramberie!  Certe  canag^liate  abbassano  e  nello  stesso  tempo 
danno  prestigio;  certe  nobili  azioni,  sopratutto  certe  coraggiose  ri- 
nuncie,  c'innalzano  eppure  ci  coprono  di  ridicolo. 

Io  mi  trovavo,  dunque,  a  dar  di  cozzo  col  capo  nel  fondo  di  un 
vicolo  cieco,  quando  —  il  come  ed  il  perchè  l'ho  dedotto  di  tra  l'arruf- 
fata narrazione  di  Delia  —  mia  suocera  e  mia  cognata,  in  fretta  e 
furia,  dall'oggi  al  domani,  hanno  fatto  fagotto  ed  hanno  preso  il  volo 
definitivo. 

Provai  uno  strappo,  non  nego.  Un  dente,  se  duole,  a  farselo  estir- 
pare, lì  per  lì,  il  dolore  aumenta,  la  piccola  fossa  dà  sangue,  e  ne  ri- 
mane al  capo  un  tal  quale  stordimento;  ma,  poco  dopo,  quale  sol- 
lievo! Il  piccolo  osso  cariato  è  rimasto  dal  dentista  e  noi,  liberati,  non 
ci  si  pensa  più!  Basta  un  poco  di  pazienza,  basta  non  irritare  la  fe- 
rita, stuzzicandola. 

Invece  Delia  pretendeva  che  io  cominciassi  subito  a  masticare  le 
dolcezze  della  nostra  solitudine.  Mi  ronzava  intomo,  aveva  una  sma- 
nia assillante  di  farmi  capire  che  mi  aveva  perdonato,  che  il  passato 
era  come  se  non  fosse  esistito  mai. 

Ed  appunto  questo  non  volevo.  Inginocchiarmi  al  tribunale  della 
penitenza  e  farmi  assolvere  di  peccati  non  commessi,  sarebbe  stato  il 
superlativo  del  grottesco. 

Così,  domenica,  perdetti  la  pazienza  e,  presa  piìi  o  meno  delica- 
tamente mia  moglie  per  un  braccio,  la  misi  fuori  dell'uscio.  Per  que- 
sto atto,  in  verità  di  una  mediocre  cortesia,  ho  corso,  nient'altro,  il 
pericolo  che  Delia  si  gettasse  dalla  finestra  nel  Tevere.  Mi  sento  ge- 
lare a  ripensarci  :  francamente,  prendere  moglie  sopratutto  per  la 
soddisfazione  di  potersi  affacciare  sopra  un  fiume  e  che  poi  il  fiume 


262  LUa   E   SPECCHI 

s'inghiottisse  mia  moglie  e  la  mia  pace,  in  eterno,  sarebbe  stata  troppo 
grossa. 

Grazie  a  Dio,  tutto  è  bene  quello  che  finisce  bene  ed  eccoci  qua 
ancora  un  po'  stroncati,  ma  vicendevolmente  fiduciosi  e  cogli  animi 
abbastanza  sereni. 

Mia  moglie  conclude  i  suoi  sfoghi  lirici  —  degni  del  massimo 
rispetto  peraltro  in  grazia  della  loro  assoluta  sincerità  —  coll'asserire 
che  è  oramai  sicura  di  tenermi  avvinto,  poiché  ha  finalmente  impa- 
rato cosa  bisogna  fare,  come  bisogna  fare 

È  una  cosa  che  la  riguarda,  io  non  c'entro.  Ti  avviso,  ad  ogni 
modo,  cara  Delia,  che  il  matrimonio  è  un  viaggio  da  percorrersi  in 
due  e  che  Jura  —  in  Italia  finora  non  c'è  divorzio  —  dal  municipio 
e  dalla  chiesa  fino  a  quel  luogo  ameno  dell'ultima  dimora.  Un  viag- 
gio assai  lungo  —  devi  convenirne  —  e  inevitabilmente  disagiato  in 
taluni  passaggi,  molto  più  che  ciascuno  di  noi  si  trascina  dietro  un 
bagaglio,  il  quale  aumenta  di  volume  non  che  di  peso  coll'aumentare 
delle  nostre  esigenze  miateriali  e  spirituali.  Io  ti  aiuterò  a  portare  il 
tuo,  zeppo  in  gran  parte  di  nuvole  e  di  mosche,  roba  che  pesa,  quan- 
tunque inconsistente.  Io  ti  aiuterò,  non  dubitare,  senza  sfacchinarmi, 
senza  sprofondarmi  in  salamelecchi,  da  guida  premurosa,  da  buon 
camerata  affezionatissimo;  sì  ora  che  mi  pare  di  conoscerti,  m'ispiri 
una  sincera  affezione.  Dunque,  siamo  intesi.  Puoi  contare  su  di  me, 
e  non  esigo  affatto  che  tu,  in  compenso,  mi  dia  una  mano  nelle  salite 
scabrose  o  che  mi  aiuti,  se  il  mio  carico  mi  schianta  il  braccio.  Ti 
chiedo  solo  di  non  essermi  d'impaccio,  di  non  vincolarmi  nella  li- 
bertà delle  mie  mosse  o,  per  lo  meno,  giacché  sei  diventata  tanto 
esperta,  di  vincolarmi  con  sapienza,  sia  pure  con  astuzia,  in  modo 
che  io  non  me  ne  avveda,  anzi  nemmeno  lo  sospetti. 

Clarice  Tartufar!. 


IL  NATURALISMO  UMANISTICO  DI  ROBERTO  ARDIGO' 


I. 

A  due  titoli  si  lega  specialmente  il  nome  insigne  di  R.  Ardigò, 
e  sono  :  1°  un  senso  altissimo  del  valore  delle  idee  come  forze  sublimi 
del  carattere,  per  il  quale  si  svolse  il  dramma  purissimo  della  sua 
conversione;  2°  l'ispirazione  uméinistica  del  suo  Positivismo  che,  per 
la  sostanza,  meglio  si  direbbe  Xatztratlsnw  itmamstico.  È  avvenuto 
però  e  a\^iene  spesso  che,  o  per  incultura  o  per  passione  di  parte, 
la  sua  dottrina  sia  male  intesa  e  deformata,  e  che  se  ne  deprezzi  lo 
spirito  negandone  anzitutto  l'originalità;  ma  se  in  essa  penetrando 
ia  si  ricostruisca  fedelmente,  nel  suo  intimo  tessuto  ideaUvo  e  nelle 
finalità  che  la  pervadono,  si  dovrà  riconoscere  che  si  distingue  net- 
tamente da  altre  dottrine  pur  dette  positivistiche,  e  che  mentre  con- 
tinua la  gloriosa  tradizione  naturalistica  ed  umanistica  del  nostro 
Rinascimento  filosofico,  contiene  in  sé  medesima  un  potere  germina- 
tivo perenne.  A  tale  compito  io  mi  sono  proposto  di  soddisfare  con 
l'opera,  che  vedrà  prossimamente  la  luce,  Roberto  Ardigò:  L'Uomo  e 
VL'manista  (Bologna,  Zanichelli),  assolvendo  a  un*  debito  che  dirò 
di  lealtà  storica  e  critica.  Qui  intanto  stimo  opportuno  presentare 
della  filosofia  ardighiana,  in  iscorcio,  i  tratti  essenziali,  toccando 
anche  delle  ragioni  sue  più  importanti  e  meno  avvertite. 


IL 

Ardigò  ha  riallacciato  la  filosofia  alla  scienza  meglio  che  non  si 
fosse  fatto  prima  di  lui  in  Francia  e  in  Inghilterra.  Non  le  spetta 
infatti  il  puro  uflBcio  di  sistemare  o  unificare  i  risultati  delle  ricerche 
scientifiche,  ma  con  la  funzione  di  sintesi  ideale  —  che  nulla  vieta 
sia  anche  sintesi  creativa  —  le  compete  pur  quella,  come  Ardigò  si 
esprime,  di  matrice  delle  scienze,  simile  alla  natura  matrice  delle 
proprie  formazioni.  Ardigò  rivendicava  in  tal  maniera,  in  difesa 
della  filosofia,  un  suo  diritto  storico. 

Le  induzioni  che  seguendo  questo  indirizzo  propulsivo  la  filo- 
sofia potrà  formulare  saranno  necessariamente  ipotetiche,  e  desti- 
nate quindi  ad  essere,  per  le  nuove  indagini  delle  scienze,  convali- 
date, modificate,  o  respinte;  e  un  valore  ipotetico  Ardigò  attribuì 
infatti  come  al  principio  dell'evoluzione  così  a  quello  suo  dell'intf/- 
stinto  che  varrebbe  a  sostituirlo.  Ma  è  dunque  la  filosofia  condan- 
nata a  non  superare  mai  il  dato  problematico?  Non  perde  essa  con 


264  IL  NATUHALIS&10   UMANISTICO  DI  HOBEsiTO  ABDICÒ 

ciò  la  sua  principale  ragione  d'essere,  lasciando  insoddisfatto  il  bi- 
iogno  pili  tormentoso  del  nostro  spirito?  Qui,-  o  in  questo  atteggia- 
mento deil'Ardigò  innanzi  al  valore  del  sapere  filosofico,  è  la  prima 
caratteristica  della  sua  dottrina. 

È  vana,  egli  pensava,  la  pretesa  della  filosofia  di  dominare  la 
realtà  mediante  un  secondo  sguardo  che  ne  scopra  definitivamente 
Tultinio  significato  ideale,  indipendente  dalla  scienza.  Per  quale  ra- 
gione mai  la  filosofia  jdovrebbe  arrogarsi  la  prerogativa  di  creare  di- 
rettamente verità  assolute,  obbiettive,  universali,  seguendo  un  me- 
todo affatto  contrario  a  quello  onde  si  costruisce,  briciolo  per  bri- 
ciolo, il  sapere  scientifico?  Quale  fondamento  di  verità  si  può  attri- 
buire all'assolutismo  metafisico  se  mentre  la  verità  è  una,  i  siatemi 
metafisici  sono  molti  ed  effìmeri  e  si  sostituiscono  l'un  l'altro? 

Le  induzioni  della  filosofia  positiva  sono  ipotetiche;  ma  tali  sono, 
vale  a  dire  emendabili,  in  quanto  .umane,  tutte  le  teorie.  V'è  però  nel- 
1  ordine  del  nostro  sapere  un  qualche  cosa  che  parve  all'A^igò  più 
che  umano,  divino,  vale  a  dire  non  emendabile;  ed  è  il  fatto.  Solo 
quelle  teorie  che  nel  fatto  hanno  radici  e  sostegno  danno  quindi,  pur 
nel  loro  progressivo  integrarsi  e  svolgersi,  un  affidamento  concreto 
di  verità;  e  nulla  più  di  tanto  noi  possiamo  chiedere,  nel  rispetto 
intellettuale,  alla  filosofia.  Sono  ipotetiche  le  induzioni  della  filosofia 
scientifica,  perchè  il  progresso  incessante  e  imprevedibile  della  scienza 
impone  sempre  nella  visione  sintetica  della  realtà  qualche  riserva; 
ma  se  attingono  i  loro  elementi  dal  divino  dominio  del  fatto,  esse 
conservano  pur  sempre,  nel  loro  fondamento,  il  vigore  della  certezza 
scientifica.  Non  dunque  da  un  preconcetto  arbitrario  derivava  l'Ar- 
digò  la  propria  ostilità  contro  la  Metafisica,  ma  quasi  direi  dal  suo 
stesso  istinto  del  Vero,  in  quanto  non  seppe  persuadersi  che  in  altre 
sfere  di  conoscenza  reale  la  mente  umana  potesse  aleggiare  e  risto- 
rarsi fuori  di  quella  che  emerge  dall'esperienza  organizzata  dallo 
spirito  scientifico.  L'impazienza  del  metafisico  gli  ripugnava,  e  solo 
nella  calma  dell'indagine  tenace  egli  collocò  il  spreto  della  verità 
filosofica. 

Così  .'Xrdigò  intese  la  filosofia,  il  cui  ufficio  rimane  pertanto  es- 
senzialmente teorico.  Non  per  questo  devesi  credere  che  i  fini  pratici 
onde,  in  ultima  analisi,  si  genera  l'assolutismo  metafisico,  rimangano 
nella  sua  filosofia  positiva  in  alcun  modo  menomati  o  compromessi. 
All'incontro,  purificati  da  preconcetti  aprioristici  e  afTettivi,  essi  gi- 
ganteggiano nella  sua  dottrina  con  la  loro  sostanza  viva  di  bisogni 
incancellabili  della  nostra  stessa  profonda  natura,  più  i-eali  e  più  veri. 
E  perchè  mai  dovremmo  preventivamente  temere  che  la  verità,  e  sia 
pur  quella  che  giunge  all'intelletto  per  le  vie  del  cuore,  non  trovi 
conferma,  se  è  verità,  nell'uso  del  metodo  positivo? 

Ardigò  non  avversava  l'assolutismo  metafisico  perchè  ripudiasse 
a  priori  determinate  credenze,  ma  perchè  era  convmto  che  il  dogma- 
tismo, qualunque  forma  rivesta,  apre  fatalmente  la  via  allo  scetti- 
cismo: lo  ripudiava  insomma,  perchè  riteneva  che  la  Metafisica,  in 
quanto  è  dogmatica,  fosse  sostanzialipcnte  una  filosofia  negativa.  E 
tuttavia  egli  non  fu,  come  ti  potrebbe  sospettare,  così  alieno  dal- 
l'abito comune  del  nostro  spirito  da  non  riconoscere  come  legittimo, 
in  un  suo  peculiare  aspetto,  quello  che  si  suole  chiamare  il  bisogno 
metafiHco.  Non  consiste  di  fatto  questo  bisogno  umano  iinir<inioiito 


IL  NATURALISMO   UMANISTICO  DI   ROBERTO  ARDIGÒ  265 

nel  premito  romantico  che  si  risolve  nell'improvviso  balzare  di  un'in- 
tuizione trascendentale  della  realtà,  per  quello  stato  di  rapimento 
onde  ha  libero  corso  l'immaginazione  creatrice,  ossia  l'istinto  della 
speculazione  poetica.  Consiste  bensì  anche  e  sopratutto,  se  lo  riguar- 
diamo nella  sua  essenza  psicologica  fondamentale,  nella  brama  che 
ci  spinge  verso  le  più  alte  sintesi  della  filosofia.  Si  appaga  esso  nella 
Metafisica,  ma  non  è  vero  che  inesorabilmente  la  scienza  l'arresti  o 
le  spenga  costringendoci  nel  duro  carcere  delle  vedute  anguste  e  de- 
solanti. È  per  contro  innegabile  che  se  le  sintesi  metafìsiche  possono 
avere  le  parvenze  logiche  più  seducenti,  non  reggono  tuttavia,  per  la 
solidità  costruttiva,  al  confronto  con  quelle  che  la  scienza  stessa  può 
suggerire  e  disciplinare;  e  che  pur  la  visione  scientifica  della  realtà, 
quando  raggiunga  per  la  via  diretta  le  vette  della  filosofia,  possiede 
quella  virtù  catartica  che  spetta  a  ogni  alta  concezione  filosofica. 

Non  è  segno  di  spirituale  fortezza  fingere  d'ignorare  i  problemi 
massimi  quali  quelli  che  toccano  l'intimo  essere  del  nostro  io  e  il 
nostro  destino,  e  ripudiare  per  la  scienza  la  filosofia.  Perchè,  si  chie- 
deva Ippolito  Taine,  vive  una  Nazione  o  un  secolo  se  non  per  formare 
le  grandi  idee  filosofiche?  Non  si  è  intieramente  uomini  se  non  per 
questo.  Se  un  abitante  di  altro  pianeta  scendesse  a  chiederci  dov'è 
la  nostra  specie,  dovremmo  indicargli .  le  cinque  o  sei  grandi  idee 
che  possediamo  circa  lo  spirito  e  il  mondo.  Solo  così  egli  avrà  la 
misura  della  nostra  intelligenza. 

Né  mai  invero  dovrebbe  atterrirci  la  grandiosità  di  un'idea  filo- 
sofica anche  se,  in  relazione  a  determinate  pretese,  eventualmente 
apparisse  negativa.  In  realtà  le  grsindi  idee  della  filosofia  non  sono 
mai  negative  assolutamente,  poiché  vi  hanno  il  loro  palpito  perpetuo 
i  nostri  supremi  interessi  spirituali,  che  non  potremmo  rinnegare 
senza  annullare  in  noi  medesimi  la  nostra  stessa  umanità.  È  assurdo 
attribuire  all'ufiìcio  della  filosofia  il  disinteresse  caratteristico  d'una 
determinata  scienza. 

Le  visioni  metafisiche  andando  al  di  là  della  scienza  ci  traspor- 
tano, non  altrimenti  che  le  visioni  estetiche,  oltre  i  confini  del  vero 
e  del  falso,  e  appagano  quindi  quel  senso  mistico  dei  valori  ideali 
ch'è  proprio  dei  temperamenti  romantici.  Ma  perchè  dovremmo  di- 
sperare che  per  i  temperamenti  non  romantici  la  filosofia,  rimanendo 
nell'ambito  del  vero  positivo,  molto  più  fecondo  di  visioni  filosofiche 
di  quanto  comunemente  si  crede,  non  riesca  ad  appagare  nelle  sue 
pretese  più  semplici  e  umane  il  bisogno  metafisico,  e  a  documentare 
pur  essa  solidamente  i  valori  dello  spirito? 

Disse  Hegel  —  e  ripeterono  tutti  gl'idealisti  di  destra  e  di  si- 
nistra —  che  noi  dobbiamo  oltrepassare  nella  filosofia  il  metodo  scien- 
tifico perchè  incapace  di  soddisfare  definitivamente  l'intelligenza. 
Ma  forse  questa  si  appaga  meglio  neW apriorismo  con  cui  tenta  sot- 
trarsi pavida  al  rigoroso  controllo  dell'esperienza?  E  sono  poi  intel- 
lettuali le  esigenze  che  il  metodo  scientifico  non  riuscirebbe  a  soddi- 
sfare, o  non  accade  invece  che  invadano  l'intelligenza  altre  più  se- 
grete pressioni,  quelle  cioè  del  misticismo  formulato  dal  classico 
«Credo  ut  intelligam». 

L'intelligenza  non  si  acqueta  ai  fenomeni  e  alle  loro  leggi,  né 
resiste,  senza  angoscia  a  risalire  di  causa  in  causa  indefinitamente. 
Tende  essa  bensì  all'Assoluto  come  ultimo  perchè  dell'essere  e  del- 

18  Voi.  CCXVI,  serie  VI  —  !•  febbraio  1922. 


266  IL  NATURALISMO   UMANISTICO  DI  ROBERTO  ARDIGÒ 

l'tiocadere.  Non  è  questo  un  diritto  in  cui  si  manifesta  la  sua  libertà? 
E  96  spetta  alla  filosofìa  di  reinterpretare  la  scienza,  non  è  d'uopo 
che  1  oltrepassi?  Al  di  sopra  del  cieco  turbinare  degli  eventi  che  la 
scienza  freddamente  rispecchia,  solo  la  filosofia  —  si  dice  —  che  sa 
svincolarsene  spaziando  nell'Olimpo  delle  idee  pure  e  dei  fini  assoluti 
può  rispondere  in  maniera  esauriente  agli  incalzanti  problemi  che 
tanto  affannano  il  nostro  spirito.  Tale  è  la  fede  di  molti;  ma  perchè 
escludere  che  nelle  menti  temprate  al  dubbio  metodico,  anima  del 
vero  sapere  (ben  distinto  dal  puro  credere),  le  ampie  e  libere  vedute 
della  filosofia  positiva  possano  indurre  la  quiete,  se  di  quiete  solenne 
o,  per  usare  le  sue  parole,  «  della  tranquillità  più  sicura  e  confor- 
tante »  fu  esempio  tipico  non  dubbio  lo  stesso  Ardigò? 

Tenendo  egli  la  mente  aperta  a  tutte  le  investigazioni  e  ad  ogni 
specie  di  verità,  vi  accolse  pur  quanto  la  Metafisica  contiene  di  con- 
forme alla  realtà.  Essendo  pur  essa  un  modo  della  vita  interiore,  e 
vincolata  suo  malgrado  all'esperienza,  egli  ne  rintracciava  il  fondo 
positivo  innegabile,  e  lo  faceva  proprio  della  sua  stessa  dottrina, 
mantenendo  persino  della  Metafìsica  i  termini  più  caratteristici. 
Aderì  infatti  anche  all'idea  dell'Assoluto.  Devo  però  subito  soggiun- 
gere che  non  era  questo  per  Ardigò  Ven^te  in  sé,  trascendentale, 
dei  Metafisici,  bensì  quel  focolaio  inesauribile  d'ogni  cosa  od  evento 
che  diciamo  Natura. 

Nell'Assoluto  della  Natura  noi  siamo  e  viviamo.  Assoluto  è  na- 
turalisticamente il  nostro  essere,  assoluto  il  nostro  fare.  Ha  dunque 
l'Ardigò  divinizzata  la  natura  alla  maniera  spinoziana?  E  sia;  ma 
nulla  c'è  veramente,  nell'intimo  tessuto  di  questa  dottrina,  che  figuri 
come  una  nuova  Metafisica,  poiché  l'Assoluto  dell'Ardigò  è,  in  ultima 
analisi,  un'induzione  dell'esperienza.  Ha  poi  nel  vasto  sistema,  ch'io 
posso  qui  soltanto  sfiorare,  della  sua  filosofia,  un'immensa  impor- 
tanza e  fecondità,  poiché  anzitutto  nell'assoluto  della  Natura  Ardigò 
fondava  quel  valore  della  conoscenza  umana  di  cui  è  poir  giusto  che 
andiamo  superbi. 


ni. 

I  due  problemi  dell'essere  e  del  conoscere  che  comunemente  si 
distaccano,  diventano  per  Ardigò  un  problema  unico  fondamentale; 
e  la  ragione  è  questa:  l'essere  e  il  conoscere  nell'esperienza  coinci- 
dono. Si  raccolgono  entrambi  —  per  dire  altrimenti  —  nel  fatto  della 
coscienza  che  s'inizia  con  la  sensazione.  Per  effetto  di  tale  unità,  o 
per  il  coincidere  iniziale  dello  stimolo  col  fatto  sensibile,  questo 
acquista  —  si  noti  bene  —  il  carattere  della  certezza  assoluta. 

I  metafisici  dopo  aver  separato  il  conoscere  dall'essere  concreto 
in  maniera  da  sbarrarsi  la  via  a  quel  loro  accostamento  che  poi  s'in- 
dustriano di  raggiungere,  sono  indotti  a  cercare  la  certezza  nell'idea 
indipendente  dal  fatto.  Rimangono  essi  fermi  nel  convincimento  che 
il  fatto  per  sé  non  possa  essere  ritenuto  certo,  e  che  la  certezza  pre- 
supponga la  propria  teoria,  di  cui  è  fabbro  il  conoscere  puro;  ma 
essi  —  obbiettava  Ardigò  —  ragionano  come  quel  fisico  che  non  am- 
mettesse come  certo  un  dato  qualsiasi  dell'esperienza  sensibile,  per 
e-s.,  la  luce,  prima  di  aver  scoperto  che  cos'è  la  certezza  metafìsica. 


IL  NATURALISMO  UMANISTICO  DI  ROBERTO  ARDIGÒ  267 

E  se  un  simile  bisogno  non  è  per  nulla  sentito  dallo  scienziato,  i)erchè 
dovrebbe  sentirlo  il  filosofo,  posto  che  la  certezza,  quando  sia  tale, 
è  identica  nell'uno  e  nelValtro?  A  tale  stregua  la  conoscenza  propria 
della  filosofia  dovrebbe  differire  per  sua  natura  da  quella  della 
scienza;  ma  è  evidente  che  nessun  altro  tipo  di  conoscenza  è  pensa- 
bile che  non  sia  quello  per  cui  pensiamo.  Pensare  l'impensabile  è 
un'arte,  dirò  cosà,  cabalistica,  riservata  al  prestigio  di  qualche  idea- 
lista. 

Ed  ecco  fissato  il  nucleo  della  filosofia  ardighiana.  Verum  ipsum 
factum.  Criterio  della  verità  è  il  fatto;  il  fatto  della  coscienza  o  psico- 
fisico. Il  Vero  non  è  un  influsso  mistico  che  c'investa  come  un'armo- 
nia divina,  o  che  esca  dall'intelletto  come  la  farfalla  aurata  esce 
dalla  corolla  del  fiore  in  cui  si  teneva  nascosta.  Il  Vero  che  il  Meta- 
fisico concepisce  come  trascendentale  non  è  effettivamente  che  lo 
;%:-so  vero,  per  (juanto  trasformato,  dell'uomo  comune,  essendo  una 
:  --è  inesorabile  della  nostra  stessa  natura  che  mai  noi  possiamo 
liberarci  dalle  sode  ritorte  dell'esperienza  sensibile. 

Prima  del   Positivismo  filosofico  il  cielo  della  psiche  illudeva 
come  il  cielo  astronomico  dalla  luna  in  su  anteriormente  al  Positi- 
vismo naturalistico.  L'illusione  si  dileguò  quando  si  giunse  a  sco- 
prire, in  quel  fatto  della  coscienza  che  è  la  sensazione,  il  primo  e 
fondamentale  elemento  d'ogni  nostra  conoscenza,  in  quanto  è  anche 
jil  dato  essenziale  o  la  rivelazione  immediata  della  realtà  oggettiva. 
[a  cfui  appunto  la  controversia  si  accentua,  poiché  non  il  senso  —  si 
)bbietta  —  ma  l'intelletto  è  nell'uomo  la  facoltà  per  cui  egli  com- 
)rende,  conosce,  ragiona;  e  sono  noti  gli  argomenti  addotti  a  difesa 
questa  tesi.  Senonchè  Ardigò,  che  non  dimenticava  le  possibili 
fallacie  del  senso  (riparabili  tuttavia  sempre  in  virtù  di  nuove  espe- 
ienze),  intese  la  sensazione  in  maniera  diversa  dai  sensisti  puri,  e 
tal  modo  che  la  sua  filosofia  dell'essere  e  del  conoscere  potrebbe 
chiamarsi  propriamente  una  filosofia  della  sensazione.  Infatti  egli  at- 
ribuì  alla  sensazione  quell'universalità  che  l'idealismo  riserva  al- 
l'intelletto puro  e  all'idea.  -Voleva  egli  significare  che  se  una  sensa- 
ione  specifica  si  conforma  necessariamente  a  qu^li  stimoli  parti- 
>lari  onde  sorge,  è  però  anche  la  virtualità  naturale  o  il  rispecchia- 
mto  generico  di  tutti  gl'infiniti  stimoli  analoghi.  E  non  è  di  fatto 
ìT  questa  universalità  im.plicitamente  attestata  dalle  sensazioni  sin- 
gole che  noi  viviamo  tutti  entro  di  noi  il  medesimo  mondo?  Non  è 
che  ci  fornisce  i  criteri  sicuri,  costanti,  universali,  dell'attività 
>ratica?  Il  processo  conoscitivo  s'inizia  dunque  bensì,  secondo  Ar- 
ligò,  con  la  sensazione,  ma  non  in  quanto  è  un'unità  chiusa  in  sé 
ledesima,  bensì  per  cfuelluniversalità  di  cui  è  una  specificazione 
concreta,  essendone  preceduta  e  generata  come  l'individuo  è  prece- 
|duto  e  generato  dalla  sua  specie. 

La  sensazione  è  il  palpito  umano  dell'universa  natura,  alla  quale 
[corrisponde  come  nel   barometro  l'altezza  della  colonna  del   mer- 
curio: è  un  dato  cosmico  universale  e  necessario.  Traduce  in  sé,  e 
[quindi    «rappresenta»,   la  natura,    imprescindibilmente,   come   un 
)rodotto  traduce  i  suoi  fattori;  ed  ecco  perchè  nel  monismo  psico- 
[fisico  dell'Ardigò  non  l'intelligenza  prescrive  propriamente  —  come 
roleva  il  Kant  —  le  proprie  leggi  alla  natura,  ma  la  natura  le  pre- 
Jrive  all'intelligenza. 


268  IL  NATURALISMO   UMANISTICO  DI  ROBERTO  ARDIGÒ 

La  sensazione  partecipa  ali  unità  cosmica,  e  da  ciò  il  conoscere, 
che  ne  emerge,  acquista  un  valore  assoluto.  Nulla  è  tanto  un  tutto 
che  non  sia  una  parte  verso  un  tutto  maggiore,  cui  si  collega  intima- 
mente. La  sentenza  eraclitea  «  Dal  Tutto  l'Uno,  e  dall'Uno  il  Tutto  » 
è  dalla  scienza  moderna  pienamente  confermata.  L'Universo  è  uno 
m  ogni  suo  aspetto  e  momento  :  nello  scintillare  degli  astri  come  nel 
tremito  d'una  foglia  scossa  dal  vento;  nella  vita  effìmera  d'un  infu- 
sorio e  in  quella  dell'uomo  e  dell'umanità  tutta  quanta.  E  a  questa 
solidarietà  partecipa,  come  suo  riflesso  e  prodotto,  la  nostra  mente, 
con  le  sue  cognizioni  positive  anche  le  più  astratte.  Nel  nostro  pen- 
siero, eco  dell'infinito,  l'assoluto  della  natura  iscrive  i  caratteri  ge- 
nuini della  verità;  e  cade  con  ciò  l'antinomia  di  essere  e  conoscere, 
cosa  e  pensiero,  che  tanto  tormento  indusse  di  elucubrazioni  geniali 
sì  ma  caduche. 


IV. 

A  questo  punto  si  potrebbe  supporre  che  la  realtà  non  sia  per 
Ardigò  che  il  mondo  delle  sensazioni,  e  che  quindi  il  suo  Positivismo 
si  converta  in  assoluto  Idealismo.  Ora  se  la  sensazione,  come  fatto 
di  coscienza,  non  si  supera,  ha  però,  riguardata  nell  integrità  dei 
suoi  dati,  dirò  così,  una  eloquenza  realistica,  perchè  mentre  pone 
sé  medesima,  pone  altresì  la  propria  canèa  come  qualche  cosa  a  cui 
non  si  può  ridurre  :  pone  insomma  imperativamente  anche  la  realtà 
fisica  o  il  mondo  estemo. 

Nella  filosofìa  classica  i  due  termini  tanto  inquietanti,  pensiero 
e  cosa,  si  sottraggono  a  ogni  tentativo  di  conciliazione  perchè  si  vuol 
conciliarli,  per  una  stranezza  non  nuova  nella  filosofìa,  dopo  averli 
concepiti  come  inconciliabili.  Il  soggetto,  si  osserva,  non  può  uscire 
da  sé  medesimo,  e  la  cosa  gli  è  affatto  straniera:  come  può  dunque 
penetrarla?  Ecco  il  problema,  già  pregiudicato  dal  modo  stesso  di 
formularlo.  A  così  mal  partito  è  ridotta  la  speculazione  filosofica, 
secondo  Ardigò,  da  un  suo  vizio  radicale,  che  consiste  nell'assumere 
i  due  termini  —  pensiero  e  cosa,  soggetto  e  oggetto  —  nello  stadio 
della  loro  maturità,  anziché  perseguirli  nel  momento  anteriore  alla 
loro  distinzione  precisa.  Ardigò  denunciava  tale  vizio  e  lo  correggeva, 
seguendo  nella  sua  indagine  quel  criterio  analitico  onde  ogni  scienza 
indaga  il  proprio  oggetto;  e  solo  per  questa  via  egli  potè  —  contrap- 
ponendosi al  Kant  —  evitare  l'idealismo  trascendentale,  dichiarando 
privo  di  senso  lo  sforzo  onde  il  soggetto  pretende  uscire  di  sé  per 
penetrare  la  realtà  esteriore. 

Noi  dobbiamo  ammettere  —  secondo  i  filosofi  h^eliani  —  che 
nella  natura  parli  e  viva  un'intelligenza  perchè,  essi  dicono,  rome 
potrebbe  l'intelligenza  nostra  afferrare  l'oggetto  se  le  fosse  assoluta- 
mente estraneo?  Così  per  loro  il  mondo  diventa  la  prima  vita  dello 
spirito,  che  tutto  lo  invade  e  di  sé  lo  nutre  nel  trionfo  della  propria 
libertà.  Superavano  in  tal  maniera,  quei  filosofi,  l'antinomia  di  cosa 
e  pensiero,  natura  e  spirito;  ma  può  dirsi  questa  una  vera  supera- 
zione se  in  realtà  si  assorbiva  un  termine  nell'altro,  ossia  la  cosa  nel 
pensiero,  la  natura  nello  spirito?  Più  cauto  è  l'atteggiamento  delI'Ar- 
digò,  il  quale  riconobbe  che  codesta  antinomia  veramente  nella  na- 


IL  NATURALISMO  UMANISTICO  DI  ROBERTO  ARDIGÒ  269 

lura  non  sussiste,  poiché  i  due  termini  che  nel  nostro  pensiero  ri- 
flesso e  maturo  si  contrappongono,  nella  realtà  loro  originaria  coe- 
sistono fusi  in  uno  stadio  formativo  tuttora  indistinto.  Si  compiono 
bensì  poscia  nel  nostro  pensiero  le  due  sintesi.  Me  e  non -Me,  ma  le 
sensazioni  che  concorrono  a  questa  sintesi  in  origine  ed  essenzial- 
mente non  sono  né  soggettive  né  oggettive,  potendo  d'altronde  parte- 
cipare poi  indifferentemente  all'uno  e  all'altro  dei  due  distinti. 

Audace,  si  dirà,  è  questo  realismo  che  annienta  dalle  radici  l'an- 
tinomia di  soggetto  e  oggetto;  ma  io  credo  che  il  più  grave  ostacolo 
ad  aderirvi  consista  nell'abitudine  mentale  onde  noi,  nel  proposito  di 
ricostruirci,  "muoviamo  dalla  totalità  perfetta  del  nostro  Io,  non  po- 
tendo riuscire  a  depotenziarci.  Per  usare  i  termini  del  senso  comune, 
in  cui  opino  che  si  possa  tradurre  senza  profanazione  anche  il  pen- 
siero filosofico,  noi  per  rifarci  dovremmo  prima  distruggerci;  ma 
l'Io  non  si  lascia  distruggere,  ond'esso  protesta  di  essere  altro  dalla 
sua  genesi  empirica,  di  essere  insomma,  come  vogliono  gli  spiritua- 
listi, una  sostanza  inmiutabile.  Ardigò,  ribelle  alle  ipostasi  per  le 
quali,  contro  la  norma  di  ogni  buona  filosofìa,  si  moltiplicano  gli 
enti  senza  necessità,  parve  un  demolitore  sacrilego  dell'Io,  ma  in 
realtà  intese  a  ricostruirlo  con  l'estrema  sagacia  che  gli  era  abituale. 

Come  dunque  possiamo  spiegare  lorigine  del  pensiero  dalla  ma- 
teria? Il  fatto,  disse  lo  stesso  Spencer,  che  una  forza  la  quale  esiste 
sotto  forma  di  movimento,  di  Cadore,  di  luce,  possa  divenire  un  modo 
della  coscienza,  è  un  mistero  inesplorabile.  Congiungendo  però  ma- 
teria e  spirito  nell'abisso  dell'Inconoscibile,  ricettacolo  d'ogni  arbitrio, 
egli  anziché  risolvere  il  mistero  lo  rendeva  pili  tenebroso. 

Ardigò  dichiarava  errato  questo  modo  di  definire  il  problema,  e 
lo  ricostituì  rilevando  che  nell'effettiva,  nostra  esperienza  la  presunta 
contrapposizione  dei  due  termini  «materia»  e  «spirito»,  poiché  si 
pongono  in  noi  egualmente  come  termini  mentali,  è  in  realtà  con- 
trapposizione di  pensiero  a  pensiero,  ossia  la  reciproca  trascendenza 
0  irriducibilità  dei  sensibili  corrispondenti;  epperò  il  problema  del- 
l'orignarsi  del  pensiero  dalla  materia  perde  ogni  consistenza  posi- 
tiva. E  infatti  la  materia  è,  e  non  può  per  noi  non  essere,  realtà 
jusibile.  Pensarla  come  esistente  in  sé  é,  evidentemente,  una  con- 
radictio  in  adiecto,  o  una  finzione  irrazionale;  onde  il  materialismo 
che  oggetti  vizza  la  materia  come  essenza  ultima  del  reale,  e  la  con- 
idera  per  sé  stante,  si  dissolve  miseramente  sulle  sue  stesse  basi. 


V. 

Invano  però  noi  ci  dissimuleremmo  l'idea  d'una  «  cosa  in  sé  » 
he  preme  ossessivamente  sul  nostro  pensiero  travalicando  ogni  espe- 
rienza :  ma  essa  non  é,  secondo  la  robusta  critica  dell'Ardigò,  fuorché 
un  idolo  dell'immaginazione.  Constatiamo  nella  nostra  mente  questo 
residuo  critico;  ma  lungi  dal  trascendere  l'esperienza  la  famigerata 
"  cosa  in  sé  »  n'é  un  travestimento.  Consiste,  secondo  Ardigò,  nell'in- 
distinto onnigeno  della  natura,  ossia  nell'essere  imprecisabile  onde 
tutto  emerge.  È  un  ignoto?  Sì,  in  quanto,  essendo  l'ultimo  rifugio 
del  nostro  pensiero  ricostruttivo,  non  possiamo  subordinarlo  a  un  in- 
distinto precedente;  ma  non  un  ignoto  assoluto  o  un'incognita  miste- 


fr 


270  IL  NATURALISMO  UMANISTICO  DI  ROBERTO  ARDIGÒ 

riosa,  se  lo  concepiamo  con  il  carattere  positivo  di  indistinto  cau- 
sante, e  come  ragion©  concreta  d'ogni  singolo  fatto;  e  se  infine  ci 
s'impone  come  il  prodotto  logico  di  un'induzione  scientifica.  Ad  esso 
il  processo  regressivo  della  nostra  mente  si  arresta;  e  non  appagan- 
docene, potrenmio  ricercare  un  ulteriore  perchè;  ma  tanto  varrebbe 
ricercare  l'ultimo  perchè  della  natura,  questione  classificata  dall'Ar- 
digò  fra  quelle  oziose  e  chimeriche  della  Metafisica. 

Come  l'astronomo,  mediante  l'attrazione  universale,  spiega  posi- 
tivamente i  movimenti  dei  corpi  celesti,  sebbene  nulla  egli  sappia 
intomo  all'essenza  o  alla  maniera  di  operare  di  questa  attrazione, 
così  noi  spieghiamo,  con  la  virtualità  dinamica  della  realtà  psico- 
fìsica indistinta,  il  divenir©  successivo,  quantunque  non  conosciamo 
del  detto  indistinto  piìi  di  quanto  esso  comporta.  Né  scompare  in 
esso  soltanto  l'ajitinomia  di  pensiero  e  cosa,  soggetto  e  oggetto,  spi- 
rito e  materia,  ma  ogni  altra  antinomia  cosmologica,  creata  dalla 
Metafisica,  e  pur  quella,  ad  esempio,  di  Uno  e  Molteplice. 

L'Uno  della  filosofia  i)ositiva  non  è  il  semplice  che  il  Metafisico 
contrappone  al  Molteplic©  fenom©nico,  e  di  cui  si  comporrebbe  l'Uni- 
verso o  la  nostra  anima;  ma  è  esso  pure  un  molteplice,  i  cui  ele- 
menti non  ancora  si  sono  distinti;  ed  è  poi  uno  lo  stesso  molteplice, 
quello  p©r  es.  della  nostra  anima,  i>er  la  solidarietà  organica  degli 
elementi  stossi  onde  risulta.  Tutto  dunque  è  in  pari  tempo  molte- 
plice ed  uno;  e  quest'unità  si  delinea  dovunque  nella  legge  del  ritmo, 
eh©  nella  dottrina  ardighiana  ha  una  funzione  suprema,  anche  perchè 
superava  per  essa  le  antinomie, 

È  essenzialmente  ritmica  ogni  formazione  naturale,  andando 
alla  pari,  per  questo  rispetto,  il  macrocosmo  o  l'universo,  e  il  mi- 
crocosmo o  il  nostro  Io;  sono  un  ritmo  una  goccia  d'acqua  sperduta 
nell'oceano,  e  quella  medusa  fosforescente  nell'oceano  dell'anima 
che  è  l'idea;  la  rivoluzione  di  un  astro  e  il  battito  del  cuore;  la  rivo- 
luzione del  Sole  e  quella  di  una  molecola.  Ciò  che  è,  è  un  ritmo 
che  continua;  ciò  che  diventa  è  un  ritmo  che  si  va  formando.  Sono 
ritmi  mentali  il  tipo  e  la  legge  onde  si  hanno  le  scienze  descrittive 
e  dinaniiche.  Un  ritmo  è  ogni  pensiero  sia  per  sé,  sia  in  quanto  è 
ritmico  il  dinamismo  cerebrale  che  in  esso  echeggia.  I  concetti  d'in- 
finito, dell'universale,  di  sostanza,  di  causa,  e  la  stessa  ragione  si 
risolvono  per  Ardigò  in  processi  ritmici  dell'esperienza  sensibile. 
Nel  ritmo  infine  risiede  l'ordine  nel  quale  si  compone  la  varietà,  e 
che  regna  dovunque,  nel  mondo  psichico  e  sociale  non  meno  che  in 
quello  fisico. 

Campeggiano  nella  psiche  umtana  delle  formazioni  stabili  come 
nella  natura  estema  1©  masse  cosmiche  che  gravitano  insieme  nelle 
loro  orbite:  vi  pullulano  delle  formazioni  logiche  distinte,  come  nella 
natura  estema  le  specie  delle  piante  e  degli  animali;  vi  turbinano 
delle  correnti  fantastiche,  come  nella  natura  estema  le  tempeste  del- 
l'atmosfera. Variano  di  continuo  le  eccitazioni  cerebrali  provenienti 
dal  mondo  di  fuori  e  dall  organismo;  e  unitamente  alle  isteresi,  ossia 
ai  residui  dello  operazioni  mentali  passate,  esse  concorrono  a  gene- 
rare gli  ordini  o  i  ritmi  infiniti  del  pensiero  umano,  come  nella 
chioma  alta,  voluminosa  e  folta  di  un  grande  piopjx)  le  foglie  mo- 
bilissime si  scuotono  e  tremano  e  ronzano  tutte,  dove  più  dove  meno, 


IL  NATURALISMO  UMANISTICO  DI  ROBERTO  ARDIGÒ  271 

col  variare  deìrintensiià,  del  ritmo  e  della  direzione  dell'aria  cho 
le  muove. 

Sono  ritmiche  nel  loro  ordine  necessario  anche  le  idealità  che 
reggono  il  mondo  sociale  e  storico.  Simili  a  ogni  altra  formazione 
naturale,  esse  pure  nascono,  vivono  e  muoiono,  i>er  riapparire  in 
altra  forma,  come  dal  seme  la  nuova  pianta:  principio  questo  che 
si  può  considerare  il  cardine  di  un  intiero  sistema  di  Etica  e  di  So- 
ciologia, com'è  la  base  sicura  della  nostra  miglior  fede  nell'avvenire 
sociale. 

Nessun  archetipo  governa,  come  pensano  i  finalisti,  il  mondo 
dei  fatti  naturali  e  storici,  non  essendo  quest'idea,  antropomorfica 
ed  estetica,  più  scientifica  che  quella  del  caos.  L'ordine  si  spiega  da 
sé,  per  la  naturalità  propria  d'ogni  possibile  evento;  ed  è  nell'intel- 
ligenza perchè  è  nell'universo,  improntandosi  1  intelligenza  nostra 
nell'ordine  naturale  come  la  sensazione  e  lidea  s'improntano  nello 
stimolo  e  nella  realtà,  a  guisa  della  cera  che  s'impronta  dall'incavo 
onde  s'imprime  il  suggello.  E  nell'ordine  coesistono  senza  contradi- 
zione, con  la  causalità  naturale  e  la  varietà,  la  necessità  e  il  caso 
che  vi  corrispondono;  la  Necessità  come  equazione  del  determinato^ 
per  i  rapporti  causativi  nei  quali  ogni  fatto  si  fissa  e  si  proporziona: 
il  Caso  per  T imprevedibilità  degli  ordini  specifici  che  volta  a  volta 
l'immenso  variare  del  Divenire  comporta  per  sé  medesimo.  Il  Gaso 
è  dunque  Vequazione  razionale  à&W infinito. 

Non  si  rispecchia  di  fatto  così  nella  nostra  mente  la  realtà  uni- 
\ersale?  Gontradizione  c'è  fra  Necessità  e  Caso  se  si  riguardino  nella 
loro  definizione  logica  astratta,  non  se  consideriamo  la  fenomeno- 
logia della  natura  qual'è  veramente,  ossia  come  fenomenologia  del 
pensiero,  dove  il  vario  comprende  l'imprevedibile  senza  escludere  il 
necessario.  Ed  ecco  vinta,  dal  punto  di  vista  ardighiano,  la  più  an- 
tica delle  antinomie. 


VI. 

Ho  cercato  di  abbracciare  con  questo  rapido  sguardo  quella  che 
si  potrebbe  chiamare  la  filosofia  teoretica  di  Roberto  Ardigò,  ab- 
bozzandone la  ragione  critica.  Comunque  si  valuti  l'arduo  cimento 
sostenuto  dal  suo  genio  speculativo,  certo  è  che  lo  domina  l'inten- 
dimento di  riscattare  da  un  falso  paludoso  Positivismo  il  valore  intel- 
lettivo dell'uomo;  né  una  diversa  finalità  presiedeva,  per  le  sorti  del 
nostro  valore  morale,  alla  sua  filosofia  pratica.  Anche  in  questa  sfa- 
villa 1  idea  dell'Assoluto;  e  valori  assoluti  sono  le  idee  che  lumeg- 
giano e  reggono  la  nostra  vita  d'individui  sociali. 

Nel  vortice  del  tempo  che  affatica  le  cose  e  sembra  disperdere 
e  cancellare  con  dispetto  ogni  reliquia  della  terra  e  del  cielo,  la  no- 
stra stessa  esistenza  d'individui  è  un'ombra  fuggitiva,  e  nel  tempo 
senza  confini  svanisce  quasi  pur  la  durata  della  specie  umana.  Ma 
non  è  un  sogno  evanescente  la  potenza  del  nostro  pensiero,  sia  scien- 
tifico od  etico.  Vi  concorrono  innumerevoli  accidentalità,  ond'esso 
muta  non  altrimenti  dell'esile  nuvoletta  d'oro  bizzarramente  dise- 
gnantesi  nel  cielo;  ma  la  logica  che  lo  governa,  come  la  gravitazione 
i  corpi  celesti,  è  un  ordine  indistruttibile  e  una  potenza  infrenabile; 


272  IL  NATURALISMO   UMANISTICO  DI  ROBERTO  ARDIGÒ 

e  forze  assidue  mirabilissime  sono  nell'uomo  virtuoso  e  nella  storia 
le  idealità  della  convivenza.  Sono  anch'esse  formazioni  naturali,  ma 
nella  loro  irresistibile  impulsività  antiegoistica  concentrano  in  sé 
medesime  e  rappresentano  il  più  alto  grado  del  valore  umano. 

Pulsa  in  ogni  cosa  la  m^esima  virtualità  della  natura;  ma  dai 
movimenti  vibratori  dei  corpi  fisici  si  sale  per  variazioni  infinite- 
sime continue  a  forme  gradualmente  più  elevate  e  complesse.  Ascende 
il  reale  di  ritmo  in  ritmo  per  la  sua  stessa  originaria  potenza,  sia 
nel  rispetto  statico,  sia  in  quello  dinamico.  Risplende  la  medesima 
virtù  onnigena  in  una  ^rte  più  e  meno  altrove,  ma  nell'uomo  prende 
la  sua  maggior  luce.  Si  attua  infine  così  l'esito  ultimo  della  effusione 
immensa  delle  forze  naturali,  Vhomo  sapiens,  ossia  un  essere  santo 
che  compie  il  bene  non  per  la  speranza  di  un  premio  qualsiasi,  ma 
perchè  nel  bene  come  valore  assoluto  arde  tutto  il  suo  spirito.  Nella 
virtù  disinteressata  del  saggio  e  nella  giustizia  progressiva  dei  po- 
poli la  nostra  natura  si  afferma  sublimandosi  così  che  l'uomo  può 
ben  dirsi  senza  vana  enfasi  una  creatura  divina. 

Questa  autonomia  dell'uomo,  vergine  d'infatuazioni  mistiche  e  di 
servilismo  dogmatico,  brillante  di  chiarezza  classica,  è  il  risultalo  più 
lieto  di  fede  e  di  scienza  a  cui  giunge  il  Positivismo  ardighiano.  Essa 
è  libertà  o  impero  sovrano  dello  spirito,  impeto  di  ardimenti  retti  e 
generosi,  volontà  antiegoistica  radicale,  impulso  schietto  d'idealità 
umane  che  nella  successione  storica  diventa  irresistibile  come  un  de- 
stino. Ed  è  poi  nel  suo  rifiorimento  magnifico  una  continua  pro- 
gressiva conquista;  nell'individuo,  per  l'arte  edificante  dell'educa- 
zione; nell'umanità,  per  la  lotta  che  l'agita  in  un  perpetuo  conato  di 
rmnovamento. 

Si  esplica  in  questa  storia  della  libertà  umana  la  stessa  necessità 
insita  nelle  leggi  della  nostra  natura;  ed  è  questo  un  concetto  fon- 
damentale onde  Ardigò  abbatteva,  nell'ordine  pratico,  la  più  esaspe- 
rante delle  antinomie,  quella  di  necessità  e  libertà. 

Non  m'indugierò  sui  paralogismi  del  Kant  che  pretese  salvare 
la  libertà  morale  scindendo  l'uomo  in  due  uomini,  l'uno  libero  l'altro 
determinato.  L'arbitrio  era  manifesto,  né  Ardigò,  più  severo  del 
Kant,  poteva  aderirvi. 

Il  Kant  cedeva  forse  a  un  motivo  scettico  circa  la  sua  stessa  dot- 
trina quando  concludendo  ammoniva  che  noi  possiamo  sentire  come 
se  fossimo  liberi;  ma  che  vale  questa  finzione  se  nel  come  se  non 
scorgiamo  un  fondamento  positivo  di  verità?  Questo  fondamento 
esiste  nella  causalità  superiore  e  irriducibile  della  nostra  natura 
spirituale.  Ogni  forza  che  agisce  sopra  un  essere  subisce  da  questo 
una  corrispondente  trasformazione.  Alle  cause  pertanto  che  operar- 
su  noi,  come  esseri  spirituali,  noi  imprimiamo  una  direzione  nuova» 
quella  delle  idealità  o  dei  fini  imperanti  nella  nostra  coscienza.  As- 
soluta è  quest'azione,  assoluta  quindi  è  la  legge  morale;  di  un'asso- 
lutezza però  non  formale  e  quindi  sterile  come  nella  dottrina  kan- 
tiana, ma  psicologica  e  perciò  ricca  d'una  causalità  sua  propria. 
E  se  cosi  è,  come  si  può  insistere  onestamente  nell'asserire  che  il 
Positivismo  aduggia  per  sé  la  vita  morale  in  un  relativismo  morti- 
fero, onde  si  smarrisce  ogni  criterio  obbiettivo  di  valutazione  e  di 
condotta?  L'Assoluto  etico  dell' Ardigò  è  psicologico  e  storico,  mentre 
l'uomo  suole  appuntare  l'ansia  del  suo  intelletto  e  del  suo  cuore  oltre 


IL  NATURALISMO   UMANISTICO  DI  ROBERTO  ARDIGÒ  273 

il  soggetto  empirico  e  la  storicità,  sollevandosi  nel  mondo  trascen- 
dente della  religione  e  della  Metafisica.  Ma  perchè  —  pensava  Ar- 
digò  —  dovremmo  relegare  i  valori  umani  oltre  i  confini  dell'espe- 
rienza se  soltanto  in  questa  ritrovano,  comunque  pensati,  le  loro 
vere  basi  e  pronunciano  la  loro  eflBcienza  reale?  Sono  bisogni  assoluti 
della  nostra  natura,  questi  valori,  anche  se  si  volatilizzino  in  una  od 
aitra  specie  di  platonismo.  Un  bisogno  assoluto  è  per  es.  la  Giu- 
stizia, come  «  forza  specifica  dell  organismo  sociale  »  pur  mutando 
infinitamente  le  forme  della  sua  esplicazione.  E  perchè  dunque  an- 
dare in  cerca  d'una  permanenza  fantastica  dei  valori  umani,  se 
quella  che  importa  e  preme  veramente  è  la  loro  permanenza  di  fatto? 
Persistono  nella  loro  cissolutezza  di  bisogni  naturali  come  nel  tra- 
gico movimento  della  storia  così  nella  nostra  anima,  contrapponendo 
senza  posa  alle  iniquità  d'ogni  genere,  e  alle  nostre  imperfezioni  e 
colpe,  la  propria  impera  ti  vita  categorica.  Non  è  in  questa  loro  fun- 
zione redentrice  pur  la  loro  persistenza  più  verace  e  salutare? 

Tale  è  l'ultimo  significato  dell'Etica  realistica  di  R.  Ardigò,  da 
lui  stesso  designata  come  «  un  idealismo  scientificamente  assicu- 
rato», e  che,  come  già  notavo,  si  può,  al  pari  di  tutta  la  sua  dot- 
trina, definire  una  nuova  forma  di  Naturalis7no  umanistico. 


VII. 

Rivisse  egli  questa  filosofia  con  tutta  la  sua  personalità,  essendo 
la  sua  stessa  lunga  vita  un'esaltazione  pratica  indefessa  delle  più 
alte  idealità  dello  spirito.  Primeggiò  in  lui  l'ansia  della  conquista 
e  della  celebrazione  del  Vero  e  del  Bene  come  fulcri  della  nostra 
umanità;  e  il  lavoro  intellettuale  diretto  a  cfuesto  fine  fu  di  fatto 
per  Ardigò  non  pure  un  programma  inderogabile,  ina  una  condizione 
che  dirò  perentoria  della  sua  stessa  esistenza.  E  in  vero  quando  il 
lutto  della  patria,  per  il  disastro  di  Caporetto,  da  prima,  e  poi  la 
tortura  delle  sofferenze  fisiche  che  nessun'arte  riusciva  a  sedare, 
stroncarono  in  lui  non  le  energie  del  pensiero  rimasto  sempre  vi- 
gile, ma  quelle  dell'uomo  che  ad  ogni  nuovo  scritto  messo  alla  luce 
sapeva  di  svolgere,  quasi  per  una  consegna  inviolabile,  una  missione 
santa,  egli  sentì  la  morte  precorrere  il  proprio  avvento  occupando 
tutto  il  suo  essere;  e  alla  volontà  di  morire  Roberto  Ardigò  alla  fine 
cedette  vinto  da  un  solo  rimorso,  di  dover  subire  nell'estrema  vec- 
chiaia la  condanna  insopportabile  d'una  sterile  inerzia. 

Non  egli  dunque  negava  allora  il  valore  della  vita  ma  lo  solen- 
nizzava, riaffermando  con  un  esempio  che  può  dirsi  nuovo  nella 
storia  delle  tragedie  umane  l'austerità  passionale  del  carattere,  onde 
Tozio  dello  spirito  divenne  in  lui  l'incubo  dell'ignavia.  Invocò  la 
morte  chiedendo  a  che  cosa  gii  poteva  più  servire  la  vita;  e  in  questo 
disperato  interrogativo  scorse  taJuno  l'uomo  che  insensibile  alle  sug- 
gestioni del  sentimento  visse  soltanto  d'idee.  Furono  —  si  soggiunse 

—  queste  le  prime  parole  umane  del  maestro  orgoglioso  che  nulla 
volle  chiedere  né  a  Dio  né  agli  uomini!  Ma  se  è  onesto  che  ogni  velo 
di  menzogna  cada  innanzi  all'anima  candida  di  R.  Ardigò,  furono 

—  io  dirò  —  quelle  parole  non  l'eco  dama  dolorante  resipiscenza, 
ma  l'epilogo  drammatico  della  sua  forte  volontà  nobilissima.  A  nulla 


274  IL  NATURALISMO  UMANISTICO  DI  ROBERTO  ARDIGÒ 

più  serviva  la  vita  dopo  che,  venute  meno  le  forze  dell'apostolato, 
divenne  in  lui  tormentosissima,  perchè  vana,  la  volontà  di  prose- 
guirlo. 

Ardigò  ha  amato  la  vita  quanto  si  può  amare,  risentendone  con 
intensità  voluttuosa  le  gioie  più  ineffabili,  quelle,  voglio  dire,  della 
meditazione,  e  ripudiava  certamente  in  cuor  suo  ogni  imbelle  ri- 
nunzia. L'amò  finché  poteva  significare  lavoro  e  missione;  la  ripudiò, 
perchè  indegna  d'essere  vissuta,  quando  divenne  assoluta  impoten2ia. 
Quale  altro  valore  può  infatti  conservare  la  vita  se  quelle  idealità 
ond'essa  assume  esclusivamente  il  proprio  destino  urgono  sullo  spi- 
rito avido  d'azione  come  visioni  tragicamente  infeconde?  Ecco  il 
vero  strazio  di  quell'interrogativo:  ecco  la  sintesi  perfetta  della 
vita  e  djcUa  dottrina  allora  e  sempre  profondamente  umana  di  Ro- 
berto Ardigò. 


Vili. 

Si  dirà,  questa  dell'Ardigò,  una  filosofia  negativa?  Sì,  in  quanto 
ripudia  quella  forma  retorica  di  cui  avviene  che,  come  disse  il  Fio- 
rentino, la  filosofia  si  rivesta  per  fare  più  degna  e  venerabile  mostra 
di  sé;  ma  è  poi  tanto  positiva  nella  sostanza  quanto  nel  metodo. 
Nega  essa  i  valori  trascendentali,  ma  per  reintegrarli  nella  loro  vera 
natura.  «  Per  l'insegnamento  —  egli  scriveva  recentemente  —  del 
Positivismo,  1  uomo,  libero  da  vani  timori  e  dalle  penose  ansietà 
in  vista  di  beni  immaginabili,  e  distratto  per  questo  dal  suo  compito 
vero  e  così  doppiamente  infelice,  si  avvantaggia  tranquillo  di  quanto 
realmente  la  vita,  soprattutto  dello  spirito,  gli  concede». 

Il  dover  essere  emerge  per  Ardigò  dalla  stessa  realtà,  perchè 
ogni  ideale  è  sincero  e  attivo  solo  allor<juando  rivela  e  traduce  un 
nostro  naturale  bisogno.  Strappato  dalla  nostra  intima  natura  d'uo- 
mini, biologica  e  psichica,  che  altro  infatti  può  essere  se  non  una 
larva  della  fantasia,  e  l'ombra  di  un  fine  aniabile,  se  si  vuole,  ma 
inaccessibile? 

Ben  so  che  nel  regno  dei  fini  trascendenti  un'anima  mistica  si 
asside  a  suo  agio,  e  che  l'irrazionale  attrae  e  seduce  alcune  tempre 
di  spirito  molto  più  che  la  visione  realistica,  apparentemente  gelida, 
della  vita;  ma  se  è  un  diritto  imprescrittibile  che  nelle  cose  spiri- 
tuali ciascuno  prescelga  quel  punto  di  vista  a  cui  meglio  si  acconcia 
il  suo  genio,  è  ovvio  che  non  vien  meno  per  questo  il  valore  scienti- 
fico ed  etico  del  Realismo  ardighiano. 

Ardigò  vide  l'ideale  balenare  e  vibrare  nella  realtà,  ond'egli 
diede  un'interpretazione  positiva  e  gagliarda  anche  del  diritto  natu- 
rale; e  non  respinse  infine  ma  allargò  e  poderosamente  illustrò, 
compensando  ogni  sudditanza  straniera,  il  patrimonio  spirituale  della 
nostra  stirpe.  Nessuno  —  egli  esclamava  —  se  la  storia  non  mente, 
ha  mostrato  di  possedere  come  l'Italiano  il  senso  giusto  di  quella 
scienza  il  cui  pregio  principale  dev'essere  il  possesso  sicuro  della 
certezza  scientifica,  prodotto  della  ragione  libera.  Di  questa  ragione 
che,  disposata  alla  scienza,  tutte  in  sé  riallaccia  e  vivifica  le  esigenze 
della  nostra  anima,  Roberto  Ardigò  è  un  simbolo  immortale.  Né  si 
può  mettere  in  dubbio  che  il  suo  pensiero,  lungi  dal  decadere,  per 


IL  NATURALISMO  UMANISTICO  DI  ROBERTO  ARDIGÒ 


276 


l'incalzare  di  nuove  visioni,  soprawiverà,  comunque  emendato,  a 
imprimere  non  solo  alle  meditazioni  dei  filosofi,  ma  al  risveglio 
umanistico  della  comune  coscienza  impulsi  fecondi. 

È  stato  detto  che  la  filosofia  di  Roberto  Ardigò  si  riassume  così  : 
<- L'Universo  è  un  meccanismo  governato  dal  Caso  verso  il  meglio»; 
ma  è  una  formula  che  non  rende  affatto  il  pensiero  del  nostro  sommo 
pensatore,  poiché  la  sua  concezione  dell'Universo  è  non  meccanica 
ma  dinamica,  e  il  Caso  sta  in  essa  non  a  governare  ma  soltanto  a 
legittimare  la  fede  nell'attuabilità  indefinita  dei  nostri  ideali.  Né 
questi  sono  per  Ardigò  parvenze  fatue,  ma  diventano  strumenti  reali 
d'azione  efficace  a  patto  che  si  ritemprino  nell'effettiva  possanza  e 
virtualità  delle  cose  e  dello  spirito.  Così  egli  conciliava  quelle  due 
tendenze,  obbiettiva  e  subbiettivistica,  nel  cui  contrasto  tanto  si  di- 
batte la  filosofia  moderna. 

Il  pensiero  è  luce  ma  è  anche  dolore,  poiché  il  determinismo  del 
progresso  storico  importandone  la  continuità  che  lo  rende  lento  e 
graduale,  ne  mortifica  sovente  gli  slanci  più  generosi;  ma  come  nes- 
suna forza  del  mondo  fisico,  così  nessuna  idea  mai  andrà  perduta 
che  non  sia  uno  spasimo  romantico  ma  un'espressione  realistica  della 
nostra  umanità. 

Tale  é  l'ultima  scintilla  che  scatta  dal  Positivismo  ardighiano, 
destinato,  io  p)enso,  a  intrecciarsi  gloriosamente,  con  influsso  deci- 
sivo, nella  trama  laboriosa  della  nostra  restaurazione  civile  e  filo- 
sofica. 

Giovanni  Marchesini. 


LA  SITUAZIONE  DELL'UNGHERIA 


Gol  gentile  permesso  dell'illustre  Direttore  della  Nuova  Antologia 
vorrei  tentare  di  esporre  la  vera  situazione  dell'Ungheria  dopo  la 
pace  di  Trianon,  le  probabili  conseguenze  di  questa  pace,  la  verità 
circa  la  conservazione,  gli  sforzi,  le  speranze  e  le  immense  diflBcoltà 
di  questo  sfortunato  paese,  una  volta  poderoso  baluardo  del  cristia- 
nesimo e  della  civiltà  europea,  ora  tronco  senza  vitalità,  in  completa 
balia  della  politica  e  dell'arbitrio  dei  suoi  vicini. 

Mi  rivolgo  con  questo  studio  al  pubblico  della  più  rinomata  ri- 
vista italiana  per  tre  motivi.  Il  primo  è  la  convinzione  quasi  istin- 
tiva, ma  convalidata  anche  da  mie  impressioni  ed  esperienze  recenti, 
che  l'Italia  è,  fra  tutti  i  paesi  europei  finora  nemici,  il  paese  meno 
penetrato  di  quei  sentimenti  di  odio  e  di  volontà  di  vendetta  che 
rendono  impossibile  un  giudizio  obbiettivo  e  impiarziale.  E  ciò  spe- 
cialmente in  quanto  riguarda  l'Ungheria  è  anche  naturale.  Le  na- 
zioni italiana  ed  ungherese  furono  sempre  amiche,  congiunte  sovente 
nelle  loro  lotte  per  la  libertà;  sui  campi  di  battaglia  del  risorgimento 
italiano  versarono  anche  gli  ungheresi  il  loro  sangue.  Quando  scoppiò 
la  guerra,  oso  dire  che  non  c'era  un  solo  ungherese  che  avesse  pen- 
sato che  l'Ungheria  avrebbe  rivolto  le  armi  contro  l'Italia;  al  con- 
trario, nei  primi  giorni  della  guerra,  a  Budapest  nelle  vetrine  dei 
negozi  dappertutto  era  visibile  il  ritratto  del  Re  Vittorio  Emanuele, 
del  terzo  alleato,  accanto  ai  ritratti  degli  imperatori  Francesco  Giu- 
seppe e  Guglielmo.  Quando  poi  l'Italia  dichiarò  la  sua  neutralità, 
nessun  uomo  politico  serio  in  Ungheria  gliene  fece  rimprovero;  bi- 
sognava riconoscere,  che  data  la  sua  configurazione  geografica,  l'Italia 
avrebbe  troppo  rischiato  sfidando  le  potenze  occidentali.  Speravamo 
invece,  ohe  limitandosi  ad  una  strettissima  neutralità,  l'Italia  sarebbe 
divenuta  un  giorno  la  più  atta  mediatrice  d'una  pace  giusta  e  stabile. 

Quando  l'attitudine  dell'Italia  si  fece  sem.pre  più  ostile,  gli  uo- 
mini politici  ungheresi  —  d'accordo  con  quelli  tedeschi  —  sd  mostra- 
rono favorevoli  all'adempimento  dei  desideri  dell'Italia,  tendenti  ad 
ottenere  concessioni  territoriali.  Essi  comibatberono  le  opposizioni, 
che  sorsero  da  alcune  parti  dell'Austria,  e  la  Camera  ungherese  ap- 
provò unanimemente  le  proposte  fatte  al  governo  italiano.  Quando 
poi  la  guerra  mise  sfortunatamente  l'una  di  fronte  all'altra  anche 
le  nostre  nazioni,  le  situazione  per  noi  era  già  immutabile;  noi  di- 
fendevamo la  nostra  esistenza  su  tutte  le  fronti,  sull'Isonzo,  come  in 
Wolhyiiia,  in  Fiandra  come  nei  Balcani;  abbandonare  l'una  fronte 
significava  abbandonarle  tutte.  Noi  ci  siamo  combattuti  come  avver- 
sari moralmente  equivalenti  che  si  combattono  ma  si  rispettano;  né 
più  né  meno  come  i  Jugoslavi  che  si  sono  battuti  valorosamente 


LA   SITUAZIONE   DELL' UNGHEMA  277 

cogli  Italiani  all'Isonzo,  e  non  pertanto  sono  divenuti  più  tardi  amici 
d^li  stessi  Italiani. 

Il  mio  secondo  motivo  è  basato  sull'alta  missione  culturale  del- 
l'Italia. Creatrice  della  civiltà  europea  moderna,  essa  ha  anche  la 
missione  di  curare  che  questa  civiltà  non  rischi  di  andar  in  rovina. 
Ed  io  mi  propongo  di  mostrare  nel  corso  di  questo  saggio,  come  lo 
smembramento  dell'Ungheria,  conseguenza  della  paoe  impostale,  sia 
nelle  sue  conseguenze  sinonimo  di  una  deplorabile  decadenza  della 
cultura  finora  fiorente  sul  territorio  della  corona  ungherese. 

Finalmente  il  terzo  motivo  mi  è  suggerito  da  importanti  consi- 
derazioni sull'interesse  politico  dell'Italia  stessa  che  esige  —  come 
tenterò  di  provare  —  l'esistenza  d'un'Ungheria  salda  e  forte,  e  che  sa- 
rebbe gravemente  minacciata  dalla  decadenza  totale  di  questo  regno, 
o  dalla  trasformazione  dell'Europa  orientale  che  ne  risulterebbe.    - 

Quando  io  suppongo  l'opinione  pubblica  dell'Italia  atta  e  disposta 
ad  accettare  le  spiegazioni  e  le  dimostrazioni  di  fatti  e  circostanze 
finora  forse  sconosciute  e  di  verità  talvolta  differenti  da  quelle  che 
finora  corsero  come  tali,  io  mi  baso  sul  fatto  incontestabile  che  l'in- 
tero estero  fu  sempre  poco  o  male  informato  circa  le  cose  dell'Un- 
gheria e  mai  peggio  che  nell'ora  presente.  La  scarsa  diffusione  al- 
l'estero della  nostra  lingua  della  nostra  letteratura  e  della  nostra 
stampa,  rende  impossibile  una  vera  reciprocità  nella  conoscenza  della 
nostra  vita  spirituale  e  di  quella  delle  nazioni  dell'Europa  centrale 
e  occidentale.  L'Ungheria,  consapevole  del  suo  buon  diritto  e  del- 
l'onestà delle  sue  tendenze,  commise  sempre  in  politica  l'errore  di 
trascurare  le  informazioni  all'estero.  Talvolta  stranieri  che  ci  visi- 
tarono espressero  la  loro  gradita  sorpresa  per  le  impressioni  favore- 
voli riportate,  ma  tali  impressioni  furono  altrettante  volte  dimenti- 
cate. La  stampa  austriaca  che  si  fece  informatrice  delle  cose  unghe- 
resi, si  è  senz'altro  adoperata  anche  da  parte  sua  a  diffondere  quei 
malintesi,  quelle  esagerazioni,  anzi  quelle  calunnie  che  i  nostri  ne- 
mici per  ragioni  eeoistiche  misero  in  circolazione,  e  la  nostra  diplo- 
mazia, comune  coli' Austria,  ha  sovente  negletto  di  operare  in  con- 
trario, quando  si  trattava  solamente  dell'interesse  ungherese. 

Venne  poi  la  guerra  che  diede  libero  corso  alla  propaganda  dei 
nostri  nemici  e  ci  tolse  interamente  ogni  contatto  intellettuale  col- 
l'estero;  e  quando  le  armi  furono  finalmente  deposte,  nuovi  ostacoli 
si  opposero  alla  reciproca  intesa.  Da  una  parte  senza  dubbio  anche 
la  censura,  che  per  ragioni  di  politica  intema  non  poteva  essere  eli- 
minata in  Ungheria,  rese  la  nostra  stampa  sospetta  dinanzi  all'estero; 
da  un'altra  parte  si  stabiliva  a  Vienna,  sotto  la  protezione  degli  Stati 
austriaco,  cecoslovacco  e  jugoslavo,  una  stampa  cosidetta  ungherese, 
diretta  dai  capi  fuorusciti  del  caduto  bolscevismo  ungherese,  uomini 
ohe  sono  sfuggiti  alla  sanzione  delle  loro  scelleratezze  e  che  si  ado- 
perano ora  coll'aiuto  dell'estero  per  rovesciare  il  governo  attuale 
dell'Ungheria,  e  trovano  colle  loro  comunicazioni  assolutamente  in- 
gannatrici purtroppo  credenza,  spesso  anche  nell'opinione  pubblica 
dell'Italia.  Le  missioni  delle  potenze,  residenti  in  Ungheria,  pote- 
vano di  certo  convincersi  del  vero  stato  delle  cose;  ma  pare  che  i 
loro  rapxx)rti  fossero  tardivi  per  cambiare  opinioni  già  fatte  ed  in 
nessun  modo  sono  penetrati  nell'opinione  pubblica  dei  loro  paesi. 

Soltanto  tali  circostanze  spiegano  come  la  pace  di  Trianon  potè 


278  LA    SITUAZIONE   DELL'UNGHERIA 

esser  conchiusa  nella  fomia  nella  quade  essa  ora  ci  s'impone.  Nei 
così  detti  trattati  di  pace,  i  più  illuminati  statisti  dell'Intesa  mani- 
festarono un'ig^noraiiìia  circa  la  situazione  e  le  condizioni  dell'Un- 
gheria, che  se  si  fosse  trattato  dei  botocudi  o  dei  papuani,  sarebbe 
stata  considerata  di  certo  come  una  mancanza  inammissibile  di  in- 
formaizionj,  ma  che  fu  ammessa  con  una  incredibile  leggerezza, 
dacché  si  trattava  solamente  dell'Ungheria. 

La  pace  di  Trianon  si  basa  su  tre  presupposti  essenziali  :  1"  che 
l'Ungheria  sia  colpevole  dello  scoppio  della  guerra,  e  poicJiè  essa  fu 
trattata  nel  modo  più  crudele  fra  tutti  i  paesi  vinti,  dobbiamo  sup- 
porre che  essa  fu  considerata  la  più  colpevole  di  tutti;  2"  che  l'Un- 
gheria ha  oppresso  le  nazioni  non  magiare  e  perciò  è  giusto  e  con- 
forme all'interesse  e  al  desiderio  loro  di  esserle  sottratte;  3°  che  con 
la  fonnazione  dei  nuovi  «  Stati  successori  »,  alla  quale  provvedono  i 
trattati  di  Versailles,  di  Saint-Germain  e  di  Trianon,  la  p«ice  e  il 
consolidamento  dell'Europa  orientale,  come  pure  la  libertà  e  la  pro- 
sperità di  tutte  le  nazioni  interessate,  sono  per  sempre  ed  in  ottimo 
modo  assicurate.  • 

Il  mio  sco^vo  è  di  dimostrare,  che  tutti  e  tre  questi  presupposti 
sono  erronei  e  derivano  da  una  fatale  concezione  infondata,  del  pas- 
sato, dei  fatti  e  delle  condizioni  esistenti,  come  pure  dell'inevitabile 
svolgersi  dei  fatti  futuri.  Del  resto  queste  tesi  furono  innumerevoli 
volte  ripetute  e  si  ripetono  ancora  oggi  nelle  forme  più  autorevoli, 
senza  che  il  loro  fondamento  mai  sia  stato  provato,  sicché  è  ammis- 
sibile il  supporre,  che  esse  non  provengano  da  un  concetto  proprio 
dei  dirigenti  la  politica  dell'Intesa,  ma  soltanto  dalle  esigenze  esa- 
gerate delle  nazioni  che  ora  profittano  della  guerra;  esigenze,  che 
vennero  avanzate,  e  il  cui  adempimento  fu  promesso  senza  esami- 
narle con  cura,  quando  la  vittoria  era  ancora  dubbia,  e  che  ora,  a 
causa  della  vittoria  inaspettatamente  completa,  fanno  le  potenze  vin- 
citrici, forse  contro  la  loro  stessa  convinzione,  prigioniere  della  pa- 
rola data. 

Per  quanto  riguarda  la  colpabilità  dell'Ungheria  nello  scoppio 
della  guerra,  bisogna  anzitutto  tener  conto  del  fatto,  che  nessun  in- 
teresse dell'Ungheria  esigeva  una  guerra.  Eissa  era  molto  più  pro- 
pensa a  mantenere  la  pace  ed  a  lavorare  per  la  sua  consolidazione 
interna;  la  sua  struttura,  la  sua  indole  escludevano  tendenze  con- 
quistatrici. La  sua  debolezza  derivava  dalla  diversità  di  lingua  e  di 
razza  della  sua  popolazione;  dal  pericolo  di  tendenze  cetrifughe  che 
potevano  sorgere  fra  le  popolazioni  non  magiare.  Ora,  essendo  tutti 
i  paesi  vicini  abitati  da  popolazioni  non  magiare,  ogni  conquista, 
ogni  ingrandimento  del  territorio  ungherese  avrebbe  soltanto  au- 
mentato questa  debolezza  e  questo  pericolo;  perciò  anche  nei  mo- 
menti delle  più  decisive  vittorie  contro  i  serbi  e  contro  i  rumeni, 
l'Ungheria  pensò  soltanto  a  piccole  correzioni  di  frontiera  per  una 
più  sicura  difesa  del  suo  possesso  millenario.  È  provato  da  pubbli- 
cazioni ufficiali  del  governo  austriaco  —  non  ungherese  —  che  il 
Presidente  del  Ck>nsiglio  ungherese,  conte  Tisza,  desiderava  tentare 
tutti  i  modi  d'una  soluzione  pacifica  del  conflitto  con  la  Serbia,  e 
che  dietro  sua  proposta  il  Consiglio  comune  dei  ministri  della  mo- 
narchia decretò  al  principio  della  guerra  di  escludere  ogni  tendenza 
di  conquista. 


LA   SITUAZIONE   DELL'UNGHERU  279 

D'altra,  parte  sarebbe  inutile  n^are,  ohe  1©  nazioni,  le  quali 
sotto  la  protezione  deirintesa  misero  in  brandelli  l'antica  monarchia 
Austro- Ungherese,  sognavano  già  da  molti  anni  un  accrescimento 
della  loro  potenza,  facendo  una  propaganda  conseguente  per  gua- 
dagnare a  questo  scopo  anche  l'appoggio  delle  potenze  occidentali, 
come  già  prima  godevano  dell'aiuto  più  o  meno  celato  della  Russia. 
lllorum  res  mine  agitur!  Era  il  loro  interesse  di  forzarci  a  dichia- 
rane la  guerra.  Se  il  famoso  ultimatuìn  mandato  a  Belgrado  in  se- 
guito alla  provata  colpabilità  del  governo  serbo  circa  l'attentato  di 
Serajevo  avesse  avuto  un  tono  più  mite,  il  conflitto  sarebbe  stato 
forse  differito,  come  era  avvenuto  già  tante  altre  volte,  ma  non 
evitato. 

Per  dir  la  verità:  parecchi  fatti  militari  e  politici  della  Ger- 
mania non  trovarono  l'approvazione  dell'opinione  pubblica  in  Un- 
gheria, ma  sappiamo,  che  durante  una  guerra,  né  la  stampa  può 
godere  della  sua  solita  libertà,  né  il  Parlamento  pronunciarsi  senza 
certe  riserve:  voglio  allud€»re  all'aggressione  del  Belgio,  alla  guerra 
spietata  dei  sottomarini,  e  finalmente  alla  conclusione  forzata  della 
pace  di  Brest-Litowsk.  Ma  vorrei  porre  la  questione:  perchè  dob- 
biamo esser  responsabili  dello  scoppio  e  della  condotta  di  questa 
guerra  solo  noi  ungheresi  fra  tutte  le  nazioni  che  formavano  la  mo- 
narchia? La  Boemia  (eccetto  quei  reggimenti  che  si  arresero  e  pas- 
sarono al  nemico),  i  polacchi  di  Galizia,  i  ruteni,  i  croati  e  gli  slo- 
veni presero  parte  alle  azioni  militari  della  monarchia  come  noi, 
perchè  noi  soli  dobbiamo  essere  puniti?  Una  gran  parte  dei  generali 
più  rinomati  dell'esercito  austriaco  erano  slavi;  ed  ora  vediamo,  che 
la  Boemia,  la  Polonia,  la  Jugoslavia  sono  considerate  come  alleate 
delle  potenze  nemiche  e  tutti  i  fatti  della  guerra  a  cui  esse  presero 
parte,  sono  dichiarati  crimini  esclusivi  dei  tedeschi  e  degli  ungheresi. 

Passo  all'accusa  dell'oppressione  delle  popolazioni  non  magiare 
in  Ungheria.  Bisogna  anzitutto  tener  presente,  che  i  magiari  forma- 
vano già  da  lungo  tempo  la  maggioranza  della  popolazione  e  che 
il  loro  numero  —  secondo  dati  statistici  incontestabili  —  aumentò 
principalmente  per  la  maggiore  facoltà  generativa  della  razza.  Come 
mostrano  i  quadri  di  natalità,  nelle  città  si  ebbe  un  accrescimento 
a  spese  delle  altre  nazionalità,  per  la  forza  naturale  della  cul- 
tura superiore,  ma  nella  campagna  le  proporzioni  rimasero  nel 
corso  dei  secoli  presso  a  poco  inalterate.  Se  noi  ci  fossimo  serviti 
durante  mille  anni  dei  mezzi  che  le  nazioni  occupatrici  da  tre  anni 
a  questa  parte  applicano  contro  i  tre  milioni  e  mezzo  di  ungheresi 
caduti  sotto  il  loro  dominio,  delle  espulsioni,  delle  trasmutazioni 
forzate  di  scuole,  delle  confische,  delle  espropriazioni,  degli  incar- 
ceramenti e  delle  correzioni  arbitrarie  dei  censimenti,  di  certo  i 
nostri  nemici  non  avrebbero  trovato  sul  nostro  suolo  tal  numero  di 
loro  connazionali,  intatti  nella  loro  indole  nazionale  e  in  una  pro- 
sperità economica  uguale  a  cjuella  degli  ungheresi.  Nessun  conosci- 
tore del  passato  e  delle  condizioni  presenti  dell'Ungheria  potrà  ne- 
gare che  dagli  inizi,  si  può  dire,  della  civiltà  umana  nessun  popolo 
in  Ungheria  fu  oppresso  in  tal  modo  nella  sua  libertà,  ed  offeso 
nella  sua  lingua  e  nella  sua  dignità  di  nazione,  come,  durante  l'oc- 
cupazione, i  nostri  connazionali  sono  stati,  e  spesso  anche  ora  sono 
oppressi  ed  offesi  da  parte  dei  nuovi  padroni. 


280  LA   SITUAZIONE   DELL' UMGU£BIA 

Si  dice  che  le  nazioni  non  magiare,  che  formano  la  maggio- 
ranza nelle  i-egioni  staccate,  si  sono  sottomesse  volentieri  al  nuovo 
dominio.  Questa  è  un'affermazione  a  cui  si  può  giustamente  appli- 
care il  motto  francese  :  «  il  n'y  a  rien  de  plus  dangereux,  qu'un 
mensonge  qui  ressemble  à  la  vérité  ».  Bisogna  ricordare  brevemente 
1  fatti  dell'occupazione  dell'Ungheria  dopo  l'armistizio  di  Belgrado  e  ^ 
mettere  in  evidenza  il  terribile  inganno  di  cui  siamo  divenuti  vit- 
time, se  per  colpa  del  governo  ungherese  d'allora  o  no,  non  voglio 
ora.  esaminare,  benché  l'opinione  pubblica  in  Ungheria  consideri 
con  la  più  grande  certezza  il  conte  Michele  Kàrolyi  come  traditore 
della  patria. 

Il  contratto  dell'armistizio  di  Belgrado  stipulava  la  consegna 
del  nostro  armamento  e  ci  obbligava  alla  smobilitazione,  permetten- 
doci di  tenere  sotto  le  armi  solamente  sei  divisioni  per  il  manteni- 
mento dell'ordine  interno;  fissava  la  linea  di  demarcazione  per  l'oc- 
cupazione da  parte  delle  truppe  nemiche  e  riconosceva  a  queste 
anche  il  diritto  di  poter  prender  possesso  di  alcuni  luoghi  impor- 
tanti dal  punto  di  vista  strategico.  Il  territorio  da  occuparsi  si  esten- 
deva lungo  la  frontiera  della  Transilvania  e  dell'Ungheria  meridio- 
nale. E  fu  espressamente  garantito  che  le  potenze  nemiche  e  i  loro 
eserciti  non  si  immischierebbero  in  nessun  modo  negli  affari  interni 
del  paese  e  che  l'amministrazione  anche  dei  territori  occupati  rimar- 
rebbe nelle  mani  dei  magistrati  ungheresi.  La  popolazione  non  potè 
dunque  considerare  questa  occupazione  che  come  un  provvedimento 
provvisorio  e  pacifico,  e  poiché  allora  le  nostre  truppe  non  erano 
ancora  ritornate  dalla  fronte  alle  loro  guarnigioni,  e  siccome  dopo 
la  rivolta  di  Budapest  nell'ottobre  1918  in  molti  luoghi  abitati  da 
popolazioni  schiettamente  magiare  si  erano  verificati  torbidi  di  ca 
ratiere  sociale,  le  truppe  straniere,  come  la  sola  forza  armata  dispo- 
nibile, furono  sovente  salutate  come  l'unica  garanzia  della  pace  e 
dell'ordine  pubblico. 

L'Ungheria  eseguì  la  smobilitazione  con  una  premura  quasi  esa- 
'gerata.  Ma  dacché  ella  fu  difatto  disarmata,  cominciò  una  continua 
serie  di  violazioni  delle  condizioni  stipulate,  alle  quali  fece  seguito 
una  serie  di  aggiunte  posteriori  che  subito  cambiarono  l'occupazione 
limitata,  provvisoria  e  pacifica  in  ima  occupazione  molto  più  estesa, 
definitiva  e  «ostile. 

I  serbi  e  i  rumeni  non  si  curavano  assolutamente  in  alcun  modo 
della  linea  di  demarcazione,  avanzavano  a  loro  piacere  e  secondo  il 
loro  interesse  di  conquistatori;  nell'Ungheria  alta,  invece,  dove  non 
si  era  mai  provveduto  ad  una  linea  di  demarcazione,  irruppero  i 
cechi,  respingendo  i  pochi  resti  di  truppe  che  potevano  opporsi; 
poco  dopo  irruppero  anciie  i  polacchi  ed  i  ruteni,  occupando  quanto 
potevano,  sicché  l'Ungheria  parve  esser  divenuta  letteralmente  una 
res  nulliuSy  preda  di  ciascun  invasore.  Quando  la  popolazione,  strap- 
pata alla  sua  antica  patria  e  disarmata,  ebbe  la  coscienza  della  sua 
terribile  situazione,  gli  invasori  già  avevano  preso  possesso  del  ter- 
ritorio e  avevano  soffocato  senza  pietà  ogni  rivolta,  ogni  protesta  ed 
ogni  opposizione.  In  tal  modo  furono  «  liberate  »  le  nazioni  finora 
oppresse  in  Ungheria! 

Per  mostrare  anche  meglio  in  che  consistesse  questa  «oppres- 
sione »,  vorrei  ancora  aggiungere  alcimi  dati  desunti  dalla  mia  per- 


LA    SITUAZIONE   DELL' UNGHERLA  '281 

sonale  esperienza.  Nel  contado  nel  quale  è  domiciliata  la  mia  fami- 
glia, che  è  proprietaria  di  terre,  la  popolazione  contadina  è  slava; 
noi  proprietari,  della  nobiltà  magiara,  parliamo  tutti  la  lingua  slava, 
mentre  i  contadini  —  tranne  poche  eccezioni  —  non  parlano  la  nostra 
lingua.  In  Transilvania  io  conosco  villciggi  la  cui  popolazione  è  per 
metà  magiara,  per  metà  rumena;  tutti  gli  ungheresi  parlano  rumeno, 
mentre  i  rumeni  si  servono  soltanto  nel  caso  d'estrema  necessità  e 
male  della  lingua  ungherese.  Mai  sotto  il  regime  ungherese  sulle 
porte  degli  uffici  era  scritto  che  si  dovesse  parlare  magiaro;  ogni 
cittadino  del  paese  poteva  sei-virsi  della  sua  lingua  materna,  ohe 
era  compresa  quasi  senza  eccezione  perfino  nelle  regioni  di  lingua 
mista,  anche  dai  più  alti  impiegati  dei  municipi.  Ora  le  porte  degli 
uffici  portano  dappertutto  l'avviso  di  parlare  la  lingua  dello  Stato, 
ed  i  contravw^entori  rischiano  di  essere  respinti  inascoltati. 

Nell'alta  Ungheria  si  trovano  famiglie  di  contadini  slavi  che 
portano  ancora  antichi  nomi  ungheresi;  e  in  pari  modo  ci  sono  campi 
che  sono  designati  con  nomi  ungheresi,  mentre  gli  abitanti  del  con- 
tado non  parlano  più  magiaro.  Segno  questo  che  in  quelle  regioni 
—  malgrado  la  così  detta  oppressione  ungherese  —  i  magiari  furono 
snazionalizzati  e  divennero  slavi.  Un  altro  esempio:  nel  contado  già 
prima  menzionato,  ancora  al  tempo  della  mia  fanciullezza  c'erano 
dodici  proprietari  di  nobile  famiglia  magiara;  ora  siamo  rimasti 
tre,  e  le  proprietà  di  nove  famiglie  nobili  magiare  sono  passate  nelle 
mani  di  contadini  slavi  :  uno  sviluppo  democratico  ohe  davvero  po- 
trebbe soddisfare  i  nuovi  occupatori  che  già  finora  riuscirono  — ^ 
principalmente  nei  territori  rumeni  e  jugoslavi  —  a  spodestare  quasi 
interamente  i  proprietari  magiari!  Ecco  in  che  modo  lo  nazioni  non 
magiare  furono  oppresse  dagli  ungheresi! 

Esaminiamo,  ora,  se  questo  riordinamento  del  territorio  della 
monarchia  Austro- Ungherese  effettuato  dagli  Stati  vincitori,  sia  real- 
mente così  salutare  alla  pace  europea  e  alla  prosjjerità  delle  nazioni 
interessate,  che  per  realizzarlo  fosse  necessaria  la  distruzione  com- 
pleta d'un  paese  millenario,  tutto  inteso  ora,  dopo  eroiche  lotte  nel 
passato,  al  suo  sviluppo  economico  e  spirituale. 

Fu  detto  ohe  l'Ungheria  deve  essere  smembrata  perchè  è  un  in- 
naturale agglomeramento  di  nazionalità  diverse,  che  vogliono  essere 
riunite  ai  loro  principali  nuclei,  e  che  in  tal  modo  si  debbano  creare 
degli  Stati  nazionali,  saldi  già  per  la  coerenza  naturale  della  razza 
e  della  lingua  comune.  Vediamo  dunque  in  qual  modo  la  pace  di 
Trianon  ha  effettuato  questo  compito. 

Essa  strappa  anzitutto  tre  milioni  e  mezzo  di  ungheresi  all'an- 
tica patria,  per  la  più  gran  parte  abitanti  in  territori  limitrofi,  alle 
grandi  masse  della  popolazione  magiara  dell'Ungheria.  Si  fece  dono 
di  questi  territori  agli  Stati  nuovamente  creati  o  ingranditi,  per 
favorirli  o  con  confini  più  vantaggiosi  o  con  centri  preziosi  d'indu- 
stria, d'agricoltura  e  commercio,  sempre  e  dappertutto  a  spese  del- 
l'Ungheria. Gli  Stati  «  nazionali  »,  che  nei  territori  strappatici  sono 
divenuti  successori  dell'Ungheria,  composta  di  nazioni  diverse,  e  che 
perciò  dovrebbero  rappresentare  una  più  pura  e  una  più  netta  unità 
nazionale,  mostrano  ora  nei  loro  territori  nuovamente  acauistati  le 
proporzioni  seguenti  :  sul  territorio  preso  dai  Rumeni  i  loro  conna- 
zionali contano  solo  2,900,000  abitanti  accanto  a  3,900,000  di  un^he- 

19  Voi.   CCXVI,  serie  VI  —  !•  febbraio  1922. 


282  LA    SITUAZIONE    DELL'UNGHERIA 

resi  e  tedeschi;  essi  possiedono  ora  la  città  di  Nagyvàrad,  con  52,421 
abitanti  ungheresi  e  3604  rumeni;  Szathmàr-Németi  con  33,094  abi- 
tanti ungheresi  e  986  rumeni;  Arad  con  46,085  abitanti  ungheresi  e 
10,279  rumeni;  Kodozsvàr  con  50,204  ungheresi  e  7562  rumeni. 

I  Jugoslavi  hanno  ricevuto  un  territorio  con  1,116,000  abitanti, 
fra  cui  si  contano  solamente  274,208  serbi  e  croati.  Gli  Czechi  hanno 
occupato  per  esempio  la  città  di  Komàroms  nella  quale  si  trovano 
364  slovacchi  e  19,924  ungheresi;  Kassa,  che  conta  33,350  abitanti 
ungheresi  e  solo  6547  slovacchi;  Pozsony,  dove  11,673  slovacchi  stanno 
dirimpetto  a  64,495  ungheresi  e  tedeschi.  Questa  sproporzione  era 
troppo  evidente  e  perciò  il  nuovo  regime  si  affrettò  a  correggerla 
artificialmente.  A  ciò  servirono  le  espulsioni  in  massa  degli  unghe- 
resi e  i  recenti  censimenti,  pei  quali  intere  schiere  di  impiegati  e 
soldati  furono  mandati  nelle  città  nuovamente  acquistate,  e  le  indi- 
cazioni degli  abitanti  dichiarantisi  ungheresi,  furono  cambiate  arbi- 
trariamente. In  tal  modo  gli  Stati  successori  riuscirono  ad  alterare 
alquanto  i  dati  statistici  delle  singole  nazionalità  in  loro  favore:  un 
procedere  che  merita  il  commento  del  motto  latino:  ignotos  fallii, 
notis  est  derisui!  , 

La  mancanza  d'unità  nazionale  dei  nuovi  Stati  ««  nazionali  »  non 
proviene  soltanto  dal  troppo  grande  numero  di  ungheresi  e  tedeschi 
incorporati,  ma  più  ancora  dalle  disparità  degli  slavi  stessi  apparte- 
nenti alla  Gzecho-Slovacchia  e  alla  Jugoslavia.  Ai  ruteni  dei  comi- 
tati ungheresi  di  nord-est  fu  promessa  un'assoluta  autonomia,  invece 
poi  essi  furono  incorporati  nella  Gzecho-Slovacchia  e  dichiarati,  nei 
contadi  limitrofi  agli  slovacchi,  semplicemente  slovacchi.  Ognuno  sa, 
che  questi  slovacchi  dell'alta  Ungheria  parlano  una  lingua  molto  dif- 
ferente dalla  czieca  e  non  capiscono  i  decreti  czechi.  Nello  stesso 
modo  i  croati,  gli  sloveni  sono  per  la  loro  grafia  non  Girillica  e  per 
la  loro  religione,  differenti  dai  serbi  e  vedono  nel  reame  S.H.S.  spa- 
rire anche  quella  autonomia  che  essi  possedevano  nell'antica  mo- 
narchia. È  noto,  che  dove  i  dati  statistici  non  convengano,  si  chiede 
soccorso  agli  argomenti  storici.  Ma  far  valere  argomenti  storici 
contro  uno  Stato  che  esiste  da  mille  anni  con  i  medesimi  confini, 
nella  medesima  consistenza,  è  in  sé  stesso  quasi  ridicolo  e  non  meno 
ridicolo  è  parlare  della  «  rioccupazione  »  dd  territori,  che  da  più  di 
mille  anni  appartennero  ad  uno  Stato. 

Mentre  né  la  statistica  né  la  storia  poligono  argomenti  seri  in 
appoggio  al  riordinamento  fatto  dai  trattati  di  pace,  l'interesse  eco- 
nomico delle  popolazioni  è  addirittura  in  contrasto  stridente  con  lo 
stato  presente.  Basta  gettare  uno  sguardo  sulla  carta  dell'antica  Un- 
giheria,  per  convincersi  che,  fra  tutti  i,  paesi  continentali,  forse  non 
ne  esiste  un  altro,  che  sia  in  tal  modo  predestinato  a  formare  nei 
suoi  confini  naturali  uno  Stato  unico  e  coerente.  La  linea  di  confine 
recentemente  fissata  è  innaturale,  imposta  con  la  forza  e  sarà  causa 
e  pretesto  di  contese.  Il  corso  del  Danubio,  la  confluenza  degli  altri 
fiumi,  la  formazione  orografica,  il  sistema  delle  linee  di  comunica- 
zione, formate  da  una  convivenza  di  molti  secoli,  la  distribuzione 
dei  tesori  della  natura:  tutto  a\Tebbe  consigliato  il  mantenimento 
dell'unità  politica  ed  economica  dell'Ungheria,  nel  centro  antico;  e 
la  violazione  di  questa  unità,  lo  smembramento  e  il  riordinamento 
arbitrario  nuoce  alla  prosperità  economica  di  tutte  le  parti.  È  as- 


LA   SITUAZIONE   DELL'UNGHERL\  283 

surdo,  per  esempio,  esigere  che  la  vita  economica  dell'Ungheria  di 
nord-est  graviti  su  Praga,  quella  di  Temesvàr,  Kolozsvàr  su  Buca- 
rest, quella  della  Dalmazia,  del  Montenegro,  dalla  Kraina  e  Garinzia 
su  Belgrado! 

La  questione  dell'Ungheria  occidentale  prova  nella  maniera  più 
evidente  quanto  il  giudizio  dei  capi  dell'Intesa  fosse  offuscato  dalle 
preoccupazioni  provenienti  dalla  guerra.  Da  parte  dell'Austria  la  do- 
manda di  acquistare  queste  regioni  non  fu  mai  posta  con  molta  in- 
sistenza; si  parlava  d'un  plebiscito,  ma  l'Austria  stessa  sapeva  bene 
che  questo  acquisto  non  le  avrebbe  giovato  economicamente,  es- 
sendo questo  territorio  passivo  nella  produzione  di  grano  e  per  ciò 
più  un  peso  che  un  aiuto  per  l'acquirente.  Però  queste  regioni  furono 
aggiudicate  senza  plebiscito  all'Austria,  soltanto  per  smembrare  an- 
cora più  l'Ungheria  e  per  creare  una  causa  di  discordia  fra  i  due 
Stati  già  congiunti  dalla  comunità  della  dinastia.  Ma  nell'ora  pre- 
sente già  si  mostrano  i  lati  deboli  di  questo  calcolo  così  raffinato. 
È  fuor  di  dubbio  che  l'Austria,  malgrado  tutti  gli  aiuti  promessi 
dall'Intesa,  non  potrà  esàstere  economicamente  come  Stato  indipen- 
dente; essa  passerà  alla  Germania  tosto  o  tardi,  non  ostante  le  pro- 
teste e  le  minacele  della  Francia,  che  fra  poco  rimarrà  sola  nella 
sua  parte  di  polizia  armata  dell'Europei,  che  vuole  in  eterno  impe- 
dire ad  una  nazione  di  settanta  milioni  di  sortire  la  sua  volontà. 
Le  altre  potenze  non  avranno  nessuna  ragione  per  impedire  la  riu- 
nione dell'Austria  colla  Germania,  poiché  questo  sarebbe  il  modo 
più  sicuro  per  eliminare  una  restaurazione  degli  Absburgo  a  Vienna. 
Se  questo  accadrà,  ciò  che  è  molto  probabile,  la  Francia  si  troverà 
ad  aver  contribuito  con  la  sua  politica  intomo  alla  questione  del- 
l'Ungheria occidentale  ad  un  ingrandimento  della  Germania  a  danno 
dell'Ungheria.  Ed  è  merito  dell'Italia  sola,  se  col  trattato  di  Venezia 
le  ingiustizie  circa  la  sistemazione  del  cosidetto  Burgeland  furono 
alquanto  mitigate  a  favore  dell'Ungheria. 

Passo  ora  a  quella  decadenza  culturale,  risultante  dal  riordina- 
mento del  territorio  già  ungherese,  alla  qu€Lle  io  accennava  nel 
proemio  di  questo  articolo. 

La  perdita  dell'Ungheria  nei  riguardi  della  cultura  è  equivalente 
a  quella  dei  mezzi  materiali.  Noi  abbicuno  perduto  una  università 
fiorente,  rinomata,  munita  di  tutti  i  mezzi  sussidiarii  per  l'insegna- 
mento e  per  il  lavoro  scientifico,  bene  frequentata,  e  un'altra  recen- 
temente istituita,  ma  già  bene  avviata;  perdiamo  quattro  accademie 
di  giurisprudenza,  una  di  scienze  minerarie,  una  di  scienze  forestali 
e  un'ac<;ademia  d'agricoltura.  Perdiamo  numerose  scuole  speciali, 
scuole  preparatorie  per  maestri,  scuole  medie  ed  inmmierevoli  scuole 
elementari.  Perdiamo  musei,  biblioteche,  sparse  su  tutto  il  terri- 
torio dell'antico  paese,  ed  arricchite,  sviluppate  finora  con  premura 
dallo  Stato  ungherese.  Si  potrebbe  replicare  che  tutte  queste  perdite 
colpiscono  soltanto  la  cultura  nazionale  ungherese,  ma  che  quelle 
scuole  e  quegli  istituti  serviranno  d'ora  innanzi  per  un'altra  cultura 
nazionale.  Questo  è  però  un  grande  errore.  In  seguito  al  cambia- 
mento politico  molte  scuole  vennero  in  effetto  chiuse  o  impiegate  ad 
altri  scopi;  ma  più  della  perdita  quantitativa  è  deplorevole  la  per- 
dita qualitativa.  Io  non  voglio  far  poco  conto  della  cultura .  degli 
cizechi,  che  è  senza  dubbio  svilupi^ta,  ma  anche  gli  czechi  e  moravi 


284  LA    SITUAZIONE    DELL'UNGHERIA 

non  dispongono  di  forae  intellettuali  bastanti  per  penetrare  un  ter- 
ritorio molto  più  grande  del  loro  ed  abitato  da  una  popolazione  di 
linigua  del  tutto  differente.  E  che  dire  dei  rumeni,  dei  jugoslavi 
che  rappresentano  una  cultura,  che  nella  sua  estensione  e  nella  sua 
intensità  è  molto  inferiore  all'ungherese?  Basta  accennare  che  in  rap- 
porto al  numero  degli  analfabeti  quello  deg-li  uomini  colti  è  fra  gli 
stessi  rumeni  e  serbi  dell'Ungheria  assai  più  considerevole  che  fra 
i  rumeni  e  serbi  dell'antico  reame.  Tutti  i  vicini  conquistatori  si 
sono  affrettati  a  scaceiare  i  professori  e  gli  ins^nanti  ungheresi; 
sin  dal  tempo  della  presa  di  Bisanzio  in  Europa  una  simile  migra- 
zione di  eruditi  non  si  è  vista  che  dopo  lo  stabilimento  del  dominio 
czeco,  rumeno  e  serbo  nelle  regioni  strappate  all'Ungheria.  E  si 
può  immaginare  quali  elementi  presero  il  posto  di  questi  scacciati! 
La  fiorente,  rinomata,  ben  provvista  università  di  Kolozsvàr,  dove  in- 
segnavano professori  come  quell'Apàthy  —  ben  conosciuto  anche  in 
Italia,  principalmente  a  Napoli  —  il  cui  laboratorio  zoologico  atti- 
rava studiosi  da  tutti  i  paesi  civilizzati,  fu  trasmutata,  in  48  ore,  in 
una  università  rumena;  e  per  poter  provvedere  alle  cattedre  dive- 
nute vacanti,  maestri  elementari  furono  chiamati  ad  un  corso  pre- 
paratorio di  tre  mesi;  e  per  provvedere  anche  all'uditorio  neces- 
sario fu  concesso  d'immatricolare  studiosi  senza  certificato  di  matiu- 
rità.  I  teatri,  che  prima  con,  le  loro  rappresentazioni  in  ungherese 
attiravano  un  pubblico  numeroso,  attento  ed  intelligente,  ora  con  le 
loro  rappresentazioni  forzate  nella  lingua  dei  nuovi  padroni,  o  ri- 
mangono vuoti  o  sono  occupati  da  un  pubblico  invitato  gratuita- 
mente, obbligato  ad  intervenire,  formato  per  la  più  gran  parte  dagli 
invasori  civili  e  militari. 

Tutto  questo  prova  abbastanza  che  con  lo  smembramento  del- 
l'Ungheria fu  interrotto  biiiscamente  un  lavoro  culturale  intenso, 
che  durava  continuo  e  profìcuo  da  secoli,  e  che  una  decadenza  che 
distruggerà  l'opera  di  generazioni,  è  inevitabile.  Bisogna  poi  anche 
considerare  gli  indirizzi  a  cui  si  ispirarono  nel  trattamento  della 
popolazione  ungherese,  circa  i  suoi  bisogni  intellettuali,  i  governi 
nuovamente  stabiliti.  Non  soltanto  le  impediscono  d'educare  i  suoi 
fanciulli  nella  loro  lingua  nazionale,  ma  è  oltre  a  ciò  completa- 
mente privata  di  ogni  comunicazione  intellettuale  coi  connazionali 
dell'antica  patria;  libri,  stampe  recenti  non  possono  importarsi;  in- 
vece la  stampa  ungherese  bolscevica  di  Vienna,  già  menzionata,  trova 
libera  entrata  e  viene  diffusa  ad  arte  fra  gli  ungheresi  dei  territori 
perduti,  come  un  mezzo  per  snazionalizzarli  e  per  accendere  in  loro 
l'odio  contro  il  regime  presente  dell'Ungheria.  I  monumenti  dell'an- 
tica grandezza  e  della  gloria  d'Ungheria,  i  monumenti  degli  eroi  e 
dei  ]X)eti  nazionali,  perfino  quelli  eretti  in  memoria  della  lotta  per 
la  libertà  degli  anni  1848-1849  —  ricordi  dunque  cari  anche  agli 
Italiani!  —  vengono  distrutti  o  mutilati,  o  profanati  dappertutto  dove 
il  dominio  ungherese  dovette  cedere  il  posto  ad  un  altro. 

Si  vede  già  che  le  disposizioni  della  pace  di  Trianon  cadono 
come  un  colpo  mortale  sull'Ungheria;  e  ciò  non  basta:  anche  dopo 
la  pace,  e  oltre  alle  sue  disposizioni,  si  presero  e  si  prendono  misure 
che  paiono  addirittura  voler  togliere  a  cjuesto  paese  sfortunato  anche 
quel  poco  che  il  trattato  gli  lasciava.  Le  potenze  tollerarono  per 
quattro  mesi  l'occupazione  rumena,  che  spogliò  l'Ungheria  molto  più 


LA    SITUAZIONE    DELL'UNGHERIA  286 

di  quel  che  avesse  fatto  la  guerra  in  quattro  anni;  esse  tollerarono 
fino  all'estate  passata  l'occupazione  della  Baranya  da  parte  dei  Ju- 
goslavi, ciò  che  era  un'evidente  infrazione  del  trattato  di  pace;  esse 
tollerano  che  gli  «  Stati  successori  »  violino  in  ogni  momento  i  di- 
ritti delle  minorità  nazionali,  e  se  ce  ne  lagniamo,  il  presidente  del 
Consiglio  francese  ci  ris{X)nde,  che  le  potenze  non  possono  dimi- 
nuire la  sovranità  degli  Stati  creati  col  loro  aiuto,  e  che  le  nazioni 
«  amiche  »  sono  più  vicine  a  loro  che  le  nazioni  vinte.  Benissimo! 
Dal  punto  di  vista  dell'amicizia  si  possono  davvero  fare  distinzioni 
fra  le  nazioni;  ma  se  vogliamo  finalmente  arrivare  ad  una  situa- 
zione nella  quale  non  regni  più  la  pura  forza  e  il  puro  arbitrio,  bi- 
sogna trovare  qualche  cosa  che  valga  ugualmente  per  tutti,  senza 
eccezioni  e  senza  distinzioni,  cioè  l'onestà  pubblica  e  la  buona  fede 
nell'accettazione  e  nel  mantenimento  dei  patti.  La  nazione  che  «  cam- 
mina alla  testa  della  civiltà  »  non  vorrà  far  ritornare  i  tempi  della 
schiavitù  e  dei  paria.  Anche  le  nazioni  amiche  della  Francia  potreb- 
bero ricordarsi  della  sentenza  :  de  anùcis  tantum  justa  sunt  petenda. 

La  <f  Piccola  Intesa»,  che  si  formò  contro  l'Ungheria  e  che  pa- 
reva dovesse  mettersi  sotto  l'egida  dell'Italia,  ha  —  come  si  dice  — 
lo  scopo  di  garantire  il  mantenimento  della  pace  di  St.  Germain  e 
di  Trianon,  naturalmente  soltanto  in  quanto  le  loro  disposizioni 
sono  dirette  contro  l'Ungheria,  uno  scopo  che  esige  pochissimo  di- 
spendio di  forze,  essendo  il  nostro  paese  ridotto  a  tale  esiguità  di 
forze  armate  che  non  potrebbe  sostenere  assalti  su  quattro  fronti, 
e  trovandoci  oltre  a  ciò  fra  confini  che  assolutamente  non  possono 
esser  difesi.  Ma  questa  nuova  alleanza,  formata  nonostante  che  la 
Lega  della  nazioni,  creata  dalle  ix)tenze  vincitrici,  vieti  ogni  alleanza 
particolare,  pare  voglia  occuparsi  sempre  più  da  vicino  delle  cose 
nostre,  immischiandosi  nella  politica  intema  del  paese  e  cercando 
premurosamente  pretesti  per  assalire  anche  questo  tronco  muti- 
lato che  è  ora  l'Ungheria,  o  per  continuare  il  lavoro  di  spogliazione 
dell'occupazione  rumena,  oppure  —  chi  lo  sa?  —  per  annettere  an- 
cora dei  territori,  o  per  acconciare  un  corridoio  per  le  comunicazioni 
degli  «  alleati  » .  , 

E  prima  di  terminare,  voglio  accennare  all'interesse  dell'Italia, 
minacciata,  secondo  la  mia  convinzione,  dalla  politica  slavofila  dei 
governi  italiani,  del  passato  recente. 

Uno  dei  risultati  più  importanti,  ottenuti  dall'Italia  a  costo 
d'immensi  sforzi  e  di  sangue  profuso,  è,  senza  dubbio,  la  sua  si- 
gnorìa incontestata  sull'Adriatico.  Da  parte  dell'Austria,  che  nel 
senso  antico  non  esiste  più,  essa  non  può  esser  più  minacciata;  tanto 
meno  dall'Ungheria,  rimota  già  dal  mare.  La  Jugoslavia  sola,  posta 
fra  la  Turchia,  la  Grecia,  la  Bulgaria,  l'Ungheria  e  la  Rumenia,  ma- 
rittimamente poco  sviluppata  e  costretta  a  dividere  coU'Italia  il  pos- 
sesso della  costa  orientale,  è  di  certo  una  concorrente,  sebbene  una 
concorrente  forse  troppo  inferiore  per  essere  pericolosa.  Ma  bisogna 
tener  conto  delle  possibilità  del  futuro.  La  Russia,  in  preda  alle 
sue  convulsioni  inteme,  pare  di  non  contare  i>er  ora,  ma  essa  rap- 
presenta una  sfinge,  che  non  ha  ancora  svelato  i  suoi  futuri  disegni; 
essa  rimane  in  ogni  caso  un  misterioso  pericolo  per  l'Europa.  In 
un'epoca  nella  quale  piccole  nazioni  si  lasciano  trascinare  alle  im- 


286  LA    SITUAZIONE    DELL'UNGHERIA 

prese  più  ardite  dalla  febbre  dell' imperialismo,  una  nazione  di  100  mi- 
lioni non  può  esaurirsi  in  etemo  in  lotte  e  moti  interni  e  nella  esal- 
tata propaganda  d'una  rivoluzione  sociale.  Tosto  o  tardi,  come  re- 
pubblica o  come  impero,  essa  ritornerà  sul  cammino  dell'espansione 
nazionale  e  diverrà  di  nuovo  la  conduttrice  e  il  capo  naturale  di 
tutte  le  nazioni  slave,  l'esponente  dell'impulso  slavo  verso  l'occi- 
dente e  verso  il  mezzodì. 

Nessuna  nazione  slava  potrà  sottrarsi  a  questa  influenza  della 
Russia:  non  la  Polonia  ohe  non  può  rompere  i  leg-ami  economici  sta- 
biliti fra  essa  e  la  Russia  negli  ultimi  secoli  e  che  ha  bisogno  del- 
l'appoggio della  Russia  contro  la  Germania  anelante  a  ricuperare  i 
suoi  territori;  non  l'Ucraina,  la  cui  indipendenza  e  separazione  sono 
ahcora  troppo  chimeriche;  non  la  Czeco- Slovacchia,  dove  esiste  an- 
cora saldo  il  partito  dei  russofìli  e  dove  le  difficoltà  del  manteni- 
mento della  conquista  condurranno  sempre  alla  ricerca  di  protettori 
potenti;  non  la  Jugoslavia,  che,  come  prima  della  guerra,  anche  per 
l'avvenire  non  sarà  capace  di  serbare  l'acquistato  e  realizzare  le  sue 
brame  cresciute  pel  successo,  che  coll'aiuto  del  gigante  nordico.  La 
«  Piccola  Intesa  »  cercava  e  cerca  di  stabilire  un  corridoio,  che  renda 
possibile  il  contatto  effettivo  degli  alleati  slavi  del  nord  e  del  sud; 
ma  chi  potrebbe  dubitare  che  un  tal  corridoio,  una  volta  fatto,  non 
rimarrà  aperto  anche  all'avanziata  russa  e  servirà  anche  a  demolire 
la  barriera  che  separa  gli  slavi  del  nord  e  gli  slavi  del  sud,  barriera 
già  fatalmente  indebolita  dallo  smemibramento  dedl'Ungheria.  Se 
questa  barriera,  che  si  estende  dal  Mar.  Nero  verso  l'Europa  cen- 
trale e  che  è  formata  dalla  Rumenia,  dall'Ungheria  e  dall'Austria  te- 
desca, sarà  una  volta  rovesciata,  là,  dove  essa  è  più  tenue,  nel- 
l'Ungheria, chi  impedirà  al  colosso  slavo  che  si  estende  dal  mare 
polare  fino  a  Salonicco  di  avanzare  anche  verso  l'Adriatico  e  con- 
tendere il  suo  possesso  all'Italia? 

Perciò,  come  io  sono  convinto  che  questa  necessità  europea  d'una 
barriera  fra  gli  slavi  nordici  e  meridionali  riunirà,  malgrado  i  dis- 
sensi presenti,  fra  poco  la  Rumenia,  l'Ungheria,  l'Austria  e  anche 
la  Germania  nella  loro  politica  estera,  così  io  considero  come  un  in- 
teresse vitale  dell'Italia  stessa,  che  l'Ungheria  resti  salda  e  forte;  con- 
sidero lo  smembramento  del  nostro  paese  come  un  danno  fatto  anche 
all'Italia  e  trovo  o  non  sincera  o  cieca  quella  politica  italiana  — 
forse  già  superata  —  che  faceva  il  giuoco  di  coloro  il  cui  interesse 
è  l'indebolimento,  oppure  lo  spartimento  totale  dell'Ungheria.  L'at- 
titudine recente  dell'Italia  nella  questione  dell'Ungheria  occidentale, 
pare  di  provare  che  queste  verità  sono  riconosciute  già  anche  alla 
Consulta. 

Forse  non  m'inganno  se  io  riconduco  le  cause  della  politica  che 
mise  l'Italia,  per  un  momento,  quasi  alla  testa  della  «  Piccola  In- 
tesa», oltreché  a  motivi  di  opportunità  momentanea,  a  quell'odio 
tradizionale  contro  gli  Absburgo  e  alla  paura  o  piuttosto  al  sospetto 
che  l'Ungheria  diveng-a  il  sostegno  d'un  nuovo  impero  degli  Absbur- 
go, ostile  —  per  tradizione  —  all'Italia. 

Questa  causa  pare  ora  —  dagli  avvenimenti  recentissima  —  eli- 
minata. Nulla  impedisce  che  la  costituzione  provvisoria  del  1920, 
che,  monarchica  nella  sua  forma,  depone  —  come  in  casi  precedenti 
della  nostra  storia  —  le  potestà  del  sovrano,  fra  certi  limiti  nelle 


LA    SITUAZIONE    DELL'UNGHERIA  287 

mani  d'un  governatore  eletto,  duri  anche  alcuni  anni.  Nel  frattempo 
la  situazione  del  paese  si  chiarirà,  gli  odi  e  le  invidie  fra  noi  ed  i 
nostri  vicini  potranno  sparire  e  sarà  possibile  di  risolvere,  sine  ira 
et  studio,  anche  le  questioni  che  oggi  ci  separano.  Ma  che  final- 
mente si  conceda  da  tutte  le  parti  un  poco  di  riposo  a  questo  scia- 
gurato paese,  che  non  lo  si  spinga  a  passi  disperati,  e  che  esso  non 
sia  esposto  —  disarmato  com'è  —  alla  mercè  dei  suoi  violenti  vicini. 

Bisognerebbe  anzitutto  cancellare  la  vana  p)aura  d'un  irreden- 
tismo aggressivo  da  parte  dell'Ungheria.  Noi  sappiamo  che  ogni  ten- 
tativo in  questo  senso  è  sinonimo  di  catastrofe  pel  nostro  paese. 
Noi  ripetiamo,  e  ripeteremo  instancabilmente,  che  siamo  stati 
puniti  ingiustamente,  smembrati  crudelmente,  sacrificati  a  pretese 
esagerate,  irragionevoli,  in  parte  assurde,  il  cui  adempimento  di- 
strugge noi  senza  portar  salute  ai  nostri  nemici.  Noi  ripetiamo,  che 
il  riordinamento  presente  non  assicurerà  mai  la  consolidazione  di 
questa  parte  dell'Europa,  invece  esso  avrà  per  seguito  convulsioni  e 
cambiamenti  perpetui,  non  a  causa  delle  nostre  tendenze  aggressive, 
ma  a  causa  dei  germi  di  dissoluzione  che  esso  conduce  seco,  ed  i  cui 
effetti  già  ora  si  palesano  quasi  dappertutto. 

Noi  speriamo  un  cambiamento  nel  futuro,  che  renderà  l'Un- 
gheria piti  grande  della  presente,  rispettata  come  prima,  salda,  forte 
e  prospera.  Noi  non  godiamo  di  alleanze  armate  come  i  nostri  av- 
versari; abbiamo  però  due  alleati,  invisibili  e  muti,  ma,  per  il  loro 
lavoro  continuo  e  irresistibile,  più  vigorosi  di  tutti:  il  tempo  e  la 
giustizia. 

n  tempo,  che  sana  le  piaghe  del  passato  e  fa  ritornare  lenta- 
mente le  forze  antiche;  che  calma  le  passioni  sfrenate,  intiepidisce 
gli  odi  iniqui  e  le  simpatie  deluse,  che  rischiara  gli  sguardi  offuscati 
e  rende  alla  ragione  il  suo  dominio;  il  tempo  che  sull'albero  della 
vita  dell'umanità  matura  i  frutti  sani  e  fa  cadere  i  frutti  malati. 

E  la  giustizia,  che  lavora  adagio  ma  sicuramente,  che  indebo- 
lisca impercettibilmente  il  forte  che  le  si  oppone  e  conforta  mira- 
bilmente il  debole  che  a  lei  si  affida;  che  innalza  l'umiliato  e  umilia 
il  superbo;  la  giustizia,  una  volta  trionfante,  abolirà  anche  le  ini- 
quità imposte  alla  nostra  patria.  Forge  noi  vecchi  non  vedremo  più 
questo  trionfo  e  questo  risorgimento;  nondimeno  noi  uniremo  fino- 
all'ultimo  fiato  la  nostra  fede  e  il  nostro  lavoro  a  quello  dei  nostri 
figli  e  nipoti,  destinati  a  vedere  un  avvenire  migliore. 

Alberto  Berzeviczy. 

Nota.  —  Abbiamo  di  buon  grado  accolto  il  cortese  invito  del  nostro  illustre- 
amico  e  collaboratore,  l'on.  Alberto  Berzeviczy.  fervido  studioso  delle  cose  ita- 
liane, che  in  Ungheria  fu  già  Ministro  della  Pubblica  Istruzione,  Presidente 
della  Camera  dei  Deputati  e  Presidente  dell'Accademia  delle  Scienze.  Noi  siamo 
ben  lieti  di  conoscere,  dalle  sne  pagine,  il  punto  di  vista  dell'Ungheria;  ma,  senza 
recriminare  sul  passato,  ci  sia  consentito  ricordare  che  il  trattato  della  TripHoe 
Alleanza  era  puramente  difensivo:  che  Germania  ed  Austria  si  decisero  ad  una 
guerra  offensiva  senza  alcuna  intesa  preventiva  coli' Italia  che  veniva  perciò  a 
riacquistare  la  sua  piena  libertà  d'azione.  Ma  oggidì  formuliamo  anche  noi, 
col  nostro  eminente  amico,  l'augurio  cordiale  di  migliori  rapporti  fra  l'Italia 
e  l'Ungheria  per  il  bene  reciproco  e  nell'interesse  della  pace  mondiale. 

.V.  .4. 


TRA  LIBRI  E  RIVISTE 


I  nostri  editori.  Loescher-Chiantore  —  Un  libro  fortunato  —  Onoranze  a  Sir  James  Fra- 
zer  investigatore  dei  riti  prisco-Italici  —  I  consigli  di  un  giornalista  —  Il  teatro  e  i 
fanciulli  —  Caserme  tedesche  —  Per  la  cultura  nazionale  —  Usanze  della  società  italina 
nel  Seicento  —  Amburgo. 


I  nostri  editori. 
Loescher-Chiantore. 

C'è  stato  un  periodo,  nella  storia 
della  nostra  editoria,  non  saprei  se 
dovuto  a  mancanza  di  iniziativa  negli 
italiani  o  piuttosto  a  ragioni  politiche, 
nel  quale  alcuni  stranieri  di  mente 
agile,  e  nelle  loro  azioni,  spicci  e  sbri- 
gativi, entrano  in  Italia,  vi  piantano 
risolutamente  tenda  e  famiglia  e  ben 
presto  raggiungono  —  attivi  e  lavora- 
tori —  il  benessere  e  la  fama. 

Quando  Ermanno  Loescher  nel  1855 
acquistava  a  Torino  il  negozio  del  suo 
connazionale  Gustavo  Hahman,  egli 
probabilmente  non  immaginava  che 
Torino  sarebbe  stato  per  lui  un  centro 
di  attività  straordinaria  e  la  sede  della 
sua  fortuna. 

Ermanno  Loescher  è  certo  un  tede- 
sco: e  di  quelli  di  stampo  antico,  ar- 
cigni e  duri:  e  pur  tuttavia  sente  su- 
bito che  Torino  non  è  Lipsia  e  che 
egli  potrà  bensì  giovarsi  dei  metodi 
commerciali  della  sua  razza,  ma  con 
discrezione  e  con  calcolo  :  che  si  in- 
travvedano,  ma  non  si  vedano,  che  si 
sentano  presenti,  ma  non  pesino. 

E  poiché  è  un  uomo  di  senno  e  d'in- 
gegno, ci  riesce.  Comincia  con  l'intro- 
durre libri  tedeschi  e  fa  tradurre  gram- 
matiche latine  e  greche  di  tedeschi. 
Sulle  prime,  resta  libraio:  e  poiché 
vede  che  una  sola  libreria  non  gli  ba- 
sta, crea  succursali  a  Roma  e  a  Fi- 
renze, attivando    un   commercio  labo- 


rioso e  attento,  del  quale  in  Itaha  fin 
allora  mancavano  esempi. 

Poi,  come  ho  detto,  venne  la  Casa 
Editrice.  11  Loescher  non  la  fonda  su- 
bito naturalmente.  E'  tedesco  :  cioè 
oculato  e  non  precipitoso.  La  crea  nel 
'67  quando  l'esperienza  fatta  come 
libraio  nel  nostro  paese,  gli  dà  fidanza 
che  non  perderà  tempo:  e  che  anzi 
aumenterà  intorno  a  sé  l'attenzione  dei 
dotti  e  gioverà  sul  serio  agli  studi 
italiani. 

Certo  i  suoi  primi  passi  —  ed  era 
naturale  che  così  fosse  —  furono  verso 
una  produzione  scolastica  e  cioè  red- 
ditizia. Ma  saremo  tutti  d'accordo  nel- 
l'elogiarlo,  poiché  egli  è  il  primo  in 
Italia  che  offre  alle  scuole  una  «  Bi- 
blioteca classica  »  di  autori  greci  e  la- 
tini affidati  alle  cure  dei  più  valenti 
filologi  nostri:  la  quale  rappresentò  il 
primo  tentativo  (più  tardi  imitato  con 
successo  dal  Giusti,  dall'Albrighi  Se- 
gati, dal  Paravia,  ecc.)  di  emancipa- 
zione dalla  Germania,  dalla  quale  ve- 
nivano, come  è  noto,  i  libri  di  testo 
più  accreditati. 

Ma  egli  non  doveva  fermarsi  a  que- 
sta prima  prova:  e,  dopo  la  pubblica- 
zione di  varie  grammatiche  e  dizionari 
(sono  ancora  adottati  i  suoi  Curtius  e 
Schultz),  egli,  che  amava  la  cultura 
con  passione  di  umanista  e  che,  come 
dicemmo,  non  agiva  a  solo  scopo  di 
lucro,  aiutò  disinteressatamente  l'opera 
dei  nostri  studiosi  più  zelanti  e  capaci, 
iniziando   quelle  pubbhcazioni  di  alta 


TRA   LIBRI  E  RIVISTE 


289 


cultura  che  gli  dettero  una  fama  mon- 
diale. Basti  ricordare  le  Origini  del 
teatro  ttaiiano  del  D'Ancona,  capola- 
voro di  esegesi  storica  e  di  sintesi 
critica  e  insieme  linda  ed  accurata  fa- 
tica tipografica  personalmente  guidata 
e  seguita  dal  Loescher.  E  la  Vita  del 
Tasso  del  Solerti,  in  tre  grossi  volumi 
e  poderosi,  con  cliché,  note,  appendici: 
uno  più  massiccio,  gli  altri  due  più 
snelli,  ma  di  un  insieme  armonico  e 
tipograficamente  perfetto.  E  le  storie 
delle  letterature  del  Finzi  e  del  Ga- 
spàry,  i  testi  degli  studi  mediovali 
della  filologia  romanza,  le  opere  criti- 
che del  Bertana  sull'Alfieri,  e  del  Re- 
nier  e  di  altri  sui  temi  più  vivi  della 
nostra  letteratura.  Anche  Tommaseo, 
che  è  pure  agli  ultimi  anni  della  sua 
vita,  entra  in  casa  Loescher:  e  quel 
volume,  per  quanto  oggi  odori  di  an- 
tico, vedi  come  il  Loescher  lo  abbia 
curato  e  vezzeggiato,  sebbene  sia  uno 
dei  primi  da  lui  editi. 

Opere  varie  e  curiose  nascono  di 
continuo  per  i  tipi  della  Casa.  Appas- 
sionato delle  imprese  ardue  e  di  lunga 
durata,  egli  accoglieva  molte  proposte 
che  altri  editori  avevano  respinto  senza 
esitazione.  La  Rivista  di  Filologia 
classica,  L'Archivio  glottologico.  Il 
Giornale  storico  della  letteratura  ita- 
liana, Les  Archives  italiennes  de  bio- 
logie sono  tante  tappe  del  suo  cam- 
mino: e  se  anche  accolte  favorevol- 
mente dagli  studiosi  di  tutto  il  mondo, 
non  redditizie. 

Mortigli  i  figli,  egli  continuò  tenace 
il  suo  lavoro  :  accrescendo  di  continuo, 
ma  senza  fretta,  ed  anzi  con  molta 
oculatezza  e  calma,  il  suo  già  impor- 
tante catalogo:  finche  la  morte,  dopo 
una  malattia  non  lunga,  lo  strappò  al 
lavoro  il  22  novembre  del  1892. 

Gli  successe  la  moglie  Sofia  Ran- 
chenegger,  la  quale,  sebbene  nuova  al 
commercio,  seppe  subito,  con  l'appog- 
gio della  propria  cultura  e  aiutata  da 
un  intelletto  acuto  e  duttile,  prendere 
posto  nella  azienda  e,  anziché  disper- 
dere, accrescere  il  patrimonio  spiri- 
tuale che  il  marito  le  lasciava.  Erman- 


no Loescher  era  tedesco:  ed  ella  era 
anche  tedesca  :  ma,  come  Ermanno 
s'era  fatto  italiano  fino  a  diventare  uno 
degli  editori  nostri  più  eletti  e  a  pro- 
pugnare persino  la  fondazione  di  un 
istituto  che  unisse  gli  sforzi  editoriali 
di  tutta  Italia,  l'Associazione  Tipo- 
grafica Libraria,  ed  a  fondare  la  Bi- 
bliografia italiana,  così  ella,  la  vedova, 
sa  conservare  il  tipo  alle  edizioni  della 
Casa  con  fedeltà  :  arrricchendo,  oltre 
il  ramo  scolastico,  gli  altri  rami  più 
onorevoli  senza  dubbio,  ma  quasi  pas- 
sivi, della  Casa. 

Vendette  bensì  i  negozi,  perchè  il 
commercio  spicciolo  non  le  piaceva; 
ma  alla  Casa  Editrice  si  dedicò  con 
passione  e  con  zelo,  fino  a  studiare 
scrupolosamente  anche  l'estetica  este- 
riore delle  opere  che  pubblicava:  nella 
quale  fatica,  già  le  giovava  il  consiglio, 
l'aiuto  e  l'intelligenza  di  Giovanni 
Chiantore. 

Da  trent'anni  e  più  il  Chiantore  vi- 
veva in  quella  atmosfera  di  lavoro: 
prima  procuratore  di  Loescher,  poi, 
più  tardi  con  la  vedova,  direttore  del 
ramo  editoriale  :  e  vi  viveva,  diciamolo 
subito,  con  tutte  le  sue  energie,  pas- 
sionalmente. La  vedova,  morendo,  legò 
a  lui  per  testamento,  con  munifica  ge- 
nerosità, la  sua  Casa  Editrice.  Durante 
la  guerra,  e  negli  anni  immediatamente 
succeduti  alla  conflagrazione,  Giovanni 
Chiantore  dimostrò  subito  nelle  inten- 
zioni e  nei  primi  passi  la  propria  ge- 
nialità ed  anche  il  proprio  ardimento. 
Del  resto,  anche  negli  ultimi  anni  della 
gestione  della  vedova,  si  può  vedere 
nelle  edizioni  Loescher,  non  direi  un 
ringiovanimento,  ma  certo  una  mag- 
giore modernità  nei  tipi  ;  un  gusto 
d'impaginazione,  insolito  nel  libro  Loe- 
scher, che  è  sempre  stato  un  po'  ar- 
cigno e,  direi,  freddo  ;  e  infine  una 
maggiore  agilità  nella  scelta  delle  opere 
e  dei  nomi.  Ci  sentivi,  insomma,  là 
dietro,  la  mano  di  un  uomo  affezio- 
nato alla  tradizione  nostrana:  che  s'era 
fatto,  più  che  sulle  edizioni  tedesche, 
sulle  nostre  :  e  magari  sulle  più  pure 
e  antiche. 


290 


TRA    LIBRI    E    RIVISTE 


Oggi,  che  Giovanni  Chiantore  ha 
pubblicato  moltissimi  libri  col  suo  no- 
me (e  si  vedano  VEros  del  Bignome 
e  le  riedizioni  del  Graf  recentissime), 
curati  e  studiati  anche  nei  particolari 
esterni  da  lui,  questa  convizione  di- 
venta più  fondata  :  e  noi,  poiché  egli 
ci  promette  oltre  che  ristampe  di  opere 
Loescher  esaurite,  anche  studi  nuovi 
di  filosofia  classica,  di  letteratura  ita- 
liana e  straniera,  di  testi  per  le  scuole, 
aspettiamo  con  fede  che  la  ditta  Loe- 
scher, ora  scomparsa,  diventi  del  tutto 
italiana  nella  veste  esteriore  e  nel  con- 
tenuto :  cosicché  i  due  nomi,  del  fon- 
datore e  del  successore,  si  confondano 
un  giorno  e  solo  si  possa  dire,  poiché 
questa  attività  si  svolse  del  resto  in 
Italia,  che  essa  è  se  non  d'origine,  al- 
meno nei  risultati,  nostra. 

Un  libro  fortunato. 

E  uscita  una  nuova  edizione  —  e 
non  una  nuova  ristampa  —  del  Ma- 
nuale delle  Scienze  delle  Finanze  di 
Federico  Flora,  libro  meritatamente 
fortunato.  Nato  nel  1893,  ebbe  dopo 
dieci  anni  la  seconda  edizione:  e  as- 
sicurò un  successo  che  lo  spinse  a  più 
frequenti  edizioni.  La  sesta  segue  a 
due  anni  la  quinta,  che  era  molto  am- 
pliata, e  non  farà  tardare  molto  la  set 
tima,  perché  il  libro  fu  organicamente 
concepito,  logicamente  diviso,  chiara- 
mente scritto,  dottamente  illustrato, 
praticamente  svolto. 

La  scienza  pura  dà  la  base;  le  ne- 
cessità della  vita,  e  la  legislazione  po- 
sitiva gli  sviluppi,  ora  rispondenti  alle 
leggi  severe  delle  scienze,  ora  da  essa 
divergenti,  per  poi  dover  ritornare 
—  provando  e  riprovando  —  alle  fonti 
salubri.  La  lunga  guerra,  e  la  finanza 
dura  (che  con  rapida  cresciuta  e  con 
adattamenti  e  spedienti,  accettati  e 
spesso  non  discussi  dai  parlamenti) 
dalla  guerra  immane  e  costosa  ebbe 
origine  e  svolgimento,  fece  ricercare 
tutti  i  mezzi  per  alimentare  il  Tesoro, 
colpì  ogni  cespite  e  impose,  e  sovrim- 
pose in  ogni    maniera;  e  trovò   nelle 


ricchezze  e  nei  profitti,  spesso  ecces- 
sivi, della  guerra,  base  e  occasione  a 
nuove  tassazioni.  Le  spese  di  Stato 
cresciute  a  miliardi,  imposero  la  ne- 
cessità di  entrate  a  miliardi,  il  bisogno 
urgente  di  prestiti,  e  l'aumento  degli 
interessi  e  l'emissione  a  getto  continuo 
dei  buoni  del  tesoro.  L'economia  eu- 
ropea fu  sconvolta,  e  la  finanza  fu  con 
essa  sconvolta:  New  York  diventò  la 
capitale  finanziaria  del  mondo  agitato, 
gli  Stati  Uniti  creditori  e  padroni,  la 
pace  sospirata  («  la  da  molti  anni  so- 
spirata pace  »  di  Dante)  finalmente  con- 
clusa, non  fece  cessare  la  guerra  ;  le 
tariffe  doganali  furono  rivedute,  il  pro- 
tezionismo fece  nuove  conquiste.  Ven- 
nero, con  la  pace  le  difficili  liquida- 
zioni con  altre  lotte  internazionali,  e 
le  nuove  categorie  di  spese  ingenti, 
gli  interessi  passivi,  gli  aiuti  ai  muti- 
lati e  agli  orfani,  le  ricostituzioni  eco- 
nomiche delle  Provincie  invase,  i  ri- 
medi empirici  alla  disoccupazione,  in- 
fine le  pensioni  di  guerra,  problema 
grave  codesto  che  le  altre  guerre  non 
avevano  avuto  e  che  questa  guerra 
impose,  e  impone,  a  tutti  gli  Stati  e 
con  gravame  non  prima  ben  calcolato, 
ed  ogni  anno  crescente. 

La  situazione  finanziaria  dell'  ItaHa 
—  uscente  vittoriosa  dalla  guerra,  e 
di  più  riuscita  a  compiere  la  sua  uni- 
tà —  fu  ed  é  grave,  e  va  curata.  Ha 
spesi  118  miliardi  cioè  tutta  la  sua 
ricchezza,  e  deve  ricostituirla. 

La  sua  situazione  finanziaria  fu  la 
più  aspra  tra  tutte  quelle  delle  nazioni 
civili;  i  suoi  sacrifizi  enormi;  ma  lo 
spirito  patriottico  si  serba  alto  e  di- 
sposto a  tutto  per  la  salvezza  della 
patria,  a  condizione  di  colpire  giusto 
e  di  non  disperdere  in  vane  erogazioni 
i  milioni  faticosamente  raccolti. 

Il  libro  del  Flora  dà  la  scienza  e  la 
pratica  :  e  tutto  questo  stato  di  cose 
illumina:  studia  le  leggi  nuove  estere 
e  le  nostre  :  le  controlla  con  l'esame 
critico,  le  spiega  con  le  necessità  pra- 
tiche ;  le  collega  con  la  fiducia  nell'av- 
venire. 

La   sesta    edizione   (che  chiude  col- 


TRA   LIBRI   E   RIVISTE 


291 


capitolo  sulle  finanze  locali,  e  sente  il 
peso  di  questo  nuovo  ed  urgente  pro- 
blema) è  libro  degno  di  lode,  è  utile 
a  tutti,  studiosi  e  uomini  politici,  mae- 
stri e  scolari,  giornalisti  ed  economisti, 
perchè  dà  le  notizie  delle  leggi  posi- 
tive, i  dati  raccolti  dai  documenti  par- 
lamentari stranieri  e  nostrani,  la  sin- 
tesi delle  vicende  passate;  e  ben  porta 
in  testa,  e  bene  illustra,  la  grave  sen- 
tenza di  Tacito  :  «  Ncque  quies  sine 
armis,  neque  arma  sine  stipendts,  ne- 
que  stipendia  sine  tributis  haberi  sue 
sunt  r>.  {L.  Rava). 

Onoranze  a  Sir  James  Frazer 
investigatore  dei  riti  prisco-italicl. 

Nel  grande  anfiteatro  della  Sorbonne, 
dinanzi  a  migliaia  di  dottori,  studenti 
e  professori  delle  varie  Facoltà,  il  Pre- 
sidente della  Repubblica  francese  Mil- 
lerand,  il  Ministro  dell'Istruzione  Leon 
Bérard  e  il  venerando  rettore  Appel, 
conferivano  il  dottorato  Honoris  causa 
a  Sir  James  Frazer,  fellow  dell'  Uni- 
versità di  Cambridge  e  professore  di 
antropologia  a  Liverpool  ;  illustratore 
di  Pausania  (la  guida  Baedecker  del 
mondo  antico)  ed  autore  di  Golden 
Boughe,  opera  in  20  volumi  che  rias- 
sume ed  illustra  e  documenta,  qual 
miniera  inesauribile  di  raffronti  mo- 
derni, tutte  le  credenze  superstiziose 
e  gli  errori  degli  antichi  trasmessi  in 
retaggio  ad  una  umanità  che  tenta  li- 
berarsi dalle  tenebre  per  guardare  in 
faccia  al  vero. 

La  mirabile  opera  di  Sir  James  Fra- 
zer ha  inizio  tra  i  Colli  albani,  dove 
all'ombra  misteriosa  delle  querele  ri- 
flesse nel  lago  di  Nemi,  vigila  il  Rex 
Nemorensis  aspettando  la  morte  dal 
suo  successore. 

Se  nel  medio  evo  un  grande  poeta 
italiano,  onorato  dalla  Facoltà  di  Pa- 
rigi, sognò  indarno  di  cingere  una 
corona  di  lauro  nella  sua  patria  in- 
grata ;  non  crediamo  necessario  che 
la  ingratitudine  o  la  ignoranza  degli 
Atenei    moderni  trascuri  chi   rischia- 


rava con  la  luce  della  scienza  il  nostro 
passato  più  remoto  e  ne  traeva  am- 
maestramenti utili  all'umanità  dell'av- 
venire. 

I  consigli  di  un  giornalista. 

Nel  Newspaper  World  del  21  otto- 
bre scorso  si  leggeva  l'avviso  dato 
da  un  giornalista  al  pubblico,  in  gene- 
rale, e  ai  colleghi  in  particolare  :  «  Vo- 
lete passare  utilmente  le  lunghe  serate 
invernali  ?  Studiate  la  grammatica  !  ».. 
La  lingua  si  corrompe.  E  questo  il 
grido  d'allarme  che  si  parte  da  scuole 
e  università,  in  Inghilterra. 

Gli  studiosi  vedono  con  dolore  le 
infiltrazioni  del  linguaggio  commer- 
ciale nella  lingua  scritta,  e  leggono 
con  rammarico  i  giornali  quotidiani 
che  si  abbellano  di  fioriture  linguisti- 
che eccezionali. 

È  nato  di  recente  «  The  English  lan- 
guage  Club  »,  (per  opera,  fra  gli  al- 
tri, anche  di  Lord  Bryce)  ritrovo  di 
elezione,  dove  è  solo  permesso  di  par- 
lare la  lingua  inglese  più  pura,  leggere 
i  libri  meglio  scritti  e  ascoltare  (le 
conferenze  sono  pubbliche)  letture  di 
passi  scelti,  fatte  da  insegnanti  di  elo- 
cuzione, o  esposizioni,  su  argomenti 
letterari;  sempre  afladate  a  persone 
dalla  dizione  perfetta.  Parlare  e  scri- 
vere bene  la  propria  lingua  non  è 
davvero  di  tutti.  Un  eccellente  scrittore 
americano,  ascoltava  un  giorno  le  ac- 
cuse che  un  italiano  moveva  alla  po- 
litica del  Presidente  Wilson  ;  a  un  certo^ 
punto  l'americano  interrompe  il  di- 
scorso esclamando  :  «  Avete  piena- 
mente ragione,  ma  Wilson  scrive  un 
così  buon  inglese  che  mi  duole  molto 
abbia  dei  torti  verso  l'Italia!  )• 

Il  teatro  e  i  fanciulli. 

The  Chiswich  Education  Comntitiee,. 
qualche  cosa  come  un  comitato  per 
l'educazione  popolare,  ha  inaugurato,, 
in  Londra,  una  serie  di  spettacoli 
diurni  per  la  gioventù.  Si  recitano  l 
drammi  dello  Shakespeare,  commedie 


292 


IRA    LIBRI    E    HIVISIE 


di  buoni  autori  del  tempo  di  Elisa- 
betta, tragedie  classiche.  Di  tanto  in 
tanto  vi  si  tengono  anche  delle  letture, 
illustrate  da  proiezioni,  sopra  vari  ar- 
gomenti di  cultura. 

I  posti  costano  appena'sessanta  cen- 
tesimi e,  solo  i  ragazzi,  vi  sono  am- 
messi. Il  sistema  è  stato  criticato  dal 
punto  di  vista  speciale  del  non  essere 
necessario  d'invogliare  la  gioventù  al 
divertimento.  Ma  in  opposizione  a  que- 
sta unica  nota  di  biasimo  si  levano  a 
coro  di  lode  le  voci  degli  educatori. 
I  giovani,  educati  al  bello  dell'arte, 
rifuggono  da  quelle  rappresentazioni 
nelle  quali  ogni  forma  di  bellezza  esula 
per  lasciare  il  posto  a  sciocchezze  più 
o  meno  sconce. 

II  vantaggio  morale  si  aggiunge  a  quel- 
lo inarrivabile  di  piegare  l'anima  e  l'in- 
telletto della  gioventù  alla  compren- 
sione del  bello  nelle  sue  forme  più 
elette,  recando  così,  anche  nella  vita 
degli  umili,  un  elemento  vero  di  gioia 
sana  e  feconda. 

Caserme   tedesche. 

Poiché  il  Landtag  prussiano  chiede 
due  miliardi  di  marchi  per  l'arruola- 
mento e  l'armamento  della  polizia  re- 
pubblicana, i  deputati  di  opposizione 
notano  che  il  Governo  non  fa  econo- 
mie ma  ricostruisce  pian  piano  un  se- 
condo esercito  mediante  il  quale  la 
Germania  spera  cancellare  d'un  colpo 
i  suoi  debiti. 

Le  Commissioni  di  controllo  vanno 
persuadendosi  del  grave  errore  di  non 
far  nulla  per  sanare  il  popolo  tedesco 
dalla  infatuazione  militarista,  facendo 
servire  a  indennità  di  guerra  i  mate- 
riali degli  edifici  dove  si  preparava  la 
realizzazione  di  un  sogno  di  egemonia 
e  dove  ancora  oggi  si  tenta  di  orga- 
nizzare quello  che  sarà  tra  vent'anmi 
l'esercito  della  rivincita,  armato  di  stru- 
menti scientifici  ben  più  formidabili 
dei  420,  delle  Berte  che  colpiscono  a 
120  chilometri,  dei  sottomarini  più  ve- 


loci dei  tonni  e  dei  Fokker  da  bom- 
bardamento più  svelti  delle  rondini. 

La  Germania  dichiara  di  non  saper 
come  pagare  le  indennità  di  guerra; 
ma  poiché  il  suo  esercito  è  diminuito 
da  5,000,000  a  soli  100,000  uomini  (vale 
a  dire  ai  due  per  cento),  il  Governo 
tedesco  può  far  servire  alla  ricostru- 
zione delle  città  devastate  dalle  arti- 
glierie e  dalle  truppe  germaniche,  i 
materiali  e  l'arredamento  degli  enormi 
fabbricati  che  servivano  da  alloggio 
e  da  scuole  o  magazzini  agli  eserciti 
imperiali. 

Oltre  a  pagare  in  natura  una  parte 
delle  indennità,  la  Repubblica  tedesca 
non  dovrebbe  mantenere  centinaia  di 
edifici  colossali  e  libererebbe  il  buon 
popolo  tedesco  dalla  malefica  sugge- 
stione inumana  delle  caserme  che  lo 
avevano  pervertito. 

Qualche  miliardo  in  oro  è  rappre- 
sentato dal  solo  costo  delle  tegole  e 
lamiere  di  copertura;  dai  tubi  e  con- 
dotti di  rame  e  di  piombo;  dagli  im- 
pianti elettrici  e  di  riscaldamento  ;  dai 
mobili  e  da  più  di  cinque  milioni  di 
letti  e  brande  militari,  con  materassi 
o  imbottite  di  lana  ;  dalle  porte  e  fine- 
stre vetrate;  dai  pavimenti  e  ferramenta 
e  cancelli,  ancor  nuovi  e  intatti,  negli 
edifici  dei  quali  la  Germania  non  ha 
più  bisogno,  e  cioè  le  caserme,  i  co- 
mandi, le  intendenze  generali,  gli  uffici 
dei  presidi,  le  accademie  militari  e 
scuole  di  guerra,  le  fabbriche  d'armi, 
le  fonderie,  i  laboratori  di  artiglieria, 
le  palestre  militari,  i  tiri  a  segno,  i 
magazzini  militari,  le  polveriere  ed  i 
depositi  di  vestiario  e  di  proviande,  gli 
ospedali  e  carceri  militari. 

La  Germania  potrebbe  anche  cedere 
in  conto  dei  suoi  debiti  di  guerra  il 
materiale  di  ripristino  delle  sue  ferro- 
vie strategiche,  a  cinque  coppie  di 
binari,  collocate  l'anno  prima  del  1914 
in  direzione  del  Belgio,  e  logorate 
giorno  e  notte  dai  convogli  di  truppe 
e  munizioni  del  «  pacifico  »  esercito 
invasore,  che  tornavano  carichi  di  roba 
tolta  a  cento  antiche  città  devastate. 


TRA    J  TBRI    E    RIVISTE 


293 


Per  la  cultura  nazionale. 

È  uscita  la  seconda  edizione  della 
Dissertazione  Pedagogica,  bel  volume 
di  oltre  400  pagine,  che  è  un'altra  delle 
opere  educative  che  Eduardo  Taglia- 
rtela dedica  alla  cultura  nazionale. 
Fonte  d'idee,  suggestiva,  semplice,  or- 
dinata, ha  la  vigoria  sapiente  della 
guida  al  pensiero  e  alla  riflessione  e 
la  volontà  riflessa  di  chi  presenta  pro- 
blemi da  risolvere,  mettendo  sulla  buona 
strada  i  giovani,  e  forse  anche  gl'in- 
segnanti. E'  quasi  una  psicologia  in 
azione,  le  cui  funzioni  suscitano  le 
forze  mentali  e  le  dirigono  gradata- 
mente a  dissertare  sopra  argomenti  la 
cui  trama  risolutiva  è  lieve  ed  elegante 
e  serve  perciò  a  intensificare  lo  svi- 
luppo ideale  e  formale  di  temi  che 
nella  mente  dell'Autore  hanno  già  quel 
segreto  svolgimento,  il  quale  dev'es- 
sere in  qualche  modo  divinato,  trovato 
e  rivelato  dal  giovane.  Chi  ben  guardi 
l'antologia  dei  problemi  nasconde  il 
trattato  teorico;  il  buon  senso  del  te- 
ma cela  la  filosofia  dei  principi  ;  l'or- 
ditura della  dissertazione  offre  qua  e 
là  manchevolezze  e  vuoti  che  l'allievo 
osserverà  e  colmerà  con  gioia  e  sod- 
disfazione. E  in  queste  occulte  prepa- 
razioni il  Taglialatela  è  stato  grande 
maestro,  perchè  mentre  sembra  spia- 
nar le  asperità  del  sentiero,  esige  che 
del  sentiero  e  del  paesaggio  e  sin  del 
sottosuolo,  a  dir  così,  nulla  si  trascuri 
o  s'ignori.  Metodi,  questi,  nuovissimi 
per  noi,  che  pur  abbiamo  eminenti  pe- 
dagogisti, e  ben  accolti  all'estero,  dove 
la  disciplina  ha  assunto  importanza 
scientifica  di  prim'ordine.  Importanza 
che  appunto  il  Taglialatela  ha  sentito 
e  fa  sentire  nei  duecentododici  temi, 
tutti  interessanti,  curiosi,  divertenti, 
riflessivi,  tutti  atti  ad  esercitar  concor- 
demente le  facoltà  mentali  e  a  tener 
vive  tradizioni  patrie,  entusiasmi  pel 
bene,  volontà  di  fermi  propositi,  amore 
per  ogni  sentimento  umano,  e  per  ogni 
cosa  bella,  ansia  di  salire  verso  le  mi- 
steriose anime  dei  bimbi  per  recarvi 
luce    di    fede,  di  affetti,   di    patria,  di 


scienza.  Il  libro,  che  ha  pagine  scelte 
da  grandi  scrittori,  ha  pur  quelle  ano- 
nime dell'Autore,  non  meno  belle;  e 
si  leggono  lietamente  con  profitto,  an- 
che da  noi  grandi;  i  quali,  se  avremo 
per  poco  il  desiderio  di  metterci  al 
posto  dei  giovani  e  di  svolgere  meglio 
o  più  ampiamente  quegli  argomenti,  ci 
accorgeremo  con  quanta  arguta  finezza 
questo  maestro  dei  maestri  ha  saputo 
scegliere  appunto  quelle  pagine  per 
condurre  i  discepoli  a  gustare,  a  in- 
terpretare, a  completare,  e  in  fine,  a 
tentar  di  eguagliare  i  vecchi.  Libro 
dunque  che  fa  e  rifa  la  gente,  anzi,, 
se  vi  piace,  la  gente  per  bene. 

Usanze  della  società  italiana 
nel  Seicento. 

La  Cornell  University  di  New  Haven 
(America)  pubblica  ancor  uno  degli  in- 
teressanti e  bei  volumi  che  formano 
la  delizia  dello  studioso,  e,  questa  volta, 
la  materia  trattata  è  italiana  (Thomas 
Frederick  Crane,  Italian  Social  Cu- 
stoms  of  the  Sixteenth  Century.  Yale 
University  Press.  New  Haven). 

11  titolo:  Italian  Social  Custotns  of 
the  Sixteenth  Century  non  direbbe  tutta 
l'importanza  del  lavoro  del  prof.  Crane 
se  l'aggiunta  and  their  influence  on  the 
Itteratures  0/  Europe,  non  ne  specifi- 
casse la  particolare  direttiva. 

La  società  (nel  senso  da  noi  dato 
alla  parola  quando  ci  si  riferisce  alle 
relazioni  che  corrono  fra  persone  aventi 
in  comune  tendenze,  gusti,  usanze)  era,^ 
pressoché,  ignota  agli  antichi,  e  si  con- 
nette al  mondo  della  Cavalleria  e  ai 
costumi  feudali.  Il  prof.  Crane,  nel  suo 
ricco  e  documentato  studio,  si  propone 
di  dimostrare  come  queste  medesime 
costumanze,  venute  dal  Settentrione  e 
dalla  Provenza,  che  l'Italia  vede  fio- 
rire man  mano  alle  Corti  di  questo  o 
di  quel  Principe,  da  Federico  li  a  Ro- 
berto di  Napoli,  a  Lorenzo  il  Magni- 
fico, e  continuate  nelle  minori  Corti  dei 
nobili  signori  di  questa  o  di  quella 
contrada,  subirono  in  Italia  stessa  tali 
e  così  essenziali  modificazioni,  da  es- 


294 


TRA  LIBBI  E  RIVISTE 


sere  considerate  unicamente  come  im- 
portazione italiana,  quando  questi  me- 
desimi costumi  ritroviamo  adottati  in 
Francia,  Inghilterra,  Germania  e  Spa- 
gna, o  se  prendiamo  a  studiare  la  let- 
teratura che  ne  è  derivata. 

L'Autore,  dopo  essersi  indugiato  a 
considerare  le  cause  per  le  quali  la 
Provenza  può  ritenersi  la  culla  dei 
joce-partitz,  dei  tornei  poetici  e  dei 
dibattiti  sopra  argomenti  d'amore,  ci 
conduce  in  Sicilia  ove,  alla  Corte  di 
Federico  II,  fiorì  la  dilettosa  tenzone, 
e  dove  si  abbeUì  della  grazia  d'un  lin- 
guaggio nuovo. 

Dalla  Corte  di  re  Federico,  l'Autore 
passa  a  quella  di  re  Roberto  di  Na- 
poli ed  entra,  di  conseguenza,  a  par- 
lare del  Boccaccio  e  del  Filocolo  del 
quale  tratta  ampiamente.  Numerose 
sono  le  propaggini  di  questo  singolare 
componimento  del  Certaldese,  e  il  Crane 
ne  fa  una  rassegna  importante,  docu- 
mentata e  corredata  da  una  ricca  bi- 
bliografia. Le  sottili  questioni  propo- 
ste nel  Filocolo  da  cavalieri  e  dame, 
divengono  il  perno  intorno  al  quale  si 
sbizzarriscono  le  menti.  Le  riunioni 
del  tempo  si  animano  di  discussioni 
gaie,  di  agili  ragionamenti  e  più  ardue 
meditazioni,  a  seconda  della  diversa 
inclinazione  di  questa  o  di  quella  adu- 
nanza, di  questo  o  di  quel  paese  e 
dell'umore  delle  differenti  persone,  poi- 
ché è  ben  chiaro  come  ogni  naturale 
tendenza  modifichi,  nel  senso  che  le  è 
proprio,  questo  o  quel  ragionamento. 
E'  la  teoria  degli  umori  che  Ben  Jon- 
son  analizza  così  sottilmente  nella  pre- 
fazione alla  prima  edizione  della  sua 
commedia  Every  Man  ont  of  his  hu- 
mour. 

11  Crane  considera  il  Paradiso  degli 
Alberti  di  Giovanni  Gherardo  da  Prato 
siccome  l'anello  di  congiunzione  fra  le 
vivaci  questioni  d'amore  che  si  svol- 
gono nel  Ftlocolo  e  le  discussioni  filo- 
sofiche sull'Amor  platonico,  fiorite  nella 
società  fiorentina  del  Seicento,  accanto 
agli  studi  più  severi  dell'Accademia. 

La  produzione  letteraria  del  periodo, 
avente    per  oggetto  usi,  costumi,  gio- 


chi, veglie,  trattenimenti,  vien  passata 
in  rassegna  dall'Autore  il  quale  sce- 
vera a  mano  a  mano  gli  argomenti,  li 
sviluppa,  li  riassocia,  U  snoda  e  di- 
stende finche  dichiara  nettamente  come 
debba  considerarsi  italiano  lo  spirito 
che  permea  a  traverso  le  pubblicazioni 
letterarie  europee  aventi  per  soggetto 
gli  usi  e  le  costumanze  di  società, 
quegli  usi  che  dettero  origine  a  mani- 
festazioni simili  in  altri  paesi  d' Euro- 
pa, e  più  specialmente  in  Inghilterra 
ove  tanto  lustro  ne  derivò  alla  Corte 
dei  Tudor  —  in  Francia,  ond'ebbero 
origine  le  fastose  riunioni  e  le  gare  di 
spirito  all'  Hotel  de  Rambouillet  —  in 
Germania,  dalla  Fruchtbringende  Ge- 
sellschaft  di  Nuremberg,  al  prezioso 
studio  dell' Harsdòrfer  —  fino  alle  imi- 
tazioni spagnole  dei  costumi  d' Italia, 
o  alla  vivace  letteratura  che  ne  venne 
di  conseguenza.  Ci  meraviglia  solo  che, 
in  mezzo  a  tanta  dovizia  di  ricerche 
su  quanto  concerne  veglie,  tratteni- 
menti, giochi,  libri  di  ventura,  indovi- 
nelli e  simili,  sia  sfuggita  all'Autore 
l'azione  esercitata  dall'opera  di  Andrea 
Aleiato.  Non  intendo  accennare  al  De 
Singulari  Certamtne,  poiché  il  Crane 
non  tratta  di  tenzoni  cruente,  ma  al- 
ludo bensì  al  volume  del' 'Aleiato  nel 
quale  si  parla  delle  quattro  fonti  degli 
emblemi  (pubblicato  a  Milano  nel  1522, 
Asburgo  1531,  Parigi  1534,  Venezia 
1544)  che  può  considerarsi  come  il 
progenitore  di  tutti  gli  Etnblem  books, 
(a  cominciare  ósiìV  Emblentata,  1565, 
dell'olandese  Adriano  Junius),  donde 
derivarono,  in  gran  parte,  quelle  rap- 
presentazioni allegoriche,  sciarade  e 
simili  che  si  usavano  nelle  liete  adu- 
nanze e  nei  ricevimenti  (J.  K.  Floyer, 
Some  Emblem  books  and  their  writers, 
London). 

Anche  la  parte  che  riguarda  lo  nu- 
merose accademie  del  mezzogiorno 
d'Italia,  e  principalmente  della  Sicilia, 
non  é  che  fugacemente  trattata. 

La  materia  ricercata  dal  Crane  con 
tanto  amore,  e  svolta  con  singolare 
dottrina,  riesce  altamente  interessante 
se  consideriamo,  com'egli  del  resto  ci 


TRA  LIBEU  E  RIVISTE 


295 


avverte,  che,  di  salotto  in  salotto,  di 
Corte  in  Corte,  di  Accademia  in  Ac- 
cademia, il  pensiero  italiano  è  pene- 
trato dovunque  e  che  questa  azione 
del  pensiero  sul  pensiero  ha  vivificato 
gran  parte  della  letteratura  europea, 
{Anna  Benedetti). 

Amburgo. 

II  più  grande  porto  della  Germania, 
centro  alle  grandi  linee  di  navigazione 
che  riunivano  l' impero  tedesco  alle 
sue  colonie,  ed  a  tutte  ie  terre  abi- 
tate dell'estremo  Oriente  e  dell'estremo 
Occidente,  alle  coste  d'Africa  ed  a 
quelle  del  Nord  e  Sud  America,  del- 
l'Australia, della  Nuova  Zelanda  e  delle 
isole  del  Pacifico,  era  ridotto  durante 
la  guerra  in  silenzioso  abbandono. 
L'erba  cresceva  nelle  strade,  la  rug- 
gine copriva  le  rotaie  sulle  banchine 
del  porto  deserto,  e  vecchi  facchini 
non  chiamati  sotto  le  armi,  sedevano 
oziosi  o  camminavano  malinconici  e 
pallidi,  stanchi  di  oziare. 

Oggi,  dopo  un  anno,  tutto  è  cam- 
biato nel  porto  di  Amburgo,  ridesta- 
tosi a  nuova  vita  ;  ogni  cosa  è  in  mo- 
vimento, con  macchinari  nuovi  ;  una 
ventina  di  grue  a  vapore  funzionano 
con  l'elettricità,  i  moli  vengono  prolun- 


gati; gli  scaricatori  non  fanno  obiezione 
a  tre  mute  di  otto  ore  ciascuna,  per 
non  interrompere  l' attività  portuale 
durante  la  notte. 

Il  rappresentante  di  una  grande  com- 
pagnia di  navigazione  inglese,  mi  fa- 
ceva notare  che  tutto  questo  fervore 
di  lavoro  ha  per  risultato  la  rapidità 
con  cui  le  navi  transatlantiche  vengono 
scaricate  e  ricaricate  e  m'indicava  un 
grande  piroscafo  vuotato  in  soli  tre 
giorni,  operazione  che  avrebbe  richie- 
sto non  meno  di  dieci  giornate  nel 
porto  di  Londra,  purché  non  piovesse. 
Gli  scaricatori  tedeschi  continuarono 
invece  a  lavorare  sotto  la  pioggia  fino 
a  lavoro  compiuto.  Tanta  speditezza 
vuol  dire  molto  per  l'armatore  obbli- 
gato a  tenere  le  navi  a  fuochi  spenti. 
Ed  è  naturale  ch'egli  prediliga  il  porto 
d'Amburgo;  quand'anche  il  marco  fosse 
meno  deprezzato,  nessuno  dei  porti  d'In- 
ghilterra potrà  competere  con  quello 
germanico,  a  menochè  gli  operai  in- 
glesi non  si  scuotano  d'attorno  l'indo- 
lenza ch'è  divenuta  una  delle  loro  ca- 
ratteristiche peggiori,  e  che  si  è  aggra- 
vata  da  quando  riscuotendo  grosse 
mercedi,  le  consumano  nelle  public 
houses   avvelenandosi   di  whisky  e  di 

cocktails. 

Nbmi. 


LIBRI  E  RECENTI  PUBBLICAZIONI 


V.  Cannaviello.  Nel  primo  cente- 
nario dei  moti  costituzionali  del  1820. 
Discorso  commemorativo.  —  Avelli- 
no,   1921. 

Gianna  Vita.  Il  fattore  economico 
nella  educazione  del  popolo.  —  Tori- 
no, Bocca,  1921.  L.  8. 

G.  M.  Colobi.  L'ombra  dei  lauri. 
Versi.  —  Torino,  S.  Fidali,  editore. 
L.  3. 

A.  Sarian.  Morfinismo,  cocaimsmo. 

—  Torino,  Rosenberg  e  Sellier,  1922. 
L.    7. 

Mario  Piix).  Paesaggi  con  figure. 
Ekiizione /speciale  a  cura  del  Comitato 
per  le  onoranze  a  Mario  Pilo.  —  Na- 
poli, Ricciardi,  1921. 

P.  Silva.  Studi  e  scorci  di  Storia. 

—  Firenze,  Le  Monnier,  1921.  L.  12. 
A.  Anzilotti.  Gioberti.  —  Firenze, 

Vallecchi.    L.    14. 

T.  Valenti.  Lo  specchio  e  la  rosa. 
Poesie.  —  Roma,  Casa  ed.  M,  Carra. 
L.  7.50. 

E.  Cucciou.  Dante  e  la  scuola.  — 
Fano,  Tipografia  Sonoiniana,  1921. 
L.  2. 

A.  Newton  Cook.  L'ora  della  lam- 
pada. Versi.  —  Società  Editrice  a  II 
Seminatore»,  Napoli,  Pavia,  Roma. 
L.  3. 

G.  Spagnoletti.  Falene.  —  Cam- 
pobasso, Colitti.  L.  6. 

A.  Cabtiglioni  Vitali.  Tutta  l'a- 
nima   Canti  riordinati.  —  Rovigo, 

1920.  L.  5. 

L.  DE  Anna.  Essais  de  Grammaire 
ni.<itoriqup  de  la  ìangue  Francois.  — 
Bologna.   Zanichelli.   L.    12.50. 

A.  R088AR0.  Il  Trentino.  Ai  giova- 
netti d'Italia.  —  Milano,  Vallardi, 
1922.    L.    5.50. 

A.  ToMASELU.  Epistolario  di  Mario 
Rapisardi.  —  Catania  Battiate,  1922. 
L.   15. 

A.  D'Alia.  Il  Belgio  nei  suoi  vari 
appetti,  con  prefazione  di  Vittorio 
Emanuele  Orlando.  —  Bologna,  Za- 
nichelli. L.  15. 

C.  Caduto.  Federico  Durga,  ro- 
manzo. —  Firenze,  Casa  editrice  <(  La 
Nave  ».  L.  7. 


F.  Savini.  Il  potere  secolare  del 
vescovo  in  Teramo  e  gli  inizi  del  co- 
mune cittcuìino,  la  pieve  e  la  corte, 
la  parrocchia  e  il  comune  rurale.  — 
Roma,  Tipografia  del  Senato,  1922. 
L.  30. 

F.  Paolieri.  Natio  borgo  sdvag- 
gio,  romanzo.  —  Firenze,  Valleoiii. 
L.  7. 

Grilli  Carlo.  Il  protezionismo  do- 
po la  guerra.  Estratto  dalla  «  Rivista 
Intemazionale  di  Scienze  Sociali  ». 
< —  Roma,  Coop.  Arti  Grafiche  Nazio- 
nale,  1921,  pag.   96. 

G.  F.  MooRE.  Storia  delle  religioni. 
Traduzione  di  G.  La  Piana,  professo- 
re di  Storia  della  Chiesa  nell'Univer- 
sità di  Harvard.  —  Bari^  Laterza. 
1922.  Duo  volumi.  L.  90. 

A.  Colautti.  La  nave  di  Dante. 
Per  la  sua  consacrazione  alla  Spezia 
nel  gennaio  MCMXIII.  —  Ferrara, 
Taddei.  L.  2. 

E.  Croce.  Foglie  al  vento.  —  Ro- 
ma, Tip.  Manuzio,  1921.  L.  3. 

A.  Gramatica.  Atlas  geographiae 
Biblicae  addita  brevi  notitio-  regio- 
num  et  locorum'.  —  Bergamo,  Istituto 
Italiano  d'Arti  Grafiche,  1921.  L.  10. 

G.  Pioli.  Giorgio  Tyrrell  e  U  suo 
epistolario.  —  Quaderni  di  «  Bily- 
chnis  »,  n.  5,  1921.  L.  4. 

0.  Meleaori.  Voli  nell'ombra.  Poe- 
ma lirico.  —  Pavia,  «  Il  Seminatore  ». 
L.   5. 

N.  De  Stefani.  Malati  di  passione. 
Romanzo  italiano.  —  Milano,  Boldini 
e  Castoldi,   1921,  L.  8. 

M.  Darzi.  Evalga.  Versi,  con  pre- 
fazione di  E.  Janni.  —  Firenze,  Bat- 
tistelli.  L.   10. 

A.  CoLATJTTi.  L'imperatore.  Ciclo 
napoleonico  di  sessanta  sonetti.  — 
Ferrara,   Taddei.   L.    10. 

A.  Neppi.  Le  ncvelh  di  Guy  de 
Maupassant.  —  Ferrara,  Taddei. 
L.  9. 

G.  Mereoith.  Vittoria,  romanzo. 
Traduzione  e  prefazione  di  P.  R»- 
BORA.  —  Firenze,  Battistelli.  1921. 
Due  volumi.  L.  18. 

M.  A.  Cantone.  Poesie.  —  Napoli, 
1922.  L.  2. 


UQO  Mrssiki,  RftponitabiU 


Roma  —  Dltt*  Armanl  dt  Mario  Oovrrtar. 


IL  CENTENARIO  DELLE  GASSE  DI  RISPARMIO  VENETE 


L'Italia  inizia  oggi  la  celebrazione  del  centenario  consacrato  alle 
sue  Casse  di  Rispamniio  colla  solennità  che  illustra  le  due  forti  isti- 
tuzioni di  Venezia,  di  Padova  e  quella  pur  fiorente  di  Castelfranco. 
È  consolante  lo  spettacolo  di  queste  modeste  attestazioni;  per  esse 
il  culto  della  previdenza  libera,  spontanea  si  collega  col  ricordo  di 
uomini  probi  e  sagaci,  i  quali,  col  massimo  disinteresse,  senza  nes- 
sun benefìcio  materiale,  persino  senza  riconoscenza,  senza  gloria 
(perchè  queste  nostre  istituzioni,  come  i  germi  sani  affidati  al  suolo 
della  Patria  fiorirono  oscure),  hanno  creato  le  scuole  elementari  della 
previdenza  popolare.  Quando  sorsero,  i  Governi  che  le  suggerirono,  i 
fondatori  che  le  amm-inistrarono,  non  sosi)ettavano  di  creare  una 
nuova  forma  di  credito  economico;  obbedivano  al  pensiero,  più  pio 
che  sagace,  di  accrescere  i  n>ezzi  dei  Monti  di  Pietà.  Solo  piìi  tardi 
quando  si  pensò  a  spezzare  questo  vincolo  che  le  opprimeva,  le  no- 
stre Casse  poterono  pigliare  il  libero  volo,  gareggiando  colle  migliori 
del  mondo  civile.  E  invero  due  grandi  correnti  si  determinarono  nei 
principali  popoli,  l'inglese  e  la  francese,  rappresentante  Stati  diversi 
nei  metodi  di  finanza  e  di  economia,  ma  uguali  nella  gestione  delle 
Casse  di  Risparmio.  I  denari  affidati  ad  esse  non  si  impiegavano  in 
operazioni  libere  di  credito,  ma  in  titoli  di  Stato,  e  in  Inghilterra  si 
volsero  con  felici  ordinamenti,  all'cimmortizzazione  del  debito  pub- 
blico. L'altro  metodo,  che  per  la  felicità  della  sua  riuscita,  quantunque 
seguito  in  altri  paesi,  potrenrmio  dire  italiano,  pur  collocando  con  spon- 
tanea scelta  in  titoli  di  Stato  una  quota  dei  risparmi,  la  maggior  parte 
ne  riversa,  come  una  benefica  rugiada,  in  fidi  opportuni  sui  campi, 
sui  traffici,  curando  con  somma  prudenza  la  colleganza  delle  scadenze 
dei  depositi  con  quelle  degli  affari.  Insigni  economisti  francesi,  alla 
testa  dei  quali  era  Leon  Say,  degno  erede  del  nome  di  uno  dei  fon- 
datori dell'economia  politica,  dopo  una  lunga  corrispondenza  con 
me  tenuta,  che  si  pubblicherà  fra  breve,  vennero  in  Italia,  studia- 
rono le  nostre  istituzioni,  segnatamente  le  Casse  di  Risparmio  e  le 
Banche  Popolari  dell'Emilia,  della  Lombardia,  del  Veneto  e,  tornati 
m  Francia,  promossero  quelle  sane  iniziative  tradotte  in  legge,  le 
quali  permettono  alle  Casse  di  Risparmio  di  aflBdare  una  parte  (an- 
cor troppa  piccola!)  dei  loro  depositi  a  Consorzi  Agrari,  a  Soda- 
lizi di  Case  Popolari  e  a  somiglianti  imprese  di  utilità  sociale. 
Leon  Say  ha  riassunto  in  un  magnifico  opuscolo,  pubblicato  nel  1883 

20  Voi.   CCXyi.  serie  VI  —  16  febbraio  1922. 


298  11.    CEMENAHIC)    delia:    CAsSt    DI    ...ol  A....Ì  lu    VhNKlfc 

col  titolo:    «  Dix  jouis  dans  la  Haute  Italie»,   i  risultati   di  questa 
feconda  missione,  ma  poiché  non  si  trattava  di  un  romanzo  sensar 
zionale,  non  ebbe  ancora  la  fortuna  di  una  traduzione,  che  si  at- 
tende e  onorerebbe  l'Italia.  OggkW  si  custodiscono  quasi  otto  miliardi 
n'elle  nostre  Casse  di  Risparmio  lil>ere,  ordinarie,  che  avevano  sol- 
tanto due  miliardi  e  ottocento  milioni  al  30  g-iugno  1914,  il  mese 
prima  che  scoppiasse  la  terril>ile  guerra,  E  siamo  testimoni  ed  asser- 
tori noi  Veneti  che  la  crisi  cagionata  dalla  cadutii  di  una  Banca,  i 
giusti  sospetti  suscitati  cTalle  temerità  di  Enti  sorti  airimprowiso 
con  nonni  non  meritati,  hanno,  come  in  altre  simili  contingenze,  rin- 
novata la  fiducia  incrollabile  delle  popolazioni  nei  nostri  magnifici 
salvadanai  fruttiferi.  Oh!  se  i  nostri  risparmiatori  non  attendessero 
per  dimostrar  siffatta  fiducia  le  rapine  dei  depositi!  Hanno  sul  luogo 
dove  lavorano,  traffìca,no,  costruiscono,  gnadignano,  soffrono  e  sperano 
gli  Istituti  offrenti  la  fida  ospitalità  ai  loro  risparmi,  ne  conoscono  gli 
amministratori  e  le  operazioni  :  le  Gasse  antiche  di  Venezia,  di  Pa- 
dova e  altrettali,  che  con  fiorente  giovinezza  sostengono  i  loro  cento 
anni,  la  Banca  Popolare  un  po'  meno  vecchia,  ma  non  meno  salda; 
perchè,  perchè  si  lasciano  strappare  i  sudati  frutti  del  loro  lavoro  da 
Banche  lontane,  che  col  rumore  delle  lodi,  spesso  non  sincere,  pren- 
dono il  loro  denaro  e  lo  impiegano  in  complicate  operaz.ioni,  talora 
miserabilmente  finite  nelle  voragini  della  Borsa?  Come  non  intendono 
questi  incauti  che  l'uno  o  il  due  per  cento  di  maggiori  interessi  dovreb- 
bero bastare  per  destar  i  loro  legittimi  sospetti,  per  contentarsi  del 
fido  ostello  natio,  promettente  con  prudenza  e  rimborsanite  con  fedeltà? 
Né  ci  si  dica  che  queste  istituzioni  rendono  servigi  che  le  altre  non 
compiono,  come  quelli  degli  assegmi  circolari^  dei  comodati,  cosi  in- 
felici nella  loro  nascita,  ecc.  ecc.  Perchè  non  sentirsi  delle  Banche 
di  emissione  per  gli  assegni?  E  io  dico  qui  non  in  tono  di  rimpro- 
vero, mia  con  dolcezza  di  eccitazione,  perché  le  Gasse  di  Rispamtio 
e  le  Banche  Popolari  migliori  non  si  uniscono,  gelosamente  serbando 
illesa  la  loro  autonomia,  per  siffatte  operazioni? 

Questo  grido  io  alzo  da  Venezia,  anche  in  nome  di  Padova,  la 
mia  seconda  patria,  nel  giorno  solenne,  festeggiante  il  centenario  del 
risparmio  veneto.  E  traverso  voi,  alti  e  puri  amministratori  della 
Gassa  di  Risparmio  di  Venezia,  di  Padova,  di  Castelfranco  ''il  piccolo 
kiogo  dove  la  Cassa  di  Risparmio  supera  i  14  milioni),  di  Verona, 
di  Udine,  di  Treviso,  di  Rovigo  e  di  altri  luoghi,  lo  invio  ai  miei 
amici  risparmiatori  di  Lombardia,   del   Piemonte,  dell'Emilia  per 
l'iniziatnva  di  questo  accordo  sicuro  e  nazionale  nelle  diverse  opera- 
zioni della  trasmissione  del   danaro.   Assumo  l'imipegno  per  conto 
delle  Banche  Popolari;  lo  assume  per  conto  delle  Gasse  di  Risparmio 
italiane,  il  mio  amico,  senatore  Ferrerò  di  Cambiano,  uno  dei  «  Santi 
laici  »  della  previdenza  nazionale  ?  Se  dai  dolorosi  casi  che  si  tra- 
versano non  si  dovessero  trarre  i  grandi,  i  nobili,  gli  splendidi  espe- 
rimenti riparatori,  noi  non  saremmo  degni  di  rappresentare  i  mag- 
giori nostri  che  fondarono  e  ci  consegnarono  illesi  i  gloriosi  ostelli 
del  risparmio  italiano.  Sento  che  essi  sono  contenti  di  noi  e  nelle 
mistiche  corrispondenze  fra  il  Cielo  e  la  terra,  alle  quali  credo  ogni 
dì  più,  quanto  si  fa  sempre  maggiore  la  mai  incredulità  negli  uomini 
politici,  so  che  qui  aleggia  il  loro  spirito  e  ci  benedicono  quando 
si  conaacrajio  i  risparmi  a  sostenere  il  credito  della  Patria,  a  promuo- 


IL    CENTENARIO    DELLE   CASSE    DI    RISPARMIO    VENETE  299 

vere  e  a  costiniire  le  Case  Popolai'i,  i  Sindacati  agrari,  i  sani  Consorzi 
cooperativi,  quando,  coirne  pur  ieri  deliberava  questa  Cassa  di  Ri- 
sparmio di  Venezia,  gloriosa  nei  suoi  pudichi  silenzi,  di  concedere 
ai  pro\"vido  Ente  che  qui  si  erge  per  combattere  la  malaria,  ultima, 
malvagia  eredità  dell'invasione  straniera,  la  prima  offerta  di  cento- 
mila lire  e,  fra  le  altre  beneficenze,  di  donare  cospicui  assegni  per 
gli  istituti  confortatori  dei  piccoli  fanciulli,  invitandoli  colle  parole 
di  Gesù  piene  di  immortale  dolcezza!  Meglio  delle  leggi,  sf)esso  er- 
rate, meglio  delle  ispezioni  burocratiche,  spesso  incompetenti  o  p^- 
gio,  a  combattere  gli  Enti  avventurosi,  affamati  dall'ansia  degli  acri 
guadagni,  varranno  questi  accordi  degli  istituti  sani,  i  quali  devono 
scrivere  sui  loro  frontoni  la  massima  che  dettai  per  loro  :  «  Banche 
«  che  perdano,  banche  che  guadagnano  troppo,  paiono  egualmente 
«  sospettabili;  degne  di  fiducia  sono  quelle  che  con  temperata  cau- 
«  tela  raccolgono  i  benefizi  continui,  figli  della  prudenza  e  non  del- 
«  l'avventura  ». 

Indipendenti  sempre,  isolate  mai;  questo  è  l'altro  consig-lio  che 
io  volgo  alle  nostre  beneiììche  fondazioni. 

Quando  il  Veneto  sofferse  il  massimo  oltraggio  dell'invasione 
straniera,  noi  con  pia  cura  raccogliemmo  i  profughi  e  gli  Istituti 
economici,  chiedenti  una  fida  ospitalità  alle  altre  piarti  della  cara  Pa- 
tria. E  dopo  la  mirabile  liberazione,  le  restituimmo  illese,  persino 
migliorate,  al  loro  nido  natio.  Allora  una  schiera  di  uomini  d'affari 
(e  in  alcuni  la  cura  del  guadagno  pigliava  a  prestito  il  patriottismo) 
domandavano  al  Governo  e  a  me  aiuti  e  concorsi  per  fondar  banche 
nelle  terre  liberate.  Quale  Presidente  del  Comitato  Parlamentare 
Veneto  fieramente  mi  accampai  contro  questi  apostoli  del  proprio 
interesse,  troppo  addolorati  dalle  venete  sventure  e,  aiutato  da  amici 
e  da  colleghi  eletti,  immaginai,  propx)si  e  volli  che  si  fondasse  col- 
Talleanza  delle  Casse  di  Risparmio  e  delle  migliori  Banche  popolari 
l'Istituto  Federale  di  Credito  j^r  il  risorgimento  delle  Venezie. 
onore,  gloria  della  nostra  regione.  Esso  ora  stende  le  sue  ali  pro- 
tettrici anche  sulla  Venezia  Giulia  e  Tridentina.  È  l'ultimo  trionfo 
della  nostra  previdenza;  questo  istituto  deve  sopra\"vivere  alle  ripa- 
razioni, che  si  compiranno  nel  1923.  So  che  si  vuole  riprodurne  il 
tipo  in  altre  parti  d'Italia,  a  mo'  di  esempio  nel  Mezzodì,  dove  Max 
Ravà  e  i  suoi  colleghi  hanno  promesso  il  loro  concorso.  Questo  Isti- 
tuto senza  cercar  i  gìjadagni,  non  solo  è  in  pareggio  ma  in  avanzo 
morale  e  finanziario,  poiché  l'esperienza  insegna  che  la  cura  del  pub- 
blico bene  si  collega  con  quella  degli  utili  onesti;  le  buone  azioni 
lumeggiano  i  buoni  affari. 

Gloria  alle  Casse  più  antiche  qui  circondate  dalla  riverenza  delle 
meno  vecchie  e,  senza  obliare  nessuno  dei  benemeriti,  gloria  a  quedi 
uomini  insigni  che  non  la  cercano,  si  confondono  nei  modesti  si- 
lenzi, non  ma  sapranno  grado  di  additarli  agli  spontanei  applausi  : 
e  nei  vostri  cuon  e  sulle  vostre  labbra  il  nome  di  Max  Ravà  di  An- 
gelo Pancino,  di  Miari,  di  Dandolo,  di  Venezze,  di  Favero 

Le  nostre  libere  Casse  vissero  senz  altra  onesta  concorrenza, 
tranne^queUa  delle  Banche  Popolari,  sino  al  1874,  quando  sorsero  le 
basse  di  Risparmio  postali.  Fu  allora  grande  la  trepidanza  per  questa 


300  IL   CENTENARIO   DELLE   CASSE   DI    RISPARMIO   VENETE 

formidabile  e  non  attesa  apparizione,  che  segnatamente  alle  piccole 
istituzioni  pareva  soffocatrice.  Paolo  Boselli  ed  io,  collaboratori  di 
Quintino  Sella,  ohe  dopo  alti  colloqui  col  sommo  Gladstone,  il  crea- 
tore in  Inghilterra  di  questo  tipo  di  previdenza  statale,  volle  ripro- 
durla in  Italia,  ci  adoperammo  a  dissipare  il  non  ingiusto  timore. 
Le  Casse  di  Risparmio  postali  dovevano  integrare  e  non  sostituire 
l'opera  di  quelle  libere,  cercando  di  svegliare  la  previdenza  in  tutti 
i  piccoli  luoghi,  dove  TUfiBcio  postale  sorge,  ma  non  vi  sarebbe 
pc«to  né  per  una  Cassa  autonoma,  né  per  una  sua  agenzia.  Ho 
narrato  altrove  (1)  la  controversia  che,  con  la  riverenza  di  disce- 
polo a  maestro,  ai  ^accese  fra  Quintino  Sella  e  il  suo  devoto  col- 
laboratore. Alcuni  economisti  intransigenti  (e  nomino  il  sommo, 
Francesco  Ferrara)  combatterono  la  costituzione  delle  Casse  di  Ri- 
sparmio di  Stato.  Io  le  difesi.  Sono  avversario  risoluto  di  ogni  mo- 
nopolio in  nome  del  bene  pubblico  usurpato  dai  poteri  statali  nel 
risparmio,  nelle  assicurazioni  e  in  altre  forme  di  attività  eco- 
nomica; ma  fui  sempre  favorevole  alle  concorrenze  fra  Stato  e 
libere  iniziative,  quando  lo  Stato,  come  avvenne  finora  nelle  due 
grandi  sue  manifestazioni  bancarie,  quella  della  Cassa  di  Depositi  e 
Prestiti,  uno  dei  più  grandi  e  benefìci  distributori  di  credito  nel 
inondo  civile,  e  le  Casse  postali  di  Risparmio,  senta  la  sua  missione 
di  integrare  e  non  di  sostituire,  di  aggiungere  forze  nuove  e  nuove 
ricchezze  alla  Patria  e  non  di  estinguerne.  Ora  Quintino  Sella,  inna- 
morato della  sua  creazione,  desiderava  allargare  troppo  i  limiti  nei 
versamenti  dei  risparmi  agli  uffici  postali,  segnatamente  alzando  la 
ragione  dell'interesse.  È  inutile  dire  che  iper  la  loro  naturale  ten- 
denza all'assorbimento,  gli  amministratori  delle  Poste,  che  per  fro- 
tuna  del  loro  servizio  non  costituivano  ancora  un  grande  Ministero, 
miravano,  come  mirano  oggi  cogli  assegni  postali,  ad  allargare  le 
funzioni  di  risparmio,  esagerando  le  proposte  di  Quintino  Sella  e 
servendosene  ai  loro  fini  nobili,  ma  accentratori.  Lasciatemi  dir  qui, 
giunto  a  quell'età  della  vita,  quando  nulla  si  teme  e  nulla  si  spera 
dalla  politica  e  dalla  ombra  vana  delle  piccole  lusinghe,  lasciatemelo 
dire  nell'interesse  delle  Casse  di  Risparmio  libere,  pel  presente  e  pel 
futuro,  che  nella  controversia  Quintino  Sella,  il  quale  aveva  cono- 
sciute ben  altre  vittorie,  debellando  il  disavanzo,  rappresentando  al 
Governo  il  Ministro  che  volle  nel  '70  l'acquisto  di  Roma,  e  fu  il  coo- 
peratore massimo  nell'applicazione  della  scienza  alla  prosperità  del- 
l'economia nazionale.  Quintino  Sella  non  si  sentì  un  vinto  accostan- 
dosi al  mio  pensiero.  Erano  quegli  uomini  di  Stato  i  veri  eredi  di 
Cavour;  servivano  e  non  sfruttavano  la  Patria,  soffrivano  e  non  go- 
devano il  potere.  Così  avvenne  che  per  una  tradizione  costante,  da 
me  inflessibilmente  difesa  passando  al  Tesoro  e  alla  Camera,  gli 
interessi  dati  dalle  Casse  di  Risparmio  postali  si  tennero  sotto  quelli 
offerti  dalle  Casse  libere.  Grande,  nobile  ammonimento  a  tutti  i 
veri,  sani  e  savi  Istituti  di  Credito,  i  quali  devono  sottrarsi  alle 
tentazioni  di  un'avida  concorrenza  fatta  a  colpi  di  alti  interessi 
sui  depositi.  Per  queste  vie  tortuose  e  fatali  le  Banche  senza  scru- 
poli offrono  in  secreti  negoeiati  interessi  del  6  e  del  7  %  ai  deposi- 

(1)  Vedi  Scimza  e  Patria,  "Editore  Quattrini.  Firem»,  pagg.  136-249. 


IL   CENTENARIO   DELLE   CASSE  DI   RISPARMIO   VENETE  301 

tanti,  che  insieme  agli  equivoci  dei  comodati  sui  titoli  pubblici,  co- 
stituiscono uno  deg-li  odierni  pericoli  della  economia  italiana.  Quindi 
voi  qui  rappresentanti  del  risparmio  libero,  voi  che  lo  ammini- 
strate come  una  sacra  missione  e  non  come  un  affare,  che  non  te- 
mete la  concorrenza  del  bene  esercitata  con  armi  leali,  associatevi 
a  me,  mandando  per  tutta  l'Italia,  segnatamente  a  Biella,  ch'Ei  tanto 
amò,  un  alto,  un  pio,  un  nazionale  saluto  alla  memoria  di  Quintino 
Sella,  anche  e  jjerchè  fondatore  delle  Casse  di  Risparmio  postali.  La 
via  di  tutte  le  vittorie  della  previdenza  italiana  è  da  voi  segnata,  o 
amministratori  puri  delle  nostre  istituzioni.  Io  ammiro,  ho  difeso, 
quando  non  le  mancarono  gli  assalti,  la  magnifica  Cassa  di  Rispar- 
mio di  Lombardia,  la  più  grande  del  mondo,  che  da  sola  prende 
quasi  un  quarto  del  risparmio  italiano;  essa  annovera  con  le  opere 
buone,  con  l'aiuto  alle  più  utili  iniaative  morali,  scientifiche,  igie- 
niche, sociali  i  giorni  della  sua  vita  incominciata  un  anno  ipiù  tardi 
della  vostra.  Ma,  senza  soverchie  sbocconcellature  usate  altrove,  pre- 
ferisco il  metodo  veneto  di  istituzioni  provinciali,  che  come  lo  attesta 
l'esempio  del  Credito  Fondiario  e  dell'Istituto  Federale,  si  danno  il 
fraterno  abbracciamento  per  opere  comuni,  redentrici  in  tanti  dolori, 
esplicatrici  di  nuove  riccheza», 

E  in  queste  giornate,  nelle  quali  errori  e  traviamenti  appannano, 
per  brevi  istanti  il  buon  nome  del  nostro  credito,  rivendichiamo  noi 
che  ne  abbiamo  il  diritto  le  storiche  tradizioni  dei  Banchi  di  Rialto 
e  di  San  Giorgio;  (juei  Banchi,  fra  le  oscurità  del  Medio  Evo  e  i  primi 
bagliori  del  Rinascimento,  insegnarono  al  mondo  le  salde  leggi  del 
credito  significando  che  la  probità  è  la  miglior  sagacia.  Qui  a  Vene- 
zia tutti  i  popoli  traflBcanti,  tutte  le  innumerevoli  monete  di  vario 
conio,  si  inscriveranno  in  un  libro  che  trasformava  quei  valori  in 
TYionete  di  conto,  creando  o  preparando  quella  unità  economica  che 
i  nostri  moltiplicati  Congressi  internazionali  non  sanno  tentare  og- 
gidì per  la  pace  del  mondo. 

Colla  invocazione  di  queste  eccelse  grandezze  domestiche,  au- 
guro alle  nostre  istituzioni  di  salire  sempre  più  in  alto  ritempran- 
dosi nei  ricordi  della  storia  gloriosa  dell'immortale  Città,  che  oggi 
ci  ospita. 

Luigi  Luzzatti. 

Discorso  inaugurale,  tenuto  a  Venezia,  pel  cetitenario  delle  prime  Casse  di  ri- 
sparmio venete  fondate  il  12  fdibraio  1822. 


LA    SANFELICE 


POEMA    TRAGICO 


ATTO   QUARTO 

Tj  notte  alta.  In  un'insenatura  deserta  del  molo  di  Palermo  si  leva  un  bri- 
gantino leggiero  a  tre  alberi  con  le  vele  spiegate  e  congiunto  alla  riva  per  un 
ponticello  volante.  Un  bastimento  più  grande  con  un  fanale  rosso  acceao  a  prua 
e  uno  bianco  su  l'albero  di  trinchetto,  s'intravede  a  distanza,  verso  la  diritta, 
sui  mare.  Nei  cielo  caliginoso  ammicca  qua  e  là  qualche  stella.  Anche  su  la 
diritta,  un  lampioncino  tremolante  fuor  d'una  porta  annunzia  una  taverna 
da  marinai.  Dinanzi  alla  porta  è  un  tavolino  con  due  bottiglie  e  tre  o  quat- 
tro bicchieri,  e  intorno  si  rizzano  aJcune  seggiole. 

A  sinistra  poche  case,  e  la  via  che  si  sprofonda  nell'ombra  lungo  la  spiag- 
gia del  mare. 

SGENA  I. 

//  capitano  Bitrgio,  Lao  e  il  Monrealese,  marinni,  ^uu  ^eduit 
intomo  la  tavola. 

BURGIO. 

Maledetto  scirocco!  In  questo  mese 
Non  si  rifiata  più  :  l'aria  è  una  vampa 
Di  fuoco:  anche  la  notte. 

Lag. 

E  son  tre  giorni 
Che  sta  saldo  così.  Si  parte  presto, 
Capitano? 

BURGIO. 

Silenzio!  0  son  domande 
Da  farsi,  quello?  Basta  che  vi  corra 
La  pag-a  a  voi,  poltroni! 

Il  Monrealese. 

Giusto  dice 
Il  capitano.  Quando  c'è  chi  mette 
Fuori  i  quattrini,  per  il  resto  poi 


LA  SANFEUCE 

Chi  se  ninfischia?  Io  ho  paura  solo 
Che  la  non  duri  :  Michelaccio  al  mondo 
Ce  ne  fu  uno.  Dammi  l'esca.,  Lao, 
Per  favore. 

{Accende  la  pipa). 

Lag. 

Ma  questa  è  nuova!  Quasi 
Due  settimane  ornai  che  si  randeggia 
Da  ca.po  Gallo  a  capo  ZafTerano 
Il  giorno,  e  che  s'aspetta  in  questa  cala 
La  notte:  chi? 

BURGIO. 

Monrealese,  e  poi 
Si  dice  delle  femmine!  Ma  questo 
Scannapane  di  Cristo  è  più  seccante 
D'una  badessa.  E  tira  avanti,  pacchia, 
Bevi,  scialacqua,  e  non  ti  dar  affanno 
D'altro,  tinca  che  sei! 

Lag. 

Capitan  Burgio, 
Scusate!  Io  dico  come  quello:  chi 
Non  vede  il  fondo,  non  passa  l'acqua.  Ora 
Se  ci  s'ha  da  rimettere  la'  pelle, 
Son  qua;  ma  prima... 

^"^         Il  Monrealese 

(^porgendo  il  bicchiere) 

Versa  un  altro  goccio, 
E  sta'  zitto,  se  puoi.  Non  lo  sapevi 
Da  un  pezzo  ch'è  il  mestier  nostro,  ragazzo, 
Di  farla  in  barba  alla  morte? 

BURGIO. 

L'amico 
Ha  lo  spago  nel  vino.  Va',  va'  a  cuccia, 
Cagnòlo! 

Lag. 

A  me,  capitan  Burgio?  0  l'altro 
Mese,  che  scaricammo  a  Portofino 
Il  contrabbando  della  Barberia, 
Chi  tenne  testa,  se  vi  rammentate, 
Alla  guardia? 

BURGIO. 

Lo  so!  Vedi  che  dunque 
Ho  ragione:  va'  a  cuccia. 


303 


304  la  san  felice 

Lao. 

A  me,  vigliacco? 
A  Lao  GLammara? 

Il  Monrealese. 

E  finiscila,  santo 
Diavolo! 

Lao. 

No,  ma  una  ragione  è  sempre 
Una  ragione.  E  io  potrò  sbagliarmi 
Perchè  sono  una  bestia,  grazie  a  Dio; 
Ma  quello  non  mi  va,  quel  coso  lungo 
E  allampanato,  che  vien  qui  di  notte 
In  gran  mistero,  come  un'ombra,  dice 
Quattro  parole,  e  se  ne  va. 

BURGIO. 

Ma  lui 

Ha  i  ducati,  fratellol 

Lag. 

È  un  jettatore, 
Vi  dico;  quant'è  vero  Dio!  Quegli  occhi 
Sbianciti  e  tondi,,  come  d'un  bestino, 
Glieli  avete  guardati?  E  il  nome  suo 
C'è  alcuno  che  lo  sappia? 

BURGIO. 

fi  deeso:  zitto! 

SCENA  II. 
L'Abate  Altobello  e  i  precedenti. 

L'Altobello. 

Capitan  Burgio,  a  voi  non  si  domanda 
Se  siete  pronto  a  salpare. 

BURGIO. 

Elccellenza, 
Da  dieci  giorni  son  pronto.  Sapete 
La  mia  devozione. 

L'Altobello. 

Ohi  non  ne  posso 
Dubitare!  Ma  forse  avrà  bisogno 
D'olio,  per  non  ispegnersi,  la  vostra 
Devozione. 


LA  SANFELir.E  3(fe 

BURGIO. 

Che  dite? 

L'Altobello. 

Vi  prego, 
Son  cinquanta  ducati. 

[Oli  porge  la  borsa). 
Eh,  caro  niio, 
Se  aggiungevate  alla  devozione 
Anche  il  disinteresse,  mi  sarei 
Messo  in  afTanno  per  voi  :  bisognava 
Farvi  osservare  a  un  medico. 

BURGIO. 

Vi  piace 
Di  scherzare,  Eccellenza! 

L'ALTwRZLLO. 

In  fatti,  sono 
D'umore  sollazzevole  stanotte. 
E,  dite  un  po',  non  è  venuto  alcuno 
A  cercare  di  me? 

BURGIO. 

Quando? 

L'Altobello. 

Mah!...  ora. 
Un  mio  lacchè,  buon  uomo,  benché  forse 
Un  po'  tarpano... 

BURGIO. 

Io  non  l'ho  punto  visto, 
EJcoellenza. 

L'Altobello. 

Fa  niente. 

{Va  a  guardar  su  la  strada). 
Il  tempo  è  bello. 
Vi  pare? 

BURGIO. 

Vento  di  scirocco:  quando 
Cade,  avremo  acqua  a  secchi. 

L'Altobello. 

E  quante  mig-lia 
All'ora,  filerebbe  il  vostro  legrno 
Con  questo  vento  in  poppa? 


306  LA  SANFELICE 

BURGIO. 

Doman  l'altro 
Poco  dopo  il  tramonto  avvisteremmo 
La  Corsica,  Eccellenza.  Il  «  Rondonaccio  » 
È  un  buon  veliero. 

L'Altobello. 

Meglio  degl'inglesi 
Di  Nelson? 

BURGIO. 

Poh!  Darebbe  dieci  nodi 
Alla  "  Vanguardia  »  ! 

L'Altobello. 

Ah  ahi  Vedremol 

BURGIO. 

Dite, 
Ek^cellenaa,  c'è  egli  da  temere 
Che  saremo  inseguiti? 

L'Altobello 
{piano,  ambiguamente) 

Eh!  come  ferve 
A  un  soffio  di  battaglia  il  vostro  vecchio 
Sangue  corsaro! 

BURGIO. 

Che  vi  salta  in  capo. 
Vostra  Eccellenza? 

L'Altobello 
[txyma  a  guardar  su  la  strada.  Il  capitan  Biirgio  lo  segue). 

E  non  si  vede  ancora! 

{pi/tn/}  al  Burgió) 
Avete  sempre  su  la  spalla  manca. 
Il  tatuaggio  d'una  nave  a  rosse 
Vele  spiegate  con  quel  motto  :   «  Sangue 
Per  sangue  »? 

BURGIO 

[cavando  rapidamente  un  colteUo): 
Cristo! 

L'.Xltobello 
(gli  serra  il  polso  con  la  mano  robusta,  e  lo  costringe  a  lasciare 
il  coltello,  poi  freddamente  susurra): 

E  i  vostri  uomini,  dunque, 
Che  guardano! 


LA  SAN  FELICE  307 


BURGIO. 

Eccellenza!  voi  chi  siete? 
Il  demonio? 

L'Altobello. 

No,  no,  purtroppo!...  Egli  era 
Ufi  forte  e  ardimentoso  uomo  quel  Gricco 
Pirata,  e  in  fede  mia  diede  del  filo 
Da  torcere  alle  navi  cristiane 
Ck)me  alle  barbaresche.  S'ei  vivesse, 
Avrebbe  l'età  vostra  press'a  poco, 
Capitan  Burgio. 

BURGIO 

[cupamente): 

Se  volete  farani 
Arrestare,  sbrigatevi.  Già,  quando 
Il  becco  è  vecchio,  lo  cozzano  tutte 
Le  capre. 

L'Altobello. 

Date  gli  ordini  :  fra  un'ora 
Si  parte.  Solo,  abbiate  a  mente  ch'io 
Un  gran  conto  non  fo  delle  persone 
Virtuose... 

BURGIO 

{gli  prende  la  mano  per  baciargliela): 
Ek^cellenza!... 

L'Altobello. 

E  preferisco 
Quell'altre  :  almeno  son  .sincere. 

BURGIO. 

Vostro 
Per  la  vita  e  la  morte. 

L'Altobello 
{vedendo  giungere  il  Ferri) 

Ah,   finalmente! 


SGENA  III.' 

Fernando  Ferri  travestito  da  lacchè,  rALTOBELLO, 

il  capitan  Burgio  e  i  due  marinai. 

Il  Ferri. 
Eccomi  qua. 


308  la  sanfei,1ce 

L'Altobelu) 

{al  Burgio): 

Tornate  su  la  nave, 
Capitan  Burgio,  e  siamo  intesi! 

Burgio. 

Quello 
Non  ebbe  mai  che  una  parola,  unal 
Eccellenza. 

L'Altobello. 
Sta  bene. 

Burgio 
(flz  due  marinai): 

A  bordo,  voi! 
{Il  capUan  Burgio  e  i  due  rruirinai  salgoru)  sul  brigantino). 

SGENA  IV. 

L'Altobello  e  il  Ferri. 

L'Altobello. 
Che  avete  fatto?  Dite  presto! 

Il  Ferri. 

Il  bieco 
Tiranno!  Irremovibile! 

L'Altobello. 

La  grazia? 

Il  Ferri. 
L'ha  negata. 

L'Altobello. 

Negata?  A  sua  figlia?  anche 
Alla  soave  sua  partoriente. 
Alla  sposa  del  suo  nato,  del  figlio 
Suo  prediletto? 

Il  Ferri. 

È  per  l'appunto  ciò 
C5he  m'ha  narrato  il  buon  padre  Ix>renzo 
Con  le  lagrime  agli  occhi.  Ieri,  la  mite 
Principessa,  sentendo  ornai  vicina 
L'ora  della  maternità,  lo  fece 
Chieunare  e  volle  confessarsi.  Il  bravo 
Padre  si  rammentò  d'aver  promesso 
A  voi  la  ^azia  della  Sanfelice, 
E  si  rivolse  implorando  al  bel  cuore 


LA  SANFEUCE  309 

Di  Maria  Clementina.  I  fieri  casi 
Narrò  di  quella  sventurata:  prima 
Il  ribrezzo  di  lei  per  limminente 
Strade,  rinooi^apevole  denunzia. 
La  passioiie  sua  troppo  tardiva 
E  inutile,  nutrita  di  dolore 
É  di  rimorso,  per  il  capitano 
Baccher;  e  poi  l'amante  sotto  gli  oc-chi 
Esterrefatti  di  lei  senza  indugio 
Fucilato,  e  la  plebe  minacciosa 
Nel  suo  palazzo,  e  la  carcere  buia, 
E  la  condanna  ad  aver  mozzo  il  capo. 
E  poi  le  disse  della  gravidanza 
Non  sospettata  pria,  delia  giustizia 
Non  rimossa,  sospesa,  e  di  quest'ansia 
Fra  vita  e  morte,  soffocante,  atroce. 
Senza  esempio,  che  dura  già  da  otto 
Lunghi  mesi  oramai...  La  principessa 
S'intenerì,  pianse,  fé'  voto  a  Dio 
Che  se  il  suo  parto  riuscisse  a  bene, 
Anche  quell'altra  derelitta  madre 
Avrebbe  avuto  la  grazia. 

L'Altobello. 

Oh!  oh!  egli 
Non  l'ha  veduta! 

Il  Ferri. 

Alle  sei  di  stamane 
Il  re  sinistro  visitò  la  dolc« 
Puerpera.  Disciolta  ella  giacea 
Nel  talamo:  era  alquanto  lassa,  alquanto 
Bianca.  Sorrise,  si  rizzò  con  qualche 
Stento,  gli  porse  nelle  stesse  sue 
Mani  il  dormente  pargolo  fra  i  veli, 
E  attese.  ^  Bello  peccerillo!  —  disse 
La  belva.  —  Chiedi  qualche  grazia!  —  Allora 
La  principessa,  piìi  che  con  lo  sguardo. 
Con  l'anima,  indicò  mezzo  riposto 
Nel  seno  della  sua  creaturina 
Appena  nata,  un  foglio.  Il  re  lo  prende. 
Lo  scorre  un  tratto,  poi,  torvo  n^li  occhi. 
Butta  l'infante  sul  talamo,  e  via, 
S0nza  profferir  motto.  Era  la  grazia 
Di  Luisa. 

L'Altobello.  • 

S'intende!  È  il  forte,  lui, 
Ora!...  E  così? 


310  '-^   SAN  FKMl.l:: 

Il  Ferri. 

DojK)  un  par  d'ore,  uiiinse 
Al  direttore  della  Vicaria 
Ordine,  che  Luisa  Sanfelice 
Sia  ricondotta  questa  stessa  notte 
A  Napoli,  sul  «Tartaro»,  quel  grande 
Bastimento  laggiù  con  dm  fancde 
Bianco  e  uno  rosso. 

L'Altobello, 

A  meraviglia!  Quasi 
Me  l'aspettavo.  Ah  ah  ah  ah!  Bist^na 
Che  l'anima  ci  sia,  proprio!  La  mia 
Mi  parla  a  volte  astuta  e  aguzza  meglio 
D'una  vecchia  baldracca!...  0  re  caprone, 
Ora  a  noi  due! 

{Al  Ferri) 
Compare,  avete  gusto 
Di  minare  le  mani? 

Il  Ferri. 

Abate,  voi 
Mi  scampaste  da  morte! 

L'Altobello. 

E  non  v'è  ancora 
Caduto  della  mente?  È  questa  damque 
La  notte  de'  prodigi?  Il  beneficio 
Non  vi  pesa  già  troppo?  Io  ve  l'avrei 
Pagato  con  l'insidiia  il  giorno  appresso. 

Il  Ferri. 

Disponete,  su  via!  siete  mien  tristo 
Forse  di  quello  che  non  vi  vogliate 
Fax  credere. 

L'Altobello. 

Potenzi n terra!  Bianco 
Da  far  <istio  a  un  capretto!  Ehi,  patron  Burgio! 

BURGIO 

[dalla  nave' 

Vengo,  Eccellenza! 

(Discende). 


SCENA  V.' 
L'Altobello,  il  Ferri  e  il  Burgio. 

BURGIO. 

Comandate! 


la  sanfelice  311 

L'Altobello. 


Quando 
Alcuno  avesse  detto  a  quel  valente 
Gricco  pirata,  ch'era  buona  cosa 
Levar  di  mano  una  misera  donna 
A  pochi  birri  per  via... 

BURGIO. 

Dove? 

L'Altobello. 

Dietro 
Il  molo,  qui,  tra  un  quarto  d'ora.  Dee    ' 
f  Venir  tratta  sul  «  Tartaro  » . 

5  BURGIO. 

t  L'affare 

1-  È  delicato  assai. 

v  L'Altobello. 

'^  Perchè? 

l  BURGIO. 

,1  Bisogna 


l-  Che  niun  metta  un  grido.  I  birri,  noi, 

:^'  La  donna,  muti  come  pesci.  Al  primo  ' 

J  Allarme,  salterebbe  in  mezzo  al  bailo 

Tutta  la  guardia  della  Vicaria. 
'</ 
^  L'Altobello. 

i  Fate  voi,  caro  amico!  Ho  mille  scudi 

l  Da  buttar  via. 

fc  BURGIO. 

:,;  Bacio  le  mani! 

{Il  B^irgio  tOTpa  a  bordo.  Poco  dopo  si  vedono  otto  marÌTiai 
scivolar  cautamente  dal  legno  e  a  randa  a  ìranda  dileguare  nel- 
^  V  ombra) , 


I  SCENA  VL 

?  L'Altobello  e  il  Ferri. 

•  Il  Ferri 

[abbracciando  VAltobello) 

0  egregio 
Cittadino!  Che  gioia  per  i  nostri 
Morti,  se  vi  vedessero!  Quel  grande 
Conte  di  Ruvo  che  salì  sul  palco 
Fissando  il  boja  senza  batter  ciglio; 
Quel  Manthoné  saldo  e  severo;  il  dolce 
Poeta  Ignazio  Giaja;  il  buon  Cirillo; 


Jkr 


312  LA  SANFEUCE 

La  bella  ed  ispirata  Eleonora 
Foneeca  Pimeoitel,  fatta  strozzare 
Selvaggiamente,  e  tutte  a  una  a  una 
Le  vitytime  sublimi  di  codesto 
Pagliaccio  sanguinario,  ora  vi  sono 
Riconosoenti  di  salvar  la  loro 
Più  infelice  superstite! 

L'Altobello 

[seccato)  » 

Ma  sì! 
M'importa  assai  di  morti  e  vivi!... 

Il  Ferri 
[interdetto) 

O  dunque 
Perchè?... 

L'Altobello. 

Perchè...  perchè...  caro  fratello, 
È  il  mio  ladix)  destino!... 

Il  Ferri. 

Avrebbe  forse 
Ragione  fra  Lorenzo,  che  si  loda 
Di  questa  vostra  carità  d'amore 
Per  la  povera  martire? 

L'Altobello. 

Io?  io? 
E  non  vi  vien  da  ridere?  no?  punto? 
Amarla,  io?  C'è  egli  la  più  buffa 
Bestia  dell'uomo  in  preda  alla  manìa 
Ebete  dell'amore?  Ogni  stoltezza 
La  compie;  ogni  viltà  l'accetta.  Insegue 
La  sua  bella  con  ostinazione 
Gandna;  va  di  porta  in  porta;  sale. 
Scende,  misura  il  marciapiedi  avanti 
E  indietro,  per  vederla  un  attimo.  Anche 
Loda  il  portiere,  adula  la  fantesca, 
Fa  la  ruota  alla  cuoca,  e  trincherebbe 
Co'  lacchè.  Magro,  logoro,  convulso, 
Balbetta  frasi  senza  senso,  tuba 
Come  un  colombo  e  in  certi  si  compone 
Atteggiamenti  plastici  da  fare 
Ulular  le  bertucce.  E  poi,  s'intende. 
Né  volontà,  né  ambizione,  nulla! 
Io?...  Maledizione! 

Il  Ferri. 

Eppure,  ho  proprio 
A  dirvela?  Così  vi  troverei 
Meglio.  È  una  buona  azione  che  fate 
In  somme,. 


la  sanfelice  313 

L'Altobello. 

Ah  sì?  Ma  questo  più  di  tutto 
M'esaspera!  Io,  far  la  balorda  cosa 
Che  voi  chiamate  una  buona  azione! 
Come?  Perchè?  Che  importa  dunque  a  voi 
E  a  me  che  una  donnàcchera  un  po'  sciocca 
Viva  o  muoia?  Che  cosa  ci  guadagno 
Io? 

Il  Ferri. 

La  gioia  profonda,  intima,  pura, 
DeUa  vostra  coscienza. 

L'Altobello. 

Ah!  la  coscienza! 
Altro  spaventapasseri.  Vorrei 
lo  esser  io,  e  vedreste  se  punto 
Mi  metterebbe  la  coscienza  inciampi 
Su  la  mia  strada.  Egli  è... 

Il  Ferri. 

Zitto!  La  zuffa 
È  impegnata  laggiù... 
{S'ode  un  twmvZto  d'annua  di  voci  solcate,  di  corpi  abbattuti. 
LAltobello  e  il  Ferri  vanno  verso  il  fondo  a  spiare.  Di  Vi  a  poco 
sopraggiunge  il  capitan  Burgio,  che  trae  seco  Luisa). 

SCENA  Vili. 
L'Altobello,  il  Ferri,  H  Burgio  e  Luisa. 

L'Altobello 
[al  Burgio) 

Date  le  vele! 
{Il  capitan  Burgio  e  il  Ferri  salgono  a  bordo). 

L'Altobello 
{a  Liàsa) 
Venite! 

Luisa 
[quasi  asserite  di  spirito) 

j  Dove?...  Chi  siete  voi?...  Sono 

\  Libera? 

f 

L'Altobello. 

t  Sì  :  fate  i)resto. 

Luisa. 

Chi  siete 
Voi? 

ai  .  Voi.   CCXVI,  serie  VI  -^  16  febbraio   1922. 


314  LA  SANFEUCE 


Luisa! 


L'Altobello    ^ 
(accostandosi) 

Luisa 
[con  raccapriccio) 
Ah!...  l'abate! 

L'Altobello. 

Ebbene,  si, 
L'abate!  Ma  non  è  questo  già  tempo 
Di  rampogne:  venitel 

Luisa. 

No,  non  posso! 
Le  vostre  mani  grondano  vermiglie 
Del  suo  sangue...  e  le  mie,  anco.  Che  mai 
Volete  fare,  adesso?  L'uccidemmo 
Entrambi,  e  ora  egli  ci  aspetta.  Io  odo 
La  voce  sua  dilaniarmi  all'alba 
Le  visceri...  ah!  —  Viva  Dio!  viva  il  Re!  — 
Gerardo!  o  mio  Gerardo!  Ecco,  son  teco... 
Perdonami!  perdonami! 

L'Altobello. 

Luisa, 
Lasciale  in  pace  i  morti:  ora  bisogna 
Vivere!  Sono  mesi  e  mesi  e  mesi 
Che  preparo  quest'attimo,  ficcando 
L'occhio  nel  vostro  carcere;  a  ciascilna 
Minaccia  nuova  che  pendea  su  voi, 
Operando  e  fremendo;  in  ogni  luogo 
Seguendovi,  non  visto;  a  volta  a  volta 
Cercando  di  sorprendere  il  pensiero 
De'  vostri  i)ersecutori.  E  alla  fine 
Libera!  siete  liberal  Ah!  l'idea 
Raccapricciante  di  quel  vostro  collo 
Gracile  sotto  la  fulminea  scure! 

Luisa. 

No,  no,  no,  no.  Perchè?  S'egli  mi  fece 

Madre  del  suo  figliuolo!...  0  che  le  madri 

S'uccidono?  E  i  bimbetti,  come  mai 

Faranno  senza  le  mamme?...  Sperduti, 

Soli  nel  mondo,  in  bracxria  estranie!...  .\vraiuio 

Freddo,  poveri  piccoli!  Il  mio,  sento 

Che  mi  brancica:  è  qui, 

{Si  tocca  il  ventre). 

L'Altobello. 

Venite  dunque! 


LA  SANFELICE  315 


Luisa. 


Con  voi?  No,  proprio.  Egli  lo  sa  :  gli  fate 
Paura,  voi!  Lasciateci! 

L'Altobellg. 

Luisa, 
Toniate  in  voi,  ve  ne  scongiuro!...  Io  v'amo, 
Luisa!...  io  sono  disperato  e  triste 
Come  un  sepolto!  Sarà  questo  il  solo, 
Il  solo  fiore  della  vita  mia 
Arida  e  amara:  vivete!  La  gioia  — 
E  poi  più  nulla  —  di  sapervi  salva 
Per  mio  merito!  Via!  Non  è  poi  troppo 
Ciò  che  vi  chiedo.  Se  vedeste  quanto 
Soffro!  Sapessi  anch'io  piangere  almeno, 
Per  disfogarmi'  in  lagrime! 

Luisa. 

Ah!  quell'Ombra, 
Com'è  crucciata!...  So,  so  bene...  È  questo 
Che  tu  vuoi  dirmi  con  que'  lividi  occhi 
Disconsolati?  E  non  è  vero!...  Spesso 
Vide  meno  chi  vide.  Io  t'amo,  oh  t'amo 
Tanto!...  Le  mie  farfalle! 

BURGIO 

{affacciandosi  dalla  murata  della  nave) 

E'  mi  par  tempo 
Di  salire,  Eccellenza! 

L'Altobello. 

Orsù,  Luisa, 
Venate! 

Luisa. 

Via,  non  mi  toccate!...  via, 
Via,  via! 

L'Altobello. 

Su,  presto!  Dovete  salvarvi 
Anche  vostro  malgrado! 

{La  trascina). 
Luisa 
[gridando) 

.  Aiuto!  aiuto! 

Voa  LONTANE. 

Allarmi! 

{S'ode  fragor  d'armi  e  il  passo  cmicitato  d^una  pattuglia  che 
viene  di  corsa). 

BURGIO 

{dalla  murata  della  nave): 
Siam  cucinati,  Eccellenza! 


316  LA  SANFEUCE 

SGENA  vili. 

L'Altobellu,  Luisa,  un  uffiziale,  un  brigadiere^ 
guardie  e  soldati  con  lanterne. 


L'Uffiziale. 


Fermi  tutti! 


^  L'Altobello 

{beffardo) 

Perchè  tanto  baccano, 
Signor  guerriero?  Come?  Da  fedeli 
Servitori  del  Re,  noi  vi  si  rende 
Un  servigio,  e  bravate  anche?  Sarebbe 
Stato,  parmi,  più  pratico  non  farvi 
Rubare,  come  un  moccichino,  questa 
Donna  affidata  alla  vostra  solerzia, 
E  ch'io  vi  rendo. 

L'Uffiziale. 
E  dove  sono  i  ladri? 

L'Altobello. 

Io  non  lavoro  di  soffietto,  amico: 
Cercateli!  Ma  intanto,  se  non  ero 
Io  qui  co'  miei,  la  bella  fuggitiva 
A  quest'ora  sarebbe  uccel  di  bosco. 
Riprendetela,  viaJ 

L'Uffiziale 

{al  brigadiere) 

Riconoscete 
Questo  signore? 

Il  brigadiere. 

Eh  sì!  S'è  fatto  cecca, 
Tenente.  Abate,  buona  sera!  Forse 
Non  rammentate,  voi,  che  ci  siamo 
Visti  al  convento  di  padre  Lorenzo 
Or  son  tFe  giorni! 


Ma  sicuro! 


L'Altobello. 
Guarda!  guarda!  guarda! 


Il  brigadiere. 

L'abate  è  grande  amico 
Al  confessore  della  nostra  pia 
Regina. 

L'Uffizule 
{alCAltobeKo) 

Allora  vi  prego  d'avermi 
Per  iscusato;  e  grazie  del  servigio 
Che  ci  rendete,  abate. 


r 


la  sanfelice  317 

L'Altobello. 

Oh  non  è  nulla'. 
Ho  fatto  meglio  altre  volte.  Un  bicchiere 
Di  vino,  prima  di  lasciarci? 

L'Uffizmle. 

Accetto 
Per  obbedirvi. 

L'Altobello. 
Olà!  vin  di  Borgogna! 
{Entra  toste  con  la  bottiglia  e  i  bicchàeri,  e  mesce  il  vino). 

L'Uffizl\le. 
Alla  vostra  salute! 

L'Altobello. 
Alla  vostra! 

L'Uffizule. 

Elcco 
Fatto.  Signore,  buona  notter 

L'Altobello. 

Buona 
Notte! 

[Uufftziale  e  i  fidati  s'avviano  con  Luisa). 

E  vi  prego  d'interporre  qualche 
Buona  parola  £iffinchè  la  vezzosa 
Pupilla  vostra  non  mi  tenga  il  broncio. 

[Croscian  le  risa  volgari  delVufiìziale  e  de'  soldati:  V abate 
Altobello  mesce  le  sue  risa  alle  loro,  e  a  grado  a  grado  il  suo  riso 
si  converte  in  un  pianto  convulso.  Egli  appoggiai  i  gomiti  sttlla 
tavola  e  riman  Vi  singhiozzante  nell\mhbra) . 

Cade  la  tela. 

{Continua). 

G.  A.  Cesareo. 

(Proprietà   letteraria:    tutti   i  diritti  riservati). 


^    BEATRICE 


Mi  propongo  parlarvi  di  Beatrice, 

E  tratterò  del  sub  stato  gentile 


Donne  e  donzelle  amorose,  con  vuì, 
Che  non  è  cosa  da  parlarne  altrui  (1). 


Il  Boecaceio  deplora  che  l'amorie  di  Beatrice  distogliesse  Dante 
dagli  studi  di  filosofia  e  teologia. 

«  Gli  studi  »  —  egli  dice  — •  «  generalmente  sogliono  solitudine  e 
rimozione  di  sollecitudine  ^e  tranquillità  d'animo  desiderare,  e  mas- 
simamente gli  speculativi,  a'  quali  il  nostro  "Dante...  si  diede  tutto. 
In  luogo  della  quale  rimozione  e  quiete,  quasi  dall'inizio  della  sua 
vita  fino  all'ultimo  della  mbrte,  Dante  ebbe  fìerissima  ed  importa- 
bile passione  di  amore  » . 

E  di  nuovo  :  «  Se  tanto  amore  e  sì  lungo  potè  il  cibo,  i  sonni  e 
ciascun'altra  quiete  impedire,  quanto  si  dee  poter  estimare  lui  essere 
stato  avversario  ai  severi  studi  e  allo  ingegno?  Certo  non  poco,  come 
che  molti  vogliono  lui  essere  stato  incitatore  di  quello,...  ma  certo 
io  noi  consento»  (2). 

Questo  giudizio  del  Boccaccio  ci  fa  tornare  alla  mente  il  dialogo 
tra  madame  Leverdet  e  De  Ryons  neWAnd  des  femmes  di  Dumas  (3)  : 

«  Malheureux!  Ingrati  »  —  grida  lei  —  «  c'est  la  femme  qui  inspire  lee 
grandee  choees!  ». 

<(  Et  qui  empéche  de  les  aocomplir  »,  ribattè  lui. 

Ma  di  questo  parere  non  fu  assolutamente  Dante.  In  Beatrice  egli 
vede: 

Qu«lla  pia  che  guidò  le  jjenne 
Delle  mie  .ali  a  così  alto  volo  (4). 


e  riconosce 


Che  uscio  p^*  lei  della  volgare  schiera  (6). 


(1)  Vita  .VttOtJa,  XIX,  canz.  I,  11-14. 

(2)  Vita  di  Dante,  §  3. 

(3)  Acte  1,  se.  6.  Vedi  pure  Tolstoi:  <(  La  femme  est  la  pierre  d'achoppe 
ment  de  la  carrière  d'un  homme.  Il  est  difficile  d'aimer  une  femme  eit  de  rien 
faire  de  bon»  (.4/ma  Karénine),  IH  partie,  chap.  XXI. 

(4)  Par.,  XXV,  49.  Vedi  pure  Par.,  XV,  63. 

(5)  /t./.,  TI.  105. 


r 


BEATRICE  319 

E  lo  stesso  Boccaccio,  malgrado  la  sua  opinione  che  «  agro  e  va- 
lido nimico  degli  studi  è  amore»  (1),  ci  ammette  che  «dal  viso  di 
questa  giovane  donna  fu  primieramente  desto  nel  petto  suo  lo  'nge- 
gno  al  dovere  parole  rimate  comporre;...  e  tal  maestro,  sospingen- 
dolo amore,  ne  divenne,  che  tolta  di  gran  lunga  la  fama  a'  dicitori 
passati,  mise  in  opinione  molti,  che  ninno  nel  futuro  essere  ne  do- 
veva, che  lui  in  ciò  potesse  avanzare»  (2). 

• 

Dopo  secoli  caliginosi  di  pessimismo  il  duegento  rimena  negli 
animi  il  senso  gioioso  della  vita.  Lo  stesso  san  Francesco  d'As- 
sisi dà  all'ascetismo  e  alla  povertà  una  nota  di  letizia,  di  serena  esul- 
tanza della  natura,  del  sole,  dell'essere;  un  accento  di  amore,  di  per- 
dono, di  rinnovamento  primaverile.  Gli  Svevi  ci  rappresentano  la 
fioritura  gaia  della  cavalleria  medioevale,  piena  di  baldanza,  audace, 
.  amante  della  coltura,  che  toma  a  considerare  con  simpatia  l'antichità 
e  il  classicismo. 

Cominciano  le  letterature  in  volgare,  in  lingua  d'oc,  in  lingua 
d'ozZ,  in  lingua  di  sì;  le  arti  della  pittura,  della  scultura,  dell'archi- 
tettura acquistano  coscienza  di  sé;  ammirando  intensamente  il  pas- 
sato lontano  della  civiltà  greco-romana,  he  traggono  fiducia  pel  pre- 
sente, speranza  per  l'avvenire.  *" 

Si  eleva  il  concetto  della  donna,  come  sorriso  e  ispirazione  della 
vita. 

Il  movimento  di  raffinamento,  di  idealizzazione  (mi  si  perdoni 
l'espressione)  del  concetto  della  donna,  che  si  rivela  nella  poesia  italo- 
provenzale  del  XIII  secolo,  culmina  in  Dante.  Mentre  i  poeti  suoi  pre- 
decessori donano  alle  gentili  creature,  oggetto  del  loro  culto,  tutti 
gli  attributi  di  perfezione  fisica,  di  grazia  e  di  cortesia,  egli  battendo 
via  nuova  adoma  la  sua  donna  di  ogni  qualità  di  perfezione  spiri- 
tuale (3). 

Dopo  Dante  assistiamo  ad  un  movimento  inverso,  di  discesa  e  di 
abbassamento  del  concetto  della  donna,  che  si  fa  pivi  realistico  e  ma- 
teriale, dal  Boccaccio  giù  giìi  fino  ai  Novellatori  del  quattrocento. 

L'amore  nella  seconda  metà  del  xiii  secolo  diventava  un  senti- 
mento di  vera  adorazione,  distinta  e  al  di  sopra  di  ogni  pensiero  di 
amore  sensuale,  un  sentimento  di  cavalleresca  devozione  verso  una 
donna,  né  moglie  né  amante,  di  rinunzia  a  sé  medesimo,  che  dava 
tutto  e  non  esigeva  nulla; 

Anzi  in  servir  mi  trovo  guiderdone 

canta  Bonagiunta  da  Lucca;  onde,  come  dice  Moore,  «  lo  spirito  del- 
l'uomo, fosse  cavaliere  o  poeta,  era  reso  capace  di  abnegazione  e  di 
nobili  azioni,  e  di  sorgere  ad  un  più  elevato  ideale  della  vita»  (4). 

La  passionata  anima  di  Dante  spingeva  tutto  questo  al  colmo, 
con  la  quasi  divinizzazione  di  una  persona  reale;  la  prima  entusia- 

(1)  Cumpe lìdio,   §   7. 

(2)  Ibid..   §  5. 

(3)  Moore.  Studies  in  Dante,   II  series,   pag.   138. 

(4)  Ibid.,  pag.   118. 


320  BEATRICE 

stica  ammirazione  del  giovanetto  e  dell'adolescente  si  trasforma  e  si 
sublima,  quasi  inconsapevolmente,  dopo  la  morte  di  Beatrice  e  la 
forzata  rinunzia  ad  ogni  più  nebulosa  speranza  di  appagamento  ter- 
reno, in  una  adorazione  mistica  e  poetica  della  sua  personalità  quale 
incarnazione  dell'ideale  di  perfezione  femminile. 
Beatrice  è  diventata  pel  Poeta 

Quella  ohe  imparadisa  la  mia  mente  (1). 
Quella  donna  che  a  Dio  mi  menava  (2). 

Io  non  metto  in  dubbio  l'esistenza  di  Beatrice,  come  donna  reale, 
che  Dante  veramente  vide  ed  amò.  Boccaccio,  Petrarca,  e  tutti  i  tre- 
centisti, che  erano  al  caso  di  saperne  qualcosa  anche  per  tradizione 
orale,  non  ne  dubitarono  mai.  Fu  primo  il  Filelfo,  un  secolo  e  mezzo 
dopo  la  morte  di  Dante,  a  esprimere  un  dubbio  in  proposito,  ma  la 
sua  voce  rimase  senza  eco  fino  al  secolo  xviii,  quando  il  Biscioni 
tornò  a  sostenere  che  Beatrice  non  fosse  stata  mai  altro  che  una  fan- 
tasia del  Poeta  come  allegoria  della  Sapienza.  La  tesi  della  non  realtà 
di  Beatrice  fu  ripresa  nel  secolo  scorso,  e  dottamente  sostenuta  da 
vari,  tra  cui  primo  il  Bartoli. 

Non  intendo  esporre  qui  tutta  la  questione.  Dirò  soltanto  che  a 
credere  fermamente  all'esistenza  storica  di  Beatrice  ci  si  trova  in  ot- 
tima compagnia;  Mazzini,  Tommaseo,  Balbo,  Fraticelli,  Giuliani, 
Carducci,  Del  Lungo,  D'Ovidio,  D'Ancona  (3),  Zingarelli,  Barbi,  Sche- 
rillo,  Witte,  Moore,  Toynbee  e  tanti  altr\  sono  di  questo  parere. 

Ma  pili  che  dall'autorità  degli  scrittori,  o  dalle  sottili  argomenta- 
zioni critiche  e  dai  minuti  confronti  di  testi  e  di  date,  che  confortano 
questa  credenza,  io  traggo  la  mia  convinzione  dal  sentimento  gene- 
rale che  traspira  da  ogni  passo  in  cui  Dante  parla  di  Beatrice,  anche 
là  dove  la  consideri  come  simbolo,  ritrovandovi  vivi  e  palesi  i  segni 
di  un  amore  profondo  e  passionato,  non  solo  pensato  ma  sentito  e 
vissuto  dal  Poeta  per  una  creatura  reale,  in  carne  ed  ossa,  da  lui  «  an- 
gelicata»  (4). 

Lo  Scartazzini  ed  altri  dietro  lui,  ammettono  la  realtà  storica  di 
Beatrice,  ma  non  vogliono  che  si  chiamasse  Portinari,  come  ce  ne 
assicura  il  Boccaccio.  Invece  ser  Piero  Bonaccorsi,  notaio  del  quat- 
trocento, ci  dice  che  l'amore  di  Dante  fosse  per  una  figlia  minore  di 
Folco  Portinari,  chiamata  Felice  (o  Felicita;  Fia  apparisce  nel  testa- 
mento paterno)  e  che  il  Poeta  si  servisse  del  nome  della  sorella  mag- 
giore Bice  come  di  schermo  di  fronte  al  pubblico.  Su  questi  punti, 
ohe  direi  di  mera  nomenclatura,  ai  fini  del  presente  nostro  discorso 
non  mi  riscaldo  gran  fatto.  Dirò  come  quello  studente,  che,  all'esame 


(1)  Par.,  XXVllI,  3. 

(2)  Ibid..  XVIII,  4. 

(3)  Alessandro  D'Ancoaa  osserva  acutamente,  a  riprova  della  reale  em- 
stenza  di  Beatrice,  che  Dante  nella  Dirina  Commedia  la  ricorda  semplicemente 
per  nome  soltanto  quando  parla  all'amico  personale  Forese  {Purg.,  XXIII,  128), 
all'unica  cioè  tra  le  anime  rammentate  nel  {>oeima  cui  quel  solo  nome  bastasse 
a  dir  tutto  s«>nj5a  altre  ^iegaaioni.  Vedi  Scritti  Danteschi,  Firenae,  Sansoni, 
a  pag.  226. 

(4)  Balìato,  IV,  18. 


BEATRICE  321 

li  lettere  greche,  dopo  aver  arditan^nte  affermato  che  Omero  non 
-ra  mai  esistito,  interrogato  intomo  a  chi  avesse  in  tal  caso  scritto 
ì  Iliade  e  VOdissea,  rispondeva  disinvolto  :  «  Un  altro  dello  stesso 
nome  ».  Per  considerare  la  individualità  di  Beatrice  come  ci  scatu- 
risca viva,  lieta  e  ridente  dalle  divine  pagine  dell'Alighieri,  poco  im- 
porta quale  fosse  realmente  il  suo  nome  o  cognome.  Della  sua  esi- 
stenza storica  c'importa  invece  moltissimo,  poiché  essa  fornisce  un 
fondamento  reale,  dà  coìpo,  vita  e  calore  all'alto  immaginare  del 
Poeta,  e  avvince  alla  pura  e  luminosa  fìgiira  di  monna  Bice  il  nostro 
affetto,  il  nostro  cuore. 

Noi  conosciamo  la  personalità  di  Beatrice  quale  si  specchiò  nel- 
l'animo del  Poeta,  quale  ^fi  la  sentì  e  la  ritrasse,  nella  Vita  Nuova, 
•lel  Convivio,  nel  Canzoniere  e  più  tardi  nella  Divina  Commedia. 
\irinfuori  di  quanto  leggiamo  in  Dante,  non  abbiamo  dati  certi  in- 
tomo a  lei,  tranne  la  detta  indicazione  del  suo  nome  di  famiglia  for- 
nitaci dal  Boccaccio,  che  scrisse  circa  45  anni  dopo  la  morte  del  Poeta  : 
«  Fu  adunque  questa  donna  »  —  così  messer  Giovanni  nel  Comento 
—  «  (secondo  la  relazione  di  fede  degna  persona,  la  quale  la  conobbe 
e  fu  per  consangruinità  strettissimo  a  lei)  figliuola  di  un  valente  uomo 
chiamato  Folco  Portinari,  antico  cittadino  di  Firenze  :  e  comecché 
l'autore  sempre  la  nomini  Beatrice  dal  suo  primitivo,  ella  fu  chia- 
mata Bice...  E  fu  di  costumi  e  di  onestà  laudevole,  quanto  donna 
esser  debba  e  possa  :  e  di  bellezza  e  di  leggiadrìa  assai  ornata  :  e  fu 
moglie  d'un  cavaliere  de'  Bardi,  chiamato  messer  Simone,  e  nel  ven- 
tiquattresimo anno  della  sua  età  passò  di  questa  vita,  negli  anni  di 
Cristo  MCCXC  ».  Folco  Portinaci  fu  il  fondatore  dello  Spedale  di 
Santa  Maria  Nuova  in  Firenze,  che  dotò  pure- largamente  alla  sua 
morte.  Di  lui  abbiamo  il  testamento  (1),  in  data  15  gennaio  1288, 
dove  parla  dei  suoi  cinque  figli  e  delle  sei  figliuole,  tra  cui  nomina 
madonna  Bice,  maritata  nei  Bardi,  lasciandole  5r»  fiorini.  Nella  Vita 
XìMva  il  padre  di  Beatrice  é  detto  «  buono  in  alto  grado  »  (2). 

Altra  menzione  della  identità  della  Beatrice  dantesca  con  Bice 
Portinari  si  troverebbe  in  un  passo  di  due  codici  f3;  del  Com,mento 

ii  Pietro  Alighieri,  commento  che  fu  scritto  qualche  anno  prima  delle 
letture  fiorentine  del  Boccaccio,  ma  vi  é  chi  contesta  la  piena  autenti- 
cità del  passo  stesso,  sostenendo  che  si  tratti  di  un  rifacimento  poste- 
riore del  testo. 

In  quanto  a  fatti  reali  che  riguardino  Beatrice,  ben  poco  rica- 
viamo anche  dallo  stesso  Dante.  Essi  sono  tutti  contenuti  nella  Vita 
Nìiova,  che  ci  narra  dei  vari  incontri  del  Poeta  con  la  sua  donna  e  ci 
conduce  fino  alla  morte  di  lei.  Si  tratta  di  pochi  brani  e  brevi,  e 
credo  farvi  cosa  grata  rileggendovene  addirittura  il  testo. 

• 

•  • 

Il  primo  incontro  avvenne  quando  il  Poeta  era  ancora  un  fan- 
ciullo novenne,  Beatrice  avendo  circa  un  anno  meno  di  lui  (4).  «  Ap- 

(1)  Vedi  ÀLESSAKOito  D'Ancona,  Nuova  Antologia,  1°  giugno  1890. 

(2)  Vita  Nuora,    §   XXII 

(3)  Ashburnham  e  Barberini. 
(4>  Vita  Nttova,  §  II. 


322  BEATRICE 

parve  vestita  di  nobilissimo  coione  umile  ed  onesto,  sanguigno,  cinta 
e  ornata  a  la  guisa  che  a  la  sua  giovanissima  etade  si  con  venia  ».  A 
questo  primo  incontro  toma  ad  alludere  nel  Purgatorio  : 

L'alta  virtù  che  già  m'avea  trafitto 
Prima  ch'io  fuor  di  puerizia  fosse  (1). 

Il  secondo  episodio  riguarda  il  primo  saluto  di  Beatrice  :  «  Poi 
che  furono  passati  tanti  die,  che  appunto  erano  compiuti  li  nove 
anni  appresso  l'apparimento  soprascritto  di  questa  gentilissima,  ne 
l'ultimo  di  questi  die  avvenne,  che  questa  mirabile  donna  apparve 
a  me,  vestita  di  colore  bianchissimo,  in  meazo  di  due  gentili  donne, 
le  quali  erano  di  più  lunga  etade;  e  passando  per  una  via,  volse  li  oc 
chi  verso  quella  parte  ov'io  era  molto  pauroso;  e  per  la  sua  ineffabile 
cortesia,  la  quale  è  oggi  meritata  nel  grande  secolo,  mi  salutò  molto 
virtuosamente,  tanto  che  me  parve  allora  vedere  tutti  li  termini  de 
la  beatitudine  »  (2). 

Dopo  di  che  Dante  ci  dice  di  aver  riveduta  Beatrice  in  chiesa 
durante  le  funzioni  e  ci  narra  di  due  suoi  corteggiamenti  ad  altre 
gentili  donne,  intesi  a  mascherare  agli  occhi  del  pubblico  la  sua  vera 
passione;  il  primo  con  la  donna  schermo  «di  molto  piacevole 
aspetto  »  (3),  e  poi,  partita  quella,  con  una  seconda  che  doveva  fare 
la  stessa  parte  di  difesa  del  suo  segreto  :  «  dico  che  in  poco  tempo  la 
feci  mia  difesa  tanto,  che  troppa  gente  ne  ragionava  oltre  li  termini 
de  la  cortesia;  onde  molte  fiate  mi  pesava  duramente.  E  per  questa 
cagione,  cioè  di  questa  soverchievole  voce  che  parca  che  m'infamasse 
viziosamente,  quella  gentilissima,  la  quale  fu  distruggitrice  di  tutti 
li  vizi  e  regina  de  le  virtudi,  passando  per  alcuna  parte,  mi  negò  lo 
suo  dolcissimo  salutare,  ne  lo  quale  stava  tutta  hi  mia  l^eatitu- 
dine...  »   (4). 

«  Dico  che  qunado  ella  apparia  da  parte  alcuna,  per  la  speranza 
de  la  mirabile  salute  nullo  nemico  mi  rimanea;  anzi  mi  giugnea  una 
fìammia  di  caritade,  la  quale  mi  facea  perdonare  a  chiunque  m'avesse 
offeso  :  e  chi  allora  m'avesse  domandato  di  cosa  alcuna,  la  mia  rispon- 
sione  sarebbe  stata  solamente  «  Amore  »,  con  viso  vestito  d'umili- 
tade...  »  (5). 

«  Ora,  tornando  al  proposito,  dico  che,  poiché  la  mia  beatitudine 
md  fue  negata,  mi  giunse  tanto  dolore,  che  partito  me  da  le  genti,  in 
solinga  parte  andai  a  bagnare  la  terra  d'amarissdme  lagrime...  »  (6). 

Il  quarto  episodio  che  ci  narra  il  Poeta  si  avvera  quando,  essendo 
egli  stato  condotto  da  un  amico  in  una  riunione  di  leggiadre  donne 
che  facevano  compagnia  ad  una  novella  sposa,  provò  un  forte  smar- 
rimento al  vedere  inaspettatamente  in  mezzo  a  loro  la  sua  Beatrice  : 
«  Io  dico  che  molte  di  queste  donne,  accorgendosi  de  la  mia  trasfigu- 
razione, si  cominciaro  a  maravigliare,  e  ragionando  si  gabbavano  di 
me  con  questa  gentilissima  :  onde  lo  ingannato  amico  di  buona  fede 

(1)  Purg.,   XXX,   41-2. 

(2)  Vita  Nuora.   ?    IH. 

(3)  Tbid.,    5   V. 

(4)  Ibid.,  §  X. 

(5)  Ibid.,   §  XI. 

(6)  Ibid..    5   XTI. 


BEATRICE  323 

mi  prese  la  mano,  e  traendoma  fuori  de  la  veduta  di  queste  donne  mi 
domandò  che  io  avessi...  E  partitomi  da  lui,  mi  ritomai  ne  la  camera 
de  le  lagrime;  ne  la  quale,  piangendo  e  vergognandomi,  fra  me  stesso 
dicea:  Se  questa  donna  sapesse  la  mia  condizione,  io  non  credo  che 
così  gabbasse  la  mia  persona,  anzi  credo  che  molta  pietade  le  ne  ver- 
rebbe (1). 

Questo  episodio  del  gabbo  di  Beatrice  sembra  ad  alcuno  che  stoni 
alquanto  col  contegno  riservato  e  composto  che  s'addice  a  colei  che 
Dante  chiama  «  la  donna  della  cortesia  »  (2). 

Non  spiegherò  l'incidente,  a  difesa  di  quella  gentilissima,  come 
quel  predicatore  della  Val  d'Aosta  che,  avendo  vietate  alle  sue  par- 
rocchiane  di  fermarsi  alla  fontana  del  paese  a  pettegolare  coi  vicini, 
trovandosi  poi  imbarazzato  a  conciliare  i  suoi  precetti  col  racconto 
evangelico  di  essersi  Gesù  trattenuto  al  pozzo  con  la  Samaritana,  se 
ne  sbrigava  con  la  considerazione  che  dopo  tutto  :  A  Ve  pa  lon  ca  Va 
fàit  d  mei  (non  è  quello  che  nostro  Signore  abbia  fatto  di  meglio). 
L'episodio  del  gabbo  di  Beatrice  panni  anzi  tale  da  aggiungere  un 
Lrrazioso  colorito  di  naturalezza  e  di  verità  alla  soave  e  ridente  figura 
Iella  giovane  donna;  è  un  tratto  di  monelleria  giovanile  che  sempre 
più  attira  a  lei  la  nostra  simpatia;  si  vorrebbe  formulare  un  rimpro- 
vero, e  non  si  riesce  che  a  sorridere  amorevolmente. 

Quindi  Dante  racconta  di  essersi  imbattuto  per  le  strade  di  Fi- 
renze con  monna  Vanna  —  donna  «  di  famosa  beltade  »,  cantata  da 
Guido  Cavalcanti,  che  Dante  chiama  primo  dei  suoi  amici  —  «  e  ap- 
presso lei,  guardando,  vidi  venire  la  mirabile  Beatrice.  Queste  donne 
andaro  presso  di  me  così  l'una  appresso  l'altra...  »  (3). 

Tutti  questi  incontri  gli  forniscono  fortunatamente  motivo  di 
scrivere  dolcissimi  versi  intomo  al  suo  amore. 

«Questa  gentilissima  donna...  venne  in  tanta  grazia  de  le  genti 
che  quando  passava  per  via,  le  persone  correano  per  vedere  lei;  onde 
mirabile  letizia  me  ne  giungea...  Ella  coronata  e  vestita  d'umilitade 
s'andava,  nulla  gloria  mostrando  di  ciò  ch'ella  vedea  e  udia  »  (4). 

E  qui  non  reggo  alla  tentazione  di  leggervi  almeno  i  due  sonetti 
cui  il  Poeta  ragiona  del  saluto  di  Beatrice  : 

Negli  occhi  porta  la  mia  donna  Amore; 
Per  che  si  fa  gentil  ciò  ch'ella  mira: 
Ov'ella  passa,  ogni  uom  vèr  lei  si  gira, 
E  cui  salata  fa  tremar  lo  core. 

Sicché,  bassando  il  viso,  tutto  smore, 
E  d'ogni  suo  difetto  allor  sospira: 
Fugge  dinanzi  a  lei  superbia  ed   ira 
Aiutatemi,   donne,    a   farle  onore. 

Ogni   dolcezza,   ogni  pensiero  umile 
Nasce  nel  core  a  chi  parlar  la  sente  ; 
Ond'è  laudato  chi  prima  la  vide. 

(1)  Vita  Suova,   §  XIV. 

(2)  Ibid.,  XII. 

(3)  Ibid.,  XXIV. 
(4^  Ibid..  XXVI. 


324  BEATRICE 

Quel  ch'ella  par  quando  un  poco  sorride, 
Non  si  può  dìòer,  né  tenere  a  mente, 
Sì  è  novo  miracolo  gentile  (1). 

Meravigliosa  poi  è  l'altra  gemma: 

Tanto  gentile  e  tanto  onesta  pare 

La  donna  mia,  quand'ella  altrui  saluta, 
Ch'ogni  lingua  divien  tremando  muta, 
E  gli  occhi  non  l'ardiscon  di  guardare. 

P^lla  si   va,  sentendosi    laudare, 
-  Benignamente  d'umiltà  vestuta; 

E  par  che  sia  una  cosa  venuta 
Da  cielo  in  terra  a  miraool  mostrare. 

Mostrasi  sì  piacente  a  chi  la  mira^ 

Che  dà  per  gli  occhi  una  dolcezza  al  core. 
Che  intender  non  la  può  ohi  non  la  prova. 

E  par  che  de  la  sua  labbia  si   muova 
Un  spirito  soave  pien  d'amore 
Che  va  dicendo  a  l'anima  :   sospira  (2). 

Dopo  di  ciò  nella  Vita  Nuova  si  narra  della  morte  del  padre  di 
Beatrice,  avvenuta  nel  1289,  e  della  grande  afflizione  di  lei  :  «  mani- 
festo è  che  questa  donna  fue  amarissimamente  piena  di  dolore  »  (3). 

Un  anno  dopo  il  padre,  muore  lei  stessa,  salendo  «  di  carne  a 
spirto»  (4),  rs  giugno  1290;  «  lo  Signore  de  la  giustizia  chiamòe  que- 
sta gentilissima  a  gloriare  sotto  la  insegna  di  quella  regina  bene- 
detta Virgo  Maria,  lo  cui  nonne  fue  in  grandissima  reverenzia  ne  le 
parole  di  questa  Beatrice  beata  »  (5) . 

Ita  n'è  Beatrice  in  l'alto  cielo 
Nel  reame  ove  li  angeli  hanno  pace, 

E  sta  con  loro (6) 

està  vita  noiosa 

Non  era  degna  dì  n  gentil  cosa  (7).  • 

Ecco  riferito  tutto  quanto  sappiamo  di  positivo  intomo  a  Bea- 
trice. In  ogni  altro  passo  della  Vita  Nuova  o  degli  scritti  posteriori  il 


(1)  Vita  Nuova,  son.  XI. 

(2)  Vita  Nuovo,  son.  XV.  Felix  Anvere  (1806-1860)  nel  noto  sonetto  cui 
deve  tutta  la  sua  fama,  dice  della  sua  donna: 

«  Pour  elle,   quoique   Dieu  l'ait  faite  douoe  et  tendre, 
Elle  suit  son  chemin,  distraite  et  sans  entendre 
Ce  murmure  d'amour  élevé  sur  ses  pas  ». 

(3)  Vita  Nuova.  XXII. 

(4)  Purg.,  XXX,  127. 

(5)  Vita  Nuova,  XXVHI. 

(6)  Ibid.,  canna.  IV,  56-8. 

(7)  Ibid.,  canz.   TV,  67-8. 


BEATRICE  3'iÒ 

Poeta  parla  di  lei,  nell'ordine  dei  fatti,  non  come  di  persona  reale, 
ma  secondo  che  essa  gli  apparisce  in  visione  o  in  sogno,  o  come  sim- 
bolo. 

Piangendo  la  morte  della  sua  donna  Dante  chiude  la  Vita  Nttova. 
in  cui  racconta  la  breve  storia  della  sua  passione,  con  l'impegno  so- 
lenne «  di  dicer  di  lei  »,  se  Dio  gli  concederà  alquanti  anni  di  vita, 
«  quello  che  mai  non  fue  detto  d'alcuna  »  fi).  E  tenne  parola. 

* 
*• 

Nella  Divina  Commedia  Beatrice,  che  simboleggia  le  Rivelazione 
divina, 

quella 

Che  lume  fia  tra  il  vero  e  l'intelletto  (2), 

)ssa  da  sjmta  Lucia  dietro  un  cenno  di  Maria  Vergine,  si  presenta 
[nel  Limbo  a  Virgilio,  che  personifica  l'umana  Ragione,  e  lo  manda 
[in  aiuto  di  Dante,  per  trarlo  fuori  dalla  selva  selvaggia  delle  passioni 
fterrene  e  ricondurlo  sulla  retta  via. 

*Gol  fascino  del  solo  nome  di  Beatrice,  Virgilio  riesce  a  vincere 
[c^ni  esitazione, .  ogni  stanchezza,  ogni  timore  di  Dante  durante  il 
ilungo  e  periglioso  viaggio  in  cui  gli  è  compagno;  così,  fin  dall'inizio, 
^allorché  il  nostro  Poèta  tituba  ad  imprendere  la  paurosa  discesa  nel- 
irinfemo,  come  quando,  all'uscita  dal  Purgatorio,  non  sa  decidersi  a 
[traversare  il  cerchio  di  fuoco  che  cingendo  l'ultimo  girone  chiude  il 
[passo  al  Paradiso  terrestre.  Dante  terrorizzato  non  osa  avventurarsi 
3lle  fiamme  malgrado  le  esortazioni  e  le  assicurazioni  di  Virgilio  : 

Quando  mi  vide  star  pur  fermo  e  duro. 
Turbato  un  jxx»,  disse:   Or  vedi,  figlio, 
Tra   Beatrice  e  te   è   questo   muro. 

Come  al  nome  di  Tisbe  aperse  il  ciglio 
Piramo,  in  sulla  morte,  e  riguardolla, 
Allor  che   il   gelso  diventò   vermiglio; 

Cosi,   la   mia  durezza   fatta   solla, 

Mi  volsi   al   savio   Duca,   udendo  il  nome 
Che  nella   mente  sempre   mi   rampolla. 

Ond'ei  crollò  la  fronte  e  disse:   Come? 
Volemoi  star  di  qua?  —  indi  sorrise, 
Come  al  fanciul  si  fa  «ah'è  vinto  al  pome  (3). 

Il  nome  di  Beatrice  non  viene  però  mai  pronunciato  fintantoché 
il  Poeta  si  aggira  tra  i  dannati,  comunque  a  lei  si  ailluda  più  volte  (4). 


(1)  Vita  Nuova,  XLII. 

(2)  Purg.,  VI,  44. 

(3)  Purg.,  XXVII,  34-45. 

(4)  Inf.,  X,  63  e  130;  XII,  88;  XV,  90.  Vedi  Alessandro  D'Ancon.a,  Sciitti 
Danteschi.  Firenze,   1912,  pagg.  216-221  e  224-229. 


326  BEATRICE 

Essa  stessa  poi  gli  comparisce  dinanzi 

a  disbranargrlt  la  decenne  sete  (1) 

(€a*a  morta  nel  1290  e  il  viaggio  di  Dante  nei  regni  d'oltretomJba  figura 
fatto  nel  1300)  sopra  un  mistico  carro,  vestita  dei  colori  delle  tre 
Virtù  teologali,  nel  Paradiso  terrestre,  oltre  il  quale  Virgilio  non  gli 
può  più  servire  di  guida. 

E  lo  spirito  mio,  che  già  cotanto 
Tempo  era  stato  ohe  alla  sua  presenza 
Non  era  di  stupor  tremando  affranto, 

Senza  degli   occhi   aver  piìi   conoscenza. 
Per  occulta  virtìi  che  da  lei  mosse. 
D'antico  amor  senti  la  gran  potenza  (2). 

Essa  si  rivolge  con  tono  severo  a  Dante,  chiamandolo  diretta- 
mente per  nome,  e  lo  rimprovera  di  non  aver  serbato  fede  alla  sua 
memoria  sì  tosto  che,  giunta  «  in  su  la  soglia  »  di  sua  «  seconda 
etade  »,  aveva  lasciata  la  vita  terrena: 

Alcun  tempo  il  sostenni  col  mio  volto; 
Mostrando   gli   occhi  giovinetti   a   lui. 
Meco  il  menava  in  dritta  parte  volto. 


Quando  di  carne  a  spirto  era  salita, 
E  bellezza  e  virtìi  cresciuta  m'era, 
Fu'  io  a  lui  men  cara  e  men  gradita: 

E  volse  i  passi  suoi  per  via  non  vera, 
Imagini  di  ben  seguendo  false (3). 


Dante  piangente  confessa: 


.  .  .  .     Le  presenti  cose 

Col  falso  lor  piacer  volser  miei  passi 

Tosto  che  il  vostro  viso  si  nascose (4). 


Ma  Beatrice. 


....   perchè  altra  volta 

Udendo  le  Sirene  sie  più   forte  (5) 


seeniita  h  rincarargli  la  dose 


Mai  non  t'appresentò  natura  o  arte 
Piacer,  quanto  le  belle  membra  in  ch'io 
Rinchiusa  fui,  e  sono  in  terra  sparte  ; 


(1)  Purg.,  XXXII,  2. 

(2)  Tbid.,  XXX.  34-89. 

(3)  Tbid..  XXX,  121-123  e  127-131. 

(4)  Ibid..  XXXI.  34-36. 

(5)  Tbid..  XXXT.  44-45. 


BEATRICE  327 

E  se  il  aomino  piacer  si  ti  fallio 
Per  la  mia  morte,  qual  cosa  mortale    ' 
Dovea  poi  trarre  te  nel  suo  desìo?  (1) 

Non  ti  dovea  gravar  le  penne  in  giu&o, 
Ad  aspettar  più  colpi,  o  pargoletta, 
O  altra  vanità  con  sì  breve  uso  (2). 

E  il  Poeta  riconoscendo  tutta  la  sua  colpa  e  vinto  dal  pentimento 
e  dalla  vergogna  cade  tramortito. 

Beatrice  poi  lo  accooipagna  come  scorta  nel  suo  pellegrinaggio  a 
traverso  i  nove  cieli,  e  finalmente  lo  lascia,  nell'Empireo,  dopo  averlo 
affidato  a  san  Bernardo,  simbolo  della  Contemplazione,  per  rioccu- 
pare nella  "candida  Rosa  degli  eletti  il 

trono  che  i  suoi  merti  le  sortirò  (3). 


Non  è  dato  ad  ogni  donna  di  riunim  in  sé  tutte  le  doti  e  i  pregi 
di  cui  era  adoma  Beatrice, 

lume  di  cielo  in  creatura  degna  (4), 

e  meno  ancora  di  poter  esercitare  il  suo  fascino  sopra  un'anima  vasta 
e  profonda  ed  una  mente  titanica  come  quella  di  Dante;  però  nel 
senso  in  cui  più  volte  il  Poeta,  seguendo  l'uso  del  tempo  che  credeva 
ad  una  comunione  sostanziale  delle  cose  con  le  parole,  «  con  ciò  sia 
cosa  che  li  nomi  seguitino  le  nominate  cose  »  (5),  nel  senso  dico  in  cui 
egli  allude  al  nome  della  sua  donna,  quello  di  dare  beatitudine,  di 
soleggiare  l'altrui  vita,  non  è  precluso  a  quasi  nessuna,  che  abbia 
animo  gentile,  di  rappresentare,  nelle  varie  sue  relazioni  di  madre, 
sorella  o  compagna  dell'uomo,  la  parte  di  Beatrice. 

«  Ogni  cosa  bella  è  un  raggio  della  luce  divina  »  (6);  è  una  rivela- 
zione di  Dio. 

Ogni  donna  che,  per  dirla  con  Dante,  abbia  «  intelletto  d'a- 
more »  (7),  può  esercitare  una  potente  influenza  elevatrice  ed  educa- 
trice su  coloro  che  la  circondano,  e  sopratutto  su  chiunque  sia  legato 
a  lei  da  vincolo  di  afletto. 

Non  tutti  gli  uomini  possono  spiccare  il  vole  sublime  di  Dante, 
ancorché  ispirati  da  una  Beatrice,  ma  ogni  Beatrice  può  e  deve  spin- 
gere ciascuno  a  tentare  quel  più  alto  volo  che  le  sue  ali  consentano, 
nel  che  sta  compreso  tutto  il  suo  dovere  verso  sé  e  verso  gli  altri. 

L'amore,  l'affetto,  il  pensiero  della  donna  sono  nell'animo  nostro 
le  vestali  che  tengono  aco^a  la  fiamma  sacra  dell'ideale,  in  mezzo  a 

(1)  Purg.,  XXXI,  49-54. 

(2)  Ibid.,  XXXI.  58-60. 

(3)  Par.,  XXXI,  69. 

(4)  Canz.,  XVII,  40. 

(5)  Vita  Nuova,  XIII. 

(6)  Ida  Zocchi,  nel  GiornaU  Dantesco,  anno  XIII,  pag.  166. 

(7)  Vita  Nuova,  canz.  I. 


ó'ib  BEATRICE 

tutte  le  inevitabili  lotte,  gli  attriti,  le  amarezze  e  gli  scoramenti  della 
vita  d'ogni  giorno. 

«  La  femane  »>  —  scrive  Ernest  Renan  —  «  nous  remet  en  commu- 
iiication  avec  l'étemelle  source  où  Dieu  se  mire  »  (1). 

Per  svolgere  il  suo  benefico  influsso  non  fa  mestieri  che  la  donna 
abbia  ad  indicare  lei  all'uomo,  su  cui  spiega  il  suo  dolce  imperio  d'af- 
fetto, la  meta  precisa  cui  egli  debba  tendere  e  la  via  da  percorrere  per 
raggiungerla;  basta  che  sappia  avvivare  nell'animo  di  lui,  secondo  la 
varia  sua  natura,  la  scintilla  dell'elevazione  spirituale.  Non  si  tratta 
tanto  di  guidare,  quanto  di  ispirare  e  sorreggere;  si  tratta  di  infon- 
dere la  fede  nell'ideale,  l'anelito  al  bene,  al  vero,  al  giusto,  la  volontà 
dell'azione,  la  perseveranza  di  fronte  alle  traversie,  la  pietà  per  il 
debole  e  l'infelice,  la  costante  subordinazione  dell'io  al  servizio  di 
un'ide<L,  la  carità  in  tutto  e  verso  tutti. 

Siffatta,  influenza  che  tende  segnatamente  a  raffinare  la  stessa 
natura  dell'uomo,  intensific-ando  quel  che  già  esiste  di  migliore  in  lui, 
non  richiede  in  chi  la  eserciti  superiorità  di  energia  morale,  di  acume 
intellettuale  o  di  esperienza  della  vita,  ma  solo  purità  di  cuore,  co- 
scienza squisita,  femminile  delicatezza  di  sentire. 

Ma  per  elevare  gli  altri,  bisogna  cominciare  con  l'innalzare  sé 
stessi;  per  educare  gli  altri  occorre  pure  disciplinare  l'animo  proprio. 

Già  Virgilio  c'insegna  che 

amore 


Acceso  di  virtù  sempre  altro  aooeee  (2) 


E  se  Beatrice  potè  «  imparadisare  »  (3)  la  mente  di  Dante  fu  per- 
chè essa  pure  mirava  in  alto  : 

Beatrice  tutta   nell'eterne  rote 
Fissa  con  gii  occhi  stava^  ed  io  in  lei 
Le  luci  fissi (4) 


e  di  nuovo  : 


Beatrice  in  suso  ed  io  in  lei  guardava  (6). 


A  ogrii  nuova  sfera  celeste  la  bellezza  di  lei  si  accresce,  ed  è  nel 
vederla  più  Isella  che  Dante  si  accorge  di  essere  salito  più  in  alto  ; 

Che  la  bellezza  mia,  che  per  le  scale 
Dell'eterno  palazzo    più    s'accende, 
Com'hai  veduto,  quanto  più  si  sale  (6). 

Beatrice  diventa  la  coscienza  morale  di  Dante;  a  lei  si  volge 

Per  vedere  in  Beatrice  il  miq  dovere  (7). 


(1)  Souvenirs  d'enfance,   Pr.   IX. 

(2)  Pwrg.,  XXII,  10. 
(.})  Par.,  XXVIII,  3. 

(4)  Ibid.,  I,  14. 

(5)  Ibid.,  II,  22. 

(6)  Ibid.,  XXI,  7. 

(7)  Ibid..  XVIII.  53. 


BEATRICE  329 

Essa  è 

Quella  che  vedea  i  pensier  dubi 
Nella  mia  mente  (1). 

Essa  è  donna  «  in  altissimo  grado  di  bontade  »  (2). 
Quando  Dante  rimane  turbato  dalle  fosche  predizioni  dell'avo 
Cacciagnida,  Beatrice  lo  incoraggia  e  lo  conforta: 

Mata   pensier^    pensa  (di' io  sono 

Presso  a  colui  ch'ogni  torto  disgrava  (3). 

In  questo  senso  Dante  la  chiama,  pure  «pietosa»  (4),  definendo 
la  pietà  come  «  una  nobile  disposizione  d'animo,  apparecchiata  di 
ricevere  amore,  misericordia,  e  altre  caritative  passioni  »  (5). 

Egli  dispregia  la  bellezza  senza  la  bontà  dell'animo  : 

Oh!   ootal   donna   pera 

Che  sua  beltà  diachiera 

Da  naturai  bontà (6). 

Si  tratta  di  quella  bontà  che  non  fa  consistere  tutta  la  virtù  nel- 
l'essere severi  con  gli  altri;  di  quella  bontà  soave  che  è  amore  diffuso, 
e  che  non  solo  ci  fa  «  dolere  dell'altrui  male  »  (7),  ma  anche  gioire  del 
.  bene  e  della  letizia  altrui  : 

» 

E   'n   se  medesma  'gode 

D'udire  e  ragionar  dell'altrui  prode  (8). 

Dante  non  ci  parla  mai  della  bellezza  femminile  senza  qualche 
accenno  di  natura  morale  o  sentimentale;  dietro  la  forma  egli  cerca 
sempre  l'anima;  e  nel  ragionare  della  stessa  venustà  esteriore,  ferma 
la  sua  attenzione  quasi  esclusivamente  sugli  occhi  e  sulla  bocca,  con- 
siderando  questa  nei  suoi  due  atti  del  parlare  e  del  sorridere  (9)  ;  «  li 
quali  due  luoghi  »  (cioè  gli  occhi  e  la  bocca,  che  egli  altrove  (10) 
chiama  principio  e  fine  d'amore)  «  per  bella  similitudine  si  possono 
appellare  balconi  della  donna  che  nello  edifìcio  del  corpo  abita,  cioè 
l'anima,  perocché  quivi,  avvegnaché  quasi  velata,  spesse  volte  si  di- 
mostra... E  che  é  ridere  se  non  una  corruscazione  della  dilettazione- 
dell'anima,  cioè  un  lume  apparente  di  fuori  secondo  che  sta  den- 
tro? »  (11).  Nella  stessa  occasione  egli  ci  dice  come  si  convenga  «al- 
l'uomo, a  dimostrare  la  sua  anima  nell'allegrezza  moderata,  modera- 
tamente ridere  con  un'onesta  severità  e  con  poco  movimento  delle- 


(1)  Par.,  XVIII,  97. 

(2)  Vita  Nuova,  XXII. 

(3)  Par.,  XVIII,  5. 

(4)  Convivio,   canz.   I,   46. 

(5)  Ihid.,  II,  11. 

(6)  Canz.,  144-46. 

(7)  Convivio.  II,  11. 

(8)  Ibid.,  canz.  IH,  ia5. 

(9)  Vita  Nuora.  XXI. 

(10)  Ibid.,  XIX. 

(11)  Convivio,  in,  8. 

22  Voi.   CCXVI,   serie  VI  —  16  febbraio  192?_ 


330  BEATRICE 

sue  membra  »,  «  senza  cachinno,  cioè  senza  schiamazzare  come  g'al- 
lina.  Ahi  mirabile  riso  della  mia  Donna...  che  mai  non  si  sentìa  se 
non  dell'occhio!  ». 

La  donna  del  Poeta  «...  si  lieta  come  bella  »  (1)  è  «  nobile  intel 
letto  »  (2);  è  «  saggia»  (3);  per  illustrare  la  quale  espressione  il  Poeta 
esclama:  «  Or  che  è  più  bello  in  donna  che  sa  vere!  »  (4).  Parole  dav- 
veri  mirabili,  per  moderna  larghezza  di  vedute,  in  un  tempo  in  cui 
si  discuteva  se  la  donna  anche  di  civile  condizione  dovesse  saper  leg- 
gere e  scrivere,  tanto  che  vediamo  Francesco  da  Barberino  nel  suo 
Reffgimeiito  e  costumi  di  Donna,  dopo  una  diffusa  argomentazione 
prò  e  contra,  decidere  per  il  no  (5),  dandoci  il  singolare  esempio  di 
un  libro  di  precetti  educativi  scritto  ad  uso  di  un  pubblico  che  l'au- 
tore vorrebbe  analfabeta. 

L'amore  d'i  Beatrice  invita  Dante  alle  opere  virtuose  : 

io  penso  un  gentil  desìo,   ch'è  nato 

Del  gran  desio  ch'io  porto, 

Ch'a  ben  far  tira  tutto  il  mio  potere  (6). 

«  La  sua  bellezza  ha  podestà  in  rinnovare  natura  in  coloro  che 
la  mirano  »  (7)  ;  —  dia  essa  muove 

un  spirito  gentile 

Ch'è  creatore  d'ogni   pensici-  Imono  (8). 

Beatrice  è: 

La  boUa  donna  ch'ai  elei  t'avvalora  (9); 

colei: 

Che  all'alto  volo   ti   vesti   le   piume   (10). 

È  dessa  ohe  lo  sospinge  di  cielo  in  cielo  : 

Sì  sua  virtù   la   mia  natura  vinse  (11). 


(1)  i'ar.,   il,  28. 

(2)  Vita  Nnova,  son.  XVI II,  l;i. 

(3)  Convivio,  can^.  I,  47. 

(4)  Ibid.,   II,  11. 

(5)  Iteugimento  e  costumi  di  Donnn;  fu  pubblicato  nel  1314  o  1315.  L'Au- 
tore fa  iin'ecoezione  per  la  fanciulla  che  intenda  darsi  alla  vita  monacale,  sog- 
giungendo però  subito: 

«  e  se  non  fosse  per  l'officio  loro 
io  loderìa  del  no  ancor  di  queste  ». 

(6)  Canz.    XIV,  49-51. 

(7)  Convivio,  III,  8. 

(8)  Ibid.,  canz.  Il,  63. 

(9)  Par.,  X,  94. 

(10)  Ibid.,  XV,  .54. 

(11)  Ibid.,  XXII,  102. 


BEATRICE  331 

A  lei  dedica  ogni  siia  attività  : 

Perocché  s'io   procaccio   di    valere 
Non   penso   tanto  a   mia   proprietate 
Quanto  a  oolei  che  m'ha  in  sua  jHxiestate;^ 
Che  '1  fo  perchè  sua  cosa,  in  pregio  monti  (1). 

Il  pensiero  di  lei  lo  riconduce  al  retto  sentiero  ogni  volta  che 
qualche  umana  debolezza  ne  lo  fa  sviare  : 

Che  rimirando  lei,   lo  mio  affetto 
Libero  fu  da  ogni  altro  disire  (2). 

Essa  è  la  sua  scorta,  la  «dolce  guida  e  cara»  (3)  a  traverso  gli 
sterpi  e  le  passioni  della  vita. 

Richiama  prima  in  suo  aiuto  la  Ragione,  e  lo  conduce  poi  gra- 
datamente essa  stessa,  «ch'opera  è  di  fede»  (4),  alla  contemplcizione 
dei  pili  alti  veri. 

L'amore  di  Beatrice  pur  invadendolo  tutto  non  deve  essere  così 
assorbente  da  soffocare  la  sua  libera  e  dritta  personalità  : 

volgiti  ed   ascolta, 

Che  non  pur  ne'  miei  occhi  è  paradiso  (5). 

La  comunione  più  perfetta  di  due  anime  non  deve  significare  la 
diminuzione  diella  personalità  di  ciascheduna,  o  il  desiderio  di  an- 
nientare 0  limitare  l'altrui  individualità;  —  per  integrarsi  a  vicenda 
occorre  che  ciascuno  contribuisca  sempre  qualche  cosa  di  proprio  e 
di  originale;  —  onde  necessita  (ed  è  ciò  che  troppo  spesso  si  dimen- 
tica nelle  unioni  tra  uomo  e  donna)  il  profondo  rispetto  dell'altrui 
libertà  morale  e  mentale. 

Ma  tutto  ciò  non  toglie  che  Dante  veda  ognora  in  Beatrice  «  la 
dolce  donna  »  (6),  «  il  mio  conforto  »  (7),  «  il  primo  diletto  della  mia 
anima»  f8),  «il  sol  degli  occhi  miei»  (9),  e  non  si  stanchi  mai  di 
riparlare  del 

piacer  degli  ooohi  belli 

Ne'  quai,  mirando  mio  desìo  ha  posa  (10). 

Cose   appariscon   nello  suo  aspetto 
•  Che  mostran  de'   piacer  del  Paradiso  ; 

Dico  negli  occhi  e  nel  suo  dolce  riso  (11); 


(1)  Canz.     XIV.   59-62. 

(2)  Par..   XVIII,   14. 
Ci)  Ibid..  XXIII.  34. 

(4)  Ping.,  XVIII,   48. 

(5)  Par.,  XVIII,  20. 

(6)  Ibid..  XXII.  100. 

(7)  Ibid..  XVIII,  8. 
(8>  Convivio,  II,  13. 
(9)  Par.,  XXX,  75. 

(10)  Ibid..  XIV,   131. 

(11)  Cniiv.,  canz.  II,  .55. 


332  BEATRICE 

il  quale  riso  egli  ci  descrive 

Tal,  che  nel  foco  farìa  l'uom  felice  (1); 

0  COSÌ  raggiante  e  lieto, 

Che  Dio  parea  nel  suo  volto  gioire  (2). 

«  Il  tentativo  d'inanellare  il  reale  e  Yideale^  il  simbolo  e  l'invisi- 
bile, la  terra  e  il  cielo,  tramuta  l'amiore  di  Dante  »  —  cito  parole  di 
Gius»eppe  Mazzini  —  «  in  tal  cosa  che  non  trova  analogia  fra  i  mor- 
tali; in  un  lavoro  di  purificazione  e  idealizzazione  che  addita,  con 
esempio  unico,  la  missione  dell'amore  e  della  donna  quaggiù...  »  ««  è 
un  amore  mesto  e  tormentato  da  un  senso  perenne  d'aspirazione  a 
un  idjeale  non  raggiunto...  », 

«  L'amore  di  Dante  non  inaridisce  gli  altri  affetti,  ma  li  feconda 
tutti,  ag:giunge  forza  al  sentimento  del  dovere  e  spande  la  vita  del- 
l'anima sino  agli  ultimi  confini  della  terra  »  (3). 

• 
•  • 

Della  gigantesca  opera  di  Dante,  che  ritissunne  in  sé  tutta  un  era 
di  storia  umana,  e  proietta  come  un  faro  radjoso  la  sua  luce  sopra 
tanti  secoli  da  venire,  si  può  ben  dire  quel  ch'egli  dice  della  sua 
donna  : 

Io  non  la  vidi  tante  volte  ancora 

Ch'io  non  trovassi  in  lei  nuova  bellezza  (4). 

Ed  è  dilettevole  talora  abbandonarsi  alle  varie  impressioni  che 
essa  desta  in  noi,  facendo  astrazione  da  ogni  considerazione  di  cxi- 
tic-a  storica  o  letteraria,  e  al  solo  lume  del  sentimento  nostro  odierno. 

Leggendo  la  Divina  Cotnnwdia,  se  da  un  lato  non  riusciamo  forse 
più  ad  avvertire,  o  per  lo  meno  ad  assaporare  a  dovere,  qualche 
finezza,  qualche  particolare  intonazione  troppo  strettamente  connessa 
con  la  mentalità  del  tempo  per  non  essersi,  per  così  dire,  volatiliz- 
zata col  piX)cesso  dei  secoli  (5),  dall'altro  possiamo  scoprire  in  essa, 
quasi  ad  ogni  lettura,  nuove  sfumature  di  sentimento  e  di  pensiero 
che  dovevano  sfuggire  ai  contem.poranei,  in  quanto  rappresentano  i 
primi  germi  di  tutto  un  concepimento  della  vita  proprio  dell'anima 
moderaa. 

È  stato  osservato  da  alcuno  che  il  Paradiso  di  Dante  difetta  di 
pathos,  di  nota  passionale.  Fatta  astrazione  dal  gaudio  trafcendentale 
delle  anime  per  la  diretta  loro  visione  di  Dio,  non  vi  si  parla,  in  fatto 
di  beatitudine,  che  d'intensità  di  luce  e  di  movimento,  di  dolcezza  di 
canti  e  di  ai-monia  delle  sfere  celesti;  e  tutto  ciò  lascia  un  po'  freddo  il 
cuore  umano. 

(1)  Par.,  VII,  18. 
(9)  Ibid.,  XXVII,  105. 

(3)  Mazzini,  Op^re,  voi.  IV,  paj:.   191  e  seg., 
(4>  Canz.  XIV,  71-72. 

(6)  «  Mein   Frrund,   die  Zritfn  <V?r  Verga naenheit 

Sind  uns  ein  Buoh  mit  siobon  Siopeln  ». 

OOSTHK. 


BEATRICE 


333 


Non  è  esatto.  Dante  introduce  nel  Paradiso,  di  cui  i  tratti  per  ar- 
rivare a  commuoverci  debbono  essere  necessariamente  umani  e  ter- 
reni, un  elemento  tutto  nuovo  e  moderno,  quello  della  perfetta  co- 
nmnione  delle  anime  tra  loro,  della  completa  e  reciproca  loro  per- 
meabilità; con  che  esse  toccano  quella  più  alta  felicità  che  il  cuore 
umano  possi,  non  dico  realizzare,  ma  perfino  immaginare. 

Il  grande  tormento  del  nostro  tempo  sta  nel  sentimento  profondo 
della  completa,  insanabile  solitudine  morale  dell'individuo,  chiuso 
in  sé  stesso  e  tagliato  da  ogni  possibilità  di  fusione  con  gli  altri. 

Restiamo  sempre  stranieri  gli  uni  agli  altri,  anche  dopo  anni 
vissuti  insieniie,  dopo  aver  combattuto  fianco  a  fianco  ogni  battaglia 
della  vita,  dopo  avere  insieme  pianto  e  sorriso,  a  malgrado  di  ogni 
sforzo  di  affetto  e  di  pensiero  per  fondere  m^lio  le  nostre  anime, 
per  comprenderci  Tun  l'altro;  nulla  vale  a  sfondare  il  muro  che  ci 
separa  spiritualnrjente. 

«  E  lo  strazio  di  ciascuno  sarà  la  propria  anima,  che  si  muore 
di  freddo  ». 

Così  il  poeta  inglese: 


Yet  each  will  bave  one  anguish 
Which  perishies  of  ooM. 


bis  own  soni 


i 


Questo  senso  di  solitudine  dell'anima  si  è  fatto  nell'età  recente 
più  vivo  e  tormentoso,  per  effetto  dello  stesso  moWmento  di  progres- 
siva spiritualizzazione  ed  elevazione  del  concetto  della  divinità,  in 
dipendenza  del  progresso  scientifico  moderno  e  della  trasformazione 
che  ha  subito  tutta  la  nostra  rappresentazione  ideologica  dell'uni- 
verso e  delle  sue  1^^. 

Vi  è  tutta  una  letteratura,  specialmente  anglosassone,  su  questo 
tema  dell'isolamento  spirituale.  Vorrei  saper  tradurre  convenevol- 
mente alcune  poesie  che  ne  trattano,  come  quella  di  Monckton  Mil- 
nes,  intitolata  «  Strangers  j^t  >»  —  stranieri  sempre,  —  e  i  versi  di 
John  Reble  (1),  di  Eliza  Clapp  (2),  di  Pearse  Cranch,  ecc.  (3).  John 
Oliver  Hobbes  (Mrs  Craigie)  scrive  a  un  amico  :  «  La  cosa  più  terri- 
fica nella  vita  è  l'isolamento  dell'anima  indi\iduale  »   (4).  E  Tom- 


il\  «  Not  even  the  tenderest  beart,  and  next  our  own, 

Knows  balf  tbe  reasons  wby  we  smile  or  sigb  ». 

2i  «  Alone,   alone 

The  soni  must  do  its  own  immortai  work; 
The  best  beloTed  most  distant  are;  the  near 
Far  severed  wide.  Soni  knows  not  soni, 
Not  more  then  these  unanswering  stars  divine  ». 
(3V  «  We  are  spirits  clad   in  v«ils 

Man   by  man  was  never  seen  ; 
AH  our  deep  communing  fails 
To  remove  the  shadowy  screen. 
Mind  with  mind  did  never  meet  ; 
Hea.rt  to  beart  was  never  known; 
W*e  are  colnmns  left  alone 
Of  a  tempre  once  complete  ». 
(4)  «  The  isolation  of  the  indi\-idual  eoul  is  the  terrific  tbing  in  life  ».  Let- 
tera del  1906.  Vedi  «  Life  of  John  Oliver  Hobbes  »  by  ber  fatber  John  Mor- 
gan Richards. 


334  BEATRICE 

maso  Carlyle  col  suo  stile  imima^inoso  :  «  L'isolamento  è  la  somiiui 
totale  delle  miserie  per  l'uomo...  Ciascuno  di  noi  è  come  rinchiuso 
in  un  «  palazzo  di  ghiaccio  »  trasparente  :  scorgiamo  il  nostro  fra- 
tello nel  suo  palazzo,  che  gesticola  e  ci  fa  dei  segnali;  lo  vediamo,  ma 
senza  poterlo  mai  raggiungere;  sul  suo  seno  non  riposeremo  mai,  né 
egli  riposerà  sul  nostro»  (1). 

Gustave  Flaubert  scrive  ad  un'amica:  «  Nous  sommes  tous  dans 
un  désert.  Personne  ne  comprend  personne  ».  E  secondo  Guy  de  Mau- 
passant:  «  Notre  grand  toumlent  dans  l'existence  vient  de  ce  que 
nous  somlmes  éternellement  seuls,  et  tous  nos  efforts,  tous  nos  actes 
ne  tendent  qu'à  fuir  cette  solitudte  »  (2). 

Anatole  France  fa  dire  di  un  suo  personaggio  :  «  Il  reconnaìt  que 
les  àmes  sont  impénétrables  aux  àmes,  et  il  en  soufTne...  Quoi  qu'on 
fasse  on  est  toujours  seul  au  monde...  Il  a  raison.  On  s'explique  tou- 
jours,  on  ne  se  comiprend  jamlais  »  (3). 

È  con  questo  intuitivo  orrore  dell'isolamento  spirituale  che  Mil- 
ton ci  spiega  umanamente  il  primo  imfpulso  della  gran  madre  Eva, 
la  quale,  dopo  avere,  per  le  lusiinghe  del  serpente,  mangiato  del  frutto 
vietato  ed  acquistata  con  ciò  la  chiara  conoscenza  del  bene  e  del  male, 
si  affretta  ciononostante,  pur  di  non  rinunziare  ad  ogni  comunione 
morale  col  compagno  della  sua  vita,  a  porgere  il  pomo  ad  Adamo 
ancora  inconsapevole,  esponendolo  a  dover  anch'esso  morire  '^4). 

«  L'ambre  »  —  dice  il  D'Annunzio  —  «  è  il  supremo  sforzo  che 
l'uomo  tenta  per  uscire  dalla  solitudine  del  suo  essere  interno;  sforzo 
come  tutti  gli  altri  inutile»  (5).  Ed  all'incontro  il  Novalis:  «L'a- 
more rende  le  individualTtà  comunicabili  e  comprensibili  »  (6). 

«  Il  grande  amore,  come  il  grande  dolore  »  —  così  Alessandro 
Chiappelli  —  «  non  ha  parola;  perchè  esso  è  superiore  a  quella  sfera 
della  vita  ove  la  parola  è  necessario  strumento  di  comunicazione  fra 
anime  divise  come  monadi  solitarie»  (7). 

E  per  tornare  a  Dante  :  «  Amore  non  è  altro  »  —  egli  dice  —  «  che 
unimento  spirituale  dell'anima  e  della  cosa  amata»;  (8);  e  di  nuovo: 
«  questo  amore,  cioè  l'unimento  della  mia  anima  con  questa  gentil 
Donna...  ». 

Ora  Dante  ci  raffigura  un  paradiso  in  cui  le  anime  sono  liberate 
da  questo  tormento  della  solitudine  morale,  godendo  della  beatitu- 


(1)  Th.   Cari.ylr,    rnst  fiTìd   prexrnt,   IV.   3. 

(2)  «La  solitmlo»:    nel   volumer  yovxievr  PaTfinf.   pag.   278. 

(3)  Tje.  Lys  Boufjp.  pnR.  93. 

(4)  ParadUe  Lost,  IX,  879-84. 

<(  For  bliss.  as  thou  ha.st  part.  to  me  is  hliss; 
Tedioiis.  iinshared  with  thee,  .nnd  odioiis  soon. 
Thoii,  thorofore.  also  taste.  that  equal  lot 
May  join  us.  equal  joy,  as  eqnal  love: 
Tjest  thou  not  tastinjj.  difforent  dogre* 
Disjoin   US II. 

(5)  7/  Trionfo  ddUi  Morte,  pag.  199. 

(6)  Frammenti. 

(7)  Amore  e  Morte,  in  Nuova  Antologia,  1°  dicemliv  ini?    u.-ic    .TfiO. 

(8)  Convivio,  TU,  10. 


BEATRICE  335 

dine  di  immedesiinarsi  nel  pensiero  e  nel  sentimento  altrui,  pur  con- 
servando la  propria  individualità.  Sarebbe  questo  davvero  il  para- 
diso dell'affetto,  e  altro  paradiso  non  è  immaginabile. 

Ond'ella  che  vedea  me  sì  oom'io, 

A  quietarmi  l'animo  commosso 

Pria  ch'io  a  dimandar,  la  bocca  aprìo  (1).  ■ 

Già  i>arlando  di  Beatrice  in  questa  vita  terrena,  Dante  ci  dice 
nel  Convivio,  della  «  gran  virtù  che  li  suoi  occhi  avevano  sopra  di 
me;  che,  come  se  fossi  stato  diafano,  così  per  ogni  lato  mi  passava 
lo  raggio  loro  »  (2). 

Le  anime  beate,  mirando 

Nel  veder  di  colui  che  tutto  vede  (3), 

vi  scorgono  riflesso  il  pensiero  e  il  sentimento  di  ognuno  : 

io  dico,  non  domando 

Quel  che  tu  ruoli  udir,  porcile  io  l'ho  visto 
Dove  s'appunta  ogni  ubi  e  ogni  quando  (4). 

Dante  crea  le  espressioni  di  mtuarsi.,  irmnictrsi,  inliàarsi,  in- 
leiarsi  (5). 

Già  non  attenderei   io  tua  domanda 
Se  m'intuassi  come  tu  t'immii  (6). 

Nel  segreto  del  cuore  di  ciascuno  di  noi  vive  o  ha  vissuto  la  vaga 
aspirazione,  il  diolce  sogno  di  trovare  un'anima  che  possa  unirsi  con 
la  nostra,  realizzando  in  questo  mortai  mondo  quella  perfetta  e  vi- 
cendevole compenetrazione  morale  di  cui  Dante  fa  godere  i  beati  nel 
Paradiso. 

È  una  ELSpirazione  da  non  potersi  soddisfare  completamente  mai; 
ma  quale  intenso  ed  elevato  godimento  dello  spirito,  quale  viva  fonte 
di  sane  e  nobili  energie  morali,  quale  difesa  e  sostegno  nella  prospera 
come  nella  avversa  fortuna,  rappresenta  il  solo  avvicinarsi!  —  il  po- 
ter, due  anime,  vibrane  all'unisono,  con  reciproca  intuizione  di  sen- 
timenti e  di  pensieri,  con  sicura  fede  nella  mutua  sincerità  e  drittura, 
accomunando  speranze  e  timori,  piaceri  e  dolori,  gioiendo  insieme  di 
tutto  quello  che  è  bello  e  grande,  col  cuore  colmo  di  carità  reciproca! 

Sentite  la  voce  di  una  donna,  di  Ellen  Key  :  «  Un  altro  bisogno 
è  cresciuto...  È  il  senso  dell'isolamento  che  prova  l'essere  uinano, 
chiuso  nei  limiti  del  suo  sesso,  e  questo  isolamento  è  di  tanto  mag- 
giore quanto  più  forte  è  la  individualità  di  ciascuno;  è  l'aspirazione 
verso  un'anima  umana  che  ci  affranchi  da  questo  dolore... 

«  Amare  è  fondersi  in  un'anima  nella  quale  la  nostra  trovi  un 
appoggio  senza  alienare  la  sua  libertà;...  è  trovare  un  pensiero  che 

(1)  Par.,  I.  85;  Vedi  pure  Par.,  II,  26;  IX.  20-21;  XVII,  103. 

(2)  Convivio,  III,  10. 

(3)  Par.,  XXI,  49. 

(4)  Ibid..  XXIX,   10. 

(5)  Ibid.,  IX,  73;  XXII.  127. 
(6>  Ibid.,  IX,  80 


336  BEATRICE 

indovini  i  nostri  sentimenti  espressi  o  inesprimibili;...  è  scoprire 
una  mano  tesa  verso  la  nostra  e  la  cui  stretta  ci  sarebbe  dolce  nell'ora 
dell'afonia»  (1). 

Mi  sovvengono  i  versi  di  Tibullo: 

Te  spectem,  suprema  mihi  cum  venerit  bora. 
Te  teneam  moriens  deficiente  manu  (2) 

(di'io    possa,    quando    l'ora    ultima  giunga, 

io  morente  mirarti 

e  tener  te  oon  la  cadente  mano). 

Felice  la  donna  cui  un'anima  riconoscente  possa  un  giorno  rivol- 
gere, nell'intimo  suo,  ferventi  parole  come  quelle  che  prorompono 
dal  cuore  del  Poeta,  giunto  al  declinare  della  sua  vita,  verso  Beatrice 
glorificata  tra  gli  eletti! 

O  Donna,   in  cui  la  mia  si)eranza  vige 


Tu  m'hai  di  servo  tratto  a  libertate 
Per  tutte  quelle  vie,  per  tutti  i  modi 
Che  di  ciò  fare  avei  la  potestate. 

La   tua   magnificenza   in   me  custodi^ 
Sì  ohe  l'anima  mia  che  fatta  hai  sana. 
Piacente  a  te  dal  corpo  si  disnodi  (3). 


Sidney  Sonnino. 


(1)  Eli*en  Key,  De  V Amour  et  du  Mariagc,  pagg.  51-53. 

(2)  Eleg.,  I,  1,  59-60. 

(3)  Par.,  XXXI,  79. 

Conferenza  Unuta  nella  casa  di  Dante  in  Roma. 


IL  PROGRAMMA 


I. 

La  cameicL  era  angusta,  con  una  finestra  polverosa  che  dava 
sulla  via.  Aria  di  rinchiuso,  soffocante,  puzzo  di  tabac^io.  Mozziconi 
dappertutto,  per  terra,  sulla  tavola,  perfino  sul  letto. 

Piccolo  e  rattrappito,  egli  stesso  somigliava  un  mozzicone  di 
sigaretta  buttato  via  da  qualcuno.  Il  viso  da  più  giorni  non  raso, 
ispido,  pareva  rimpicciolito  dai  peli  che  lo  coprivano.  Guardandosi 
ogni  tanto  allo  specchio  appannato  che  pendeva  sul  divano,  quel 
viso  di  vecchio  gli  faceva  un  curioso  effetto.  Non  era  il  suo...  Non 
poteva  esser  lui,  non  era  proprio  lui. 

Di  rado  si  ricordava  della  vita  trascorsa.  Gli  pareva  che  non  già 
lui,  bensì  altri  l'avesse  vissuta,  un  suo  buon  conoscente,  un  came- 
rata, che  un  giorno,  dietro  una  bottiglia  di  birra,  gli  avesse  raccon- 
tato di  sé  vita  e  miracoli. 

Narrava  costui  di  essere  stato  un  giorno  attor  comico.  Giovane, 
all€^x>,  sempre  ben  raso  e  in  bell'arnese.  Era  l'idolo  dei  pubblico  e 
viveva  di  nervi.  Poi,  a  poco  a  poco,  silenziosamente,  alla  chetichella, 
tutto  questo  era  passato,  e  dei  neni  non  erano  rimasti  che  gli  stracci. 
Tante  e  tante  altre  cose  raccontava;  e  Stefano  Grigorevic  aveva  la 
torbida  impressione  che  quella  di  cui  gli  parlava  il  narratore  fos?e 
la  propria  vita,  lontana  ed  ignota. 

Quando  gli  capitava  di  alzare  un  po'  il  g^omito,  e  dai  fumi  del 
vino  si  sentiva  nel  cervello  ormai  fiacco  tanti  colpi  di  maglio,  ama- 
ramente si  rammaricava  che  il  passato  fosse  svanito.  Gli  veniva 
voglia  di  gridare  che  era  proprio  lui  quel  famoso  Pogodin-Smielski, 
il  cui  nome  fregiava  tutti  i  giorni  le  gas^zette  e  dominava  e  teneva 
in  pugno  il  pubblico...  E  se  per  caso  sorprendeva  un  mal  dissimu- 
lato sorriso  sulle  labbra  degli  ascoltatori,  cacciava  subito  una  mano 
in  tasca  e  ne  cavava  qualche  cosa.  Era  un  vecchio  programma  gual- 
cito e  piegato  con  mille  riguardi.  E  trionfalmente,  con  aria  superba, 
s\'olgeva  il  prezioso  documento  ingiallito  dal  tempo,  ne  spianava 
accuratamente  ogni  ruga  e  diceva:  «Ecco!».  Allora  uno  della  bri- 
gata prendeva  il  foglio  e  con  lingua  impastoiata  dal  vino  leggeva 
che  «  a  Kursk,  per  la  serata  d'onore  del  celebre  artista  Pogodin- 
Smielski,  andrà  in  scena  V Amleto  di  Shakespeare». 

Per  un  moment<];,  tutte  le  facce  esprimevano  uno  stupore  incre- 
dulo, cui  subentrava  il  solito  gracidìo  avvinazzato;  e  Stefano  Grigo- 
revic andava  attorno  e  mettev^a  sotto  il  naso  di  tutti  e  di  ciascuno 
il  suo  programma,  dal  quale  emei^va  che  trentasette  anni  addietro, 


338  IL   PROGRAMMA 

a  Kursk,  per  la  serata  d'onore  del  celebre  artista  Pogodin-Smielski, 
si  era  rappresentato  VAìnleto  di  Shakespeare. 

Al  g:racidio  succedevano  i  nitriti  e  nessuno  più  gli  dava  retta. 
Si  faceva  a  ohi  più  ne  aveva  in  gola,  e  in  quel  fciaccano  di  voci  pa- 
reva a  Stefano  Grigorevic  di  cogliere  un'eco  lontana  dei  trionfi  di 
una  volta.  Si  premeva  al  petto  il  programma  ingiallito,  con  la  vaga 
sensazione  che  dei  fili  impercettibili  lo  legassero  alla  sua  esistenza. 
Ne  sapeva  a  mente  ogni  frase,  ogni  parola.  Era  l'unico  ricordo  ri- 
mastogli del  passato;  di  un  passato  tutto  suo,  tutt'una  cosa  con  lui, 
e  che  pure,  staccatosi  da  lui,  era  scomparso  irrevocabilmente...  Un 
programma  giallognolo,  logoro,  polveroso;  ma  anche  la  sua  vita  era 
coperta  da  fìtti  ed  annosi  strati  di  polvere.  L'uomo  e  il  foglio,  soprav- 
vissuti alla  propria  labile  esistenza,  svalutati  e  9«.iperfìui,  facevano 
ora  da  cippi  sepolcrali  a  quel  che  un  tempo  erano  stati.  E  quando 
nessuno  più  gli  badava,  Stefano  Grigorevic  si  riduceva  in  un  can- 
tuccio e  rileggeva  da  se  la  sacra  reliquia,  la  quale  attestava  che  c'era 
stato  al  mondo  il  celebre  artista  Pogodin-Smielski  e  che  per  la  sua 
serata  d'onore  si  era  rappresentato  V Amleto  di  Shakespeare. 

Ma  la  cosa  non  durava  a  lungo.  Le  vivide  tinte  degli  improv- 
visi ricordi  non  meno  improvvisamente  sbiadivano,  ed  egli  stesso 
cominciava  a  dubitare  se  quel  famoso  Pogodin-Smielski,  il  cui  nome 
i  giornali  portavano  alle  stelle,  fosse  proprio  lui  o  non  piuttosto  il 
buon  camerata  che  un  giorno,  dietro  una  bottiglia  di  birra,  gli  aveva 
raccontato  di  sé  vita  e  miracoli. 

Altri  ed  altri  venivano  a  trovarlo,  non  meno  di  lui  mozziconi 
gettati  via.  Si  riunivano,  chiacchieravano  dei  pett^olezzi  correnti, 
dell'ufficiale  che  Lisa  la  sera  prima  s'era  tirato  dietro  e  che  aveva 
l)attuto  lei  e  rotto  uno  specchio.  Nessuno  di  loro  ci  credeva:  vede- 
vano Lisa  tutti  i  giorni,  vivace  sempre  e  imibel Iettata;  sapevano  che 
lo  specchio  in  camera  di  lei  era  a  posto  ed  incolume;  ma  nonostante, 
per  la  centesima  volta  e  con  nuovi  particolari,  si  comunicavano  l'un 
l'altro  la  sconcia  storiella.  Discorsi  lunghi,  grigi,  monotoni,  come 
una  serie  malinconica  di  nebbiosi  giorni  autunnali. 

Venuta  la  notte,  Stefano  Grigorevic  rimaneva  solo  nel  suo  affu- 
migato  stambugio,  metteva  la  testa  sul  guanciale  e  dormiva  pesan- 
temente. 

I  sogni,  non  che  da  lui,  correvano  da  altri,  ora  lieti  ora  tristi, 
ora  spaventosi,  ora  pieni  di  mistica  madia.  Altri  avvolgevano  nelle 
loro  nebbie;  ad  altri  portavano  visioni  di  speranze  adombrate,  di 
felicità,  di  gioie,  di  angoscia:  ììó  altri,  non  già  a  lui,  cui  non  avan- 
zavano né  gioie,  né  dolori,  né  speranze,  che  potessero  adombrarsi 
o  dil^oiarsi.  Il  suo  sonno  era  eguale,  ««colorito,  come  una  giornata 
senza  sole,  tetra  e  piovigginosa.  Era  il  riflesso  di  una  realtà  vuota 
di  senso  e  di  carattere;  né  si  potea  facilmente  definire  dove  esso 
avesse  termine  e  dove  la  vita  reale  incominciasse. 

E  ancora  una  volta,  quando  si  svegliava  la  mattina  appreeso 
nella  sua  cameretta,  non  era  dato  tracciar  quel  limiite.  Giaceva  come 
un  morto,  con  gli  occhi  chiusi:  e  la  propria  vita  si  confondeva  già 
nella  vita  comune  delle  camere  mobiliate  del  «  Praga  »  e  ne  secruiva 
il  corso  uniforme. 


IL    PROGRAMMA  339' 


•  * 


L'aria  è  tuttora  umida  e  fosca,  e  i  lontani  raggi  del  sole  ne  scac- 
ciano a  stento  la  tenebra  notturna.  Tutti  i  giorni,  alla  stessa  ora 
precisa,  i  medesimi  rumori,  come  di  topi  che  guizzino  qua  e  là, 
frugando  e  rodendo.  È  la  fantesca  Eudossia,  che  si  scalmana  a  spaz- 
zare il  corridoio,  assonnata,  sudicia,  con  la  folta  capigliatura  nera 
e  polverosa  e  la  sottana  succinta  fino  ai  polpacci. 

Dalla  sua  camera  scampanella  a  distesa  l'impiegato  Panfìlov,  e 
finalmente  vien  fuori  in  mutande  e  maniche  di  camicia,  strepitando 
che  lo  faranno  arrivar  tardi  all'ufficio.  Un  bisunto  ragazzo  accorre 
col  bricco  del  tè,  ansando,  soflBando  e  gonfiando  le  guance,  come  se 
volesse  fame  un  secondo  bricco.  Sempre  in  maniche  di  camicia  e 
mutande,  sdraiato  sopra  un  divano  ammaccato,  fino  a  che  le  fiacche 
membra  non  gli  si  coprano  di  sudore,  Panfilov  sorseggia  il  suo  tè. 
Poi,  vestitosi  in  fretta  e  furia,  si  caccia  un  portafogli  sotto  l'ascella, 
e  giù  di  corsa  per  le  scale,  non  sen2ia  però  pizzicare  al  passaggio  i 
ruvidi  e  carnosi  gomiti  di  Eudossia. 

Chetamente  e  appena  av-vertita,  vien  fuori  la  modistina,  magra, 
svelta,  sempre  vestita  di  nero.  Le  hanno  appiccicato  il  nomignolo 
di  «  schizzinosa  »  e  non  la  guardano  di  buon  occhio.  Con  nessuno 
discorre  né  la  sera  riceve  uomini.  Quando  Panfilov  si  era  provato 
a  farle  la  corte,  fu  subito  messo  a  |X)sto.  Per  maestri  che  fossero  di 
pettegolezzi,  gl'inquilini  delle  camere  mobiliate  non  erano  riusciti 
ad  escogitare  una  sola  storiella  piccante  sul  conto  della  bruna  mo- 
distina, tanto  essa  viveva  tranquilla  e  raccolta.  Di  buon  mattino  si 
recava  a  lavorare  a  giornata,  e  le  serate  le  passava  sola  soletta,  ora 
leggendo  ora  agucchiando  al  lume  di  una  candela. 

Uscita  lei,  si  destavano  gli  altri,  figure  scialbe  e  insignificanti, 
vociavano,  pestavano,  rumoreggiavano,  e  via  pei  fatti  loro.  Dall'ul- 
tima camera  si  udiva  ancora  il  ronfio  di  Basilio  Gornilov  e  di  Gia- 
cobbe. L'uno  e  l'altro  a  corto  di  lavoro:  uno,  impilato  licenziato; 
l'altro,  individuo  equivoco,  ragazzo  a\-\enente,  che  trafficava  non  si 
sapea  di  che  e  si  scioglieva  in  lagrime,  per  poco  che  fosse  ubriaco. 

Tutti  e  due  dormivano  a  lungo  e  alla  grossa,  né  valevano  a  ri- 
scuoterli le  grida,  lo  sbattere  degli  usci,  la  baraonda  mattutina  di 
quell'umano  alveare. 

Si  destava  tardi,  non  prima  delle  dodici.  Lisa,  e  sporgeva  dalla 
porta  socchiusa  il  viso  insonnolito,  unto  di  coldcream  e  circondato 
di  pezzetti  di  foglio.  Era  tutt'altro  che  seducente  e  difficilmente  la 
si  riconosceva  per  quella  Lisa  irrequieta,  leziosa,  dipinta,  con  un 
cappellino  ghiribizzoso  sui  capelli  ben  ravviati,  che  sbucava  di  sera 
sulla  via,  lasciandosi  dietro  nel  corridoio  una  nuvola  di  profumi 
acri,  penetranti,  che  parlavano  di  non  so  che  di  cattivo  e  di  proibito, 
e  appunto  per  questo  attraenti. 

Discinta,  sciattata,  col  lacero  sottanino  di  seta,  infagottata  in 
uno  scialle.  Lisa  attaccava  discorso  con  Daria,  la  sua  vicina  di  ca- 
mera, una  donnetta  bianca,  pienotta,  che  si  cr<^iolava  '  ancora  nel 
tepore  delle  lenzuola  mangiando  dolciumi.  Daria,  ex»cameriera,  era 
adesso  mantenuta  da  un  negoziante,  già  suo  padrone. 

Aprendo  e  chiudendo  porte  e  finestre,  senza  riguardo  ai  ri- 
scontri,  e  mettendo  tutto   sossopra,   Eudossia  andava   rassettando.- 


.'é4:  I  IL   PROGRAMMA 

Dal  basso,  esalazioni  stuzzicanti  e  nauseabonde  di  cucina,  puzzo  di 
carboni  e  di  torcioni  da  pavimento.  Ogni  tanto,  passava  correndo  e 
sbuffando  il  ragazzo  bisunto,  con  lesidui  di  cibo  sul  vassoio. 

StefaiK)  Grigorevic,  disteso  sul  suo  letto,  masticando  una  siga- 
retta e  aspirando  l'aria  fumosa  e  deleteria,  coglieva  l'eco  delle  grida, 
delle  baruffe,  delle  risa. 

E  la  sua  vita  si  confondeva  con  quella  delle  camere 'mobiliate, 
la  quale  tutti  i  giorni  cominciava  allo  stesso  modo:  grigia,  uni- 
forme, sudicia,  brutta  fino  all'assurdo,  pregna  di  basso  egoismo  e 
di  meschini  interessi,  una  vita  che  si  sarebbe  detta  sozza  di  un- 
tume... 


II. 

Vn  allecrro  e  limpido  mattino  di  domenica.  Anche  nelle  camere 
mobiliate  esso  irruppe  dalle  finestre  aperte,  col  fiato  fragrante  del- 
l'aura primaverile  e  con  l'esultante  cinguettìo  dei  passerotti. 

Giorno  di  riposo.  L'impiegato  Panfilov  fino  alle  undici  sorbisce 
il  suo  tè,  bicchiere  su  bicchiere,  mentre  saporitamente  sonnecchiano 
i  vicini.  La  modistina  abbrunata  non  si  è  recata  al  lavoro  e  dorme 
ancora,  sebbene  sia  di  solito  mattiniera.  Dorme  fino  a  mezzogiorno. 
Vei"50  il  tocco,  bussarono  da  lei,  e  non  ricevendo  risposta,  tornarono 
a  bussare.  Silenzio...  S'incominciò  ad  essere  inquieti.  Dopo  un  gran 
tempestare,  con  vani  tentativi  di  forzar  La  porta,  chiusa  di  déntro, 
fu  chiamato  il  portinaio.  Su  e  giù  pel  corridoio  si  affaccenda^^ano 
gl'inquilini,  agitati,  interrogando,  bisbigliando,  almanaccando.  Le 
i/potesi,  come  scerpi  velenose,  strisciavano  sinuose  fra  loro.  Il  porti- 
naio si  provò  ad  aprire,  ma  la  porta  non  fece  che  scricchiolare  e 
stridere  sui  gangheri  rugginosi.  Quello  stridore  e  il  silenzio  simul- 
taneo che  ne  seguì  fecero  subito  capire  che  qualche  cosa  era  acca- 
duto. E  quando,  alla  fine,  riuscì  al  portinaio  di  scardinare  la  iporta 
e  uno  sprazzo  di  luce  ne  emerse,  tutti  in  ifolla  si  precipitarono  dentro, 
ma  si  fermarono  spaventati.  In  mezzo  alla  camera,  con  le  spalle  alla 
porta,  dal  gancio  della  lampada,  penzolava  immobile  una  figura 
nera.  Un  niggio  del  sole  primaverile  sfiorava  il  livido  viso  e  met- 
teva una  scintilla  nel  bianco  degli  occhi,  che  schizzavano  dalle  orbite. 
Una  mano  timida  toccò  appena  il  corpo  inerte,  e  questo  lentaiuente 
dondolò  come  un  gran  pendolo  ma^iccio.  Il  pendolo  della  morte. 

Lisa  cadde  in  convulsioni. 

Staccato  il  cadavere  dal  gancio,  lo  distesero  sul  letto,  aspettando 
la   polizia.   Regnò  per   tutta  la  casa   un   silenzio  di   tomba. 

Tutto  il  giorno,  un 'oppressa  ra,  un  ambascia  muta.  Si  sentivano 
nelle  branche  della  morte.  Qua  e  là,  una  iparola  susurrata.  Si  face- 
vano congetture,  vaghi  accenni,  lontane  allusioni.  I  più  curiosi  en- 
travano ogni  tanto  nella  camera  e  con  avida  paura  fissavano  la  pal- 
lida faccia  dalla  lingua  nerastra  e  dagli  occhi  sbarrati  e  gonfi,  che 
in  nessun  modo  si  era  riusciti  a  chiudere. 

Verso  sera,  quando  le  ombre  s'insinuarono  nella  camera  e  gli 
oggetti  andarono  dissolvendosi  nel  grigio  del  crepuscolo,  lo  ^>avento 
-e  la  pena  si  addensarono  e  pesarono  più  grevi  sugli  animi.  Un  che 
•di  soffocante,  di  misterioso  si  librava  nell'aria:   una  cosa  informe, 


IL   PROGRAMMA  ^^^ 

mostruosa,  come  un  uccellaccio  dalle  ali  distesa.  Pareva  che  una  fitta 
coltre  fosse  discesa  sugli  uomini  e  ne  avesse  arrestato  la  vita.  La 
notte,  col  suo  unico  occhio  nero,  guardava  le  ombre  avanzarsi  e  strm- 
gere  quasi  con  mani  forti  e  tenaci  ogni  cosa  viva.  Nessuno  più  si  at- 
tentava di  varcare  quella  soglia  funesta. 

Stefano  Grigorevic,  'poco  innanzi,  entrato  insieme  con  gli  altri, 
aveva  fissato  a  lungo  quel  delicato  viso  contraffatto.  Una  strana  im- 
pressione si  era  subito  impadronita  di  lui.  Gli  pareva  di  aver  ricevuto, 
un  urto,  una  percossa.  Quella  donna  gli  era  quasi  ignota.  Di  rado 
s'imbatteva  in  lei  nel  corridoio.  Qualche  volta  un  po'  brillo,  le  ta- 
gliava i  panni  addosso.  Ora  sentiva  che  qualche  cosa  di  nuovo,  di 
assurdo,  penetrava  tutto  il  suo  essere  e  Io  stringeva  come  un  incubo. 
Di  dove  gli  venisse,  non  sapea  dire;  ma  la  insolita  e  cupa  disposi- 
zione di  spirito  era  costante  e  innegabile.  Due  fatti  la  determina- 
vano: da  una  >parte  il  tragico  gesto  della  modistina  abbrunata,  la 
quale,  dopo  scagliata  un'ardita  sfida  alla  morte,  s'era  dilegTiata,  più 
umile  di  prima,  portandosi  nella  tomba  il  suo  segreto;  dall'altra  il 
tetro  contegno  di  tutta  quella  gente  rustica,  corriva  agli  stravizi  ed 
al  chiasso,  che  ora  parlavano  basso  o  serbavano  un  pauroso  silenzio. 
Discese  le  ombre  e  con  esse  la  muta  ansietà,  che  come  un'onda  si 
sparse  per  tutta  la  casa.  Stefano  Grigorevic  tornò  in  camera  sua,  si 
distese  sul  divano  e  si  sprofondò  nei  suoi  pensieri. 

Pensieri  vaghi  e  fuggevoli.  Qualche  cosa  era  avvenuto  lì  accanto,, 
che  lo  aveva  toccato  con  mani  invisibili  e  tenaci.  Qualche  cosa  s'era 
spe!£zata,  aveva  cessato  di  esistere,  fuori  dt  lui;  e  nondimeno  gli  pa- 
reva che  dentro  di  sé,  qua  o  là,  si  fosse  udita  l'eco  lamentosa  d'una 
corda  infranta.  Non  si  rendeva  ragione  del  perchè  gli  stesse  così 
chiara  davanti  la  livida  faccia  dagli  occhi  vitrei.  Quando  avevano 
staccato  il  corpo  dal  gancio,  gli  era  balenato  sul  collo  della  infelice 
il  solco  lasciato  dalla  fune.  E  pensava  ora  a  quel  solco,  così  rosso  e 
profondo. 

Né  si  spiegava  perchè  ci  pensasse. 

Il  crepuscolo  azzurrognolo  del  giorno  primaverile  gli  entrò  in 
camera,  fosco.  indifTerente  a  quanto  era  accaduto,  e  a  poco  a  poco 
mescolandosi  all'onda  nera  della  immensità  notturna,  coprì  del  suo 
sudario  tutti  gli  oggetti,  tutto  il  dolore  e  l'angoscia.  Anch'esso  chiu- 
deva in  sé  un  mistero,  e  ancor  più  strano  parve  a  Stefano  Grigorevic 
di  trovarsi  lì  giacente,  avvolto  in  quel  tenebrore,  roso  il  cervello  dal 
pensiero  fìsso  del  solco  rosso  sul  bianco  .collo  della  morta. 

Un  momento  alzò  la  testa  per  aggiustare  un  cuscino  caduto  per 
terra,  e  sul  fondo  chiaro  del  palco  vide  spiccare  il  rostro  nero  di  un 
gancio.  Era  in  tutto  simile,  né  più  né  meno,  al  gancio  cui  s'era  ap- 
piccata la  modistina.  C'era  una  lampada  da  lei,  sempre  spenta,  ohe 
la  suicida  aveva  tolta  e  messa  da  parte;  e  Stefano  Grigorevic  sapeva 
che  allo  stesso  modo  la  lam'pada  in  camera  sua  non  si  accendeva  mai 
e  che  si  poteva  anch'essa  spiccare  e  mettere  in  un  canto.  Tutti  i  giorni 
aveva  visto  quella  lampada  e  quel  gancio;  ma  ora  li  guarda  vacome- 
cosa  nuova  con  una  curiosità  morbosa  e  perplessa.  E  gli  venne  voglia 
di  tornar  subito  sul  posto  dove  il  fatto  era  accaduto,  per  accertarsi 
che  quel  gancio  era  in  tutto  simile  al  suo. 

Cupi  e  solitari  suonarono  i  suoi  passi  nel  corridoio  fino  alla  ca- 
mera della  morta.  La  porta  era  socchiusa,  e  Stefano  Grigorevic  s'in- 


-342  IL    PROGRAMMA 

sinuò  (ientro  pian  piano.  La  modistina  giaceva  là.  col  viso  affilato 
e  nero,  sul  quale,  in  tante  macchie  scure  e  mobili,  il  riflesso  giallo- 
gnolo dei  due  ceri  accesi  lottava  con  le  ombre  del  crepuscolo  morente. 

Stefano  Grigorevic  osservò  la  morta,  crollò  un  poco  la  testa  come 
ili  segno  di  saluto,  e  poi  si  voltò  al  gancio.  Era  confìceato  nel  centro 
del  ipalco,  e  insieme  con  esso,  a  destra  e  a  manca,  due  altri  ganci, 
ipiù  larghi  e  più  spessi,  dondolavano.  Pareva  a  momenti  che  tutti  e 
tre  ne  formassero  uno  solo,  ma  Stefano  Grigorevic  potè  ben  discer- 
nere che  il  vero  gancio,  sinistro  fantasma,  era  quello  di  mezzo.  Gli 
altri  due,  partoriti  dalla  fiamma  vacillante  dei  ceri,  non  facevano 
ohe  completarlo,  formando  uno  strano  connubio  enigmatico  e  pau- 
roso di  realtà  e  di  ombre  irrequiete. 

Osservato  a  lungo  il  gancio,  S befano  Grigorevic  lo  riconobbe  iden- 
tico a  quello  della  propria  camera.  Non  gli  pareva  possibile  che  poco 
prima  una  creatura  umana  vi  fosse  sospesa.  Ma  quella  creatura  era 
tuttora  li  presso,  rischiarata  dal  bagliore  tremulo  dei  ceri.  Orribile 
il  viso  della  morta,  silenziosa  la  camera  come  un  sepolcro.  E  Stefano 
Grigorevic  usci.  Non  c'era  piià  dubbio.  Il  gancio  della  modistina  non 
differiva  punto  da  quell'altro. 

La  sera,  finalmente,  il  cadavere  fu  rimosso.  Per  sollevare  un  po' 
gli  spiriti  depressi,  decisero  di  accordo  di  metter  su  un  banchetto 
funebre.  Giacobbe  s'ncaricò  dei  pi^eparativi. 

Il  banclietto  ebbe  luogo  nella  camera  di  Lisa. 

Mentre  si  era  al  colmo  dell'animazione  e  delle  libagioni,  arrivò 
Stefano  Grigorevic,  esalando  come  sempre  odore  di  tabacco,  e  senza 
dir  parola  prese  il  suo  posto. 

Erano  dodici  i  commensali,  né  mancavano  Panfilov,  Daria,  la 
stessa  Lisa,  Basilio  Gorailov  e  qualche  inquilino  del  piano  di  sotto. 

Da  principio  ricordarono  la  povera  modistina  abbrunata. 

Poi  la  comipiansero. 

Poi  risero. 

Poi  ancora  gli  umori  si  scaldarono,  le  voci  si  fecero  grosse,  ac- 
compagnate da  gesti  vivaci  e  da  qualche  spintone.  Pareva  a  momenti 
che  si  dovesse  attaccar  briga.  Tintinnivano  cozzando  i  bicchieri,  e 
capovolti  sulla  sudicia  tovaglia,  spargevano  dalle  larghe  fauci 
un'onda  torbida  di  birra,  il  cui  acre  odore  si  fondeva  con  quello  d^ 
liquori  e  del  tabacco. 

Al  motivo  della  riunione  nessuno  pensava  più.  Della  modistina 
non  si  fece  più  motto.  Era  una  gara  di  mangiare  e  bere  a  sazietà. 
Pareva  che  una  forza  prepotente  li  avesse  ag.sii  finta  ti,  dalle  cui 
strette  non  era  dato  strapparsi,  allo  stesso  modo  che  non  riesce  un 
uomo  a  salvarsi,  preso  che  sia  nel  volante  d'una  grande  macchina. 
Oscilla  sempre  più  forte  e  'potente  il  segreto  motore,  e  la  correggia 
attira  inesorabilmente  la  vittima,  ora  sbattendola  in  terra,  ora  sca- 
gliandola in  alto,  finché  non  l'abbia  ridotta  ad  un'informe  massa 
sanguinolenta,  con  le  vene  lacere  e  la  materia  cerebrale  schizzante. 
Arrivano  allora  altri  uomini  e  fermano  la  macchina. 

Ma  nessuno  venne  a  fermare  l'eccitazione  dei  comim«risali  rac- 
colti nella  camera  di  Lisa.  Bevevano,  si  sgolavano,  tornavano  a  bere, 
rosse  le  facce  dal  vino  e  dall'allegria.  La  ipaura  della  morte,  che  gli 
aveva  assembrati,  cedeva  il  j)osto  al  senso  animale  dell'ubriachezza. 
Ciascuno  arringava  per  suo  conio,  senza  dar  retta  agli  altri  e  tutti 


IL   PROGRAMMA  -i^-^ 

insieme  .facevano  un  corQ  discorde.  Verso  la  fine,  nel  gruppo  delle 
donne  si  udì  uno  scoppio  di  pianto,  seguito  da  voci  concitate  e  stri- 
denti. Era  Daria.  Lisa  le  aveva  assestato  una  guanciata,  dandole  della 
mala  femmina.  E  Daria,  scattando  come  una  furia,  gridava: 

—  Bugiarda...  Io.  io  mala  femmina?...  Son  male  femmine  quelle 
che  sgonnellano  per  le  vie...  Io  son  mantenuta,  io,  onoratamente 
mant-enuta... 

Giacobbe,  che  sedeva  in  mezzo,  le  pizzicava  intanto  tutte  e  due, 
e  ottenne  alla  fine  ohe  facessero  la  pace. 

Stefano  Grigorevic  alzò  il  gomito  più  del  dovere  e  non  passò 
molto  che  i  fumi  gli  montarono  alla  testa.  Sulle  prime,  aveva  sempre 
pensato  alla  modistina,  e  ricordandone  il  viso  nel  momento  che  la 
portavan  via,  si  sentiva  perseguitato  dall'espressione  di  quegli  occhi 
sbarrati.  Di  nuovo  ebbe  l'impressione  che  qualche  cosa  era  successo 
lì  accanto,  che  toccava  lui  stesso,  che  lo  sconvolgeva  e  gli  dava  le 
vertigini.  Qualche  cosa  di  enorme,  di  assurdo,  una  specie  d'incubo, 
che  premeva  sul  cervello  ed  empiva  la  testa  di  foschi  pensieri.  Si 
rammentò  di  essere  andato  in  camera  della  morta  a  confrontare  i 
due  ganci,  uè  più  capiva  a  che  scopo  l'avesse  fatto.  Pensava  al  gancio 
della  propria  camera,  al  quale  si  poteva  anche  appiccarsi,  e  si  ma- 
ravigliò che  di  quel  gancio  non  si  fosse  mai  accorto  prima  d'allora. 
Gli  pareva  strano  intanto  di  trovarsi  alla  stessa  tavola  con  quella 
gente.  Strano,  eppur  naturale...  Non  era  quello  un  periodo  della  sua 
vita?  non  era  forse  la  stessa  sua  vita,  che  continuava  già  da  gran 
tempo  e  che  doveva  continuar  dell'altro?  Rievocando  i  giorni  di  gran 
lunga  trascorsi,  gli  sembrarono  ancor  più  remoti,  ancor  più  estranei 
di  quanto  realmente  non  fossero.  Era  morto  il  vecchio  camerata,  ohe 
dietro  una  bottiglia  di  birra  gli  aveva  raccontato  di  sé  vita  e  mira- 
coli, e  le  parole  di  lui  s'erano  sbiadite,  cancellate,  sommerse  nella 
polvere  del  passato.  E  di^tutto  quel  lungo  racconto,  di  tutti  i  trionfi 
decantati,  era  solo  rimasto  un  pezzetto  di  carta,  ingiallito  e  sciupato, 
come  la  vita  stessa  di  Stefano  Grigorevic... 

Egli  lo  cavò  di  tasca,  lo  spiegò  con  ogni  riguardo  e  se  lo  rilesse. 
E  riseppe  così  per  la  millesima  volta  che  a  Kursk,  trentasette  anni 
addietro,  per  la  serata  di  onore  del  celebre  artista  Pogodin-Smielski, 
s'era  rappresentato  VArììieto  di  Shakespeare. 

Lo  strepito  delle  voci  rauche  e  rotte  si  faceva  sempre  più  forte. 
UrU,  risa,  invettive,  parolacce.  Stefano  Grigorevic  si  considerò  unico 
equilibrato  e  padrone  di  sé  in  una  masnada  di  beoni  e  di  sciocchi. 
E  perchè  non  farli  rinsavire?  perché  non  raccontar  loro  qualcosa  di 
bello  e  d'interessante,  che  gl'inducesse  a  deporre  i.  bicchieri  e  ad 
ascoltar  lui  a  bocca  aperta?  Raccontare,  per  esempio,  che  ora  egli 
era  gemplicemente  Stefano  Grigorevic,  il  vecchietto  andato  a  male, 
come  lo  chiamavano;  ma  che  una  volta  era  stato  un  famoso  artista, 
e  che  per  la  soia  serata  d'onore,  a  Kursk,  s'era  dato  V Amleto  di  Sha- 
kespeare? 

Molte  altre  parole  egualmente  belle  da  calmare  quei  forsennati 
escogitò  Stefano  Grigorevic.  Ma  innanzi  tutto  bisognava  spiegare  chi 
fosse  Pogodin-Smielski.  Si  alzò,  tenendo  in  mano  il  programma.  Si 
rivolse  a  tutti  senza  distinzione,  ma  nessuno  gli  badò.  Allora  si  de- 
cise a  fare  il  giro  della  tavola,  si  avvicinò  a  questo  ed  a  quello,  l'uno 
dopo  l'altro,  mostrando  il  programma  e  dicendo:   «Ecco!».  Quelli, 


344  IL  PROGRAMMA 

con  le  mani  unte,  prendevano  il  foglio  ingiallito,  lo  voltavano  da 
tutte  le  parti,  e  con  un  sorriso  ebete  leggevano  compitando.  Stefano 
Grigorevic  fu  certo  in  ultimo  di  averli  persuasi  che  il  vecchietto  an- 
dato a  male  era  Pogodin-Smielski  in  persona,  e  ohe  non  se  ne  sa- 
r'ebbero  più  scordati  e  l'avrebbero  trattato  coi  dovuti  riguardi. 

Arrivato  davanti  a  Giacobbe  e  messogli  sotto  il  naso  il  pro- 
iiTam^ma,  stupì  che  quegli,  non  che  inchinarsi  al  famoso  artista,  lo 
respingesse  con  un  pugno  nel  petto.  Poi,  toltogli  di  mano  il  pro- 
.yramma,  lo  avvicinò  alla  fiamma  di  una  candela.  E  Stefano  Grigo- 
revic vide  sulle  prime  la  carta  aggrinzirsi.  Poi,  nella  paiie  inferiore, 
guizzò  una  fiammella  azzurrognola  e  lingueggiò  lenta  all'insù.  De- 
cifrava ancora  le  parole  staccate;  ma  di  lì  a  poco,  il  foglio  si  fece 
tutto  nero.  Giacobbe  lo  gettò  per  terra,  e  insieme  col  mucchietto  nero 
cadde  il  piccolo  angolo  giallognolo,  pel  quale  fra  due  dita  egli  teneva 
il  programma. 

Stefano  Grigorevic  si  chinò  e  fece  per  raccattare  i  resti  del  pre- 
zioso documento.  La  cenere  nera  si  staccò  e  disperse,  e  non  gli  rimase 
in  mano  ohe  l'angolo  giallognolo.  Non  altro.  Era  tutto. 

Giacobbe  rideva  intanto,  mostrando  a  dito  il  famoso  artista. 

E  tutti  ridevano. 

Stefano  Grigorevic  pianamente  tornò  al  suo  posto.  Un  fatto  nuovo 
era  accaduto,  ancora  più  assurdo,  ancora  più  orribile  che  non  la 
morte  della  modistina,  e  quel  fatto  nuovo  piombava  proprio  addosso 
a  lui...  A  Lui  solo,  perchè  gli  altri  ridevano  ed  erano  allegri,  visto  che 
la  cosa  non  toccava  loro,  bensì  un  certo  Pc^odin-Smielski.  E  chi  era 
questo  signore?  ed  era  veramente  esistito?  e  dove  le  prove  della  sua 
esistenza? 

Stefano  Grigorevic  sorrise  di  uno  strano  e  tranquillo  sorriso, 
ma  rimase  im-passibile  e  chiuso.  Né  pensieri,  né  desideri...  Il  vuoto 
e  una  tal  quale  ottusità  che  confinava  con  la  calma  più  perfetta.  I 
suoni,  le  voci,  le  sensazioni  lo  fastidivano.  Avrebbe  voluto  sprofon- 
darsi in  quel  vuoto.  As'pettò  ancora  che  qualcosa  d'altro  dovesse  ve- 
nire, ma  nulla  venne.  Ed  egli  seguitò  ad  aspettare... 


Il  giorno  appresso,  era  già  tardi  e  non  si  svegliava.  Verso  il 
tocco,  bussarono  da  lui,  e  non  ricevendo  risposta,  tornarono  a  bus- 
sare. S'impensierirono.  Chiamarono  il  portinaio,  e  quando  questi, 
forzando  la  porta,  la  fece  stridere  sui  gangheri  rugginosi,  tutti  tra- 
salirono. 

E  compresero  che  qualche  cosa  era  accaduto. 

OSSIP    PÉLYNE. 
Traduzione  dal  russo  di  Federigo  Verdinois. 


ALESSANDRO    MANZONI 

L'UNITÀ    D'ITALIA    E    LA  QUESTIONE  ROMANA 


i>a  una  lettera  del  Manzoni,  pubblicata  nel  1896  (1),  si  sapeva 
ch'egli  aveva  avuto  tra  le  mani  le  bozze  di  stampa  di  un  opuscolo 
del  Giorgini  sull'Unità  d'Italia  (2)  e  vi  aveva  fatte  due  correziom. 
Ora  il  caso  mi  ha  fatto  trovare  nelìa  Biblioteca  centrale  del  Risor- 
gimento una  copia  dell'opuscolo  con  le  postille  del  Manzoni  —  le 
quali  non  sono  due  ma  più  di  una  diecina  —  e  con  due  lettere  da 
lui  al  Giorgini  (3).  L'opuscolo  porta  il  timibro  della  Biblioteca  Bonghi 
e  di  mano  del  Bonghi  mi  semibrano  le  postille;  è  quindi  proba- 
bile ch'egli  da  un  esemplare  di  Gasa  Manzoni  o  di  Gasa  Giorgini 
abbia  trascritte  su  una  copia  nuova  le  proposte  di  -aggiunte  e  cor- 
rezioni manzoniane  e  anche  le  due  lettere  che  ad  esse  si  riferiscono  : 
delle  quali  la  prima  fu  pubblicata  dal  D'Ancona  e  la  seconda  ci 
risulta  inedita. 

È  noto  del  resto  che  il  Bonghi  dedicò  alla  politica  del  Manzoni 
buona  parte  del  Discorso  (4)  fatto  per  l'inaugurazione  della  Sala 
Manzoniana;  ed  è  naturale  perciò  che  s'interessasse  a  queste  due  let- 
tere, le  quali,  insieme  con  le  correzioni  ed  aggiunte,  hanno  invero 
non  piccola  importanza;  e  lo  stesso  opuscoli,  approvato  e  lodato  dal 
Manzoni,  illumina  ancor  meglio  il  pensiero  politico  -di  lui.  «  Sappi, 
—  scrive  il  Manzoni  al  Giorgini  —  se  mi  credi  un  galantuomo,  che 
m'è  stato  un  vivo  e  vero  piacere  rileggere;  e  che  ne  sarà  un  nuovo 
il  rivedere  gli  stampini  un'altra  volta,  e  un  altro  il  leggere  in  bella 
e  perfetta  forma  » . 

Il  23  giugno  del  '59  il  Tommaseo  si  rivolgeva  a  nome  di  altri 
amici  a  donna  Teresa  Manzoni  affinchè  in  quell'anno  storico  per  il 
dibattito  prò  o  contro  il  Dominio  temporale  il  Manzoni  dicesse  una 
parola,  una  parola  sola,  che  sarebbe  valsa  «  assai  più  dell'armi  e 
delle  negoziazioni»,  perchè  detta  da  un  uomo  «autorevole  per  la 
pietà  religiosa  e  la  moderazione  dell'animo,  per  la  potenza  dell'in- 


(1)  A.  D'Ancona,  Sei  lettere  di  A.  Manzoni  a  G.  B.  Giorgini,  Pisa,  Ni- 
stri,  1896.  La  lettera  alla  quale  accenniamo  è  datata:  Milano,  11  marzo  [1861]. 

(2)  Dell'unità  d'Italia  in  ordine  al  diritto  -  Considerazioni  di  G.  B.  Gior- 
gini, deputato  di  Siena.  Milano,  Redaelli,  1861. 

(3)  Busta  82,  n.  69. 

(4)  A.  Manzoni,  Il  bello,  il  retto,  il  vero,  desunto  dai  suoi  scritti,  prece- 
duto dal  discorso  di  R.  Bonghi  all'inaugurazione  della  Sala  Manzoniana.  Fi- 
renze,   1887. 

23  Voi.   CCXVI.   serie  VI  —   16   febbraio   1922. 


346  A.    MANZONI,    I.  IMiA    D  ITALIA    fc    l.A    «^i  L:^Jlu:Nt.    Mu.\iA.\A 

gegno  e  del  nome  »  (i).  Allora  il  Manzoni  non  volle  dire  apertamente 
quella  parola,  che  sarebbe  stata  davvero  «  gran  voce  »  e  non  più 
soia;  ma  a  chi  legga  questo  opuscolo  parrà  di  sentire  la  parola  viva 
e  schietta  del  grande  poeta  lombardo,  che  la  confidava  al  suo  fido 
Giorgini.* 

•  • 

L'opuscolo  fu  pubblicato  nel  marzo  del  '61,  in  un  momento  de- 
cisivo per  le  sorti  nazionali;  perchè  il  26  febbraio  era  stato  procla- 
mato il  Regno  d'Italia  e  il  25  marzo  Cavour  faceva  proclamare  dal 
Parlamento  la  necessità  che  Roma  fosse  congiunta  aU'Italia.  Il  Gior- 
gini  appunto  si  propone  di  risolvere  il  problema  dell'Unità  inte- 
grale d'Italia  in  ordine  al  diritto  e  alla  storia:  due  cose  nelle  quali 
il  Manzoni  aveva  una  competenza  e  un'autorità  speciale.  Riassumia- 
molo brevemente  :  «  Considerare  la  rivoluzione  italiana  sotto  il  dop- 
pio aspetto  della  legittimità  alla  quale  pretende  e  del  suo  successo  nel 
quale  confida,  domandare  al  diritto  i  titoli  di  questa  legittimià,  alla 
storia  le  ragioni  di  questo  successo,  è  appunto  lo  scopo  del  presente 
scritto  ».  La  legittimità  dei  governi  usurpatori  non  è  in  un  diritto  «  as- 
soluto »,  ma  in  un  diritto  «  contingente  »,  ch'è  il  diritto  de'  trattati.  Gli 
avversari  dell'Unità  italiana  invocano  appunto  non  il  diritto  morale 
ma  il  diritto  legale.  Si  obbietta:  —  Dove  si  andrebbe  se  ogni  popolo 
credesse  possibile  di  violare  impunemente  le  stipulazioni  del  diritto 
internazionale?  —  Siamo  sinceri!  —  risponde  il  Giorgini.  —  La 
storia  d'Europa  è  violazione  di  trattati  intemazionali  per  interessi 
dànastici;  né  si  vuole  abolirli.  «  Noi  domandiamo  solamente  che  ai 
trattati  che  hanno  rivestito  della  loro  sanzione  le  rivoluzioni  regie, 
succedano  quelle  che  devono  consacrare  le  conquiste  delle  rivolu- 
zioni popolari.  Noi  domandiamo  che  la  carta  di  questa  vecchia  Eu- 
ropa, tante  volte  rifatta  nell'interesse  di  alcune  famiglie,  che  si 
chiamano  le  Dinastie,  sia  fatta  una  volta  nell'interesse  di  altre  fa- 
miglie, che  si  chiamano  nazioni.  Noi  diciamo  agli  uomini  della  le- 
galità :  —  Volete  voi  che  il  mondo  rispetti  i  vostri  trattati?  Fate  che 
i  trattati  rispettino  la  morale;  mettete  la  leg-alità  d'accordo  con  la 
giustizia  —  ». 

La  rivoluzione  italiana  fu  nel  tempo  stesso  restaurazione  di  li- 
bertà e  rivendicazione  d'indipendenza.  Il  movimento  italiano  è  dun- 
que giustificato  dallo  stesso  principio  :  il  diritto  che  i  popoli  hanno 
d'i  costituirsi  nel  modo  più  conveniente  ai  loro  interessi.  Nel  1815 
gl'Italiani  non  pensavano  all'Unità.  «  Il  Manzoni,  gran  voce  ma  sola, 
rispondeva  al  Manifesto  di  Rimini,  in  una  canzone  della  quale  ci 
rimane  un  frammento;  che  forse  i  precipizi  della  fortuna  non  die- 
dero tempo  di  terminarla».  I  moti  del  21,  32,  48  non  furono  unitari, 
[/intervento  straniero  produsse  due  effetti:  da  una  parte  rassodò 
la  tirannide  intema,  dall'altra  provò  ai  liberali  che  il  vero  ostacolo 
al  quale  rompevano  tutti  i  loro  disegni  era  l'Austria;  e  all'Austria 
non  avrebbe  potuto  resisbere  che  l'unità.  «  Così  l'Italia  divenne  uni- 
taria». Ne  consegue  che  non  solo,  per  il  principio  della  sovranità 

(1)  n  biglietto  è  stato  rinvenuto  tra  le  Carte  manzoniane.  Cfr.  SchrrUìLo, 
A.  M.,  le  tragedie,  gl'inni  e  le  odi.  Hoepli,  1921,  pag.-459. 


A.    MANZONI,    l'unità    DÌTALIA   E    LA   QUESTIONE   ROMANA  347 

-e  nazionalità,  c^n.i  popolo  ha  diritto  di  essere  costituito  secondo  i 
suoi  interessi;  ma  che  di  questi  interessi  deve  esser  lasciato  solo  giu- 
dice lui.  «  E  se  questo  è  vero,  che  bisogno,  che  obbligo  abbiamo 
noi  di  provare  il  diritto  della  nostra  rivoluzione?  La  volontà  nazio- 
nale non  è  dunque  la  sorgente  del  diritto  politico?  E  che  gl'Italiani 
vogliano  l'unità  se  ne  può  ancora  dubitare?». 

Si  parla  di  confederazione.  Quand'anche  le  restaurazioni  fossero 
possibili,  non  sarebbe  possibile  la  confederazione.  Si  ripete  che  tutte 
le  nostre  tradizioni  sono  federali,  nessuna  unitaria.  Si  potrebbe  di- 
mostrare il  contrario.  Si  chiede  poi  :  se  l'Italia  non  è  federale  per 
la  sua  storia,  lo  sarebbe  ella  per  le  sue  condizioni  presenti?  —  Nep- 
pure. Il  sentimento  dei  popoli  si  è  pronunziato  per  l'unità  e  la  po- 
litica dei  governi  è  stata  sempre  unitaria,  ha  inteso  cioè  impadro- 
nirsi degii  altri.  Colle  restaurazioni,  colla  confederazione  dei  Prin- 
cipi non  si  può  dunque  scic^liere  la  questione  italiana. 

«  Sarebbe  egli  vero  che  l'unità  d'Italia  è  ugualmente  impossi- 
bile? ».  Nega  che  essa  non  siasi  costituita  per  ragioni  geografiche  ed 
etniche  e  tra  le  ragioni  storiche  mette  in  primo  luogo  le  invasioni 
barbariche  e  la  politica  dell'equilibrio  europeo,  che  in  sostanza  di- 
strusse l'equilibrio  a  danno  dell'Italia.  Evoca  quindi  la  figura  di 
Ni'ccolò  Machiavelli,  «  l'ingegno  più  pratico,  più  sodo,  più  positivo 
che  abbia  prodotto  l'Italia»,  che  ne  concepì  l'unità  come  l'ultimo 
sostegno  delle  vacillanti  grandezze  della  nazione;  e  poi  si  domanda: 
—  Se  l'ostacolo  all'unità  non  è  nelle  cause  antiche  delle  nostre  di- 
visioni, sarebbe  nm\  nei  loro  effetti  presenti?  —  Tra  i  popoli  italiani 
non  vi  sono  differenze  sostanziali  che  impongano  costituzioni  di- 
verse. Fosse  pur  grande  la  diversità  delle  tradizioni  locali,  bisogne- 
rebbe provare  che  avessero,  come  in  Inghilterra,  radice  profonda 
nell'affetto  dei  popoli.  Il  che  non  è.  Ma  —  si  dice  —  per  unificare 
ci  \'uole  una  capitale;  e  voi  non  l'avete.  «  Certo  il  non  avere  una 
capitale  o,  che  torna  lo  stesso,  l'averne  più  d'una,  è  un  inconve- 
niente :  ma  inconveniente  tutt'altro  che  novo  e  particolare  all'Italia  ». 
Il  Papato  si  affaccia  così  come  l'ostacolo  più  difficile  all'unità  :  «  Il 
dominio  temporale  dei  papi,  la  servitù  d'Italia,  l'aimullamento  mo- 
rale e  politico  del  papato  cominciarono  insieme».  Solamente  nel 
sec.  XVI  i  papi  riuscirono  a  consolidare  il  loro  dominio  temporale. 
Ebbene!  Dal  sacco  di  Roma,  da  Carlo  V  e  da  Clemente  VII  comincia 
la  vera  ^rvitù  della  Chiesa.  Il  papa  non  ha  più  nessun'azione  n^li 
affari  generali  dell'Europa,  non  interviene  più  a  nessuna  delle  grandi 
transazioni  che  decidono  deUa  sorte  de'  popoli.  Il  papa  fu  ristaurafo 
dal  Congresso  di  Vienna;  ma  lo  fu  allo  stesso  titolo,  con  maggiore 
difficoltà,  che  il  Duca  di  Modena.  In  tanta  bassezza  di  condizioni 
erano  caduti  questi  pontefici  occidentali,  che  avevano  aspirato  alla 
signorìa  del  mondo,  dopo  che,  facendosi  principi  italiani,  si  trova- 
rono involti  nella  servitù  che  avevano  preparata  alla  loro  patria. 
«  Nessun  diritto  dunque,  nessun  in  terese  legittimo  s'oppone  alla 
completa  unificazione  d'Italia...  E  noi  faremo  l'Italia,  se  conciliando 
le  ragioni  dell'antica  con  quelle  della  nova  grandezza,  prenderemo 
per  base  della  nostra  edificazione  quanto  c'è  di  reale  e  d'indistrutti- 
bile dell'esser  nostro  :  la  vera  parte  e  il  vero  tutto,  il  municipio  e  la 
nazione  V. 


348       A.  MANZONI,  l'unità  d'italia  e  la  questione  romana 

Per  la  questione  romana  il  Giorgini  si  limita  a  dichiarare  che 
gli  avvendmenti  posteriori  al  suo  scritto  Sul  dominio  temporale  dei 
papi  (1),  non  hanno  mutato  le  sue  convinzioni,  ch'erano,  com'è  noto, 
recisamente  contrarie  a  quel  dominio,  ma  favorevoli  alla  soluzione 
intermedia  della  neutralizzazione  di  Roma .  Roma  città  libera. 

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Questa  rapida  sintesi  basterà,  credo,  a  dare  un'idea  dell'impor- 
tanza dell'opuscolo  anche  pei  riguardi  del  Manzoni.  Tanto  la  parte 
storica  quanto  la  parte  giuridica  hanno  un  rigore  logico  che  diremmo 
manzoniano;  e  non  meno  degne  di  nota  sono  le  pa^ne  ove  si  con- 
futano le  ragioni  giu-sti  fi  canti  la  Confederazione  e  il  Dominio  tem- 
porale. Qui  davvero  il  Giotgini  parla  anche  per  il  Manzoni,  unitario 
antico  ostinato  e  convinto,  fautore  del  diritto  della  sovranità  nazio- 
nale come  fonte  della  nuova  le^gittimità  dei  popoli  di  contro  alla  il- 
legittimità dei  trattati  Internazionali  stipulati  con  l'ingiustizia  e  con 
la  violenza.  Ne  esce  così  sanzionata  la  nostra  Rivoluzione  in  nome 
del  ddritto  e  in  nome  della  storia:  il  diritto  la  giustificava,  la  storia 
la  rendeva  possibile.  E  ne  escon  condannate  con  logica  serrata  tanto 
l'opera  del  Congresso  di  Vienna  e  de'  Governi  usurpatori  quanto  le 
soluzioni  effimere  delle  unificazioni  parziali,  della  Confederazione 
giobertiana,  e  la  soluzione  antinazionale  della  questione  romana. 
La  sola  possibile  soluzione,  la  sola  logica  è  l'Unità,  l'unità  integrale. 
Viene  infirmata  la  stessa  concezione  del  Balbo-Gioberti,  di  fare  gl'Ita- 
liani prima  dell'Italia:  riforme  e  statuti  non  risolvono  il  problema 
nazionale;  i  piccoli  Stati  sono  «una  finzione  diplomatica»,  perchè, 
privi  di  vera  autonomia,  hanno  non  alleati  ma  protettori.  Le  stesse 
insurrezioni  e  cospirazrioni  sono  giustificate,  perchè  se  furono  «  fa- 
cilmiente  sventate,  '  via  via  crescendo  d'impeto  e  d'estensione  trasci- 
narono i  governi  e  li  rovesciarono  ». 

V'è  un  punto  della  trattazione  nella  quale  il  Giorgini  n^a  che 
tra  i  popoli  italiani  ci  siano  «differenze  sostanziali  che  impongano 
costituzioni  diverse».  Erano  le  parole  che  il  Lamartine  nel  '48  aveva 
rivolto  ai  profughi  italiani  [udes  cnn^lUutions  nouvelles  de  toute 
Tialure,  que  la  diversité  des  élats  de  Vltalie  fait  surgir  des  besoins^ 
des  intére ts,  dies  foiines  de  ses  différents  gouvernertvents  »),  contro 
le  quali  aveva  scritto  una  fiera  risposta  il  Manzoni  in  una  lettera 
del  6  aprile  al  poeta  francese.  «  Che  diversità?  —  osserva  il  xManzoni.  — 
Non  v'ha  maggior  differenza  tra  l'abitante  delle  Alpi  e  quello  di  Pa- 
lermo che  tra  l'abitante  delle  rive  del  Reno  e  quello  dei  F^irenei  ». 
E  il  suo  orecchio  d'italiano  unitario  non  pare  che  potesse  essere  ferito 
da  una  parola  più  «dura»  di  questa  diversité,  la  quale,  pronun- 
ziata dal  Ministro  francese  come  una  parola  d'avvenire,  per  lui  rias- 
sumeva invece  «  un  long  passe  de  malheur  et  d'abaissement  »  (2).  Di 
questa  fiera  risposta  del  Manzoni  si  ricordò  il  Giorgini  nello  scritto 
che  abbiamo  riassunto. 


(1)  Firenze,  Barbèra,   1859. 
\  (2)    \a   lettera   fu   «-dita    la    prima    volta   dal    Massari   nel   Faniulìa    ^ìfUa 
Domenica,    14   gennaio   'Sii,   poi   dal   Chtala  noi   voi.   su   G.   Dina,   o  ora   dallo 
SoHERiLLO,  Manzoni  e  Napoleone  III,  in  op.  cit.,  pag.  459. 


A.    ÀIANZONI,    l'unità    DITALIA   E    LA   QUESTIONE   ROMANA  ó't'i) 


Vediamo  ora  le  correzioni  e  le  aggiunte  consigliate  dal  Manzoni 
e  accettate  dal  Giorg-ini.  Sorvoliamo  sopra  alcune  sviste  e  sulle  cor- 
rezioni di  lingua,  come  disegm  sostituito  a  piani,  a  itn  tratto  al 
«  francesissimo  »  bruscamente,  e  non  poche  altre  che  attestano  la 
finezza  di  gusto  e  di  orecchio  di  chi  aveva  scritto  i  Promessi  Sposi; 
e  fermiamoci  sulle  osservazioni  di  carattere  politico. 

A  pag.  56,  là  dove  è  detto  «  Il  E>oniinio  temporale  de'  papi,  la 
servitù  d'Italia,  l'annullamento  morale  e  politico  dei  papato  comin- 
ciarono insieme!  »  —  il  Manzoni  annota:  Leverei  il!,  quasi  voglia 
togliere  alle  gravi  parole,  più  gravi  in  bocca  d'un  cattolico,  qualsiasi 
senso  di  meraviglia:  affermazione  semplice,  recisa,  categorica  d'una 
verità  storicai  A  pag.  58,  a  proposito  della  esautorazione  de'  papi  a 
Roma  e  dell'andata  di  Pio  VI  a  Vienna  per  supplicare  l'Imperatore, 
v'è  ora  un  «  buon  Pio  VI  »  al  posto  di  «  debole  vecchio»,  con  questa 
nota  del  Manzoni  :  Non  credo  che  Pio  VI  fosse  nwlto  vecchio,  quando 
andò  a  Vienna;  debole  neppure.  Infatti  era  papa  da  sette  anni  e  ne 
campò  ancora  altri  dieciassetle. 

Queste  correzioni  furon  fatte  evidentemente  sull'originale,  che 
il  Giorgini  diede  a  leggere  al  Manzoni;  ma  altre  non  meno  impor- 
tanti furono  aggiunte  sulle  bozze  di  stampa  e  spiegate  nelle  due 
lettere  alLe  quali  si  è  accennato.  A  pag.  44,  alle  parole  —  «  né  rotto 
a  Gavinana  dal  ferro  d'un  calabrese  »  —  il  Manzoni  aveva  osser- 
vato: Credo  che  fosse  sardo.  Non  avendo  tempo  d'i  verificare,  met- 
terei Maramaldo.  Nella  lettera  dell'i  1  marzo,  ricevute  le  seconde 
bozze,  scrive  al  Giorgini:  .4  ■<  un  calabrese»  sostituirò  un  u  Fabrizio 
Maramaldo  »;  e  questo  perchè  non  m'avendo  tu  scritto  d'aver  tro- 
vair,  che  tale  fosse  veramente  la  patria  di  <<  quel  colui»,  posso  cre- 
dere che  Vosservazione  ti  sia  sfuggita.  A  ogni  rrwdo  mi  par  ^n 
fatto  di  scansare  ogni  titolo  di  provincia  italiana  nei  fatti  odiosi. 
Si  sentiva  così  profondamente  itadiano  e  unitario  nell'animo  che  te- 
meva di  destare  la  minima  suscettibilità  negl'italiani  delle  altre  re- 
gioni. Voleva  che  le  gioie  e  i  dolori,  le  glorie  e  le  infamie  fossero 
conmni  a  tutta  la  nazione.  A  pag.  59,  coU'intendimento  di  meglio 
corroborare  l'asserzione  del  continuo  decadimento  e  a\^ilimento  del 
papato  temporale,  là  dove  si  parla  delle  rinunzie  che  Pio  VII  fece 
a  Napoleone,  prima  il  testo  diceva:  «E  di  più  la  resistenza  cessò 
nellabboccamento  di  Fontainebleau  dove  il  Papa  fece  il  concordato 
COR  cui  accettava  ie  proposte  di  Napoleone,  cedeva  Roma  ecc.  ».  E 
ora  è  corretto  così:  «Ma  non  durò  sempre  quella  resistenza;  e  nel- 
l'abboccamento di  Fontainebleau  Pio  VII  fece  tutte  le  concessioni 
che  gli  erano  chieste,  compresa  la  rinunzia  del  potere  temporale». 
Il  Manzoni  nella  lettera  sopra  citata  scriveva  al  Giorgini:  L'esserti 
fatto  tanto  umile,  mi  fa  esser  temerario.  T avverto,  dunc/ue,  che  se 
non  mi  viene  un  tìto  avviso  in  contrario,  a  posta  corrente,  farò  sulle 
prove  del  torchio  una  piccola  aggiunta  e  un  p'ccolo  cambiamento. 
Dopo  le  parole  «  fece  tutte  le  concessioni  che  gli  erano  chieste  »  ag- 
giungerò:  k  compresa  la  rinunzia  del  potere  temporale». 

Questo  sincero  cattolico  aggravava  onestamente  la  mano  su'  papi 
res'  vili  o  ignavi  dal  potere  temporale,  al  quale  faceva  risalire  ogni 
responsabilità.    Non   la   debolezza  e   la    vecchiezza   aveva   condotto 


350  A.    MANZONI,    l'unità    D'ITALIA   E    LA   QUESTIONE    ROMANA 

Pio  VI  ai  piedi  dell'Imperatore  d'Austria,  non  ia  viltii  personalt- 
averva  condotto  Fio  VII  ai  piedi  di  Napoleone;  ma  l'uno  e  l'altro  erano 
spiniti  dalla  servitù  del  potere  temporale  alle  suppliche  e  alle  ri- 
nunzie! 

Più  notevole  ancora  è  la  correzione  che  il  Manzoni  propose  con 
la  seconda  lettera,  ia  quale  conferma  una  volta  di  più  la  scrupolosità 
che  come  critico  aveva  il  Manzoni  anche  ned  rapporti  di  terze  T'ar- 
sone, pur  così  intimaimente  legate  a  lui  da  parentela,  come  il  Gicnv 
gini.  Consegna  le  bozze  allo  stampatore,  ma  ne  sospende  la  tiratura, 
perchè  il  genero  possa  esaminare  le  correzioni  del  suocero  inconten- 
tabile; e  se  la  cava  con  una  finezza  piena  di  bontà  :  «  Ho  interpre- 
tato forse  troppo  largamente  la  tua  condiscendenza».  Infatti  piglia 
animo  a  fargli  un'osservazione  di  più  larga  portata.  Il  testo  da  me 
esaminato  da  pag.  12  a  pag.  13,  dalle  parole  —  E  abbiamo  noi  bisogno^ 
di  notare,  sino  alla  fine  :  deve  cercarsi  la  risposta  —  è  contrasse- 
gnato da  lineette  e  vi  è  scritto  a  margine:  «  Aggiunto  dietro  l'osser- 
vazione del  Manzoni.  Vedi  lettera  in  fine  ».  Val  la  pena  di  ripor- 
tare tutto  il  brano:  «  £  abbiamo  noi  bisogno  di  notare  qui  espresi^a- 
menlc  Vin^fiustizifl,  la  nullilà  morale  dei  trattati  fatti  contro  di  7ìoi, 
ina  senza  di  noi?  fatti  da  alcuni,  col  solito  titolo  della  forza,  e  del- 
l'iniqua  teoria,  per  la  quale  quegli  alcuni,  che  con  un  prepotenje 
traslato  si  chiamano  uVEuropa»,  s'attribuiscono  il  diritto  di  stipu- 
lare sugli  affari  degli  altri?  Quale  privato  si  crederebbe  in  obbligo  di 
rispettare  contratti  ai  quali  non  ha  partecipalo,  che  non  Ita  sottoscrijlo? 
Le  analogie  desunte  dal  diritto  privato  sono  qui  dunque  di  novo 
fuori  di  luogo.  Videa  di  u  contratto»,  come  Hdea  di  ^^ proprietà  »y 
sarebbe  malamente  applicata  a  relazioni  di  una  natura  tanto  diversa. 
Nel  diritto  intemazionale  quelle  due  parole  sono  un  modo  itinten- 
dersi,  che  diventa  un  sofisma,  appena  se  ne  vuol  fare  un  principia. 
Son  sono  le  dottnine  della  rivoluzione,  è  la  storia  diplomatica  del- 
l'Europa,  che  anche  qw  noi  possiamo  invocare.  Nessun  trattato  po- 
trebtì^e  citarsi,  che  non  sia  stato  la  ricognizione  d'un  fatto,  contrario 
a  un  diritto  internazionale  fondato  sopra  trattati  anteriori.  Chi  di- 
rebbe Vistesso  de'  contratti?  Ebbene!  Abbianw  noi  ragione  di  pretrn- 
dere  che  l'Europa  riccmosca  i'  fatto  della  nostra  rivoluzione?  Non  è 
nel  diritto  di  «  proprietà  » ,  nel  diritto  de'  «  contratti  » ,  in  nessun  di- 
ritto positivo,  tradizionale,  ma  nei  principi  eterni  della  morale,  nei 
grandi  interessi  della  civilizzazione,  che  deve  cercarsi  la  risposta  .. . 

Nessuno  può  disconoscere  l'importanza  di  questa  che  direi  pagina 
manzoniana.  Lo  stesso  problema  politico  sollevato  oggi  da  recenti  con- 
tratti internazionali  è  affermato  e  risolto  dal  Manzoni  con  una  chia- 
rezza e  convinzione  e,  diciamo  pure,  con  una  libertà  che  molti  dei 
liberali  d'oggi  non  saprebbero  usare.  Egli  dichiara  solennemente  la 
«  nullità  morale  »  de'  trattati  stipulati  da  terzi  e  non  accettati  lilxv 
ramente  e  sottoscritti  dagl'interessati.  La  Rivoluzione  italiana  si  ri- 
fugiava dal  diritto  positivo  e  contingente  della  diplomazia  euix>pea 
{quagli  alcuni  che  con  un  prepotente  trastalo  si  chiamano  lEitrojta), 
nel  diritto  eterno  e  inviolabile  della  giustizia  e  della  morale!  liia 
professione  di  fede  così  profonda  nella  giustizia  della  causa  italiana 
non  poteva  essere  scossa  da  vecchi  pregiudizi  e  da  nuove  opporiunità 
di  persone  o  di  luoghi.  Così  si  spiega  la  tenacia  con  la  quaJe  il  Man- 
zoni perseguì  costantemente  e  senza  titubanze  e  crisi  interiori  il  suo 


A.    MANZONI,    l'unità    D'ITALIA   E    LA   QUESTIONE    ROMANA  351 

ideale  politioo,  tenne  fede  alla  sua  coscienza  e  in  tutte  le  occasioni 
più  solenni  prese  parte  alle  manifestazioni  e  ai  voti  in  favore  del- 
l'unità italiana,  dal  '48  in  poi.  Anche  prima.  La  lettera  si  chiude 
infatti  scherzosamente  sulla  «  più  grossa  delle  correzioni  »  che  sa- 
rebbe da  farsi  a  pag.  19  (1)  e  contro  la  quale  «  la  sua  modèstia 
freme  » . 

La  correzione  che  il  Manzoni  avrebbe  voluto  fare  ma  non  fece 
si  riferisce  a  sé  stesso,  per  la  canzone  sul  Proclama  di  Rimini,  là 
dove  il  Giorgini,  naturalmente  tanto  bene  informato,  cosi  parla  della 
impresa  muratiana:  «Nessuna  occasione  più  bella,  l'infelice  Gioac- 
chino si  offriva  capitano  all'impresa.  Il  Manzoni,  gran  voce  ma  soUiy 
rispondeva  al  manifesto  di  Rimini,  in  una  canzone  della  quale  ci 
rimane  un  frammento,  che  forse  i  precipizi  della  fortuna  non  die- 
dero tempo  di  terminarla».  Nel  1815  il  Manzoni  non  era  ancora  una 
«gran  voce»,  nia  egli  si  limitò  a  sottolineare  le  parole,  sorrise  e 
p£issò  oltre.  Certo  è  ch'egli  pensava  all'unità  fin  dal  1815,  all'unità 
prima  che  alla  libertà  {Liberi  non  sarem  se  non  siumo  uni),  contra- 
riamente alla  tesi  che  poi  sosterrà  il  Balbo  nelle  Speranze.  Aveva 
dunque  ragione  Giuseppe  Mazzini  di  congratularsi  col  Manzoni  àel- 
l'essere  stati,  essi  due,   i  più  antichi  e  più  i>ervicaci  unitari!    (2). 

Ecco  ora  la  lettera  inedita  al  Giorgini,  che  trascriviamo  dalla 
copertina  dell'opuscolo  e  che  evidentemente  fa  seguito  a  quella  ci- 
tata deiru  marzo  ('61)  : 

Caro  Bista,  ' 

stavo  per  mandanti  cfueille  bozze,  quando  rioevetti  quelle  per  RedaeUi, 
che  gli  mandai  subito;  ma  prendendomi  la  libertà  di  fargli  dire  che  sospen- 
desse lo  stampare  fino  a  un  tuo  novo  ordine.  Ho  interpretato  forse  troppa 
largamente  la  tua  condiscendenza;  ma  a  ogni  modo  il  ritardo  non  sarà  che 
d'un  giorno,  quando  tu  trovi  che  non  ci  sia  o  nulla  o  pochissimo  da  cambiare. 

Ecco  a  buon,  conto  un'altra  osservazione,  della  quale  come  delle  prime 
terrai  quel  conto  che  crederai.  Nel  §  IV  mi  pare  che  si  potrebbe  notare  più 
espressamente  l'ingiustizia  e  la  nullità  morale  di  trattati  stipaalati  da  alcuni 
sugli  affari  d'altri,  senza  sentirli  e  col  solo  titolo  della  forza  e  dell'inaudita 
e  iniquissima  teoria  che  attribuisce  a  quegli  alcuni  che,  con  un  prepotente 
traslato  si  chiamano  l'Europa,  il  diritto  di  costituire  un  diritto  sopra  gli  altri. 

Oltre  le  correzioni  tipografiche,  troverai  delle  proposte  di  cambiamenti 
che  sarebbero  forse  peggioramenti;  ma  ripeto,  come  proposte  che  puoi  buttare 
nel  foco. 

La  più  grossa  delle  correzioini  è  quella  da  farsi  alla  p.  19,  alla  linea  ul- 
tima, contro  la  quale  la  mia  modestia  freme. 

• 
*  * 

Sembra  strano  che  il  Manzoni  non  abbia  fatto  nessuna  osserva- 
zione all'ultima  parte  dell'opuscolo,  dove  il  Giorgini  tratta  della  que- 
stione romana,  ch'era  allora  d'attualità.  Ma  su  questo  argomento  le 
divergenze  col  genero  erano  note  e  parevano,  almeno  allora,  incon- 

(1)  Nel  testo  è  ora  a  pag.  20. 

(2)  L'episodio  fu  prima  ricordato  dal  De  Gubernatis  e  poi  dal  D'Ovidio 
{Jja  politica  tìel  M.,  in  Nuovi  studi  manzoniani,  Milano,  1905). 


362  A.    MANZONI,    l/UNITÀ    l)ITAM\    K    I.A    QUESTIONE    IU»\I\\\ 

ciliabdii.  Il  Giorgini,  nello  scritto  citato  del  '59  sul  IJoiikuio  tempo- 
rale dei  papi,  aveva  proposto  la  soluzione  della  neutralizztizione  di 
Ronia.  «  La  città  santa,  dichiarata  anche  città  libera,  costituita  da 
sé,  governata  dal  suo  municipio,  sarebbe  messa  come  fuori  d'Italia». 
Era  in  gran  parte  la  tesi  dell'altro  genero  del  Manzoni,  Massimo 
D'Azeglio,  che  vi  accennò  in  Quistioni  urgenti  e  in  altri  scritti  suc- 
cessivi, tesi  che  fu  sostenuta  anche  dal  Tommaseo  (1)  ma  non  ebbe 
né  seguito  né  fortuna  e  servi  solo  ad  amareggiare  l'animo  dell'Aze- 
glio, che  vi  sd  ostinò  stranamente,  rimiettendola  a  nuovo  in  occa- 
sione della  Convenzione  di  settembre  1864  e  del  conseguente  voto 
del  Senato. 

Pel  Manzoni,  al  contrario,  Roma  era  e  doveva  restare  dentro 
l'Italia  e  all'Italia;  non  ammetteva  mezzi  termini  né  d'internazio- 
nalizzazione né  di  neutralizzazione.  Non  ebbe  perciò  le  riserve  e 
gli  scrupoli  ch'ebbero  tanti  altri,  più  liberali  e  meno  cattolici  di  Lui; 
e  fu  quindi  di  una  disciplina  e  di  una  coerenza  politica  davvero 
ammirabile.  Franco  e  inflessibile,  fino  all'ultimo  atto  di  Roma  ca- 
pitale. 

Ruggero  iBonghi,  inaugurando  la  Sala  Manzoniana,  ricordò  che 
il  Manzoni  nel  '48  non  volle  firmare  il  voto  di  fusione  della  Lom- 
bardia col  Piemonte,  contrario  com'era  a  cfuelle  che  il  Giorgini 
chiama  unificazioni  parziali.  »  Non  voleva  restaurare  im  Regno  Ita- 
lico, voleva  un  Regno  d'Italia».  E  ricordava  pure  le  parole  dette  dal 
Jklanzoni  al  Rosmini,  a  cui  l'unità  pareva  un'utopia.  «  Forse  —  ri- 
batteva — ,  ma  un'utopia  bella;  invece  la  confederazione  è  un'utopia 
brutta».  La  fusione  appunto  gli  pareva  un  pericolo  per  l'unità  vera 
e  non  valsero  le  preghiere  e  le  esortazioni  del  Balbo  e  del  D'.Azeglio 
a  farlo  firmare. 

È  strano,  ma  é  così,  in  politica  il  Manzoni  si  sentiva  più  vicino 
a  Garibaldi  e  a  Mazzini  (2)  che  al  suo  Massimo.  Non  meno  strano 
ancora,  questo  fer\^nte  cattolico  non  subì  il  capogiro  che  a  tanti 
uomini  politici  di  allora  diede  il  fortunato  gesto  di  Pio  IX  ed  ebbe, 
anzi,  maggior  fiducia  in  Cavour  che  nel  Pontefice  liberale,  che  dopo 
di  aver  benedetta  l'Italia  l'aveva  mandata  «a  farsi  benedire».  Più 
strano  ancora,  questo  letterato  timddo  e  riservato,  sebbene  ottuage- 
nario, non  mancò  nelle  sedute  più  decisive  e  solenni  del  Senato  (il 
Decreto  di  nomina  a  senatore  è  del  27  febbraio  '60).  Nella  storica 
giornata  del  26  febbraio  1861  —  Kgli  che  l'aveva  desiderato  e  spe- 
rato «contro  tutti  gl'increduli"  fu  presente  e  votò  la  proclama- 
zione del  Retgno  d'Italia. 

La  proclamazione  di  Roma  lapiiale  —  che  all'Azeglio  sembrava 
un'idea   rettorica  classicheggiante  —   parve  al    Poeta   romantico  la 

(1)  11  Tommaseo  ne  parlò  nel  libro;  //  .seyreto  dti  fatti  ptiJesi  sefìuiti  nel  '.};/. 
Indagini  di  N.  Tommasw),  Firenze,  1H60,  pag.  46.  Di  Roma  capitale  egli  aveva 
un'idea  pes8Ìnii.stica  corno  I'A/zOrIìo  (ìdnne  n'est  /Jus  ilanx  Hom^)  v  adorivB  per- 
ciò alla  soluzione  pix>posta  nel  famoso  opuscolo  //  /«»/»«/  e  il  Congresso. 

(2)  Tra  le  Carte  jtianzomanr  il  Bonghi  afferma  trovarsi  la  boesa  di  una 
lettera  del  Manzoni  in  difesa  di  Mazzini,  in  risposta  a  un'altra  del  Rendu  (17 
luglio  '59)  che  gli  comunicava  le  i*tie  profH'Cupazioni  stilla  prevalenza  del  partito 
maKziniiino  in  Italia  e  sul  i)erif'iil'»  du'  ne  sarohlM>  vomito  :iirli  St.-ìti  del  l'ont»'- 
fioe.   Cfr.   Bonghi,  op.  cit. 


A.    MANZONI,    l'unità    DÌTALIA   E    LA   QUESTIONE   ROMANA  353 

sanzione  d'una  ^ande  realtà  storica  e  d'un  inviolabile  diritto.  Il  5  ot- 
tobre del  '62,  dopo  Aspromonte,  scriveva  al  Giorgrini  essere  rilut- 
tante a  far  parte  di  una  Commissione  nominata  dal  ministro  Broglio 
per  studiare  i  mezzi  deirunificazione  della  lingua;  e  g"li  confidava  la 
ragione  vera:  che  v'era  non  ix)ca  probabilità  che  la  capitale  fosse 
altrove  che  a  Firenze.  «  Sarebbe,  credo,  un  caso  unico  che  il  capo 
della  nazione  fosse  in  un  luogo  e  la  sua  lingua  in  un  altro.  Fino  il 
piemontese,  e  in  così  poco  t^mpo,  s'è  infiltrato  un  pochino  negli 
scritti  e  nei  discorsi.  E  almeno  sarà  creato  un  conflitto».  Come  si 
vede,  neppure  in  fatto  di  lingua  era  separatista  o  federalista:  non 
ci  possono  essere  due  capitali.'  L'unificazione  politica  portava  per 
conseguenza  all'unificazione  linguistica  in  Roma,  unica  capitale. 

Nel  1863  l'Azeglio,  col  chiodo  fisso  di  risolvere  a  modo  suo  la 
questione  romana,  gli  mandò  un  opuscolo  del  Rendu,  La  souverai- 
netc  pontificale  et  Vltalle;  e  il  Manzoni  rispose  con  parole  evasive 
e  non  compromettenti,  che  gli  f>areva  «  non  abbastanza  chiara  la 
conclusione  pratica».  I  cattolici  francesi,  amici  dell'Italia,  propen- 
devano per  la  conciliazione;  ma  il  Manzoni  credev^a  impossibile  la 
conciliazione,  pericolosa  la  violenza.  Aveva  un  liei  dire  l'Azeglio  al 
Rendu  (23  giugno  '63)  ch'egli  era  di  accordo  col  suocero  :  «  Nous 
sommes  assez  d'accord  sur  tous  les  points.  V'oilà  un  homme  que  vos 
catholiques  pourraient  peufc-ètre  écouter.  Lui  reconnaìtraient-ils  quel- 
que  autori  té  à  celui-là?...  Manzoni  e  Gino.  Capponi  c'est  c^pendant 
quelque  chose  quand  on  veut  parler  du  catholicisme  italien  »   (i). 

Manzoni  si  sentiva  profondamente  cattolico  e  profondamente 
italiano,  e  tra  le  due  parole,  per  conto  suo,  non  v'era  opposizione 
o,  se  v'era,  era  apparente  ed  era  nell'ordine  de'  fatti  non  delle  idee 
e  dei  principi.  Ma  la  soluzione  che,  anche  nell'ordine  dei  fatti,  pa- 
reva impossibile  nel  '63,  apparve  possibile  nel  '64,  per  effetto  della 
Convenzione  di  settembre;  ma  allora  né  i  conciliatoristi  né  Massimo 
furono  più  disposti  ad  ascoltare  la  voce  di  Alessandro  Manzoni;  il 
quale,  ottimista  per  natura  e  acutissimo  ragionatore,  vide  subito 
aprirsi  uno  spiraglio  di  luce  tra  le  tenebi'e  della  questione  romana. 
Sentì  che  non  si  faceva  una  rinunzia,  ma  si  faceva  una  tappa  verso 
Roma.  Tra  i  conciliatoristi  ad  ogni  costo  e  tra  gli  estremisti  di 
Roma  V  marte,  il  Manzoni,  senza  essere  un  rinunziatario,  capì  che 
la  questione  faceva  un  passo  avanti  nella  via  segnata  da  Cavour. 

L'apparente  accordo  con  l'Azeglio  fu  quindi  rotto.  Il  Manzoni 
non  solo  era  per  l'approvazione  dei  trattalo,  ma  volle  andare  a  To- 
rino per  dare  il  suo  voto.  Il  Giorgini,  in  una  lettera  alla  moglie. 
Vittoria  Manzoni,  narrò  tutti  i  casi  di  quel  viaggio  singolarissimo, 
tutti  i  mezzi  adoperati  dagli  amici  piemontesi  e  dall'Azeglio  perchè 
Alessandro  Mfinzoni  non  si  recasse  a  Torino,  srià  funestata  da'  lut- 
tuosi fatti  del  settembre.  Tutto  fu  inutile;  egli  volle  andare,  e  andò. 
«  Si  N'ede  proprio  che  questi  signori  conoscono  poco  Papà,  che  ne 
hanno  un  co'icetto  molto  inferiore  a  qu^ello  che  merita,  e  che  per 
conseguenza  si  esagerano  grandemente  il  potere  della  mia  influenza 
su  di  lui.  D<)\rebbero  sapere  ch'egli  è  ben  chiaro  e  ben  fermo  nelle 
sue  idee  e  nei  suoi  propositi,  o  che  poche  idee  ha  piià  chiare  e  più 
ferme  di  quella  di  volere  che  si  vada  a  Roma.  Per  lui  è  evidente  che 

<1>  Corre. spondan-ce  politique  de  M.  D'A.,  pag.  276. 


354  A.    MANZONI,    l'unità    DÌTALIA   E   LA   QUESTIONE   ROMANA 

l'andare  adesso  a  Firenze  significa  incamminajsi  sulla  via  di  Roma, 
e  non  saremo  certamente  capaci  né  io,  né  Massimo,  né  donna  Go- 
stanza [Costanza  Arconati,  di  cui  fu  ospite  il  Manzoni  a  Torino],  né 
<iltri,  di  fargli  cambiar  rotta  :  ha  in  testa  piìi  fìtto  che  mai  il  chiodo 
di  Roma,  ed  é  sempre  pieno  di  fidlicia  che  a  Roma  ci  potremo  an- 
dare col  pieno  consenso  della  c>oscienza  cattolica  »  (l). 

Il  Giorgini  invidiava  a  don  Alessandro  questa  fermezza  di  con- 
vinzione, che  lui  non  aveva;  perchè  se  aveva  perduta  la  fiducia  in 
una  «conciliazione»  e  nella  «neutralizzazione»  di  Roma,  a  forza 
di  guardare  e  riguardare  da  ogni  lato  la  questione,  viveva  «  con 
l'animo  agitato  dal  dubbio».  11  Manzoni  era  sicuro  del  fatto  suo  e 
sereno  nella  sua  coscienza,  e  perciò  non  lo  scossero  né  le  preghiere 
e  le  esortazioni  di  parenti  ed  amici  né  le  paure  del  medico  di  casa. 
L'Azeglio,  che  pesava  tutta  la  gravità  del  voto  di  Alessandro  Man- 
zoni in  una  questione  che  feriva  anche  l'amor  proprio  de'  piemon- 
tesi, si  rivolse  al  Giorgini  e  al  fedele  prevosto  di  S.  Fedele,  don 
Giulio  Ratti,  intimo  del  Manzoni.  Il  Giorgini,  come  si  è  detto,  non 
potè  e  forse  neppur  volle;  don  Giulio  arrivò  tardi;  spedì  l'esortatoria 
di  Massimo  in  casa  Manzoni,  quando  questi  era  già  partito,  la  mat- 
tina stessa  del  5  dicembre.  La  lettera  lo  raggiunse  a  Torino,  ma 
Egli  non  vi  diede  altra  risposta  ohe  «  di  porsela  tranquillamente  in 
tasca»  (2).  Don  Giulio  ne  diede  notizia  subito  all'Azeg-lio  con  la  se- 
guente lettera,  ch'è  inedita  e  non  priva  d'interesse: 

•Milano,  5  Die.  1864. 
Caro  Massimo. 

appena  ricevuta  adesso  (ore  10  matt.)  la  tua  d'jeri,  l'ho  spedita  sut>i<o 
a  D.  .Alessandro,  tenendo  per  fermo  che  le  tue  parode  avrebbero  avuto  molta 
influenza  sullla  sua  deliberazione;  ma  egli  era  partito  poco  prioxia  con  Gior- 
gini,  D'Adda,  Marini  ed  altri. 

Se  avessi  anticipato  d'un  giorno  a  ecrl vermi,  forse  lo  avrei  potuto  in- 
durre a  rimanere.  Ad  ogni  hkxìo  ti  prego  di  rinunciare  al  fiero  proposito  di 
non  volerlo  vedere.  Pensa  che  è  tuo  suocero,  ch'è  un  vecchio  per  tanti  titoli 
rispettabile,  che  avresti  poi  rimorso  di  averlo  amareggiato,  e  che  quelli  stes^^i 
che  per  amore  di  patria  applaudirebbero  oggi  aMa  tua  spartana  risoluzione. 
condannerebbero  domani  la  tua  durezza. 

Sono  anch'io  d'avviso  che  avrebbe  fatto  meglio  ad  imitare  Gino  Capitoni. 
ded  quale  mi  "piacque  nwlto  la  detterà  a  Lambrusohini  che  lessi  oggi  nella 
«  Perseveranza  ». 

Anche  Manzoni  avrebbe  potuto  scriverne  per  es.  una  simile  a  te,  e  tutto 
si  accomodava  per  bene.  Addio  carissimo:  porto  speranza  che  tu  mi  scriva; 
Mamzoni  ha  avuto  torto;  .ma  in  ftoe  poi  ho  ceduto  al  taio  consiglio.  Sta'  sano. 

L'ani.»  Gli!  '"     < 


(1)  La  lettera  fu  pubblicata  dal  D'Ancona  col  titolo:   Un  aneddoto  mati- 
zuiiiaiw  (ora  in  Pagine  spar.se  di  lettrratura  e  storia,  Firenze,  1914). 

(2)  Così  riferiaoe  B.  Ix\caita,  dopntato,  al  Paniszi.  Cfr.  Lettert  ad  A.  Pa- 
tiizzi.   Barbèra,   1880,   pag.  485. 

(3)  Ho  trovato  la  lettera,  insieme  con  molte  altre  sulla  ConvenEione  dvì  '64, 
nella  Raccolta  delle  cartt»  d'Azeglio  di  p:-oprietà  dogli  eredi  Ricci.  Tra  le  altre 


A.    MANZONI,    l'unità    D'ITALIA   E    LA   QUESTIONE    ROMANA  355 

L'Azeglio  mantenne  la  promessa  di  non  volerlo  vedere;  e  nella 
casa  deg-li  Arconati,  ove  era  un  pellegrinaggio  di  persone  per  visi- 
tare il  Manzoni,  non  andarono  né  lui  né  altri  piemontesi.  Quando 
l'Azeglio,  il  3  dicembre,  fece  leggere  il  suo  discorso  al  Senato,  il  Man- 
zoni non  era  ancora  arrivato;  ma  certo  giunse  fino  a  lui  il  rumore 
di  quel  discorso,  che  fu  senza,  dubbio  un  successo,  un  successo  di 
stinna  se  si  vuole,  dovuto  al  suo  passato  e  più  al  senso  di  dolore  e 
di  sacrifizio  col  quale  egli  dichiarava  di  accettare  il  trattato.  Non 
accenna  alla  sua  tesi,  ma  la  conciliazione  è  il  presupposto  di  tutto 
il  discorso,  il  cui  successo  dovè  produrgli  molta  illusione,  come  se 
avesse  seppellito  la  questione  romana;  e  si  compiaceva  di  riferire  le 
parole  d'un  amico:  Mais^  mon  Dieu,  qui  est-ce  qui  pense  encore  à 

Il  Manzoni  comparve  nella  seduta  del  6  dioemibre.  Al  suo  in- 
gresso nella  sala  moltissimi  senatori  gli  andarono  incontro  a  strin- 
gergli la  mano;  andò  a  sedere  sugli  scanni  più  alti  a  destra  del 
Presidente,  accanto  al  Cialdini,  che  quel  giorno  fece  un  discorso  im- 
pressionante, il  più  efficace  forse  in  quella  storica  discussione;  e  il 
Manzoni  disse  poi  scherzando  che  ci  avev-a  merito  anche  lui,  per- 
ché... gli  aveva  dato  da  bere. 

Il  giorno  dopo,  prima  di  lasciar  Torino,  andò  lui  col  Giorgini 
a  far  visita  all'Azeglio,  il  quale  per  un'ora  non  gli  parlò  d'altro  che 
di  spiritismo.  Ripicchi  e  debolezze  d'un  grand'uomo!  Il  quale,  del 
resto,  era  di  accordo  col  Manzoni  nella  gratitudine  e  nell'ammira- 
zione verso  Napoleone  III.  Ma  mentre  l'Azeglio  lo  benediva,  perchè 
credeva  che  la  Convenzione  del  '64  ci  avesse  liberati  dall" incubo  di 
Roma  o  Morte!,  il  Manzoni,  ch'era  un  loico  sottile,  distinse,  perchè  se 
non  dimenticò  le  sue  benemerenze,  non  dimenticò  neppure  tutti  gli 
ostacoli  che  dopo  il  '59  l'Imperatore  frappose  all'Unità  d'Italia,  non  ul- 
timo, almeno  nella  intenzione,  quello  dell'imfpnsto  trasferimento 
della  capitale  a  Firenze.  lE  quando  nel  1873  -=-  celebrandosi  le 
esequie  del  terzo  Napoleone  a  Firenze  —  il  Gomitato  lo  fece  inter- 
pellare dal  Giorgini  perché  scrivesse  l'epigrafe  da  porre  sulla  porta- 
lettere ce  ne  sono  due  di  Gino  Capponi,  il  quale  non  andò  a  votare  a  Torino,  ma 
esortò  l'Azeglio  ad  andar  lui  e  parlare.  La  seconda  di  queste  due  lettere  dice: 

((  Mio  caro  Massimo, 
«Belle  parole,  parole  sante,  ma  temo  giungano  troppo  tardi.  Abbiamo  noi 
quello  che  ci  siamo  meritati  ;  e  il  discorso  di  Napoleone  ribadisce  troppo  bene 
la  nota  austriaca.  Tutto  questo  mi  pare  grave,  te  lo  confesso,  né  vedo  altro  che- 
un  forte  impeto  di  buon  senso  che  possa  salvarci.  E  il  buon  senso  vi  è  nel  fondo, 
ma  è  ricoperto  da  troppa  robaccia.  È  uno  di  quei  momenti  pe'  quali  isei  fatto, 
non  aspettare  il  discorso,  va'  sotto  i  portici  e  discorri  lì.  Non  aspettare,  che  tu 
diel  bene  poi  farne  sempre  e  Dio  faccia  non  venga  il  momento  che  tutti  dob- 
biamo fare  atto  di  presenza.  Se  Dio  non  ci  salva,  me  lo  vedo  innanzi  ques^ 
momento.  V^a'  e  dici  che  le  bugie  ci  volteranno  l'Europa  addosso,  e  piaccia  a 
Dio  che  non  ce  l'abbiano  già  voltata.  Di'  che  il  solo  forte  sarà  quello  che  oserà 
dire  la  verità  schietta,  che  Roma  o  morte  è  una  seccatura,  come  tu  scrivi,  i>oi 
grida  pace  e  perdonami  le  insufficienze  e  gli  spropositi.  E  poi  rientra  nella  tua 
nicchia,  speriamolo,  e  che  ai  più  impotenti  non  sia  debito  uscire  dal  guscio  a 
solo  sgravio  di  coscenza.  Mando  le  tue  parole  a  Gigi  Mannelli  che  ora  è  in- 
villa. 

<(  Firenze,    6  novembre    '64. 

u  G.  Capponi  ». 


366  A.    MANZOM,    l'unità    D'ITALIA    e    i'.A   QUESTIONE    ROMANA 

del  temipio,  il  Manzoni  si  rifiutò,  non  potendo  eg^li  disiinguere  e 
spiegar  tutto  in  una  epigrafe.  «  Il  benefizio  che  si  tratta  di  celebrare, 
fu  certamente  una  cosa  imimensa,  anzi  unica  e  incomparabile,  ma  ac- 
compagnata nella  condotta  da  fatti  restrittivi,  anzi  opposti  »  (1). 

L'ultimo  di  quei  fatti  restrittici,  anzi  opposti^  era  certamente 
la  Convenzione  del  settembre  1864  e  il  conseguente  trasferimento 
della  capitale  a  Firenze.  Fin  nell'ultimo  anno  della  sua  vita,  il 
Manzoni,  ce  deplorable  Manzoni  —  come  avevano  esclamato  i  gesuiti 
óeWUnivers  —  fu  dunque  coerente  con  se  stesso  e  coi  suoi  principi  di 
costante  propugnatore  dell'Unità  italiana  e  imj^enitente  oppugnatore 
del  Potere  temporale  :  coerenza  ch'ebbe  la  più  alta  e  significativa 
espressione  e  sanzione  nel  meritato  conferimento  della  cittadinanza 
romana  (2),  come  aveva  avuto  la  prima  esplicita  affermazione  ne' 
versi  messi  in  bocca  al  re  Desiderio,  ne'  quali  è  il  ritratto  del  ponte- 
fice ideale  del  Manzoni  : 

Quel  dì  che  indamo 
I  nostri  padri  sospirar,  serbato 
È  a  voi  :  Ironia  f  ia  nastra  ;  e,  tardi  accorto. 
Supplice   invan,   delle   terrene  spade 
Disarmato  per  sempre^  ai  santi  studi 
Adrian  tornerà:    re  delle  preci, 
Signor  del  sacrifizio,  il  aoglio  a  noi 
Sgombro  darà. 

Nunzi.)  Vaccalluzzo. 

(1)  Da  lettera  al  Giorgini.  in  D'A>-con.\,  op.  cit. 

(2)  Per  i  rapporti  tra  Napoleone  III  e  Manzoni,  è  da  v^dt-ìi'  lì  aii^git^* 
■di  M.  ScHBRiLiX),  Manzoni  e  Napoleone  III,  in  op.  cit.,  pagg.  446-74.  Nella 
rispoeta  di  ringraziamento  al  Sindaco  di  Roma,  il  Manzoni  dice  ch<'  il  Con- 
siglio comunale  <(  ha^oluto...  dare  il  valore  di  merito  alle  aspirazioni  costanti 
d'una  lunga  vita  alla  indipendenza  e  unità  d'Italia    ■. 


LA  TRASFORMAZIONE  DEL  LATIFONDO  IN  SICILIA 
E  IL  PROBLEMA  MERIDIONALE 


Prima  della  guerra  il  problema  meridionale,  del  quale  il  pro- 
blema del  latifondo  è  un  esponente  tipico,  era  il  più  grave  della  no- 
stra politica  intema.  Dopo  la  guerra  esso  torna  a  divenir  tale  :  deve 
tornar  tale  perchè  esso  è  il  problema  della  unificazione  e  della  giusta 
equiparazione  di  quelle  due  Italie  che  nell'ora  del  pericolo  furono 
così  magnificamente  ed  eroicamente  unite. 

Per  l'Italia,  salvata  dalla  loro  unione,  è  ora  debito  di  onore  ricor- 
darsi di  quella  parte  di  essa,  che,  condizioni  naturali,  vicende  sto- 
riche, negligenza  ed  ingiustizia  di  uomini,  fecero  meno  fortunata 
ma  non  meno  degna  di  amore  di  considerazione  e  di  rispetto  del- 
l'altra. E  l'Università,  che  fece  anch'essa  così  nobilmente  il  suo  do- 
vere in  questa  guerra,  e  che  ora  non  può,  né  deve  appartarsi  dalla 
grande  vita  della  nazione,  è  bene  dica  il  suo  parere  su  questo  diffìcile 
problema,  alla  cui  soluzione  i  suol  tecnici,  i  suoi  ingegneri,  i  suoi 
agronomi,  i  suoi  economisti  e  giuristi,  possono  portare  un  prezioso 
contributo,  seppur  non  avvenga  che  le  loro  parole  si  sperdano,  come 
tante  altre  volte,  inascoltate  al  vento. 

Ho  detto  due  Italie.  La  frase  non  è  mia,  ma  del  senatore  Giustino 
Fortunato,  i  cui  discorsi  sul  problema  meridionale  al  Parlamento  ita- 
liano, sono  uno  dei  più  alti  monumenti  di  sapienza  politica  che  vanti 
il  nostro  Paese. 

Due  Italie,  scrive  l'onorevole  Fortunato,  separate  quasi  netta- 
mente dal  Tronto  e  dal  Liri,  in  due  parti,  per  ogni  rispetto  assai  di- 
verse e  tenute  divise  per  lunghi  secoli  da  vicende  storiche  oppo- 
ste. L'una,  la  meridionale,  naturalmente  assai  ix>vera,  ma  che  gli 
uomini  si  ostinavano  a  ritenere  naturalmente  assai  ricca,  isolata  nel 
Mediterraneo  che  da  lungo  tempo  non  era  più  il  centro  della  civiltà. 
L'altra,  assai  più  favorita  dalla  ratura,  e  gravitante  \er5o  i  nuov 
centri  della  civiltà  europea  e  mondiale.  L'una  prevalentemente  agri 
cola,  e  retta  quasi  sempre  a  monarchia,  associata  ad  uno  dei  più  esosi 
sistemi  feudali;  l'altra,  retta  quasi  sempre  a  comuni  o  a  principat 
che  dal  feudalismo  si  aiTrancarono  presto.  Due  Italie  che  s'eran  for- 
mate due  anime  diverse  e  che  la  fortunata  epopea  del  nostro  Risor- 
gimento era  riuscita  a  Ulcerare  ed  unificare  politicamente,'  ma  non 
economicamente  né  socialmente.  Due  Italie  che  bisogna  ora  portare 


368'  LA  THASFORMAZIO^L  DLL  LAiliU.NDU  L\  blCU.l A 

fX>ssibilniente  allo  stesso  livello,  perchè  la  debolezza  e  le  iriiserie  del- 
l'una, sono  la  debolezza  e  le  miserie  dell'altra,  dell'Italia  cioè  e  con- 
siderata nel  suo  complesso.  E  a  seconda  che  il  livellamento  avverrà 
verso  l'alto  o  verso  il  basso,  il  Mezzogiorno  sarà,  come  conchiudeva 
l'on.  Fortunato,  la  fortuna  o  la  sciagura  d'Italia. 

Il  problema  meridionale  varia  da  regione  a  regione,  ma,  mentre 
le  regioni  continentali  difficilmente  si  potrebbero  considerare  indi- 
pendentemente l'una  dall'altra,  questo  si  può  fare  della  Sicilia  che 
compendia  in  sé  i  principali  aspetti  del  Mezzogiorno  continentale  e<l 
ha  caratteristiche  sue  proprie. 

Bella,  come  una  perla  sorgente  dal  mare,  la  Sicilia  è  un  ponte 
naturale  fra  l'Italia  e  l'Africa,  ed  uno  scalo  fra  i  due  bacini  :  l'orien- 
tale e  l'oc-cidentale  del  Mediterraneo  che  essa  divide  a  metà.  Teatro 
per  questo  delle  più  antiche  lotte  tra  l'elemento  europeo  ariano  e  l'e- 
lemento semitico  africano  o  asiatico,  terminate  colla  vittoria  del 
primo  sul  secondo.  Essa  conobbe  tutte  le  civiltà,  e  ne  serba  traccie 
nelle  antichissime  tombe  sicane  e  sicule,  nei  meravigliosi  templi  di 
Selinunte,  di  Segesta,  di  Girgenti,  di  Siracusa,  nelle  chiese  e  nei  pa- 
lazzi arabo-normanni. 

Per  lungo  tempo  fu  il  centro  della  vita  mediterranea  finché,  dopo 
la  morte  del  grande  Federico  e  la  cacciata  degli  Angioini,  sembrò 
cadere  in  sonno  profondo,  e  in  una  servitù  secolare,  dalla  quale, 
come  già  Timoleone,  salpando  da  Corinto,  la  liberava  il  ligure  eroe, 
salpando  da  Quarto  coi  suoi  Mille  per  ricongiungerla  all'Italia. 

Non  v'è  una  Sicilia  compatta  e  armonica,  come  non  v'è  un  Mezzo- 
giorno continentale  compatto  e  armonico,  ma  quasi  due  mondi  la  com- 
pongono profondamiente  diversi  e  antagonistici  che  paradossalmente 
cx)esistono,  dando  luogo  a  due  diverse  civiltà  che  s'incrociano,  si  ur- 
tano, si  sovrappongono  senza  confondersi  mai,  come  non  si  confusero 
totalmente  mai  le  varie  genti  che  la  popolarono  nei  secoli.  I  due  mondi 
corrispondono  quasi  esattamente  alla  regione  delle  coste  e  alla  regione 
dell'interno. 

Anticamente  tutte  le  coste  si  trovavano  in  una  situazione  privile- 
giata, e  questo  si  poteva  specialmente  dire  della  costa  meridionale, 
dove  sorgevano  grandi  e  famose  città,  delle  quali  non  rimangono  più 
ora  che  maestose  rovine;  e  con  esse  scomparvero  i  giardini  profumati, 
i  fiorenti  campi  di  grano,  di  viti  e  di  olivi  che  le  circondavano. 

Adfesso  la  zona  privilegiata  è  limitata  alla  costa  trapanese  e  alle 
due  coste  tirrenica  e  ionica,  con  le  brevi  e  basse  vallate  che  in  esso 
slx>cx;ano  ed  è  pari  ad  un  diadema  di  bellezza  che  ricinga  la  fronte 
dell'isola.  Qui  regna  l'eterna  primavera.  Qui,  nel  cielo  quasi  sempre 
turchino,  spicca  il  verde  perenne  delle  esperidi,  dalle  frutta  d'oro  e 
dal  bianco  fiore  di  zagara  che  spande  lontano  il  suo  odore  inebriante. 
Qui  le  foglie  cangianti  dell'olivo  tremolano  alla  brezza  del  mare, 
siepi  di  fichi  d'India  e  di  agave  americane  che  fioriscono  una  sol 
volti!  e  muoiono,  dividono  i  campi  e  le  culture.  File  di  rossi  gerani  in 
fiore,  e  nmc-chie  di  ginestre  accompagnano  per  chilometri  e  chilo- 
metri il  viaggiatore.  Qui,  pur  nel  cuor  dell'inverno,  quando  le  neb- 
bie, il  freddo,  le  nevi,  il  gelo  aduggiano  il  settentrione,  le  contadine 
lavorano  in  manica  di  camicia  e  il  loro  canto  si  mesce  al  sussurar  del 
mare  vicino.  Qui  la  campagna,  intensamente  ed  amorevolmente  col- 
Hv'ata,  nutre  una  popolazione  densissima,  che  nel  triangolo  Catania. 


E  IL    PROBLEMA   MERIDIONALE  359 

Acireale,  Nicolosi,  sulle  pendici  meridionali  dell'Etna,  raggiunge  la 
favolosa  cifra  di  milleduecento  abitanti  per  chilometro  quadrato. 
Qui  prosperano  le  migliori  industrie  e  le  maggiori  case  commerciali 
dell'isola.  Qui,  all'apparenza  almeno,  nulla  di  anormale,  ma  solo  la 
apparenza,  giacché  questo  splendido  mondo,  ove  si  muove  e  vive  una 
società  complicata,  raffinata  e  fastosa,  si  trova  pur  esso  sotto  il  triste 
influsso  dell'interno,  di  quell'interno  così  vicino,  così  a  portata  di 
mano,  ma  che  pur  sembra  tanto  lontano,  perchè  tanto  diverso,  tra- 
mandato a  noi  quasi  intatto  traverso  i  secoli,  per  chi  sa  quale  .mi- 
sterioso e  sinistro  sortilegio. 

Cos'è  quest'interno?  Non  è  facile  descriverlo,  perchè  anch'esso  è 
ricco  di  contrasti,  pieno  di  luci  e  d'ombre,  ed  ha  le  sue  zone  privile- 
giate accanto  ad  altre  ben  più  vaste  e  numerose  ove  hanno  radice 
tutti  i  mali  suoi  e  dell'Isola.  Immaginate  un  immenso  e  complicato 
viluppo  di  montagne,  che  staccandosi  dalla  dorsale  tirennica,  le  cui 
più  alte  vette  rasentano  i  duemila  metri,  vadano  man  mano  digra- 
dando verso  il  mare  africano  o  verso  Io  Ionio,  girando  a  mezzogiorno 
l'immane  cono  \ulcanico  dell'Etna  che  supera,  sovrano  e  solo,  di 
milletrecento  metri  i  più  alti  monti  siciliani.  Fra  tale  viluppo  si 
aprono  le  valli,  che  si  storcono,  si  allargano  o  si  restringono  dando 
luogo  a  brevi  piajiure  o  a  gole  paurose;  e  fra  l'una  e  l'cdtra  si  sten- 
dono gli  altipiani,  tormentati  da  infinite  colline  o  da  ardite  punte  iso- 
late che  ricordano  le  Ambe  africane.  Nude  le  cime  dei  monti,  tranne 
che  nelle  lontane  Madonie  ©  nelle  Caronie;  rarissimi  i  boschi  e  quasi 
nascosti  in  remfoti  angoli;  dappertutto  campi  di  grano  a  cultura  esten- 
siva alternati  con  vasti  pascoli  naturali. 

L'occhio  spazia  per  chilomestri  e  chilometri  senza  incontrare  nes- 
suna casa,  nessun  albero,  solo  qualche  arbusto  selvaggio.  A  grandi 
distanze  nelle  campagne  sorgono  i  casamenti  dei  feudi  circondati  da 
qualche  capanna  di  paglia  o  da  pochi  alberi  e  somigliano  ad  oasi  nel 
deserto.  Tutt'intorno  è  silenzio  profondo,  rotto  talvolta  dal  trillo  dei 
rari  uccelli,  dall'abbaiar  dei  cani,  dal  raglio  doloroso  degli  asini,  o 
dal  vociar  roco  dei  contadini  incitanti  sé  e  le  bestie  al  lavoro,  il  capo 
ravvolto  da  un  rosso  fazzoletto  per  ripararsi  dal  sole  e  dal  vento. 

Mancano  o  sono  rarissime  le  strade  di  campagna  carreggiabili. 
Dalle  poche  strade  nazionali  o  provinciali,  si  passa  alle  rozze  traz- 
zere  che  una  volta  dovevano  avere  una  larghezza  di  37  metri,  per 
consentire  il  pascolo  alle  greggi  trasumanti,  ma  che  per  le  continue 
usurpazioni,  furono  ridotte  a  pochi  metri  e  non  sono  più  carreggia- 
bili. I  trasporti  si  fanno  perciò  a  soma,  e  lunghe  file  di  muli,  legati 
otto  per  otto,  uno  dietro  all'altro,  le  così  dette  «  retine  »,  si  vedono 
dopo  la  mietitura  traversare  le  campagne,  scortati  da  pittoreschi  cam- 
pieri a  cavallo,  formidabilmente  armati. 

Poche  le  acque  e  sregolato  il  loro  corso.  Solo  di  tanto  in  tanto 
sincontrano  degli  abbeveratoi,  l'acqua  dei  quali  non  è  spesse  volte 
be\ibile  dall'uomo,  perchè  salmastra  e  solforosa.  Scarsissime  le  piog- 
gie  e  limitate  quasi  esclusivamente  ai  mesi  d'inverno.  I  fiumi,  che 
d'inverno  hanno  carattere  torrentizio  e  che  d'estate  sono  quasi  asciutti, 
si  passano  a  guado.  E  lungo  di  essi  o  delle  loro  derivazioni,  o  presso 
alla  spiaggia  del  mare,  si  trovano  delle  morte  gore,  soggiorno  prefe- 
rito delle  zanzarre  anofeli,  che  diisseminano  dovunque  la  malaria: 
e  contadini  malarici  si  vedono  ogni  tanto  sdraiati  al  sole,  ravvolti 


360  LA  THASFORMAZIONE  DEL  LATIFONDO  IN  SICILIA 

nella  raantarra  per  ripararsi  da  «  lu  friddu  »,  dai  brividi  cioè  ctic 
dà  la  febbre. 

Nel  centro  di  questa  zona  e  verso  il  mare,  vi  sono  le  zolfare,  le 
quali  occupano  talvolta  interi  valloni,  e  che,  uccidendo  intomo  a  sé 
per  le  esalazioni  dell'anidride,  ogni  vita  vegetale,  coi  neri  e  rossi  de- 
triti vomitati  dalle  bocche  di  scarico,  il  bagliore  delle  fornaci,  il  fu- 
nrigar  l>as&o  e  crepitante  dei  calcaroni,  lo  strepito  delle  macchine 
e  l'affannaitìi  «dei  carusi  dall'emaciato  aspetto,  danno  l'idea  d'un 
triste  inferno.  Puro  anche  questa  zona  ha  la  sua  particolare  e  pro- 
tonda poesia,  paragonabile  in  un  certo  senso  a  quella  delle  alpi 
remote,  nelle  quali  l'uomo  si  sente  quasi  abbandonato  e  lasciato  solo 
di  fronte  alla  natura,  solo  coll'universo  stellato,  e  cogli  sterminati 
orizzonti  sui  quali  incombe  immobile  il  sole. 

Il  carattere  del  paesaggio  si  riflette  nel  carattere  dell'uomo  che 
questa  terra  ama  di  appassionato  amore;  che  è  taciturno  e  fiero,  sen- 
sibile e  paziente,  sobrio  e  tenace,  più  pronto  ai  fatti  che  alle  parole, 
sì  nel  bene  che  nel  male.  Medita  a  lungo  una  vendetta  e  la  compie 
con  fredda  ferocia,  ma  è  fedele  all'amico  fino  alla  morte  ed  al  sacri- 
fìcio. * 

Deserto,  dicevo,  ma  solo  in  apparenza,  perchè  pur  nella  provin- 
cia di  Caltanissetta,  che  è  la  meno  abitata  dell'iiola,  la  densità  della 
popolazione  supera,  e  di  molto,  quella  della  nostra  provincia  di 
Siena,  raggiungendo  la  cifra  di  104  abitanti  per  chilometro  quadrato. 
Gli  è  che,  sebbene  molto  estensivamente  coltivata,  la  terra  di  Sicilia 
non  ha  quasi  un  palmo  di  superfìcie  che  non  sia  utilizzato,  sia  pur 
solamente  come  pascolo. 

Ma  questa  densa  popolazione,  non  riesce  a  togliere  al  paesaggio 
la  sua  impressione  di  abbandono,  perchè  essa  non  abita  nelle  campa- 
gne, in  quelle  case  coloniche  formanti  centro  a  un  podere  che  danno 
al  paesaggio  toscano  umbro  e  miarchigiano  tanto  vago  aspetto,  ma 
vive  strettamente  addensata  nei  rari  e  grossi  paesi,  ove  le  case  si  ad- 
dossano alle  case,  senza  intervallo,  senza  respiro,  con  poche  piazze 
e  solo,  per  eccezione,  un  giardinetto  pubblico.  E  quali  case!  La  mag- 
gioranza di  esse,  appartenente  alla  classe  più  numerosa  dell'Isola, 
cioè  al  giornalieri  agricoli,  non  è  il  più  delle  volte  composta  che  da 
un  solo  ed  unico  vano,  dove  vivono  i  vecchi,  gli  sposi,  i  bambini,  e, 
dentro  alla  comune  dimora,  non  in  stalle,  ma  a  contatto  quasi  delle 
persone,  l'asino,  talvolta  il  maiale,  e  le  galline.  Condizioni  orribili 
che  non  avrei  mai  potuto  immaginare,  se  tante  volte  non  le  avessi 
vedute  io  stesso,  e  fotografate. 

Migliori  sono  le  case  dei  «  burgisi  »  ossia  di  quei  contadini  che 
posseggono  qualche  palmo  di  terreno,  ed  uno  o  due  muli  e  possono, 
I>er  conseguenza,  prendere  in  affìtto  un  appezzamento  da  otto  a  dieci 
ettari.  La  lor  casa  comprende,  oltre  la  stalla,  almeno  due  locali  d'a- 
bitazione, ond'è  attenuata  un  poco  l'orribile  promiscuità.  La  quale  è 
tanto  dolorosamente  sentita  dai  siciliani,  che,  appena  il  contadino 
può,  è  alla  casa  che  destina  i  sudati  risparmi  e  i  vicini  si  mostrano* 
con  invidia  le  bianche  e  linde  casette  dèi  cosidetti  «  americani  », 
cioè  delle  famiglie  degli  emigranti,  che  le  modeste  donne  siciliane 
sanno  tenere  con  ordine  tanto  civettuolo. 

Or  questi  paesi,  che  sono  grossi  come  città,  ed  hanno  una  media 
di  10,000  abitanti,  quasi  tutti  contadini  e  tutti  residenti  nel  centro, 


E   IL   PROBLEMA   MERIDIONALE  361 

si  trovano  a  grande  distanza  l'uno  dall'altro  e  quasi  sempre  sorgono 
sulla  vetta  difficilmente  accessibile  d'un  monte  o  in  alto  a  una  col- 
lina, in  posizione  facilmente  difendibile.  È,  questa,  una  forma  anti- 
chissima di  colonizzazione,  propria  a  tutti  i  paesi  meridionali,  ma 
che  in  Sicilia  è  più  accentuata  che  altrove,  e  dove  già  i  primd  abita- 
tori la  adottarono,  come  gli  Elimi  sul  monte  Erico,  l'odierno  monte 
San  Giuliano,  che  appare  lontano  ai  naviganti;  come  un  faro,  o  come 
i  Sicanti  ad  Entella,  e  i  Siculi  ad  Enna,  l'odierno  Gastrogiovanni,  © 
in  moltissimi  altri  posti. 

Ampi  orizzonti  si  godono  di  lassù  ed  aria  purissima;  ma  la  via 
ai  latifondi  è  lunga  e  faticosa.  In  lunghe  file  partono  i  contadini 
avanti  l'alba,  cacciando  innan2d  a  sé  l'asinelio  e  il  mulo  carichi  del- 
l'aratro e  degli  altri  attrezzi  da  lavoro,  e  percorrono,  una,  due,  sin 
tre  ore  di  strada,  che  la  sera  rifanno  in  senso  inverso,  lasciando 
a  casa  le  donne  e  i  bambini. 

Ma  al  tempo  della  mietitura,  o  dei  lunghi  lavori  d'aratura,  stanno 
fuori  anche  intere  settimane  e  durante  la  mietitura  portano  seco  an- 
che le  donne  e  i  bambini.  In  campagna,  poiché  non  v'é  posto  per 
loro  nei  casamenti  del  feudo,  ove  é  provveduto  per  gli  animali  ma 
non  per  gli  uomini,  dormono  in  rozze  Capanne  di  paglia,  o  addirit- 
tura a  cielo  aperto,  riparandosi  dalle  intemperie  (del  resto  reirissime 
in  estate)  col  mantello  o  colla  famosa  incerata^  ma  nessun  riparo  tro- 
vando contro  l'insidiosa  zanzara  malarica. 

Terminata  a  fine  di  giugno  la  mietitura,  cessa  per  tre  o  quattro 
mesi  ogni  lavoro  nei  feudi;  il  terreno  prende  un  triste  colore,  giallo 
per  le  ristoppie,  nero  pei  maggesi,  e  grigio  per  il  pascolo  bruciato 
dal  sole;  ed  ogni  vegetazione  è  sospesa.  I  giornalieri  devono  cercar 
lavoro  altrove,  nella  zona  a  coltura  intensiva,  o  alberata,  chiamata 
fondo  censito,  o  chiese,  o  luoghi,  che  si  trova  dovunque,  attorno  ai 
paesi,  dove  più  dove  meno  ampia,  e  rompe  la  desolazione  del  pae- 
saggio. Gosicchè,  a  chi  contemplasse  l'interno  della  Sicilia,  dall'alto 
di  un  monte,  esso  gli  apparirebbe,  secondo  la  bella  imagine  del  Ga- 
mareri-Scurti,  come  un  vasto  mare  dal  quale  qui  e  lì,  emergano  delle 
isole  più  o  meno  grandi,  rappresentate  dai  paesi  e  dalle  loro  imme- 
diate vicinanze,  coltivate  a  viti,  olivi,  mandorli,  pistacchi  o  agrumi, 
il  tutto  frammisto  a  cultura  granaria,  con  fave  da  granella  concimate. 

A  volte  il  mare  sembra  ritirarsi,  le  oasi  s'ingrandiscono  e  nuove 
isole  emergono  :  sono  i  periodi  di  civiltà  e  di  ricchezza,  a  volte  il 
mare  s'innalza,  le  oasi  si  restringono,  le  isole  appena  sorte  si  sommer- 
gono :  sono  i  periodi  di  decadenza  e  di  miseria.  E  in  questo  duello  fra 
il  gran  mare  del  latifondo  e  le  oasi  della  cultura  intensiva,  sta  tutto 
il  dramma  dell'interno  dell'isola,  e  si  può  dire  di  tutta  la  Sicilia. 

Il  contrasto  cioè,  che  abbiamo  notato  fra  la  zona  delle  coste  e  l'in- 
terno, si  ripete  nell'interno  fra  la  zona  circostante  ai  paesi  e  l'ampia 
distesa  del  latifondo  :  contrasto  formidabile  di  uomini  e  di  cose,  che 
solo  lentamente  potrà  venir  modificato,  col  modificarsi  delle  forze 
dalle  quali  deriva,  e  col  sapiente  intervento,  nel  corso  delle  stesse, 
degli  uomini,  delle  classi  interessate  e  dello  Stato. 

Sul  latifondo  in  Sicilia,  l'inchiesta  del  1910  potè  portare  ele- 
menti nuovi,  sia  quantitativi  che  qualitativi  che  qui  rapidamente 
riassumerò,  rimandando  il  lettore  per  maggiori  particolari  alla  mia 

r 

24  VoL  OCXVI,   serie  VI  —  16  febbiraio  1922. 


302  l-V  TRASFORMAZIONE  DEL  LATIFONDO  LN  SICILIA 

Relazione  ove  ho  anche  spieg^ato  il  metodo  che  seguii  per  quell'inda- 
gine (1). 

Risultò  da  essa  anzitutto  che  i  latifondi  dell'estensione  di  200  et- 
tari e  più  (giacché  dei  latifondi  minori  non  si  potè  per  ragioni  tecni- 
che tener  conto),  erano  in  numero  di  1400,  occupanti  una  superficie  di 
717,729  ettari,  pari  al  30  per  cento  della  superficie  catastale  totale 
dell'Isola.  Essi  appartenevano  a  787  proprietari,  dei  quali  614  ne  pos- 
sedevano circa  la  metà,  ossia  335,031  ettari;  mentre  173  proprietari 
possedevano  il  rimanente,  ossia  382,098  ettari.  In  altre  parole,  sopra 
una  popolazione  totale  di  più  che  3  milioni  e  mezzo  ^di  abitanti, 
787  individui  possedevano  un  terzo  dell'Isola  e  173  più' di  un  sesto 
della  stessa. 

Che,  se  invece  dell'Isola  intera,  noi  teniamo  conto  soltanto  della 
zona  intema  e  in  questa  anche  dei  latifondi  inferiori  ai  200  ettari,  le 
proporzioni  si  invertono  e  circa  due  terzi  del  tenitorio  risulta  occu- 
pato dal  latifondo,  un  terzo  dal  fondo  censito  e  dai  fabbricati  dei 
paesi.  La  proporzione  del  latifondo  in  certi  comuni,  arriva  fino  ai 
quattro  quinti  del  territorio.  Proprietaria  dei  latifondi  è  in  massima 
parte  l'aristocrazia  di  antica  data  o  di  nuova  formazione,  del  tempo 
cioè  in  cui  si  poteva  acquistare  un  titolo  nobiliare  comperando  il 
fondo  sul  quale  esso  era  radicato.  Proprietari  del  fondo  censito  sono 
invece,  in  massima  parte,  la  borghesia  e  i  contadini,  cosicché  il  con- 
trasto fra  le  due  zone  è  anche  di  classi  e  di  mentalità  diverse.  Con- 
formemente alla  loro  origine  feudale  i  latifondi  vengono  chiamati 
dal  popolo  feudi  e  i  loro  proprietarii,  baroni,  anche  se  non  lo  siano. 

L'estensione  media  dei  1400  latifondi,  di  cui  rilevammo  i  dati, 
era  di  512  ettari.  Il  concetto  di  latifondo  non  è  però  un  concetto  geo- 
metrico di  unità  estesa  appartenente  ad  un  solo  proprietario.  Vi  sono 
anche  nell'interno  della  Sicilia,  sebbene  rare,  vaste  tenute  coltivate 
a  viti,  olivi  e  mandorli  che  nessuno  considera  come  latifondi.  Come 
vi  sono  dei  latifondi  che  appartengono  a  più  proprietari,  prò  indi- 
viso, perché  non  v'é  tornaconto  a  ridurre  la  superfìcie  del  latifondo 
al  di  là  di  un  certo  limite. 

Caratteristiche  fondamentali  del  latifondo  sono  invece  il  predo- 
minare della  cultura  estensiva  a  cereali  e  pascoli,  e  l'unità  ammini- 
strativa. Chi  sia  stato  una  volta  in  Sicilia,  non  s'inganna  del  resto 
certamente  a  giudicare  se  una  tenuta  sia  latifondo  o  no.  Esso  si  pre- 
senta come  un'ampia  distesa  di  terra  unita,  per  lo  più  ondulata  o 
collinosa,  priva  di  siepi  e  di  alberi,  con  radi  cespugli  e  assai  somma- 
riamente trattata.  Nel  mezzo  od  in  altro  posto  conN'eniente  è  costruita 
la  masseria  che  può  bastare  anche  a  due  o  tre  latifondi  assieme. 

La  masseria  è  un  complesso  di  edifici  formanti  quadrato  o  ret- 
tangolo chiuso,  con  un  cortile  nel  mezzo.  Il  lato  principale  è  occu- 
pato dall'edificio  padronale:  i  rimanenti  dai  magazzini,  dalle  stalle, 
dalle  abitazioni  degli  impiegati  stabili.  A  volte  vi  è  una  chiesetta  o 
una  cappella.  Le  finestre  si  aprono  preferibilmente  sul  cortile  in- 
temo come  quelle  di  una  fortezza,  e  da  fortezze,  spesse  volte,  le  mas- 
serie servirono.  Attorno  al  casamento  si  trova,  ma  di  rado,  un  breve 
tratto  coltivato  a  mandorlo  o  a  viti  o  a  ortaggi  :  il  cosidetto  «  girato  », 

(1)  Vedi  Atti  della  Giunta  Parlainenturo  d'inchiesta  sulle  condizioni  dei 
contadini  nel  Mezzogiorno  e  nella  Sicilia.  Volume  VI:  Sicilia.  Relazione  del 
Delegato  tecnico  (tomo  1»  e  2»).  Roma,  Bertero,  1910. 


E   IL    PROBLEMA    MERIDIONALE  363 

e  vicine  sorgono  le  rozze  CcLpanne  di  paglia  degli  operai  avventizi.  Solo 
le  cavalcature  e  le  bestie  da  lavoro  trovano  riparo  nelle  stalle;  le  grosse 
mandre  vengon  tenute  a  sistema  brado.  I  latifondi  si  susseguono  e 
si  toccano  l'un  l'altro,  sì  da  formare  all'occhio  una  massa  compatta 
ed  uniforme.  Più  latifondi  contigui,  appartenenti  a  un  solo  proprie- 
tario, formano  uno  stato  :  denominazione  anche  questa  di  origine 
feudale  come  lo  estate  degli  Inglesi. 

Ma  i  moderni  proprietari,  diversamente  dagli  antichi  signori 
feudali,  e  dai  moderni  sqvires  inglesi,  non  soggiornano  più  in  quei 
loro  ex-feudi,  neanche  per  brevi  periodi  dell'anno.  Tutt'al  più  vi 
fanno  delle  rapide  apparizioni,  scortati  dai  loro  campieri,  a  cavallo, 
ed  accolti,  un  po'. come  ai  tempi  feudali,  dag^li  omaggi  dei  loro  dd- 
pendenti  e  vicini.  Il  rimanente  dell'anno  lo  passano  nelle  ricche  città 
della  costa,  del  continente,  o  all'estero.  Sono,  come  si  dice,  degli 
assenteisti.  Ed  Eugenio  Anzimonti,  ha  perfettamente  ragione,  quando 
scrive  che  se  i  latifondisti  impiegassero  nei  loro  terreni  il  danaro  che 
stoltamente  disperdono  al  gioco  o  nella  frivola  vita  delle  grandi  città 
e  risiedessero  almeno  per  qualche  mese  nelle  loro  campagne,  un 
gran  passo  sulla  via  della  trasformazione  intensiva  e  civile  del  lati- 
fondo sarebbe  compiuto. 

Così,  invece  del  proprietario,  è  il  gabellotto  o  affittuario  che  di- 
rige l'azienda;  e  poiché  il  terreno  non  è  suo  e  l'affitto  non  dura  mai 
più  di  6  anni,  egli  non  ha  nessun  interesse  a  introdur  miglioramenti 
che  frutterebbero  solo  a  lunga  scadenza,  ma  cerca  di  ricavarne  su- 
bito il  miglior  reddito  sfruttando  la  terra  e  gli  uomini  che  la  lavo- 
rano. Ed  anch'egli  è  assai  di  sovente  assenteista.  Vi  sono  infatti  due 
tipi  di  gabellotti.  Il  primo,  che  va  diventando  sempre  più  raro,  è 
quello  dell'affittuario  imprenditore  che  tiene  l'agenda  in  conto  pro- 
prio, e  la  fa  coltivare  dai  suoi  garzoni  stabili  o  da  avventizi,  presi 
da  paesà  vicini.  Il  secondo,  che  è  il  tipo  predominante,  è  quello  del 
gabellotto  intermediario,  la  cui  funzione  è  quasi  esclusivamente  am- 
ministrativa. Egli  subaffitta  cioè,  o  dà  a  partecipazione,  tutto  o  la  più 
gran  parte  del  terreno,  riservandosi  tutt'al  più  i  lavori  del  maggese 
o  l'industria  armentizia  sulla  parte  del  fondo  destinato  a  pascolo. 

I  patti  agrari  che  si  usano  nei  latifondi,  variano  secondo  i  sistemi 
di  rotazione.  Il  tipo  predominante  di  rotazione  è  quello  a  terzeria, 
cioè  un  terzo  a  grano,  un  terzo  a  pascolo,  un  terzo  a  maggese  :  l'an- 
tico sistema  virgiliano  del  novale.  Più  recente  è  ìa  rotazione  quin- 
quennale che  richiede  maggior  impiego  di  animali  e  di  concime. 
Nella  rotazione  triennale,  il  terreno  destinato  a  ricevere  il  grano, 
viene  dato  anno  per  anno  ai  contadini  che  lo  seminano.  Io  coltivano, 
e  lo  mietono,  sia  verso  un  compenso  fìsso,  per  lo  più  in  natura,  nel 
qual  caso  si  chiama  sistema  a  terratico  o  verso  una  quota  parte  del 
prodotto,  nel  qual  caso  si  chiama  contratto  a  metateria^  vocabolo  si- 
mile a  mezzadria,  ma  che  non  ha  con  questa  nulla  a  che  fare. 

II  contenuto  effettivo  dei  contratti,  specialmente  prima  che  l'e- 
migrazione sfollasse  un  po'  il  mercato  del  lavoro,  era  assai  oneroso 
per  il  contadino,  sul  quale  i  gabellotti  e  i  loro  agenti  non  si  vergo- 
i^navano  di  accumulare  angherie  e  soprusi  d'ogni  genere. 

Il  terzo  del  fondo  destinato  a  pascolo  è  coperto  dalle  mandre  del 
abellotto,  se  questi  conduca  egli  stesso  un'iTidustria  armentizia,  ma 
lù  di  frequente  viene  affittato  ad  altri,  specialmente  a  società  di  pa- 
tori. 


364  LA  TRASFORMAZIONE  DEL  LATIFONDO  IN  SIQLIA 

I  lavori  del  maggese  sono  fatti  di  solito  dal  gabellotto  con  gli  ani- 
mali suoi  propri,  oppure  vengon  dati  a  eseguire  ai  contadini  con  i 
loro  animali,  nel  qual  caso  l'affitto  è  biennale.  Non  sempre  il  conta- 
dino possiede  dlue  muli;  e  allora  egli  si  associa  a  un  compagno,  op- 
pure aggioga  un  mailo  e  un  asino  o  un  asino  e  una  vacca,  e  questa 
strana  coppia  trascina  un  aratro  ancor  oggi  in  nulla  dissimile  dal- 
l'aratro di  Trittolemo,  quale  vediamo  riprodotto  sulle  antiche  monete 
greche  dell'Isola,  l'aratro-chiodo  cioè,  che  scalfisce  il  terreno  a  20  o  25 
centimetri,  ma  non  vi  penetra. 

Come,  con  tali  sistemi,  e  con  impiego  addirittura  minimo  o 
nullo  di  ricostituenti,  il  suolo,  dopo  tanti  e  tanti  secoli,  non  abbia 
sensibilmente  perduto  della  sua  capacità  produttiva,  che  pare  sia 
sempre  oscillata  fra  le  sette  o  le  otto  sementi,  è  un  mistero;  ma  un 
mistero  che  dà  bene  a  sperane  se  avvenga,  e  nessuna  ragione  essen- 
ziale vi  si  oppone,  che  si  applichino  alla  coltura  siciliana  i  moderni 
sistemi  scientifici  dell'arido-coltr  \  della  quale  abbiamo  in  Italia 
autorevoli  e  competentissimi  inte^i,/eti,  come  il  compianto  professor 
Ulpiani,  il  prof.  Jovino  ed  altri. 

Ma  il  miaggese  non  si  fa  sempre  con  gli  animali.  A  volte  il  ter- 
reno che  succede  al  pascolo  vien  dato  ai  contadini  che  lo  rompono 
con  varie  zappature,  poi  lo  seminano  con  grano  d'inverno,  e  dopo  la 
mietitura  lo  zappano  di  nuovo,  varie  volte,  per  seminarlo  la  prima- 
vera seguente  con  grano  estivo,  la  cosidetta  timinia.  Ed  è  il  sistema 
più  estenuante  tanto  del  terreno  che  di  chi  lo  lavora. 

Nella  rotazione  quadriennale  e  quinquennale,  che  è  la  meno  dif- 
fusa, lo  stesso  appezzamento  di  terreno  vien  dato  in  affitto  o  in  par- 
tecipazione ai  contadini  per  uno  o  due  anni,  talvolta  anche  per  l'in- 
tero ciclo  produttivo.  I  contadini  che  assumono  questo  contratto, 
devono  disporre  di  un  certo  capitale  e  di  uno  o  due  animali  almeno, 
e  stanno  nella  scala  sociale  un  gradino  o  due  più  in  su  dei  giorna- 
lieri, dai  quali  si  distinguono  anche  nel  vestire  e  nel  tenor  di  vita,  e 
son  chiamati  «  burgisi  ». 

Importanza  quasi  uguale  alla  cerealicultura,  aveva  un  tempo 
l'industria  armentizia,  che  della  prima  rimane  sempre  il  comple- 
mento necessario,  per  quanto,  ora,  non  abbia  più  l'estensione  di  una 
volta,  e  sia  specialmente  diminuito  il  numero  dei  bovini. 

Essa  accennava  tuttavia  da  ultimo  a  rifiorire,  ma  è  insidiata  gra- 
vemente da  uno  del  peggiori  flagelli  sociali  dell'Isola:  dalVabigeato, 
ossia  dal  furto  di  animali  che  porta  con  sé  un  doloroso  strascico  di 
omicidi,  di  vendette,  di  ricatti. 

L'abigeato  è  strettamente  connesso  col  sistema  dominante  del- 
l'industria armentizia  che  è  transumante  e  brada,  coll'esistenza  della 
mafia,  e  con  l'abito  mentale  della  popolazione  poco  di^X)sta  ad  aiu- 
tare la  forza  pubblica  nella  scoperta  e  nella  repressione  del  reato, 
più  proclive  a  farsi  giustizia  da  sé,  o  a  trovare  un  accomodamento 
anche  oneroso,  coi  malandrini,  i  quali  intessono  la  loro  tela  in  tutte 
le  parti  e  fra  tutte  le  classi  dell'Isola. 

Le  mandre,* composte  promiscuamente  di  pecore,  bovini  ed 
equini,  trasmigrano,  secondo  le  stagioni,  dalla  montagna  alla  mez- 
zalina,  alla  marina  e  viceversa,  custodite  da  pochi  pastori.  Durante 
la  notte  qualcuno  si  avvicina,  immobilizza  i  guardiani  o  ne  compera 
l'acquiescenza,  e  si  porta  via  un  certo  numero  di  animali  che  di  giorno 
nasconde  nelle  grotte  o  mescola  ad  altre  mandre  di  pastori  compia- 


E  IL    PROBLEMA   MERIDIONALE  365 

centi  e  cointeressati.  Poi,  o  manda  al  proprietario  una  letterina  con 
cui  l'avverte,  che,  deponendo  in  un  certo  posto  una  somma  tale,  egli 
IDotrebbe,  dopo  un  certo  tempo,  ricuperare  i  suoi  animali,  oppure  li 
vende  addirittura  in  città  lontane,  dopo  averne  alterato  il  contras- 
segno. 

E  questo  trafl&co,  nel  quale  eccelle  la  mafia,  è  cosi  sapientemente 
organizzato,  che  il  Governo,  per  quanti  sforzi  abbia  fatto  e  quanti 
sistemi  abbia  escogitato,  non  è  mai  riuscito,  non  dico  a  reprimere, 
ma  neanche  a  diminuire.  Anzi,  negli  ultimi  anni  si  nota  in  esso  un 
doloroso  rincrudimento. 

Questo  è  l'ordinamento  essenziale  e  tradizionale  tuttora  in  vigore 
nel  latifondo  siciliano,  questo  l'ambiente  che  ne  spiega  la  perma- 
nenza traverso  i  secoli.  Esso  subì  delle  modificazioni  nel  passato  e 
ancor  più  ne  subisce  ora,  sia  quantitative  c"he  qualitative.  Perpetua 
fu  l'oscillazione  fra  esso  e  il  fondo  censito  :  ma,  se  questo  guadagnava 
terreno  sul  primo,  in  periodi  di  prosperità  e  di  accrescimento  della 
popolazione,  quello  si  rivaleva  estendendo  il  suo  dominio  ai  boschi 
e  modificando  con  ciò  a  suo  favore  il  regime  delle  acque  e  del  clima, 
perchè  ove  è  siccità,  più  difficile  diventa  l'allargarsi  della  piccola  pro- 
prietà e  della  cultura  intensiva.  Ma,  anche  nella  struttura  intema 
del  latifondo,  andava  negli  ultimi  anni  disegnandosi  un  promettente 
risveglio,  nel  senso  di  un  progressivo  avviamento  a  una  cultura  più 
intensiva  e  più  razionale. 

Tanto  dei  mutamenti  quantitativi  che  qualitativi,  furono  causa 
od  occasione,  provvedimenti  legislativi  o,  ben  più  efficaci  di  questi, 
fattori  naturali  e  sociali,  quali  l'accrescimento  della  popolazione,  l'e- 
migrazione, l'evoluzione  dello  strumento  tecnico  e  la  lenta  ma  sicura 
trasformazione  degli  spiriti  da  una  mentalità  feudale  a  una  più  mo- 
derna. 

I  provvedimenti  legislativi  principali,  furon  quelli  che  ordina- 
rono la  quotazione  dei  demani  comunali  e  la  censucizione  dei  beni 
ecclesiastici.  Entrambi  miravano  allo  scopo  di  restringere  il  latifondo 
e  di  allargare  la  piccola  proprietà  facendone  partecipi  i  non  abbienti. 
Ma  è  doloroso  dover  confessare  che  tanto  il  Governo  borbonico, 
quanto  il  Governo  nazionale,  non  riuscirono  nellintento.  Essi  furono 
meno  fortunati  o  meno  abili  di  quei  baroni  feudali,  che  colle  colo- 
nizzazioni dei  secoli  decimosettimo  e  decimottavo,  erano  riusciti  a 
fondare  delle  piccole  borgate  attorno  ai  loro  castelli,  concedendo  in 
enfiteusi  ai  contadini  alcuni  terreni  contigxii.  I  governi  successi  al 
regime  feudale  perdettero  cioè  un'occasione  magnifica  di  creare  una 
classe  di  piccoli  proprietari  lavoratori,  che  sarebbe  stata  garanzia  di 
ordine,  di  sicurezza  e  di  prosperità  all'Isola. 

I  beni  demaniali,  che  per  rappresentare  il  corrispettivo  dei  diritti 
d'uso,  goduti  dai  cittadini  sui  demani  feudali,  sarebbero  dovuti  pas- 
sare ai  cittadini  stessi,  e  specialmente  ai  non  possidenti,  e  fra  questi 
specialmente  ai  più  poveri,  come  giustamente  voleva  la  legge,  ven- 
nero in  realtà  accaparrati,  nella  grande  maggioranza,  dai  ricchi,  con 
frodi,  violenze  e  minacce.  Le  quote  più  lontane  finirono  per  ingros- 
sare gli  ex-feudi,  le  più  vicine  divennero  presto  o  tardi  proprietà  dei 
piccoli  signorotti  di  paese. 

Uguale  sorte  toccò  alla  censuazione  dei  beni  ecclesiastici  voluta 
(riprendendo  un'antica  idea  dei  re  aragonesi)  da  Giuseppe  Garibaldi 
nel  1860,  e  poi  confermata  con  legge  dello  Stato  italiano  nel  1862. 


36H  LA  TRASFORMAZIONE  DEL  LATIFONDO  IN  SIGILLA 

Anche  qui  si  ebbe  lo  stesso  lagrimevole  risultato.  I  contadini  furono 
tenuti  lontani  dalle  aste  con  minacce  o  violenze,  o  con  l'agitar  loro 
dinanzi  lo  spettro  della  scoiminica,  oppur,  partecipando  alle  aste,  fu- 
rono eliminati  daira^giudiicazione  con  mille  sotterfugi  e  camorre,  o, 
giunti,  malgrado  tutto,  in  possesso  dei  terreni,  furon  obbligati  ad  ab- 
bandonarli ben  presto,  sia  perchè  mancavano  di  capitali,  o  perchè  li 
dovevano  pagare  troppo  cari  agli  usurai  che  li  spiavano  al  varco. 

Il  Governo  vedeva  e  taceva.  Esso  era  divenuto  schiavo  della 
nuova  borghesia  parlamentare,  come  l'antico  lo  era  stato  dell'aristo- 
crazia. La  sua  scelta  fra  una  massa  priva  di  organizzazione  e  di  voto, 
ignorante  ed  analfabeta,  da  secoli  spregiata  e  \'11ipesa  qual'era  quella 
dei  giornalieri  e  dei  contadini,  antichi  servi  della  gleba,  e  la  nuova 
borghesia,  che  sola  mandava  deputati  alla  Camera  e  che  poteva  col 
suo  voto  compatto  decidere  della  vita  dei  Gabinetti,  la  scelta,  dico, 
non  poteva  purtroppo  essere  dubbia.  Perchè  fosse  stato  altrimenti, 
sarebbe  bisognato  che  lo  Stato  avesse  fin  da  principio  avuto  un  ca- 
rattere, una  volontà  e  una  finalità  ben  diverse. 

Ma  la  vittoria  non  fu  allegra  per  i  vincitori,  giacché  la  lotta  si 
ripetè  nel  seno  stesso  della  borghesia,  la  quale  si  contendeva  la  preda, 
da  famiglia  a  famiglia,  da  clientela  a  clientela,  da  partito  a  partito, 
avvelenando  tutta  la  vita  sociale  dei  comuni,  destando  sospetti,  su- 
scitando calunnie,  alimentando  odii  e  vendette  senza  fine,  onde  giu- 
stamente il  senatore  Giustino  Fortunato  osserv^ava  che  questa  dei 
demani  comunali  fu  la  vera  tragedia  intima  del  Mezzogiorno. 

Pur  tuttavia,  qualche  bene  fecero  tanto  le  quotizzazioni  che  le 
censucizioni,  giacché,  liberando  molti  terreni  dagli  usi  promiscui  e 
facilitandone  il  passaggio  a  chi  in  ogni  modo  li  sapeva  meglio  sfrut- 
tare, giovò  indubbiamente  alla  produzione,  senza  tacere  che  qualche 
briciola  di  essi  andò  pure,  e  rimase,  ai  coltivatori  diretti. 

Altri  avvenimenti  intanto  maturavano.  La  popoleizione  cresceva. 
Fra  il  1871  e  il  1881  l'accrescimento  fu  del  13  per  mille,  nel  decennio 
susseguente  fu  dell'U  per  mille,  cioè  sensibilmente  superiore  alla 
media  del  Regno.  L'avevano  reso  possibile  il  dissodamento  dei  boschi 
(che  però  fu  come  un  ammazzar  la  gallina  per  aver  l'uovo),  la  ridu- 
zione dei  pascoli  e  l'aumentata  domanda  dei  prodotti  delle  vigne, 
degli  agrumeti  e  degli  uliveti  siciliani,  che  presero  perciò  rapido  svi- 
luppo e  richiamarono  molta  mano  d'opera  dall'interno. 

Ma  improvvise  e  tremende  crisi,  che  colpirono  uno  dopo  l'altro 
quei  prodotti,  troncarono  la  subitanea  prosperità.  Le  coste  e  le  zone 
a  cultura  intensiva  non  poterono  piìi  assorbire  l'usuale  contingente 
di  lavoratori  dall'interno.  La  popolazione  fu  vicina  a  superare  il  li- 
mite delle  sussistenze,  e  i  salari  divennero  spaventosamente  ed  inu- 
manamente bassi.  Scoppiarono  i  primi  tumulti,  si  formarono  i  fasci, 
la  rivolta  divampò  fra  il  1893  e  il  1895  e  il  brigantaggio  rivisse  in  più 
trista  forma. 

Fu  questo  il  momento  più  tragico  della  moderna  storia  di  Sicilia. 
Francesco  Crispi,  che  era  allora  al  potere,  propose  un  disegno  di 
legge  per  il  frazionamento  del  latifondo,  che  però  non  venne  mai  vo- 
tato, il  che  non  fu  male,  per  i  molti  e  gravi  difetti  e  lo  sbagliato  in- 
dirizzo che  rispecchiava,  mésso  così  bene  in  luce  dal  nostro  compianto 
Valenti. 

Un  commissario  speciale  veniva  mandato  nell'Isola  che  poco  a 
poco  si  chetava,  non  perchè  domala,  bensì  perchè  una  valvola  prov- 


E  IL    PROBLEMA    MERIDIONALE  367 

videnziale  le  si  era  improvvisamente  dischiusa  nell'emigrazione,  ctie 
fu  il  fatto  sociale  più  importante  per  il  Mezzogiorno  nel  ventennio 
pi*ec€dente  alla  guerra. 

Debole  dapprima,  l'emigrazione  andò  rapidamente  aumentando 
e  in  certi  momenti  parve  divenuta  quasi  una  frenesìa.  Dalle  coste  e 
dairintemo,  dalle  città  e  da  ogni  più  remoto  angolo  della  Sicilia, 
si  videro  scendere  i  contadini,  prima  isolati,  poi  a  frotte,  e  traversare 
l'Oceano,  lasciando  la  terra  cosi  ardentemente  amata,  ma  che  non 
aveva  più  posto  per  loro.  Si  videro  affrontare  tutte  le  ingiustizie,  tutti 
i  tormenti,  tutte  le  infamie  che  si  abbattevano,  allora  si>ecialmente, 
sui  nostri  emigranti,  figli  d'una  terra  che  una  volta  aveva  pur  man- 
dato per  il  mondo  dominatori  e  conquistatori,  non  esecutori  di  opere 
servili.  Seppero  andar  incontro  alle  paurose  incognite  di  paesi  lon- 
tani, che  essi  non  conoscevano,  i  cui  abitanti  parlavano  una  lingua 
ad  essi  incomprensibile  e  dai  quali  venivano  palesemente  considerati 
come  e^eri  inferiori. 

E  seppero  vivere,  laggiù,  nelle  grandi  città  americane,  adattan- 
dosi ad  ogni  più  umile  mestiere,  o,  maneggiatori  impareggiabili  della 
zappa  e  del  badile,  costruirono  canali  e  strade.  Vivevano  con  nulla, 
dormivano  ammassati  in  orribili  locali  :  nessun  sacrifìcio  sembrava 
loro  soverchio,  se  avesse  giovato  a  diminuire  la  miseria  delle  fami- 
glie rimaste  a  casa,  se  avesse  loro  permesso  di  tornare  nell'Isola,  non 
vinti,  ma  vincitori.  Il  loro  numero  andava  sempre  crescendo.  Nel 
1906  superava  i  centomila.  * 

Or  sapete  quanto  denaro  questa  oscura,  laboriosa,  sobria  e  su- 
blime gente  seppe  inviare  in  Sicilia?  Vi  dirò  una  cifra  sola:  quella 
per  il  1907,  l'ultima  che  potei  accertare  con  una  minuta  inchiesta 
presso  gli  uflBci  postali  dell'Isola  ;  centosette  rmlioni  di  lire.  E  questa 
cifra  non  solo  non  è  esagerata,  ma  ho  motivo  di  ritenerla  un  poco 
inferiore  al  vero,  perchè  non  tutte  le  rimesse  si  poterono  con  suffi- 
ciente esattezza  calcolare,  e  nel  dubbio  si  preferì  la  cifra  più  bassa. 

Sopraggiunta  la  crisi  americana  del  1907  e  del  1908,  l'emigra- 
zione subì  una  stasi,  poi  riprese  nel  1911,  nel  12  e  nel  '13,  nel  quale 
anno  superò  tutte  le  cifre  precedenti  con  146,000  emigranti,  pari  al 
40  per  mille  della  popolazione  totale. 

Or  cosa  abbia  significato  per  la  Sicilia  e'per  tutto  il  Mezzogiorno 
l'emigrazione  non  può  facilmente  imaginare,  chi  non  ne  abbia  visto 
con  i  suoi  occhi  gli  effetti.  Essa  fu  come  una  catapulta,  ritmicamente 
maneggiata  da  una  massa  silenziosa  che  lentamente,  ma  sicuramente, 
demoliva  l'antico  mondo  feudale  per  instaurare  il  nuovo  mondo 
moderno. 

Primi  a  sentirne  gli  effetti,  furono  i  nuovi  signori  feud€ili,  i  cap- 
peddi  o  galantuomini,  i  piccoli  proprietari  civili  cioè,  delle  città  di 
provincia,  che  nel  loro  paese  erano  abituati  a  fare  il  nuvolo  e  il  se- 
reno, cianciando  di  politica,  mentre  sotto  il  solleone  il  contadino, 
legato  da  patti  angarici,  lavorava  per  loro. 

QueWj  orna  taro,  che  pochi  anni  prima  essi  erano  abituati  a  veder 
implorare  a  gran  mercè  un  poco  di  lavoro  per  15  soldi  al  giorno,  e  un 
po'  di  pane,  si  presentava  ora  a  chiedere  se  non  avessero  per  a^"ven- 
tura  da  vendergli  per  danaro  sonante,  qualche  pezzo  dei  loro  terreni. 
E  molti  vendettero  infatti  :  dovettero  vendere  perchè  il  cresciuto  li- 
vello dei  salari  concedeva  ormai  troppo  meschino -margine  di  rendita. 


3t>8  LA  TRASFORMAZIONE  DEL  LATIFONDO  IN  SICILIA 

In  tal  modo  in  pochi  anni  passò  in  proprietà  dei  contadini,  per 
loro  merito  esclusivo,  e  in  grazia  ai  duri  sacrifìci  fatti,  molto  più 
terra  che  non  avessero  potuto  conseguire  in  due  secoli  di  quotizza 
zioni  e  censuazioni  statali. 

Ma  se,  coi  denari  d'America,  i  contadini  potevano  acquistare  ter- 
reni dai  proprietari  borghesi  del  fondo  censito,  o  rosicchiare  un  po' 
del  grande  osso  del  latifondo  vicino  ai  j>aesi,  non  potevano  intaccarne 
la  grande  massa,  compito  di  troppo  superiore  alle  forze -«isolate  del 
singolo.  Pensarono  allora  di  unirsi  in  cooperative  per  eliminare  il 
gabellotto  intermediario  e  prendere  essi  stessi  in  affitto  diretto  i  lati- 
fondi. Sorsero  così  le  prime  affittanze  collettive,  la  mag"gior  parte  a 
conduzione  divisa,  che  ebbero  ed  hanno  oltre  che  un  rilevante  valore 
economico,  un  inestimabile  valore  educativo.  Poche,  ancora,  quasi 
una  goccia  d'olio  sulla  superfice  del  latifondo,  sono,  come  la  goccia 
d'olio,  destinate  ad  allargarsi.  Ma  anche  i  latifondi  e  gli  affittuari  o, 
quanto  meno,  i  migliori  fra  essi,  non  subirono  del  tutto  passiva- 
mente la  nuova  situazione,  ma  cercarono  di  riparare  all'aumentato 
costo  di  produzione,  col  perfezionare  i  metodi  di  cultura. 

Da  una  ricerca  analitica  compiuta  dallo  scrivente  nel  1909  a 
complemento  della  precedente,  su  539  latifondi  distribuiti  nelle 
varie  parti  dell'Isola,  risultò  che  quasi  il  20  per  cento  dei  pro- 
prietari ck\  affittuari,  stavano  trasformando  l'ordinamento  dei  loro 
latifondi  in  senso  relativamente  intensivo,  mig-liorando  le  rotazioni, 
col  sostituire  al  maggese  vuoto  il  maggese  di  sulla  o  di  altre  le- 
guminose da  foraggio,  introducendo  una  stabulazione  almeno  par- 
ziale, aumentando  le  scorte  vive,  costruendo  case  coloniche,  adot- 
tando aratri  e  trebbiatrici  moderni,  e  abbandonando  al  pascolo  i  ter- 
reni d;i  cui  era  stata  possibile  la  cultura  a  grano  solo  in  regime  di 
bassi  salari:  sostituendo,  insomma,  a  un  diminuito  impiego  di  forza 
di  lavoro,  diventata  troppo  cara,  una  maggior  quota  di  capitale. 

Ma  quante  volte  dovettero  questi  animosi  arresiarsi  o  desistere 
dall'impresa  \y&T  i  tremendi  ostiicoli  che  incontravano:  mancanza  di 
strade,  regime  funesto  o  deficienza  di  acque,  malaria,  malandrinag- 
gio, abigeato,  mafia,  ionUinanza  dei  centri  abitati,  e  scarsezza  di 
buoni  elementi  tecnici  e  direttivi  e,  assai  spesso,  difficoltà  di  pro- 
curarsi mano  d'opera  sufficiente.  C'era  davvero  di  che  scoraggiare  i 
pili  arditi. 

L'inchiesta  agraria,  allora  in  corso,  mise  in  luce  questi  ed  altri 
fatti:  mostrò  cosa  fosse  xeramente  il  problema  del  latifondo;  e 
come  fosse  indissolubilmente  connesso  con  tutto  il  probltM!i<i  meri- 
dionale, e  di  quali  difficoltà  esso  fosse  perciò  materiato. 

Non  leggi  speciali  essa  chiedeva,  ma  che  le  leggi  esistenti  fos- 
sero osservate,  che  fossero  in  primo  luogo  restaurate  l'autorità  e  la 
moralità  dello  Stato,  servo  troppe  volte  delle  clientele  locali,  per  basso 
interesse  parlamentare,  e  complice  perciò  esso  stesso  della  mafia, 
che  col  gioco  di  quelle  clientele  è  strettamemle  connessa. 

Mostrò,  che,  se  il  Governo  nazionale  aveva  fatto  in  pochi  decenni 
più  (li  quello  che  il  borbonico  non  avesse  compiuto  in  secoli,  ciò  non 
era  tuttavia  ancora  abbastanza?  e  che  bisognava  sopratutto  distri- 
buire più  equametne  le  imposte  e  le  spese  fra  le  varie  regioni  d'Italia. 
Deplorò  che  specialmente  la  erogazione  delle  somme  votate  per  le 
bonifiche,  per  i  rimboschimenti,  i  bacini  montani,  i  porti,  le  strade, 
.si  svolgesse  fiaccamente,  senza  un  piano  organico,  e  con  personale 


E  IL    PROBLEMA    MERIDIONALE  3t>9 

non  abbastanza  scelto,  talvolta,  anzi,  inviato  in  Sicilia  quasi  in  pu- 
nizione. 

Mostrò  l'urgenza  di  provvedere  alla  scuola  tanto  elementare  che 
professionale,  diventate  insufficienti,  ora  che  i  contadini  vi  manda- 
vano volonterosamente  i  loro  figli,  per  i  quali  non  vi  era  sempre  po- 
sto, perchè  le  scuole  erano  state  costruite  solamente  per  una  mino- 
ranza di  benestanti;  e  in  molti  comuni  versavano  in  condizioni  igie- 
niche on-ibili. 

Mostrò  la  necessità  d'intensificare  l'opera  del  risanamento  fisico, 
combattendo  la  malaria  e  il  tracoma,  riformando  i  regolamenti  igie- 
nici, provvedendo  agli  ospedali,  alle  fognature  e  alle  acque  potabili; 
e  di  affrettare  la  più  difficile  azione  del  risanamento  morale,  resti- 
tuendo alle  popolazioni  la  fiducia  nell'autorità  della  legge  e  dello 
Stato,  senza  la  quale  la  mafia  e  l'omertà  continueranno  a  durare  ed 
imperversare  senza  fine. 

Né  l'inchiesta  si  nascondeva,  che  per  attuare  questo  programma 
pur  elementare  e  minimo,  non  sarebbe  bastata  la  buona  volontà  degli 
Enti  locali,  ma  che  sarebbero  occorsi  ingenti  capitali.  E  l'Italia  di  al- 
lora sembrava  sulla  via  di  accumularli.  E  li  avrebbe  accumulati  se 
avesse  potuto  continuare  in  una  politica  di  pace,  di  raccoglimento, 
di  lavoro. 

Senonchè  le  nazioni  non  sono  libere  di  scegliere  la  loro  ora.  Per 
esse  non  vi  è  riposo  a  scadenza  fissa.  Se  non  vogliono  essere  sopraf- 
fatte o  prevenute  dalle  più  forti,  debbono  lasciare  il  porto,  dove  vo- 
lentieri avrebbero  ancora  indugiato,  e  debbono  riprendere  a  navi- 
gare verso  l'ignoto,  per  la  grandezza  e  per  la  gloria. 

L'ora  d'Italia  suonò  meno  di  due  anni  dopo  compiuta  l'inchiesta 
agraria;  ma  la  guerra  di  Libia  non  doveva  essere  che  il  preludio  di 
un'altra  più  formidabile  guerra,  nella  quale  l'Italia  entrò  per  ricupe- 
rare i  suoi  figU  irredenti,  per  conquistarsi  più  largo  respiro  sulle  Alpi 
e  sul  mare,  per  assicurare  la  sua  libertà  e  la  sua  indipendenza.  Tutta 
la  sua  vita  nazionale  fu  concentrata  in  quelli  anni  nello  sforzo  tre- 
mendo; ma  l'Italia  vinse.  Vinse  con  la  collaborazione  di  tutto  il  suo 
popolo  e  di  tutte  le  sue  regioni,  ora  veramente  unite  nel  vermiglio 
cemento  del  sangue.  Che,  se  i  frutti  della  vittoria  le  furono  contra- 
stati o  lesinati,  uno  non  le  potrà  mai  essere  contrastato  :  la  gloria  di 
aver  superato  sé  stessa. 

Tornano  ora  gli  antichi  problemi,  e  la  loro  soluzione  si  prospetta 
diversa  da  quella  che  sarebbe  stata  prima  della  guerra  perchè  son 
cambiati  gli  uomini,  si  sono  mescolate  le  classi  sociali,  furono  in- 
vertiti o  sovvertiti  molti  valori;  e,  'mentre  ancora  ignoriamo  di  quale 
portata  siano  questi  mutamenti,  una  cosa  appare  spietatamente  certa, 
cioè  che  l'enorme  distruzione  di  ricchezza  renderà  assai  più  difficile 
di  prima  la  soluzione  di  quei  problemi  che  richiedano  grande  impiego 
di  capitali,  fra  i  quali  è  indubbamiente  il  problema  del  latifondo,  e 
in  genere  il  problema  meridionale.  Ad  una  parziale  soluzione  di  que- 
sto, tuttavia,  la  guerra  ha  portato  un  contributo  non  ancora  sufficien- 
temente avvertito  dai  più. 

È  avvenuto  cioè,  entro  le  classi  agrarie,  uno  spostamento  di  for- 
tune, che  deteminò  uno  spostamento  di  proprietà  a  favore  degli  affit- 
tuari grandi  e  piccoli,  nel  pagamento  dei  canoni  e  l'aumento  dei 
prezzi  nella  vendita  dei  prodotti. 


370  LA  TRASFORMAZIONE  DEL  LATIFONDO  IN  SIOLIA 

In  seguito  a  questo  fenomeno,  ««  molti  latifondi  »,  come  mi  scrive 
l'illustre  amico  prof.  Riccobono,  dell'Università  di  Palermo,  «  e  in 
«  misura  assai  maggiore  che  non  fosse  mai  avvenuto,  cambiaron  di 
«  roceaite  dominio,  passando  dall'aristocrazia  e  borghesia  cittadine 
«  ai  contadini,  ai  gabellotti,  alla  borghesia  di  campagna,  divisi  in  lotti 
«  da  10  a  20  ettari  o  da  50  e  100  e  al  prezzo  da  7  o  -8000  lire  l'ettaro. 
«  Paralellamente  rialzano  i  salari  agricoli,  che  raggiungono  conmne- 
«  mente  il  livello  di  15  lire.  I  contadini  hanno  danaro  a  bizzeffe  e  lo 
«  offrono  a  manciate,  per  avere  la  terra  ».  E  la  cosa  mi  viene  confer- 
mata anche  da  altre  parti. 

Vuol  dir,  tutto  ciò,  che  l'ultima  ora  del  latifondo  sia  suonata  e 
che  il  problema  siciliano  sia  risolto? 

Ahimè,  no  :  queste  stesse  nuove  proprietà  dei  contadini  potranno 
convertirsi  in  passivo,  se  le  condizioni  generali  non  vengano  radical- 
mente migliorate.  La  piccola  proprietà  ha  bisogno,  per  prosperare, 
di  un  ambiente  civile,  il  quale  non  manca  solamente  nel  cuore  del 
latifondo,  ma  anche  nella  zomi  intermedia  fra  questo  e  il  fondo  cen- 
sito, e  nella  quale  i  contadini  hanno  fatto  i  nuovi  acquisti. 

Inoltre  non  bisogna  dimenticare  che  la  grande  maggioranza  dei 
giornalieri,  i  quali  formano  i  cinque  settimi  della  popolazione  agra- 
ria dell'Isola,  non  dispone  dei  mezzi  che  permisero  ai  contadini  be- 
nestanti, ossia  ai  «  burgisi  »,  di  comperarsi  terreni  a  prezzi  elevati 
sempiie,  ma  lalvoita  favolosi. 

La  grande  massa  dei  giornalieri  non  può  concedersi  questo  lusso, 
e  la  sua  fame  di  terra  rimarrà  insoddisfatta.  Meno  ancora  è  possibile 
imaginare  che  tutta  la  Sicilia  possa  venire  divisa  in  piccole  proprietà. 
Il  latifondo  non  è  un  portato  capriccioso  degli  uomini,  ma  una  ne- 
cessità economica  dipendente  da  complicate  condizioni  naturali  e  so- 
ciali, che  solo  parzialmente  e  lentamente,  e  con  molta  fatica  e  di- 
spendio si  possono  mutare.  Per  lungo  tempo  il  latifondo  rimarrà  una 
unità  culturale  indivisibile.  Esso  può  però  venir  trasformato  nel  suo 
intimo  e  già  ne  vedemmo  gli  indizi,  e  nulla  vieta  che  di  questa  tra- 
sformlazione  si  facciano  esecutrici  anche  le  affittanze  collettive  dei 
contadini  nelle  quali  i  socialisti  vedono,  con  soverchio  ottimismo  o 
dottrinai'ismo,  le  uniche  eredi  degli  attuali  proprietari  e  gabellotti. 

Noi  pensiamo,  invece,  che  in  regime  di  civile  concorrenza  vi  sia 
utilmente  posto  per  gli  uni  e  per  le  altre,  pur  augurandoci  che  le  coo- 
perative, questa  nobilissima  ma  diflBcilissima  fra  tutte  le  forme  d'im- 
presa, perchè  più  delle  altre  richiede  autolimitazione  e  disciplina 
dei  componenti,  guadagnino  terreno  e  si  estendano  sempre  di  più. 

Ma,  si  trovino  i  latifondi  nelle  mani  dei  proprietari,  o  dei  gabel- 
lotti, o  delle  cooperative,  l'ambiente  agricolo  e  sociale,  che  ne  deter- 
mina l'ordinamento,  rimane  quello  che  è,  e  se  non  verrà  modificato, 
i  latifondi  non  potranno  né  trasformarsi,  né  migliorarsi,  e  le  nuove 
piccole  proprietà  dovranno  fallire. 

Cosa  vorrebbe  ciò  dire  per  l'Isola',  non  è  chi  non  veda,  tenendo 
specialmente  presente  che  l'antica  valvola  di  sicurezza  dell'emi.Era- 
zione  verso  gli  Stati  Uniti  d'America,  ha  ormai  carattere  molto  pre- 
cario. Né  può  un  popolo  che  si  rispetta,  fondare  il  suo  av\-enire  sulle 
vicende  dell'emigrazione  della  sua  mano  d'opera.  Il  canmiino  dell'e- 
migrante non  è  una  marcia  da  conquistatori,  ma  un  duro  e  doloroso 
Calvario  per  tutti.  Avanti,  dunque!  Si  dia  virilmente  opera  alla  rico- 
stituzione nazionale  ed  al  risorgimento  del  Mezzogiorno.  E  si  faccia 


E  IL    PROBLEMA   MERIDIONALE  371 

questo  coU'applicazione  delle  leggi  antiche  o  con  leggi  nuove,  pur- 
ché si  faccia. 

Fra  i  progetti  di  legge  nuovi,  uno  ve  n'è  che  meriterebbe  qui  at- 
tento esame.  Alludo  al  progetto  Falcioni-Micheli,  per  la  trasfonna- 
zione  del  latifondo  e  la  concessione  di  terre  ai  contadini.  Esso  prevede 
la  espropriazione  per  ragioni  di  pubblica  utilità  la  concessione  ob- 
bligatoria in  enfiteusi  o  in  godimento  temporaneo  a  favore  di  conta- 
dini isolati,  o  riuniti  in  cooperative,  di  terreni  estensivamente  colti- 
vati, purché  il  proprietario  non  s'impegni  di  intraprenderne  subito 
egli  stesso  la  bonificazione  e  purché  superino  l'estensione  di  300  et- 
tari, se  entro  un  raggio  di  10  chilometri  dall'abitato,  oppure  di  100  et- 
tari, se  entro  un  raggio  di  5  chilometri. 

Organo  principale  della  riforma  dovrebbe  essere  un  Istituto 
nazionale  per  la  colonizzazione  intema,  il  quale  verrebbe  finanziato 
dagli  istituti  di  emissione,  da  altri  stabilimenti  pubblici. 

Esso  dovrebbe  provvedere,  non  soltanto  alla  quotizzazione  e  alle 
concessioni  in  godimento  temporaneo  dei  terreni,  ma  altresì  al  loro 
bonificamento.  E  quest'azione  dovrebbe,  a  seconda  dei  casi,  prece- 
dere la  prima,  o  svolgersi  parallelamente. 

Per  quanto  io  non  sappia  superare  quell'invincibile  senso  di  dif- 
fidenza che  è  quasi  connaturato  in  ogni  economista  contro  ogni  ten- 
tativo che  presuma  di  risolvere  con  alcuni  articoli  di  legge  le  più 
complicate  situazioni  economiche  e  sociali,  diffidenza  che  le  tristi 
prove  fatte  durante  la  guerra  dal  funzionamento  degli  organismi 
statali,  hanno  solamente  accresciuto,  non  vorrei  tuttavia  coildannare 
senz'altro  questo  progetto,  che  assecondando  tendenze  già  rigogliose 
e  gagliarde,  potrebbe  accelerarne  il  ritmo.  Penso  anzi  che  con  qual- 
che modificazione,  del  genere  di  quelle  che  il  prof.  Serpieri  dell'Isti- 
tuto Superiore  Forestale,  acutamente  suggerì,  potrebbe  venire  accolto. 

Ma  non  facciamoci,  per  carità,  illusioni  sulla  sua  portata  ne  sulle 
difficoltà  di  trovare  i  fondi  necessari.  Non  dimentichiamo,  soprat- 
tutto, che  il  problema  del  latifondo  non  è  se  non  una  parte  del  for- 
midabile problema  meridionale  che  è  insieme  problema  tecnico  ed 
economico,  morale  e  politico. 

Anche  senza  leggi  speciali,  il  latifondo  si  trasformerebbe,  e  la 
piccola  proprietà  si  estenderebbe,  se  si  creassero  condizioni  di  am- 
biente favorevoli  all'intensificazione  e  alla  industrializzazione  del 
primo,  alla  permanenza  e  alla  prosperità  della  seconda  :  come  senza 
queste  condizioni  le  migliori  leggi  speciali  naufragherebbero.  Ma  per 
creare  queste  condizioni  che  .rappresentano  il  minimo  necessario  bi- 
sogna che  almeno  almeno  venga  attuato  quel  programma  minimo  che 
l'inchiesta  del  1910  aveva  già  indicato.  Senonchè  tale  attuazione  si 
presenta  ora  assai  più  difficile  che  prima  della  guerra,  sia  per  la  molta 
ricchezza  andata  i)erduta,  sia  perchè  non  il  solo  Mezzogiorno,  ma 
tutta  Italia  si  trovano  in  una  situazione  anormale. 

Il  problema  del  Mezzogiorno,  in  una  parola,  é  divenuto  parte  di 
un  problema  più  vasto  e  più  alto  :  quello  della  ricostruzione  e  della 
salvezza  d'Italia:  d'un'Italia  fatta  più  grande  dalla  guerra  e  dalla 
vittoria,  posta  perciò  dinanzi  a  possibilità  ma  anche  a  difficoltà  nuove, 
che  solo  dal  concorde  volere  della  Nazione  potranno  essere  superate. 

L'Italia  poteva  prima  della  guerra  guarire  sé  stessa  guarendo  il 
Mezzogiorno;  ora  non  può  guarire  il  Mezzogiorno  se  non  guarendo 
sé  stessa.  Giovanni  Lorenzoni. 


PIO  XI  E  LA  NUOVA  SITUAZIONE  POLITICA  DEL  PAPATO 


Il  gesto  col  quale  Pio  XI  ha  benedetto  dal  loggiato  esterno  di 
S.  Pietro  il  popolo  di  Roma  è  stato  certo  un  gesto  rivelatore:  non 
nel  senso  che  a  molti  è  sembrato  di  costituirne  l'interpretazione  im- 
mediata, nel  senso  cioè  ohe  quella  benedizione  rivelasse  un  papa  ita- 
lianissimo,  un  papa  nel  cui  convincimento  il  contrasto  fra  Chiesa  e 
Stato  italiano  sia  ormai  risolto:  ma  in  un  senso  più  ampio,  e  se  non 
per  l'Italia  per  la  Chiesa  più  decjisivo.  Quella  iDenedizione  ha  mo- 
strato un  uomo  che  non  esita  a  spezzare  una  tradizione,  a  passar 
sopra  al  precedente  dei  tre  papi  succedutisi  sulla  cattedra  di  S.  Pietro 
dopo  il  '70. 

Chi  non  abbia  presenti  le  linee  direttive  secondo  cui  si  svolge 
tutta  la>  vita  ecclesiastica,  ed  in  particolarissimo  modo  la  vita  che 
pulsa  nel  cuore  della  cattolicità,  negli  organi  direttivi  della  Chiesa 
universale,  non  può  intuire  quale  sia  nel  mondo  chiesastico  la  forza 
della  tradizione,  quella  delle  stesse  forme  di  consuetudine  da  cui 
esula  ogni  contenuto  spirituale.  Il  precedente,  la  prassi  sono  barriere 
insuperabili,  guide  di  acciaio  che  contengono  la  violenza  delle  in- 
doli più  accese,  che  raffrenano  le  manifestazioni  degl'ingegni  più 
vivi.  Le  maggiori  autorità  ecclesiastiche,  la  stessa  suprema  autorità 
pontifìcia,  sono  costrette,  incatenate  da  questa  forza  della  tradizione, 
dalla  timidezza  di  fronte  ad  ogni  novità,  specialmente  quando  po- 
trebbe rappresentare  un  passo  nel  vuoto.  -Ma  anche  i  non  credenti, 
osservando  la  storia  della  Chiesa,  devono  credere  se  non  ad  un  suo 
fato  provvidenziale,  ad  una  meravigliosa  legge  interiore  di  conser- 
vazione. Nelle  ore  decisive,  la  cerchia  della  tradizione  si  rilascia, 
fresche  energie  foggiano  istituti  nuovi,  adatti  ai  nuovi  bisogni.  All'in- 
domani di  ogni  periodo  in  cui  gli  spiriti  più  scaltri  e  chiaroveggenti 
hanno  guardato  alla  Chiesa  come  ad  una  moritura,  incapace  di  poter 
mutare,  di  adattarsi  ai  nuovi  temipi,  la  Chiesa  inizia  una  rifioritura 
miracolosa  di  giovinezza,  lascia  cadere  a  terra  i  rami  morti,  esprime 
dal  tronco  millenario  nuovi  virgulti,  mostra  una  linfa  vitale. 

L'ottocento  è  stato  uno  di  quéi  secoli  in  cui  la  Chiesa  è  sem'brata 
ai  più  un  organismo  ormai  appartenente  al  passato:  la  fede  cieca 
nella  scienza,  nella  scienza  che  avrebbe  dovuto  strappare  ogni  se- 
greto al  Cielo,  rendere  vano  il  nome  di  mistero,  annullare  quel  campo 
dell'inconoscibile  in  cui  ogni  religione  getta  le  sue  radici  profonde, 
contribuiva  per  molto  a  far  considerare  la  Ohiesa  una  moritura.  Ma 
l'ottocento  fu  certo  per  la  Chiesa  —  tolto  che  negli  ultimissimi  anni 
—  secolo  di  letargo,  secolo  in  cui  la  forza  bruta  della  tradizione, 


PIO  XI  E  LA  NUOVA  SITUAZIONE  POLITICA  DEL  PAPATO  'ój'ò^ 

raltaccamento  al  passato,  parv^ero  tutto  schiacciare.  La  grande  crisi 
europea  del  secondo  decennio  del  secolo  che  corre  ha  rapidamealie 
compiuto  il  risveglio,  il  miracoloso  ringiovanimento  della  Chiesa: 
come  all'inizio  del  secolo  xra,  allorché  tutta  la  Casa  di  Cristo  sem- 
brava pericolante,  la  Chiesa  pare  d'un  tratto  richiamata  alla  coscienza 
dei  suoi  doveri  e  delle  sue  possibilità. 

Il  primo  gesto  di  Pio  XI  sembra  mostrai^  ch'essa  ha  trovato  il 
pastore  capace  di  guidarla  in  quelli  che  saranno  certo  anni  di  atti- 
vità giovanile,  forse  anni  di  vittoria. 

• 
•  •  • 

Più  ancora  che  quel  gesto,  affida  la  conferma  del  cardinale  Gsl- 
sparri  al  posto  di  segretario  di  Stato. 

11  segretario  di  Stato  di  Benedetto  XV  ha  certo  benemerenze 
grandi  verso  l'Italia  :  ne  vanta  delle  mag-giori  verso  la  Chiesa  :  non 
ha  avuto  paura  di  battere  vie  nuove. 

L'opera  di  codificazione  del  diritto  della  Chiesa,  prima  che  da 
Pio  X,  da  altri  papi  era  stata  voluta:  altre  volte  era  stata  iniziata 
attuata  condotta  in  porto:  all'ultimo  momento  era  mancato  il  co- 
raggio di  promulgare  il  codice,  che  doveva  fatalmente  o  riaffermape 
pretese  della  Chiesa  contraddette  dai  governi  e  dalla  opinione  pub- 
blica, o  sia  pure  implicitamente  sancire  la  rinuncia  a  quelle  pretese. 
Se  Benedetto  XV  osò,  non  è  ardito  supporre  che  sul  suo  «  vt^lio  » 
molto  potè  il  consiglio  del  segretario  di  Stato  che  della  codificazione 
era  stato  il  massimo  artefice. 

La  diplomazia  tradizionale  della  Chiesa  doveva  mascherare,  na- 
scondere ogni  scacco  :  nessun  passo,  nessun  tentativo  era  mai  attuato 
in  modo  formale,  reso  noto  al  pubblico,  se  non  ne  fosse  assicurato  il 
successo  :  a  prescindere  dai  Libri  bianchi  pubblicati  a  guerra  aperta, 
le  sconfìtte  della  diplomazia  pontificia  non  erano  acquisite  alla  storia 
se  non  attraverso  le  indiscrezioni.  Era  questa  una  rigorosa  linea  di 
condotta,  e  nessuna  ragione  di  umanità  o  di  pietà,  come  nessun  amore 
del  bel  gesto,  potevano  farvi  derogare.  Fu  sotto  il  pontificato  di  Be- 
nedetto XV  che  per  la  prima  volta  si  vide  un  pontefice  inviare, 
sfònz'aver  fatto  scandagliare  preventivamente  il.  terreno,  note  ai  Go- 
verni, anche  non  riconosciuti  dalla  S.  Sede,  e  far  seguire  alle  note 
le  repliche,  non  preoccupandosi  dell'insuccesso  dei  passi  né  dello 
scorno  diplomatico  di  Governi  che  rispondevano  tardi  e  in  termini 
vaghi  o  non  rispondevano  affatto  :  proprio  negli  ultimi  giorni  di  quel 
pontificato,  a  proposito  del  dispaccio  diretto  al  Presidente  degli  Stati 
Uniti  in  occasione  della  Conferenza  di  Washington,  si  parlò  ancora 
d'insuccesso  della  diplomazia  pontificia.  Ma  attraverso  tutti  quelli 
che  secondo  il  protocollo  delle  cancellerie  erano  effettivahnente  insuc- 
cessi, il  segretario  di  Stato  aveva  riallacciato  il  contatto  della  S.  Sède 
con  i  popoli,  le  aveva  assicurato  un  posto  tra  le  forze  creatrici  della 
storia  di  domani. 

La  prassi  della  Curia  pontificia  era  tutto  un  tessuto  di  reticenze  • 
nulla  doveva  penetrare  al  di  fuori,  neppure  le  malattie  del  pontefice 
finché  egli  non  fosse  agli  estremi:  gli  organi  ufficiali  della  Curia 
avevano  per  compito  precipuo  di  opporre  smentite  a  quanto  gli  altri 
giornali  pubblicas^ro  intomo  a  ciò  che  seguiva  entro  le  mura  del 


374  P^O  XI  E  LA  NUOVA  SITUAZIONE  POLITICA  DEL  PAPATO 

Vaticano  :  il  segretariato  del  Gasparri  segnò  un  deciso  mutamento  di 
rotta:  quegli  ch'è  il  ministro  degli  esteri  della  S.  Sede  apparve  a 
contatto  del  pubblico,  della  vita,  quasi  come  un  qualsiasi  ministro 
(Uigli  esteri  di  repubblica  o  di  regno  democratico  :  tutti  si  fkiì  per 
sentirlo  più  vicino:  anohe  gl'indifferenti,  quelli  stessi  che  si  osti- 
nano a  considerare  il  Vaticano  come  il  sepolcro  dov  e  composto  un 
passato  senza  possibilità  di  risurreaione,  dovettero  quasi  giocoforza 
intenderne  la  voce. 

Pio  XI,  che  al  Gasparri  molto  deve  della  sua  rapida  fortuna, 
compiutasi  tutta  nel  ciclo  di  pochi  anni,  ha  confermato  il  suo  grande 
elettore  nel  posto  di  segretario  di  Stato.  È  una  garanzia  di»  più,  che 
non  mancheranno  alla  Chiesa  in  quella  che  sembra  essere  l'ora  pro- 
pizia alla  sua  rifioritura  miracolosa,  i  dirigenti  capaci  di  guidarla 
per  nuovi  sentieri. 

* 
•  * 

Papato  religioso  o  papato  politico?  Mai  come  in  questo  inizio  di 
fx>ntifìcato  il  dilemma  tradizionale  ha  avuto  meno  ragion  d'essere. 
Ghè  se  nei  periodi  di  calma,  nei  periodi  di  torpore,  la  distinzione 
può  acquistare  qualche  rilievo  e  rispondere  in  certo  modo  allo  stato 
delle  cose,  nei  periodi  di  riscossa,  d'intensa  vita,  i  due  elementi  si 
compenetrano,  divengono  un  tutto  inscindibile.  Il  pax>ato  influisca 
sui  regni  e  sui  popoli,  in  quanto  esercita  un  dominio  incontrastato 
sulle  anime:  e  la  sua  forza  terrena,  se  volta  ad  opere  di  pace,  alla 
conculcazione  delle  più  stridenti  ingiustizie,  diviene  alla  sua  volta 
un  mezzo  potente  di  propaganda  religiosa,  suscita  proseliti,  smorza 
odi  teologici,  soffoca  le  riibellioni  del  dubbio.  I  germi  di  disgregazione 
che  sempre  sono  presenti  in  seno  alla  Ohiiesa,  e  sempre  susciteranno, 
nelle  forme  più  svariate  e  più  imprevedibili,  quelli  che  la  Chiesa 
chiama  eresia  e  scisma,  acquistano  tutta  la  loro  capacità  e  tutta  la 
loro  virulenza  nei  periodi  di  torpore:  s'immobilizzano,  paiono  iste- 
rilirsi, nelle  ore  trionfali. 

Ora  nessuno  può  dive  se  il  prossimo  decennio  segnerà  un  periodo 
trionfale  per  il  papato:  ma  è  facile  prevedere  che  non  potrà  segnare 
unepoca  di  torpore. 

Pericoli  prossimi,  possibilità  più  ampie  ma  più  remote  d'im- 
mensi successi,  si  delineano  sull'orizzonte  del  pap)ato. 

Nell'ultimo  secolo,  in  particolarissimo  modo  negli  ultimi  venti- 
cinque anni,  Roma  ebbe  a  guardare  semipre  ad  occidente  per  vedere 
se  più  fosche  si  facessero  le  nubi  o  si  schiarisse  il  cielo.  La  Francia, 
<mzitutto,  il  Portogallo  e  la  Spagna,  poi,  furono  volta  a  volta  causa 
di  angoscia  e  di  giubilo  al  papato.  L'Inghilterra  non  entrò  nella  più 
immediata  cérohda  dell'attività  papale  se  non  per  breve  ora,  sotto 
il  irontificato  di  Leone  XIII,  negli  anni  delle  speranze  di  unificazione, 
troncate  dalla  opposizione  irlandese,  dalla  intransigenza  storico-dog- 
matica che  portò  alla  dichiarazione  d'invalidità  delle  ordinazioni  an- 
glicane: più  tardi  resitò  sempre  in  una  posizione  di  second'ordine 
nel  gioco  della  diplomazia  vaticana:  anche  il  duello  tra  Inghilterra 
ed  Irlanda,  ch'ebbe  le  sue  ore  tragiche,  non  parve  questione  in  cui 
si  dibattessero  interessi  vitali  per  la  Chiesa.  La  Germania,  dopo  il 
conflitto  tra  Stato  e  Chiesa  cattolica,  ch'ebbe  quarantanove  anni  or 


PIO  XI   E  LA  NUOVA   SITUAZIONE  POLITICA  DEL   PAPATO  375 

-<>no  le  sue  ore  epiche,  non  è  più  stata  og:gFetto  di  gravi  cure  per  il 
i:>apato  :  la  scarsa  docilità  del  Centro,  la  questione  dei  sindacati  in- 
léi  Confessionali,  non  sono  apparse  mai  come  nubi  apportatrici  di  tem- 
pesta sul  cielo  del  Vaticano.  L'Austria,  dopo  i  dissensi  non  gravi 
del  70,  dopo  la  denuncia  del  concordato  del  '55  così  vantaggioso  per 
la  Chiesa  (e  che  tuttavia  restò  di  fatto  norma  regolativa  di  tanti  rap- 
porti ecclesiastici)  rimase  terreno  pacifico  per  eccellenza  nei  riguardi 
della  Curia  romana  :  l'azione  di  questa  potè  mirare  ad  esercitare  una 
influenza  maggiore;  le  sue  sconfìtte  non  furono  in  realtà  ohe  minori 
\  ittorie  :  le  parole  attrito  e  conflitto  perdevano  ogni  \'irulenza  allorché 
!  applicassero  ai  rapporti  tra  l'Austria  e  la  S.  Sede. 

Tutto  questo  stato  di  cose  è  prossimo  a  mutare  radicalmente  :  il 
mutamento  anzi  è  già  in  atto.  La  situazione  della  Chiesa  non  sembra 
orrere  seri  pericoli  ad  occidente.  Non  in  Francia:  una  riscossa  gia- 
cobina pare  ivi  affatto  improbabile:  né  assumierà  certo  una  posizione 
antifrancese  Pio  XI,  l'antico  monsagnor  Ratti,  accorto,  intelligente, 
duttile,   pratico,   restìo  agFinfatuamenti,   l'ex  nunzio  apostolico   in 
Polonia  che  così  strettamente  abbracciò  la  causa  della  fedele  figlia  di 
Francia,  della  strenua  e  bellicosa  sua  alleata  d'Oriente  :  i  pochi  cri- 
stiani integrali,  i  quali  sentono  l'incompatibilità  assoluta  tra  i  valori 
fondamentali  del  cristianesimo  e    l'atteggiamento    spirituale    della 
Francia  uscita  dalla  vittoria,  debbono  ben  comprendere  che  non  sarà 
Pio  XI  il  papa  che  griderà  oltr'Alpe  la  difficoltà  di  conciliare  al  tempo 
tesso  i  precetti  di  Cristo  e  lo  spirito  nazionalista  della  politica  fran- 
ose.  Non  nel  Portogallo,  dove  il  periodo  del  giacobinismo  tripu- 
iiante,   della  infatuazione   anticattolica,    sembra    ormai    superato. 
.a  Spagna  reca  in  sé  da  decenni  il  torlo  del  dualismo  catalano-ca- 
tigliano:   la   riscossa  della   Catalogna,  la  sua   autonomia  o    anche 
'Itanto  la  sua  prevalenza   nel    regno,    porterebbe,  è    noto,  un    ri- 
veglio  di  aspirazioni  ostili  alla   Chiesa,    una  ferma  volontà  di  ab- 
battere quel  che  ancora  v'è  di    antiquato,  di    rjfcchio    regime,  nei 
rapporti  fra  Stato  spagnolo  e  Chiesa;  ma  la  Catalogna   era  un  po' 
provincia   spirituale   della   Francia:  la   conversione   di   questa   dal 
iacobinismo  al  conservatorismo,    se   non   ha   naturalmente   potuto 
^vere  effetto  sul  dissenso  di  razza  tra  catalani  e  castigliani,  deve  fatal- 
mente aver  gettato  molta  acqua  nell'acceso  liberalisano  della  Cata- 
logna. 

Ben  più  immediati  appaiono  altrove  i  pericoli. 
In  Italia  passò  quasi  ignorata  la  crisi  della  Chiesa  czecoslovacca, 
il  memoriale  indirizzato  nel  '19  da  gran  parte  di  cpiel  clero  alla  Santa 
Sede  —  si  ripetevano  in  quel  memioriale  molti  dei  postulati  e  delle 
aspirazioni  delle  Chiese  nazionali,  ostili  all'accentramento  romano, 
che  nei  Concili  riformatori  del  secolo  xv  ebbero  la  più  perspicua 
espressione  — :  rimase  pressoché  sconosciuto  lo  scisma  parziale  pro- 
dottosi in  quella  Chiesa.  Troppo  poco  da  noi  si  guarda  alla  Czecoslo- 
vacchia,  cui  la  pace  di  St.  (^rmain  ha  dato  splendidi  confini  di  vit- 
toria, la  zona  più  ricca  e  più  industriale  deH'ahtico  Impero,  ed  il  cui 
popolo  era'  persino  agli  occhi  degli  avversari  tedeschi  il  più  laborioso 
e  il  più  tenace  della  monarchia  degli  Asburgo:  alla  Czecoslovacchia, 
che  avrà  fatalmente  una  posizione  economica  non  inferiore  a  quella 
fel  Belgio  prima  del  '14,  ma  accompag"nata  e  sorretta  da  una  volontà 


37H  PIO  XI  E  LA  NUOVA  SITUAZIONE  POLITICA  DEL  PAPATO 

di  conquista  e  di  dominio  che  non  può  non  renderla  un  elemento  di 
prim'ordine  nei  destini  d'Europa.  È  la  crisi  czeca  superata?  può  dirsi 
la  scissione  daw.ero  arginata,  può  aversi  la  certezze  che  dalle  file 
della  Chiesa  ortodossa  non  usciranno  nuovi  elemienti  ad  ingrossare 
quelle  della  Chiesa  dissidente?  Quando  pure  si  verificasse  questa  ipo- 
tesi favorevole  al  cattolicesimio,  non  si  deve  dimenticare  che  nella 
Chiesa  nazionale  <lissidenf-e  è  passato  tutto  il  fermento  hussita,  tutta 
l'avversione  anticattolica  e  soprattutto  antiromana,  maturata  per  se- 
coli nel  sottosuolo  di  quella  misteriosa  Czechia,  che  ha  serbato  vivo 
il  medioevo,  non  soltanto  nelle  strette  vie  e  nei  Lungo-Moldava  di 
Praga,  ma  pur  nell'animo,  nelle 'passioni  e  negli  odi,  del  suo  popolo 
repubblicano. 

Né  minori  pericoli  attendono  la  Chiesa  in  tutti  gli  altri  Paesi  sori.i 
dallo  smembramento  dell'Austria,  o  ingranditi,  mutati,  trasformata 
dalla  vittoria.  I  nazionalismi  esasperati  si  manifestano  anche  nel 
campo  chiesastico  :  eterno  Sisifo,  Roma  deve  ancora  una  volta  op- 
porre la  sua  ragion  d'essere,  l'unità  cattolica  che  mirando  a  Roma 
pone  in  seconda  linea,  dlimìentica  le  frontiere  nazionali,  a  quest'aspi- 
razione di  ogni  Stato  ad  avere  una  propria  Chiesa  nazionale,  aspira- 
zione che  sempre  pare  spenta  e  sempre  si  ridesta.  La  battaglia  com- 
battuta e  vinta  nei  pericolosi  giorni  di  Costanza  e  di  Basilea,  in  quel 
secolo  XV,  che  vide  per  Punita  pericoli  più  grandi  che  non  il  secolo 
seguente  (l'eresia  restrinse  il  dominio  d'ella  cattolicità,  non  frantumò 
questa  in  tante  chiese  nazionali),  deve  sempre  ripetersi.  Si  è  ripetuta, 
pili  attenuatti,  nel  secolo  xvii,  l'età  d'oro  del  gallicfinismo,  nel  se- 
colo xviii,  il  secolo  di  Febronio,  delle  aspirazioni  d'indipendenza  dei 
grandi  prelati  tedeschi;  dopo  la  tregua  dell'ottocento  si  ripeterà  (im- 
possibile dire  se  piìi  virulenta  o  meno  intensa)  nel  secolo  che  volge. 
Le  aspirazioni  ad  un  proprio  rito,  all'abbandono  del  latino  nella  li- 
turgia, a  concili  nazionali  propri,  sono  aspirazioni  ben  note  nella 
storia  della  Chiesa:  a  ragione  Roma  le  ha  sempre  combattute  :  ben  sa 
com'esse  preludano  alla  rottura  della  unità.  Ora  queste  aspirazioni 
incalzano,  fermentano,  premono,  in  tutto  il  mondo  slavo  e  magiaro 
ancora  unito  alla  Chiesa  di  Roma:  paziente  ed  accorta,  questa  segue 
attenta  il  movimento  :  talvolta  qualche  poco  concede,  cerca  di  elevare 
paratìe  in  seno  ad  esso,  d'impedire  che  i  rivoletti  dispersi  conflui- 
scano in  un  fiume  impetuoso.  Cura  che  intomo  a  questi  scricchiolii 
miale  auguranti,  intorno  a  questi  fremiti  di  terra  in  sussulto,  si  fac- 
cia il  silenzio  :  non  ignora  e  non  trascura;  certi  episodi  in  sé  insigni- 
'.flcanti  (l'intransigenza  del  Vaticano,  transigentissimo  in  tutti  gli  altri 
suoi  rapporti  col  Governo  italiano,  nella  questione  di  S.  Girolamo 
degli  Schiavoni  che  vuole  assolutamente  destinato  agli  slavi  anziché 
ai  dalmati)  mostrano  come  la  S.  Sede  non  sia  disposta  a  privarsi  di 
alcun  mezzo  di  lotta  per  mantenere  nella  integra  ed  assorbente  co- 
munione romana  quanti  aspirano,  a  staccarsene. 

Ma  non  soltanto  in  queste  aspirazioni  autonomiste  si  annidano  i 
pericoli  :  il  crollo  del  colosso  «moscovita  ha  avuto  ripercussioni  reli- 
giose ancora  non  palesi,  ma  non  perciò  meno  sicure:  molte  branche 
della  Chiesa  scismatica  hanno  da  quel  crollo  acquistato  un'autono- 
mia, non  giuridica,  ma  reale,  una  libertà  di  movimenti  e  di  atteggia- 
menti, che  costituisce  l'equivalente  di  un  ringiovanimento  miraco- 
loso: hanno  acquistato  per  conseguenza  una  capacità  di  proselitismo. 


PIO  XI  E  LA  NUOVA   SITUAZIONE  POLITICA   DEL   PAPATO  877 

un'attitudine  alla  lotta,  per  cui  sono  potenzialmente  oggi  avversai! 
pericolosi,  quali  non  erano  in  passato,  per  la  Chiesa  di  Roma. 

Infine  anche  là  dove  non  si  porrebbe  questione  religiosa,  il  na- 
zionaiismo  politico  può  suscitarla:  i  popoli  oppressi,  i  popoli  che 
fortemente  odiano,  ove  siano  popoli  primitivi  in  cui  il  fattore  reli- 
gioso è  fattore  di  prim'ordiné,  sono  tratti  naturalm.ente  ad  abbreviare 
e  favorire  quella  religione  che  appaia  antitetica  alle  credenze  dell'op- 
pressore. L'antico  Nunzio  a  Varsavia  non  può  dimenticare  questa 
specie  di  pericoli:  tra  i  lituani,  tra  le  altre  popolazioni  minori  che 
considerano  come  un  vero  giogo  la  dominazione  polacca,  protestan- 
tesimo e  chiese  scismatiche  possono  trovare  terreno  favorevole. 

Di  fronte  ai  pericoli,  immiediati,  non  suscettibili  di  essere  eli- 
mdnati,  le  possibilità  di  azione  feconda,  le  possibilità  di  trionfo. 

Mai  si  diede  ora  più  favorevole  di  questa  alle  possibilità  più  va- 
ste, alle  speranze  più  sconfinate  che  possano  allignai*e  nell'animo  di 
un  pontefice  romano. 

All'indomani  della  più  terribile  crisi  della  storia  moderna,  tutti 
i  popoli,  abbeverati  di  dolore,  aprono  l'animo  ad  inconscie' indecise 
speranze  messianiche.  Volge  una  di  quelle  ore  storiche  in  cui  anche 
le  menti  più  elette,  più  conscie  della  fatalità  che  regge  il  divenire  sto- 
rico, accolgono  loro  malgrado  la  fiducia  nel  possibilismo  più  asso- 
luto, si  sentono  indotte  a  credere  nella  possibilità  del  miracolo,  nei 
gesti  miracolosi  dei  taumaturghi.  Più  ancora,  attendono  siffatti  ge- 
sti: di  fronte  ai  complicati  problemi  politici  ed  economici,  al  grovi- 
glio inestricabile  di  difficoltà,  che  si  ravvisa  in  ogni  campo,  alla  im- 
possibilità propria  a  qualsiasi  scienza  e  dottrina  di  mostrare  le  vie 
attraverso  cui  si  potrà  ritornare  all'antico  benessere,  all'antica  sere- 
nità, tutti  sono  indotti,  più  o  meno  coscientemente,  ad  aspettare  una 
soluzione  extraempirica,  impre\'^dibile,  i>osta  al  di  fuori  della  ferrea 
catena  di  ogni  determinismo.  Nelle  classi  colte,  dove  quest'attesa  mes- 
sianica trova  ostacolo  in  tutta  una  inupalcatura  di  principi  e  di  cer- 
tezze acquisite,  nuove  dottrine  demoliscono  affrettatamente  quella 
impalcatura:  per  il  popolo  non  abbisogna  neppure  quel  lavoro  pre- 
liminare: ed  il  messianismo,  rav\"ento  del  secolo  d'oro  del  proleta- 
rig,to,  ha  già  un  nome  e  tratti  ben  definiti. 

Non  occorre  dimostrare  come  un  siffatto  momento  racchiude  nel 
suo  seno  possibilità  sconfinate  per  tutte  le  religioni,  per  tutti  i  mo- 
vimenti spirituali  che  parlano  all'animo  degli  uomini,  che  hanno  il 
potere  di  toccare  quel  lato  profondo  e  misterioso  ma  più  di  ogni  altro 
sensibile,  ch'è  la  coscienza  religiosa.  E  queste  possibilità  potranno 
essere  soprattutto  sfruttate  da  quella  ch'è  tra  le  religioni  la  meno  cri- 
stallizzata, la  più  duttile  e  la  più  accorta,  quella  che  mostra  con  fatti 
un  potere  sempre  vivo  di  gettare  nuovi  germogli,  di  estendere  la  va- 
sta massa  delle  sue  radici. 

Ma  contingenze  politiche  accrescono  la  possibilità  di  successi 
della  Chiesa  di  Roma. 

Il  crollo  dell'impero  moscovita,  cioè  della  salda  impalcatura  sta- 
tale che  sorreggeva  la  Chiesa  russa;  l'avvento  di  un  potere  che  in  un 
primo  momento  è  stato  nettamente  e  crudamente  ostile  a  quella 
Chiesa,  e  in  un  secondo  si  è  rinchiuso  in  una  indifferenza  malevola; 
la  crisi  di  dolore  e  di  smarrimento  di  quel  popolo,  che  ha  dovuto  per- 
dere una  ad  una  le  sue  vecchie  fedi,  i  suoi  convincimenti  tutti,  che- 

25  Voi.   CCXVI,   serie  VI  —  16   febbraio   1922. 


SlH  PIO  XI  E  LA  NUOVA  SITUAZIONE  POLITICA  DEL   PAPATO 

ha  dovuto  mutare  il  suo  orientamento  mentale  :  tutto  ciò  ha  indub- 
biamente avvicinato  quelle  possibilità  di  riunione  della  Chiesa  russu 
alla  romana  che  non  apparvero  mai  assurde  a  spiriti  eletti  delle  due 
Chiese.  Queste  non  sono  separate  da  alcun  fondamentale  dissenso 
dognkatico,  non  diversificano  per  costituzione  :  le  diversità  di  tradi- 
zione, di  sentimento,  di  litur;^a,  sono  certo  meno  ingenti  che  non 
siano  talora  tra  chiese  e  riti  conviventi  nella  famiglia  cattolica. 

Ad  un'altra  possibilità  di  riunione,  più  e  volte  vagheggiata,  e  che 
talora  parve  prossima  a  compiersi,  è  stato  tolto  l'ostacolo  che  rese  fin 
qui  inupossibile  il  suo  verificarsi.  Il  componimento  tra  Irlanda  ed  In 
ghilterra  fa  sì  che  una  conciliazione  tra  Chiesa  anglicana  e  Chiesa 
romana  non  abbia  oggi  più,  come  in  passato,  la  conseguenza  di  far 
perdere  ogni  ascendente  al  papa  di  Roma  sull'isola  di  smeraldo.  Certt» 
oggi  ringhilterra  è  meno  proclive  a  questa  unione  che  non  apparisse 
in  alcuni  momenti  del  pontificato  di  Leone  XIII  :  ma  v'è  oggi  pel  pa- 
pato quel  che  non  si  dava  allora  :  la  possibilità  di  un  lavoro  fecondo, 
non  destinato  fatalmente  a  spezzarsi  di  fronte  ad  una  ferrea  alter- 
nativa. 

•  * 

Questi  i  pericoli,  queste  le  possibilità  del  papato. 

Altri  problemi  vi  sono,  già  impostati,  che  il  papato  non  potrà 
scartare  dal  suo  cammino.  Così  non  potrà,  senza  che  il  suo  pre?^ 
ne  sia  gravemente  ferito,  recedere  dalla  posizione  già  presa  da  Bc:.. 
detto  XV  di  fronte  ai  luoghi  santi,  riniunciare  a  farsi  sostenitore  dei 
diritti  morali  del  «  popolo  cristiano».  La  questione  è  di  una  delica- 
tezza estrema:  il  nucleo  sionista  palestinese  ha  dietro  a  se,  solidali 
e  compatti,  tutti  gl'israeliti  di  Europa  e  di  America:  un  att^gia- 
mento  antisiondsta  del  papato  importerebbe  un  rincrudimento  di  av- 
versione anticattolica  ed  antivaticana  dovunque  batta  un  cuore  se- 
mita. Ed  alla  volta  il  papato,  dando  sia  pure  involontariamente  pre- 
testo ad  un  rinfocolarsi  dell'antisemitismo,  più  vivo  che  mai  in  tutte 
le  terre  dell'antica  Monarchia  degli  Asburgo,  ed  in  Polonia  e  in  Ro- 
menia  e  in  tanta  parte  della  Germania,  renderebbe  un  ben  cattivo 
servizio  alla  causa  della  pacificazione.  Ma  se  la  S.  Sede  riuecirà  ad 
attuare  quella  che  sembra  la  sua  jwlitica,  ostacolata  sin  qui  dalla  po- 
litica britannica,  riuscirà  a  giungere  ad  accordi  diretti  con  l'orga- 
nizzazione sionista,  che  finora  non  è  apparsa  da\^ero  né  fanatica 
né  irrisipettosa  degli  altnii  diritti;  se  riuscirà  ad  accordare  gl'inte- 
ressi morali  del  popolo  cristiano  e  il  bisogno  di  ricostituzione  di  un 
focolare  nazionale  per  gli  ebrei  dispersi,  avrà  ottemuto  un  primo 
grande  successo,  che  sarà  forse  scarsamente  avvertito  in  Italia,  ma 
che  gioverà  infinitamente  al  suo  prestigio  in  tutto  il  bacino  meridio 
naie  ed  orientale  del  Mediterraneo,  ed  in  tutti  quei  Paesi  ove  la  que 
stione  semita  è  questione  essenziale,  sempre  presente  in  ogni  suo 
aspetto. 

Nessuno,  che  non  voglia  arrogarsi  il  compito  di  profeta,  può 
oggi  dire  quali  di  questi  possibili  successi  il  papato  di  Pio  XI  saprà 
afferrare,  quali  di  quei  pericoli  potrà  schivare. 

Può  solo  dirsi  che  non  sarà  papato  privo  di  eventi,  papato  che 
non  debba  scrivere  una  densa  pagina  di  storia.  Nella  Chiesa  come 


PIO  XI  E  LA  NUOVA   SITUAZIONE  POLITICA  DEL   PAPATO  379 

nelle  grandi  istituzioni,  nelle  istituzioni  che  hanno  una  ragion  di 
vivere,  avviene  che  talvolta  manchino  agli  uomini  la  possibilità,  non 
mai  ohe  alle  possdbilità  manchino  gli  uomini  :  è  questo  il  loro  fato 
misterioso,  la  loro  Provx  idenza. 

Potrà  essere  un  pontificato  di  vittorie  o  meno:  ma  non  sarà 
un  pontificato  ohe  lasci  trascorrer©  la  sua  ora  senza  cercare  di  af- 
ferrarla. 

* 

Alla  proclamazione  della  nomina  a  papa  del  cardinale  Achille 
Ratti,  vi  fu  chi  gridò  «  l'italianissimo!  ». 

Italiano  di  cuore,  certo:  ma  papa  romano,  pastore  della  Chiesa 
universale,  anzitutto.  Non  è  escluso  che  al  cuore  italiano  che  batte 
scKtto  il  bianco  ammanto  papale  sia  data  l'ora  di  gioia  della  riconci- 
liazione aperta  e  piena  tra  S.  Sede  e  Stato  italiano.  Ma  non  sarà  certo 
questa  la  cura  principale  del  nuovo  pontificato,  il  punto  centrale  delle 
sue  preoccupazioni  ;  altri  Paesi  minacciano  al  papato  pericoli  ben  più 
gra\i  che  l'Italia  non  minacci,  fanno  balenare  possibilità  di  vittorie 
ben  maggiori  di  quelle  che  l'Italia  possa  offrire. 

Vittorie,  e  quali?  nessuno  può  dirlo  :  ma  certo  sarà  pontificato 
cattolico  nql  senso  originario  dtella  parola,  e  non  restringerà  al  Tir- 
reno ed  aJle  Alpi  la  sua  visuale,  ma  sempre  rammenterà  di  avere  per 
campo  d'azione  il  mondo  tutto. 

A.  C.  Jemolo. 


PROBLEMI    DEL  GIORNO 


LA  CRISI  DELLA  BANCA  ITALIANA  DI  SCONTO 


La  crisi  della  Banca  Italiana  di  Sconto  costituisce  un  avveni- 
mento altamente  doloroso  dell'economia  nazionale. 

Per  quanto  si  tratti  senza  dubbio  di  un  affare  privato,  bctóta  ri- 
flettere alla  entità  dei  crediti  raccolti  nella  Banca  (circa  4  miliardi), 
al  numero  notevole  dei  creditori  (circa  427  mila),  alla  loro  diffusione 
in  tutto  il  Regno  per  persuaderci  che  siamo  di  fronte  ad  uno  di  quei 
problemi  che,  nell'interesse  generale  del  paese,  conviene  .risolvere  in 
modo  sollecito  e  soddisfacente.  A  questo  riguardo  nessuno  potrebbe 
rivolgere  alcuna  critica  fondata  al  Ministero  Bonomi  —  a  cui  augii 
riamo  prospere  sorti  —  tenendo  conto  del  fatto  che,  appena  esso  ri- 
tenne inevitabile  la  crisi,  non  esitò  a  promailgare  una  serie  di  Decreta- 
legge  di  molta  gravità  ed  utilità.  Vi  attesero  personalmente  non  solo 
i  ministri  dei  due  dicasteri  competenti  del  commercio  e  del  tesoro, 
gli  on.  Belotti  e  De  Nava,  ma  anche  l'on.  Beneduce,  ministro  del  la- 
voro, e  l'on.  Bonomi,  Presidente  del  Consiglio. 

Percorsa  così  la  prima  fase  conservatrice,  spetta  ora  di  compiere 
la  seconda  parte  :  quella  ricostruttrice.  Ma  a  ciò  occorre  un  ambiente 
di  calma  e  di  serene  e  concordi  discussioni  tecniche.  Si  è  soltanto  per 
contribuire  a  questo  scopo,  e  per  facilitare  una  base  di  comune  intesa 
che  pubblichiamo  queste  brevi  note,  nelle  quali  abbiaimo  semplice- 
mente raccolte  idee,  che  ci  vennero  da  più  parti  presentate. 

La  storia  bancaria  d'Italia  offre,  a  questo  riguardo,  due  grandi  e 
fecondi  precedenti,  che  devono  sopra  tutto  servirci  oggi  d'insegna- 
mento e  di  guida.  Il  primo  è  la  mirabile  ricostruzione  della  Banca 
Nazionale  e  la  sua  trasformazione  in  Banca  d'Italia,  sapientemente 
progettata  dall'on.  Sonnino  nel  1894-95,  e  splendidamente  attuata  dal 
oomm'.  Stringher.  L'altro  esempio  ci  è  dato  dalla  ricostituzione  del 
Banco  di  Napoli,  pochi  anni  dopo,  con  pari  sapienza  e  con  pari  abi- 
lità progettata  dall'on.  Luzzatti  e  compiuta  dal  comm,  Miraglia. 

L'esemipio  dtella  Banca  d'Italia  è  quello  che  più  fa  al  caso  nostro. 
Si  ritiene  che  l'antica  Banca  Nazionale  avesse  perduto  non  solo  l'in- 
tero capitale,  ma  più  assai  ancora:  ciò  nonostante,  la  ricostruzione 
fu  così  completa  ed  effettiva,  che  tutto  venne  rimesso  a  posto  —  la  cir- 
colazione, i  correntisti  e  gli,  azionisti! 

Nella  stessa  guisa,  la  soluzione  dell'attuale  crisi  bancaria  deve 
proporsi  : 

il  minor  danno  dei  creditori  e,  se  possibile,  degli  azionisti  della 
Banca  di  Sconto; 


LA  CRISI  DELLA   BANCA   ITAUANA  DI   SCONTO  381 

la  ricostruzione  —  se  non  della  Banca  di  Sconto  —  del  vasto 
organismo  di  credito  ch'essa  rappresenta; 

il  minor  danno  dell'economia  nazionale. 

Ed  è  del  tutto  inutile  a,g:giungere  che  ha  pienamente  ragione 
Fon.  Bonomi,  quando  afferma  che  lo  Stato  «  non  potrà  mai  né  com- 
promettere l'esistenza  degli  Istituti  di  emissione,  così  collegati  all'e- 
conomia del  paese,  né  trasferire  sui  contribuenti  italiani  le  perdite 
di  un'impresa  privata  ». 

È  tuttavia  evidente  che  Stato  ed  Istiutti  di  emissione  devono, 
nell'orbita  delle  rispettive  funzioni,  dare  tutto  il  loro  concorso  pos- 
sibile per  questa  opera  di  ricostruzione,  indispensabile  all'economia 
monetaria  ed  al  credito  del  paese. 

U accertamento  della  situazione. 

La  prima  necessità  è  quella  di  avene  un  accertamento  preciso 
della  situazione  della  Banca  di  Sconto  che,  purtroppo,  anche  oggidì, 
pare  soltanto  approssimativo  per  quanto  riguarda  la  partita  decisiva 
delle  imnìobilizzazioni  e  delle  perdite.  In  cifre  tonde  si  può  dire  che 
la  Banca  presenta: 

al  Passivo  :  3i5  milioni  di  capitale  versato  e  75  milioni  di  ri- 
serva: in  tutto  circa  400  mdlioni  di  patrimonio; 

4  miliardi  di  creditori  fra  depositi  a  risparmio,  conti  correnti, 
orrispondenti,  ecc.,  in  tutto  un  passivo  di  4,400  milioni. 
alV Attivo  :  4,400  milioni  di  attività  e  d'impieghi  diversi. 
Sventuratamente  si  calcola  che  fra  questi  4,400  milioni  si  abbiano 
allincirca  1,200  milioni  d'immobilizzazioni  e  di  perdite  diverse.  E 
questo  costituisce  il  punto  grave  del  problema. 

Anzi  tutto  solo  il  tempo  potrà  dirci  quante  siano  le  immobiliz- 
zazioni e  quante  siano  le  perdite  vere  e  proprie,  mentre  tra  le  une  e 
-  altre  corre  una  differenza  enorme.  Ciò  dimostra  sempre  più  la  ne- 
essità  di  procedere  con  cautela,  a  gradi,  ed  in  base  a  risultati  pratici. 
Partendo  dall'ipotesi  estrema  di  una  perdita  di  1,200  milioni,  se- 
ra 4  miliardi,  la  perdita  sarebbe  del  30  per  cento  e  la  "parte  solida 
ie^l  70  per  cento.  Qualora  invece  si  volesse  calcolare  perduto  l'intero 
I>atrimonio  di  400  milioni,  la  perdita  a  carico  dei  creditori  verrebbe 
ridotta  ad  800  milioni  e  si  rag-gnaglierebbe  al  20  per  cento  dei  crediti, 
la  parte  solida  all'SO  per  cento.  Ma,  come  si  é  detto  sopra,  il  tempo 
r  —  giova  sperarlo  —  la  buona  soluzione  del  problema,  possono  mo'- 
dificare  questi  risultati,  e  occorre  procedere  con  cautela  ed  a  gradi. 

La  creazione  di  un  nuovo  Istituto. 

È  oramai  opinione  prevalente  che  si  debba  provvedere  alla  crea- 
zione di  un  nuovo  Istituto  di  credito,  come  si  fece  per  la  Banca  d'I- 
talia, e  si  accenna  alla  fondazione  di  una  nuova  Banca  Nazionale  di 
-Sconto.  Essa  potrebbe  avere  300  milioni  in  azioni  e  100  milioni  di 
riserva,  in  guisa  da  raggiungere  un  patrimonio  versato  di  400  milioni. 

Accettando  questa  idea,  noi  respingiamo  tutte  le  proposte  di  co- 
stituire il  capitale  o  la  risen-a,  anche  solo  in  parte,  con  partite  im- 
mobilizzate e  tanto  meno  con  perdite  della  vecchia  Banca  di  Sconto. 
Il  nuovo  Istituto  sorgerebbe  senza  credito,  e  costituirebbe  una  debo- 
lezza permanente  dell'organismo  bancario  del  paese.  Capitale  e  ri- 


382  LA  CRISI   DELLA   BANCA   ITALIANA   DI    SCONTO 

serva  devono  essere,  sia  pure  a  gradi,  versati  in  contanti.  Poiché  si 
assicura  che  la  vecchia  Banca  di  Sconto  possegga  almeno  1.500  mi- 
lioni di  partite  di  non  difficile  e  di  non  lontana  realizzazione,  a  mi- 
sura che  queste  prime  partite  rientrano,  e  -sono  disponibili,  esse  po- 
trebbero subito  costituire  il  capitale  e  la  riserva  della  nuova  Banca 
Nazionale.  Sarà  tanto  meg^lio  se  la  formazione  di  questo  capitale  po- 
trà essere  accelerata  da  sottoscrizioni  pubbliche,  da  gruppi  finan- 
ziari, o  dagli  ex  amministratori. 

Così  pure  nel  nostro  concetto  la  nuova  Banca  Nazionale  deve  as- 
sum^ene  la  gestione  e  l'amimànistrazione  della  vecchia  Banca  di  Sconto, 
in  vista  del  suo  graduale  assorbimento,  nello  stesso  modo  in  cui  la 
nuova  Banca  d'Italia  assunse  la  gestione  e  l'amiministrazione  della 
vecchia  Banca  Nazionale,  e  finì  per  assorbirla  completamente.  Bene 
inteso  che  sulla  nuova  Banca  Nazionale  di  Sconto  non  possono  rica- 
dere in  parte  alcuna  le  perdite  della  vecchia  Banca  di  Sconto,  altri- 
menti ne  resterebbe  schiacciata.  Purtroppo,  e  sia  pure  nella  minor 
misura  possibile,  esse  dovranno  venir  sopportate  dai  creditori. 

I  400  milioni  del  nuovo  capitale  dovrebbero  quindi  costituire 
la  prima  quota  di  rimborso  ai  creditori^  in  ragione  di  circa  il  10  per 
cento  dei  loro  crediti  superiori  alle  lire  mille.  I  creditori  la  ricevereb- 
bero in  azioni  versate  in  contanti,  con  forte  riserva,  e  che  probabil- 
mente sarebbero  contrattate  nel  mercato  libero  alla  pari  e  forse  an- 
che con  premio,  specialmente  se  appoggiate  a  qualche  potente  sinda- 
cato. Si  può  quindi  dire  che  i  creditori  riceverebbero  una  prima 
quota,  di  circa  il  10  per  cento,  in  contanti,  ma  sopra  tutto  si  avrebbe 
il  vantaggio  di  dare  vita  ad  un  Istituto  forte  e  solido  che  —  se  bene 
amministrato  —  acquisterà  largo  credito  p>er  sé,  e  ne  darà  al  paese. 

Le  difficoltà  dei  rimborsi. 

Sono  sorte  successivamente  diverse  proposte  per  rimborsi  ai  cre- 
ditori dal  50  al  70%  <lei  loro  crediti,  in  base  alle  presunte  attività 
della  Banca  di  Sconto.  Ma  questi  rimborsi  presentano  difficoltà 
enormi  che  giova  equamente  valutare. 

II  rimborso  del  50%  dei  crediti  esige  2  miliardi  di  lire  in  con- 
tanti: il  70%  richiede  quasi  3  miliardi.  È  probabile  che  nelle  stret- 
tezze dèi  giorni  che  precedettero  la  moratoria,  la  Banca  di  Sconto 
abbia  incassate  le  partite  piìi  liquide:  quelle  che  rimangono  è  da  ri- 
tenersi presentino  una  maggriore  pesantezza.  In  tali  condizioni,  quanti 
mesi,  quanti  anni  possono  occorrere  i>er  realizzare  da  due  a  tre  mi- 
liardi di  partite  siffatte?  e  quale  vantagg^io  risentiranno  i  creditori 
da  un  rimborso  a  spizzico  di  piccole  quote  dei  loro  crediti,  diluiti 
per  una  serie  di  mesi  e  di  anni? 

Oltre  a  ciò,  se  a  misura  che  la  Banca  incassa,   i.wi.-^i  4uv-to 
somme  in  rimborsi  ai  creditori,  sereno  necessariamente  due  inoon 
venienti  l'uno  più  grrave  dell'altro.  Da  un  lato  la  Banca  s<'f 
suoi  clienti  ed  ai  suoi  debitori  delle  somme  vistose,  col  pen 
creare  gravi  restrizioni  di  credito  a  danno  dell'attività  e  della  pro<iii 
zione  nazionale.  Dall'altro  lato,  a  misura  che  la  Banca  rimborsa  i 
creditoiri,  riduce  le  risorse  di  cui  dispone  per  le  sue  operazioni,  o  «i 
annulla.  La  funzione  di  una  banca  è  di  garantire  la  sicurezza  v  l;i 
disponibilità  dei  crediti  ad  essa  affidati,  e  non  di   rimborsarli    m 
massa.  La  banca  rimane  solo  di  nome,  con  tutte  le  spese  di  per^-> 


LA  CRISI  DELLA   BANCA   ITALIANA  DI    SCONTO  385 

naie,  di  locali,  di  esercizio,  e  senza  i  mezzi  di  ^adagnare  quanto 
le  occorre  per  coprirle.  Così  svanisce  a  poco  a  poco  la  vecchia  banca, 
prima  che  il  nuovo  istituto  che  le  succede  ottenga  credito,  depositi  e 
fondi  per  fimzionare. 

In  conclusione  il  sistema  dei  rimborsi  a  gocce  non  elimina  Tim- 
bar-azzo  dei  creditori,  danneggia  l'economia  nazionale,  distrugge,  in- 
vece di  ricostruire,  la  banca  caduta.  Per  ultimo  v'ha  chi  ritiene  che 
la  Banca  di  Sconto  avesse  la  possibilità  di  guadagnare  parecchie  de- 
cine di  milioni  di  lire  nette  all'anno.  Se  ciò  è  vero  —  e  dovrebbe  es- 
sere accertato  tecnicamente  —  lungi  dal  liquidare  e  distrugg^ere  l'an- 
tico organismo,  conviene  riattivarlo,  perchè  è  solo  dagli  utili  del- 
l'esercizio che  si  potranno  ritrarre  i  onezzi  atti  a  compensare  in  tutto 
o  in  parte  il  20  o  il  30%  di  perdita  sui  crediti.  Ma  se  ciò  è  vero,  è 
pure  ingiusto  saxirificare  del  tutto  i  vecchi  azionisti. 

La  Tìiob-ilizzazione  dei  crediti. 

La  mobilizzazione  dei  crediti  offre  un  sistema  assai  più  eflBcace 
per  venire  in  aiuto  dei  creditori,  che  abbiano  immediato  bisogno  di 
contanti. 

Si  può  immaginare  che  ogni  creditore  riceva,  per  raanmontare 
nominale  del  suo  credito,  una  obbligazione  od  un  certificato,  o  meglio 
un  semplice  libretto  di  credito,  chiuso  e  regolato  al  31  dicembre  1921. 
Questo  libretto,  al  {)ari  di  qualsiasi  altro  titolo  industriale,  può  es- 
sere dato  in  pegno  ad  una  banca,  può  formare  oggetto  di  anticipa- 
zione, a  vista,  cosicché  il  creditore  riceve  immediatamente  una  parte 
notevole  del  credito  suo. 

Prendasi  il  caso  di  un  correntista  c^e  possegga  un  libretto  di  cre- 
dito di  lire  50,000  della  Banca  di  Sconto.  Assai  probabilmente  egli 
può  subito  realizzare  lire  25,000,  impegnando  il  libretto  presso  una 
banca,  ed  aggiungendovi  la  sua  firma  personale.  Ma  se  è  persona 
solvibile,  può  anche  avvenire  che  una  banca  gli  anticipi  l'intera 
somma  di  lire  50,000  sulla  doppia  garanzia  del  libretto  e  della  firma 
personale  del  portatore. 

Si  supix)nga  che  le  attività  della  Banca  di  Sconto  siano  per  ora 
valutate  —  oltre  il  10  %  convertito  in  azioni  —  oltre  il  50  %  delle  sue 
passività.  Mediante  rilascio  dei  rispettivi  libretti  di  credito,  c^i 
creditore  si  potrebbe  trovare  in  grado  di  realizzare  a  vista  circa 
il  60  %  del  suo  credito,  mentre  col  sistema  dei  rimborsi  parziali  ciò 
non  può  avvenire  che  in  una  lunga  <^erie  di  mesi,  con  poca  o  nessuna 
utilità  del  creditore  bisognoso  e  dell'economia  del  paese.  Conosciamo 
un  agricoltore  che  ha  venduto  i  buoi  da  lavoro,  e  ne  ha  versato  alla 
Banca  di  Sconto  l'importo  di  circa  lire  8,000.  Se  mediante  un'antici- 
pazione ecc.  egli  può  realizzare  il  60%  del  suo  credito  (lire  4800), 
con  lieve  sforzo  in  piìi,  sostituisce  ai  buoi  venduti  una  coppia  di 
animali  più  giovani  e  meno  costosi,  e  si  cava  d'imbarazzo.  Ma  se 
egli  deve  attendere  dodici,  oppure  diciotto  mesi  —  seppure  baste- 
ranno —  per  ottener  rimborsi  graduali  fino  a  lire  4800,  la  sua  situa- 
zione diventa  oltremodo  critica,  il  malcontento  cresce,  e  l'attività  pro- 
duttiva del  paese  ne  soffre.  E  gli  esempi  di  tal  fatta  si  possono  mol- 
tiplicare a  m;igliaia  :  di  comlmercianti  che  devono  rifornirsi  di  merci, 
d'industriali  che  hanno  materie  prime  e  salari  da  pagare,  e  di  pò- 


384  I-'V  CRISI  DELLA  BANCA    ITALIANA  DI   SCONTO 

veri  padri  di  famiglia  che  hanno  immobilizzate  alla  banjca  le  somme 
necessarie  per  la  pigione  e  por  le  spese  <li  casa! 

Tutto  ciò  che  occorre  è  di  organizzare  rapidamente  un  sistema 
di  anticipazioni  con  apertura  di  conti  coirenti  attivi,  su  cui  il  credi- 
tore possa  prele\^are  e  versare.  Ed  è  nell'attuazione  di  questo  con- 
gegno, che  rientra  nelle  normali  e  sicure  operazioni  di  banca,  che 
lo  Stato  e  gl'Istituti  di  emissione  potrebbero  dare  il  loro  concorso 
senza  rischi,  senza  spese  a  carico  dei  contribuenti  e  senza  perdite 
per  alcuno.  Tutto  «al  piij  si  può  discutere  se  abbiano  ad  essere  auto- 
rizzati a  fare  anch'essi  direttamente  queste  operazioni,  o  se  debbano 
gl'istituti  di  emissione  accettarle  mediante  girata  da  parte  di  Ijanche 
private  almeno  per  i  grossi  conti. 

In  quest'ultimo  caso  l'Istituto  di  emissione  avrebbe  tre  garanzie  : 

la  firma  della  banca  cedente; 

il  libretto  di  credito; 

la  firma  di  un  presentatore  sohibile.  In  generale  i  correntisti 
di  una  banca  lo  sono  sempre. 

Sentiamo  per  i  primi  le  difficoltà  e  le  obiezioni  anche  di  questa 
idea,  che  presentiamo  soltanto  a  titolo  di  studio.  Ma  in  un  naufragio 
così  grande  non  possiamo  sperare  di  giungere  alla  riva  che  scegliendo 
il  male  minore.  Un  vantaggio  intanto  è  evidente:  quello  di  ridurre 
al  ininimo  e  forse  anche  di  evitare  qualsiasi  aumento  di  circola- 
zione. Infatti  i  creditori  della  Banca  di  Sconto  si  possono  dividere 
in  due  grandi  categorie: 

coloro  che  hanno  bisogno  di  ritirare  una  parte  almeno  dei  loio 
crediti  per  vere  necessità  personali; 

coloro  che,  presi  dal  pànico,  ora  ritirerebbero  senz'altro  delle 
somme,  ohe  prima  della  moratoria  a\Tiebbero  lasciate  presso  la  Banca 
per  iempo  indefinito. 

Se  procediamo  col  sistema  dei  TÌinhorsi,  tutti  i  creditori  si  pre- 
senteranno agli  sportelli  della  soda  Banca  Nazionale  di  Sconto  a  riti- 
rare le  loro  quote,  e  la  Banca  difficilmente  potrà  da  sola  sopportare 
uno  sforzo  così  grande,  cosicché  si  richiederà  il  largo  intervento  degli 
istituti  di  eniissione,  a  fine  di  evitare  nuove  e  maggiori  diflBcoltc'i. 
Invece  col  sistema  della  mobilizzazione  dei  crediti,  quasi  soltanto 
quella  parie  dei  creditori  che  ha  bisogno  effettivo  di  danaro  j^er  le 
sue  spese  personali  attingerà  credito,  e  nella  minore  misura  possibile 
per  risparmiare  gli  interessi.  Le  domande  di  fondi  diminuiranno  per 
due  vie  diverse:  come  numero  di  richiedenti  e  come  ammontare  delle 
somme  richieste.  Oltre  ciò,  la  minore  domanda  di  fondi,  invece  di 
concentrarsi  sulla  sola  Banca  Nazionale  di  Sconto,  si  andrà  disse- 
minando fra  tutte  le  banche  e  le  Casse  di  risparmio,  che  vorranno 
partecipare  a  questa  mobilizzazione  dei  crediti,  che  è  indispensabile 
anche  nell'interesse  dell'organismo  bancario  del  paese.  Di  fronte  alle 
cifre  moderne  del  movimento  monetario  nazionale,  anche  le  centinaia 
di  milioni  di  credito,  accordate  ri  pegno  dei  libretti  della  Banca  di 
Sconto,  passerebbero  pressoché  inavvertite. 

Alla  loro  volta  i  creditori  —  giova  sperarlo  —  non  andranno  in- 
contro ad  oneri  apprezzabili.  Noi  confidiamo,  come  diremo  in  ap- 
presso, che  si  possa  continuare  a  corrispondere  il  3  %  all'anno  ai 
creditori  attuali  della  Banca  di  Sconto.  Costoro  alla  loro  volta  do- 
vrebbero pagare  dal  6  al  7  %  sulle  anticipazioni  da  essi  prese  con 
intfjresse  scalare  sul  conto  corrente;  cosicché  le  due   partite  d'in- 


LA   CRISI  DELLA  BANCA    ITALIANA   DI    SCONTO  3S5 

tepeasi  presso  a  poco  si  compenserebbero.   Gi  spieghiamo  con  un 
esempio  : 

un  creditore  ha  L.  iOO,000  (presso  la  Banca  di  Sconto,  e  sopra 
L.  90,000  continua  a  ricevere  il  3%  all'anno,  cioè  L.  2700.  Si  fa  aprire 
oresso  una  banca,  sulla  garanzia  del  libretto,  un  conto  corrente  at- 
ivo  di  lire  50,000,  ad  un  interesse  fra  il  6  e  il  7  %,  il  che  importa 
da  3000  a  3500  lire  all'anno.  Tenendo  conto  degl'interessi  scalari,  è 
probabile  che  in  fin  d'anno  interessi  attivi  e  passivi  si  pareggino. 
Oltre  a  ciò  H  creditore  concorre  ancora  al  dividendo  sulle  azioni, 
cosicché  è  da  sperare  che  ciascun  creditore,  che  ne  abbia  realmente 
bisogno,  possa  incassare  subito  il  60%  del  suo  credito,  senza  sotto- 
stare ad  alcun  sacrifìcio.'  E  d'altra  parte,  se  perdita  v'ha  da  essere, 
meglio  che  si  verifichi  sugl'interessi  o  sul  capitale? 
In  fondo  il  sistema  della  mobilizzazione  dei  crediti,  se  bene  or- 
ganizzato, può  dare  subito  a  ciascun  creditore,  senza  sacrifìcio  ap- 
prezzabile da  parte  sua,  il  60%  del  suo  credito,  e  questa  quota  può 
-alire  a  gradi,  a  misura  che  si  presentino  migliori  le  condizioni  della 
\ecchia  Banca  di  Sconto.  Esso  non  perturba  il  mercato  finanziario, 
ne  il  mercato  monetario,  né  l'andamento  attuale  degli  istituti  di 
emissione,  mentre  lo  Stato  e  i  contribuenti  avrebbero  ancora  il  van- 
taggio del  provento  delle  imposte,  che  graver^bero  sulle  nuove  ope- 
razioni di  credito. 

Né  è  possibile  dimenticare  che  le  grandi  orisi  monetarie  nella 
-toria  non  si  vinsero  quasi  mai  che  mediante  l'intervento  degli  Isti- 
mti  di  emissione,  e  quasi  sempre  con  l'aumento  della  circolazione 
oltre  i  limiti  l^ali.  Tutti  sanno  il  culto  che  l'Inghilterra  ha  per  la 
legge  bancaria  di  Peel  nel  1844,  eppure  in  tre  cireostanze  di  crisi  il 
Governo  inglese  non  ha  esitato  ad  autorizzare  con  semplice  atto  del 
potere  esecutivo  un'eccedenza  di  circolazione  ed  una  sospensione 
della  legge,  da  convalidarsi  poscia  dal  Parlamento: 

1847  —  prima  sospensione  della  legge  bancaria  mediante  let- 
tera del  tesoro; 

1857  —  fallimento  della  Banca  di  Glasgow:   seconda  sospen- 
sione della  legge  bancaria; 

1866  —  fallimento  della  ditta  Overend,  Gumej'  e  Co.  :   terza 
sospensione  della  legge  bancaria. 

E  ben  maggiori  furono  le  misure  escogitate  ed  attuate  da  Lloyd 
George  allo  scoppio  della  guerra  nel  1914.  Le  grandi  crisi  monetarie 
-i  possono  talora  prevenire  con  regime  severo  della  circolazione  :  di 
rado  si  possono  con  esso  reprimere. 

Come  abbiamo  premesso,  si  tratta  semplicemente  di  scegliere  il 
male  minore. 

La  ricostntzione. 

L'auspicata  ricostruzione  del  grande  organismo  di  credito,  rap- 
presentato dalla  Banca  di  Sconto,  non  potrà  effettuarsi  che  mediante 
un'austera  e  rigida  amministrafcione  della  nuova  Banca  Nazionale. 
A  quest'opera  debbono  sopratutto  cooperare  gl'impiegati,  che  hanno 
limostrato  tanta  viva  simpatia  per  il  loro  Istituto.  Pur  troppo  essi 
trovano  innanzi  ad  una  dolorosa  alternativa:  o  dare  un  rendi- 
mento maggiore,  oppure  correre  il  rischio  di  perdere  i  loro  posti. 
La  nuova  gestione  deve  penosamente,  ma  risolutamente  recidere 
^  tutte  le  grosse  spese  di  succursali  non  attive,  di  palazzi  ed  uffici  di 


386  LA  CRISI  DELLA   BANCA    ITALIANA   DI    SCONTO 

liisso,  di  stipeiidi  eccessivi,  cki  brevi  orari  e  di  personale  di  poci 
rendimento.  Gl'impiegati,  dopo  i  sacrifìci,  volonterosamente  accet- 
tati, saranno  i  primi  a  provarne  la  soddisfazione  morale,  colla  tran- 
quillità delle  loro  esistenze  ed  un'equa  retribuzione. 

La  ricostruzione  deve  effettuarsi,  come  già  si  operò  quella  della 
Banca  d'Italia:  accrescere  le  entrate,  all'uopo  anche  mediante  un 
lieve  aumento  del  saggio  degl'interessi  attivi,  e  diminuire  al  mas- 
simo le  spese.  In  tal  guisa  l'eccedenza  delle  entrate  sulle  spese  la- 
scerà ogni  anno  un  profitto  netto,  col  quale  costituire  un  fondo  d'ac- 
cantonamento, cJie  a  gradi  liquiderà  —  in  parte  o  in  tutto  —  la 
quota  di  perdita  del  20  o  del  30  %,  che  ora  si  teme. 

I  punti  fondamentali  di  questa  ricostruzione  potrebbero  essere 
i  seguenti,  che  presentiamo  non  come  un  progetto,  neppure  come  una 
proposta,  ma  come  semplici  elementi  di  discussione  : 

a)  Si  istituisce  una  nuova  Banca  Nazionale  di  Sconto  con  un 
capitale  azioni  di  300  milioni  di  lire  in  contanti,  ed  una  riserva  di 
altri  100  milioni  pure  in  contanti.  Queste  somme  saranno  sommi- 
nistrate a  gradi  dialla  Banca  Italiana  di  Sconto  sui  primi  incassi  di- 
sponibili da  essa  effettuati.  Le  dette  somme  saranno  accreditabe  come 
quote  proporzionali  di  rimborso,  a  favore  dei  creditori  per  somme 
superiori  a  lire  1000.  I  creditori  per  somme  inferiori  si  spera  siano 
rimborsati  in  contanti. 

b)  Ciascun  creditore  riceverà  per  l'ammontare  nominale  del 
suo  credito  im  libretto  chiuso  e  regolato  al  31  dicembre  1921. 

La  Banca  Nazionale  di  Sconto,  le  Casse  di  risparmio  e  —  ove 
lo  si  creda  —  gl'Istituti  di  emissione,  sono  autorizzati  ad  aprire  conti 
correnti  attivi  fino  alla  concorrenza  della  metà  dei  rispettivi  libretti, 
con  la  garanzia  del  libretto  stesso  e  con  la  firma  di  un  presentatore 
solvibile. 

Sarebbe  anzi  utile  organizzare  fin  d'ora  presso  le  banche  esi- 
stenti siffatte  anticipazioni  in  conto  corrente,  prima  ancora  che  fun- 
zioni la  nuova  Banca  Nazionale,  che  certo  richiede  non  poco  tempo. 

A  queste  operazioni  si  applicano  le  tasse  che  colpiscono  lo  sconto 
delle  cambiali. 

e)  La  Banca  Nazionale  assume  la  gestione  e  l'amministrazione 
della  Banca  di  Sconto,  in  vista  del  suo  graduale  e  completo  assorbi- 
mento, ma  non  assume  alcuna  responsabilità  per  lo  scoperto  even- 
tuale. 

Gli  atti  intemi  fra  le  due  banche  sono  esenti  da  tasse. 

d)  Le  entrate  lorde  annuali  delle  due  Banche  di  Sconto  for- 
meranno un'unica  partita  e  serviranno  a  fronteggiare  le  spese  nel- 
l'ordine seguente: 

imposte  e  tasse; 

spese  d'amministrazione,  di  esercizio,  di  personale  e  di  locali, 
ricondotte  alla  maggiore  economia; 

interessi  passivi  della  Banca  Nazionale; 

dividendo  nrvn  <iìiperiorp  al  6%  sulle  azioni  della  Banca  Na 
zionale; 

interessi  non  sui>eriori  al  'ò  %  ai  creditori  della  Banca  di  Si'onto. 

Ogni  rimanenza  andrà  a  costituire  im  fondo  d'accantonamento 

\per  ripianare  in  parte  od  in  tutto,  anche  mediante  speciali  o]Terazioni 

di   assiri  inazione  o  <!'  rrp<Mto,   ]e  jiordito  (lf»lla   Banca   di   Sconto,  da 


LA  CRISI  DELLA   a\NC\  ITALL\NA  DI   SCONTO  38r 

parte  dei  creditori  e,  se  possibile,  anche  da  parte  degli  azionisti 
attuali. 

e)  Speciali  disposi^icMii  vieteranno  alla  Banca  Nazionale  gli 
acquisti  di  titoli  industriali  e  le  j>artecipazioni  industriali,  e  regole- 
ranno l'entità  dei  riporti  e  la  misura  massima  del  fido  da  accordarsi 
ad  una,  sola  azienda. 

f)  La  Banoa  sarà  amministrata  da  un  Comitato  soeUo  dagli 
Istituti  di  emissione,  con  una  Ck>mmissione  di  vigilanza  rappresen- 
tante dei  diversi  interessi. 

g)  La  Banca  Naadonale  rientrerà  nel  diritto  comune  tosto  che 
funzioni  a  sportelli  aperti,  anche  per  la  liquidazione  della  Banca  di 
Sconto,  con  quell'assetto  definitivo,  che  sarà  a  suo  tempo  stabilito 
fra  la  Banca  stessa  e  lo  Stato. 

La  sistemasione  nionetaria. 

L  Italia  sta  superando  la  scossa  che  La  crisi  della  Banca  di  Sconto 
ha  prodotto.  Il  paese  ha  dimostrato  calma  e  senno,  ed  è  a  sperare  che 
continui  sulla  stessa  via.  Ora  preme  provvedere  anzitutto  alle  giuste 
necessità  di  quei  creditori  della  Banca  di  Sconto,  che  si  trovano  stretti 
dial  bisogno  reale  di  contanti. 

La  sistemazione  dei  crediti  e  l'effettuazione  dei  rimborsi  su  vasta 
scala  per  miliardi  di  lire,  purtroppo  non  può  essere  opera  facile  e 
rapida.  Si  è  perciò  che  abbiamo  indicato  l'opportunità  di  un  provve- 
dimento provvisorio  e  temporaneo,  ma  immediato  che,  da  doniam 
stesso,  potrebbe  essere  attuato  da  tutte  le  banche  del  paese  che  hanno 
mezzi  disponibili.  La  mobilizzazione  dei  crediti  non  deve  sostituire 
affatto  la  sistemazione  iiK>netaria  della  Banca  di  Sconto:  deve  sem- 
plicemente precederla  per  dare  tempo  a  studiare  e  ad  attuare  i  prov- 
vedimenti definitivi.  Per  intanto  noi  sappiamo  che  i  crediti  della 
Banca  sono  laicamente  coperti  oltre  il  50  per  cento  dalle  attività,  ed 
è  su  queste  basi  che  possiamo  fare  i  primi  passi.  Riassumendo,  ecco 
alcuni  dei  punti  principali  che  paiono  meritevoli  di  esame  : 

1°  Ammissione  immediata  alle  anticipazioni  in  conto  corrente 
dei  libretti  di  credito  della  Banca  di  Sconto  con  garanzia  personale 
del  presentatore  e  fino  al  50  per  cento  del  loro  ammontare  nominale 
presso  le  banche  in  genere  e  possibilmente  anche  presso  le  Gasse  di 
risparmio  e,  con  certe  limitazioni,  presso  gl'Istituti  di  emissione; 

2*  Costituzione  diella  nuova  Banca  Na2àonale  di  Sconto  con  ca- 
pitale tutto  in  contanti; 

3°  Accertamento  e  liqfuidazione  graduale  delle  partite  immobi- 
lizzate dalla  Banca  di  Sconto; 

4°  Riordinamento  completo  dell'organismo  di  credito  costituito 
dalle  due  Banche  di  Sconto,  sopra  basi  di  giusta  economia; 

5°  Sistemazione  definitiva  della  Banca  in  base  ai  risultati  con- 
creti dell'accertamento. 

Un  metodo  siffatto  ha  il  vantaggio  di  provvedere  subito  e  per 
larga  somma  ai  creditori  piìi  disagiati,  mentre  forse  facilita  il  desi- 
derato accordo  fra  lo  Stato,  la  Commissione  Giudiziale,  il  Consorzio 
dei  creditori  e  gli  egregi  uomini  preposti  alla  gestione  temporanea 
della  Banca.  Tutti  sono  animati  da  comuni  intenti  e  da  fervido  buon 
volere,  ed  il  nostro  augurio  è  che  riescano  a  conciliare  al  più  presto 
i  legittimi  interessi  privati  dei  creditori  della  Banca  col  vantaggio 
della  economia  monetaria  nazionale.  Argentarius. 


TRA  LIBRI  E  RIVISTE 


I  cardinali  Ratti  e  Gasparri 
a  Giacomo   Boni. 

Un  uomo  semplice,  divinamente  sem- 
plice, che  armonizzava  nella  dottrina 
le  cogitazioni  più  eccelse  del  penr-iero 
e  le  creazioni  più  nobili  dell'arte,  o 
saliva  per  ispirarsi  ai  capolavori  della 
Natura,  tra  roccie  aspre  ed  insuperati 
ghiacciai,  mi  scriveva  dal  confine  a- 
siatico  dov'era  sentinella  della  civiltà 
europea  : 

NUNTIATURA   APOSTOLICA 

Poloni  AE 

Varsavia,  31  maggio  1901. 

///.  e  caro  Boni, 

La  benevola  ed  indulgente  sua  let- 
tera delli8-4-2i  mi  ha  tutt'insieme  com- 
mosso, confuso  e  giocondamente  im- 
pressionato; tanto  apprezzata  e  cara 
mi  è  la  sua  amicizia;  tanto  prezioso 
e  sensibile  il  nuovo  segno  ch'Ella  me 
ne  dà.  Grazie  di  cuore. 

Delle  cose  mie  che  dirle?  Dico  col 
buon  S.  Martino  :  non  recuso  laborem 
per  quanto  nuovo,  inusitato  e  immane. 
Non  voglio  neanche  confondermi  troppo 
né  per  la  dignità  pastorale  né  per  l'o- 
nore cardinalizio  ;  con  la  prima  l'Au- 
gusto Pontefice  ha  voluto  soddisfare 
al  desiderio  di  tanti  buoni,  troppo 
buoni  per  me  ;  col  secondo  ha  voluto 


fare  un  gesto  di  sovrana  cortesia  e  a 
questa  nobile  Polonia  di  fresco  risorta 
e  ancora  tanto  travagliata  ed  alla  mia 
cara  Città  e  Chiesa  di  Milano. 

La  disposizione  Pontificia,  per  quanto 
grave,  mi  lascia  godere  una  gran  pace 
e  mi  infonde  una  grande  fiducia  ne- 
gli aiuti  umani  e  divini,  tanto  più 
quanto  più  assente  fu  ogni  volontà 
mia  ed  ogni  mia  possibilità  di  scelta. 

Sono  comandato  a*d  un  posto  diffi- 
cile; quando  non  si  tratta  che  di  ub- 
bidire, mi  par  di  valere  per  due...  Ed 
è  proprio  cosi  :  per  me  e  per  chi  mi 
comanda. 

Mi  congratulo  dei  Suoi  belli  e  prov- 
vidi lavori  ;  sarò  felice  di  aiutarla  in 
un'opera  di  cosi  benefico  e  necessario 
apostolato. 

La  spero  bene  ;  ogni  bene  Le  au- 
guro e  prego  con  desiderio  —  e  fidu- 
cia —  di  presto  rivederla  nella  sua 
bellissima  tra  le  dimore  belle. 

dev.mo  obb.mo  suo 
t  A.  Ratti. 

Prima  che  giungesse  a  Roma  que- 
sta sua  lettera,  venne  il  neo  cardi- 
nale-arcivescovo di  Milano  a  dirmi 
del  suo  grande  predecessore  S.  Am- 
brogio, il  quale,  vissuto  in  tempi  più 
calamitosi  dei  nostri,  vedeva  nella 
legge  universale  di  misura  —  armo- 
nizzante le  energie  antagonistiche,  sim- 
boleggiate   nelle    strofe    alterne    del 


THA    l-TBai    E    RIVISTE 


589 


canto,  —  una  base  su  cui  ricostruire 
la  famiglia  e  l'aggregato  sociale. 

Erede  dei  Pontifices  romani,  dei 
prisco-latini  o  italici,  costruttori  di  una 
Sacra  via  ideale  alle  nazioni,  Pio  XI 
dirige  il  massimo  Osservatorio  ter- 
restre, faro  di  segnalazione  e  guida 
ai  cuori  umani,  le  cui  profondità  non 
sono  misurabili  dalle  più  pompose 
cifre  dell'astronomo. 

La  divina  semplicità,  caratteristica 
delle  anime  grandi,  tuteli  Pio  XI;  sug- 
gerisca idee  pure  alla  sua  mente  sana, 
nutrita  col  pensiero  e  la  divinazione 
di  millenni,  invigorita  con  la  luce  sme- 
raldo dei  prati  d'alta  montagna,  col 
roseo  dei  graniti  ed  il  candore  deile 
nevi  eteme  ;  rievochi  pensieri  ed  ima- 
gini  d'eterna  bellezza,  —  sublime  nelle 
azioni  belle,  —  dall'anima  sua  di  Uomo 
Giusto,  sempre  calma,  come  il  cielo 
sopra  la  luna  è  sempre  sereno. 


(gà). 


* 
«  « 


I  nostri  lettori  hanno  presente  la 
benefica  campagna  che  il  nostro  valo- 
roso collaboratore  conduce  contro  l'ai- 
coolismo  che  purtroppo  costituisce  uno 
dei  maggiori  danni  della  società  mo 
derna.  Intorno  ad  essa  l'illustre  cardi- 
nale Gasparri  cosi  scriveva  a  Giacomo 
Boni: 


Sfgreteria  di  Stato 
DI  Sua  SaxtitI 
N.  157 II 

Dsl  Vaticano,  »4  gecnaio  1931. 

La  predicazione  apostolica  dalla 
S.  V.  lU.ma  opportunamente  ricor- 
data neirofi"rire  a  Sua  Santità  il  Suo 
dotto  lavoro  sul  Vinismo,  nulla  ha 
perduto,  neppure  ai  giorni  nostri  così 
lontani,  della  sua  forza,  contro  un  vi- 
zio funesto  alla  Religione  non  meno 
che  alla  vita  morale  e  civile  dell'uomo 
e  della  società. 

Sinceramente  deplorando  gli  abusi 
dovunque  essi  si  trovino  e  fervida- 
mente auspicando  che  la  sperimentata 
efficacia  del  sentimento  rehgioso  sia 
favorita  anhe  in  questo  campo  per  il 
suo  alto  valore  etico  e  trascendente, 
il  Santo  Padre  è  assai  lieto  che  l'au- 
torevole parola  della  S.  V.  faccia  cosi  de- 
gnamente eco  alla  parola  della  Chiesa, 
e  Le  porge  di  cuore,  insieme  coi  più 
vivi  ringraziamenti  per  il  cortese  omag- 
gio e  con  ricambiati  auguri  per  l'anno 
nuovo,  le  Sue  auguste  felicitazioni  ed 
il  voto  di  ogni  bene. 

Con  sensi  di  alta  stima  mi  professo 

della  S.  V.  IlLma 
dev.mo 

P.  Card.  Gasp  arri. 
lUmo  Sienor  Commendatore 
Prof.  Arch.  Giacomo  Boni 

Palatino  Roma. 


Nbmi, 


LIBKI  E  RECENTI  PUBBLICAZIONI 


t 

A.  Baccelli.  Tm  mèta.  Koniaiizo. 
—  Livorno,  Giusti.  L.  7. 

A.  Oriani.  Lfl  lotta  inditica  in 
Italia.  —  Firenze,  «  La  V^ooe  »,  1921. 
V'oli.   I-III.  L.  10. 

A.  Silvio  Novaro.  Due  rovine. 
Racconto.    —    Milano,    Treves.    L,    7. 

C.  Bernardi.  L'iìuiibo  e  altre  no- 
velle. —  Milano.   Treve*.  L.   5. 

C.  Dk  Flaviis.  L'aììwre  di  l'ulci- 
nella.    —   Milano,    Treves.    L.    5. 

C.  Porta.  Poesie  milan-esi.  —  Mi- 
lano, Mondadori.  L.  20. 

D.  Provenzal.  Il  Dante  dei  pic- 
roli.  —  Fiivnae,  a  La  Voce  »,  1922. 
L.   9. 

Le  più  belle  pagine  di  R.  Monte- 
cuccoli,  aoeJte  da  L.  Cadorna.  —  Mi- 
lano,  Treves,   1922. 

Le  più  belle  pagine  di  Alessandro 
Manzoni,  scelte  da  G.  Papini.  —  Mi- 
lano, Treves,   1921. 

M.  TiBALDi  Chiesa.  Omero  e  Glad- 
ston-e,  con  prefazione  di  E.  Roma- 
gnoli. —  Bologna,  Zanichelli,  1922. 
L.    lo. 


R.  Sacchetti.  La  vita  e  le  opere 
di  lioberto  Sacchetti.  —  Milano,  Tre- 
ves,   1922.   L.  8. 

T.  MuRRi.  La  vin^:ifrice.  Roman- 
zo. —  Bologna,  Cappelli.  L.   7. 

D.  Fazzini.  Cento  sonetti  in  ver- 
narolo  fiorentino.  —  Firenze,  Batti- 
st€41i.    L.   5. 

V.  Grandi.  Il  romanzo  interiore  di 
Uosorin/)  della  Malorsa.  —  Firenze, 
Battistelli.    L.    6. 

A.  MoDUGNO.  Bicordi  bolognesi.  — 
Bologna,    Oberosler,    1922.    L.    5. 

Q.  Cardklli  Fumacchi.  Critica  let- 
teraria e  ]X)litica.  —  Bologna,  Obe- 
rosler,  1922.   L.   9. 

T.  Al.\ckvich.  Dio,  Vuomo  e  l'al- 
di-là.  Quello  che  può  rivelare  lo  spi- 
ritismo. —  Bologna,  ObM^Jsler,  1921. 
L.  18. 

M.  Vinelli.  /  limiti  della  produt- 
tività della  terra.  —  Torino,  Bocca, 
1922.   L.   12. 

L.  C.  Licata.  Diritti  dell'anima. 
Commedia  in  versi.  —  Canicatti, 
1922.    L.  5. 


PUBBLICAZIONI  STRANIERE. 


G.  Peel.  The  Private  Letters  of 
Sir  Robert  Peel.  —  London,  lohn 
Murray. 

E.  Zyromski.  Eugènie  de  Guérin. 
—  Paris,  Colin,  Frs.  7. 

M.  Rbynìss-Moulaxjr.  Les  Dieux 
s'en  von-t.  —  Paris,  Plon,  1922. 
Frs.   7. 

R.  Duverne.  Brindine,  Pacha  et 
C.ie.   —  Paris,   Plon,   Fra.   7. 

Dictionary  of  Botanical  equivalents 


French-English,  German-English.  — 
Baltimora,  Williams  e  Wilkins  Co., 
1922. 

L.  Carnovale.  Th.e  Di^rmament 
Conferen-ce  at  Washingtow  luill  be  a 
Failure.  Second  edition.  —  Chicago, 
1922.   Cent.   0.25. 

I.  AuLNEATT.  Le  Bhin  et.  la  Fran- 
re.  Histoire  politiqu*  et  économique. 
—  Paris,   Plon,   1921.   Frs.  8. 


Ugo  Messiki.  BetponaabiU 


Bom»  —  Ditta  Araani  di  Mario  Ooarrtor. 


^?l 


INDICE  DEL  VOLUME  CCXVI 

(SERIE  VI  —  1922; 

Fascicolo  1195   —  T  Gennaio   1922 

La  Sanfelice  -  Poema  tragico  -  Atto  I  —  G.  A.  Cesareo  .  Pag.      3 

Ricordanze    e    augurii    d'un    recchio   insegnante   —    Isidoro    Del   Lungo, 

senatore  .............     18 

Lord   J.    Bryce  e  la  democrazia   —  Achille  Loria^   senatore  .         .28 

L'antico  disino  delle  regioni:    Cavour  -  Farini  -  Minghetti  —  Ernesto 

Artom,    senatore 37 

Il  caso  di  Bianca  Neri  —  Alfredo  Baccrlli.  senatore  .50 
II  pittore  Luigi  Serra  (1846-1888)  —  Francesco  Sapori  ....  58 
Nel  centenario  di  Siato  V  —  Alceo  Speranza  .  .  .67 
Gli  ultimi  (t  Cimbri  »  -  Tramonto  d'una  parlata  —  Litigi  Mbssbdaglia  .  81 
Antichi   fasti   e  presenti  condizioni  della   Sicilia  —  M.    Vaccaro  89 

La  gara  della  pietà  -  Per  i  bimbi  Baldncci 102 

Fascicolo   1196  —   16   Gennaio  1922. 

La  SanfeUoe  -  Poema  tragico  -  Atto  II  —  G.  A.  Cesareo    .  .  Pag.  106 

Lettere  a  mie  padre  dall'America  (1866-1867)  —  LrriGi  Adamoli,  sciatore  120 

Ad  tellurem   alendam   —  Giacomo  Boni 134 

Il  mondo  della  fantasia  e  dell'arte  di  E.  T.  A.  Hoffman  —  Rodolfo  Bot- 

TACCHIARI 141 

H  vecchio  -  Nov^a  —  Mario  Px'ccini     ........  153 

n  deqentramento  —  Dante  Pktaccia  .  161 

n  conte  Giacomo  De  Martino  e  la  sna  oi)era  in    Cirenaica    —    Ernesto 

Qtteirolo 173 

Notizia   letteraria  :   «  Una   religiosità   inconsapevole  »  :    Adriano  Til^er  — 

Ernesto   Bonaittti 186 

Tra  libri  e  riviste  —  I  nostri  editori:  Antonio  Vallardi  -  Elementi  di 
noologia  -  Scavi  in  Laguna  -  La  questione  rtmiana  -  «  Vittoria  »  di 
Giorgio  Meredith  -  Un  diario  di  guerra  -  Piscicoltura  olandese  -  From 
Waterloo  to  the  Marne  -  In  biblioteca  -'  Graf  istoria  della  Regioaie  Ita- 
lica -  Per  i  bimbi  Balducci  —  Nemi 190 

Ubri  e  recenti  pubbUcazioni     ..........  200 


3ìt- 


Fascicolo   1197  —   l"  Febbraio  1922. 


11  pontificato  di  Benedetto  XV  e  la  politica  ecdesiastioa  italiana  —  A.  C. 

Jemou) Pag.  201 

La  Sanfelice  -  Poema  tragico  -  Atto  III  —  G.  A.  Cksareo  ....  208 
Lettere  a  mio  padre  dall'America  (1866-1867)  —  Luigi  Ad.\mou,  senatore  221 
Jl  villaggio  del  Parini  <>  il   potata   Alessandro  Arnaboldi  —  Raffaki.i.o  Bak- 

BIKRA  S.ió 

Un  poeta  inglese:   William  hniest  Henley  —  Anna  Benedetti  243 

Luci  e  specchi  -  Novella  —  Clarice  Tartufari 249 

Il  naturalismo  umanistico  di  Roberto  Ardigò  —  Giovanni  Makchesini  .  263 
La  situazione  dell'Ungheria  —   Alberto   Berzbviczv,    ex-Pri^sidf ntc   <U>Il;i 

Camera  dei  deputati   d'Ungheria      ....  276 

Tra  libri  e  rivislie  —  I  nostri  editori:  Loescher-Chiantorc  -  in  iioro  <ii 
finaniva  -  Onoranze  a  Sir  James  Frazer  investigatore  dei  riti  prisco- 
Italici  -  I  consigli  di  un  gioimalista  -  Il  teatro  e  i  fanciulli  -  Caserme 
tedesche  -  Per  la  cultura  nazionale  -  Usanze  della  società  italiana  nel 

Seicento  -  Amburgo  —  Nehi 268 

Libri  e  recenti  pubblicazioni  296 


Fascicolo  11S8  —    16  Febbraio  1922. 

Il  centenario  delle  casse  di  risparmio  vienete  —  Luigi  Lxtzzatti,  senatore 

-  ministro  di  Stato Pag.  297 

La  Sanfelice  -  Poema  tragico  -  Atto  IV  —  G.  A.  Cesareo    ....  302 

Beatrice  —  Sidney  Sonnino,  senatore 318 

Il  programma  -  Novella  —  Ossip   Félyne 337 

Alessandro   Manzoni,    l'unità  d'Itaha   e  la   questione   romana  —  Nunzio 

VIaccaIìLuzzo 345 

La  trasformazione  del  latifondo   in   Sicilia  e  il  problema   meridionale  — 

Giovanni    Lorenzoni 357 

Pio  XI  e  la  nuova  situazione  politica  del  Papato  —  A.  O.  Jeholo  .  372 

Problemi  del  giorno:    La  crisi  della  Banca  Italiana  di  Sconto  —  Argbn- 

TARIU8 380 

Tra  libri  e  riviste  —  1  cardinali  Ratti  e  Gafiparri  a  Giacomo  Boni  —  Nbmi  388 
Libri  e  recenti  pubblicazioni 390 


NUOVA 


ANTOLOGIA 


LETTERE,  SCIENZE  ED  AMI 


SESTA  SERIE 


MARZO-APRILE  1922 


VOLUME  CCXVn  —  DELLA  RACCOLTA  CCCI 


EOMA 

DIREZIONE  DELIBA    <  NUOVA  ANTOLOGIA.  > 
±*IAZZA  DI  Spagna,  Via  di  S.  Sebastiano,  3 

i922 


PKOPRIÈTÀ   LETTERARIA 


Soma  —  sub.  Lito-Tipogratioo  DitU  B.  Arnuuii  —  Pianato  Flamiaio,  SK. 


IL  DIO  DEI  VIVENTI 


ROMANZO 


Iddio  non  i  Dio  dei  morti,  ma  Dio  dei  -viveàti. 

UAMSO  xa. 


Le  cose  erano  andafe  come  la  famiglia  Barcai  sperava.  Il  fra- 
tello maggiore,  Basilio,  scapolo,  ma  padre  di  un  figlio  illegitimo, 
era  morto  senza  lasciare  iestamento.  Così  i  suoi  beni  tornavano  al 
fratello  minore,  Zebedeo;  il  patrimonio  Barcai  si  ricomponeva  come 
ai  tempi  del  vecchio  nonno  il  quale  aveva  costretto  due  suoi  figliuoli 
a  farsi  preti  e  una  figlia  a  non  prendere  marito  perchè  i  suoi  beni 
non  andassero  divisi. 

E  la  tradizione  promett-eva  di  continuare,  perchè  Zebedeo  non 
aveva  che  un  figlio,  e  la  gente  diceva  che  quel  figlio  era  rimasto 
unico  per  volontà  dei  genitori,  nella  speranza  appunto  che  lo  zio 
Basilio  morisse  scapolo. 

Le  cose  erano  dtmque  andate  come  si  prevedeva,  e  la  gente, 
data  la  tradizione  dei  Barcai,  non  si  meravigliava  della  poca  co- 
scienza del  morto,  il  quale  non  aveva  lasciato  nulla  al  figlio,  e  che 
d'altronde  era  morto  d'improvviso  d'un  male  al  cuore  da  lui  sempre 
trascurato. 

Non<jstante  l'eredità,  la  sua  morte  aveva  impressionato  profon- 
damente il  fratello,  col  quale  si  amavano  sempre  coame  da  bambini 
e  si  aiutavano  a  vicenda  n^li  affari  e  nelle  vicende  della  vita.  ¥&sì 
abitavano  la  stessa  casa,  divisa  in  due  parti  eguali,  e  col  cortile  in 
comune:  una  parente  povera  faceva  i  servizi  a  Basilio,  ma  poiché 
era  molto  vecchia  la  moglie  di  Zebedeo  l'aiutava. 

La  sera  dopo  il  funerale  Zebedeo  uscì  di  casa  tutto  incappuc- 
ciato e  andò  dall'amica  del  fratello. 

11  suo  pensiero  fisso  era  di  aiutare  in  qualche  modo  lei  e  il 
ragazzo:   la  sua  coscienza  glielo  imponeva  nettamente. 

La  donna  abitava  non  troppo  distante,  in  una  casetta  di  pro- 
prietà del  morto  :  anzi  Zebedeo  ricordava  che  la  relazione  peccami- 
nosa era  nata  appunto  dal  fatto  che  lei  e  il  marito,  fabbro  ferraio, 
tenevano  da  molti  anni  la  casa  in  affitto;  un  giorno  l'uomo  decise 
di  andare  in  America  in  cerca  di  fortuna  e  durante  la  sua  assenza 
la  moglie  si  consolò  col  padrone  di  casa. 

Il  fabbro,  avvertito  da  lettere  anonime,  era  tornato  col  propo- 
sito di  spaccare  la  testa  col  suo  martello  ai  due  amanti;  ma  in  viaggio 


4  IL   DIO   DEI    VIVENTI 

un  grave  male  lo  aveva  colto,  una  iparalisi  alle  gambe  :  la  gente  di- 
ceva per  opera  d'una  malia  della  moglie. 

Il  fatto  sta  ch'egli  s'era  fermato  nel  paese  di  sbarco,  dove  con 
l'aiuto  dei  quattrini  portati  dall'America  aveva  aperto  un  negozio 
di  ferramenta  che  gli  rendeva  molto. 

Di  tanto  in  tanto  scriveva  lettere  violente  alla  moglie,  minac- 
ciando di  ucciderla,  ma  non  si  faceva  mai  vivo. 

Zebedeo  pensava  a  tutte  queste  cose  camminando  rasente  i  muri 
per  non  farsi  riconoscere  dai  pochi  passanti.  La  notte  era  chiara, 
illuminata  da  una  vivissima  luna:  quando  attraversava  qualche 
spazio  libero  egli  vedeva  la  sua  ombra  disegnarsi  sul  terreno  con 
contomi  nettissimi  come  una  figura  dipinta  in  nero,  una  figura  un 
po'  misteriosa,  quasi  diabolica,  col  profilo  del  cappuccio,  il  cappotto 
stretto  alla  vita,  le  gambe  lunghe  chiuse  dalle  ghette  di  lana. 

Le  sue  scarpe  erano  pesanti;  tuttavia  egli  camminava  lieve,  agi- 
lissimo com'era,  tutto  muscoli  e  nervi;  se  dei  nemici  l'avessero  as- 
salito si  sentiva  capace  di  difendersi  con  le  sue  sole  mani  afferran- 
doli e  atterrandoli  in  gruppo.  Ma  egli  non  aveva  nemici,  e  nessuno 
pensava  ad  assalirlo  in  quella  mite  notte  di  aprile. 

Eppure  aggrottava  le  sopracciglia  e  stringeva  i  pugni,  istinti- 
vamente, come  se  un  pericolo  occulto  lo  minacciasse.  Pensava  alla 
morte  del  fratello  :  ecco,^  uno  se  ne  va  tranquillo  per  la  sua  strada, 
sicuro  di  sé  e  degli  altri,  e  allo  svolto  un  fantasma  lo  aspetta,  gli 
dà  un  colpo,  lo  fa  stramazzare  .. 

Il  suo  viso  era  così  corrucciato,  così  scuro  fra  il  nero  della  barba 
e  dei  capelli  che  la  donna  venutagli  ad  aprire  provò  un  senso  di 
paura:   o  almeno  lo  finse. 

Tuttavia  lo  fece  entrare  subito,  con  premura  silenziosa,  e  con 
voce  turbata  lo  invitò  a  sedere. 

Egli  sedette,  rigido  con  le  grandi  mani  nere  sulle  ginocchia. 

Il  fuoco  era  ancora  acceso  nel  camino  e  un  certo  senso  di  be- 
nessere si  avvertiva  intorno,  in  quella  cucina  pulita  ove  ogni  oggetto 
era  a  suo  posto,  e  la  tavola  lavata  sembrava  nuova,  e  una  sedia 
bassa  accanto  al  focolare  pareva  aspettasse  un  visitatore  che  non 
doveva  arrivare  mai  più,  E  poiché  Zebedeo  s'era  seduto  lontano  dal 
camino,  quasi  avesse  paura  o  sdegno  della  luce  e  del  calore  del  fuoco, 
gli  occhi  neri  e  grandi  della  donna  erano  corsi  a  quella  sedia  vuota 
subito  illuminandosi  di  lagrime:  il  suo  viso  (però  non  si  scompose, 
sottile,  acuto,  con  qualche  cosa  che  ricordava  a  Zebedeo  la  faccia 
della  faina. 

Egli  la  guardava  in  silenzio.  Tu  non  mi  imbrogli  con  le  tue 
lagrime,  pensava,  osservando  ch'ella  era  vestita  completamente  di 
nero  come  una  vedova,  con  un  giubbettino  tuttavia  che  dava  ri- 
salto alle  forme  procaci  del  seno. 

—  E  il  ragazzo?  —  domandò  poi  bruscamente. 

—  È  già  a  letto:  non  sta  molto  bene. 

—  Cos'ha?  —  egli  insistè  con  premura  esagerata,  —  Se  sta  male 
devi  curarlo.  Chiama  il  dottore.  Il  dottore  è  obbligato  a  venire,  quel 
mangio  tutto,  che  lo  possano  ammazzare  entro  otto  giorni. 

La  sua  voce  era  squillante,  sebbene  egli  parlasse  a  denti  stretti 
scandendo  le  parole,  con  pause  profonde,  fra  un  periodo  e  l'altro 
come  suonasse  una  campana  e  per  il  primo  desse  ascolto  ai  suoi 
rintocchi. 


IL    DIO   DEI    VIVENTI  5 

Anche  il  suo  sdegno  contro  il  dottore  era  ostentato:  la  donna 
ebbe  un  fugace  sorriso,  un  sorriso  cattivo. 

—  Non  occorrerà,  il  dottore,  ohe  il  fuoco  lo  bruci,  —  disse  anche 
lei  con  accento  di  malevolenza;  a  me  non  garbano,  le  sue  visite, 
e  ne  faccio  sempre  a  meno.  Il  ragcLzzo  lo  curo  da  me,  quando  oc- 
corre, ohi  è  che  non  sa  curare  un  ragazzo?  E  anche  un  grande,  se 
occorre...  Se... 

«  Se  Basilio  si  fosse  confidato  con  me,  se  fosse  stato  qui  al  mo- 
mento del  male,  forse  lo  avrei  salvato  »,  voleva  dire,  ma  non  lo  disse  : 
aveva  un  certo  pudore  a  pronunciare  quel  nome  davanti  a  Zebedeo; 
e  anche  lui,  d'altronde,  pareva  volesse  evitare  di  ricordarlo. 

—  Il  ragazzo  studia?  L'ho  veduto  un  giorno  che  tornava  di 
scuola  e  continuava  a  leggere  per  strada.  Ha  due  occhi  neri  che 
parlano  e  ridono  da  soli. 

—  Il  ragazzo  studia,  —  ella  confermò,  con  voce  bassa  e  sorda; 
e  sospirò  profondamente.  —  Povero  Salvatore!  Mamma,  mi  dice 
sempre,  quando  ero  nella  culla  tu  mi  cantavi  semipre  una  canzone 
che  diceva  :  cresci  e  diventa  studente,  gioiello  d'oro;  che  la  tua  fama 
si  spanda  dalla  Corte  di  Roma  alla  Corte  di  Spagna.  Ecco  perchè 
mi  sono  messo  in  mente  di  studiare  e  diventare  dottore. 

Ella  si  piegava  e  si  dondolava  un  poco,  quasi  stesse  ancora  a 
cullare  il  suo  bambino;  ma  si  raddrizzò,  ostile,  nel  sentire  le  parole 
di  Zebedeo. 

—  Il  mio  Belila,  invece,  non  ha  voluto  sentirne,  di  studiare;  fatta 
la  terza  disse:  basta,  oh,  adesso:  anche  se  mi  mandate  a  scuola  io 
me  ne  vado  nel  podere  e  mi  metto  a  zappare. 

—  Il  tuo  Bellia  ha  ragione:  che  se  ne  fa  dello  studio,  lui  che 
ha  tanta  roba  a  cui  badare? 

Richiamato  allo  scopo  per  cui  era  venuto,  l'uomo  aggrottò  la 
fronte  e  chiuse  un  po'  gli  occhi  come  per  guardare  dentro  sé  stesso 
e  ascoltare  meglio  la  sua  coscienza:  e  si  fece  forza -per  pronunziare 
finalmente  il  nome  del  fratello. 

—  Lia,  —  disse  con  un  certo  dispiacere,  —  tu  sai  che  Basilio 
non  ha  lasciato  nessuno  scritto.  Abbiamo  cercato  dappertutto  inutil- 
mente: indosso  non  aveva  nulla  e  nulla  si  è  trovato  in  casa.  A  te, 
Lia,  non  ha  mai  consegnato  qualche  carta? 

—  A  me  nulla,  Zebedeo,  ma  mi  diceva  sempre,  fino  alla  vi- 
gilia della  sua  morte,  che  avrebbe  provveduto  a  me  e  al  ragazzo 
come  fossimo  legati  a  lui  dalla  legge. 

—  Lia,  —  egli  riprese  dopo  un  momento  di  silenzio,  —  mi  hanno 
riferito  che  tu,  oggi,  saputo  che  non  si  è  trovato  nessuno  scritto,  ti 
sei  buttata  per  terra  e  ti  sei  strappata  i  capelli,  e  ohe  gridavi  chie- 
dendo giustizia  a  Dio;  gridavi  in  modo  che  una  vera  folla  si  è  accu- 
mulata intorno  a  casa  tua,  e  molti  volevano  fare  una  colletta  per 
il  tuo  Salvatore.  Idioti  e  mendicanti  lebbrosi  che  essi  sono,  —  egli 
ringhiò  ancora  sdegnato:  —  che  credono,  essi?  Che  i  Barcai  non 
abbiano  un'anima  e  un  onore? 

La  donna  ascoltava  intensamente:  i  suoi  occhi  si  facevano  più 
vivi,  il  viso  pili  acuto;  e  pareva  guatasse  nell'ombra,  fissando  l'uomo 
come  una  preda. 

—  Chi  ti  ha  raccontato  tutto  questo  esagerava,  —  disse;  —  c'è 
sempre  delLa  gente  che  prende  gusto  a  seminare  zizzania.  Io  pian- 
gevo, è  vero,  ed  è  da  tre  giorni  che  piango;  ma  piango  lui,  non  la 


6  IL   DIO  DEI    VIVENTI 

sua  roba.  Egli  non  tornerà  più  qui,  non  tornerà  più;  questo  solo  mi 
fa  urlare,  per  il  resto  c"è  Dio.  Per  allevare  mio  figlio  e  fame  un 
uomo  basto  io  sola  con  le  mie  braccia.  Andrò  a  spaxjcare  pietre,  se 
occorre;  ma  nulla  mancherà  alla  mia  creatura.  Per  il  resto  c'è  Dio, 

—  ripetè;  e  le  sue  parole  avevano  qualche  cosa  di  nascosto,  di  mi- 
sterioso. 

—  Che  cosa  vuoi  dire  con  questo? 

—  Che  Dio  vede  tutto.  Se  Basilio  ha  creduto  di  far  cosi,  vuol 
dire  che  Dio  voleva  castigarmi  per  mezzo  suo.  Tu  hai  peccato,  mi 
dice,  e  tu  alleverai  il  figlio  della  colpa  fra  il  dolore  e  la  povertà. 
Dio  è  giusto;  è  la  giustizia  stessa. 

—  Tu  non  mancherai  di  nulla.  La  casa  ce  l'hai,  le  provviste 
non  ti  mancheranno.  Se  tuo  figlio  non  potrà  diventare  maestro  o 
dottore  diventerà  contadino  o  pastore;  ma  nulla  ti  mancherà. 

" —  Se  Basilio  fosse  vissuto,  mio  figlio  non  diventava  né  conta- 
dino né  pastore,  —  ella  disse  con  fierezza;  e  subito  Zebedeo  intese 
ch'ella  pretendeva  si  facesse  continuare  a  studiare  il  ragazzo;  ma 
egli  aveva  ben  altre  idee,  e  in  fondo  era  geloso  dell'intelligenza  e 
delle  buone  disposizioni  del  piccolo  Salvatore  :  perchè  Salvatore  do- 
veva diventare  un  dottore  mentre  Bellia  rimaneva  un  contadino? 

Lì  per  lì  non  seppe  dunque  rispondere,  sebbene  sentisse  lo 
sguardo  di  Lia  penetrargli  fino  all'anima  :  e  aveva  l'impressione  che 
ella  gli  leggesse  nel  pensiero  e  indovinasse  tutto  di  lui  :  ma  lui  non 
era  un  uomo  debole  e  quello  che  voleva  voleva. 

—  Io  non  so  che  intenzioni  avesse  Basilio,  riguardo  al  ragazzo; 

—  disse  dopo  un  breve  silenzio;  —  non  me  ne  parlò  mai.  Eravamo 
molto  legati,  molto  fratelli,  ma  riguardo  ai  suoi  fatti  intimi  era 
molto  chiuso.  So  però  una  cosa:  che  egli  non  amava  la  gente  che 
va  fuori  del  paese.  Diceva  :  se  Dio  ci  ha  fatto  nascere  in  un  posto 
vuol  dire  che  dobbiamo  viverci;  più  si  sta  raccolti  in  una  casa  o  in 
un  ovile,  più  si  sta  bene  e  tranquilli.  Era  un  uomo  di  senno  Basilio. 

—  Era  un  uomo  di  senno,  —  confermò  la  donna:  —  ma  a  me 
diceva  che  non  bisogna  farsi  padroni  della  volontà  altrui.  Dio  ci  ha 
messo  in  un  posto,  sì  :  ima  se  uno  vuole  camminare  e  andar  lontano 
è  segno  che  Dio  comanda  così.  Gesù  e  gli  apostoli  sono  andati  lon- 
tano, fino  al  mare  e  fino  a  Roma;  ed  erano  chi  erano. 

L'uomo  parve  colpito  da  questa  osservazione;  ma  subito  scosse 
la  testa  con  evidente  sdegno  :  che  forse  la  donna  voleva  paragonare 
suo  figlio  a  Gesù  o  ad  alcuno  degli  apostoli  ? 

—  Quanti  anni  ha  adesso  tuo  figlio?  —  domandò  brusco. 

—  Mio  figlio  compie  adesso  dieci  anni,  il  Signore  lo  benedica 
e  lo  faccia  arrivare  a  cento. 

—  Non  avrebbe  intenzione  di  farsi  prete? 

Nonostante  il  suo  dolore,  la  donna  ebbe  un  lieve  riso  sincero. 

—  Mio  figlio  è  religioso,  ma  i  suoi  occhi  non  dicono,  no,  in  ve- 
rità, ch'eg'li  pensi  a  farsi  prete. 

—  Eppure  è  l'unico  posto  buono,  per  un  uomo,  —  egli  disse 
convinto.  —  Mi  fossi  fatto  prete,  io.  Vivevo  bene  in  questo  mondo 
e  salvavo  l'anima  mia  per  l'altro. 

—  E  chi  ti  impedisce  di  viver  bene  e  di  salvarti  l'anima?  Non 
dispero  di  salvarla  io,  che  ho  peccato  e  dato  scandalo,  e  pensi  di 
perderla  tu  ?  Che  hai  fatto  di  male  ?  Delitti  non  ne  hai  commessi» 
e  neppure  ti  sei  preso  la  roba  altrui. 


IL   DIO  DEI    VIVENTI  7 

Ella  lo  fissava;  ma  pareva,  più  che  altro,  vivamente  curiosa  di 
sapere  in  che  egli  poteva  x)eceape. 
Egli  disse  fra  l'aspro  e  l'umile: 

—  Siamo  tutti  soggetti  all'errore,  e  quello  che  non  s'è  fatto  fi- 
nora si  può  fare  in  avvenire.  E  non  tutti  i  peccati  consistono  nel 
rubare. 

—  Questo  è  vero;  e  puoi  portarmi  l'esempio  del  tuo  stesso  fra- 
tello. Era  un  uomo  saggio,  eppure  peccò.  Dio  lo  ^perdonerà  per  le 
sue  buone  intenzioni  poiché,  dopo  tutto,  se  egli  non  ha  potuto  sal- 
dare il  suo  conto  in  vita  è  perchè  c'era  ostacolo.  Tante  volte  noi  pec- 
chiamo contro  la  nostra  volontà.  Egli  stesso  lo  diceva.  Del  resto  ^11 
viveva  con  me  come  fossa  la  sua  moglie  legittima,  e  Dio  lo  avrà  per- 
donato, lo  sento  nel  profondo  dell'anima, 

E  d'un  tratto  ella  piegò  la  testa  profondamente,  come  stroncata 
dai  ricordi  e  dalla  pena,  e  pianse  forte. 

Ogni  parola  di  lei  era  una  frecciata  iper  Zebedeo,  e  quel  pianto, 
invece  di  commuoverlo  lo  irritò  :  credeva  di  capire  le  allusioni  di 
lei,  sempre  tese  allo  stesso  scopo;  che  cioè  i  parenti  di  Basilio  la 
escludessero,  dall'eredità  nonostante  le  dispc«izioni  del  morto;  ma 
era  un  uomo  di  coscienza,  lui,  e  voleva  chiarire  le  cose 

—  Sono  un  uomo  di  coscienza,  Lia  —  disse  con  calma;  —  e  ti  ri- 
peto ohe  non  aggraverò  i  peccati  di  Basilio  davanti  al  Signore.  Sono 
qui  per  questo.  Ascoltami  :  è  inutile  continuare  con  chiacchiere  vane. 
Appena  passato  il  primo  grande  dolore  per  la  morte  di  Basilio,  tutti 
noi  abbiamo  .pensato  subito  a  te  e  al  ragazzo,  animati  dalle  migliori 
intenzioni.  Mia  moglie,  sopratutto,  si  preoccupava  di  questo;  ma 
poi  vennero  a  riferirci  della  tua  scena,  dei  tuoi  gridi,  delle  tue  ac- 
cuse, e  i  parenti  tutti  ti  divennero  ostili.  Lasciamola  quale  nemica 
che  è,  —  dissero  tutti.  —  Vuoi  sapere  una  cosa,  Lia?  Io  sono  venuto 
qui  stasera  di  nascosto,  a  insaputa  della  mia  famiglia;  e  sono  qui 
per  dirti  :  Lia  fa  il  tuo  dovere;  rimani  a  casa  tua  a  fare  le  tue  fac- 
cende e  non  chiacchierare,  non  dare  ascolto  né  soddisfazione  ai  vi- 
cini ed  ai  lontani.  Io  penserò  e  prowederò  a  te  ed  a  tuo  figlio;  vedrai 
che  sarai  contenta.  Che  vuoi  fare  altrimenti  ?  una  lite  non  puoi  in- 
tentarla; è  meglio  quindi,  che  tu  accetti  la  mia  buona  volontà. 

La  donna  piangeva. 

—  Non  m'importa  di  nulla,  —  disse  con  voce  cavernosa;  —  nes- 
sun bene  del  mondo  può  compensarmi  del  bene  perduto.  Basilio  mio, 
cuore  mio,  gioiello  d'oro  e  d'argento,  tu  sei  uscito  per  ritornare  e 
non  ritorni  più  :  la  mia  iporta  s'è  chiusa  dietro  di  te  come  quella 
dell'eternità.  Che  importa  tutto  il  resto? 

Zebedeo  s'alzò,  un  poco  infastidito.  Nel  venire  da  Lia  ^li  s'era 
aspettato  urli,  improperi  e  maledizioni;  nel  vederla  cc^i,  piegata  e 
rassegnata  al  suo  destino,  provava  un  certo  malessere;  l'avrebbe  pre- 
terita violenta  e  accusatrice;  ma  la  sapeva  già,  sebbene  la  conoscesse 
poco,  donna  lusinghiera  e  finta,  di  modi  insinuanti;  giusto  per  questo 
aveva  abbindolato  il  povero  Basilio. 

Dritto  davanti  a  lei,  con  una  mano  appoggiata  aip^rta  sulla  ta- 
vola, egli  la  guardava  dall'alto,  aspettando  che  ella  finisse  i  suoi 
lamenti. 

—  Coraggio!  —  disse  infine,  come  le  facesse  le  sue  condoglianze. 
—  Siamo  nati  per  soffrire.  E  anch'io  non  dovrei  continuare  a  pian- 


S  IL   DIO   DEI    VIVENTI 

gere?  Era  mio  fratello,  dopo  tutto.  Il  tempo  guarirà  il  nostro  dolore. 
Addio. 

S'avviò,  senza  porgerle  la  mano.  Ella  si  alzò  di  scatto  e  vide 
che  egli  aveva  deposto  sulla  tavola  un  biglietto  da  cento  lire:  e 
sulle  prime  ebbe  un  moto  per  afferrare  il  foglio  e  buttarglielo 
dietro;  poi  tremò  e  s'irrigidì  in  pari  tempo  come  un  cavallo  frenato 
e  raggiunse  a  lunghi  passi  Zebedeo  fin  sulla  porta  salutandolo  umil- 
mente. 

Ma  quando  fu  sola  prese  il  biglietto  e  lo  spiegò,  fra  tutte  e  due 
le  mani,  guardandolo  come  per  esaminare  se  era  buono;  e  subito 
dopo  sollevò  e  scosse  le  braccia  in  direzione  della  porta  maledicendo 
l'uomo  e  tutta  la  sua  generazione. 

• 

•  • 

E  l'uomo,  di  fuori,  sentiva  ch'ella  faceva  così,  e  aveva  un  po' 
di  paura,  perchè  infine,  pensava.  Salvatore  era  figlio  di  Basilio  e 
aveva  diritto  naturale,  se  non  per  legge,  all'eredità. 

Dio  dispone  così.  Ma  il  mondo  ha  quasi  sempre  piìi  ragione  di 
Dio;  il  mondo  non  permette  che  un  figlio  illegittimo  prenda  l'ere- 
dità patema,  e,  dopo  tutto,  le  leggi  sono  fatte  da  uomini  sa^gi  ohe 
forse  e  senzia  forse  sono  inspirati  da  Dio. 

Se  la  legge  dispone  così,  vuol  dire  che  un  certo  castigo  deve 
pesare  sul  figlio  del  peccato.  Questo,  poi,  l'ha  detto  proprio  Dio  :  che 
i  figli  devono  scontare  le  colpe  dei  genitori. 

—  Noi  camminiamo  guidati  da  Lui,  se  Lui  vuole  ch'io  faccia 
così  è  segno  che  devo  far  così. 

Ma  intanto  aveva  paura  della  maledizione  della  donna,  ed  anche 
delle  sue  fattucchierie.  Sa/peva,  per  esempio,  ohe  in  quegli  ultimi 
tempi,  per  quanto  lei  adesso  mostrasse  tanto  dolore,  non  correvano 
più  buonissimi  rapporti  fra  lei  e  Basilio;  ed  essa  gli  augurava  del 
male:  forse  lo  aveva  fatto  morire  Lei. 

Che  vada  dunque  al  diavolo  anche  lei!  Ed  egli  fece  le  fiche  per 
scongiurare  il  malaugurio,  ma  guardava  per  terra  e  gli  pareva  che 
di  tanto  in  tanto  il  terreno  si  spaccasse  per  lasciare  intravedere 
una  misteriosa  profondità  d'acqua  e  di  fuoco.  Erano  pezzetti  di  vetro 
che  scintillavano  alla  luna. 

• 

•  * 

Finalmente  le  visite  di  condoglianza  erano  terminate  e  le  donne 
si  affaccendavano  a  rimettere  in  ordine  la  casa. 

La  serva,  una  ragazza  che  rassomigliava  a  Lia,  ma  molto  più 
giovane  e  acerba,  aveva  riacceso  il  fuoco  e  rimessa  la  caffettiera  a 
bollire,  sapendo  che  quello  era  il  maggior  conforto  delle  sue  pa- 
drone e  anche  suo:  e  tpensava  con  sollievo  ohe  finalmente  il. padrone 
anziano  se  ne  sarebbe  andato  in  campagna,  come  già  n'era  andato 
il  padrone  piccolo. 

Erano  così  autoritari  e  pretensiosi  gli  uomini,  quando  slavano 
in  casa.  Il  padrone  anziano  voleva  ohe  la  serva  gli  versasse  perfino 
l'acqua  da  bere,  e  gli  lavasse  i  piedi,  e  la  trattava  come  una  schiava. 

Quei  giorni,  poi,  era  più  inumano  che  mai  :   il  dolore  per  la 


IL   DIO  DEI   VIVENTI  » 

morte  del  fratello  pareva  lo  inasprisse,  e  lo  rendesse  malvagio,  in- 
vece di  ricordargli  che  tutti  dobbiamo  morire. 

Ecco  che  seduto  ancora  al  posto  dove  da  tre  giorni  riceve  le  con- 
doglianze degli  amici  e  dei  conoscenti,  ancora  fermo  e  rigido  dentro 
il  suo  cappotto  come  un  diavolo  in  (penitenza,  grida  alla  ragazza  che 
vada  a  prendere  il  cavallo  dalla  stalla  e  lo  conduca  all'abbeveratoio. 

—  E  non  montarci  su,  non  farlo  bere  in  fretta. 

—  L'ho  fatto  già  bere  qui,  con  l'acqua  del  pozzo  pulita  come 
l'argento. 

—  Oh! 

Un  oh,  solo;  ma  urlato  in  modo  tale  che  la  ragazza  balzò  come 
sotto  una  sferzata  e  corse  via. 

Il  fatto  è  che  il  padrone  voleva  per  qualche  momento  liberarsi 
di  lei  e  della  sua  curiosità;  voleva  parlare  alle  donne,  prima  di  an- 
darsene in  campagna,  alleggerirsi  di  un  peso  ohe  gli  gravava  sul- 
l'anima e  sul  corpo. 

—  Zia  Annia,  —  disse,  non  senza  una  certa  trepidazione,  — 
bisogna  che  parliamo  di  una  cosa;  e  tu,  Maria,  mettiti  a  sedere  fi- 
nalmente. 

La  moglie  non  se  lo  fece  ripetere;  era  una  ipiccola  donna  pingue 
e  remissiva  che  sarebbe  rimasta  tutta  la  sua  vita  seduta,  senza  far 
niente,  felice  solo  di  quello.  Sedette  accanto  a  lui  e  riprese  istinti- 
vamente l'atteggiamento  composto  e  tragico  di  quando  riceveva  le 
condoglianze. 

La  vecchia  zia  Annia  continuava  invece  ad  andare  e  venire,  ap- 
poggiando l'altissima  persona  scarna  e  ricurva  a  un  bastoncino  che 
non  lasciava  mai:  le  sue  lunghe  vesti  nere  strascinavano  per  terra, 
tutte  di  lana  grossa,  e  pure  di  lana  era  il  fazzoletto  che  le  circondava 
il  viso  grande,  terreo,  dal  lungo  labbro  sardo  e  gli  occhioni  neri 
cerchiati. 

Andava  e  veniva;  eppure  aveva  sentito  e  forse  anche  capito  il 
richiamo  di  Zebedeo,  ma  fìngeva  di  nulla,  occupvata  a  riempire  d'olio 
i  lumi  d'ottone  disposti  sopra  il  camino,  e  una  lanterna  che  serviva 
alla  notte  .per  andare  nel  cortile  o  nella  stalla. 

—  Zia  Annia,  —  ripetè  Zebedeo  sforzandosi  a  parer  gentile,  — 
venite  a  sedervi  qui,  per  piacere.  Ho  da  chiedervi  un  consiglio. 

Ella  depose  l'oliera,  si  pulì  le  mani,  tutto  con  lentezza,  come 
assorta  in  un  suo  pensiero  dal  quale  nulla  valeva  a  distorgliela. 

Quando  finalmente  le  piacque  andò  a  sedersi  anche  lei  in  fondo 
alla  stanza,  dove  questa  aveva  una  specie  di  abside  con  una  finestra 
che  adesso  stava  chiusa,  come  tutte  le  altre  della  casa,  per  il  lutto. 

—  Si  tratta  di  quella  donna,  —  disse  Zebedeo,  —  di  Lia,  del- 
l'amica del  beato  Basilio  insomma. 

La  vecchia  rispose  seccamente: 

—  Se  tu  sei  uomo  di  fegato  devi  trovare  subito  il  modo  di  farla 
tacere. 

—  E  come?  —  egli  domandò,  piccato;  —  ditelo  voi,  il  come. 

— ■  Sai  quello  che  hanno  fatto  a  donna  Marta  Deliperi,  sebbene 
nobile  e  ricca.  Aveva  la  lingua  lunga  e  amava  gli  scandali  :  ebbene, 
tu  sai  quello  che  gli  avversari  le  hajino  fatto.  Tu  lo  sai. 

Egli  lo  sapeva.  A  questa  donna  Marta  Deliperi  gli  avversari 
avevano  fustigato  il  sedere  nudo  con  una  corda  di  pelo,  sino  a  farlo 


10  IL   DIO  DEI    VIVENTI 

sanguinare;  e  sulle  piaghe  vive  sparso  il  sale,  in  modo  ohe  la  donna 
dalla  lingua  lunga  era  stata  in  pericolo  di  vita. 

—  Gli  avversari  di  donna  Marta  Deliperi  avevano  ragione  di 
farle  quanto  le  hanno  fatto.  Eppoi  erano  altri  tempi.  Io  non  mi  sento 
da  tanto. 

—  Ma  c'è  anche  il  giudice,  —  propose  timidamente  la  moglie.  — 
Egli  condanna  le  persone  diftamatrici. 

—  Io,  —  riprese  con  accento  di  odio  la  vecchia,  —  ho  sempre 
avuto  il  presentimento  che  quella  demonia  ci  'portasse  la  sventura 
in  casa.  Sempre  ce  l'ha  portata  del  i-esto,  fin  dal  malaugurato  giorno 
che  fissò  gli  occhi  di  serpente  sul  nostro  .povero  Basilio.  Lo  aveva 
incontrato,  lo  aveva  legato  a  sé  con  malìe  infernali.  Ci  fu  un  tempo 
ìb  cui  lo  spronava  anche  al  delitto:  posso  dirvelo  in  coscienza,  per- 
chè qualche  volta  il  povero  morto  aveva  dei  momenti  di  confidenza 
con  me.  E  mi  diceva:  zia  Annia,  forse  mangerò  il  pane  del  re:  vale 
a  dire,  forse  andrò  in  prigione.  Perchè  la  vipera  lo  consigliava  ad 
ammazzare  il  marito,  non  riuscendovi  lei  con  le  sue  fattucchierie. 
E  il  marito  lo  sapeva,  e  lo  sa,  disgraziato;  per  questo,  per  paura, 
non  è  ritornato  in  paese.  Un'altra  cosa  devo  dire... 

—  As/pettate,  —  interrujppe  Zebedeo,  infastidito  di  quel  torrente 
di  parole;  —  tutte  queste  sono  chiacchiere;  il  fatto  è  che  la  donna 
ci  diffama;  qualcuno  può  non  credere  alle  sue  storie,  ma  i  più  vi 
credono.  Bisogna  iarla  tacere,  questo  è  l' importante. 

—  Accoppala,  ti  ripeto;  oppure  ha  ragione  tua  moglie,  diamole 
querela. 

—  Oh  donna  di  Diol  —  egli  sospirò;  —  il  rimedio  è  peggiore 
del  male. 

—  Perchè? 

—  Perchè  se  andate  a  molestare  una  viqpera,  questa  vi  morde 
con  più  furore. 

—  E  allora  che  vuoi  fare?  Dillo  tu. 

—  Io  direi  di  prenderla  con  le  buone;  di  aiutarla  a  campare. 

—  Ah,  Zebedeo!  E  tu,  dunque,  te  la  vuoi  mettere  in  seno,  la 
vipera?  Prova,  prova:   prova  e  vedrai. 

—  Infine,  non  è  per  lei,  è  per  il  bambino.  È  figlio  del  povero 
morto,  e  dobbiamo  aiutarlo. 

—  Questo  è  vero.  Ma  non  si  potrebbe  toglierlo  alla  donna  e  pren- 
derlo noi?  Basilio  gli  voleva  molto  bene,  —  disse  la  moglie. 

La  vecchia  non  rispose,  ma  sorrise  con  compatimento:  aveva 
molto  rispetto  per  Maria  Barcai  e  la  considerava  come  sua  padrona, 
non  la  contraddiva,  ma  la  compativa  per  le  sue  ingenuità.  D'al- 
tronde anche  Zebedo  diceva: 

—  Non  è  il  caso  neppure  di  parlarne,  moglie  mia;  e  non  sa- 
rebbe coscienzioso  il  tentare  di  farlo.  Eppoi  mi  dicono  che  il  ragazzo 
è  molto  intelligente  e  attaccato  alla  madre. 

—  E  la  madre  ne  farà  un  nostro  nemico,  non  dubitarne. 

—  Non  ne  dubito,  no,  se  non  procureremo  di  evitarlo. 

—  Ma  che  cos'è,  dunque,  che  tu  vuoi  fare?  E  cedi  dunque  a 
quei  due  l'eredità,  —  disse  la  vecchia,  con  ironia  rabbiosa. 

—  Se  Basilio  avesse  disposto  così,  io  sarei  pronto  ad  eseguire 
la  sua  volontà,  —  affermò  Zebedeo,  con  grave  tristezza. 

—  Per  fortuna  Basilio  ha  lasciato  a  Dio  la  cura  di  provvedere 


IL   DIO  DEI    VIVENTI  11 

a  quella  vipera.  E  Dio  prowederà:  non  provvede  a  tutte  le  vipere 
della  terra? 

—  Zia  Annia!  questo  non  è  parlare  degno  di  voi.  Siete  vecchia  e 
vi  ho  conosciuta  sempre  saggia  e  timorata  di  Dio.  Tutti  possiamo 
avere  del  veleno  in  cuore;  ma  sotto  il  cuore  c'è  la  coscienza. 

—  È  vero,  —  approvò  la  moglie. 

Anche  la  vecchia  parve  colpita  dalle  parole  di  lui. 

—  E  di'  tu,  allora,  Zebedeo. 

—  Io  ho  detto.  Bisogna  aiutare  la  donna  e  il  fctnciullo.  Bisogna 
non  dare  ascolto  alle  chiacchiere  della  gente:  la  gerite  ha  gusto  a 
spandere  zizzania.  Chiudete  la  porta  alle  donne  sfaccendate,  die 
vadano  all'inferno,  a  chiacchierare  con  Lucifero.  Date  retta;  chiu- 
dete la  porta. 

La  vecchia  lo  guardava  fìsso,  fra  curiosa  e  beffarda:  infine  do- 
mandò: 

—  Per  caso,  ci  sei  stato  anche  tu  nella  tana  della  vipera? 

Ed  egli  arrossì;  ma  parve  un  rossore  di  dispetto;  o  almeno  per 
tale  egli  lo  fìnse. 

—  E  se  ci  fossi  stato?  Sono  forse  un  uomo  che  deve  aver  paura 
delle  vipere?  Ne  ho  ammazzate  millanta  e  una,  con  la  punta  del  mio 
bastone. 

—  E  ti  ripeto  che  faresti  bene,  non  dico  ad  ammazzare,  ma  a 
pestare  la  lingua  a  questa. 

—  E,  perdio,  non  è  quello  che  dico?  —  egli  g-ridò.  —  Ma  con  le 
donne  bisogna  parlare  tre  ore  prima  di  intendersi.  Infine,  il  fatto 
è  questo  :  bisogna  far  tacere  la  donna  aiutandola.  Mandiamoci  della 
roba  in  casa,  anche  perchè  il  mondo  veda.  Altrimenti  prowederò 
io  :  provvedere,  cmche  perchè  la  coscienza  così  mi  detta  :  ma  poi  non 
venite  a  farmi  delle  chiacchiere. 

Egli  alzava  sempre  ipiù  la  voce,  e  pareva  provasse  gusto  a  gri- 
dare, più  per  gridare,  dopo  tutti  i  bisbigli  e  le  parole  false  di  quei 
giorni,  che  per  affermare  la  sua  volontà. 

La  moglie  aveva  chinato  la  testa  e  si  guardava  le  mani  grasse 
incrociate  sul  grembo:  per  lei  la  volontà  del  marito  era  la  sua; 
ma  non  le  dispiaceva  in  quel  momento,  che  zia  Annia  contrastasse 
con  Zebedeo:  perchè  in  fondo  sentiva,  come  la  vecchia,  una  paura 
superstiziosa  di  Lia:  per  troppo  tempo,  ipoi,  aveva  nutrito  il  terrore 
che  l'eredità  di  Basilio  andasse  al  bastardo,  invece  che  al  suo  Belila. 

La  vecchia  diceva  dunque,  senza  alzare  la  voce,  senza  scom- 
porsi: 

—  Se  tu  credi  di  placarla  con  poco  t'inganni.  Zebedeo,  quella 
è  un  vampiro  che  non  ti  darà  mai  pace,  e  più  le  farai  del  bene  più 
lei  ti  farà  del  male.  Ti  voglio  ripetere  il  mio  sospetto  che  Basilio 
sia  morto  per  opera  sua:  anche  lui  aveva  paura  di  questo. 

—  Zia  Annia!   perchè  parlate  così? 

— •  Tu  lo  hai  detto;  perchè  nel  cuore  possiamo  tutti  avere  del 
veleno,  ma  sotto  il  cuore  c'è  la  coscienza.  Tu  osserverai:  quella 
vipera  non  aveva  interesse  che  il  povero  Basilio  morisse:  anzi  con 
lui  tutto  doveva  perdere.  Ed  io  ti  rispondo:  ma  lei  non  credeva 
così;  lei  era  certa  di  mettere  le  mani  sulla  roba  di  Basilio;  lei  era 
convinta  che  esistesse  un  testamento  di  lui  m  favore  del  figlio. 


12  IL   DIO  DEI    VIVENTI 

—  Ma  allora  avrebbe  cercato  di  tenerlo  lei,  questo  testamento. 

—  E  chi  ti  dice  che  non  l'abbia? 

—  Voi  sragionate.  L'avrebbe  tirato  fuori  subito. 

—  È  vero,  —  approvò  la  moglie,  ohe  s'era  animata,  ed  anzi 
aveva  un  lieve  brivido  d'inquietudine. 

—  Non  si  sa  mai  il  'pensiero  delle  donne  come  quella,  —  riprese 
la  vecchia.  —  Aspettiamo  qualche  giorno.  Questo  di  certo  posso  dirti, 
che  un  testamento  lui  lo  aveva  fatto.  E  lo  teneva  sempre  con  sé  :  e, 
quando  gli  accadde  la  disgrazia,  sabato  scorso,  ricordati,  Zebedeo, 
io  venni  qui  gridando;  e  tu  sei  accorso  e  lo  hai  tirato  su,  lo  hai  messo 
sul  letto,  mentre  la  serva  correva  a  chiamare  il  dottore.  Le  vesti  del 
povero  Basilio  le  ho  messe  io,  sulla  sedia,  e  nessuno  le  ha  più  toc- 
cate, finché,  dopo  qualche  ora  si  guardò  se  aveva  delle  carte  in  tasca; 
e  ne  aveva,  sì,  ma  non  quella. 

Zebedeo  ascoltava,  attento  come  se  le  cose  che  sentiva  gli  fossero 
nuove,  aspettava  il  particolare  che  gl'indicasse  come  la  vecchia  sa- 
I>eva  del  testamento;  e  tardando  questo  particolare  a  venire  s'irritò. 

—  Ma,  infine,  avete  voi  veduto  il  testamento?  Questo  importa 
sapere,  tutto  il  resto  sono  chiacchiere. 

—  Veduto  non  l'ho,  ma  so  di  certo  che  lo  aveva.  Del  resto  io 
non  so  leggere  e  non  frugavo  nelle  carte  del  povero  Basilio. 

—  Può  darsi  che  il  testamento  fosse  a  favore  nostro  e  che  la 
vipera  glielo  abbia  sottratto,  —  arrischiò  l'ingenua  Maria  Caterina 
Barcai. 

—  Macché,  macché!  —  gridò  il  marito.  —  Non  era  uomo  da  la- 
sciarsi beffare  così,  mio  fratello.  E  voi,  donne,  fareste  bene  a  tener 
la  lingua  in  bocca,  perché  ogni  vostra  parola  è  un  mal  seme  gettato 
al  vento.  ' 

La  zia  Annia  non  protestò;  anche  per  lui  aveva  un  certo  rispetto, 
una  soggezione  istintivamente  servile;  ma  non  potè  nascondere  un 
risentimento  silenzioso  e  ostile  che  le  indurì  maggiormente  il  viso. 

E  l'uomo  se  ne  accorse  e  alzò  ancor  più  La  voce  come  s'ella  gli 
avesse  risposto  male. 

—  Il  fatto  é  questo,  che  se  voi  chiacchierate  così  davanti  alla 
gente,  la  gente,  che  é  maligna,  può  dire:  il  testamento  lo  hanno  fatto 
sparire  i  parenti.  Ed  é  questo,  appunto,  che  urlava  ieri  quella  donna 
che  voi  chiamate  la  vipera. 

—  Io  non  sono  donna  da  gettare  le  parole  al  vento,  Zebedeo; 
non  ho  mai  chiacchierato  con  le  vicine  di  casa.  Se  adesso  ho  parlato 
è  perché  tu  stesso  lo  desideravi. 

—  Io  non  desideravo  questo,  veramente;  io  vi  ho  chiamato  qui  per 
dirvi  il  mio  (i>ensiero,  che  nonostante  tutte  queste  divagazioni  rimane 
lo  stesso:  bisogna  sovvenire  la  donna  perchè  il  figlio  é  figlio  di  Ba- 
silio. Se  poi  le  risponderà  male,  peggio  per  lei  :  è  afTar  suo  :  noi  non 
abbiamo  bisogno  della  sua  gratitudine. 

—  È  vero,  è  vero,  —  ripeteva  la  moglie,  guardando  ora  lui  ora 
la  vecchia.  Ma  questa  serbava  nel  viso  le  pieghe  del  suo  risenti- 
mento: le  parole  di  Zebedeo  l'avevano  punta  a  fondo,  e  lei  non  si 
lamentava,  ma  non  perdonava. 

Qualche  cosa  di  ostile,  una  sfumatura  di  diffidenza  reciproca, 
un'ombra  indefinibile  sorse  subito  fra  lei  e  Zebedeo.  Egli  sentì  il 
bisogno  di  alzarsi,  di  mettere  fine  al  colloquio:  eppure  aveva  voglia 


IL   DIO  DEI   VIVENTI  13^ 

di  gridare  ancora,  di  provoccire  la  vecchia  :  andò  su  e  giù  sbuffando 
per  la  cucina,  in  cerca  di  qualche  cosa  che  non  trovava,  infine  uscì 
sbattendo  Tuscio. 

Le  due  donne  continuarono  a  parlare  della  cosa,  e  la  moglie 
adesso  propendeva  per  le  idee  del  marito,  anche  perchè  sapeva  che, 
dopo  tutto,  egli  avrebbe  fatto  il  piacer  suo,  mentre,  la  vecchia,  pur 
dichiarando  di  non  voler  più  impicciarsi  nell'affare,  gettava  nel  suo 
discorso  frasi  misteriose  che  davano  un  oscuro  senso  di  paura  alla 
mente  di  Maria  Barcai. 

—  Il  povero  Basilio,  Dio  lo  perdoni,  ha  peccato  con  quella  donna; 
doippiamente  ha  peccato,  per  adulterio  e  perchè  quella  donna  ha  la 
natura  del  demonio:  sono  peccati  che  Dio  fa  scontare  a  tutta  la  ge- 
nerazione dell'uomo  che  li  fa,  —  disse  in  ultimo;  —  preghiamo  Dio 
che  così  non  sia. 

E  Maria  Caterina  Barcai  si  mise  a  pregare  fra  sé  per  suo  figlio, 
quasi  un  pericolo  vero  lo  minacciasse. 

• 
•  • 

Anche  ZebeJeo  si  sentiva  oppresso  da  un  presentimento  di  sven- 
tura. Elcco  che  se  ne  andava  a  cavallo;  tutto  nero  e  incappucciato 
come  un  cavaliere  errante,  per  la  strada  luminosa  che  attraversava 
campi  ondulati  ove  le  distese  d'orzo  e  di  frumento  si  alternavano 
a  distese  coperte  di  ginestre  e  di  eriche  e  a  vastissimi  prati  tutti 
violetti  e  bianchi  per  i  fiori  del  ipuleggio  e  delle  margherite. 

Una  serenità  già  quasi  estiva  rallegrava  il  paesaggio:  sui  lucidi 
cespugli  dell'acanto  che  fiancheggiavano  la  strada,  si  posavano  grandi 
farfalle  dai  vivi  colori,  e  ragni  bianchi  e  insetti  verdi  e  dorati:  tutti, 
insetti  e  bestie,  fiori  e  foglie  vestiti  a  festa:  e  dalle  querele  che 
spandevano  la  loro  ombra  fitta  sul  verde  del  grano,  gli  uccellini 
nuovi  volavano  giù  come  lasciandosi  cadere  a  picco  dal  nido. 

In  fondo  apparivano  i  monti  battuti  dal  sole,  coi  boschi  di  lecci 
che  cominciavano  a  fiorire;  e  pareva  venisse  di  lassù  il  fresco  soflSo 
profumato  che  faceva  sorridere  e  mormorare  le  foglie. 

L'uomo  a  cavallo  portava  la  sua  nota  di  lutto  attraverso  la  gioia 
innocente  delle  cose,  ma  si  lasciava  anche  lui  di  tanto  in  tanto  scuo- 
tere e  penetrare  da  quell'alito  puro  dei  monti  che  gli  ricordava  qual- 
che cosa  d'indefinibile,  un  luogo  lontano  dov'era  vissuto  nella  sua 
prima  infanzia  e  anche  (prima,  durante  una  vita  anteriore. 

Pensava  sempre  all'eredità  del  fratello;  e  il  problema  lo  preoc- 
cupava tanto  da  fargli  persino  dimenticare  il  dolore  per  la  morte  di 
lui.  Gli  sembrava  di  sentire  ancora,  dentro  di  sé,  la  voce  delle  sue 
donne, .  quella  grave  e  austera  della  vecchia,  e  quella  placida  e  in- 
genua della  moglie.  E  la  moglie  accomodava  tutto,  con  la  sua  sem- 
plicità; se  si  lasciava  fare  a  lei  tutto  andrebbe  bene,  nella  vita;  tutto 
si  aggiusterebbe  con  la  bontà  e  con  un  po'  di  pigrizia. 

E  si  pentiva  di  non  essersi  consigliato  solo" con  lei,  dopo  tutto 
la  vecchia  zia  non  era  che  una  serva;  riceveva  il  suo  mensile  e  se 
lo  metteva  da  parte;  che  ei  aveva  da  vedere  negli  affari  di  casa? 

—  Se  non  sta  zitta,  posso  anche  iprenderla  per  il  braccio  e  cac- 
ciarla via. 


14  IL   DIO  DEI   VIVENTI 

Ma  la  sua  stessa  eccitazione  accresceva  la  sua  inquietudine. 

Al  suo  arrivo  al  podere,  due  servi  che  vi  lavoravano,  due>  fratelli, 
piccoli  neri  e  scarni,  divorati  dalla  fatica,  si  sollevarono  per  salu- 
tarlo quasi  militarmente,  perchè  egli  non  dava  nessuna  confìdenea 
alla  servitù  :  era  scrupoloso,  pagava  bene,  ma  ciascuno  al  suo  posto. 

Non  rispose  .neppure  aila  parola  di  condoglianza  che  i  due  gio- 
vani, quando  egli  smontò  da  cavallo,  gli  rivolsero  seri  e  composti  : 
solo  ordinò  che  non  togliessero  la  sella  al  cavallo,  poi  domandò  se 
Belila,  il  figlio,  era  stato  al  podere. 

—  C'è  stato,  verso  mezzogiorno,  poi  ha  proseguito  per  Sanmattia. 
Sanmattia  era  la  proprietà  principale  del  morto,  una  vigna,  un 

seminato,  un  vasto  pascolo  con  molto  bestiame  :  distante  circa  un'ora 
di  strada  dal  podere  di  Zeibedeo,  verso  il  principio  di  una  vallata 
e  quasi  ai  piedi  dei  monti. 

Non  s'era  trascurato,  Bellia,  ad  andare  a  visitare  la  proprietà 
dello  zio;  e  del  resto  aveva  fatto  bene. 

I  due  servi  avevano  ripreso  a  lavorare;  zappavano  la  vigna,  e 
tc^lievano  alle  viti  i  traici  superflui:  di  solito  lavoravano  uno  di- 
stante dall'altro,  in  silenzio;  in  quel  momento  invece  s'erano  avvi- 
cinati e  si  scambiarono  qualche  parola  sottovoce.  D'un  tratto  uno 
di  essi  raggiunse  il  padrone  che  s'era  alquanto  allontanato  e  si  chi- 
nava per  guardare  le  viti. 

—  Zio  Zebedeo,  —  disse  con  accento  rispettoso,  —  prima  di  mo- 
rire zio  Basilio  vi  avrà  forse  detto  che  io  gli  devo  dieci  scudi. 

II  padrone  lo  guardò  dal  basso,  con  sdegno,  e  senza  sollevarsi 
borbottò  : 

—  Egli  non  ha  avuto  tempo  neppure  di  dirmi  addio,  figurati 
se  pensava  ai  tuoi  dieci  scudi. 

—  Non  importa,  glieli  devo  lo  stesso,  e  appena  potrò  li  resti- 
tuirò. 0  se  credete,  zio  Zebedeo,  voi  potete  ritenerveli  dalla  paga 
mia  e  di  mio  fratello. 

—  Vattene,  tu  coi  tuoi  dieci  scudi!  Noi  faremo  delle  elemosine 
in  nome  e  in  memoria  del  morto;  puoi  tenerli  i  suoi  dieci  scudi. 

Il  servo  lo  guardò  un  poco  sbalordito,  perchè  sapeva  per  espe- 
rienza che  i  Barcai  non  erano  molto  generosi.  E  una  viva  gioia  gli 
brillò  negli  occhi  melanconici,  per  un  momento  rimase  incerto  se 
insistere  o  no;  decise  per  il  no:  aveva  fatto  il  suo  dovere,  dichia- 
rando un  debito  che  il  padrone  ignorava:  Dio  lo  compensava  per 
la  sua  buona  coscienza. 

—  Dio  vi  rimeriti,  allora  —  disse  commosso;  —  io  e  mio  fratello 
ci  ricorderemo  della  vostra  bontà;  e  pregheremo  -per  voi  e  per  il 
beato  morto. 

E  tornò  presso  il  fratello,  col  quale  si  rimisero  a  lavorare  con 
più  lena  di  «prima. 

Ma  il  padrone  non  sembrava  contento;  nel  sollevarsi  s'era  sen- 
tito arrossire  per  la  stizza,  perchè  neppure  lui  sapeva  il  perchè  della 
sua  improvvisa  generosità;  se  avesse  potuto  avrebbe  ritirato  la  sua 
parola;  non  potendolo  imprecò  fra  di  sé  contro  i  servi  e  mandò  al 
diavolo  le  preg-hiere  ch'essi  promettevano  iper  lui  e  per  l'anima  del 
morto. 

E  il  diavolo  si  mangiò  anche  quei  dieci  scudi. 


IL    DIO   DEI    VIVENTI  15 


Di  solito  egli  si  tratteneva  a  lungo  nel  podere,  aiutando  i  servi 
a  lavorare  e  visitando  minutamente  ogni  cosa,  E  aveva  piena  fiducia 
in  quei  due  bravi  ragazzi  ch'erano,  si  può  dire,  cresciuti  nel  podere 
e  lo  amavano  come  proprietà  loro. 

Quel  giorno  invece  provava  quasi  noia  a  visitare  la  sua  terra; 
una  smania  di  camminare,  di  andare  in  qualche  altro  posto  lo  co- 
stringeva ad  affrettarsi;  e  i  due  servi,  nonostante  la  recentissima 
prova  della  loro  onestà,  anzi  forse  a  causa  di  questa  prova,  gli  riu- 
scivano improvvisamente  antipatici. 

Attraversando  uno  spazio  coltivato  a  fave  destinate  ad  essere 
raccolte  e  seccate  alla  loro  prima  maturità,  vide  un  sacchetto  colmo, 
legato  in  cima,  e  subito  pensò  che  fosse  pieno  di  fave  fresche. 

I  servi  dovevano  coglierle  a  sua  insaputa,  per  portarsele  a  casa 
o  venderle;  perchè  non  potevano  essere  disonesti  anche  loro?  Forse 
erano  figliuoli  o  nipoti  di  santi?  Col  piede  tastò  il  sacco,  era  duro, 
ma  non  bitorzoloso  come  avrebbe  dovuto  esserlo  se  pieno  di 
fave.  Si  volse  a  guardare  se  lo  vede\'ano;  le  fave  erano  alte,  che  co- 
privano la  sua  persona  curva:  allora  slegò  il  sacco;  e  vide  ch'era 
pieno  solamente  d'erba  pesta  sanguinante  per  il  rosso  dei  papaveri 
che  vi  sd  mescolavano. 

Legò  di  nuovo  il  sacco,  cercando  di  farlo  com  era  prima  perchè 
i  servi  non  si  accorgessero  della  sua  diffidenza;  poi  ripartì,  senza 
neppure  salutarli;  essi  però  non  solo  scusarono  ma  trovarono  giusto 
il  suo  triste  umore  :  non  si  può  ridere  né  essere  espansivi  tre  giorni 
dopo  la  morte  improvvisa  di  un  fratello. 

Ed  egli  se  ne  andava  tirandosi  sul  viso  il  cappuccio  contro  i 
raggi  del  sole,  come  volesse  stare  ben  chiuso  nel  suo  scuro  dolore. 

I  servi  però  dal  basso  della  vigna,  videro- ch'egli,  sebbene  l'ora 
fosse  quella  del  ritomo,  invece  di  avviarsi  al  paese,  andava  in  là, 
verso  i  monti;  forse  incontro  al  figlio,  o  forse  addirittura  a  visitare 
anche  lui  la  proprietà  del  fratello.  Dopo  tutto,  i  morti  son  morti, 
e  ai  vivi  Dio  stesso  comanda  di  vivere  e  di  fare  il  proprio  dovere. 

Zebedeo  non  sapeva  veramente  se  era  Dio  a  ordinargli  di  an- 
dare verso  la  proprietà  del  fratello  :  in  principio  non  era  stata  questa 
la  sua  intenzione,  e  anche  adesso  si  avviava  con  mala  voglia,  spinto 
da  una  irrequietudine  nervosa,  e  sopratutto  dal  desiderio  di  incon- 
trarsi con  Bellia  e  rifare  la  strada  assieme. 

Questo  Bellia  era  un  ragazzo  di  sedici  anni,  che  aveva  ancora 
la  spensieratezza  innocente  dei  bambini  e  nello  stesso  tempo  già 
qualche  cosa  di  maturo,  di  assennato  :  dava  un  senso  di  gioia  a  starci 
assieme,  e  il  padre,  quando  era  con  lui  si  sentiva  ringiovanire. 

—  Eppoi  bello!  —  pensava  con  tenerezza  orgogliosa.  —  Alto, 
sottile,  diritto  e  liscio  come  un  fusto  di  pioppo  :  e  gli  occtìi  gli  ridono 
da  lontano,  nel  viso  pulito  come  quello  di  una  fanciulla.  La  bellezza 
di  casa  nostra!  Non  sembra  neanche  mio  figlio. 

Intanto  camminava.  Il  sole  era  ancora  alto,  ma  già  in  declino 
verso  l'occidente  :  le  ombre  si  allungavano,  lo  scintillare  delle  foglie 
e  dei  giunchi  si  faceva  più  vivo,  l'aria  più  odorosa. 

S'avvicinavano  i  monti,  con  le  loro  cataste  di  massi  granitici 


16  IL   DIO  DEI    VIVENTI       | 

simili  a  enormi  rovine;  le  ombre  al  calare  del  s(rfe  si  allungavano 
tutte  in  su  come  tentando  di  arrampicarsi  verso  le  cime. 

Adesso  il  passaggio  era  popolato  di  greggie  e  di  armenti,  iper 
la  vicinanza  del  fiume  il  quale  mostrava  il  suo  gomito  d'argento  tra 
il  monte  e  il  principio  della  valle. 

Laggiù  era  la  proprietà  del  morto,  di  grande  valore  appunto 
perchè  confinava  con  quel  corso  d'acqua  che  non  veniva  meno  come 
in  altri  luoghi,  neppure  dopo  le  lunghe  siccità  estive  e  spesso  anche 
invernali. 

Per  arrivare  (più  .presto  Zebedeo  lasciò  la  strada  principale  e 
prese  un  viottolo  fra  due  muricele  ricoperte  di  rovi;  era  un  viottolo 
pericoloso,  lungo  il  quale  i  malfattori  usavano  assalire  e  depredare 
i  viandanti  :  Ziebedeo  non  aveva  mai  per  questo  esitato  ad  attraver- 
sarlo, solo,  adesso,  quel  senso  d'angoscia  che  non  lo  abbandonava 
più,  gli  stringeva  forte  il  cuore:  ecco,  sentiva  una  paura  va^a,  mi- 
steriosa; gli  pareva  di  aver  dei  nemici  adesso,  lui  ohe  non  ne  aveva 
avuti  mai,  e  che  lo  aspettassero  in  agguato  dietro  le  muricele. 

Due  occhi  infatti  scintillavano  attraverso  la  siepe;  brilla  la  punta 
di  un  pugnale,  e  più  in  qua  la  bocca  di  un  fucile:  idiota  che  sei, 
Zebedeo,  è  il  sole  al  tramonto  che  fa  questi  scherzi. 

E  lo  stridere  degli  uccelli,  il  fischio  del  merlo,  lo  zirlo  dei  primi 
grilli  pare  lo  irridano  con  la  loro  musica  spensierata;  tutta  la  natura 
ride,  e  anche  il  più  umile  stelo  e  anche  l'erba  velenosa  danzano  al 
vento  del  tramonto;  ogni  cosa  si  gode  la  sua  gioia,  anche  le  ombre 
pare  salgano  verso  le  cime  per  sparire  il  più  tardi  possibile;  e  tu 
solo,  o  uomo,  rodi  coi  tuoi  denti  stessi  il  tuo  cuore.  Il  nemico  è 
dentro  di  te,  mentre  lo  credi  dietro  la  siepe,  e  tutto  questo  perchè 
ti  sei  dimenticato  che  Dio  vuole  si  viva  giorno  per  giorno  come  gli 
uccelli  dell'aria,  come  gli  steli  dei  campi. 

All'uscita  del  viottolo  provò  finalmente  un  senso  di  sollievo.  La 
bella  proprietà  del  fratello  morto  era  lì  tutta  davanti  a  lui  :  gli  ap- 
ipariva  come  una  visione  fantastica;  come  quando  egli  la,  vedeva  col 
.pensiero  avido  di  possederla:  eccola,  era  distesa  sulla  china  soleg- 
giata dove  il  monte  si  versava  nella  valle,  e  si  prolungava  nei  prati 
a  destra  verso  la  pianura;  si  potevano  distinguere  tutte  le  muriccie 
di  cinta  che  la  circondavano  serpeggiando,  e  tutti  i  colori  della  ve- 
getazione che  l'arricchiva,  dal  verde  cupo  delle  querele  al  verde 
smeraldino  dei  pascoli,  dal  verde  vivo  della  vigna  a  quello  grigio 
degli  olivi  e  dei  fichi  d'india:  e  il  rosso  e  il  nero  delle  vacche  al 
pascolo  e  il  bianco  delle  pecore  e  il  glauco  dei  salici  piangenti  che 
abbandonavano  le  larghe  chiome  al  vento  lungo  il  fiume. 

Una  casetta  bassa,  tutta  di  ^pietra,  col  tetto  di  tegole  rosse,  do- 
minava la  proprietà;  fin  laggiù  dove  stava  Zebedeo  si  sentiva  l'ab- 
baiare dei  cani  e  le  voci  degli  uomini  che  lavoravano  nella  vigna. 

Ma  non  era  tutto  questo  che  ridonava  la  vita  e  il  senso  della 
gioia  al  cuore  dell'uomo:  più  che  le  querele  del  X)ascolo  e  le  roccie 
e  la  casa  saprà  il  podere,  egli  vedeva  ima  figura  dominare  su  tutte 
le  cose,  sebbene  fosse  giù  ai  piedi  della  proprietà  anzi  già  fuori  di 
essa,  davanti  al  cancello  chiuso:  il  figlio  Belila,  che  dopo  aver  visi- 
tate le  terre  del  morto,  se  ne  tornava  a  casa. 

Il  padre  gli  andò  incontro  come  se  avesse  avuto  paura  di  non 
rivederlo  più. 


IL  DIO  DEI    VIVENTI  17 


Il  giovane  era  anche  lui  a  cavallo;  montava  anzi  un  puledro 
già  appartenente  allo  zio.  Questo  bel  puledro  nero,  fresco  e  lucido 
come  fosse  verniciato,  con  un  ciuffo  da  discolo  sugli  occhi  tristi  e 
torvi  che  pareva  meditassero  una  cattiva  azione,  nel  vedere  il  vec- 
chio cavallo  castaneo  di  Zebedeo  s'animò  tutto,  scuotendo  le  orecchie, 
la  coda,  la  criniera;  ma.  era  un'accoglienza  piuttosto  ostile,  cc«ne  se 
gli  desse  noia  il  pensiero  di  rifare  il  viaggio  assieme,  mentre  aveva 
bisogno  della  sua  piena  libertà  per  i  suoi  scatti  e  i  suoi  capricci  di 
bestia  giovane  ancona  non  persuasa  di  essere  domata. 

Il  vecchio  cavallo  castaneo  parve  invece  non  accorgersi  di  nulla  : 
procedeva  filosoficamente,  un  po'  stanco  ma  rassegnato  al  suo  de- 
stino, profittando  solo  delle  distrazioni  del  padrone  per  allungare  il 
muso  e  strappare  qualche  fronda  e  qualche  ciuffo  d'erba. 

—  Come  mai  da  queste  imrti?  —  domandò  Belila  al  padre.  E  nel 
suo  accento  allegro  vibrò  qualche  cosa  d'ironico  che  dispiac^pie  a 
Zebedeo;  pareva  che  il  figlio  sapesse  già  che  anche  il  padre  sarebbe 
venuto  quel  giorno  stesso  a  vedere  la  proprietà:  il  tempo  fa  presto 
ad  asciugare  le  lacrime  degli  eredi. 

E  Zebedeo  fu  per  rispondere:  ci  sei  venuto  tu  prima  di  me; 
perchè  infine,  i  beni  di  tuo  zio  sono  piiì  tuoi  che  miei. 

Ma  non  lo  fece;  non  aprì  bocc^  finché  non  fu  ben  vicino  al  gio- 
vinetto in  modo  da  poter  parlare  sottovoce. 

—  Tu  hai  fatto  male  a  venire  così  presto,  —  gli  disse  con  finto 
rimprovero;  ed  io  ti  sono  venuto  incontro  per  dirtelo.  Che  avranno 
pensato  i  servi  del  tuo  povero  zio? 

—  Ma  se  sono  rimasti  tutti  contenti,  nel  vedermi!  Se  mi  aspet- 
tavano! Paulu  il  pecoraio  mi  ha  detto  che  ha  fatto  un  brutto  sogno  : 
che  zio  Basilio  aveva  lasciato  la  sua  roba  all'amica.;  e  questa  era 
venuta  a  prendere  possesso,  nera  e  insolente  come  la  moglie  del 
diavolo.  —  Volevo  accopparla,  così  Sant'Antonio  mi  salvi,  —  disse 
Paulu,  —  e  volevo  sotterrarla  fra  le  pietre.  E  così  sarebbe  accaduto 
se  fosse  stato  vero.  —  E  tutti  a  ridere,  perchè  parlava  sul  serio, 
ancora  scombussolato  dal  sogno.  E  anche  gli  altri  dicevano:  meglio 
entrino  le  volpi,  le  locuste  e  i  ladri  :  da  queste  ci  si  difende,  non  da 
quella  fattucchiera. 

Il  padre  taceva. 

—  Giacché  siete  arrivato  fin  qui,  perchè  non  entrate?  —  riprese 
Belila,  tentando  di  ritornare  verso  il  cancello:  il  puledro  però  resi- 
steva, non  voleva  volgersi  indietro.  D'altronde  Zebedeo  non  aveva 
voglia  di  entrare;  o  meglio  sì  ne  aveva  voglia  in  fondo  ma  anche 
lui  resisteva  al  suo  desiderio  come  il  puledro  alla  mano  di  Bellia. 

—  Andiamo;  è  tardi  :  tua  madre  s'inquieta. 

S'avviarono  insieme:  ma  il  puledro  si  tirava  indietro  o  in  avanti, 
come  avesse  vergogna  di  accompagnarsi  al  vecchio  cavallo.  Le  loro 
code  si  sbattevano  contro  le  mosche  in  diverso  modo;  con  stizza  quella 
della  bestia  giovane,  con  abitudine  rassegnata  quella  del  cavallo. 

—  Paulu  il  pecoraio,  che  è  vecchio  come  Sant'Antonio  e  quindi 
un  credulone,  ha  paura  di  quella  strega,  —  insisteva  il  giovane  ri- 
dendo ancora  per  le  superstizioni  del  servo.  —  Ha  paura  ch'essa  pre- 
pari qualche  fattucchieria  per  far  ammalare  il  bestiame  :  ha  quindi 

2  Voi.   CX^Vn,  Searle  VI  —  1*   marzo  1922. 


18  IL   DIO   DEI    VIVENTI 

recitato  gli  scongiuri,  e  lungo  le  miuriocie  dell'ovile  e  dello  stabbio 
ha  meseo  delle  foglie  dd  olivo  benedette  e  croci  di  canna  e  altre  dia- 
volerie; anche  gli  altri  ci  credono.  Perchè  era  abituata  a  ricevere 
reg-ali,  il  povero  zio  Basilio  le  niandava  ogni  cosa  come  si  trattasse 
di  pagare  le  decime  a  lei,  invece  che  alla  chiesa.  Le  cuocerà,  si,  di 
non  aver  più  il  formaggio  fresco  per  le  sue  focacce  e  Le  fave  e  le  altre 
cose.  Io  non  credo  alla  sua  potenza,  son  tutte  chiacchiere  dei  servi. 
Però  oggi  quest'animale  sembra  aizzato  dal  diavolo,  —  egli  disse  poi, 
poiché  il  puledro  s'impennava  e  faceva  mille  dispetti. 

—  Anch'io  non  ci  credo,  —  disse  il  padre;  —  ma  ad  ogni  modo 
non  bisogna  beffarsi  di  lei  e  provocarla.  È  capace  di  tutto.  Sai  che 
ieri  gridava  che  noi  abbiamo  fatto  sparire  il  testamento  a  suo  favore? 

— ^  Sì,  ho  sentito  le  donne  chiacchierane.  E  il  fatto  è  risaputo, 
lo  sanno  anche  i  servi  nostri  e  quelli  di  qui;  io  non  so  come  questa 
gente,  pur  restando  in  campagna  come  le  volpi,  sappia  tutto. 

Il  padre  s'era  fatto  più  scuro  di  prima. 

—  Sì,  certe  cose  volano;  pare  che  il  vento  si  comjpiaocda  a  span- 
dere le  malignità.  E  che  dicevano  quelli  di  qui? 

Egli  sembrava  preoccupato  più  che  dell'opinione  dei  servi  suoi, 
di  quella  dei  servi  che  ancora  non  osava  dire  suoi. 

—  Che  dicevano?  Che  se  mai,  abbiamo  fatto  bene. 

—  Bellial  —  disse  il  padre  sdegnato.  —  E  tu  non  hai  risposto 
mal^? 

—  Perchè  dovevo  rispondere  male?  Anch'io  penso  così.  Se  io 
avessi  saputo  che  c'era  una  carta  in  favore  di  quella  strega  l'avrei 
cercata  e  strappata. 

—  Tu  avresti  commesso  un  peccato  mortale  e  un  atto  disonesto. 
La  legge  punisce  tali  cose. 

—  La  legge  è  fatta  da  uomini,  ed  è  tutta  inganni.  La  legge  me 
la  faccio  io;  e  prendo  quello  che  mi  spetta. 

—  Tu  non  hai  religiome,  Bellia;  lo  dice  anche  tua  madre,  seb- 
bene veda  solo  per  gli  occhi  tuoi.  Dio  comanda  di  non  toccare  la 
roba  altrui. 

—  La  roba  di  mio  zio  morto  spetta  a  me. 

—  C'è  il  figlio. 

—  Che  ne  sappiamo  noi  se  è  suo  figlio?  Quella  strega  ha  avuto 
commercio  anche  col  demonio;  almeno  così  dice  la  voce  pubblica. 
E  zio  Basilio  era  uomo  di  coscienza,  se  fosse  stato  sicuro  di  essere 
padre  di  quel  ragazzo  lo  avrebbe  legittimato  o  almeno  adottato, 
questo  lo  diceva  anche  Paulu,  che  è  uomo  religioso  e  devoto. 

—  È  vero,  —  ammise  il  padre.  —  A  questa  non  ci  avevo  pensato. 
Del  resto  è  meglio  non  pensarci  più,  perchè  parlarne?  Oramai  tutto 
è  fatto.  Però,  —  aggiunse  con  la  voce  monotona  di  chi  ha  un'idea 
fìssa,  —  bisogna  provvedere  egualmente  alla  donna  e  al  bambino 
anche  per  non  far  mormorare  la  gente. 

—  La  gente  mormora  lo  stesso.  Se  voi  mandate  regaU  a  quella 
streg-a  dicono  che  è  diventata  vostra  amica.  Voi  credete  che  non  si 
sappia  già  che  ieri  notte  voi  siete  stato  da  lei? 

—  Oh,  perdio!  —  gridò  l'uomo  fermando  il  suo  cavallo,  mentre 
il  puledro,  come  aizzato  da  qiiel  grido,  si  metteva  a  correre  parando 
calci  da  ogni  lato.  Così  sbucò  dal  viottolo  sulla  strada,  dove  continuò 
la  sua  corsa  con  più  furia.  Bellia  era  forte  e  si  teneva  bene  in  sella. 


IL   DIO  DEI   VIVENTI  19 

frenando  con  tutta  la  sua  abilità  la  bestia  impazzita;  anzi  pareva 
prenderci  gusto,  come  nelle  corse  dei  puledri  nelle  quali  una  volta 
era  stato  vincitore.  In  breve  spar\e  allo  svolto  della  strada,  riap- 
parve più  lontano,  piccolo  e  nero,  sparve  ancora. 

Il  padre  intanto  era  uscito  anche  lui  dal  viottolo  e  guardava; 
l'angosica  di  nuovo  gli  stringeva  il  cuore;  aveva  paura  che  Belila 
cadesse  e  si  facesse  del  male.  Imprecazioni  violente  gli  uscivano  di 
bocca,  senza  ch'ali  lo  volesse.  E  pensava  di  vendere  al  più  presto 
quel  puledro  indemoniato.  Ricordava  di  essere  stato  una  volta  alla 
festa  del  Cristo,  nella  Baronia,  e  d'aver  assistito  a  una  serie  di  di- 
sgrazie accadute  per  causa  di  un  puledro  rubato,  che  il  ladro  stesso 
cavalcava. 

Il  più  strano  fu  che  anche  il  vecchio  cavallo  di  Zebedeo,  sempre 
cosi  calmo  e  filosofo,  pyarve  ad  un  tratto  vinto  dal  cattivo  esempio; 
si  mise  a  trottare  pesantemente,  riz2ando  le  orecchie  e  sparando 
calci;  ma  quando  il  padrone,  che  non  prendeva  gusto  al  giuoco, 
poiché  non  riusciva  a  frenarlo  gli  diede  qualche  pugno  sulla  fronte, 
riprese  a  camminare  al  passo,  con  la  testa  bcissa,  un  po'  umiliato. 
Da  lontano  Zebedeo  vide  che  anche  il  figliuolo  era  riuscito  a  fer- 
mare il  puledro,  ma  balzando  a  terra  e  tenendolo  per  la  briglia,  alla 
quale  s'intrecciava  la  criniera  scomposta. 

Il  puledro  sudava  e  la  sua  bava  sanguigna  bagnava  la  mano 
che  lo  frenava;  il  giovane  era  così  pallido  che  il  padre  si  turbò  pro- 
fondamente. 

—  Che  hai?  Belila!  Hai  del  sangue  nella  mano. 

—  Ebbene,  —  gridò  il  giovane  con  dispetto,  —  questo  demonio 
è  divenuto  un  cane  arrabbiato:  mi  ha  morsicato. 

Il  padre  sentì  tale  ira  che  se  avesse  avuto  U  fucile  avrebbe  am- 
mazzato il  puledro. 

—  Lavati  la  mano  con  questo,  —  gridò  traendo  dalla  bisaccia 
una  piccola  zucca  piena  di  vino. 

Ma  Belila  prese  la  zucca  e  bevette  il  vino. 

—  Fa  più  bene  dentro  che  fuori,  —  disse  riprendendo  la  sua 
all^ria. 

E  non  volle  neppure  fasciare  la  mano,  che  del  resto  era  stata  ap- 
pena scalfìtta  sul  dorso  dai  denti  del  puledro. 

Anche  la  bestia,  compiuta  la  sua  prodezza  e  stordita  dai  pugni 
che  il  giovane  gli  aveva  dato  e  continuava  a  dargli  sul  muso  e  sugli 
occhi,  s'era  data  per  vinta:  solo  torceva  la  testa  e  batteva  a  terra 
una  delle  zampe  posteriori  come  per  chiedere  di  finirla  e  di  ri- 
partire. 

Ripartirono:  e  solo  quando  furono  in  vista  del  paese  il  padre 
riprese  il  discorso  interrotto  dalla  fuga  del  puledro. 

—  Chi  ti  ha  detto  che  io,  ieri  notte,  sono  stato  da  quella  donna? 
Anche  lui,  pur  evitando  gli  epiteti  selvaggi  che  gli  altri  davano 

a  Lia,  non  osava  chiamala  col  suo  nome. 

—  Me  lo  hanno  anche  accennato  i  fratelli  Pintori,  i  vostri  due 
Santarelli;  e  poi  me  lo  disse  Paulu  il  pecoraio;  disse:  tuo  padre 
avrà  creduto  di  fare  un'opera  buona,  ma  quella  strega  non  lo  merita. 

—  Chi  diavolo  può  ficcarsi  così  nei  fatti  miei?  Sì,  è  vero,  ci 
sono  stato,  per  placarla,  perchè  non  continui  a  dare  scandalo.  Ad 
ogni  modo  non  dirlo  a  tua  madre  e  a  zia  Annia! 


20  IL   DIO  DEI    VIVENTI 

—  Oh,  lo  sapranno  anche  loro. 

—  E  se  lo  sanno,  lascia  che  lo  sappiano!  —  gridò  Zebedeo  :  ma 
pareva  lo  dicesse  più  a  sé  stesso  che  al  figlio. 

•  • 

Era  già  sera  quando  arrivarono  a  casa.  Tutto  era  chiuso  e  scuro; 
solo  dal  comignolo  usciva  come  furtivamente  un  filo  di  fuimo  che  si 
sperdeva  nel  cielo  chiaro  di  luna. 

I  due  uomini  cercavano  di  rientrare  più  chetamente  possibile, 
frenando  il  passo  ai  cavalli  :  anche  il  puledro  obbediva,  adesso;  pa- 
reva stanco;  partecipe  della  tristezza  dolce  della  sera. 

II  portone  si  aprì  come  da  per  se,  lasciò  entrare  i  due  cavalieri, 
si  richiuse  silenziosamente:  e  la  famiglia  fu  tutta  dentro  nella  sua 
casa,  al  sicuro  di  ogni  sorta  di  pericolo. 

Il  fuoco  ardeva  nel  camino,  la  cena  era  pronta;  zia  Annia 
già  andata  a  letto  perchè  accusava  un  dolore  alle  reni;  e  Zebedeo 
fu  contento  di  non  vederla.  Ecco  che  tutto  pareva  tornato  come  prima, 
quando  non  bisognava  chiudersi  dentro  per  scambiar  due  parole  e 
mangiare  in  santa  pace  una  coscia  di  agnello:  solo  l'ombra  delle 
donne  così  incappucciate  di  nero,  pareva  stendersi  ipiù  densa  sul 
pavimento  e  sulle  pareti. 

Ma  la  serva  diede  un  grido  isterico,  un  po'  esagerato  e  falso, 
nel  vedere  la  mano  di  Bellia,  mentre  egli  le  porgeva  la  bisaccia  tolta 
al  cavallo. 

—  Che  hai  fatto  a  quella  mano?  Che  animale  ti  ha  morsicato? 

—  Va'  al  diavolo;  non  è  poi  la  tarantola  che  mi  ha  morsicato. 

—  Mi  pare  invece  proprio  il  morso  della  tarantola. 

La  madre  era  accorsa  a  guardare  :  e  il  cuore  le  batteva,  nel  petto 
grasso:  perchè  Bellia  era  sempre  un  fanciullo  per  lei,  ed  era  ipur 
ieri  che  ogni  spina  ogni  sasso  rappresentava  un  pericolo  -per  il  suo 
timore  di  madre. 

Bellia  cercava  di  nascondere  la  mano  appunto  come  un  bam- 
bino che  si  è  fatto  qualche  male  per  sua  colpa. 

—  Ma  non  è  nulla:   è  un  rovo  che  mi  ha  graffiato. 

—  Non  sarà  stato  un  cane,  a  morderti,  figlio  mio?  Di'  la  verità. 

—  Vi  giuro  che  non  è  stato  un  cane.  Lasciatemi  in  pace  e  datemi 
da  mangiare. 

La  serva  vuotava  la  bisaccia  dove  Paulu,  il  pecoraio  del  povero 
Basilio,  aveva  collocato  due  forme  di  cacio  fresco  ed  una  di  ricotta  : 
a  sua  volta  2jebedeo  vuotava  la  sua,  versando  in  un  canestro  le  fave 
fresche  del  podere;  un  odore  di  ovile  e  di  orto  si  spandeva  intomo, 
con  quei  doni  della  terra  alla  casa  dei  suoi  fortunati  padroni,  e  si 
mischiava  con  l'odore  dell'arrosto  allo  spiedo  che  usciva  dal  camino. 

La  tavola  era  appareo/chiata  nella  stessa  cucina,  e  la  serva  man- 
giava coi  padroni,  solo  alzandosi  ogni  tanto  per  prendere  i  piatti  e 
le  pietanze:  a  volte,  anzi,  la  madre  rimbrottava  Bellia,  se  gli  occor- 
reva qualche  cosa  e  non  andava  a  prendersela  da  sé. 

Tuttavia  Zebedeo  avrebbe  preferito  ohe  la  serva  quella  sera  non 
avesse  saputo  della  visita  del  giovane  alla  proprietà  del  povero 
morto;  egli  guardava  bene  la  ragazza  in  faccia,  mentre  mangiavano 
tutti  con  discreto  appetito  l'agnello  arrosto:  e  su  quel  viso  puntuto. 


IL   DIO  DEI    VIVENTI  21 

che  gli  ricordava  quello  di  Lia,  gli  sembrava  di  notare  una  lieve 
aria  di  sarcasmo.  0  forse  era  solo  una  sua  illusione,  poiché  tutto 
ormai  gli  dava  sospetto. 

Bellia  era  allegro  e  raccontava  della  sua  visita  alla  proprietà  e 
le  chiacchiere  e  le  superstizioni  dei  servi. 

—  Ma  che  avete?  —  disse  ad  un  tratto,  rivolto  alla  madre  e  alla 
serva.  —  Non  fate  che  guardarmi  la  mano;  finirete  col  farmi  il  ma- 
locchio. 

La  madre  si  toccò  un  nastrino  giallo  che  teneva  legato  alla  bre- 
tella del  corsetto,  e  la  serva,  che  non  aveva  il  nastrino,  fece  le  fiche  : 
tutto  iper  scongiurare  il  malocchio. 

E  lì  per  lì  la  serva,  che  mentre  stava  a  tavola  non  apriva  bocca 
per  rispetto  ai  padroni,  non  disse  nulla;  ma  quando  si  fu  alzata  e 
cominciò  a  sparecchiare  mormorò  come  fra  sé: 

—  Per  scongiurare  bene  il  malocchio  bisognerebbe  andare  da 
Lia  e  rubarle  una  pezzuola  per  avvolgere  la  mano  malata. 

—  Ma,  accidenti  a  te,  io  non  ho  nessun  male,  —  gridò  Belila, 
scuotendo  la  mano  per  dimostrare  tutta  la  forza.  —  Quanto  scom- 
metti che  te  lo  provo  a  spese  della  tua  testa? 

E  balzò  sulla  ragazza  come  per  darle  uno  scapaccione;  ma  fa- 
ceva per  burla,  e  si  contentò  di  afferrarla  per  gli  omeri  e  scuoten- 
dola di  qua  e  di  là  sino  a  farle  venire  il  capogiro. 

Grazia  Deledda. 

{Co7itinua). 
Riproduzione  vietata. 


LA    SANFELICE 


POEMA    TRAGICO 


ATTO  QUINTO 

Il  torrione  del  Carmine.  Lo  stanzone  nudo  ai  prolunga  invisibile  a  destra. 
Sotto  un'alta  inferriata,  che  s'apre  nel  muro  di  fondo,  è  incastrato  un  sedile  di 
pietra,  e  dalla  parte  dello  stan2K>ne  si  vede  un  letticciuolo  a  panchette,  una 
lanterna  appesa  alla  parete  e  una  brocca  per  terra.  A  sinistra,  un  Crocifisso 
apre  le  braccia  sur  una  porta  di  ferro,  serrata. 


SCENA  I. 
La  Caporalessa  fila,  la  Monaca  e  Zizzella  cuciono  su  la  panca. 

La  Caporalessa 
{sbacchiando  il  fuso  e  la  conocchia  per  terra) 

Malannaggia  la  carcere!  Ma  guarda 
S'è  vita,  questa!  E  fila,  e  fila,  e  fila! 
Non  ho  più  dita.  Ah!  se  mi  capitasse 
Qui  fra  gli  ugnelli  quel  caji  traditore 
Che  m'ha  messo  ne'  guai! 

La  Monaca. 

Si  ricomincia 
Adesso!  E  datti  pace!  Quel  ch'è  stato 
fi  staiol 

La  Caporalessa. 

Già:  perchè  tu  con  le  tue 
Arie  da  santerella  —  e  tu  m'intendi!  — 
C'è  il  guardiano  che  ti  fa  le  spese. 

La  Monaca. 
E  96  ti  prude,  grattati! 

Zizzella 

(alzandosi) 

Ragazze, 
Finitela!  Sapete  che  c'è  quella 


LA   SANFELICE 

Signora,  poverina!  Non  è  mica 
Una  perduta,  come  noi. 

La  Qaporalessa, 

Credevo 
Che  dormisse.  Ma  già,  lei  non  ci  sente: 
È  uscita  di  cervello. 

ZlZZELLA. 

E  a  volte  invece 
Discorre  tanto  benel  In  tutto  il  tempo 
Che  dovè  rimanersene  a  giacere, 
Dopo  il  suo  parto,  avea  persin  vergx^na 
A  chiedere  un  po'  d'acqua.  E  una  vocina 
Così  soave  e  man-sueta!  Quando 
Parla  al  bimbino  suo,  dilania  il  core. 

Luisa 

{di  dentro,  cantando) 

«  Fate  la  nanna  e  fatela  con  Dio, 
Fatela  voi  che  la  farò  pur  io...  ». 

La  Monaca. 
È  condannata  a  morte? 

ZlZZELLA. 

Ma  si  dice 
Che  avrà  la  grazia. 

La  Caporalessa. 

Cos'ha  fatto  poi? 
Era  una  patriota. 

La  Monaca. 

'Eh,  Pos'e  fiori! 
Volea  nient'altro  che  tagliare  il  capo 
Al  re  nostro. 

La  Gapcmialessa. 

Chi?  lei?  ma  dille  grosse! 

Luisa 

{di  dentro,  cantando) 

«  Nata  in  buon'ora,  ed  in  buon'ora  sia 
L'ora  che  tu  nascjesti,  ansima  mia...  ». 

La  Monaca. 

Come  sei  scema!  Si  sa,  non  già  proprio 
Con  le  sue  mani,  lei  :  c'era  un'intesa. 
Ed  eran  tanti,  anche  uomini.  Totore, 
L'innamorato  mio  che  comandava 
Una  squadra,  di  lazziari,  mi  fece 
Vedere  più  di  dodici  orologi 


28 


u 


LA    SANFBLICB 

Che  avea  tolti  di  tasca  a'  giacobini 
Tratti  in  prigione. 

ZlZZELLA. 

A  me,  che  una  signora 
Così  morbdda  e  fina  avesse  in  mente 
Di  versar  l'altrui  sangTje,  ecco,  non  m'entra. 

La  Monaca. 

Ah  sì?  Ma  tu  con  quella  tua  boc<ihella 
Di  pupattola,  dunque,  o  non  facesti 
Il  servizio  alla  Rossa  di  stamparle 
Un  Sette  in  faccia  a  colpi  di  rasoio? 

La  Caporalessa. 
Il  gxiardìano!  State  zitte. 


SCENA  II. 

{S'ode  cigolare  la  chiave  nella  toppa  :  s'apre  la  porta,  e  appa- 
risce il  guardiano  con  donna  Lucia,  -levatrice;  poi  Luisa). 

Il  Guarduno 

[a  donna  Litcia) 

.Attendo 
Qui  fuori:  fate  presto! 

Donna  Lucia. 

Eh,  dite  bene! 
Ah,  che  sventura!  E  proprio  a  me!  Figliuole 
Mie,  che  sventura! 

ZlZZELLA,  la  Caporalessa,  la  Monaca. 

Insonuma,  cos'è  stato? 
Sedetevi. 

Donna  Lucia 

{sedendo) 

Figliuole  cane,  un  sorso 
D'acqua!  {Beve).  Dov'è?  dov'è?  Poveri  noi! 

La  Caporalessa. 

Chi?  la  partoriente?  Eccola! 

{Addita  verso  l'interno). 

ZlZZELLA. 

Dunque? 
Che  c'è  di  nuovo?  Via,  non  ci  tenete 
Su  La  corda. 

Donna  Lucia 

{con  voce  bassa  e  paurosa) 

È  per  oggi! 


LA  SANFELICE  25 

ZlZZELLA. 

Cosa,  accade 


Og^? 


Donna  Lucia. 

{accennando  a  Luisa) 

Lei!  led!  la  povera  Luisa! 
Giustiziata! 


Piccino? 


ZlZZELLA. 

Ah!..,  proprio  vero?  E  il  3uo 

Donna  Lucia 

(angosciata) 

È  questo!  è  questo!  M'hanno  dato 
Ordine  di  levarglielo. 

La  Caporalessa. 
Che  belve! 

La  Monaca. 
Zitte!  viene  per  qua. 

{Appare  Luisa  col  bambino  nelle  braccia). 

Luisa. 

Buon  dì,'  cornane! 
Buon  dì,  comare!  Ma  guardate  dunque 
Il  mio  oocchino,  che  vuol  tanto  bene 
Anche  a  voi!  Sì  caro,  sì  caro,  sai? 
È  la  comare  che  viene  a  menarci 
Via,  via  di  qui.  Qui  è  troppo  buio,  troppo 
Freddo!...  oh  l'aria,  la  luce,  il  sole,  il  sole 
Grande! 

Donna  Lucia. 
Donna  Luisa! 

Luisa. 

Li  vedete 
Questi  piedi  ni,  comare?  A  baciarli 
Sanno  di  nido.  Due  foglie  di  rosa, 
E  nulla  più.  Ma  non  avranno  mai 
Calzine  né  scarpette.  È  la  disgrazia 
Di  nascer  senza  il  suo  papà,  che  compra 
TTitto  a'  poveri  piccoli.  Potevo 
Io  far  altro  che  piangere,  se  volle 
Abbandonarmi  sola,  nel  selvaggio 
Mondo,  col  suo  bambino,  per  andare 
A  dormire  sotterra? 


2$  la  sanfelice 

Donna  Lucu 
{tra  sé) 
A  me  non  regge 
Il  core  di  levarglielo. 

Luisa. 

Dobbiaono 
Andare  noi  dal  tuo  papà,  dia!  tuo 
Ingrato  papaìno?  Sì,  tesoro! 
Chianialo.  Tu  vedrai  com'egli  è  bello 
E  ardito  nella  sua  divisa  azzurra 
Di  capitano,  e  gli  dirai  soave  : 
Un  bacio,  un  bacio,  un  bado  al  tuo  piooino, 
E  uno  anco  alla  mamma. 

Donna  Lucia. 

Non  volete 
Darlo  a  me,  che  '1  rifasci? 

Luisa. 

...  Io  sono  un  poco 
Debole  di  cervello,  e  non  intendo 
Bene  le  cose,  no,  no,  no,  purtroppo! 
Ma  non  perciò  dovreste  farvi  beffe 
Di  me,  ohe  non  ho  colpa.  Io  mi  rassegno 
A  tutto,  a  tutto:  cucirò  le  vostre 
Sottane,  spazzerò  le  vostre  case, 
Le  vostre  scale  laverò  :  son  tanto 
Vile,  ornai!  Ma  lasciatemi,  vi  prego, 
II  bimbo!  il  cielo,  il  cielo  mio!...  Che  altro 
Posso  dirvi?  Una  volta  ero  una  bella 
Signora,  oh  sì!  oh  sì!  bella:  ricordo 
Che  tutti  m'inchinavano...  Che  farci? 
«<  Un  albero  gran  tempo  coltivai 
Con  molto  affanno  e  con  molto  sudore  : 
Di  lagrime  e  di  sangue  lo  bagnai...  » 
Povera!... 

[Scoppia  in  singhiozzi). 

ZlZZELLA. 

Via,  datevi  pace,  buona 
Signora. 

La  Monaca. 

Non  volete  accomodarvi? 
Starete  con  più  agio. 

Luisa 
{tergendosi  gli  occhi) 

£  fatta!  Adesso 
Datemi  la  mia  veste  nuziale. 


LA    SANFELICE  27 

Egli  m'attende,  lontano,  nel  bianco 
Talamo.  Vengo!  veng-o!...  Oh  non  fissarmi 
Con  que'  tuoi  vitrei  occhi  di  rampogna! 
Ti  duole  il  petto?  Oh,  oh,  povero  amore! 
Come  te  l'hanno  straziato!...  Lascia 
Vedere:  sangue,  sangue,  sangue,  sangue!... 
E  non  vuol  più  stagnare...  Io  non  ho  altro 
Che  le  mie  mani,  e  son  già  tanto  scarne! 
Guarda:  le  vuoi?...  Ma  non  levarmi  il  bimbo, 
Ti  pr^o,  no!...  Dormi  più  tosto.  Il  sonno 
Ti  farà  bene,  e  anche  a  me. 

Il  Guardiano 

(a  donna  Litcia) 

Ma,  dunque? 
Sbrigatevi! 

Donna  Luoa. 

Non  posso!  Come  fare 
A  portarglielo  via?  Vedete? 

Il  Guardiano. 

Insomana, 
L'ordine  è  questo. 

Luisa.  ^ 

È  l'uomo  nero?...  Aiuto! 
Nascondetemi  voi. 

Donna  Lucia. 
Donna  Luisa... 

Il  Guardiano. 

Non  la  mettete  su  l'avviso.  Adesso 
Ci  penso  k). 

{Furtivamente  circonviene  Ltùsa^  mentre  donna  Lucia  la  di- 
strae con  parole;  repente  le  afferra  i  polsi,  di  dietro). 

Donna  Lucia. 

No,  non  vi  date  affanno. 
Poverina!  Chi  sa!...  Bisogna  pure 
Lavarlo,  no? 

Il  Guardiano 

{attanagliando  Luisa,  a  donna  Lucia) 

Prendetelo! 

{Donna  Lucia  leva  di  sorpresa  il  bambimo  dalle  braccia  di 
Ltiisa,  e  fugge.  Il  guardiano  la  segue  e  riserra  la  porta). 


28  LA    SAMFELICE 

SCENA  III. 

Luisa,  Zizzella,  la  Monaca  e  la  Gaporalessa. 

Luisa 
[con  imo  strido  ferino): 

Ah!...  mio  figlio! 
Mio  figlici  mio  figlio!  mio  figlio!  mio 
Figlio!...  Me  lo  fucilano!...  Ah,  briganti! 
Mio  figlio!...  voglio  mio  figlio!...  Un  cosino 
Nato  da  dieci  giorni...  ah!  ah!...  Che  male 
Ha  egli  fatto? 

[Chiama  con  voce  gonfia  di  lagrime) 
Mimmino! 

[Peróote  la  porta  co'  pugni). 

E  questa  porta 
Implacabile!...  Mimmo,  senti  tu 
La  tua  mamma?  No,  no,  no,  no:  me  l'hanno 
Ucciso!...  ucciso!...  Prima  il  i>adre,  e  poi 
Il  figlio,  il  figlio  piccolo!...  Assassini!... 
L'ultimo  liso  de'  miei  poveri  occhi 
Arsi  dal  pianto!...  Ladri!  ladri!  ladri! 
Rendetemi  il  mio  dolce  angelo! 

[Lunga  patisa). 
Nulla! 
L'eterna  sordità  del  cimitero. 
Siam  tutti  morti,  forse.  Oh!  oh! 

[S'accascia  per  terra  rompendo  in  violenti  singhiozzi). 

*  Zizzella. 

Volete 
Un  po'  d'acqua? 

Luisa 

[accenna  di  no  con  la  testa) 

La  Monaca. 

Rizzatevi,  la,  mia 
S ignorai  Lì  per  terra,  come  un  cane? 

Luisa 
[accenna  di  no  con  la  testa) 

La  Gaporalessa. 

Madre  disgraziata!  Ci  volea 

Anche  questo  supplico!  Il  vostro  re? 

Ci  sputo  sopra  io,  puh! 

La  Monaca. 

E  non  è  tutto: 
Ora  entpenanino  gli  altri. 


la  sanfelice  29^ 

La  Gaporalessa. 

Oh  per  me,  dico 
Ch'è  meglio!  Almeno  non  patirà  più. 

ZlZZELLA. 

La  meneraraio  in  cappella? 

La  Gaporalessa. 

Può  darsi  : 
C'è  già  stata  due  volte. 

La  Monaca. 

Ah  vengono,  ecco! 

{Si  riapre  la  porta.  Appariscono  dite  frati  della  compagnia  de^ 
Bianchi:  il  guardiano  riman  fuori  e  richiude). 


SCENA  IV. 

L'Abate  Altobello  e  Fernando  Ferri,  travestiti  da  Bianchi, 
Luisa,  Zizzella,  la  Monaca  e  la  Gaporalessa. 

L'Altobello 
{alle  ragazze) 
Ragazze,  orsù,  spulezzate! 
{Le  tre  detenute  s'allontanano  verso  destra.  UAltobello  fissa 
Luisa  giacente). 

Ghe  orrore!... 
E  che  pietà! 
{Rimane  im?nobile  su  la  porta.  Il  Ferri  si  china  su  Luisa  e^ 
s'alza  il  cappuccio). 

Il  Ferri. 

Signora!  Sono  io, 
Fernando  Ferri:  vengo  a  liberarvi. 
Su,  il  tempo  stringe!  Signora  Luisa! 

Luisa 
{levandosi  lentamente  in  ginocchi  e  giungendo  le  mani) 

0  buon  custode,  non  è  troppo  freddo 

In  questa  sepoltura  :  ve  ne  pr^o, 

Lasciatemi!   Non  ho  proprio  più   forza 

Di  patire:  lasciatemi!  Soltanto 

Sì,  questo  sì,  ponetemi  sul  seno 

Il  mio  bimbo:  chi  sa  quanti  son  mesi 

Ghe  non  ha  latte,  ninnolino  mio! 

E  chiama  la  sua  mamma  :  udite?  Gara 

Vocina  inconsa|>evole! 


30  la  sanfelice 

Il  Ferri 

{airAltobello): 

Non  ode... 
È  inutile! 

L'Altobello. 
Chiamatela  di  nuovo. 

Il  Ferri. 

Luisal 

Luisa. 

Vengo,  vengo!  0  amor  inio  bello. 
Perchè  cosi  stravolto?  Hai  tu  paura 
Che  ti  scoprano  qui,  fra  le  mie  braccia, 
Nel  letto  mio?...  Ssss...  bussano:  che  guati? 
Via  da  quella  terrazza!...  Ah!  ah! 

Il  Ferri. 

Signora, 
Tornate  in  voi.  Vi  salveremo.  Basta 
Indossare  quest'abito,  e  fuggire 
Da  quella  porta.  Sono  il  Ferri,  io  stesso. 
Un  amico. 

Luisa. 

Lo  so;  ma  fate  adagio, 
Che  i  morti  non  ci  sentano.  Vedete? 
Le  loro  croci  sono  senza  fiori  : 
Perchè?  perchè?  Son  tanto  oscuri,  tanto 
Miseri,  tanto  smunti!  E  c'è  un  bambino 
Che  dorme  solo  nella  bara  sola. 
Senza  la  mamma  e  senza  il  babbo. 

Il  Ferri 
[alCAllobello) 


Che  risolvete? 


Or  via, 


L'Altobello. 


Io?...  Vorrei  qui  nel  pugno 
Avere  il  mondo,  per  istriiolarlo 
Così!...  C09Ì!...  così!... 

Il  Ferri. 

Quel  re  feroce 
Sia  maledetto!  lui,  con  la  sua  razza 
Abbomdnata,  e  i  figli  de'  suoi  figli 
Senza  misericordia! 


LA    SANFELICE  31 

SCENA  V. 

{Si  riapre  la  porta.  Entrano  il  gitar diano,  il  canonico  Pttoti^ 
confessore,  e  alcitne  guardie  che  rimangono  su  la  soglia.  UAl- 
tobello  e  il  Ferri  s^  rialzano  H  cappuccio). 

Il  Puon 

(a'  due  Bianchi,  piano) 

È  apparecchiata 
Al  triste  passo? 

L'Altobello. 

{con  un  ghigno  arnaro) 

Non  lo  sa!  L'avranno 
Menata  a  morte  come  si  conduce 
Una  bestia  al  macello.  È  affatto  fuori 
Di  sé. 

Il  Puoti. 
Demente? 

.    L'Altobello. 

Interrogatela  anche 
Vodl 

Il  Puon 

{a  Luisa) 

Non  volete  riconciliarvi 
I  Con  Dio,  sorella,  or  che  vi  sta  sul  capo 

Il  castigo  degli  uomini? 

Luisa. 

Che  chiede 
Questa  gente  da  me?...  Dove  son  io?... 
Ahi!  ahi!  chi  mi  martella  il  cranio?...  Nulla 
V'ho  fatto.  Sono  anch'io  povera  carne 
Battezzata...  No,  no,  ve  ne  scongiuro: 
Non  mi  fate  più  male!  È  mia  la  colpa 
Se  m'hanno  tutti  calpestata? 

Il  Puoti 

{alzando  le  braccia  al  cielo) 

0  giusto 
E  terribile  Dio!  che  ti  diremo 

Quando  ragione  tu  ci  chiederai 
Di  questa  tua  percossa  creatura? 

{A  Luisa) 
Sorella  mia!  cara  sorella!  abbraccia 
Il  tuo  Signore  crocifìsso. 

(Le  dà  un  crocifisso  a  baciare) 

E  vieni. 


32  LA    SANFELICK 

Tu  che,  aJ  pari  di  lui,  salì  innocente 
Sul  patibolo  infamel 

{Accorrono  le  tre  detenute,  Zizzella,  la  Caporalessa  e  la  Mo- 
naca). 

ZlZZELLA 

{prostrandosi  davanti  a  Luisa) 

0  buona,  o  bella 
Si^om,  addio! 

La  Monaca. 

Siete  una  santa!  addio, 
Signora  dolce! 

La  Caporalessa. 

Addio!...  Mi  scoppia  il  cuore! 

{Luisa  bacia  il  Crocifisso,  e  muove  per  uscire.  Improvvisa- 
mente un  lampo  momentaneo  le  passa  negli  occhi:  ella  corre  al 
suo  letticciuolo,  vi  si  getta   bocconi,  e,  scoppiando  in  singhiozzi, 
lo  copre  di  baci). 

Il  Puon. 

Andiamo,  cara! 

{Luisa  esce  col  Crocifisso  su  la  bocca  reggendosi  al  braccio  del 
canonico  Puoti.  GU  altri,  fuorché  VAltobeUo,  la  seguono.  UAl- 
tobello  siede  sul  letto  di  Luisa,  e  cava  una  pistola). 

ZlZZELLA  e  la  Caporalessa. 
Che  fa  egli?  Gente!... 

La  Monaca. 
Soccorso!... 

L'Altobello. 

Zitte,  tortorelle  mie! 
Si  spegne  il  lume,  e  tutto  è  detto...  Schiavo! 

{Si,  tira  un  colpo  di  pistola,  e  stramazza  riverso  sul  letto.  Le 
donne  strillano;  accorrono  il  guardiano  e  i  soldati). 

Cade  la  tela. 

PINE. 

O.  A.  Cesario. 

Proprietà  letteraria:   tutti  i  diritti  riservati. 


IL  NUOVO  FIGLIO   DI  DANTE 


Il  sesto  centenario  dalla  morte  del  Poeta  è  ormai  chiuso;  ma  se  pos- 
sono aver  tregxia  le  commemorazioni,  le  letture,  le  declamazioni,  le 
conferenze  divulg^ative,  non  diminuisce  certo  di  fervore  il  lavoro  as- 
siduo degli  studiosi,  di  che  anzi  è  giusto  che  meglio  e  via  via  si  col- 
gano, come  di  ogni  più  feconda  opera,  i  maturati  frutti.  Così,  France- 
sco Paolo  Luiso  (1),  già  benemerito  cultore  degli  studi  danteschi,  men- 
tre per  l'anno  sacro  ha  inteso  a  sue  laboriose  e  coscienziose  ricerche  su 
Dante  e  i  Lucchesi,  non  ancora  concluse  ma  di  cui  presto  avremo 
gustose  primizie,  ci  offre  oggi  un  dono,  per  il  donatore  stesso  e  per 
noi,  imprevisto  e  insperato:  un  documento  certo,  coevo,  di  un 'nuovo 
figlio  di  Dante!  Un  incontro  —  scrive  il  Luiso  —  non  so  se  più  sor- 
prendente o  inquietante.  E  vogliam  vedere  anche  noi  se  effettiva- 
mente vi  sia,  vinta  la  prima  meraviglia,  di  che  sorprendersi  e,  spe- 
cialmente, di  che  turbarsi. 

Siamo  a  Lucca,  nella  corte  dei  Monconi,  a  dì  21  d'ottobre 
del  1308:  la  Ditta,  societas,  dei  Moriconi  di  Lucca  si  obbliga  a 
sborsare  alla  Ditta  Maoci  e  Bonaccorsi  di  Firenze  (cointeressato  nel- 
l'operazione di  cambio  è  anche  un  lucchese,  Micheluccio  del  fu  Fredo 
Gentile,  verisimilmente  rappresentante  in  Lucca  della  Ditta  fioren- 
tina) lire  seicento  di  tomesi  piccoli  di  Francia  in  cambio  di  lire 
lucchesi  settecentosessantadue  e  soldi  dieci  di  buoni  denari  lucchesi, 
in  ragione  di  denari  quindici  e  un  quarto  lucchesi  per  ogni  soldo 
tomese.  Raccoglie  l'atto  e  lo  registra  nel  suo  scartafaccio  di  imbre- 
viature,  donde  il  Luiso  lo  ha  tratto,  il  notaro  lucchese  Rabbito  To- 
ringhelli.  —  Nulla  di  singolare  nell'atto,  nessuna  meraviglia  dai 
nomi;  noti  anzi  i  Moriconi  agli  studiosi  delle  antiche  famiglie  luc- 
chesi, e  notissimi  —  basti  ricordare  gli  spogli  preziosi  del  Padre 
Idelfonso  da  San  Luigi  nelle  sue  Delizie  degli  eruditi  e  gli  indici 
delle  Considte  del  Gherardi  e  le  testimonianze  degli  stessi  più  an- 
tichi cronisti  fiorentini  —  i  Macci  {cfr.  Peruzza,  Storia  del  Corri- 
mercip  e  dei  Banchieri  di  Firenze,  pp.  171,  188...)  e  i  Bonaccorsi. 
Ma  in  cauda...  dulce,  o,  se  si  voglia,  venenum.  I  testimoni  all'atto  sono 
Guido  Appiccalcani  notaio  lucchese  e  Johannes  filiiis  Dantis  Ala- 
gherii  de  Florentia.  Dunque,  un  figliuolo  di  Dante,  che  nel  1308  è 
venuto  (o  vive?)  in  Lucca,  e  di  cui  non  si  aveva  traccia  neppure  nelle 
liste  più  o  meno  copiose  e  arbitrarie  dei  commentatori  e  degli  eru- 

(1)  Francesco  Paolo  Ltjiso,  TJn  documento  inedito  lucchese  che  in- 
teressa  la  biografi*  di  Dante.  Lucca,  Coop.  Ed.  lucchese,  1921  (Nozze  Sardi- 
Mazzei). 

3  Voi.  OCXVn.  serie  VI  —  1*  mano  1922. 


34  IL   NUOVO    FIGLIO   DI   DANTE 

diti  :  Pietro,  Iacopo,  Antonia,  Beatrice  in  prima  linea,  e  poi,  con 
titoli  senza  credito  o  assai  discutibili.  Aligero,  Eliseo,  Gabbriello, 
Bernardo,  Francesco,  una  terza  femimina  innominata...  (cfr.  Pelli, 
Memorie,  pp.  37  sgg.;  Kraus,  Dante,  pp.  36-9),  ma,  di  Giovanni, 
nessuno  ha  detto  verbo.  Eppure  —  l'osservazione  non  è  speciosa 
soltanto  —  Pietro,  Giacomo  e  Giovanni  sono  eletti  dal  Poeta  del 
Paradiso  «  a  esaminare  e  addottorare  nelle  tre  Virtù  teologali  »  il 
mistico  pellegrino:  e  perchè  non  ammettere  eh©  Dante  si  compia- 
cesse della  scelta  dei  nomi  dei  figli  prima  e,  poi,  della  onorevole 
concordanza  dei  nomi?  Ma  la  critica  ama  piuttosto  dubitare  e  negare 
che  costruire  e  compiacersi  di  ben  costrutti,  ma  non  sempre  stabili, 
edifici.  Se  il  nuovo  figlio  di  Dante  interviene  come  testimone  in  im 
atto  pubblico,  non  è  possibile,  dice  il  Luiso,  avesse  meno  di  diciotto 
anni  d'età  :  deve  dunque  esser  nato  nel  1290  o,  più  probabile,  prima. 
Senonchè  il  1290  è  l'anno  della  morte  di  Beatrice,  e  ripugna  non 
solo  al  nostro  sentimento,  ma  a  tutti  i  dati  ed  elementi  offerti  dalle 
stesse  opere  del  Poeta  ammettere  che  egli  avesse  sposato  in  quel- 
l'anno o  prima.  Che  Dante  cedesse  alle  lusinghe  d'Amore  anche  in- 
nanzi che,  morta  Beatrice,  cominciasse  il  vero  e  grave  suo  travia- 
mento morale,  non  fa  difficoltà  ammetterlo;  ma  che  le  itistae  ìiuptiae, 
con  Gemma  Donati  precedano  la  morte  della  donna  di  Simone  dei 
Bardi  pare  da  escludere  :  anche  nella  tenzone  con  Forese  (non  dob- 
biamo però  dimenticare  che  Forese  e  Gemma  sono  della  stessa  fa- 
miglia) Dante  apparirebbe  scapolo!  Dunque,  conclude  CoiTado  Ricci 
(nel  Giornale  dltalia  del  17  febbraio),  «  si  tratta  di  un  figlio  natu- 
rale nato  dal  poeta  e  da  una  donna  finora  e  forse  per  sempre  ignota  ». 
E  perchè  non  da  Gentucca?  Hanno  suggerito  subito  nei  salotti  e  nei 
caffè  lucchesi,  solleciti  ad  assicurarsi  una  nuova  gloria  paesana  anche 
a  costo  della  riputazione  della  ipotetica  gentildonna.  Anche  il  pub- 
blico, dei  salotti  e  dei  caffè,  vuole,  al  pari  degli  eruditi,  la  sua  ri- 
sposta: ed  è  facile:  che,  ammesso  anche,  come  io  son  disposto  ad 
ammettere  (e  non  me  ne  abbia  a  male  l'amico  Ezio  Levi,  Piccarda 
e  Gentucca,  Bologna,  Zanichelli,  1921,  p.  99),  la  storicità  della  Gen- 
tucca, gli  anni  necessari  al  nostro  Giovanni  non  combinano  coi  dati 
offerti  da  Bonagiunta  da  Lucca  nel  ventiquattresimo  del  Purgatorio 
per  la  ferrmiina  che  non  porta  ancor  benda!  Ma  lasciamo  il  pubblico, 
che  penserà  forse  a  qualche  altra  bella  lucchese  conosciuta  da  Dante 
prima  del  1290  eccetera  eccetera,  e  torniamo  agli  eruditi:  e  primo 
al  Luiso  che  propone,  ma  esclude,  l'ipotesi  del  figlio  naturale  :  «  o 
figlio  naturale  o  figlio  legittimo,  i  motivi  di  diffidare  sono  gli  stessi  »  : 
e,  ragionando,  accenna  un'altra  ipotesi  che  egli  stesso  peraltro  dice 
«non  meno...  inquietante»:  il  misterioso  testimone  lucchese  non 
può  esser  figlio  di  Dante,  ed  è  giocoforza  darlo  a  un  altro  padre, 
cioè  a  un  altro  Dante  Alighieri,  concittadino  e  coetaneo  dell'autore 
della  Commedia.  E  poiché  le  ipotesi,  anche  le  più  audaci,  hanno 
sempre  qualche  parvenza  di  prova,  il  Luiso  insinua,  pur  non  affer- 
mando, che  alla  differenza  fra  la  grafia  del  cognome.  Allegherà  e 
Alleghieri  da  un  lato  e  Alagherii  dall'altro,  possa  corrispondere  una 
differenza  di  persone:  il  padre  del  nostro  testimone,  un  Alagherij, 
non  sarebbe  Dante,  e  Dante  non  sarebbe  nemmeno  (non  sarebbe 
sempre  dice  il  Luiso,  temperando,  quasi  istintivamente,  la  gravità 
dell'illazione)   qn^lV Alagherij  che  interviene  come  uno  dei  savi  e 


IL    NUOVO    FIGLIO    DI    DANTE  35 

porla  nel  Consiglio  delle  Capitudini  delle  Arti  mag^ori  nel  1295. 
Così,  di  ipotesi  in  ipotesi,  di  illazione  in  illazione,  si  verrebbe  a  con- 
cludere che  tutti  i  doc-umenti  ritenuti  spettanti  al  Poeta  debbano  es- 
sere soggetti  ad  una  revisione  di  legittimità  di  attribuzione  e,  con- 
clusione delle  conclusioni,  Vimbreuiatura  di  Ser  Rabbito  non  sarebbe 
più  un  impori^nte  documento  per  la  biografia  del  Poeta,  ma  un  do- 
cumento, e  non  meno  importante,  che  non  solo  non  spetterebbe  a 
lui,  ma  che  varrebbe  a  togliergliene  altri  e  indubbiamente  dei  più 
cospicui.  E  se  così  fosse,  ci  sarebbe  veramente  non  solo  da  sorpren- 
dersi, ma  da  turbarsi. 

Sia  lecita  qualche  aggiunta  all'acuto  opuscolo  del  Luiso  e  qual- 
che obiezione  alla  tesi  di  lui  e,  di  conseguenza,  a  quella  del  Ricci. 

Una  breve  aggiunta  che  tolga  una  facile  speranza  di  chiarifica- 
zione col  sussidio  invano  presunto  di  altri  documenti.  Ecco  :  la  regi- 
strazione del  notaro  lucchese  è  cassata,  ed  ha  una  postilla  che  della 
cassatura  ci  dà  la  spiegazione  :  i  Moriconi  pagarono  e  il  debito  fu 
estinto  :  post  hec  sitprascripto  anno  et  indictione  XV  kal.  ian.  post 
cartain  factam  et  restitutam  et  incissam  cassatum  licentia  et  man- 
dato suprascripti  Moris  [è  il  Bonaccorsi  presente  all'atto]  quia  se  prò 
se  et  sicprascriptis  de  suprascripto  credito  in  totum  contentami  et 
pagatum  clanmvit  per  cartam  confessionis  de  soluto  scriptam  manu 
Ranuccii  Senni  Ranuccini  del  Forese  de  Florentia  not.  a.  n.  d. 
MCCCVlll  indictione  VII",  die  XVI  mensis  novembris.  Si  potrebbe 
sperare  qualche  luce  dall'atto  rogato  da  ser  Ranuccio?  DiflBcilmente 
vi  sarebbe  occorso  quello  che  a  noi  preme,  il  nome  dell'Alighieri  te- 
stimone all'atto  lucchese;  ma,  comunque  si  argomenti,  le  carte  del 
notaro  fiorentino  [Cfr.  Consulte,  II,  659,  663]  mancano  nella  rac- 
colta di  atti  notarili  dell'Archivio  di  Stato  di  Firenze,  costituito  nel 
1569  p>er  ordine  del  Granduca  Cosimo;  mancano  ^le  carte  del  Banco 
e  della  famiglia  dei  Meteci,  tranne  poche  e  senza' pregio,  ed  è  stata 
inutile  ogni  altra  ricerca  mia  e  degli  egregi  studiosi  che  sono  addetti 
all'Archivio  fiorentino,  nelle  carte  della  Mercatura  e  del  Diplomatico. 

Veniamo  dunque  all'ipotesi  preferita  dal  Luiso,  che  si  tratti  di 
un  Giovanni  figlio  di  un  Dante  Alagherii  che  non  sarebbe  da  identi- 
ficare col  poeta,  Allegheri  o  Alleghieri.  E,  in  primo  luogo,  può  la 
differenza  di  grafia  del  nome  servire,  se  non  di  base,  di  conferma  a 
tale  illazione?  La  questione  della  esistenza  di  due  Danti  così  distinti 
nel  cognome  neppure  è  posta  come  possibile  dal  più  recente  e  auto- 
revole ricercatore  delle  vicende  del  casato  di  Dante,  Pio  Rajna  (negli 
Studi  Danteschi  del  Barbi,  III,  pp.  79,  87...),  confermandosi  anzi  da 
lui  per  Allagherà  o  Alageri  la  forma  autentica  del  cognome  del 
Poeta;  ma  un  rapido  esame  dei  documenti  danteschi  più  probativi 
e  che  ho  a  mano,  giova  a  togliere  alla  grave  illazione  ogni  e  qual- 
siasi fondamento.  Le  forme  Alagherii  e  Alleghierii  si  alternano  nei 
documenti  sui  debiti  di  Dante  pubblicati  dal  Barbi  {Bull,  della  Soc. 
Dant.  ItaL,  1892,  n.  8),  un  Caruccius  Salvi  Alegerii  o  Alagherii  ri- 
corre nelle  Consulte  (I,  42)  e  nello  spoglio  del  Borghini  {Consulte, 
II,  660);  e  se  nelle  Riformagioni  di  S.  Gemignano  del  VII  mag- 
gio 1299  abbiamo  Dante  de  Allegheriis  {Cod.  dipi,  dant.,  1'  dispensa), 
e  così  nell'atto  di  S.  Godenzo  (disp.  6')  e  nei  Bandi  d'esilio  (disp.  9-12), 
e  Dante  Alegerii  nella  pace  di  Sarzana  (disp.  7*)...,  nel  Consiglio  del 
19  giugno  1301  (vedi  Consigli  della  Rep.  Fior.,  ed.  Barbadoro,  p.  14, 


36  IL   NUOVO   FIGLIO   DI   DANTE 

tav.  I)  Dante  Alagherii  consuluit  quod  de  servitio  Jaciendo  d.  pape 
nichil  fiat,  e  una  carta  della  Badia  dell'll  settembre  1277  ci  presenta 
u  Bellus  q.  Alagherii...  Gerardus  ALagerii...  Burnectus  Alagerii  » 
(Barbi,  in  Studi  Danteschi,  I,  132),  mentre  Francesco  Alighieri  figura 
in  un  documento  del  1299  come  «  Franciscus  quondam  ALlegheru 
de  Alleghieriis  »  (ib.,  I,  130),  e  per  lo  stesso  padre  di  Dante  la  forma 
Alagherii  o  Allagherà  è  documentata  da  un  atto  di  prestito  pubbli- 
cato da  Pietro  Santini  (negli  Studi  Danteschi  del  Barbi,  1,  127...), 
non  meno  che  per  lo  zio  Drudolo  e  l'avo  Bellincione  (cfr.  Barbi, 
Studi,  II,  15,  e  Bull.,  N.  S.,  II,  4)  e  la  forma  Alagherii  predomina  nei 
documenti  privati  ripubblicati  nel  Codice  diplomatico  dantesco, 
disp.  12-14.  E  si  potrebbe  continuare;  ma  la  sostanza  è  che,  anche 
presentata  come  ipotesi  la  coesistenza  dei  due  -Danti,  nessun  valore 
hanno  le  differenze  della  grafia  del  casato. 

L'ipotesi  del  Luiso  avrebbe  un  qualche  aiuto,  che  a  lui  è  sfuggito, 
da  un'osservazione  di  Michele  Barbi  (cfr.  peraltro  Scherillo,  Le  Ori- 
gini, pag.  103),  che  recensendo  le  Consulte  del  Gherardi  nel  Bull., 
VI,  225  segg.,  rilevò  che  il  supplemento  [Dante  Ala]gherii  consuluit 
secundum  propositionem  per  la  consulta  del  6  luglio  (cfr.  Cod.  dipi., 
disp.  2")  dovrebbe  ritenersi  errato,  perchè  se  nel  luglio  Dante  avesse 
fatto  parte  del  Consiglio  Generale,  non  potrebbe  figurare,  come 
figura,  il  14  decembre  dell'anno  e  il  5  giugno  1296  nel  Consiglio  delle 
Capitudini.  Ma  converrà,  come  fece  il  Barbi,  pensare  meglio  che  al 
presunto  omonimo  ad  aTtri  della  famiglia  Alighieri,  se  pur  non  si 
tratti,  cosa  che  a  me  par  diflBcile,  di  altra  famiglia  con  lo  stesso  esito 
di  cognome.  (Vedi  anche  Gallarati-Scotti,  Vita  di  Dante,  pag.  66). 

Resta  però  l'argomento  fondamentale  del  Luiso,  l'età  del  testi- 
mone, E.  indubbiamente,  sia  che  si  interroghino  e  si  ritengano  ap- 
plicabili, come  pare,  gli  Statuti  Fiorentini  (II,  rubr.  115,  ed.  Kluch, 
voi.  I,  p.  206),  trattandosi  di  capìicità  personale  da  giudicarsi  se- 
condo l'origine  dei  testi,  sia  che  si  applichino,  osservando  la  lex  loci, 
gli  Statuti  lucchesi  (vedasi  lo  Statuto  delle  Curie,  in  Arch.  Guinigi, 
Ti.  263  (A.  S.  L.),  1.  III,  e.  21  «  intelligatur  per  feda  aelas  nostro  iure 
municipali  aetas  XV III  annoruTìy  tam  in  mascido  quam  in  fem- 
ndna  »),  la  capacità  giuridica  richiede  i  diciotto  anni.  Sennonché, 
questo  principio  non  è  assoluto;  e  a  prescindere  dalle  fugaci  riserve 
del  Ricci  sulla  fede  del  Giry,  Manuel  de  diplomatiqne ,  Paris,  1894, 
pag.  615,  ben  altro  c'è  da  osservare.  Conviene,  infatti,  distinguere  la 
capacità  a  contrarre,  che  s'integra  pienamente  coi  venticinque  anni, 
dalla  capacità  a  testimoniare  per  cui  è  sufficiente  non  essere  impu- 
bes,  cioè  non  aver  meno  di  quattordici  anni.  Basti  far  presenti  le 
norme  del  Formiulario  Ma^liabechiano  del  sec,  xni  «  Testes  autem 
adhiberi  possunt  omnes  praeler  istos  :  non  mulier,  non  impuhes, 
non  servus,  etc.  »  (Palmieri,  .Appunti  e  documenti  per  la  storia  dei 
glossatori,  Bologna,  1892,  pag.  86;  Gaudenti,  Bibl.  lurid.  Medii 
Aevi,  I,  218),  di  Ranieri  da  Perugia  ^^non  debet  admitti  testis  im 
pubes,  mutus,  surdus,  etc.  »  (in  Wahrmund,  Quelten  zur  Gesch.  des 
roemischkanon.  Proc.  in  Mittel.,  Innsbruck,  1917,  III,  pag.  24;  Gau- 
denzi,  Bibl.  lurid.  Medii  Aevi,  II,  pagg.  27  segg.),  del  Formulario 
Aretino  composto  dal  1240  al  1243  (Cicognani  in  Gaudenzi,  III,  §  157, 
pagg.  327-28),  del  Formulario  di  Martino  da  Fano,  in  Wahrmund, 
1,8,  pfig".  100,  «tVcm  masculus  a  XIV  annis   supra   dicitur   pubes. 


IL    NUOVO    FIGLIO    DI    DANTE  37 

aduLtus  et  advlescens  ».  È  quindi  autorizzata  (1)  anche  la  conclusione 
che  il  Giovanni  di  Dante  Alighieri  possa  essere  un  figlio  di  Dante, 
mag-giore  di  anni  quattordici,  forse  il  primogenito,  nato  dalla  stessa 
Gemma  Donati  in  iicstae  nuptiae,  fra  il  1290  e  il  1294.  L'ipotesi  pre- 
ferita dal  Ricci  non  è  dunque  necessaria,  e  sarebbe  gratuita. 

E  se  in  attesa  di  nuovi  documenti  che  l'Archivio  lucchese  ci  può 
ancora  riservare  nelle  sue  inesauste  dovizie,  mi  è  lecito  proporre 
un'ipotesi,  dopo  aver  cercato  di  infirmarne  di  cdtri,  io  mi  domando  se 
il  giovane  figlio  di  Dante  non  possa  aver  trovato  rifugio  in  Lucca 
dopo  l'esilio  del  padre,  essendo  stato  egli  pure  costretto,  se  già  quat- 
tordicenne (cfr.  B.\RBI,  in  Studi  Danteschi,  II,  158),  a  lasciare  Fi- 
renze, e  se  non  sia  un  atto  di  affettuosa  cortesia  quello  di  Giovanni 
Bonaccorsi,  rappresentante  della  compagnia  dei  Macci,  di  aver  voluto» 
venendo  a  Lucca  per  un'operazione  di  cambio,  quale  testimone  al- 
l'atto un  suo  concittadino,  figlio  legittimo  del  Poeta,  e  appartenente 
a  quella  famiglia  degli  Alighieri  con  la  quale  è  probabile  che  i  Macci 
avessero  amicizia,  affinità  di  parte  politica  (cfr.  Delizie  degli  eruditi. 
Vili,  278)  e,  forse,  anche  (cfr.  Pietro  Santini,  Un  atto  di  prestito 
del  padre  di  Dante,  in  Stitdi  Danteschi  del  Barbi,  I,  128)  relazioni  di 
affari.  Ad  ogni  modo  certissimo  è  che  il  Giovanni  Alighieri,  se  figlio 
di  Dante  e,  per  lo  meno,  già  quattordicenne,  non  poteva  venir  da 
Firenze,  donde  era  esule;  o  egli  viveva,  esule,  in  Lucca,  o  seguiva 
nei  suoi  viaggi  d'affari  il  Bonsiccorsi,  rappresentante  dei  Macci,  e 
faceva  parte,  diremmo  come  apprendista,  della  compagnia.  Veda 
Francesco  Paolo  Luiso,  a  cui  offro  queste  mie  osservazioni,  se  nelle 
sue  amorose  e  fortunate  indagini  pK)ssa  mettere  a  prova  fra  le  altre 
anche  le  mie  ipotesi. 

Augusto  Mancini. 


(1)  Solo  ora,  mentre  correggo  le  bozze,  ho  potuto  vedere  nell'edizione  mi- 
lanese del  1486  la  conferma,  del  resto  presumibile,  di  Rolandino,  Summa  artis 
notariae,  oap.  I,  tit.  12;  cap.  Vili,  tit.  45. 


SCRITTORI   NOSTR 


VIRGILIO    BROCCHI 


Tra  le  piante  grasse  e  fiorite  che  inghirlandano  l'incantevole 
passeggiata  sul  mar  ligure,  a  Nervi,  balza  fuori  ad  una  svolta  un 
lembo  ardito  di  scogliera,  la  quale  si  sporge  tanta  fra  le  onde  spu- 
meggianti, da  sembrare  una  minuscola  isoletta.  Su  quel  Scisso,  ani- 
mato dalla  musica  perenne  delle  acque,  Virgilio  Brocchi  trascorre 
delle  ore  a  meditare,  talvolta  a  scrivere  le  pagine  del  suo  nuovo 
romanzo.  Agile,  giovajie  ancora,  egli  s  arrampica  lassù  a  contem- 
plar la  bellezza  infinita  di  quell'insenatura  marina,  tra  le  più  am- 
maliatrici che  vi  siano  al  mondo.  Dirimipetto  a  tanta  luce  e  fragranza 
di  natura,  noi  ci  siamo  incontrati  un  giorno  a  discorrere  d'arte, 
vinti  entrambi  dalla  passione  che  ci  costringe  al  lavoro.  Di  media 
statura,  con  la  testa  ardita,  gli  occhi  vivi  dietro  le  lenti,  egli  parlava 
senza  stancarsi  della  sua  prima  giovinezza,  delle  lotte  trascorse, 
della  tenacia  che  l'ha  condotto  a  conquistare  il  suo  «  posto  nel 
mondo».  E  c'era,  in  fondo  alle  sue  parole,  una  bontà,  un  conforto 
spirituale,  che  m'è  parso  il  premio  migliore  della  sua  fatica. 

Elcco  alcuni  ricordi  suoi: 

«<  Vissi  fanciullo  in  Lombardia:  quando  ebbi  quattordici  anni 
e  studiavo  nel  liceo  a  Cremona,  perdei  mio  padre  e  mia  madre  mi 
condusse  a  Padova,  dove  mi  laureai  in  lettere  giovanissimo.  Troppo 
giovane  :  avevo  tanto  candore  d'animo  e  così  a»ppassionato  amore  di 
povertà  che  divenni  professore  e  pronunciai  i  voti  letterari!  Così  vagai 
dalle  paludi  pontine  alla  indimenticabile  Sicilia,  e  poi  fui  nelle  Mar- 
che: più  tardi  vissi  a  Bologna,  calda  nella  mia  anima  come  la  più 
soave  delle  nostalgie...  » 


•  * 


Virgilio  Brocchi  ha  incominciato  a  tentare  la  sorte  per  le  stampe 
nell'anno  1901,  col  romanzo  «  Le  ombre  del  vespero  ».  Dietro  al  quale 
ne  venne  quasi  subito  un  secondo,  «  Il  fàscino»;  ma  d'entrambi  egli 
ha  poi  vietata  una  nuova  pubblicazione.  Codesta  forma  letteraria 
gli  piacque  sin  da  principio  sopra  ogni  altra.  Natura  vivace,  indo- 
cile, egli  sentiva  in  sé  del  lirismo,  il  quale  chiedeva  di  concretarsi 
sul  telaio  largo,  (promettente  e  conclusivo  del  romanzo. 

La  sua  personalità  s'afferma  presto.  Non  facilmente  riconosci- 
bile è  lo  stampo  sul  quale  essa  si  è  composta.  Da  principio,  in  alcuni 
atteggiamenti  del  racconto,  ^li  sembra  muovere  da  Antonio  Fogaz- 
zaro; altrove  lo  scuotono  le  ansie  umane  e  profonde  che  dettero  vita 


SCRITTORI   nostri:    VIRGILIO   BROCCHI  39 

agli  «-Ammonitori  »  e  ad  «  Homo  »  di  Giovanni  Gena.  La  costruzione 
ponderata  de"  suoi  romanzi,  il  dialogo  amabile,  vivo,  frizzante,  gli 
hanno  conquistato  l'attenzione  d'un  pubblico  vario  e  numeroso.  Non 
vorremmo  recargli  offesa  scrivendo  che  egli  è  stato  ed  è  tuttora  un 
autore  di  moda. 

Piacevole,  penetrativo,  con  una  punta  mal  nascosta  d'ironia, 
fruga  nei  cuori  de'  suoi  personaggi,  tanto  da  scrutarne  ogni  segreto 
palpito.  Perciò  le  sfumature  non  -mancano  nella  sua  analisi  discreta 
ed  acuta.  E  se  talvolta,  specie  in  alcune  novelle,  s'accontenta  di  (pire- 
sentare  o  d'asserire  senz'altro,  più  spesso  sviscera,  viviseziona  pa- 
zientemente. Egli  tratta  il  romanzo  in  una  sua  particolare  maniera. 
Non  è  mai  concentrico,  assoluto;  non  ama  chiudere  in  confini  ben 
determinati  le  vicende  che  gli  hanno  dettato  uno  o  più  libri  narra- 
tivi. Un  (pretesto,  un  fatto  qualsiasi  può  interessarlo,  persuaderlo  a 
raccontare  pianamente,  senza  troppe  preoccupazioni  stilistiche.  In 
genere,  i  suoi  personaggi  fanno  largo  malvolentieri  ad  un  tprivile- 
giato  che  assorba  tutte  le  cure  dell'autore  e  tutta  l'attenzione  del 
pubblico. 

I  protagonisti  del  Brocchi  non  sono  mai  soli.  Essi  stanno  volen- 
tieri in  compagnia;  sicché  spesso  si  nota  quasi  una  compiacenza 
dello  scrittore  a  studiare  parallelamente  dei  casi  di  vita,  degli  in- 
trecci d'amore,  in  guisa  da  non  individuarne  l'interesse,  ma  da  ri- 
partirlo fra  diverse  persone.  Questo  curioso  procedimento,  che  ha 
il  vantaggio  di  recare  al  romanzo  una  varietà  maggiore  di  episodi, 
deprime  qualche  volta  gli  effetti  centrali.  Del  resto  il  Brocchi  non 
intende  di  dar  termine  al  suo  romanzo  quando  ne  scrive  le  ultime 
pagine.  Non  prende  che  un  congedo  momentaneo:  dove  è  scritto 
«  fine  »  si  potrebbe  sostituire  per  lui  la  parola  «  continua  » .  Diresti 
che  non  possa  mai  staccarsi  del  tutto  dalle  sue  creature  :  le  ha  co- 
nosciute a  poco  a  poco,  le  ha  amate;  sono  le  compagne  de'  suoi  giorni 
laboriosi.  Come  lasciarle?  Gome  abbandonarle?  Questo  sentimento 
affettuoso,  questa  assiduità  patema  assiste  e  riscalda  tutta  l'opera 
del  Brocchi. 

Egli  ama  d'innestare  tratto  tratto  la  finzione  alla  realtà  :  la  fan- 
tasia non  sdegna  di  prendere  a  braccetto  la  cronaca.  I  suoi  libri  sono 
pieni  di  persone  vive,  vere:  l'Ardigò,  il  Pellizza,  l'Oriani,  il  Miglioli, 
il  Testena:  dal  filosofo  solenne  al  pittore  delicato,  dal  formidabile 
pensatore  al  tribuno  fiammeggiante,  all'anarchico  intransigente.  Le 
figure  che  emergono  in  primo  piano  nella  società  contemporanea, 
gli  giovano  quasi  da  altorilievi.  Gli  piacciono  sopratutto  gli  artisti  : 
pittori,  scultori,  commediografi,  romanzieri.  Gome  li  coltiva  e  li  rap- 
presenta, con  quell'ansietà  naturale,  dubbi,  orgogli  e  speranze,  che 
accompagnano  gli  adepti  della  bellezza,  gli  arcangeli  dell'ideale! 

Le  sue  donne  non  sono  sempre  carnali.  Le  vedremo  nei  diversi 
libri  e  andremo  loro  incontro  con  simpatia  virile.  Tuttavia  la  mor- 
tale creta  originaria  dà  continui  rintocchi  sotto  le  dita  di  questo 
narratore  verista  e  sincero. 

• 
•  • 

Nel  romanzo  «Le  aquile",  il  primo  in  ordine  di  tempo,  egli 
presenta  dei  seminatori  di  bene.  La  loro  mente  spazia  al  di  sopra 
delle  povere  vicende  comuni,  vede  più  lontano  e  più  in  alto,  deli- 


40  SCRITTORI  nostri:  VIRGILIO  bro(x:hi 

berata  a  vincere  cadendo  per  un'affermazione  di  bene.  Ecco  dei  brani 
del  libro,  pieni  di  musica  interiore,  caldi  di  passione  redentrice  per 
l'arte  e  per  la  vita,  ohe  ci  fanno  amare  come  fratelli  Andrea  Ardena 
ed  Anna  Poderna. 

Il  primo  parla  in  pubblico:  «  Il  discorso  si  accendeva  nella  corsa 
veemente,  come  una  fiamma  che  s'agita  e  folgora  di  più  vivi  sfavil- 
lamenti; e  fluiva  rapido  come  se  il  fiume  delle  parole  traboccasse 
dall'anima  piena  di  sogni,  di  bontà  e  d'amore». 

Ora  parla  la  donna: 

—  Sì  :  hai  raigione.  La  nostra  vita  è  di  vita  :  forse  ha  in  sé  troppo 
fervore  di  vita  :  così  che  me  ne  consumo  a  poco  a  poco.  Ascolta  come 
è  strano,  Maria!  Quando  il  sole  tramonta,  e  quando  si  leva  nelle  sue 
albe  primaverili,  ed  io  vado  al  nostro  asilo  d'infanzia  e  alla  scuola 
elettorale,  mi  pare  dhe  nell'aria  vibrino  le  canzoni  di  un  popolo  re- 
dento; mi  pare  che  le  campane  nostre  squillino  a  festa,  che  superbe 
moli  giganteggino  tra  mille  pinnacoli  sul  purissimo  fondo  del  cielo. 
E,  allora,  vorrei...  non  so,.,  vorrei  spargere  intorno  fiori  e  chinarmi 
a  baciare  i  piccoli  bambini  per  la  via,  e  vorrei  confondermi  tra  una 
turba  infinita  di  lavoratori,  'per  ascoltarne  le  voci,  iper  comprenderne 
l'anima  grande  e  semplice». 

Andrea  Ardena  di  nuovo  :  «  E  intendeva  anche  che  godere  con 
semplice  cuore  ed  insegnare  agli  altri  a  godere  ingenuamente  e 
pacatamente  delle  grandi  idee  e  delle  piccole  cose,  anche  delle  più 
umili  e  delle  più  semplici,  allontanare  le  suggestioni  e  le  ebbrezze 
malate  del  dolore  è  dovere  non  meno  grande  e  non  meno  nobile  che 
diffondere  la  verità  e  difendere  la  giustizia:  poiché  fine  supremo 
dell'uomo  è  la  felicità,  illuminata  dalla  calma  luce  della  saggezza 
e  della  bellezza  » . 

Questi  concetti  sani,  divulgati  con  piglio  convinto,  in  forma  così 
squisita,  si  spezzano,  urtano  poi  violentemente  in  mezzo  ai  contrasti 
banali  della  vita  quotidiana.  La  politica  è  il  mostro  ohe  divora  le 
più  pure  energie,  le  frantuma  e  le  fa  sanguinare. 

Ne  «La  Gironda»  incominciano  ad  apparire  i  preti,  che  chia- 
meremo, per  intenderci,  il  luogo  comune  di  Virgilio  Brocchi,  Qui 
si  parla  di  organizzazioni  in  favore  del  proletariato,  di  congressi,  di 
circoli,  di  comizi,  di  cooperative  fra  operai,  di  polemiche  fra  kru- 
miri  e  barabba  incoscienti,  di  democristi,  di  socialisti,  di  mangia- 
preti, di  leghe,  di  questura,  di  capipartito,  di  deputati  eletti  o  da 
eleggere,  di  rappresaglie,  di  barricate  fatte  anche  col  fango. 

Frammezzo  a  codesto  stormo  di  politicanti  arrabbiati,  ecco  la 
voce  dell'artista,  che  dichiara  :  «  gli  uomini  si  distinguono  non  per 
le  loro  opinioni  politiche  o  religiose,  né  per  la  loro  coltura,  ma  solo 
per  l'ampiezza  delle  loro  anime  »,  Per  bocca  delle  sue  creature, 
corre  qua  e  là  l'anelito  selvaggio  dei  liberi  campi,  del  libero  mare; 
e  attraverso  la  sua  anima  assetata,  randagia,  s'affacciano  paesaggi 
luminosi  di  laghi,  aerei  di  montagne.  Passano  aliti  freschi,  puri,  di 
visioni  e  di  sogni  (vedi  tutta  la  pagina  138),  E  la  poesia  dei  ricordi: 
<>  Ah  il  maggio  di  Bologna!  Basta  che  io  chiuda  gli  occhi  per  rive- 
derlo, per  respirarlo  con  tutto  l'odore  dell'erba,  dei  biancospini,  dei 
meli  in  fiore,  del  frumento  lucido  sull'ondeggiare  dei  colli,  fiam- 
mante di  tulipani  ».  E  la  descrizione  d'un  salotto  «  come  rischiarato 
da  piccoli  acquerelli  con  grandi  cornici  bianche». 


SCBITTORI   nostri;    VIRGILIO   BROCCHI  41 

Colori  e  forme  sarebbero  nitidi,  lievi,  se  ogni  tanto  non  irrom- 
pesse una  sottana  pretesca  ad  abbuiare  e  appesantire  il  quadro. 

Uno  dei  personaggi,  nel  romanzo  «Il  Labirinto»,  dice:  «tutto 
si  complica  con  i  grovigli  del  fondo  più  oscuro  e  meno  consaipevole 
dello  spirito,  con  le  resistenze  famigliari,  con  i  ritegni  dell'amor 
proprio,  con  l'ansia  della  maldicenza,  magari  con  i  brividi  degli 
sgomenti  religiosi  che  non  distolgono,  no,  da  un  volgare  adulterio 
celato  nell'ombra...  » 

In  questo  libro  è  dato  un  particolare  rilievo  al  contrasto  reli- 
gioso in  rapporto  all'amore  e  al  matrimonio.  Presso  il  Lago  Mag- 
giore, sorgono  due  ville  poco  discoste:  una  dell'editore  israelita  Ur- 
bisaglia,  l'altra  dei  conti  Mainardi,  gente  cattolica  e  ligia  al  rito. 
L'Urbisaglia  ha  una  figlia,  Anna;  e  anche  la  contessa  ha  un  figliuolo 
giovane.  Anna  accetta  di  mutare  religione  perchè  è  innamorata  del 
conte.  Infatti  i  due  si  sposano;  ma  c'è  in  lui  una  repugnanza  ere- 
ditaria per  gli  ebrei.  Ben  presto  la  vita  in  comune  diventa,  fra  di- 
sgusti, irritazioni  e  dissensi,  impossibile.  Anna  intende  il  divorzio 
come  un  dovere  di  lealtà  e  di  coerenza.  Ma  quante  difficoltà  da  su- 
perare per  raggiungere  tale  stato  di  liberazione  e  di  grazia!  Che  labi- 
rinto di  complicazioni,  previste  dalla  legge  o  escogitate  dagli  uo- 
mini! Alla  fine  il  divorzio  si  conclude  per  l'interessamento  del  gio- 
vane avvocato  Arnaldi,  che  s'invaghisce  di  Anna.  E  il  romanzo 
termina  con  un  lungo  bacio,  che  segna  il  principio  d'un  nuovo  amore. 

• 

Durante  gli  anni  dell'ultima  guerra,  Virgilio  Brocchi  scrisse  un 
libro  in  prosa,  «Secondo  il  cuor  mio»,  che  chiamò  anche  «poema 
di  passione  e  di  fede»,  nel  quale  aprì  la  sua  anima  d'artista  e  di 
socialista.  Egli  non  approva  le  lotte  fratricide  che  sacrificano  ta,nta 
giovinezza  a  un  dio  ingiusto,  avido,  crudele.  Ma  ammira  chi  di- 
fende, a  rischio  della  propria  vita,  la  santità  intangibile  della  patria. 
Per  tale  suo  libro,  pubblicato  prima  che  in  volume,  in  una  Rivista 
milanese,  il  Brocchi  fu  calunniato  di  disfattismo,  processato  e  as- 
solto. 

La  cecità  delle  passioni  politiche  spinse  degli  ignoti  contro  di 
lui.  Ma  la  miglior  difesa  dell'accusato  si  può  leggere  nelle  parole 
che  egli  ha  fatto  ipronunziare  al  suo  Battista  Tassara,  un  vecchio 
garibaldino  che  pure  aveva  saputo  battersi  eroicamente  a'  suoi  tempi, 
per  l'Italia  :  «  Piìi  vivo  e  piìi  mi  persuado  che  la  distinzione  fra  gli 
uomini  non  ha  per  base  né  la  patria,  né  la  razza,  né  la  politica,  né 
la  religione.  Si  può  essere  fratelli  essendo  socialisti,  anarchici,  ca4;- 
tolici  e  magari  moderati...  E  si  può  essere  di  due  razze;  anzi  di  due 
umanità  diverse,  appartenendo  allo  stesso  partito  e  professando  la 
stessa  fede.  C'è  dentro  di  noi  un  metallo  originario:  quando  è  sano 
e  nobile  dà  in  tutti  lo  stesso  suono  al  quale  dobbiamo  riconoscerci  ». 

•  * 

Virgilio  Brocchi  è  un  novelliere  occasionale.  La  sua  natura, 
come  abbiamo  visto,  è  di  scrivere  romanzi.  Nullameno,  con  le  no- 
velle egli  usa  fare  dei  tuffi,  di  tanto  in  tanto,  nella  realtà  non  inter- 
.pretata. 


42  SCRITTORI   nostri:    VIRGILIO   BROCCHI 

•Le  sue  rajccolte  «I  sentieri  della  vita»,  «La  coda  del  diavolo», 
«L'amore  beffardo»,  accennano  fin  dai  titoli  a  giuochi  pericolosi, 
a  insidie,  duelli,  adulterii.  Contengono  infatti  storie  d'orgogli  e  d'ab- 
bandoni, la  verità  amara  d'ogni  giorno,  che  passeggia  per  sentieri 
nascosti  fra  poche  rose  e  molte  spine.  Aneddoti  brillanti,  trovate  astu- 
tissimo, calde  delizie  di  passioni  fugaci;  e  un'ironia  bonaria,  uno 
scetticismo  indulgente,  specie  pei  felici  errori  che  gli  uomini  com- 
mettono insieme  alle  loro  complici  belle,  fragranti  di  gioventù  :  ecco 
che  cosa  s'incontra  nelle  pagine  di  questo  novelliere  garbato  e  mor- 
dace. La  verità,  briosa,  sarcastica,  intorno  ai  motivi  del  cuore,  si 
chiarifica  in  lui  man  mano,  sino  a  dargli  un  carattere  ben  definito 
d'elegante,  esperto  casuista  dell'amore.  Ma  la  fama,  com'era  giusto, 
doveva  sorridergli  attraverso  un  romanzo,  «  L'Isola  sonante  »,  che 
fu  anche  premiato  al  Concorso  Rovetta. 

A  proposito  di  questo  borgo,  sonoro  di  campane  e  di  politicanti, 
mi  piace  di  riferire  una  pagina  autobiografica  del  Brocchi,  la  quale 
giova  a  spiegare  la  sua  insistenza  sui  luoghi  e  le  persone  ohe  gli  det- 
tero matèria  per  quattro  romanzi  :  «...  io  che  adorando  la  mia  terra 
anelo  al  giorno  in  cui  per  nessun  uomo  di  fede  la  patria  si  arresti 
alle  frontiere  armate,  ho  in  fondo  allo  spirito  una  romantica  me- 
stizia: il  rammarico  di  non  trovare  nel  mio  passato  l'angolo  soave 
della  provincia,  del  paese,  della  casa,  la  zolla  a  cui  si  abbarbichi 
con  le  sue  piiì  tenere  radici  la  mia  primissima  vita  e  l'inobliabile 
puerizia,  con  le  immagini  del  mio  forte  babbo,  della  mia  mamma 
giovane,  dei  miei  fierissimi  fratelli  e  delle  mie  sorelle  bambine,  tutte 
legate  agli  aspetti,  al  colore,  all'odore  dei  campi  e  degli  alberi. 

«  Forse  per  questo  prediligo  un  borgo  del  Cremonese,  non  bello, 
piatto  tra  così  vasta  pianura,  paese  di  preti  e  di  campane,  di  dema- 
goghi cattolici  e  d'arrembaggi  cristiano-sindacalistici  :  perchè  in  quel 
paese  non  nacqui,  ma  vi  ebbi  prima  sette  e  poi  quattordici  anni,  e 
tutta  intorno  a  me  la  mia  famiglia;  e  quando  ci  ritomo  non  c'è  cia- 
battino o  manuale  che  non  mi  chiami  Virgilio,  e  nulla  più,  Virgilio, 
e  ne  sorrido  di  gioia...  » 

Le  due  figure  che  vincono  tutte  le  altre,  all'ombra  maliziosa  del 
campanile  dell'Isola,  sono  quelle  di  due  sacerdoti  :  Don  Corrado  Ran- 
goni  e  Don  Renzo  Stringare  Accanto  ad  entrambi  è  posta  una  donna: 
Gesuina,  scialba  beghinella  innamorata;  Emesta,  mistica  ardente  e 
tenace.  Don  Stringari,  vinto  dall'amore  e  disgustato  della  Chiesa, 
getta  la  sua  veste,  abiura  la  fede  cattolica  per  quella  protestante,  e 
si  sposa.  Don  Rangoni  soffre  anche  lui  molto,  ma  è  un'anima  inde- 
cisa; e  nonostante  che  sì  desti  dai  sogni  sensuali  «  madido  del  suo 
•peccato»,  singhiozza  disperatamente  per  non  avere  la  forza  di  spez- 
zare i  vincoli  sacerdotali. 

In  questo  mondo  di  chieriche  volgari,  di  bigotte  maligne,  di  so- 
cialisti arrabbiati,  di  ragazzacci  insolenti,  l'Ernesta  e  Don  Renzo 
s'elevano  non  solo  pel  rapimento  totale  dei  sensi,  ma  anche  per  la 
forza  decisiva  del  loro  amore.  Dice  al  prete  la  donna:  «vorrei  ado- 
rarti in  ginocchi!  tua  per  tutta  la  vita:  dovessi  soffrire  il  disprezzo 
di  tutto  il  mondo,  non  veder  più  nessuno,  mai  più...  » 

Elssi  vanno  uniti  nella  notte  oscura,  nascostamente,  trasportati 
dall'impeto  di  vita  che  li  rende  audaci  e  vili  al  tempo  stesso.  «  Erano 
avvolti  dall'ebbrezza,  sollevati  dal  gonfio  oceano  della  felicità,  non 


SCRITTORI   nostri:    VIRGILIO   BROCCHI  43 

sapevano  come  vivevano,  quel  che  le  labbra  dicevano;  andavano  in- 
consapevoli nel  buio  e  nel  silenzio,  col  sussurro  divino  dei  lunghi 
baci  soffocati,  per  la  strada  deserta  sotto  il  cielo  nero;  si  trovarono 
dinanzi  alle  cascine  e  sussultarono  per  la  paura  di  essere  veduti». 
Intorno  a  loro,  stanno  il  mulino,  la  roggia,  il  paese,  con  la  grazia 
adesiva  che  presentano  i  luoghi  campestri  dietro  ad  una  coppia,  sia 
pure  sacrilega,  d'innamorati.  E  il  Brocchi  ha  dispensato  davvero  in 
questo  libro  tutte  le  sue  felici  risorse  di  narratore  umano,  analitico, 
e  malizioso. 

A  «  L'Isola  sonante  »  tengono  dietro,  legati  da  uno  stesso  filo, 
«  La  bottega  degli  scandali  »,  «  Sul  cavai  della  morte  amor  cavalca  », 
e  «Il  lastrico  dell'inferno». 

Il  .primo  di  questi  tre  è  un  romanzo  comico,  nel  quale  il  diavolo 
passeggia  per  le  canoniche  come  fossero  dei  gironi  infernali;  paolotti 
e  podrecchiani  s'azzuffano  fra  scandali  e  fornicazioni;  mentre  la  bal- 
doria indiavolata  delle  campane  di  rabelesiana  memoria,  strepita 
dalla  mattina  alla  sera,  coprendo  con  l'accompagnamento  ironico, 
assordante,  il  mormorio  dei  baci  proibiti  e  gli  echi  delle  bestemmie. 

Tommasone  Valdari  è  il  filosofo  del  luc^o,  che  ascolteremo  nel 
romanzo  successivo,  mentre  rimpiange  l'Isola  d'una  volta:,  «Anche 
l'Isola  e  i  campi  si  preparavano  ad  accogliere  la  fiera,  appena  sgom- 
bri dalle  nevi  e  dalla  brina.  Gli  alberi  rimiravano  i  loro  rami  ancora 
nudi  entro  le  acque  dei  canali  e  già  sotto  gli  strati  delle  foglie  secche, 
ai  loro  .piedi  odoravano  le  viole.  Lungo  le  prode  brillavano  i  ciuffetti 
delle  primule  gialle;  sotto  le  dure  siepi  spinose  strisciavano  nascoste 
le  catenelle  delle  pervinche,  e  qua  e  là  agitavano  nell'aria  con  uno 
squillo  turchino  le  loro  campanelline;  e  il  cielo  ne  rideva  così  lim- 
pido che  lasciava  trasparire  in  fondo  all'immensa  pianura  sogni  di 
montagne  azzurre,  orlate  di  bianco,  in  una  lontananza  infinita». 

Insieme  alla  rappresentazione  spicciola,  garrula,  della  vita  del 
borgo,  con  le  ragazzine  stormenti  della  sarta,  la  prodigalità  delle 
donne  facili,  fioriscono  qua  e  là  ricordi  vaghi,  fremono  sospiri  d'inaf- 
ferrabili sogni. 

Ma  ecco  «  Il  lastrico  dell'inferno»,  ossia  «  Le  buone  intenzioni  », 
nello  stesso  ambiente  sordido  e  pettegolo,  con  la  meschina  gente  che 
traffica,  malata  di  mali  comuni,  triviale  e  melensa:  mogli  avide 
d'adulteri  amplessi,  mariti  d'ottusa  condiscendenza,  con  le  solite  la- 
drerie amorose  di  preti  indegni. 

* 
•  • 

A  sollevarci  da  questo  mondo  basso,  immorale,  ecco  il  romanzo 
«  Miti  ».  La  donna  fragile  ed  eroica,  che  dà  il  titolo  al  libro,  e  che 
l'autore  sa  farci  amare  fin  dalle  prime  pagine,  è  certamente  la  più 
bella  che  sia  uscita  dalla  mente  e  dal  cuore  di  Virgilio  Brocchi.  Per 
lei,  per  lei  sola,  il  romanzo  è  percorso  da  un  profumo,  da  un  ab- 
bandono d'intimità  gelosa  e  fiera.  Sulle  descrizioni  naturali  aleggia 
un  fremito  di  primavera.  Questa  è  l'oasi  degli  affetti,  che  fiorisce 
e  fruttifica  al  calore  dell'ispirazione;  qui  amore,  onore,  gelosia,  fe- 
licità, non  hanno  trasporti  né  slanci,  né  brividi,  né  lampi  che  non 
siano  umani.  Qui  la  lotta  per  la  vita  libera,  buona,  feconda,  ritempra 
anche  quando  sgomenta,  e  il  dolore  é  il  buon  compagno  che  non 
deve  abbandonarci,  perchè  è  necessario  come  il  pane  della  mensa. 


44  SCRITTORI   nostri:    VIRGILIO   BROCCHI 

La  dedizione  per  la  donna  cara,  la  sublime  maternità,  la  crea- 
zione artistica,  sono  enunciate  con  gentile  e  appassionata  schiettezza. 
Parole  gravi,  religiose  escono  dalle  labbra  di  questa  fida  compagna, 
che  attende  il  frutto  del  suo  sangue:  «...  sono  certa  che  se  bisognerà 
andare  incontro  alla  nostra  creatura  adorata  nel  buio,  la  lampada 
non  mi  tremerà  nella  mano». 

Le  pagine  da  98  a  101,  si  leggono,  si  rileggono  con  gioia;  cosi 
pure  quelle  da  129  a  131,  nelle  quali  vibra  ancora  il  ritmo  persuasivo 
e  profondo  della  maternità.  Ad  esse  fanno  seguito  altre,  ciove  sono 
sgranate  tutte  le  ingenue  finezze,  le  tenere  trepidazioni  di  Miti,  e  le 
infantili  visioni  della  piccola  Luciana.  I  molti  capitoli  di  questo  ro- 
manzo non  riescono  a  turbare,  a  confondere  il  gruppo  della  madre 
e  della  piccina,  ohe  suggella,  come  un'erma  sacra,  il  primo  periodo 
dell'arte  di  Virgilio  Brocchi. 

•  • 

Egli  ne  ha  già  inaugurato  un  altro,  con  la  storia  di  Pietruccio 
Barra:  «  Il  posto  nel  mondo  ».  Questo  è,  prima  di  tutto,  un  romanzo 
d'ingenua  bontà.  Spesso,  leggendo,  vien  fatto  di  pensare  come  debba 
piacere  ad  essere  utile  ai  fanciulli.  Sono  bastate  infatti  alcune  leg- 
giere modificazioni,  ed  ecco  il  libro  per  adulti  mutato  in  una  bella 
edizione  pei  ragazzi,  che  il  Sacchetti 'ha  illustrata  con  quel  sagacis- 
simo segno  che  gli  è  particolare,  e  il  Mondadori  ha  allestita  con  la 
modernità  signorile  che  oggi  ha  ben  pochi  emuli,  in  Italia  e  all'estero. 

Le  cinquecento  pagine  del  romanzo  descrivono  con  calma  me- 
ditativa e  minuziosa  tutti  i  particolari  dell'infanzia,  della  puerizia 
e  della  giovinezza  di  Pietruccio.  La  prima  iparte  è  quella  ohe  mi 
piace  meglio.  La  fuga  del  giovinetto  protagonista,  Pietruccio,  da 
Roma  a  Velletri  ed  a  Sezze,  è  narrata  con  una  delicatezza  ansiosa, 
con  una  appassionata  conoscenza  dei  luoghi.  La  via  Appia  riappare 
di  momento  in  momento,  bianca  e  assolata,  fra  gli  alberi  grandi,  e 
il  mistero  d'eternità  che  essa  culla  ancora  tra  le  sue  prode  gloriose 
e  le  sue  pieti-e  miliari.  Pure,  le  parti  descrittive  non  sono  prepon 
deranti,  ma  concentrate  piuttosto  in  tocchi  rapidi,  suggestivi  :  «  La 
strada  fu  invasa  da  un  fiume  belante  di  groppe  lanose,  che  si  distese, 
s'accavallò  dilagando  intomo  ai  ruderi  su  cui  egli  era  seduto,  e  tra- 
scorse fra  pochi  secchi  latrati  di  cani  e  fischi  acuti  di  pastori  che 
camminavano  dondolando  sulle  anche  cinte  di  pelli  caprine». 

Non  è  la  prima  volta  che  egli  rammenta,  descrive  la  campagna 
laziale  e  la  desolata  palude  che  la  circonda.  Mai  però  aveva  rag- 
giunto —  come  in  questo  libro  —  una  così  precisa  medesimezza  col 
paesaggio  solenne  e  immortale  che  circonda  l'Urbe. 

Ma  il  ragazzo  è  costretto  a  tornare  nella  casa  patema,  dove  è 
oramai  padrona  la  terribile  discordia.  La  mitezza  angosciosa  della 
madre  s'effonde  sopra  di  lui,  che  è  la  sola  speranza  della  casa,  la 
promessa  innocente  d'un  avvenire  meno  angoscioso.  Il  padre  di 
Pietruccio  dirige  un'officina,  in  un  istituto  di  correzione;  ed  ecco  il 
ragazzo  buono  e  lavoratore,  cacciato  là  In  mezzo  ai  perfidi  corri- 
gendi, come  in  un  covo  di  serpi  che  gli  s'avventano  addosso. 

Le  persone,  in  questo  «Posto  nel  mondo»,  sono  centinaia:  una 
folla  che  l'autore  conduce  per  mano  dinanzi  a  noi,  dipanando  le  fila 


SCRITTORI   nostri:    VIRGILIO   BROCCHI 


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intricate  del  racconto  con  un  gusto  di  prendere  e  lasciare  che  mette 
a  prova  l'attenzione  e  accresce  la  varietà  dei  luoghi,  delle  vicende, 
ma  non  dimentica  lo  scopo  fondamentale  dell'opera.  Figura  indi- 
menticabile, che  merita  un  c^nno  a  parte,  è  Nella,  l'accigliata  e 
bnma  sorella,  ohe  .parla  poco,  con  franchezza  grave,  e  sembra  cam- 
peggiare sulle  altre,  quasi  fosse  d'una  razza  più  forte.  Il  Brocchi 
ha  raggiunto  di  rado,  con  mezzi  rapidi,  sicuri,  vorrei  dire  impres- 
sionistici, tanto  risalto. 

Pietruccio  è  quindi  chiuso  in  seminario,  dove  diventa  testimone 
dei  cento  vizi,  delle  ipocrisie,  delle  infamie  d'un  mondo  sudicio  ed 
equivoco,  nel  quale  la  viltà  briccona  dei  chierici  fa  da  specchio  alle 
untuosità  false  dei  monsignori.  A  costo  di  far  piangere  sua  madre, 
il  ragazzo  si  libera,  esce;  affronta  la  cupa  povertà  a  Milano.  Ma  è 
strenuo  in  mezzo  alle  burrasche,  e  non  trema.  La  via  è  lunga,  e  la 
conquista  somiglia  qualche  volta  ad  una  croce  di  camposanto.  Ma 
ohe  importa?  Egli  va  innanzi  col  cuore  colmo  di  fede. 

Gli  sono  accanto,  insieme  a  quello  di  sua  madre,  gli  esempi  delle 
persone  più  care:  Giovanni  Maresi  di  Santa  Maria  delle  Rondini 
e  il  filosofo  Agostino  Maresi.  La  vita  è  come  il  mare,  dove  chi  è  buon 
nuotatore  si  salva  anche  nei  naufragi.  Ma  il  povero  amico  pittore 
Vietti  gli  muore  accanto,  d'una  malattia  di  petto,  all'ultimo  piano, 
in  una  stanzuccia  esposta  a  tutti  i  venti.  Barra  andrà  poi  a  visitare 
i  genitori  del  defunto  compagno,  nella  bicocca  sconquassata,  sull'orlo 
del  canale  romagnolo,  alla  Coccolia. 

Questi  atti  di  pietà  serena  e  consolatrice,  gli  valgono  per  ripren- 
dere con  più  forza  la  sua  strada,  per  affrontare  col  solo  aiuto  delle 
proprie  forze  i  pericoli  e  le  insidie  del  mondo.  Dopo  il  lavoro  osti- 
nato, viene  il  guadagno  onesto;  la  vita  con  tutte  le  sue  sante  pro- 
messe rigogliose.  Questo  Pietruccio  è  buono,  leale,  valoroso.  È  ri- 
masto sempre  oppresso  dal  morso  delle  sofferenze;  l'amore  non  è 
ancora  sbocciato  in  lui.  La  sua  carne  dorme,  per  lasciar  vivere  sol- 
tanto l'anima. 

Certo,  nel  prossimo  romanzo,  «Il  destino  nel  pugno»,  ci  sarà 
serbata  la  conoscenza  della  donna  che  Pietruccio  amerà  ed  eleggerà 
a  compagna  della  propria  vita. 

Virgilio  Brocchi  ha  raggiunto,  a  questa  maniera,  un  fine  di  giu- 
stizia consigliatrioe,  ammonitrice  :  esaltando  la  virtù  sopra  ogni  bene 
terreno,  ha  guadagnato  insieme  alle  simpatie  del  pubblico  onesto, 
quel  compenso  morale  che  troppi  scrittori  sdegnano  e  non  meritano. 

Francesco  Sapori. 


ETRURIA    E    ROMA 


Nei  due  nomi  deirEtniria  e  di  Roma,  non  v'ha  dubbio,  si  com- 
pendia la  storia  dell'Italia  nell'antichità.  Col  nome  dell'Etruria  l'Ita- 
lia ha  cominciato  a  far  sentire  la  sua  potenza  nel  Mediterraneo,  col 
nome  di  Roma  l'Italia  nostra  ha  toccato  l'apice  della  grandezza,  ha 
soggiogato  il  mondo  antico,  e  adesso  ancora  co'  suoi  monumenti,  con 
le  sue  tradizioni,  col  pensiero  civile  e  religioso  che  rappresenta,  tiene 
avvinte  a  sé  tutte  le  nazioni  del  mondo.  Ma  Roma  non  ha  trovato  né 
poteva  trovare  soltanto  in  se  stessa  gli  elementi  necessari  alla  sua 
grandezza,  e  molti  essa  ne  attinse  dai  popoli  stessi  che  dovevano  di- 
ventare suoi  sudditi,  e  prima  che  da  altri,  dall'Etruria,  dimostrando 
così  fin  dalle  origini  quella  capacità  di  assimilazione  e  di  trasforma- 
zione che  é  l'indice  più  certo  della  vitalità  e  della  potenza  fattiva  di 
un  popolo. 

Le  prove  di  quanto  affermo  sono  state  esposte  già  in  gran  parte 
nelle  lezioni  precedenti;  ma  stimo  opportuno  raccoglierle  ed  integrai^le 
qui  in  una  rapida  sintesi,  perchè  soltanto  così,  abbracciandole  con 
uno  sguardo  tutte  insieme,  si  potrà  comprenderne  il  valore  e  trame 
le  necessarie  conseguenze. 

• 
•  • 

Qualunque  sia  l'opinione  che  si  voglia  seguire  intorno  alla  pro- 
venienza degli  Etruschi,  il  fatto  è  che  la  loro  sede  principale  fu  in 
quella  parte  dell'Italia  centrale  che  è  racchiusa  fra  l'Appennino,  il 
Tevere  e  il  mare.  Qui  sorsero  le  loro  città  capitali,  qui  si  fece  più  in- 
tensa la  coltura  dei  terreni  e  si  svolsero  le  loro  industrie  metalliche, 
di  qui  sferrarono  le  loro  navi  per  gli  scali  lontani  dell'oriente,  e  di 
qui  partirono  quelle  loro  colonie  che  dovevano  portare  i  primi  rudi- 
menti del  vivere  civile  a  mezzodì  nel  Lblzìo  e  nella  Campania,  a  setten- 
trione nella  vallata  del  Po.  In  breve  il  nome  etrusco  si  estese  dalle 
Alpi  al  golfo  di  Salerno,  riunendo  in  una  compagine  statale  unica  la 
parte  maggiore,  più  bella  e  più  ricca  di  tutta  la  penisola.  Dei  tanti, 
innumerevoli  tentativi  di  unificazione  dell'Italia  che  la  storia  registra, 
è  questo  il  primo  e  fors'anche  il  più  fortunato,  perchè,  almeno  per 
noi,  non  s'accompagna  colle  memorie  tristi  di  lutto  e  di  sangue  che 
funestarono  gli  altri.  E  tutto  questo,  si  noti,  si  è  compiuto  fra  l'vin  e 
il  v  secolo  a.  C,  mentre  Roma,  si  può  dire,  non  era,  e  il  resto  della 
penisola  avanzava  lentamente  nei  primi  gradi  della  civiltà,  dall'età 
eneolitica  all'incipiente  età  del  ferro. 


ETRURIA  E  ROMA  47 

All'esterno,  lungo  le  spiagge  del  mare,  la  cosa  era  diversa.  Forse 
i  più  antichi  navigatori  della  Fenicia,  certamente  i  loro  successori,  i 
Cartaginesi,  ed  i  coloni  Greci  scorrevano  colle  loro  navi  lungo  le  coste  : 
e  già  erano  sorte  le  colonie  di  Guma  nella  Campania,  di  Marsiglia 
nella  Gallia,  di  Nicea  e  più  tardi  di  Alalia  nella  Corsica.  E  le  rela- 
zioni degli  Etruschi  con  tutti  i  coloni  dovettero  da  principio  essere 
pacifiche.  Da  una  parte  gli  Etruschi  erano  nei  primordii  della  loro 
espansione  e  sentivano  l'immenso  vantaggio  che  recavano  i  viaggia- 
tori d'oltre  mare  che  insieme  a  prodotti  nuovi  e  preziosi,  quali  non 
si  potevano  rinvenire  in  Italia,  recavano  anche  l'insegnamento  di 
tecniche  assai  progredite  in  ogni  ramo  d'industria;  dall'altra  parte 
quei  primi  coloni  greci  non  avevano  propositi  di  conquiste  :  si  tra- 
sferivano volentieri  dove  la  ricchezza  dei  prodotti  li  attirava  e  si  ac- 
contentavano dei  loro  traffici.  Dei  Fenici,  e  più  specialmente  poi  dei 
Cartaginesi,  si  sa  che  non  avevano  grandi  mire  di  espansione  e  ba- 
davano sopratutto  a  impiantar  buone  fattorie  e  a  difenderle  dalle  ag- 
gressioni dei  Greci;  e  perciò,  su  questo  terreno,  i  Cartaginesi  veni- 
vano a  trovarsi  in  perfetto  accordo  cogli  Etruschi  e  a  diventarne  i 
più  fedeli  alleati.  E  durante  questo  tempo,  nei  secoli  viii  e  vi  a.  C, 
mercè  l'amicizia  punico-fenicia,  dovettero  essere  le  maggiori  relazioni 
etrusche,  dirette  od  indirette,  coll'oriente  asiatico  per  una  linea  di 
navigELzione  che  Cipro  e  dalle  coste  della  Siria  costeggiava  l'Egitto,  la 
Cirenaica,  la  Tripolitania,  i  possedimenti  Cartaginesi,  e  di  là  per  la  Si- 
cilia e  la  Sardegna  toccava  le  sponde  del  Tirreno.  Gli  Etruschi  cede- 
vano il  ferro  e  il  rame  che  abbondava  nel  lóro  paese  e  accettavano  in 
cambio  i  metalli  preziosi,  gli  aromi  e  molti  di  quei  minuti  oggetti 
di  lusso  che  si  trovano  nelle  loro  tombe  più  antiche,  specialmente 
nelle  tombe  dei  tumuli  :  balsamarii,  piatti  e  coppe  d'argento  lavorate 
a  sbalzo  e  dorate,  scarabei  ed  avorii  d'ispirazione  egiziana  od  assira  : 
di  più  colle  derrate  preziose  acquistavano  o  rinsaldavano  alcune  dot- 
trine e  pratiche  religiose,  come  quella  dell'aruspicina  e  fors'anche 
dell'agrimensura,  ed  apprendevano  l'arte  di  costruir  navi  e  correre  il 
mare;  cosicché  diventarono  anch'essi  una  potenza  marinara,  la  quale, 
unita  alla  cartaginese,  disputò  il  possesso  del  Tirreno  alle  flotte  el- 
leniche. E  venne  presto  il  giorno  in  cui  anche  gli  Etruschi  sentirono 
di  quale  importanza  fosse  per  l'Italia  centrale  l'aver  sicure  le  vie  del 
mare. 

La  prima  volta  fu  contro  i  Greci  di  Focea.  Siamo  alla  metà  del  vi 
sec.  a.  C.  La  potenza  persiana,  raccogliendo  l'eredità  assiro-babilo- 
nese ed  egiziana,  viene  a  scaricarsi  sull'Asia  Minore  e  travolge  sotto 
i  suoi  colpi  anche  le  fiorenti  città  elleniche.  Una  di  queste,  Focea. 
sdegnando  sottomettersi  ai  nuovi  barbari,  cerca  uno  scampo  nei  mari 
d'occidente  e  tenta  trapiantarei  nella  Corsica,  dov'era  una  loro  fat- 
toria ad  Alalia.  Gli  Etruschi,  padroni  del  resto  dell'isola  e  dell'Italia 
centrale,  i  Cartaginesi,  gelosi  dei  loro  possessi  di  Sardegna,  vedono 
la  minaccia  che  portava  con  sé  la  presenza  di  una  colonia  straniera 
attiva  e  bellicosa,  e  stretti  in  lega,  provocano  a  battaglia  nel  mare  di 
Sardegna  i  temuti  rivali.  È  la  prima  battaglia  internazionale  di  mare 
che  ricordi  la  storia  nel  Mediterraneo,  dove  si  trovarono  di  fronte  i 
rappresentanti  di  tre  diversi  continenti,  l'Asia,  l'Africa  e  l'Europa.  Il 
genio  greco  nella  mischia  feroce  ebbe  il  sopravvento,  ma  le  perdite 


48  ETRURIA  E  ROMA 

subite  furono  tali,  che  i  Foceesi,  non  ostante  la  vittoria  riportata,  pre- 
ferirono ritirarsi  e  abbandonare  il  Tirreno  ai  loro  avversarli. 

Fu  l'apogieo  della  potenza  etnisca,  ma  fu  anche  l'inizio  della  sua 
decadenza.  Le  popolazioni  del  Lazio,  che  di  gran  lunga  più  arretrate 
nella  civiltà  erano  state  per  gran  tempo  o  spettatrici  o  sottomesse  alla 
sua  potenza,  spalleggiate  da  Volsci  e  Sanniti  e  più  ancora  dai  Greci 
di  Cuma,  cominciarono  ad  alzare  la  testa  e  colla  vittoria  dell'Ariccia, 
degli  ultimi  decenni  del  vi  s'ec,  divisero  per  sempre  la  dominazione 
etrusca  del  settentrione  da  quella  del  mezzodì.  Si  cementava  così  la 
prima  lega  latina,  e  Roma,  scosso  il  giogo  etrusco,  entrava  subito  a 
far  parte  della  lega  e  poco  per  volta  affermava  su  di  essa  la  sua  su- 
premazia. 

Gli  Etruschi,  non  di  meno,  conservano  i  possessi  della  Campania, 
ma  s'accorgono  di  quanto  fossero  indebolite  le  loro  forze  per  le  comu- 
nicazioni perdute  attraverso  il  Lazio,  per  l'irruenza  dei  pKjpoli  mon- 
tanari del  Sannio  e  per  le  continue  insidie  dei  Greci  di  Cuma,  e  pen- 
sano per  un  istante  d'impadronirsi  di  Cuma,  per  sopprimere  in  essa 
l'istigatrice  principale  dei  loro  awersarii  ed  assicurarsi  così  per  la 
via  del  mare  un  nuovo  accessoalle  città  campane.  È  il  secondo  ten- 
tativo, dopo  quello  fortunato  contro  Focea,  di  allontanare  del  tutto 
dalla  penisola  la  pericolosa  concorrenza  greca.  Ma  questa  volta  gli 
Etruschi  non  poterono  essere  soccorsi  dai  Cartaginesi,  impegnati  in 
Sicilia  contro  Agrigento  e  Siracusa;  mentre  i  Cumani  ottennero  l'a- 
iuto di  lerone  di  Siracusa.  La  battaglia  di  Cuma  del  474,  di  cui  è  l'eco 
in  un'ode  di  Pindaro,  e  rimase  trofeo  nel  tempio  di  Giove  ad  Olim- 
pia l'elmo  etrusco  dedicato  dal  vincitore,  fu  una  sconfìtta  per  gli 
Etruschi.  D'allora  in  poi  non  si  sente  più  parlare  d'imprese  navali 
etrusche,  e  non  solo  declina,  ma  precipita  la  loro  fortuna. 

Dopo  circa  cinquant'anni,  coll'irruzione  dei  Sanniti,  cessa  la  do- 
minazione etrusca  nella  Campania,  e  contemporaneamente,  colla 
grande  invasione  gallica,  svanisce  quella  dell'Italia  settentrionale; 
mentre  si  riaccendono  più  accanite  le  lotte  con  Roma. 

La  prima  fase  del  duello  fatale  si  chiude  coll'assedio  e  la  caduta 
di  Veio  al  principio  del  iv  sec.  :  si  riapre  quarant'anni  dopo  con  una 
guerra  contro  i  Falisci,  i  deretani  e  i  Tarquiniesi  (351)  e  finisce  con 
l'intera  sottomissione  da  parte  di  Cere  che  riceve  un  trattamento  spe- 
ciale di  benevolenza  consacrato  nel  iits  Ceritum,  con  cessione  di  ter- 
ritorio ed  una  tregua  di  quarant'anni  da  parte  di  Tairquinia. 

Scaduto  il  termine  della  tregua,  la  guerra  divampa  da  tutti  i  lati. 
Questa  volta  è  tutta  la  federazione  delle  dodici  città  che  scende  in 
campo  e  chiede  il  soccorso  degli  Umbri  e  dei  Galli  per  tentare  l'ul- 
tima prova.  I  Romani,  non  scoraggiandosi  di  qualche  insuccesso  nelle 
prime  avvisaglie,  moltiplicano  le  forze  e  l'audacia;  e,  mentre  il  grosso 
dell'esercito  etrusco  tiene  il  campo  tra  la  selva  cimina  e  il  mare,  con 
mossa  ardita  staccano  una  parte  delle  legioni  e,  risalendo  la  vallata 
del  Tevere  ,fìn  sotto  le  m,ura  di  Perugia,  hanno  facilmente  ragione 
delle  truppe  accozzate  in  fretta  alla  difesa  :  segue  la  memoranda  bat- 
taglia di  Sentine  che  fiacca  per  sempre  Unubri  e  Galli  Senoni  (295)  e 
in  pochi  anni  la  guerra  si  chiude  colla  sottomissione  di  Perugia,  Vol- 
sinio,  Arezzo,  che  fanno  pace  ed  alleanza  con  Roma. 

Dopo  di  ciò  non  solo  la  Confederazione,  ma  la  stessa  unità  del- 
l'Etruria  è  spezzata  :  vi  saranno  tentativi  isolati  di  riscossa,  ma  senza 


ETRURIA  E  ROMA  49 

effetto,  anzi  coll'unico  effetto  di  spronare  innanzi  i  Romani  a  com- 
piere l'assoggettamento  del  nemico,  con  strappargli  nuovi  lembi  di 
territorio  e  trapiantarvi  nuove  colonie.  Il  racconto  di  queste  riprese  e 
di  questi  vani  tentativi  si  trova  in  qualsivoglia  manuale  di  storia  ro- 
mana e  non  gioverebbe  ripeterlo  ora.  Il  fatto  è  che  tra  gli  Etruschi  si 
va  formando  lentamente  la  persuasione  che  era  impossibile  lottare 
con  Roma,  e  meglio  valeva  riconoscerne  la  manifesta  superiorità  mi- 
litare e  vivere  con  essa  in  pace  e  possibilmente  in  buona  amicizia. 

Una  prova  evidente  di  questa  disposizione  d'animo  si  vede  nel 
fortunoso  periodo  delle  guerre  puniche  e  specialmente  nella  seconda. 
All'appello  di  Annibale  contro  Roma  rispondono  prontamente  tutti 
i  Galli  al  di  là  e  al  di  qua  delle  Alpi  :  l'Etruria,  che  aveva  pur  lon- 
tane tradizioni  di  amicizia  e  di  alleanze  con  Cartagine,  preferisce  sot- 
tostare al  flagello  dell'invasione  in  una  delle  sue  contrade  più  fiorenti, 
piuttostochè  staccarsi  da  Roma;  che  anzi,  quando  Scipione  detto  poi 
l'Africano  cerca  l'aiuto  delle  città  e  delle  colonie  amiche  per  tentare 
la  spedizione  sulle  coste  dell'Africa,  le  popolazioni  etnische,  come 
già  vedemmo,  si  offrono  spontaneamente  a  sostenere  coi  propri  mezzi 
una  parte  non  indifferente  dell'impresa.  Soltanto  molto  più  tardi, 
un  buon  secolo  dopo,  vi  fu  un  sollevamento  generale  contro  Roma; 
ma,  si  noti  bene,  fu  un  sollevamento  promosso  dalle  città  confede- 
rate dell'Italia,  le  quali,  stanche  di  dover  servire  con  tributi  di  uo- 
mini e  di  denaro  alle  guerre  continue  e  in  Africa,  e  nel  lontano 
oriente,  e  a  settentrione  contro  le  orde  dei  Cimbri  e  dei  Teutoni, 
chiedevano  alla  signora  del  Tevere  di  poter  fruire  dei  diritti  di  cit- 
tadinanza^ romana.  È  la  celebre  guerra  sociale,  in  cui  il  nome  d'Ita- 
lia compare  la  prima  volta  come  espressione  politica  e  geografica  a 
rappresentare  la  parte  maggiore  della  penisola;  e  gli  Etruschi  fanno 
causa  comune  cogl'Italici  contro  Roma,  che  abusava  pe'  suoi  fini 
della  cieca  devozione  de'  sudditi  e  degli  alleati  più  fedeli.  * 

Tutti  sanno  l'esito  della  guerra.  I  confederati  italici  perdettero 
la  loro  causa,  ma  Roma,  paga  di  aver  ^mostrata  la  sua  forza  e  la  sua 
potenza,  concedette  spontaneamente  e  poco  per  volta  ciò  che  da  prin- 
cipio e  in  blocco  aveva  negato.  Solo  per  l'Etruria  la  repressione  fu 
spietata,  perchè  con  essa  la  causa  degli  Italici  si  trovò  associata  a 
quella  dei  partigiani  di  Mario,  e  su  di  essa  si  abbattè  più  feroce  la 
vendetta  di  Siila.  Chiusi,  Populonia,  Volterra,  dopo  aver  lungamente 
resistito,  caddero  nelle  mani  dei  legionari  romani  ed  ebbero  la  sorte 
di  Preneste.  Alla  distruzione  delle  città  si  accompagiiò  una  devasta- 
zione sistematica  della  regione.  Fu  un  arresto  improvviso,  e  brutale 
di  un'antica  civiltà,  di  cui  nessuno  poteva  prevedere  le  conseguenze; 
perchè  da  quella  data  comincia  l'impoverimento  e  lo  spopolamento 
della  Maremma  e  della  Val  di  Chiana,  a  cui  invano  Augusto  e  i  suoi 
successori  tentarono  por  riparo  trasportando  colonie  e  concedendo 
privilegi  a  quelli  che  fossero  andati  ad  abitarvi.  Ma  le  campagne 
ubertose  che  con  una  sapiente  distribuzione  di  canali  sopra-terra  e 
di  condotti  sotterranei  assicuravano  insieme  la  ricchezza,  la  salute  e 
l'igiene,  abbandonate  o  prive  dei  loro  coltivatori,  si  coprirono  di 
stagni.  Ivi  trovarono  il  coefifkiente  più  funesto  i  germi  malefici  della 
malaria,  e  da  quel  giorno  esse  divennero  sinonimi  di  località  ma- 
ledette e  perseguitate  dalla  morte.  L'Etruria,  trafitta  dal  colpo  mor- 
tale, si  ripiegò  esausta  ed  annichilita  su  se  stessa:  come  nazione  e 

4  Voi.  CCXVII.  serie  VI  —  1°   marzo  1922. 


50  ETRURIA   E  ROMA 

conile  civiltà  essa  ha  cessato  di  esistere,  e  quello  che  aveva  ancora  di 
vivo  o  di  vitale  seguì  l'antica  via  del  Tevere  e  si  confuse  colla  civiltà 
romana. 

Così  dei  due  grandi  nonri  sui  quali  s'imipernia  la  storia  antica 
dell'Italia  uno  è  scomparso  :  e  le  sorti  della  civiltà  non  più  dell'Ita- 
lia, mia  del  mondo,  rincaserò  per  sempre  legate  alle  sorti  di  Roma. 

•  • 

Fu  bene  o  fu  male? 

Una  risposta  alla  domanda,  non  si  può  dare,  se  non  cerchiamo 
prima  di  vedere  attentamente  le  note  fondamentali  delle  due  civiltà, 
l'etrusca  e  la  romana,  e  di  stabilire  quali  di  queste  ebbero  maggior 
valore  nella  storia  del  progresso  umano. 

Chi  ben  osservi,  troverà  che  gli  Etruschi  e  i  Romani,  non  ostante 
le  differenze  e  i  contrasti  apparenti,  mostrano  nel  loro  carattere  molti 
ed  importanti  elementi  comuni,  i  quali  sono  fattori  indispensabili 
d'ogni  vera  grandezza  civile  e  sociale;  e  prima  di  tutto  una  meravi- 
gliosa facoltà  di  osservazione  e  di  analisi. 

Lasciamo  per  ora  da  parte  la  disciplina  etnisca,  nella  quale  pure 
l'osservazione  e  l'analisi  hanno  una  funzione  preponderante;  ma 
pensiamo  principalmente  a  tutto  il  comiplesso  sistema  di  canalizza- 
zione che  si  riscontra  nelle  città  e  nelle  campagne,  alle  cure  meti- 
colose introdotte  e  praticate  per  la  misurazione  dei  terreni,  e  com- 
prenderemo facilmente  che  un  tale  insieme  di  opere  è  di  necessità  il 
frutto  di  osservazioni  e  di  constatazioni  multiple  fatte  coll'uso  di  de- 
terminati stnimenti  e  continuate  per  lungo  tempo.  Questo  spirito  di 
osservazione  e  di  analisi,  concentrato  dagli  Etruschi  nelle  opere  pra- 
tiche dell'agricoltura  e  dell'agrimensura,  i  Romani  volsero  allo  studio 
dei  fenomeni  sociali  e  dei  fatti  morali,  e  di  qui,  come  tutti  sanno, 
con  lenta  ma  sicura  evoluzione,  uscirono  quei  monumenti  di  sa- 
pienza civile  raccolti  nelle  Istituzioni  Civili,  nel  Codice  e  nel  Dige- 
sto, che  sono  ancora  la  base  della  vita  pubblica  e  privata  moderna. 

Un  secondo  elemento  comune  agli  Etruschi  e  ai  Romani  è  la 
grande  facoltà  d'assimilazione. 

Ho  già  accennato  sopra  a  questo  elemento  di  primaria  impor- 
tanza come  indice  sommo  dìi  vitalità.  La  facilità  colla  quale  gli  Etru- 
schi si  sono  assimilati  gl'insegnamenti  attinti  dall'oriente  nelle  arti 
più  svariate  e  nelle  scienze,  sono  la  prova  più  convincente  di  questa 
facoltà  assimilatrice;  e  lo  stesso  deve  dirsi  dei  Romani  rispetto  agli 
Etruschi  prima  e  ai  Greci  poi. 

È  una  virtù  comune  che  nelle  arti  e  nelle  lettere  ha  degenerato 
persino  in  difetto,  perchè  ha  impedito  che  l'arte  etnisca,  che  l'arie 
e  la  letteratura  romana  avessero  e  nella  forma  e  nella  sostanza  una 
impronta  schiettamente  originale;  ma  potremmo  anche  proporci  il 
quesito,  se,  date  le  necessarie  premesse  di  razza,  di  tempo  e  di  clima 
era  umanamente  possibile,  battendo  vie  diverse,  arrivare  a  risultati 
che  potessero  competere  colla  Grecia. 

Altro  elemento  comiune  è  l'osservanza  delle  forme  che  porta  fa- 
cilmente poi  al  formalismo,  ti  una  qualità  che  si  associa  spesso  allo 
spirito  di  osservazione  e  di  analisi.  Una  volta  arrivati  per  una  data 
via  a  conclusioni  buone  ed  eccellenti,  si  crede  facilmente  che  queste 


ETHURIA  E  ROMA  51 

siano  il  lìon  plus  ultra  di  ogni  ritrovato  umano,  e  siano  tali  perchè 
ottenute  in  quel  modo  e  con  quelle  norme  determinate.  E  quelle 
norme  che  sono  indispensabili  per  conseguire  un  dato  effetto  nel 
campo  materiale,  si  ritengono  egualmente  indispensabili  nel  campo 
morale.  La  cosa  risulta  evidente  per  gli  Etruschi  e  per  i  Romani  nel 
cerimoniale  religioso  e  nelle  pratiche  annesse;  ma  in  Roma  pervade 
ogni  procedura  pubblica  e  la  legislazione,  e  assurge  al  grado  di  as- 
sioma nel  dettato  giuridico:  forma  dal  esse  rei. 

Quarto  elemento  nel  quale  Etruschi  e  Romani  si  accordano  è  il 
gusto  innegabile  dello  sfarzo  e  dell'opulenza.  Le  insegne  dei  magi- 
strati, le  grandi  pomipe  dei  funerali,  delle  feste  e  dei  trionfi  sono  co- 
muni all'uno  e  all'altro  popolo.  Né  vale  l'osservazione  che  i  Romani 
seguirono  per  questa  parte  l'esempio  dato  dagli  Etruschi,  perchè  se 
l'esempio  non  avesse  trovato  il  terreno  adatto  nell'indole  del  popolo, 
non  avrebbe  così  facilmente  attecchito.  È  questa  una  passione  che, 
considerata  a  rigore  di  morale,  è  nella  maggior  parte  dei  casi  ripro- 
vevole; ma  quando  si  prefìgga  il  proposito  di  celebrare  imprese  pub- 
bliche, e  d'innalzare  personaggi  veramente  benemeriti  della  nazione, 
essa  ha  pure  un  effetto  benefico  sull'educazione  sociale,  perchè  sve- 
glia e  fomenta  il  sentimento  delle  cose  grandi,  ed  è  utile  anche  per 
noi  lontani,  perchè,  senza  l'impulso  di  questa  passione,  non  sareb- 
bero sorti  tanti  monumenti  che  sono  stati  é  sono  per  tutti  scuola  in- 
superabile di  arte  e  di  bellezza. 

Un  quinto,  e  per  me  ultimo,  elemento  comune  all'Etruria  e  a 
Roma  è  il  culto  della  libertà  coordinata  al  rispetto  dell'autorità  su- 
periore dello  Stato. 

Nessuno  può  dubitare  del  fatto,  se  si  guarda  a  Roma,  e  special- 
mente se  si  confronta  il  regime  politico  di  Roma  con  quello  degli 
stati  ellenici,  i  quali  hanno  anticipato,  per  chi  conosce  un  po'  ad- 
dentro la  storia  antica,  tutti  gli  eccessi,  tutte  le  aberrazioni  cosi  del 
conservatorismo  assoluto  come  delle  demagogie  moderne.  Roma  ha 
mantenuto  sempre  alto  il  prestigio  dello  Stato,  e  nello  stesso  tempo 
ha  permesso  che  le  energie  individuali  e  sociali  potessero  svolgersi 
con  date  norme  liberamente.  E  lo  stesso  potemmo  provare  in  qual- 
che parte  anche  per  gli  Etruschi,  per  ciò  che  riguarda  la  dottrina  e 
la  pratica  della  disciplina. 

Gli  Etruschi  però  spinsero  il  sentimento  della  libertà  in  altro 
«ampo  fino  agli  eccessi,  sia  nel  permettere,  come  vedemmo,  che  sin- 
gole città  intraprendessero  guerre  per  iniziativa  propria  senza  il  con- 
sentimento del  congresso  federale,  sia  nel  lasciare,  come  par  certo, 
che  famiglie  o  società  private  facessero  spedizioni  e  scorrerie  sul 
mare  per  proprio  conto. 

•  ■ 
•  * 

Sono  questi,  in  breve,  i  principali,  se  non  tutti  gli  elementi  co- 
muni del  carattere  etrusco  e  di  quello  romano:  elementi  che  tor- 
cano a  lode  di  quei  nostri  antichi  progenitori. 

Ma  se  tanta  affinità  d'indole  e  di  costumi  fu  veramente  tra  i  due 
popoli,  come  mai,  si  domanderà,  essi  invece  di  fondersi  in  uno  solo, 
si  combatterono  sempre  più  accanitamente  tra  loro;  e  perchè  dei  due 
ila  prevalso  il  più  giovane  e  il  più  rozzo? 


6^  CTRURIA  E  ROMA 

La  risposta  alla  domanda  non  è  difficile,  quando,  insieme  alle 
note  comuni,  si  prendano  a  considerare  alcune  altre  speciali  de^'li 
Etruschi,  più  che  bastevoli  a  spiegare  la  loro  inferiorità  rispetto  al 
moto  ascendente  e  trionMe  di  Roma:  in  primo  luogo  una  tendenza 
spiccata  al  viver  tranquillo  che  degenera  in  quello,  che  con  una  pa- 
rola di  conio  recente,  si  può  chiainare  pacifismo;  in  secondo  luogo- 
una  vera  ripulsione  da  un'efficace  cooperazione  nazionale,  che  si  può 
ragguagliare  ad  uno  spirito  di  autonomia  regionale  spinto  all'eccesso, 
per  cui  facilmente  e  volentieri  una  parte  integrale  dello  Stato  si 
chiude  e  si  esaurisce  nella  stretta  cerchia  del  proprio  tornaconto,  e, 
se  non  è  costretta  da  un  pericolo  imminente  di  vita  e  di  morte,  ri- 
fugge dal  prender  parte  alle  imprese  d'interesse  generale.  Sono  due 
difetti  o  vizii  :  il  pacifisnw  e  il  regionalismo,  che  avvelenarono  la 
potenza  etnisca  nel  suo  rigoglio,  ma  che  trassero  origine  dal  modo 
stesso  con  cui  la  conquista  etrusca  si  è  compiuta, 

È  ammesso  comunemente  che,  venendo  in  Italia,  gli  Etruschi 
conoscessero  l'uso  del  ferro;  mentre  le  popolazioni  che  li  avevano 
preceduti  consei-vavano  ancora  la  civiltà  del  bronzo.  Chi  sa  anche 
superficialmente  quale  enorme  distanza  córra  fra  le  due  civiltà,  so- 
pratutto per  ciò  che  riguarda  le  applicazioni  dell'industria  e  della 
guerra,  comprende  facilmente,  che  gli  Etruschi  nel  loro  avanzare 
non  dovettero  incontrare  una  resistenza  tenace,  come  nessuna  seria 
opposizione  dovettero  sostenere  per  mantenerla. 

Dove  uno  scaglione  d'invasori  arrivava,  al  primo  scontro  sgomi- 
nava gli  avversarli  e  poteva  tranquillamente  adagiarsi  al  suo  posto 
nel  territorio  appena  occupato.  Basti  pensare  alla  rapidità  e  alla  fa- 
cilità colle  quali  due  avventurieri  come  Francesco  Pizzarro  e  Fer- 
nando Gortez,  al  tempo  delle  scoperte  marittime,  con  un  pugno  di 
soldati  bene  armati,  ebbero  ragione  degli  imperi  del  Perù  e  del  Mes- 
sico, che  pur  contavano  una  civiltà  antica  e  popolazioni  numerose. 

Ma  sono  invece  le  lotte  sanguinose,  i  pericoli  sostenuti  insieme, 
l'esultanza  di  una  vittoria  lungamente  disputata,  i  fattori  più  efficaci 
di  una  salda  unità  nazionale,  di  un  forte  organismo  di  Stato.  Gli 
Etruschi  non  provarono  queste  lotte,  non  sentirono  il  bisogno  di 
stringersi  compatti  coi  vicini  nello  sforzo  disperato  di  un'ardua  im- 
presa, e  rimasero  come  disgregati,  uniti  fra  loro  soltanto  con  un  le- 
game ideale  e  religioso:  troppo  poco  perchè  acquistassero  uno  spi- 
rito nazionale  loro  proprio,  perchè  si  svolgessero  e  si  fortificassero 
tra  loro  quelle  salde  istituzioni  militari  senza  le  quali  nessuna  con- 
quista si  compie,  né  compiuta,  si  mantiene. 

Mancando  loro  una  forte  unità,  mancarono  anche  i  grandi  mo- 
numenti. Furono  tra  loro  molte  città  ragguardevoli  e  non  una  grande 
metropoli  :  molte  opere  lodate  di  arte  industriale  e  molte  tornile  son- 
tuose: non  il  capolavoro  artistico,  non  il  monumento  nazionale  per 
eccellenza,  simbolo  della  patria,  che  forma  l'orgoglio  del  cittadino 
e  ne  tramanda  ai  posteri  la  fama.  E  quando  più  tardi,  tra  il  ve  il  iv 
secolo,  i  vicini  del  mezzodì,  prima  poveri  e  digiuni  di  ogni  arte, 
acquistano  la  coscienza  del  proprio  valore  e  si  agguerriscono  come  i 
loro  avversari,  e  dal  settentrione  irrompono  nuove  popolazioni  bar- 
bare, gli  Etruschi  si  trovano  déboli  ed  incapaci  di  una  lunga  resi- 
stenza e  diventano  facile  preda  dei  più  forti  che  perciò  stesso,  note- 
rebbe il  Machiavelli,  sono  più  favoriti  dalla  fortuna. 


ETRURIA  E  ROMA  69 

Roma  invece  ebbe  dura  l'infanzia  e  non  meno  aspra  e  combat- 
tuta la  giovinezza.  Non  fu  nemmeno  favorita  dalla  ricchezza  e  dalla 
fertilità  del  suolo,  e  si  trovò  circondata  da  \'icini  al  par  di  lei  tenaci 
e  laboriosi,  sui  quali  dovette  conquistare  palmo  a  palmo  l'indipen- 
denza per  giungere  lentamente  a  superarli  e  costringerli  a  far  parte 
del  proprio  organismo  di  Stato. 

Così  non  poteva  nascere  né  allignare  in  essa  la  velenosa  pianta 
del  pacifismo  :  così  il  giovinetto  imparava  per  tempo,  accanto  ai  mag- 
giori, a  vivere  a  ciel  sereno,  a  maneggiare  le  armi  e  ad  affrontare  i 
rischi  della  battaglia:  si  formava  l'oraziano  robustus  acri  ndlitia 
puer,  quegli  che  sarebbe  diventato  poi  eques  metuendus  hasta.  L'uso 
delle  armi  diventava  per  lui  famigliare,  e  senza  difficoltà  il  contadino 
abbandonava  il  campo  o  la  greggia  per  imbracciare  lo  scudo  e  stringer 
l'asta,  l'artigiano  deponeva  gli  attrezzi  del  mestiere  e  accorreva  al 
Campo  Marzio  alla  chiamata  dei  consoli.  Posava  la  guerra,  e  ognuno 
riprendeva  tranquillamente  il  proprio  ix)sto,  pronto  a  lasciarlo  al 
primo  appello  della  patria,  al  primo  squillo  delle  trombe  di  guerra. 
E  la  storia  di  Roma  nei  primi  secoli,  anche  in  mezzo  ai  racconti  leg- 
gendarii  che  l'abbelliscono,  è  un  seguito  continuato  di  guerre  con 
brevissime  soste;  guerre  nelle  quali  si  alternano  vittorie  e  sconfìtte, 
ma  che  sempre  alla  fine  segnano  un  buon  passo  innanzi  nella  via 
delle  conquiste  :  un  popolo  soggiogato  trasportato  ad  abitare  in 
Roma,  una  frazione  di  cittadini  romani  condotti  ad  abitare  là  dove 
era  il  centro  della  potenza  nemica,  quasi  sentinelle  avanzate  di  una 
marcia  che  deve  seguitare.  Appena  superata  una  prova,  eccone  un'al- 
tra più  dura  e  più  terribile.  Si  associano  tra  di  loro  e  si  moltiplicano 
i  nemici  :  insorgono  le  dodici  nazioni  confederate  dell'Etruria  e  sono 
con  loro  Umbri  e  Galli  :  Pirro  di  vittoria  in  vittoria  si  affaccia  alle 
vie  del  Lazio  :  che  più?  Il  tanto  odiato  Annibale,  dopo  aver  sconfitto 
condottieri  di  valore  e  annientato  di  seguito  tre  eserciti,  accamipa  non 
lontano  da  Roma:  il  terrore  invade  il  Senato,  ma  Roma  non  pensa 
mai  a  chieder  tregua,  a  negoziare  accordi  che  le  concedano  un  re- 
spiro: le  tregue  sono  per  gli  altri,  non  per  essa:  affronta  animosa  il 
pericolo  e  va  diritta  allo  scopo,  e  così  prima  il  Lazio,  la  Campania, 
l'Abruzzo,  l'Etruria,  poi  iF  resto  dell'Italia  e  gli  antichi  popoli  del- 
l'Africa,  della  Grecia  e  dell'Occidente  diventano  sudditi  suoi. 

E  come  non  vi  fu  pacifismo  in  Roma,  così  non  potè  mai  sorgere 
e  prevalere  in  essa  e  nelle  regioni  a  lei  sottoposte  alcuna  tendenza  di 
autonomie  e  di  separazione.  Roma  conobbe  pure  lotte  e  dissensi  in- 
temi, memorabili  e  memorande  quelle  tra  patrizi  e  plebei  che  con 
diversi  nomi  e  diverse  forme  occupano  tutta  la  storia  della  repub- 
blica fino  all'impero;  ma  di  fronte  ai  nemici  esterni  essa  fu  sempre 
unita  e  compatta  come  un  uomo  solo.  Quando  lo  Stato,  o  per  trat- 
tati o  per  conquiste,  si  estende,  è  l'originario  comune  che  allarga  i 
suoi  confini,  sono  i  suoi  ordinamenti  comunali  che,  sapientemente 
adattati,  si  trasformano  in  quelli  della  repubblica  e  più  tardi  del- 
l'impero. Roma,  sempre  e  unicamente  Roma,  è  il  comune,  la  città, 
la  repubblica,  l'impero  :  far  parte  dello  Stato  romano  è  entrare  a 
parte  della  città  di  Roma,  diventare  suoi  cittadini;  per  cui,  giunta 
all'apice  della  sua  potenza  essa,  per  bocca  d'uno  de'  suoi  più  grandi 
scrittori,  poteva  a  buon  diritto  vantarsi  di  aver  fatto  degli  abitatori 
del  mondo  i  cittadini  di  una  sola  città. 


54  ETRURIA  E  ROMA 

Di  fronte  a  così  forte  spirito  guerriero,  ad  un  organismo  di  Stato 
cosi  coordinato  e  compatto  come  avrebbe  potuto  e  contrastare  e  reg- 
gere l'Etruria?  Una  volta  impegnata  la  lotta,  il  risultato  era  certo. 
Nel  cozzo  violento  il  prestigio  delle  arti,  della  coltura  e  della  civiltà, 
non  sostenuto  da  solide  virtù  militari  e  politiche,  non  valse,  e  l'Rtru- 
ria  come  nazione  cessò  presto  di  esistere,  prima  ancora  che  i  suoi 
aruspici  ne  annunciassero  la  fine  segnata  nei  libri  fatali. 

Ma,  diciamolo  subito,  Roma  fu  degna  della  vittoria,  e  per  la  sua 
vittoria  ciò  che  nei  popoli  vinti  era  frutto  di  una  civiltà  e  di  un  sa- 
pere superiore  non  andò  interamente  perduto. 


Come  notammo  sopra,  Roma,  ebbe  comune  cogli  Etruschi  la  fa- 
coltà di  assimilare;  ma  Roma  svolse  ed  applicò  questa  facoltà  in 
grado  sommo  e  sopra  un'estensione  di  tempo  e  di  spazio  che  nessuno 
miai  avrebbe  potuto  immaginare.  Gli  Etruschi  poi  furono  i  primi  dei 
popoli  sui  quali  essa  esercitò  questa  facoltà,  e  la  esercitò  nella  forma 
piìj  diretta  e  più  semplice,  quella  dello  scolaro  volonteroso  che  as- 
sorbe lentamente  e  fa  sua  la  dottrina  del  maestro.  La  superiorità 
della  coltura  e  la  contiguità  del  territorio  ne  furono  i  coefficienti  più 
efficaci;  e  la  storia  poi  lo  dimostra  ad  ogni  passo.  Documento  noto 
e  significativo  quant'altri  mai  il  fatto  che  agli  Etruschi  affidavano  i 
Romani  quella  che  noi  diremo  l'istruzione  superiore  della  gioventù. 
È  Livio  che  lo  afferma:  habeo  auctores,  vulgo  tum  Roììianos  imeros, 
siciit  mine  Graecis,  ita  Etruscis  litterìs  erudir?  solitos  :  posseggo  te- 
stimonianze scritte,  che  come  adesso  si  usa  educare  i  giovani  nelle 
lettere  greche,  così  allora  si  faceva  nelle  lettere  etnische.  Dovettero 
passare  parecchi  secoli,  prima  che  i  Romani  stessi,  venuti  a  contatto 
delle  civiltà  maggiori  e  più  diffuse  della  Grecia  e  dell'oriente,  im- 
parassero a  conoscere  ed  ammirare  altri  monumenti  di  arte  e  di  let- 
teratura superiori  agli  etruschi,  prima  che  Livio  Andronico,  Ennio 
e  Pacuvio,  Plauto  e  Terenzio  facessero  sentire  nel  rude  idioma  latino 
alcune  delle  grazie  della  Musa  ellenica. 

Non  è  necessario  su  questo  punto  che  io  discenda  ai  majargiori 
particolari  :  non  farei  altro  che  ripetere  quanto  ho  detto  e  spiegato 
volta  per  volta  nelle  lezioni  passate. 

In  processo  di  tempo  non  sono  i  Romani  che  si  recano  a  studiare 
in  Etruria,  ma  sono  gli  Etruschi  che  si  trasportano  in  Roma.  Lo 
sappiamo  in  forma  esplicita  per  ciò  che  riguarda  l'anispicina  e  in 
generale  per  tutta  la  disciplina  etnisca:  ma  il  fatto,  per  illazione  le- 
gittima, si  può  presumere  per  ogni  altro  ramo  dell'arte  e  del  sapere. 
Né  può  avere  gran  valore  in  contrario  l'opposta  affermazione  df 
Orazio  : 

Grnecia  capta  feium    rtimem  cepìt  rf  nrfrx 
Intulit  agresti  Latio. 

Se  con  questi  versi  Orazio  intendeva  dire  che  le  arti  e  le  lettere  ro- 
mane del  suo  tempo  erano  una  rifioritura  dell'arte  e  della  letteratura 
greca,  nessuno  oserebbe  dargli  torto;  ma  se  avesse  voluto  affermare 
che  quella  rifioritura  era  una  conseguenza  diretta  ed  immediata  della 


ETRURIA  E  ROMA  55 

conquista  romana  della  Grecia,  noi  dovrenuiio  dire  che  egli  ha  er- 
rato, o  per  lo  meno  che  ha  grandemente  esagerato. 

Si  vede  molto  chiciro  che  due  sentimenti  principali  dcwninavano  il 
pensiero  di  OfcLzìo,  quando  dettò  quei  versi  :  l'uno,  se  mi  è  lecita  la 
frase,  era  un  sentimento  di  boria  nazionalista,  per  il  quale  il  fiero 
Quirita,  salito  al  fasto  di  un  impero  universale,  sdegnava  rintrac- 
ciare le  origini  della  propria  grandezza  nei  popoli  piìi  vicini,  da  lui 
sottomessi  e  quasi  annientati;  mentre  più  volontieri  si  protestava 
figlio  intellettuale  di  quella  Grecia,  che  colla  spada  di  Alessandro 
precorse  le  aquile  romane  nei  più  lontani  confini  dell'oriente;  e  di 
buon  animo  accettava  le  origini  di  Roma  dalla  leggendaria  Troia, 
circonfusa  di  tanta  poesia  nei  miti,  nei  canti  e  nelle  arti  elleniche. 

In  secondo  luogo,  è  giusto  riconoscerlo,  il  pensiero  di  Orazio  non 
poteva  sottrarsi  all'impressione  che  doveva  produrre  la  Roma  di 
marmo  dell'età  augustea  in  confronto  della  Roma  di  mattoni  dell'età 
repubblicana:  gli  archi  trionfali,  i  templi,  le  terme,  le  basiliche  e 
sopratutto  VAra  Pacis  che  sorgeva  sotto  i  suoi  occhi,  recavano  così 
chiara  e  luminosa  l'impronta  del  genio  greco,  che  facilmente  pote- 
vano sfuggirgli  gli  oscuri  meati  che  collegavano  i  grandiosi  monu- 
menti imperiali  colle  opere  più  modeste  dell'arte  paesana. 

Non  è  quindi  la  sentenza  oraziana  quella  che  può  infirmare  le 
nostre  deduzioni.  Se  Roma  ha  taciuto  spesso  le  fonti  a  cui  attinse  nei 
secoli  più  avanzati  della  sua  storia,  questo  non  vale  a  negare  il  fatto, 
e  si  spiega  assai  facilmente  o  come  effetto  di  vanità  nazionale  od  an- 
che come  dimenticanza. 

Del  resto  non  era  neppur  necessario  che  essa  rivelasse  le  sue 
fonti,  perchè,  come  dicemano,  l'assimilazione  delle  arti,  delle  dot- 
trine, dei  costumi  era  nell'indole  e  nelle  consuetudini  sue.  Roma, 
tuttavia,  non  si  è  accontentata  di  assimilare,  arti  dottrine  e  costumi, 
ma  ha  fatto  di  più  :  ha  attirato  a  se  gli  uomini  migliori  delle  altre 
genti  e  li  ha  liberamente  associati  alle  proprie  imprese  e  alla  pro- 
pria fortuna:  in  altre  parole  essa  ha  saputo  intendere  ed  applicare 
fino  da'  suoi  tempi  il  grande  principio  della  cooperazione  sociale.  E 
chi  ben  guardi  si  persuaderà  facilmente  che  nell'applicazione  di  que- 
sto principio  sta  la  ragione  prima  e  principale  della  grandezza  di 
Roma,  della  perennità  dell'azione  e  della  fama  sua  attraverso  i 
secoli. 

Lo  sforzo  continuato  di  tante  guerre  avrebbe  fatalmente  pro- 
dotto in  lei  la  spossatezza  e  l'esaurimento,  ed  era  necessario  che  di 
volta  in  volta  essa  potesse  risanguarsi  con  elementi  nuovi  e  ricchi  di 
nuove  energie.  Altri  avrebbe  potuto  temere  che  con  questo  mezzo 
si  alterasse  il  carattere  UcLzionale,  e  ne  fosse  minacciata  la  sicurezza 
dello  Stato;  ma  Roma  seppe  compiere  l'opera  sua  per  gradi  e  con 
tanto  senno,  che  nessuno  mai  degli  elementi  associati  pensò  di  so- 
^Tapporsi  ad  essa  o  di  deviarne  comunque  l'azione.  Tale  era  il  pre- 
stigio che  Roma  si  era  guadagnato,  che  ognuno  si  sentiva  in  essa  no- 
bilitato e  diventava  tosto  romano  di  elezione  e  di  cuore.  E  quando 
Cesare,  il  più  grande  dei  Romani,  estendeva  di  sua  volontà  la  citta- 
dinan2a,  romana  ai  Cisalpini  e  fondava  colonie  nuovie,  e  chiamava 
in  Senato  i  migliori  cittadini  galli,  potè  bensì  essere  schernito  ed  ac- 
cusato dall'oligarchia  avversaria  di  cercar  coll'arbitrio  difensori  in- 
teressati della  causa  sua:  ma  in  realtà  egli  obbediva  ad  una  legge 


56  ETRURIA  E  ROMA 

storica  e  aggiungeva  nuove  e  solidissime  basi  alla  futura  grandezza 
di  Roma. 

Che  diventerebbe  il  fiume  reale  che  attraversa  maestoso  colle 
turgide  correnti  la  pianura,  se  le  piccole  ed  ignorate  sorgenti  della 
montagna  gli  negassero  il  loro  tributo?  Che  sarebbe  il  biondo  Te- 
vere senza  i  miille  rivoli  che  dalle  sue  fonti  perenni  gli  mandano 
rUmibria  e  la  Sabina  e  senza  quelli  che  a  lui  rifluiscono  e  dalle  sel- 
vose pendici  dell'Amiala  e  dalle  feconde  pianure  della  Chiana?  Come 
i  fiumi  e  le  fonti,  così  sono  le  rudi  schiatte  montanare,  così  le  forti 
generazioni  delle  campagne.  La  chiarezza  del  sole  e  dell'aria  che  si 
trasfonde  in  lucidezza  di  pensiero,  e  la  robuste2iza  della  fibra  che 
feconda  l'energia  dei  propositi  si  disposano  alla  mansuetudine  del 
carattere  e  alla  pietà  dei  mistici  umbri,  monaci,  poeti  ed  artisti,  che 
attingono  alle  profonde  scaturigini  della  religione  e  del  sentimento 
etrusco.  Ma  la  mèta  lontana  è  Roma,  e  Roma  s'arricchì  delle  forze 
dei  sudditi  suoi,  ridandole  ad  essi  nobilitate  e  perfezionate  in  leggi 
ed  ordinamenti  nuovi  civili  e  religiosi. 

E  la  storia  dell'Umbria  e  dell'Etruria  è  quella  di  tutte  le  regioni 
dell'Italia,  e  grado  a  gr^do  di  tutto  il  mondo  antico,  che  attratto  nel- 
l'orbita di  Roma,  ha  finito  col  diventarne  parte  essenziale  e  col  di- 
viderne le  sorti. 

Chiedete  alla  storia,  donde  vennero  a  Roma  i  primi  maestri  del- 
l'arte, ed  essa  vi  risponderà  col  nome  di  Volca  che  foggiò  la  prima 
quadriga  del  tempio  di  Giove  Capitolino,  e  poi  vi  mostrerà  la  lupa 
capitolina  e  le  antiche  sepolture  degli  Scipioni,  e  vi  ricorderà  i  tu- 
scarna  signa,  e  le  duemila  statue  che;  al  dir  dà  Plinio,  dalla  vinta 
Volsinio  furono  portate  a  Roma. 

Chiedete  agli  architetti  romani  donde  trassero  le  norme  pratiche 
del  costruire  e  l'idea  madre  di  quelle  moli  complesse  di  archi,  vòlte 
e  cupole  che  sfidarono  l'urto  della  barbarie  e  il  morso  tenace  del 
tempo,  ed  essi  additeranno  le  miura,  e  le  porte  di  città  etrusche,  i  ca- 
nali, i  pwnti  e  le  tombe,  di  cui  restano  tracce  preziose,  e  che  nei 
primi  tempi  di  Roma  dovevano  brillare  in  tutto  lo  splendore  e  la 
grandezza  loro. 

Che  se  dalle  arti  passiamo  alle  lettere,  chi  sono  e  donde  vennero 
i  poeti,  gli  storici  e  i  retori  piij  famosi  che  hanno  cantato  le  gesta, 
eternato  il  ricordo,  tradotto  il  pensiero  più  genuino  di  Roma  nei  loro 
scritti? 

Non  sono  Virgilio  di  Mantova  e  T.  Livio  di  Padova,  l'uno  coi 
versi  e  l'altro  colla  prosa,  che  hanno  immortalato  le  origini  di  Roma 
e  ne  hanno  preconizzata  la  missione  provvidenziale  nel  mondo?  Non 
è  Tacito  di  Temi  che  ha  segnato  con  marchio  d'infamia  le  nequizie 
dei  primi  successori  d'Augusto  ed  additato  coll'esempio  quale  sia  il 
compito  d'uno  storico  severo?  Non  venne  da  Sarsina  Plauto  a  ralle- 
grare co'  suoi  sali  il  popolo  di  Roma,  e  dall'Africa  Terenzio,  ed  En- 
nio e  Livio  Andronico  dalla  Magna  Grecia?  E  chi  con  maggior  sin- 
cerità di  passione  cantò  d'odio  e  di  amore  del  Veronese  Catullo?  Chi 
pili  di  Orazio  di  Venosa  ha  saputo  adornare  la  lirica  latina  delle 
grazie  più  squisite  delle  Muse  elleniche  e  magnificare  nelle  sue  strofe 
il  nome  e  la  grandezza  di  Roma?  E  dove  lascio  Properzio  di  Assisi, 
Ovidio  di  Sulmona.  Persio  di  Volterra,  Giovenale  d'Aquino,  Stazio 
di  Napoli,  i  due  Plinii  di  Como.  liucano,  Seneca,  Columella  e  Mar- 


ETRURIA  E  ROMA  57 

ziale  della  Spagna?  E  quando  l'impero  e  le  lettere  decadono,  non 
sono  i  provinciali  che  sostengono  ancora  gli  studi  e  il  buon  nome 
di  Roma?  Orosio  dalla  Spagna,  Ausonio  e  Sidonio  Apollinare  dalle 
Gallie,  S.  Girolamo  dalla  Dalmazia,  Ammiano  Marcellino  da  An- 
tiochia, Claudiano  da  Alessandria,  Apuleio,  Frontone  ed  Agostino 
dall'Africa,  tutti  convergono  il  loro  sguardo  verso  la  regina  del  Te- 
vere, e,  CQm€  dall'unica  patria  loro,  ne  esaltano  le  glorie  e  ne  pian- 
arono amaramente  le  sventure.  Che  più?  Gl'imperatori  stessi  che  con 
mano  più  ferma  e  con  msente  più  sagace  ressero  le  forze  trionfanti  di 
Roma  o  le  rialzarono  cadenti,  non  nacquero  cittadini  di  Roma,  ma 
fecero  di  essa  la  loro  patria  di  elezione.  Così  vennero,  a  tacer  dei  mi- 
nori, Vespasiano  da  Rieti  e  Nerva  da  Nami,  Traiano  e  Teodosio  il 
Grande  dalla  Spagna,  Aureliano  e  Probo  dalla  Pannonia,  Diocleziano 
dalla  Dalmazia  e  Costantino  Magno  dall'Illiria  e  Settimio  Severo  dal- 
l'Africa. 

*  * 

Tale  fu  l'azione  che  Roma  esercitò  sui  popoli  a  lei  sottomessi: 
attirarne  a  sé  le  forze  migliori  e  stringerle  in  un  sol  fascio  per  farle 
contribuire  alla  grande  opera  della  civiltà  e  del  progresso  umano. 

Né  questa  opera  si  arresta  con  Roma  antica,  ma  continua  sotto 
altre  forme  e  per  altre  vie  per  tutto  il  Medio  Evo  fino  all'età  nw- 
derna.  Passano  appena  due  secoli  da  quando  i  Goti  di  Alarico  sono 
penetrati  saccheggiando  e  incendiando  nel  pomerio  di  Roma,  e  — 
l'immagine  è  del  Gregorovius  —  altre  schiere  di  barbari  arrivano 
dal  settentrione  per  le  vecchie  vie  consolari.  Ma  essi  non  portano 
armi  e  non  intonano  canzoni  di  guerra:  levano  alto  le  croci  e  can- 
tano salmodie  religiose:  non  vengono  per  distruggere,  ma  cercano 
una  tomba  da  venerare,  un  vecchio  a  cui  chiedere  una  benedizione: 
non  vogliono  bottino,  ma  recano  l'oro  e  l'argento  delle  terre  natali. 
Sono  gli  Angli,  i  Sassoni,  i  Franchi,  gli  eredi  degli  antichi  invasori 
che  Roma  ha  mansuefatto  e  che  tornano  a  lei  come  figli  all'antica 
madre.  Dei  molti  che  arrivano  pellegrinando,  non  sono  pochi  quelli 
che  ne  restano  ammaliati  e  scelgono  come  loro  asilo  un  angolo  del- 
l'urbe, dove  vivere  ed  operare  sotto  lo  sguardo  materno.  Sono  i  primi 
pellegrinaggi,  quei  pellegrinaggi  che  si  ripeteranno  senza  tregua 
fino  ai  giorni  nostri,  verso  mète  diverse,  ma  tutte  romane,  della 
fede,  della  storia  e  dell'arte.  Roma  riceve  novelli  tributi,  ma  li  ri- 
dona moltiplicati  in  opere  di  sapienza  morale  e  civile,  in  monu- 
menti d'arte  e  di  bellezza  che  parlano,  insegnando  ed  educando,  a 
tutto.il  mondo. 

Troppo  forse  io  sono  trascorso  col  mio  dire:  ma  prima  di  con- 
cludere, mi  sia  permesso  ricordare  un'altra  grande  pagina  della  no- 
stra storia,  che  é  tutta  un  commento,  anzi  una  conferma  di  auanto 
abbiamo  osservato  e  studiato  insienne,  una  pagina  della  storia  del 
Rinascimento  italiano. 

Si  è  chiuso  per  sempre  il  periodo  delle  invasioni  barbariche, 
sono  cessate  le  lotte  delle  investiture  :  il  feudalismo,  battuto  in  brec- 
cia dai  liberi  comuni,  apre  le  ferree  rocche  e  si  mescola  alla  vita 
cittadina  :  appaiono  i  segni  forieri  di  un'età  più  civile  e  di  una  nuova 
e  più  pacifica  comunione  dei  popoli  fra  loro,  e  ITtalia  si  ridesta  dal 


58  ETRURIA  E  ROMA 

sonno  secolHre.  Quali  sono  le  ragioni  ohe  prime  e  in  più  larga  mi- 
sura e  con  uno  slancio  di  volontà  che  non  s'arresta,  accolgono  i  nuovi 
germi,  li  coltivano  più  amorosamente  e  ne  traggono  i  fiori  .più  ri- 
denti e  più  leggiadri,  se  non  le  nipoti  lontane  dell'antica  Etruria, 
la  Toscana  e  l'Umbria?  Da  Assisi  e  Todi  e  Gubbio  e  Perugia,  ad 
Arezzo  e  Pistoia,  a  Firenze  e  Lucca,  a  Pisa  e  Volterra,  a  Siena  ed 
Orvieto  è  una  primavera  di  opere  d'arte  e  d'ingegno  che  non  ha 
l'eguale,  e  in  cui  gareggiano  fra  loro  architetti  e  pittori,  orafi  e  scul- 
tori, poeti,  novellieri  e  cronisti,  i  quali  tutti  si  professano  figli  di 
Roma  e  tendono  ad  essa  come  alla  patria  comune.  E  Roma  per  lungo 
tratto  non  partecipa  al  risveglio  delle  proprie  figlie,  e  rimane  quasi 
corrucciata  in  disparte  avvolta  nel  suo  manto  di  rovine;  finché 
l'istinto  materno  si  ridesta  e  risponde  alle  voci  che  l'invocano;  e 
dalle  cento  valli  dell'Umbria,  dalle  colline  e  dai  piani  della  Toscana 
scendono  a  schiere  i  letterati  e  gli  artisti  che  in  essa  e  intorno  ad 
essa  affinano  l'ingegno  e  traggono  insegnamenti  di  saggezza  antica. 
A  Roma  vennero  e  ne  partirono  trasformati  il  Donatello,  il  Bru- 
nelleschi  e  Leon  Battista  Alberti,  ivi  il  Masaccio  e  Pier  della  Fran- 
cesca, il  Signorelli,  il  Perugino,  il  Pinturicchio;  a  Roma  vennero  e 
si  arrestarono  Michelangelo  e  Raffaello;  e  qui  l'opera  loro,  spoglia- 
tasi di  ogni  vestigio  regionale,  si  trasformò  in  monumenti  che  fanno 
epoca  nella  storia  e  sono  esenrupio  insuperato  e  insuperabile  di  quanto, 
col  divino  magistero  dell'arte,  abbiano  saputo  creare  insieme  la 
scoltura,  l'architettura  e  la  pittura:  gli  affreschi  della  Cappella  Si- 
stina, delle  Stanze  e  delle  Logge  in  Vaticano,  e  la  cupola  di  S.  Pietro. 
Così  allora  e  sempre,  col  dono  più  amibìto  di  una  gloria  universale, 
Roma  ha  saputo  rimeritare  tutti  quelli  che  accorrendo  ad  essa,  le 
hanno  consacrato  l'ingegno,  la  volontà  e  il  lavoro.  E  cosi  si  dimostra 
ancora  una  volta,  come  nel  mondo  nulla  di  veramente  grande  è 
frutto  di  opera  solitaria;  ma  è  il  risultato  di  una  larga  e  sapiente 
collaborazione,  nella  quale,  sotto  una  guida  comune,  ognuno  tiene  il 
proprio  posto  e  cerca  e  raggiunge  il  proprio  fine. 

* 
•  * 

Le  nazioni  sono  come  gl'individui.  Chi  non  pratica  l'insegna- 
mento dell'oracolo  di  Delfo  —  conosci  te  stesso  —  quando  pure 
ascolti  le  ispirazioni  più  elette,  non  potrà  mai  misurare  con  sicu- 
rezza le  proprie  forze  e  ben  difficilmente  raggiungerà  con  l'opera 
propria  la  mèta  desiderata.  Allo  stesso  modo  una  nazione  che  non 
ha  la  conoscertza  esatta  dei  propri  valori  materiali  e  morali,  non 
può  tendere  con  buona  speranza  a  vera  grandezza.  Perchè  le  forze 
di  una  nazione  non  sono  soltanto  nelle  volontà  e  nelle  attitudini  dei 
cittadini  che  la  compongono,  ma  anche  e  più  nel  patrimonio  ideale 
e  morale  della  sua  storia,  negli  elementi  etnografici  suoi  propri, 
che  sono  quelli  che  presiedettero  alla  sua  formazione  e  devono  per- 
petuarsi nei  figli  suoi.  Chi  non  ha  cura  di  ciò,  vien  meno  al  suo 
mandato,  perde  le  fattezze  originali,  e  presto  o  tardi  è  destinato  a 
soccombere. 

Quanti  utili  principii,  anche  co'  suoi  errori,  ci  ha  insegnato 
l'Etruria,  e  dei  quali  (possiamo  verificare  il  valore  pratico;  e  quanti 
di  questi  principii  Roma  ha  fatto  propri  e  propagati  nel  mondof 


ETRURIA  E  ROMA  59' 

Ma  non  potremo  «ssere  i  degni  eredi  di  Roma,  se  non  faremo  tesoro» 
de'  suoi  esempi,  e  se,  com'essa  ha  luminosamente  insegnato  col  fatto, 
non  ricercheremo  con  amore  le  fonti  della  nostra  grandezza  in  tutte 
le  regioni  che  compongono  la  nostra  penisola,  in  tutte  le  genti  che 
abbraccia  la  nostra  schiatta,  e  quindi  anzitutto  nella  Toscana  e  nel- 
l'Umbria che  sono  le  più  antiche  e  le  piti  insigni  propaggini  della 
gente  etnisca. 

Noi  felici  e  ben  avventurata  la  patria  nostra,  se  nello  studio 
del  ipassato  sa/premo  cercare  e  riconoscere  una  parte  di  noi  stessi. 
Come  aquila  che  librandosi  a  volo  sulle  vette  inaccessibili  dei  monti 
abbraccia  con  uno  sguardo  le  valli  sottoposte  e  tutto  nata  e  distingue, 
poi,  scelta  la  sua  mèta,  fìgge  sicura  e  gioiosa  i  suoi  sguardi  nel  sole, 
così  la  patria  nostra  sicura  del  suo  passato  e  forte  della  volontà  di 
tutti  i  figli  suoi,  «potrà  senza  titubanza  e  per  la  diritta  via  affidarsi 
a)  proprio  destino. 

Il  qual  destino,  ammettiamolo  pure,  potrà  serbarle  qualche  de- 
lusione e  qualche  sventura.  Ma  anche  allora  il  suo  patrimonio  di 
tradizioni  e  di  memorie  manterrà  intero  il  proprio  valore,  perchè, 
non  solo,  come  canta  il  poeta  dei  Sepolcri, 

...  dei  numi  è  dono 
Serbar  nelle  sventure  altero  nome  ; 

ma  dono  più  grande  ancora  deìValtero  noìne  è  la  podestà  di  uscir 
presto  dalla  miseria,  per  cancellare  le  proprie  macchie  e  riguada- 
gnare il  tempo  perduto.  Per  merito  di  Roma  e  delle  sue  glorie  civili 
e  religiose  già  altra  volta  l'Italia  vinse  la  barbarie  delle  invasioni 
e  rinacque  a  novella  vita  dalle  .oscurità  del  Medio  Evo;  e  per  essa 
ancora  l'Italia  potrà  sempre  rinsaldare  le  proprie  forze  e  perpe- 
tuarne la  maturità  nei  secoli. 

B.    NOGARA. 


Nota.  —  Questo  articolo,  non  ostante  alcune  omiasiomi,  riproduce  la  le- 
zione di  chiusura  del  corso  di  Antichità  Etnische,  tenuta  nel  settembre  p.  p^ 
presso  la  Libera  Università  degli  Studi  di  Perugia. 


NUOVI  ORIZZONTI  NELL'EDILIZIA  CITTADINA 


L'Edilizia  Cittadina  è  tra  le  discipline  architettoniche  una  delle 
principali,  sebbene  da  noi  pochissimo  finora  coltivata.  Certamente 
la  meno  astratta,  la  più  moderna,  la  più  palpitante  o^gi,  connessa 
com'è  con  tutti  i  problemi  più  scottanti  e  più  difficili  della  vita. 

L'Edilizia  g^enerale  è  arte  complessa,  è  arte  essenzialmente  di 
sintesi,  abbracciando  essa  molte  altre  dottrine:  l'estetica,  la  morale, 
la  sociologiia,  l'igiene,  la  sicurezza.  Anni  fa  non  si  sapeva  tutto  que- 
sto :  ricordo  che  un  egregio  artista,  ascoltando  i  miei  (propositi,  mi 
diceva  che  per  l'insegnamento  della  Edilizia  bastava  che  un  qua- 
lunque professore  dimostrasse  in  due  o  tre  lezioni  come  si  fa  un 
piano  regolatore!  E  per  allora  fare  un  piano  regolatore  significava 
semplicemente  tracciare  sulla  carta  una  fitta  rete  di  strade  tutte 
uguali,  con  l'unico  intento  di  dover  trovare  sfogo  in  qualsiasi  modo 
alla  costruzione  di  nuove  case. 

Così  fu  fatto  per  i  Prati  di  Castello  in  Roma. 

Nei  centri  di  grande  importanza  invéce  o  di  alto  interesse  arti- 
stico, si  partiva  da  un  grande  monumento  antico  o  moderno  e  sul 
prolungamento  del  suo  asse  si  disponeva  un  bello  stradone  diritto, 
senza  preoccupazione  del  suo  sbocco,  né  del  suo  allacciamento  con 
le  altre  arterie  principali,  né  con  i  quartieri  limitrofi. 

Così,  sempre  nella  nostra  -povera  Roma,  sull'asse  delle  Terme 
di  Diocleziano,  fu  fatta  partire  trionfalmente  la  Via  Nazionale,  per 
poi  abbandonarla  a  Magnanapoli,  in  un  precipizio  incomodo  e  in- 
decoroso. Peggio  per  via  Cavour.  Senza  neppure  la  scusa  monu- 
mentale, essa  s'inizia  sull'asse  del  prospetto  laterale  della  stazione 
di  Termini,  e  va  ad  arrestarsi  bruscamente  senza  uscita  contro  e 
sopra  il  Foro  Romano.  Critica  piiù  feroce  non  potrà  toccare  a  questa 
sfortunata  strada,  da  quando  un  tramwai  elettrico,  scendendo  a  corsa 
veloce  verso  il  basso,  uscito  dalle  rotaie  che  ipiegano  seccajnente 
verso  la  via  Alessandrina,  sbattè  contro  lo  stecconato  piantato  a  di- 
fesa del  preci'pizio  sul  Foro! 

Oggi  si  tenta  in  tutti  i  modi  di  riparare,  ma  è  tardi  purtroppo, 
e  il  danno  e  la  vergogna  quanto  la  memoria  dureranno. 

Ma  quello  ohe  è  stato  è  stato  :  non  è  da  forti  piangere  sulle  pas- 
sate sventure.  Vediamo  invece  di  far  meglio.  Ormai  è  nata  La  nuova 
dottrina;  essa  è  anzi  bene  e  profondamente  sviluppata,  e  dopo  il 
primo  periodo  di  studi,  dopo  il  -primo  cozzo  tra  tendenze  diverse, 
tutte  unilaterali  e  individualistiche,  oggi  finalmente  si  prospetta  ab- 
bastanza chiaramente  il  nuovo  orizzonte  dell'Edilizia  Cittadina. 

Tra  queste  tendenze  individualiste  la  scuola  che  più  si  era  af- 
fermata, quella  che  unica  forse  aveva  raggiunto  vera  armonia  di 


NUOVI   ORIZZONTI   NELL'EDILIZIA   CITTADINA  61 

organicità,  era  quella  di  Camillo  Sifete:  scuola  eminentemente  ro- 
mantica, che,  schierandosi  risoluta  contro  il  sistema  atrocemente 
americano  della  scacchiera,  vuole  ripiegare  le  strade  ora  larghe,  ora 
strette,  tutte  dissimili  tra  loro,  in  dolci  curve;  sboccarle,  con  gu- 
stose risoluzioni  di  angoli,  in  piazze  tutte  asimmetria,  tormentate  nel 
loro  contomo  da  mille  sporgenze  e  rientranze  fortuite,  OArvero  in 
piazzette  remote,  accessibili  attraverso  scale  rustiche,  e  circondate 
da  balaustrate  o  da  muretti,  sotto  l'ombra  dei  verdi  platani  :  piaz- 
zette dove  sorge,  padrona,  la  Cattedrale  o  il  Palazzetto  Comunale. 

Il  Sitte  ha  profondamente  studiato  l'ambiente  medioevale  ita- 
liano, ha  rilevato  innumerevoli  raggruppamenti  di  edifici  nei  centri 
delle  nostre  (piìi  care  e  più  belle  città,  mille  quadri  meravigliosi  di 
senso  pittoresco  e  suggestivo,  e  su  questi  modelli  ha  foggiato  le  sue 
teorie  di  tracciati  di  città.  La  scuola  ha  avuto  fortuna,  e  tanto  più 
in  quanto  combatteva,  ed  era  anzi  antagonistica  del  sistema  impe- 
rante del  rettifilo  e  della  scacchiera,  del  piano  regolatore  cioè  a  pura 
base  geometrica,  concepito  e  sviluppato  freddamente  a  tavolino;  si- 
stema venuto  a  noia  e  riprovato  allora,  come  ancora,  da  quanti  hanno 
senso  e  amore  d'arte. 

Applicazioni  di  questo  tipo  di  piano  regolatore  se  ne  sono  avute 
fuori,  nel  Nord  EJuropa  specialmente:  ma  la  teoria  divenne  mon- 
diale, e  fu  per  vari  anni  il  nuovo  credo  edilizio.  La  reazione  all'ari- 
dità del  periodo  precedente,  la  seduzione  dei  quadretti  fantastici  e 
pittoreschi,  non  fecero  vedere  l'errore  dell'assolutezza  di  questa  teo- 
ria. Errore  sostanzialmente  nella  sua  natura  individualistica.  Non 
si  può  concepire  un  piano  pittoresco  a  priori.  Siamo  nell'analogo 
caso  di  quei  pittori  che  vogliono  essere  ingenui;  l'ingenuità  non  può 
essere  imposta  :  è  un  sentimento  naturale  e  istintivo  che  trae  tutta 
la  sua  forza  dalla  sua  incoscienza:  quando  ci  accorgiamo  di  essere 
ingenui,  già  cominciamo  a  non  esserlo  più;  figuriamoci  poi  se  vo- 
gliamo imporcelo!  Così  il  senso  pittoresco  non  può  essere  prevoluto 
o  imposto,  'perchè  si  fonda  essenzialmente  proprio  sull'impreveduto, 
suirinaspettato,  sull'occasionale.  Le  silenziose  stradette,  i  bivi  sco- 
scesi di  Assisi,  il  succedersi  e  l'incrociarsi  di  archivolti  e  di  passaggi 
coperti  di  Perugia,  le  stradette  a  denti  di  Todi  come  potrebbero  es- 
sere prevedute  da  un  sol  uomo?  Una  strada  così  fatta,  creata  tutta 
di  nuovo  in  un  tem^po,  con  le  torrette  sugli  ajigoli  in  vista,  con  le 
insenature,  con  le  gobbe,  sarebbe  grottesca,  non  pittoresca,  più 
adatta  allo  svolgimento  di  una  film  ohe  non  a  servire  ad  arteria  di 
comunicazione  di  una  grande  città. 

Perchè  in  sostanza  il  piano  regolatore  ha  stile,  e  questo  stile  deve 
armonizzarsi  con  lo  stile  dell'architettura  ohe  lo  riveste, 

Questa  è  la  grande  conquista  moderna:  questo  è  il  vero  punto 
fondamentale  della  nuova  disciplina.  Non  concependosi  più.  un  piano 
regolatore  come  un  magro  scom'parto  geometrico  di  appezzamenti 
di  terreni,  ma  come  tutto  un  organismo  estetico  e  pratico  e  igienico, 
insieme,  è  chiaro  ohe  questo  piano  deve  armonizzarsi  con  le  case 
che  vi  si  costruiscono  sopra.  I  grandi  boulevards  alberati  di  Parigi, 
che  fanno  capo  all'Arco  di  Trionfo,  non  potrebbero  essere  meglio 
fiancheggiati  da  quei  grandi  edificò,  dal  largo  e  sontuoso  atteggia- 
mento neo-classico.  La  vasta,  simmetrica  e  squadrata  Piazza  della 
Concordia  non  sarebbe  così  bella,  se  non  avesse  quei  palazzoni  ari- 


'62  NUOVI  ORIZZONTI   NELL'EDILIZIA   CITTADINA 

stocratici,  a  colonne  corinzie,  serie,  allineate,  e  sormontate  dai  severi 
timpani  acuti.  Nel  fondo,  vedete  come  la  Madeleine  termina  mirabil- 
■nnente  questo  quadro  di  g^randezza  riposata! 

Oggi  noi  ci  avviamo  sempre  più  verso  un  periodo  di  architettura 
modesta:  modesta  di  intenzioni,  modesta  di  mezzi.  Parlo  natural- 
mente dell'architettura  di  tutti  i  giorni;  e  lasciatemi  qui  insistere  sui 
limiti  dentro  cui  intendo  svolgere  questa  teoria.  Intendo  cioè  parlare 
dell'Architettura  comune,  di  quella  che  soddisfa  ai  bisogni  continui 
della  popolazione:   intendo  parlare  insomma  del  pane  quotidiano. 

I  grandi  monumenti  e  i  grandi  palazzi,  che  dovranno  pure  tro- 
var posto  nelle  nostre  grandi  città,  costituiscono  altro  argomento. 
Troppo  grave  questo,  per  essere  trattato  contemporaneamente  e  con 
brevità,  qui  in  Roma  specialmente,  dove  il  terribile  passato  c'incute 
rispetto,  venerazione,  sgomento.  Per  i  grandi  palazzi  l'ambiente  com- 
porta complicazioni  maggiori. 

Parliamo  invece  di  quanto  dobbiamo  comiimemente  costruire  : 
alberghi,  ospedali,  scuole,  ma  sopratutto  case  e  villette.  La  pietra 
da  taglio  si  rende  sempre  più  rara  iper  la  esagerazione  del  suo  costo, 
per  la  lentezza  della  sua  lavorsizione.  Il  cemento  armato  è  pratico, 
i-  sollecito,  abbastanza  economico.  Le  case  e  le  villette  si  completano 
in  ipochi  mesi;  si  elimiina  la  eccessiva  e  inutile  decorazione.  Il  si- 
gnore, il  privato  che  commette  isolatamente  una  casa  fatta  un  poco 
a  suo  capriccio,  diviene  sempre  'pdù  raro:  sono  le  grandi  società  ohe 
■costruiscono,  le  cooperative,  gli  enti  pubblici  o  privati.  Necessaria- 
mente la  casa  va  diventando  un  oggetto  industriale,  ineluttabilmente 
l'Arte  dell'architettura  si  avvia  ad  industrializzarsi.  La  personalità 
dell'artista  gradatamente  va  scomparendo,  e  si  consolida,  si  concreta 
il  sistema,  il  metodo. 

Certo  non  siamo  ancora  arrivati  a  questo,  ma  siamo  sulla  via 
direttissima  che  a  questo  ci  conduce.  L'arte  dell'arohiteito  sognatore, 
che  ha  tutta  una  visione  intima  dissimile  da  quella  di  tutti  gli  altri, 
-cozza  terribilmente  contro  i  mezzi  organizzati,  contro  i  sistemi  ri- 
gidi, contro  i  bisogni  impellenti  di  tempo  e  di  spazio.  Per  far  bene, 
questo  architetto  sognatore  ha  bisogno  di  provare,  e  riprovare;  alle 
volte  di  correggere  il  già  fatto.  Altre  volte  una  nuova  idea,  balenata 
improvvisamente  alla  mente  ricercatrice  in  una  notte  insonne,  deve 
attendere  la  sua  imatu razione:  ma  i  giorni  passano  e  la  costruzione 
non  può  arrestarsi  per  un'idea  d'arte;  centinaia  di  operai  non  pos- 
sono sospendere  il  lavoro  per  attendere  la  trovata  dell'architetto. 

L'illustre  professore  Cesare  Laurenti,  autore,  msieme  con  il  Ru- 
polo,  della  nuova  Pescheria  sul  Canal  Grande  di  Venezia,  mi  rac- 
contava a  questo  proposito,  anni  fa,  che,  dovendo  dividere  la  fronte 
del  suo  fabbricato  in  cinque  archi  acuti,  ne  misurò  la  lunghezza  to- 
tale a  passi  e  non  a  metri;  e  dividendone  poi  il  numero  per  quello 
degli  archi,  è  risultata  una  disuguaglianza  tra  le  corde  dei  vari  archi, 
non  visibile,  ma  sensibile,  e  tale  da  attribuire  alla  costruzione  quel 
senso  di  cosa  fatta  a  mano,  ohe  tanto  bene  giova  a^li  edifici  antichi 
e  li  caratterizza.  Ma  un  simile  metodo  ogg-i,  applicato  alla  nostra 
prosa  architettonica,  sarebbe  assurdo. 

Le  casette  di  oggi,  costante  in  cemento  armato,  con  le  solette 
a  sbalzo  sottilissime,  se  vorranno  apparire  razionalmente  sincere,  e 
Tìon  mascherate  con  costuvni  d'altri  tempi,  non  potranno  nascondere 


NUOVI   ORIZZONTI   NELL'EDILIZIA   CITTADINA  63 

la  rigidità,  la  squadratura,  quel  non  so  che  di  t€so,  di  metallico,  che 
loro  viene  conferito  dalla  perfezione  meccanica  dei  mezzi  d'opera. 
Queste  casette,  per  rientrare  nel  nostro  tema,  non  possono  allinearsi 
in  una  stradetta  capricciosa,  dal  senso  e  dal  ritmo,  anzi  dal  non  ritma 
medievale.  Ecco  come  il  nuovo  piano  regolatore  dovrà  assumere  lo 
stile  delle  sue  case,  doATà  assumere  atteggiamenti  squadrati  ed  esatti. 


Prevedo  già  le  obiezioni,  i  dubbi.  Queste  case  allineate,  a  ripe- 
tizione, quasi  standardizzate  (non  spaventi  questa  parola  in  cose 
d'arte)  riusciranno  desolatamente  nonotone  e  uggiose.  Ebbene,  io 
non  lo  credo.  Credo  invece  che  una  città-giardino  così  concepita  po- 
trebbe riuscire  deliziosissima.  Io  credo  ohe,  mvece  di  perdersi  nel- 
l'adattare  le  vecchie  concezioni  e  visioni  personali  alle  nuove  neces- 
sità collettive,  non  solo  si  ritarda  il  perfezionéimento  di  questi  nuovi 
indirizzi,  ma,  cosa  ancora  peggiore,  si  creano  organismà  insani  e 
orribili.  Ve  ne  convincerete  subito  ricordando  le  planimetrie,  o  me- 
glio ancora  Le  prospettive  a  volo  d'uccello,  delle  tante  cittadine  di 
cooperative,  sorte  in  questi  tre  anni.  Voi  vedete  cento  \illini,  tutti 
con  la  immancabile  torretta,  sparsi  sui  vari  appezzamenti  di  terreno, 
e  disposti  verso  tutti  i  venti  'possibili  e  impossibili,  come  le  tombe 
nei  campi  santi,  quasf  fossero  stati  malamente  gettati  dall'alto  da 
una  mano  gigantesca,  e  rimasti  lì  nella  loro  posizione  di  caduta.  Ma 
sono,  è  vero,  tutti  di  stile  diverso,  ognuno  risponde,  è  vero,  al  gusto 
personale  del  proprietario  o  della  proprietaria,  o  ricorda  a  chi  l'ha 
commesso  un  c-astello  turrito,  anumirato  di  sfuggita  in  viaggio  di 
nozze. 

Volete  esempi  visibili  ad  occhio  nudo?  Quartiere  Caprera,  Mon- 
teverde,  quartiere  Appio,  e  basta  per  carità!^ 

Siamo  sinceri  :  non  è  preferibile  a  questo  caos  ignobile,  a  questo 
avanzo  miserabile  di  ipret^  d'arte,  di  pretesa  personalità,  una  com- 
postezza obbiettiva  ma  ritmica,  un'armonia  sobria,  sinceramente 
modesta,  adatta  alla  vita  d'oggi  ? 

In  contrasto  con  quelle  bieche  visioni,  ora  ricordate,  vorrei  lu- 
meggiai-vi,  così  com'io  la  vedo,  la  rmova  città-giardino:  casette 
chiare,  linde,  nude  di  ornati,  ma  ricche  di  loggette,  di  terrazze,  di 
t>ergolati.  Ne  vedo  due,  una  per  parte,  perfettamente  simmetriche, 
allimbocco  di  una  breve  e  stretta  via,  costruite  sul  suo  limite  stesso  : 
sono  la  porta  della  via.  Dopo,  poco  distanti,  da  una  .parte  e  dall'altra, 
arretrate  alquanto  dal  ciglio,  tre  o  cinque  casette  attaccate  (non 
venti  o  trenta),  uguali,  ma  ^mplicemente individuate  tra  loro  da  una 
linea,  da  una  doccia,  dalla  lóro  stessa  logica  figura.  In  fondo,  visuale 
della  via  che  si  biforca,  un  palazzetto  piìi  importante,  che  sovrasta 
su  gli  altri  e  che  esteticamente  domina  lil  quadro. 

Un  filo  di  ferro  o  una  siepe  di  mortella  le  separa  dal  pubblico, 
e  non  quelle  orribili,  pesanti,  altissime,  mastodontiche  cancellate 
dei  nostri  quartieri  di  villini  (dei  Prati  di  Castello,  per  esempio),  che 
sembrano  voler  difendere  i  passanti  dagli  assalti  di  belve  feroci.  E 
ovunque,  fiori,  arbusti  e  fontanelle  canore. 


G4  NUOVI   ORIZZONTI   NELL'EDILIZIA  CITTADINA 


* 
*  • 


Come  vedete  dunque,  su  questo  nuovo  orizzonte  edilizio  l'archi- 
tettura vera  e  propria  cessa  di  avere  un'importanza  assoluta,  per  sé 
stessa,  mia  rientra  nella  estetica  cittadina.  In  altri  termini,  Vuìiità 
di  composiùone  non  è  piìi  il  villino  o  la  casa,  ma  la  strada,  e  la  casa 
e  il  villino  passano  alla  loro  volta  al  rango  di  subunità,  di  .frazione 
di  unità. 

Voi  vedete  la  logica  serrata  di  questo  fenomeno.  L'uomo  d'oggi 
non  ha  ipiù  —  dentro  certi  limiti  —  valore  personale.  Un  uomo  oggi, 
anche  di  grande  ingegno,  è  un  pezzo  di  un  partito  ipolitico,  qua- 
lunque sia  questo  partito,  un  frammento  di  una  associazione:  e  ciò 
è  vero  anche  se  questa  sua  essenza  di  sottomultiplo  rimanga  soltanto 
platonica  e  astratta.  L'uomo  isolato,  il  libero  pensatore  è  scomparso, 
0  per  lo  meno  non  interessa  pili,  perohè,  com'è  costituita  la  società, 
non  può  più  giovare.  É  la  collettività,  è  l'organismo  che  avanza,  che 
vince,  che  domina.  La  grande  guerra  ha  dimostrato  la  verità  di 
questa  affermazione  anche  nel  campo  militare. 

L'architettura,  che  specchia  più  di  ogni  altra  arte  la  flsonomia 
della  società,  deve  forzatamente  adattarsi,  ipiaccia  o  no,  a  questa 
nuova  condizione  di  vita.  Ed  io  penso  che  noi  non  dobbiamo  ostaco- 
larla in  questo  cammino,  che  l'uccideremmo  per  semipre,  e  di  essa 
si  impadronirebbe  l'industria  non  artistica,  l'industria  puramente 
speculatrice. 

Persuasi  di  questi  fatti,  cerchiamo  di  svolgere  con  buon  gusto  — 
oh,  è  sufficente  il  buon  gusto!  —  questi  nuovi  temi,  e  sopratutto  cer- 
chiamo di  costruire  bene,  con  proprietà,  con  esattezza. 


• 
•  • 


Questa  nuova  concezione  della  via  ci  porta  conseguentemente  a 
tutta  una  nuova  ricerca  di  ispirazioni  d'arte.  Finora  il  nostro  inte- 
resse in  una  Città  artistica  era  completamente  assorbito  dall'ammi- 
razione e  dall'esame  dei  grandi  monumenti  del  passato.  A  Firenze 
l'allievo  d'architettura  ha  studiato  e  svolto  il  rilievo  del  Campanile 
di  Giotto,  del  Palazzo  Medici  o  della  Loggia  dell'Orcagna;  a  Venezia 
la  Biblioteca  del  Sansovino  e  a  Vicenza  la  Basilica  Palladiana.  La 
grande  architettura  aulica,  dunque,  le  alte  vette  dell'arte.  Bld  è  chiaro 
che  quando  questo  stesso  studente  ha  dovuto  poi  risolversi  alla  com- 
iposizione  di  un  suo  progetto,  non  poteva  non  ricorrere  a  questi  su- 
blimi ricordi,  abbassandoli  e  avvilendoli  nella  meschinità  del  suo 
fproblem uccio  borghese.  Noi  tutti,  diciamo  la  verità,  fino  ad  oggi  ab- 
biamo tenuto  questo  metodo  di  studio,  e  questo  stesso  metodo  nella 
visita  delle  nostre  belle  cento  città. 

Mi  accuso  per  primo.  Quando,  giovanissimo,  iniziai  la  serie  dei 
concorsa,  nell'inseguire  l'ispirazione  e  nel  cercare  il  carattere  di  una 
città,  mi  attardavo  unicamente  sui  monumenti  riconosciuti;  ed  è  con 
questo  intendimento  che  asserivo  non  essere  Napoli,  per  esempio, 
una  città  architettonicamente  interessante,  perchè  povera  di  monu- 
menti insigni. 


NUOVI   ORIZZONTI   NELL'EDILIZIA   CITTADINA  65 

Più  che  in  questi  invece,  più  che  nelle  grandi  e  solenni  mani- 
festazioni d'arte  (che  hanno  anzi  alle  volte  un  minore  contenuto 
etnico,  perchè  rispondenti  a  concezioni  di  grandezza  astratta  e  più 
universali  o  a  voli  personali  dei  grandi  geni),  io  penso  dobbiamo 
oggi  cercare  la  fonte  di  studio  nella  totalità  fisionomica  della  città, 
nelle  innumeri  costruzioni  allineate  nelle  vie  ohe  fino  ad  oggi  ci  sono 
sembrate  grigie,  in  una  parola  neWArcfyitettura  minore.  Questa,  che 
poco  innanzi  ho  chiamato  la  prosa  architettonica,  deve  costituire 
il  vero  quotidiano  nostro  mteressamento.  Così  e  solo  così  noi  dal 
passato  potremmo  imparare  non  soltanto  le  forme  già  perfette,  non 
soltanto  i  |)articolari  decorativi  già  maturi  e  indissolubili,  ma  il  senso 
delle  città  e  degli  ambienti,  vorrei  dire  il  loro  temperamento,  la  loro 
atmosfera  estetica.  E  non  altro. 

Percorrendo,  per  esempio,  le  vie  di  Firenze,  quelle  meravigliose 
vie  strette,  via  de'  Servi,  via  Ricasoli,  via  San  Gallo,  ci  sorprende 
in  quelle  fughe  di  palazzetti,  il  succedersi  a  grandi  salti  di  tutti  quei 
lettoni  sporgenti,  a  proteggere  le  belle  facciate  austere  e  sobrie. 
Quando  un  signore  fiorentino  commetteva  a  un  maestro-muratore 
(così  erano  chiamati  allora,  gli  architetti)  un  palazzo  modesto,  non 
gli  suggeriva  fasti  e  ricchezze,  ma  gli  ordinava  di  costruirgli  cinque 
belle  e  grandi  camere,  larghe  tanto  e  alte  tanto.  E  il  maestro-mura- 
tore costruiva  cinque  belle  camere  larghe  tanto  e  alte  tanto.  Solo 
attorno  alle  finestre,  per  renderne  forti  gli  spigoli,  adattava  con 
molta  semplicità  uno  stipite  di  vera  pietra,  o  a  fascia  o  a  bugna.  E 
null'altro.  Così  nasceva  e  cresceva  la  più  bella  architettura  del  mondo. 

Ed  a  Firenze  è  sempre  stato  talmente  insito  nell'anima  estetica 
del  popolo  questo  concetto  di  impersonalità,  che  anche  nelle  vicende 
dei  vari  stili,  attraverso  i  secoli  gloriosi  dell'arte  italiana,  cinche 
nelle  epoche  di  maggiore  audacia  e  fantasia,  anche  nel  600,  permane 
quel  senso  sobrio  e  austero  della  pura  necessità  oggettiva. 

E  da  Firenze  tornando  a  Napoli  (vedete  la  mia  espiazione  per 
l'antica  indifferenza!)  voi  troverete  come  tutto  il  sapore  di  quella 
architettura  sia  non  negli  ornati  e  negli  scomparti,  ma  in  quel  senso 
vago  di  grandezza  e  di  trascuratezza,  in  quei  balconi  sporgenti,  spec- 
chio chiaro  della  vita  partenopea,  tutta  estema;  in  quei  cornicioni 
bassissimi,  schiacciati,  di  nessuna  importanza,  per  non  ombrare  il 
colorito  vario  e  vivace  delle  facciate,  rosse  e  asizurre,  che  cantano 
sotto  il  bacio  del  sole,  riflessi  spontanei  dell'altera  anima  popolare. 

Queste  strade  di  Firenze  e  di  Napoli,  che  vi  ho  citato,  come  avete 
veduto,  sono,  nella  loro  completa  modestia,  di  carattere  collettivo: 
le  costruzioni  sono  di  carattere  assolutamente  impersonale,  anonimo. 
All'infuori  dei  grandi  monumenti,  le  costruzioni  rispondevano  a  un 
metodo  costruttivo,  non  a  un  sogno  astratto  di  un  artista. 

L'esempio  delle  città  pagane  è  sotto  questo  punto  dà  vista  an- 
cora più  significativo.  Nell'antica  Roma  imperiale,  la  separazione 
tra  la  zona  pubblica,  stipata  di  templi  e  di  basiliche,  e  la  zona  delle 
abitazioni  è  netta,  assoluta,  determinata  addirittura,  sotto  Augusto, 
da  una  grande  muraglia.  In  quella,  lo  sfarzo  dei  monoliti  più  son- 
tuosi e  rari,  la  ricerca  più  raffinata  d'arte,  l'apoteosi  della  universa- 
lità cesarea,  in  espressioni  architettoniche  rimaste  ancora  le  più 
grandiose  e  solenni.  Nell'altra  —  per  quel  poco  che  si  sa  —  la  mera 
necessità,  l'appagamento  puro  e  semplice  delle  esigenze,  l'industria 

5  Voi.   CCXVn.   seri*  VI   —  1*   marzo  1922. 


66  NUOVI   ORIZZONTI   NELL'EDILIZIA   CITTADINA 

architettonica  insomma.  Le  pitture  al  Palatino  riguardanti  l'Esquilino 
e  gli  ultimi  scavi  di  Ostia,  c^n  le  case  a  molti  piani  e  i  balconi  esterni 
ricorrenti  intorno  ai  muri  periferici,  sfrondati  dalle  poesie,  ci  dicono 
proprio  questo.  Se  Arte,  nel  senso  decorativo  e  monumentale,  si  tro- 
vava ancora  nelle  ville  private  dei  consoli  e  dei  senatori,  sparse  nei 
più  incantevoli  luoghi  di  delizia  e  di  riposo,  da  Tivoli  a  Baia,  dal 
Tuscolo  ad  Anzio,  non  esisteva  nelle  abitazioni  di  Roma,  densa  di 
ben  due  milioni  di  abitanti. 

Analogamente  nel  medioevo  e  nella  rinascenza  accanto  al  ca- 
stello o  al  palazzo  del  principe,  infinite  casette  anonime,  costruite 
nell'uso  e  nelle  abitudini  del  tempo,  costituivano  la  grande  massa 
delle  oittà  e  dei  borghi.  Questa  assenza,  di  pretesa  nell'architettura 
corrente  di  tutte  le  epoche  passate,  fa  risaltare  per  contrasto  la  bel- 
lezza dei  monumenti,  ed  è  la  più  grande  ragione  del  loro  fascino. 

Nel  secolo  scorso,  l'avvento  della  borghesia,  con  le  facili  e  sol- 
lecite ricchezze,  con  la  conquista  immediata  di  ogni  potere  da  parte 
di  tutti,  ha  soppresso  tutta  questa  armonia  di  rapporti,  ha  cancel- 
lato questa  subordinazione  logica  e  sottile  della  vita  quotidiana  alle 
grandi  cose,  ed  ha  creato  il  regno  della  volgarità  tronfia  e  vuota  dei 
grandi  quartieri  moderni. 

Ancora  nel  settecento  l'esterno  dei  palazzi,  anche  i  più  signorili, 
era  semplicissimo,  tale  da  non  fare  indovinare  il  lusso  e  il  buMi 
gusto  dell'interno.  Allora  la  vita  era  più  ritirata,  le  signore  non  usci- 
vano quasi  mai  di  casa  :  il  fastosissimo  conte  Archinti  —  narra  Carlo 
Porta  —  si  vantava  di  non  aver  mai  toccato  il  suolo  della  sua  Mi- 
lano. Nelle  nuove  città  invece  l'architettura,  così  detta,  è  tutta  e  uni- 
camente per  l'esterno.  Quei  cubi  giganteschi,  carichi  di  colonne,  di 
balaustrate,  di  timpani  e  di  trofei  che  fanno  pensare  chi  sa  a  quali 
auree  destinazioni,  si  suddividono  internamente  in  mille  scatolette 
decorate  a  stampiglia,  'per  accogliere  la  modestia  di  cento  famigliole 
borghesi.  Così  tutto  il  rettifilo  di  Napoli,  quasi  tutta  via  Nazionale 
e  via  Cavour  a  Roma,  tutta  via  Dante  a  Milano.  Culmina  lo  stridore 
in  Genova,  proprio  in  quella  città  dove  nelle  epoche  passate  erano 
state  elevate  le  facciate  più  nude  e  più  austere  che  la  storia  architet- 
tonica ricordi. 

Oggi  questo  stridore  va  cessando.  11  progressivo  miglioramento 
dell'uomo  —  che  i  periodi  di  bruschi  assestamenti  non  possono  of- 
fuscare —  e  la  sua  riconosciuta  eguaglianza  sociale  e  morale  var- 
ranno a  frenare  le  vanità  individuali  che  tanto  hanno  nociuto  all'ot- 
tocento, e  torneranno  a  separare  il  semplice  decoro  privato  dalle  fan- 
tasie alate  del  monumento  pubblico.  Tornerà  —  insieme  all'aumen- 
tato benessere  generale  —  l'amore  alla  casa,  in  quanto  ci  si  vive, 
non  in  quanto  si  vuol  mostrarla  agli  altri,  l'amore  intimo  delle 
cose  che  ci  circondano  quotidianamente,  e  che  si  vogliono  belle  e 
rette  da  un'armonia  semplice  e  calda.  Torna  infatti  a  vivere  —  e  ce 
ne  accorgiamo  ogni  giorno  più  —  l'arte  industriale,  assopita  da  più 
di  cento  anni,  ohe  sostituisce  e  risparmia  la  vuota  ricciiezza  delle 
facciate,  a  reazione  dell'esibizioniamo  di  quest'ultima  età,  nella  quale 
ognuno  ha  voluto  fare  secondo  il  suo  capriccio,  nella  quale  ogni  ar- 
chitetto ha  voluto  mettersi  in  vista,  ha  voluto  esser  lui,  e  lui  solo, 
e  non  sentirsi  un  semplice  contribuente  alla  formazione  estetica  della 
strada. 


NUOVI   ORIZZONTI   NELLEDILIZL^   CITTADINA  67 


La  t€si  può  sembrare  azzardata,  ma  se  riuscirò  a  farmi  com- 
prendere, vi  accorgerete  che  non  lo  è.  Occon*e  ben  precisare  la  -por- 
tata di  questa  impersonalità.  Io  nego  la  personalità  nel  senso  di  as- 
soluta indipendenza  individuale  dall'assieme  di  un  ambienta,  nel 
senso  di  caccia  all'originalità.  Gli  antichi  di  ogni  tempo  —  Dio  buono, 
occorre  pur  sempre  citarli!  —  la  pensavano  così.  Per  essi,  come  ab- 
biamo visto,  la  personaJità  consisteva  nella  ricerca  della  perfezione, 
nel  distinguersi  dagli  altri  per  il  riflesso  del  loro  intimo  carattere. 
Sfumature  di  differenziazione,  che  portavano  l'cirte  alla  più  divina 
raflBnatezza.  Non  si  preoccupavano  di  apparire  nuovi  ad  ogni  costo. 

Nella  Rinasc-enza  esistevano  le  scuole  pittoriche  senese,  fioren- 
tina, ferrarese,  romana,  ecc.  La  differenza  tra  i  vari  artisti  di  una 
scuola,  era  nella  potenza,  nel  carattere,  non  nella  maniera,  non  nello 
stile,  nel  senso  generale. 

In  architettura  tale  obiettività,  tale  senso  di  scuola,  di  metodo, 
è  stato  rigoroso  in  tutte  le  più  belle  epoche.  I  Greci  e  i  Romani  co- 
struivano i  templi  tutti  egualmente,  una  volta  trovata  la  forma  ideale; 
ed  eguali  tra  loro  erano  le  basiliche,  le  terme,  gli  anfiteatri.  Diversità 
di  grandezza,  di  raflBnatezza,  di  -perfezione;  mai  di  stile.  È  questa 
anzi,  io  credo,  la  vera  superiorità  delle  grandi  epoche  d'arte  :  questa 
compatteziza,  questa  unità  di  veduta  e  di  indirizzo,  che  accomuna 
tutte  le  arti  e  gli  artisti  tra  loro  e  consente  il  raggiungimento  della 
perfezione.  Nel  senso  come  s'intende  volgarmente,  la  personalità 
non  è  libertà,  è  licenza. 


È  insomma  maturo  oramai  —  contemporaneamente  a  tante  altre 
restrizioni  individuali  per  il  bene  universale  —  il  problema  della 
subordinazione  dei  diritti  privati  alla  volontà  della  collettività  nello 
svolgimento  della  edilizia.  Mi  direte:  restrizione  dunque  di  libertà 
artistica?  Imposizione  di  una  estetica  ufficiale?  Ebbene,  estetica  uf- 
ficiale no,  ma  restrizione  di  libertà  artistica  sì. 

Spieghiamoci  bene.  Per  restrizione  di  libertà  artistica  io  in- 
tendo, non  già  la  protezione  per  una  data  tendenza  d'arte,  con  con- 
seguente disapprovazione  iper  tutte  le  altre,  e  tanto  meno  quindi  la 
imiposizione  di  un  dato  stile  esclusivista;  ma  intendo  il  diritto  della 
popolazione  di  impedire  che  la  incompetenza  o  l'eccessivo  interesse  di 
pochi,  salvaguardati  dai  diritti  di  proprietà,  possano  conapromettere, 
guastare  e  anche  snaturare  la  bellezza  ed  il  carattere  della  città.  Li- 
mitazione della  proprietà  dunque?  Precisamente:  e  nessuna  legge 
io  credo  possa  esservi  più  giusta,  più  santa  di  questa.  Il  senso  del- 
l'arte che  dovrebbe  essere  posseduto  da  ogni  cittadino,  regolatore  di 
ogni  atto  della  sua  vita,  di  ogni  movimento,  questo  senso,  fino  ad  oggi 
trascurato  dai  più,  potrebbe  rendere  incommensurabili  benefici  sc- 
oiali; solo  comprendendo  ed  amando  il  bello,  si  acquista  il  senso  del 
rispetto  verso  sé  stesso,  verso  gli  individui  e  verso. le  cose. 

Ma  come  coltivare  questa  educazione,  se  non  predisponendo 
l'ambiente?  Come  sviluppare  questo  senso  estetico  nel  cittadino  se 
non  creandogli  intomo,  nelle  strade,  nelle  piazzse,  nei  giardini,  tutta 


68  NUOVI   ORIZZONTI   NELL'EDILIZIA   CITTADINA 

un'atmosfera  di  armonàa  e  di  bellezza?  E  come  ottener©  questo  ritmo 
d'arte,  se  non  si  respingono  i  profanatori,  con  adeguate  leggi? 

Vi  sono  proprietari  privati  che  per  dare  risalto  al  proprio  com- 
mercio, o  per  ostentare  una  loro  originalità  artistica,  violano  ogni 
più  elementare  rispetto  all'ambiente  e  al  decoro  e  costruiscono,  sol 
■perchè  son  proprietari  di  quelle  aree,  brutture  architettoniche,  im- 
ponendo perpetuamente  alla  cittadinanza  il  disgustoso  quadro  dovuto 
alla  loro  volgarità. 

È  questo  foi-se  usare  del  diritto  di  (proprietà?  0  non  è  piuttosto 
un  infrangere  e  calpestare  violentemente  il  diritto  pubblico  della  bel- 
lezza della  propria  città?  Il  proprietario  non  può  esercitare  il  «  dì- 
ritto  »  di  ostentare  la  sua  ricchezza  ed  il  suo  cattivo  gusto,  ma  ha  il 
dovere  di  non  turbare  la  vista  ai  cittadini,  e  di  contribuire  anzi,  con 
la  sua  casa,  all'armonia  generale  della  città.  Risparmio  a  questo  ri- 
guardo gli  esempi  :  quanti  e  quanti  erbori  si  sarebbero  evitati,  se  la 
sana  legge  fosse  venuta  in  tempo! 

Il  Monneret  de  Villard  nel  suo  interessantissimo  studio  su  l'arte 
di  costruire  le  città,  osserva  «  che  occorre  lasciare  la  massima  libertà 
al  progettista  di  studiare  liberamente  il  suo  disegno,  esaminando  però 
caso  per  caso,  se  il  progetto  sia  consono  all'insieme  architettonico 
in  cui  deve  sorgere.  Bisogna  ben  convincersi,  egli  soggiunge,  che 
la  bellezza  di  una  città  non  dipende  dai  (pochi  palazzi  che  in  essa 
sono  sparsi,  ma  forse  ipiù  dall'assieme,  a  cui  concorre  anche  la  più 
piccola  fra  le  costruzioni  ». 

Infatti  perchè  si  deve  considerare  la  bellezza  di  un  edifìcio  so- 
lamente presa  per  sé  stessa?  Il  valore  intrinseco  di  un'opera  archi- 
tettonica è  puramente  accademico:  potrà  interessare  il  competente, 
ma  non  il  pubblico  ignaro.  Perchè  mai  deve  il  passeggero,  soffer- 
matosi a  riguardare  un  particolare  architettonico,  limitare  il  proprio 
quadro  di  osservazione  ad  un  solo  ed  unico  edifìcio,  giudicandone 
le  virtù  senza  affatto  preoccuparsi  degli  edifìci  vicini?  Non  è  questa 
una  pura  astrazione  scolastica?  Se  in  una  stessa  facciata  trovaste  ac- 
canto due  finestre  affatto  dissimili,  una  tutta  a  bugne  rustiche  e  po- 
tenti, l'altra  quattrocentescamente  gentile  e  delicata,  gridereste  su- 
bito all'orrore,  allo  sconcio!  Perchè  non  dite  lo  stesso  di  due  case 
vicine  che  tra  loro  orribilmente  si  contraddicono?  Come  due  finestre 
concorrono  all'armonia  di  una  facciata,  due  facciate  concorrono  al- 
l'armonia di  una  strada,  e  le  strade  tutte  e  le  piazze  all'armonia 
unica  della  cittìi. 

Dovremo  dunque,  mi  si  dirà,  disegnare  tutte  le  case  ug\mli  e 
dello  stesso  stile?  Uguali  no,  ma  la  varietà  non  dovrebbe  < 
nella  arlecohinesca  varietà  degli  stili  storici,  in  questo  ineffa 
cedersi  di  enfasi  borrominesohe  e  di  parodie  medievali!  La  varietà 
dovrebbe  consistere  nelle  movenze  delle  masse,  nel  vivace  disegnarsi 
delle  linee  terminali,  nell'alternarsi  di  portici,  di  loggie,  di  balconi, 
di  giardini,  nel  mettere  in  vista  o  monumenti  antichi  o  edifìci 
blici  e  con  essi  accordarsi.  E  sieno  pure  questi  edifìci  dello  ^' 
stile!  Dello  stile  d'oggi  e  nostro,  sano  e  poderoso,  che  non  sarà  mo- 
notono, se  ad  applicarlo  saran  sempre  chiamati  artisti  che  sappiano 
irmprimere  le  loro  proprie  peculiarità. 

E  le  nostre  piazze?  .Mtro  non  sono,  con  quei  grandi  edifici  che 
fanno  a  gara  per  apparire  niù  ricchi  e  più  carichi  di  decorazioni,  che 


NUOVI   ORIZZONTI   NELLEDILIZU   CITTADINA  69 

appezzamenti  di  terreno  su  cui  si  è  rinunciato  a  costruire,  anziché 
essere  uno  spazio  raccolto  e  adatto  alla  sosta  ed  al  riposo.  Osservate 
un  umile  esempio:  Piazza  Farnese.  Vedete  come  le  case  tutte  in- 
tomo e  le  decorazioni  delle  fontane  sono  subordinate  al  gran  palazzo, 
per  accrescerne  l'imponenza  e  il  prestigio!  Guardate  invece  piazza 
Cavour...  e  poi  ditemi  se  ho  ragione! 

Eicco  come,  senza  volerlo,  siamo  entrati  nell'argomento  principe 
della  Edilizia  Cittadina:  neìVambientisnìo.  Eicco  come,  per  concate- 
namento e  deduzione  di  idee,  dalla  concezione  nuova  della  via  intesa 
come  unità  e  non  come  somma  di  unità,  siamo  arrivati  logicamente 
alla  visione  chiara  e  alla  determinazione  dell'ambientismo. 

Per  ambientismo  oggi  dunque  dobbiamo  intendere  non  la  ripro- 
duzione o  la  continuazione  delle  forme  e  dei  motivi  architettonici, 
ma  quel  senso  generale  di  armonizzare  le  masse,  gli  aggetti,  i  colori, 
che  vediamo  riflessi  nella  totalità  fisionomica  della  città. 

L'ambientismo  concepito  diversamente  da  così,  concepito  cioè 
come  adattamento  nelle  piccole  nuove  costruzioni  dei  grandi  motivi 
dei  monumenti  più  noti,  porta  alla  parodia  degli  stili  passati,  lo  af- 
fermo che  chi  disegna  una  modesta  casa  di  oggi  in  stile,  dimostra 
di  non  comprendere,  di  non  sentire  la  grandezza  di  questo  stile.  Chi 
ha  profondamente  studiato  Fantico,  e  lo  ammira,  se  ne  tiene  lontano, 
in  devota  venerazione;  e  solo  ci  si  avvicina,  con  religiosa  cautela, 
quando  la  grandezza  dell'argomento  l'esige  e  lo  vuole.  Così,  e  così 
soltanto,  potremo  fare  arte  sana,  e  legata  non  vanamente  alla  tradi- 
zione. 

•  * 

Ma  non  soltanto  a  questa  teoria  di  subordinazione  estetica  della 
casa  alla  via,  e  conseguentemente  all'ambientismo,  dobbiamo  oggi  li- 
mitare i  nuovi  studi  della  Edilizia  generale.  V'è  ancora  tutta  una  tra- 
sformazione radicale  —  vorrei  dire  una  rivoluzione  —  da  compiere 
nel  campo  vero  e  proprio  del  piano  regolatore,  inteso  come  divisione 
generale  e  come  retificazione  di  vie. 

Ancora  gli  ultimissimi  piani  regolatori  sono  informati  sul  cri- 
terio della  separazione  completa  dei  quartieri.  E  questo  rimane  ragio- 
nevole, quando  si  pensi  alla  localizzazione  del  quartiere  degli  studi, 
del  quartiere  industriale,  del  quartiere  dello  sport;  in  una  parola 
di  tutti  quei  quartieri  che  debbono  avere  una  configurazione  intema 
affatto  singolare,  e  che  hanno  anche  una  destinazione  e  un  uflBcio 
del  tutto  speciale  ed  autonomo.  Ma  dove  occorre  fare  diversamente 
è  nelle  zone  destinate  all'abitazione;  che  costituiscono  poi,  specie 
nelle  città  di  non  grande  importanza  industriale,  la  quasi  totalità 
della  superfìcie. 

Per  questi  quartieri  di  abitazione  si  è  ultimamente  adottato  il 
metodo  di  dividere  le  zone  destinate  a  fabbricazione  intensiva,  cioè 
alle  case,  da  quelle  destinate  ai  villini  e  finalmente  da  quelle  desti- 
nate alle  grandi  ville.  Questo  è  stato  fatto  per  avere  una  maggiore 
uniformità  nelle  costruzioni  di  un  dato  raggruppamento  e  per  im- 
pedire lo  sconcio  estetico  di  un  grandioso  villino  collocato  vicino  ad 
un  grande  casone  a  sette  piani,  tronco  magari  alla  estremità  con  un 
muro  cieco  di  confine  :  abbiamo  vari  casi  (a  Villa  Ludovisi,  per  esem- 
pio) di  questa  promiscuità  di  case  e  di  villini,  e  l'effetto  ne  è  vera- 


70  NUOVI   ORIZZONTI   NELL'EDILIZIA   CITTADINA 

mente  così  stridente,  di  un  disordine  che  sembra  attendere  eterna- 
mente assetto,  da  giustificare  in  fondo  l'adozione  della  divisione  dei 
quartieri.  Ma  anche  volendo  ac-cettare  questo  principio,  vediamo  che 
non  lo  si  è  mai  bene  applicato.  Le  strade  sono  state  sempre  tracciate 
dello  stesso  carattere  e  della  stessa  larghezza,  indipendentemente 
dalla  destinazione  :  mentre  che,  se  per  le  zone  a  case  sono  ammissi- 
bili le  strade  rette  perchè  più  popolate,  e  larg^he  perchè  le  costruzioni 
si  elevano  a  forti  altezze  sul  confine  stesso;  per  le  zone  a  villini  in- 
vece, poco  popolose  e  con  costruzioni  basse  e  distanti  dal  confine,  le 
strade  possono  essere  strette,  e  con  andamento  curvo  o  spezzato.  Nei 
sempre  citati  Prati  di  Castello  invece  e  nella  contigua  (prima  parte 
di  Piazza  d'Armi,  le  vie  destinate  a  villini  hanno  una  superficie  glo- 
bale eguale  alla  superficie  privata,  e  quando  si  rifletta  che  la  super- 
ficie copribile  è  il  quarto  della  privata,  ne  risulta  che  la  superfìcie 
utile  è  solamente  la  ottava  parte  dell'intera  zona.  E  si  pensi  che  trac- 
ciare strade  inutilmente  larghe  significa  sperpero  di  area  non  ven- 
duta, sperpero  di  denaro  nella  costruzione  della  strada,  nella  manu- 
tenzione, nella  illuminazione,  nella  sorveglianza;  significa  estetica- 
mente e  praticamente  creare  zone  infinite,  assolate  e  deserte,  noiose 
e  incomode  quanto  brutte. 

Ma  anche  se  ben  tracciati,  questi  quartieri  staccati  e  isolati  tra 
di  loro,  presentano  seri  e  gravi  inconvenienti.  Primo  di  tutti  è  l'as- 
soluto isolamjsnto  dei  quartieri  a  villini  da  ogni  comodità  e  necessità 
della  vita.  Dal  quartiere  di  villini  di  Villa  Patrizi,  per  esempio,  o 
dal  citeto  di  Piazza  d'Armi,  occorre  fare  non  meno  di  un  chiolometro 
per  raggiungere  il  mercato,  per  trovare  una  farmacia  o  per  poter 
spedire  un  telegramma;  chi  abita  colà  conosce  il  peso  di  certe  ser- 
vitù. Tralascio  di  citare  altri  inconvenienti  di  sicurezza  e  di  decenza, 
dovuti  all'assoluto  isolamento  notturno. 

Dal  lato  igienico  l'agglomeramento  di  abitanti  da  una  parte  e 
la  rarità  dall'altra  non  è  logica  né  giusta.  Finalmente  sotto  l'aspetto 
estetico,  queste  unitormità  di  zone  o  tutte  a  case  (tutte  ugualmente 
alte  perchè  tutti  oggi  sfruttano  il  massimo  delle  concessioni  regola- 
mentari) o  tutte  a  villini,  riescono  oltremodo  uggiose  e  insignificanti. 
Miglior  metodo  sarebbe,  a  parer  mio,  fondere  razionalmente  le  due 
zone  e  formare  un'unica  zona  miste. 

Mi  spiego  subito  con  un  esempio.  Attualmente  il  gran  viale  No- 
menteno  è  fiancheggiato  a  sinistra  da  un  vasto  e  denso  quartiere  di 
case,  il  Salario;  a  destra  dal  nobile  quartiere  dei  villini,  detto  di  Villa 
Patrizi.  Qui,  oltre  agli  inconvenienti  già  accennati,  si  aggiunge  la 
bruttura  estetica  di  una  strada  cost^giate  da  una  parte  da  casoni 
e  dall'altra  da  villini.  Ebbene,  io  avrei  concepàto  l'intero  quartiere' 
Nomenteno  e  Salario  così  :  il  grande  viale  Nomenteno  largo  e  retti- 
lineo per  il  traffico  continuo  dei  trams  e  dei  veicoli,  fiancheggiato 
di  qua  e  di  là  da  case,  destinate  a  uflBci,  a  ritrovi,  ai  servizi  pubblici, 
fomite  di  ampi  negozi  a  provviste  di  tutto  quanto  occorre  alla  vite 
cittadina.  Da  queste  grande  arteria  se  ne  dovrebbero  staccare  altre 
ortogonali,  come  il  viale  della  Regina  per  esempio,  ancora  a  case  e 
sempre  larghe  per  le  medesime  ragioni.  Tra  queste  grandi  vie  .di 
comunicazione,  e  al  di  là,  strade  strette,  ritorte,  silenziose  e  tran- 
quille, alberate,  destinate  alle  abitazioni  private,  distribuite  varia- 
mente in  palazzine,  in  casette  a  schiera,  in  villini,  con  armonici  f^ 
organici  raggruppamenti. 


% 


NUOVI  oRizzosn  nell'edilizu  cittadina  71 

In  tal  modo  ogni  strada  sarebbe  esteticamente  e  praticamente 
proporzionata  al  suo  ufficio,  si  allontanerebbero  tutti  gli  inconve- 
nienti citati,  e  l'assieme  del  quartiere  assumerebbe  una  gradevole 
e  completa  armonia. 

* 
•  • 

Né  a  questi  altri  problemi  soltanto  si  potrebbero  ancora  limitare 
e  studi  e  ricerche  nuove  nel  vastissimo  complesso  campo  dell'edilizia. 

Altro  argomento  principale  è  l'isolamento  dei  vecchi  centri  nelle 
città  artistiche  e  storiche,  e  il  conseguente  sviluppo  estemo,  non  solo 
della  espansione  della  costruzione,  ma  sopratutto  dello  spostamento 
del  centro  di  vita.  Studiarne  le  possibilità  e  i  limiti  nei  vari  casi  delle 
nostre  superbe  cittadine  di  provincia,  sarebbe  opera  interessante  e 
utile. 

Ancora  si  potrebbe  azzardare  —  oggi  che  cominciamo  a  veder 
chiaro  su  quanto  si  è  fatto  e  su  ccone  si  dovrel)be  fare  —  una  revi- 
sione delle  sistemazioni  edilizie  dei  centri  delle  grandi  città,  e  ri- 
parare, se  e  dove  possibile,  ai  grandi  errori  del  passato. 

Quale  maggiore  volgarità  della  Piazza  del  Duomo  di  Milano?  La 
mistica  e  severa  Cattedrale  è  offesa  da  quel  turbinìo  incessante, 
rosso  e  rumoroso,  dei  cento  tramwai  che  rotano  innanzi  ad  essa, 
intorno  al  monumento  del  gran  Re,  e  dalla  bocca  spalancata  della 
galleria,  brulicante  di  mondo  affaristico  e  teatrale,  che  sembra  veglia 
inghiottirla,  per  far  scomparire  quell'unica  pagina  grandiosa  di  alta 
e  suggestiva  poesia.  Forse  si  potrebbe  ricostituire  intomo  e  innanzi 
alla  bella  mole  un  ambiente  di  solitudine  e  di  umiltà,  lieto  e  adatto 
a  restaurarne  il  prestigio  e  la  grandezza.  Appoggiando  la  visione 
prospettica  verso  Sud,  alcune  nuove,  semplici  costruzioni  potrebbero 
isolare  il  monumento  dalla  galleria  e  dal  traffico  della  via  e  della 
piazza,  creando  in  un  quadro  unico  con  il  largo  avanti  al  Palazzo 
Reale  un  nuovo  spazio,  irregolare  come  gli  antichi,  ma  sempre  vasto, 
più  sproporzionato  alla  visione  e  alla  comprensione  della  grande 
opera  d'arte,  e  più  tranquillo  e  raccolto  per  poterla  sentire  e  vene- 
rare. Tema  difl^ile,  ne  convengo,  ma  non  del  tutto  insormontabile. 

Più  facile,  più  pratica,  sarebbe  forse  la  correzione  del  centro 
di  Firenze,  Intorno  alla  grande  piazza  rettangolare  Vittorio  Ema- 
nuele, i  nuovi  palazzi  speculativi  sono  generalmente,  è  bene  ricono- 
scerlo, sobri,  corretti,  e  sufiBcentemente  ambientati.  Disastroso  è  l'ar- 
cone  centrale  all'imbocco  di  via  Strozzi,  che  sovrasta  il  meraviglioso 
palazzo  di  Benedetto  da  Maiano  e  lo  costringe  volgarissimamente 
come  in  un  cortile  secondario. 

Labbattimento  dell'arcone,  e  il  riassetto  dei  due  bracci  laterali, 
prospicenti  sulla  piazza  sarebbe,  io  credo,  opera  sufficiente  per  ridare 
alla  via  storica  il  respiro,  e  al  palazzo  superbo  la  offesa  dignità. 

Si  dovrebbe  ancora  correggere  l'affogamento  del  teatro  S.  Carlo 
a  Napoli,  e  tanti  altri  attentati  alla  infinita  bellezza  d'Italia. 

Di  Roma  abbiamo  già  parlato.  Solo  bisogna  riconoscere  che  qui 
una  piazza  almeno,  e  la  più  importante,  è  stata  indovinata.  Il  4  no- 
vembre dello  scorso  anno,  quando  tutti  i  cittadini  e  tutta  l'anima 
della  nazione  era  in  Piazza  Venezia,  vedemmo  e  ci  persuademmo 
che  questa,  delimitata  da  quelle  superbe  e  magnifiche  moli  e  dal 


72  NUOVI   ORIZZONTI   NELL'EDILIZIA   CITTADINA 

marmoreo  anfiteatro  di  scalee  adagiate  sul  Campidoglio,  quando  al 
rombo  dei  cannoni  invisibili  sembrava  che  pure  il  cielo  partecipasse 
alla  austera  cerimonia,  e  quando,  nel  pomeriggio,  i  canti  e  l'entu- 
siasmo sembravano  inneggiare  alla  resurrezione  del  Milite  Ignoto,  in 
quell'ora  indimenticabile  di  commozione,  ci  persuademmo,  dico,  che 
questa  piazza  è  proprio  adatta  e  "proporzionata  alle  cerimonie  solenni 
del  nostro  grande  popolo. 

Ma  tanti  e  tanti  altri  argomenti  nuovi,  e  nuòvi  svolgimenti  e 
nuove  applicazioni  'potrei  ancora  enunciare.  Ma  occorre  ormai  fer 
marsi,  nella  speranza  di  essere  riusciti  a  fissare  almeno  nelle  sue  linee 
generali  la  concezione  sana  e  lucida  di  come  dobbiamo  intendere 
lo  svolgimento  e  la  trasformazione  delle  nostre  meravigliose  città; 
consaipevoli  che  quest'arte  dell'Urbanesimo  è  forse  il  più  difficile  e 
il  più  importante  ramo  dell'architettura,  in  quanto  assomma  in  sé 
tutti  i  problemi  singoli  dell'arte  del  fabbricare,  astratti  e  pratici,  e 
in  quanto  sopratutto  interessa  l'intero  sviluppo  della  nazione,  e  te- 
nendo finalmente  ben  presenti  alla  nostra  mente  queste  due  verità: 
la  prima,  ohe  un  edificio  brutto  in  una  bella  via  rappresenta  uno 
spiacevole  episodio,  mentre  che  una  via  mal  tagliata,  all'opposto, 
pur  se  fiancheggiata  da  belle  costruzioni,  può  distruggere  irrimedia- 
bilmente il  carattere  e  la  bellezza  di  tutta  una  città;  la  seconda,  ohe 
(sono  parole  di  Antonio  Fradeletto)  «  i  fantasmi  e  le  carezze  della 
bellezza  sono  l'unica  cosa  che  perduri,  mentre  tutto  il  resto  cade  e 
si  dissolve,  perchè  la  realtà  miuore  ad  ogni  ora  e  ciò  che  non  muore 
mai  è  l'immagine  sua  riflessa  nello  sipecchio  dell'arte». 

Marcello  Piacentini. 


1   NUOVI   ORDINAMENTI  TECNICI 

DELLE  INDUSTRIE  IN  RELAZIONE  ALL'OBBLIGO  INTERNAZIONALE 
DELLE  OnO  ORE  DI  LAVORO 


r 


Ho  ceduto  alle  violente  istanz^e  dell'egregio  Franchini,  insegnante 
nell'Istituto  Nazionale  di  Istruzione  Professionale,  il  quale  con  dolce 
imperio  ha  voluto  che  inaugurassi  questo  corso  di  lezioni  dedicate 
all'applicazione  della  scienza,  intesa  all'aumento  della  prosperità 
economica. 

Ma  il  mio  proposito  non  è  di  farvi  uno  di  quei  consueti  discorsi 
sonori,  che  a  tante  cose  accennano  con  orgogliosa  leggerezza  e  nulla 
conchiudono. 

In  questa  odierna  conversazione  con  voi,  tutti  più  competenti 
di  me,  vorrei  iniziare  un  Istituto,  collegante  Roma  con  Milano,  al 
fine  chiaro  e  preciso  di  studiare  e  di  applicare  i  nuovi  metodi  tecnici, 
i  quali  colla  minor  fatica  materiale  notevolmente  migliorano  i  risul- 
tati dell'umano  lavoro  e  rappresentano  una  feconda  evoluzione  dopo 
quella,  massima,  incominciata  alla  fine  del  secolo  decimottavo  col- 
le applicazioni  delle  macchine,  da  cui  piglia  qualità  e  modo  la  grande 
industria;  origine  di  tante  altezze  e  di  tante  miserie,  ma  che  segna 
un  passo  sicuro  nel  progresso  dell'umanità.  I  nomi  dei  sommi  inven- 
tori di  questi  nuovi  ordinamenti  industriali,  di  carattere  scientifico, 
sono  già  universalmente  noti.  Appartengono  agli  Stati  Uniti  d'Ame- 
rica: Taylor,  Gantt,  Samford,  Thompson,  allievi  di  Taylor,  Har- 
rington,  Emerson  e  altrittali.  Taylor  si  è  proposto  di  sostituire  nelle 
relazioni  fra  imprenditori  e  operai  la  disciplina  del  fatto  preciso  e 
della  legge  scientifica  alPimipero  della  forza  e  delle  ondeggianti  opi- 
nioni, cercando  di  formare  un  codice  di  norme  tecniche,  che  legano 
ugualmente,  colla  persuasione  infallibile  della  scienza,  i  direttori 
del  lavoro,  gli  impiegati  e  gli  operai.  Le  conseguenze  di  questo  me- 
todo tengono  del  maraviglioso;  si  tratta  di  rimunerare  ogni  colla- 
boratore sulla  base  del  rendimento,  di  promuovere  la  selezione  scien- 
tifica dei  lavoratori,  l'adattamento  alla  loro  opera,  analizzando  gli 
elementi  fondamentali  dì  ogni  industria,  facendo  lo  studio  della  fa- 
tica, fissando  i  compiti  ottenuti  da  uomini  di  differenti  capacità, 
giovandosi  dei  fattori  di  riduzione  o  di  sicurezza,  che  tengono  conto 
dei  ritardi  inevitabili  nello  svolgersi  dtelle  operazioni  compiute  da 
chi  anche  nel  lavoro,  poiché  è  cosa  umana,  ha  la  coscienza  ondeg- 
giante e  diversa. 

Il  lavoro  ottiene  questo  effetto  nuovo  di  essere  meno  affaticante  e 
più  produttivo;  si  prescrivono  periodi  di  riposo,  persino  modi  di  ri- 
'Creazioni  nelle  ore  di  frequenteizione  dell'officina:  protezione  infal- 


74  GLI   ORDINAMENTI   TECNia   DELLE   INDUSTRIE 

libile  codesta  contro  resaurimento  nervoso  e  fisico.  Alle  <lecisioni  ar- 
bitrarie dei  direttori,  dei  capi,  dei  sindacati  operai  si  sostituisce  la 
chiara  luce  della  scienza,  alla  quale  devono  sottoporsi  capitalisti  e 
lavoranti,  non  più  retti  dalle  prepotenze  di  capricciose  tirannie  egual- 
mente funeste;  gli  utii  e  gli  altri  hanno  voto  ugnale  nei  conflitti,  poi- 
ché l'arbitro  è  un  fatto  tecnicamente  chiarito  ed  escludente  i  giudizi 
mutevoli  quasi  sempre,  quasi  sempre  violenti,  dell'una  o  dell'altra 
parte.  Ne  esce  una  produzione  più  abbondante,  più  eletta,  ottenuta 
con  minore  spesa  e  che  consente  di  diminuire  le  ore  di  lavoro.  Que- 
sto è  l'ideale  tayloriano,  combattuto,  rettificato,  discusso,  ma  nella 
sua  sostanza  resistente  a  tutte  le  critiche,  parecchie  delle  quali  con- 
tribuiscono a  migliorare,  a  far  progredire  i  nuovi  metodi. 

Voi,  egregi  colleghi,  tutto  questo  conoscete  e  sapete  insegnare 
meglio  di  me.  Ma  vi  addito  un'opera  che  tengo  a  vostra  disposizione, 
in  due  grossi  volumi  condensante  i  rapporti  di  una  Missione  d'in- 
chiesta deliberata  dal  Belgio;  s'intitola:  Le  Travati  industriel  aux 
Etats-Unis. 

Signori,  vi  sono  dei  popoli  che  occupano  un  piccolo  spazio  nella 
geografia  fisica,  ma  ne  tengono  uno  grandissimo  nella  geografia 
morale  delle  Nazioni.  Il  Belgio,  tutto  invaso,  viveva  col  suo  Re, 
col  suo  piccolo  esercito,  col  suo  Governo,  in  Francia,  a  Le  Havre,  e 
il  6  aprile  1918,  quando  i  tedeschi  ottenevano  le  loro  ultime  vittorie 
e  il  Belgio  giaceva  più  che  mai  oppresso  sotto  il  loro  ferreo  tallone, 
il  Ministro  degli  .affari  Economici,  che  a  cagion  di  onore  nomino, 
il  Barone  di  Broqueville,  inviava  una  eletta  schiera  di  uomini  com- 
petentissimi,  presieduta  dallo  Steels,  professore  all'Università  di 
Gand,  coll'incarico  di  studiare  agli  Stati  Uniti  il  movimento  cono- 
sciuto in  Europa  col  nome  di  «  Taylorismo  »  e  in  America  con  quello 
di  »  Scienti ftc  Management  ».  La  Missione  belga  cominciò  le  sue  ri- 
cerche alla  fine  di  aprile  del  1918  e  presentò  il  rapporto  a  Bruxel- 
les, nel  Belgrio  liberato  e  trionfante,  il  marzo  del  1919.  Re,  Governo, 
Popolo,  tutti  erano  dunque  sicuri  della  imminente  redenzione  e  pre- 
paravano al  loro  paese,  uno  dei  più  industriali  del  mondo,  nuovi 
elementi  di  grandezza  e  di  prosperità.  Strano  riscontro  con  certe  Na- 
zioni preminenti  che,  dopo  le  mirabili  vittorie,  sperperano  il  loro 
temjx),  le  forze  morali  e  materiali  in  vanissime  dispute  politiche, 
ricordanti  quelle  dei  Bizantini,  i  quali,  mentre  i  Maomettani  da- 
vano la  scalata  alle  mura  di  Costantinopoli,  discutevano  appassio- 
natamente suWomioussius  e  suWomousius,  cioè  se  la  natura  divina 
era  con  o  senza  un  ««  i  ». 

In  questi  volumi,  che  vi  torno  a  raccomandare,  la  ricostruzione 
si  collega  con  queste  più  recenti,  poderose,  continue  applicazioni 
della  scienza  ai  progressi  industriali,  con  l'elevazione  psicologica, 
tecnica,  economica  del  lavoro, 

L'Uflftcio  d'Igiene  della  citt^  di  New  York  ha  questa  divisa: 
Ogni  Nazione  determina  da  sé  la  misura  della  sua  mortalità. 

Si  può  soggiungere,  dice  la  relazione  belga,  che  secondo  il  suo 
valore  operoso  o  la  sua  inerzia  incompetente,  ogni  Nazione  deter- 
mina da  sé  la  misura  della  floridezza,  della  moralità,  della  ci\iltà. 
Come  noi  dominiamo  oggi  le  forze  fisiche,  bisogna  colla  scienza  do- 
minare anche  le  forze  m<orali,  e  col  suo  aiuto  iniziare  una  nuova  èra 


IN  RELAZ.  ALL  OBBLIGO  INTERNAZ.  DELLE  OTTO  ORE  DI  LAVORO    iO 

di  progressi  economici,  che  risolva  le  terribili  questioni  sociali,  non  a 
colpi  di  reazione  e  di  rivoluzione,  ma  di  applicazioni  rette,  sicure, 
pacificatrici  del  lavoro  col  capitale,  perchè  riescono  a  innalzare  con 
pari  grado  la  fortuna  dell'uno  e  dell'altro. 

Questo  hanno  compreso,  senza  aiuti  del  Governo,  alcuni  spiriti 
eletti  di  Lombardia,  di  Piemonte,  di  Roma.  Ne  nomino  uno  a  ca- 
gion  d'onore,  per  le  opere  notevoli  già  compiute,  l'ingegnere  Fran- 
cesco Tessari,  che  insieme  a  Mario  Signori  e  ad  altri  egregi  tecnici 
si  adunano  alla  Camera  di  Commercio  di  Milano,  qui  rappresentata. 
Essi  già  ottennero  notevoli  risultati,  applicando  i  nuovi  metodi  con 
studi  pazienti  e  fortunati. 

Il  mio  sogno  è  di  unire  gli  uomini  più  competenti  in  queste  ri- 
cerche e  in  queste  applicazioni,  Roma  con  Milano;  e  poiché  assistono 
a  questa  adunanza,  e  noi  viviamo  in  tempi  di  Decreti-Legge  e  di  corso 
forzoso,  li  obbligherò  a  parlare,  questa  volta  almeno  adoperando  la 
forza  per  fare  il  pubblico  bene. 

Egregi  Colleghi,  mi  avvìo  alla  seconda  parte  della  mia  conver- 
sazione colla  promessa  di  maggior  brevità;  il  Trattato  di  Versailles,  le 
Conferenze  di  Washington  e  di  Ginevra  per  la  legislazione  intema- 
zionale del  lavoro,  hanno  imposto  la  giornata  di  otto  ore  nelle  in- 
dustrie di  terra  e  di  mare,  e  si  sta  discutendo  di  imporla  anche  per 
i  lavori  campestri.  Come  se  un  contadino  che  sente  il  rombo  del 
nembo  lontano  quando  spirano  le  otto  ore  del  suo  lavoro,  dovesse 
incrociare  le  braccia  col  pericolo  imminente  di  perdere  gli  attesi 
raccolti!  Ma  lasciando  da  parte  questi  punti  gravissimi  della  contro- 
versia, è  fuor  di  dubbio  che  la  giornata  di  otto  ore,  se  non  si  coordina 
coi  nuovi  metodi  scientifici  della  produzione,  contiene  il  pericolo  di 
immiserire  capitale  e  lavoro,  di  nuocere  alla  prosperità  pubblica  e 
privata.  Un  illustre  economista  francese,  Raphael  Georges  Lév\*,  ha 
affermato  che  la  legge  del  23  aprile  1919  sulla  giornata  di  otto  ore 
ha  inflitto  alla  Francia  perdite  già  calcolate  a  miliardi  (quindici  mi- 
liardi almeno  per  anno),  con  tale  aggravio  dei  prezzi  di  costo  dei 
prodotti  da  minacciare  la  vita  di  alcune  floride  esportazioni.  Secondo 
lui,  la  Francia  corre  alla  sua  rovina  perchè  non  può  lavorare  libe- 
ramente. Assisteremo  fra  breve  a  una  grande  discussione  nella  Ca- 
mera francese  dinanzi  alla  quale  già  stanno  proposte  per  modificare, 
sospendere  o  abolire  la  legge  della  giornata  a  otto  ore  di  lavóro; 
tanto  più  che  essa  si  viola  già  apertamente  in  Germania  con  deroghe 
concordate  fra  i  capi  delle  industrie  e  gli  operai.  Nelle  oflBcine  di 
Stinnes,  Thyssen  e  dei  Fratelli  Mannesmann,  si  è  rinunziato  alla 
settimana  legale  di  48  ore,  si  è  ristabilito  il  lavoro  parziale  e  alter-, 
nativo  della  domenica  per  accordi  fra  i  due  fattori  della  produzione. 
Nell'industria  tessile  si  lavora  10  ore  al  giorno,  e  mezze  giornate  di 
lavoro  si  fanno  nella  domenica  e  nelle  altre  feste.  Persino  nella  Ba- 
viera cattolicissima,  le  autorità  concedono  le  deroghe  al  riposo  do- 
menicale. 

Non  voglio,  non  posso  qui  discutere,  perchè  il  tempo  mi  man- 
cherebbe, e  voi  siete  stanchi  (anche  più  di  me),  se  sia  possibile  far 
rispettare  da  tutti  gli  Stati  la  legge  della  giornata  di  otto  ore,  se  siano 
lecite  le  deroghe  generali  e  parziali  di  questo  o  di  quel  popolo,  se 
non  si  intraveda  già  la  egemonia  economica  dei  tedeschi,  i  primi  e 
i  più  sapienti  nell'applicare  l'ordinamento  scientifico  del  lavoro,  a 


76  LiLi    UKUi.NAAltiMl    TECNiU    L>tLLt    ISui  MiUt 

questo  primato  sicuro  agigiungendo  la  violazione  del  rispetto  delle 
otto  ore,  con  germanica  disinvoltura  continuatori  nella  pace  delle 
prepotenze  adoperate  nella  guerra.  Ma  io  pongo  dinanzi  a  voi,  egregi 
colleghi,  dinanzi  ai  socialisti  italiani,  che  come  il  Colombini,  uomo 
competente,  esitano  ad  accogliere  l'ordinamento  scientifico  del  la- 
voro, questo  dilemma  formidabile  :  violare  la  legge  delle  otto  ore  o, 
per  rispettarla,  come  io  desidero,  introdurre  con  sollecitudine  i  me- 
todi scientifici  che  moltiplicano  il  prodotto,  lo  perfezionano,  miglio- 
rano la  salute  e  innalzano  la  dignità  dogli  operai,  diminuiscono  i 
costi,  accrescono)  i  salari  e  per  tal  gmsa  traggono  dallo  stesso  ferreo 
provvedìimento  restringente  la  giornata  del  lavoro,  la  necessità  di 
riforme  redentrici. 

Noi  siamo  alla  vigilia  di  nuove  aurore  economiche;  l'èra  delle 
macchine  richiese  una  legislazione  sociale  idonea  a  impedire  la  de- 
cadenza del  popolo  e  si  ottenne  il  gran  fine  di  moltiplicare  la  ric- 
chezza, di  rial2iare  la  salute,  la  dignità  e  le  retribuzioni  del  lavoro.  Di 
fronte  alle  nuove  limitazioni  della  giornata  di  otto  ore,  auguriamo  il 
trionfo  dei  nuovi  metodi  scientifici,  che  lascino  intravedere  un'era  più 
felice  per  l'umanità,  con  popoli  di  lavoratori  intesi  ad  alternare  la  loro 
giornata  fra  le  misurate  Fatiche,  gli  studi,  gli  onesti  passatempi  divisi 
colle  famiglie,  ospitate  nelle  case  sane  e  ridenti,  dispensatrici  di  sa- 
lute igienica  e  morale. 

A  Voi,  professori  di  scienze  fìsiche,  esploranti  per  dominarle, 
le  forze  della  natura,  a  Voi,  capitani  intrepidi  delle  nostre  industrie, 
e  vi  sono  dei  capitani  anche  fra  i  duci  dei  lavoratori,  spetta  l'insigne 
onore  e  il  grave  onere  di  propagare  col  senno,  che  governa  la  mano, 
la  nuova  Italia  economica  e  sociale. 

Luigi  LuzzAirr. 

Discorso  inaugurale  del  corso  di  conferenze  su  i  u  Problemi  econoiitn  i  in- 
dustriali» tenuto  il  26  febbraio  nella  sede^dcJla  R.  Scuola  di  Magiistero  in 
Roma,  coordinata  al  R.  Istituto  Nazionale  di  Istruzione  Professionale. 

Assistevano  S.   E.  il  senatore  Corbino,  S.  E.  l'on.   Raineri,  l'on.  Turati, 

l'on.   prof.   U.   Ancona,  l'on.   Luigi   Luiggi,    numerosi   professori  e  tecnici  e   i 

rappresentanti  della  Camera  di  Commercio  di   Milano.   L'ing.   Francesco  Tefr- 

sani,  un  industriale  milanese,  e  l'on.  Luiggi  presero  parte  all'importante  di- 

.  scussione. 


NOTE   E   COMMENTI 


Il  nuovo  Ministero  -  La  Banca  di  Sconto. 


//  nuovo  Mio/stero. 

La  formazione  del  Ministero  Facta  ha  prodotto  un  senso  di  sol- 
lievo e  di  soddisf suzione  in  tutto  il  paese.  L'illustre  parlamentare  ha 
reso  un  vero  servig"io  alla  vita  politica  della  Nazione,  accettando  il 
grave  incarico,  ed  assolvendolo  con  rapidità  e  fermezza.  L'on.  Facta 
gode  in  Parlamento  di  una  stima  e  di  una  simpatia  universale,  ed 
è  a  ritenere  ch'egli  saprà  valersi  di  questa  sua  posizione  personale 
per  dare  all'Italia  quel  governo  stabile,  forte  e  fattivo,  di  cui  essa 
sente  tanto  il  bisogno  in  questi  momenti. 

Senza  abbandonarci  ad  esagerazioni  ed  a  pessimismi  di  nessuna 
specie,  tutti  dobbiamo  riconoscere  che  l'ora  attuale  non  è  delle  più 
facili,  e  che  la  lunga  crisi  politica  che  abbiamo  attraversata  nel  mese 
di  febbraio,  non  deve  restare  senza  insegnamenti.  Essa  dimostra  anzi 
tutto  come  fosse  immatura  e  precipitata  la  caduta  del  gabinetto  Bo- 
nomi,  verso  il  quale  ora  si  rivolge  più  sereno  il  giudizio  degli  am- 
bienti parlamentari.  L'on.  Bonomi  è  uscito  assai  bene  da  questo  suo 
primo  esperimento  di  governo,  come  lo  dimostrano  le  attestazioni 
stesse  della  Camera  nel  giorno  del  voto  contrario.  Né  v'ha  dubbio 
che  il  suo  Ministero  avrebbe  potuto  fare  più  e  meglio,  senza  le  agita- 
zioni e  gli  assalti  continui  della  Camera  stessa,  che  oramai  erano  tali 
da  rendere  impossibile  quasiasi  opera  di  Governo. 

Ciò  che  ora  si  aspetta  dal  Ministero  Facta  è  che  esso  intensifichi 
in  tutti  i  rami  quell'azione  di  Stato  che  è  indispensabile  ad  assicu- 
rare e  cid  affrettare  l'opera  della  ricostruzione  nazionale.  Perchè  que- 
sta è  la  funzione  precipua  dello  Stato  italiano  dall'armistizio  in  poi. 
Tutti  i  Ministeri  vi  attesero,  ed  è  giusto  constatare  che  ciascuno  di 
essi  ha  fatto  compiere  allo  Stato  un  passo  in  avanti.  Ma  la  strada  da 
percorrere  è  ancora  lunga,  e  diventerà  più  aspra  a  misura  che  ci  av- 
viciniamo alla  mèta.  Da  ciò  la  necessiià  di  sforzi  sempre  più  intensi 
e  più  coordinati,  perchè  sarebbe  impossibile  rimanere  immobili  nella 
situazione  presente. 

I  problemi  principali  d'ordine  intemo  che  la  vita  italiana  deve 
t>ra  affrontare  sono: 

mantenimento  imparziale,  ma  inflessibile,  dell'ordine  pub- 
blico di  fronte  a  tutti  i  partiti,  con  garanzia  assoluta  della  libertà  e 
della  proprietà  dei  cittadini  tutti; 


78  NOTE   E   COMMENTI 

rafforzamento  dell'autorità  e  del  prestigio  dello  Stato  sia  nei 
servizi  pubblici  e  nelle  amministrazioni  governative,  come  pure  nel- 
l'andamento delle  Provincie  e  dei  Comuni; 

restaurazione  djella  giustizia  nelle  amiministrazioni  e  sopra 
tutto  nei  rapporti  fra  esse  e  i  singoli  cittadini; 

ravvicinamento  del  bilancio  dello  Stato  al  pareggio  nel  modo 
più  largo  e  più  sollecito  possibile,  sopra  tutto  mediante  economie 
e  riduzione  di  spese.  A  tale  scopo  giova  procedere  al  più  presto  a 
quella  revisione  del  sistema  fiscale  di  guerra  che  l'on.  Facta  pro- 
mise nel  periodo  della  campagna  elettorale,  e  che  egli  potrà  attuare 
con  la  competenza  tecnic<i  e  con  l'equità  che  lo  distingue.  V'ha  chi 
afferma  che,  pur  mantenendo  il  principio  della  nominatività  dei  ti- 
toli, essa  sarebbe  resa  facoltativa  sotto  pagamento  di  una  deduzione 
sui  cuponi.  Una  soluzione  siffatta  ci  parrebbe  accettabile.  Ciò  che 
importa  è  di  uscire  assolutamente  ed  in  modo  organico  dallo  stato 
attuale; 

assetto  della  finanza  delle  Provincie  e  dei  Comuni.  È  questo 
uno  dei  maggiori  problemi  che  esige  provvedimenti  concreti  ed  im- 
mediati. Se  di  fronte  all'azione  nulla  dello  Stato  e  dei  Prefetti  — 
tranne  poche  eccezioni  —  Provincie  e  Comuni  continuano  a  spen- 
dere e  spandere  nella  misura  attuale,  prepareremo  giorni  ben  diflB- 
cili  non  solo  all'economia  nazionale,  ma  persino  all'ordine  pub- 
blico. I  contribuenti  non  ne  possono  più;  allorché  il  fuoco  avvamperà 
se  ne  avranno  conseguenze  molto  dolorose. 

V'ha  poscia  tutto  un  complesso  di  provvedimenti  economici,  in- 
dispensabili a  ravvivare  la  produttività  del  paese;  ad  attenuare  la  di- 
soccupazione; a  ristabilire  una  più  esatta  correlazione  tra  le  neces- 
sità della  produzione  e  la  misura  dei  profitti  e  dei  salari;  a  risanare 
le  Società  anonime,  alcune  delle  quali  furono  un  vero  flagello  per  la 
nazione;  a  promuovere  l'agricoltura  e  l'organizzazione  della  piccola 
proprietà,  ecc.  Ma  jyer  ora  il  discorso  sarebbe  troppo  lungo.  Molto  a 
ragione  venne  asserito  che  le  due  necessità  urgenti  dell'ora  presente 
sono  :  ordine  e  'pareggio^  essendo  questi  i  primi  fattori  essenziali  del 
miglioramento  dell'economia  nazionale  e  dei  cambi  con  l'estero. 

• 
•  • 

È  evidente  che  la  soluzione  di  questi  problemi  diventa  impossi- 
bile senza  una  maggioranza  larga  e  costante;  e  che  dipende  sopra 
tutto  dalla  situazione  parlamentare,  che  oggidì  è  oggetto  di  vive  di- 
scussioni. 

V'ha  chi  crede  che  la  rappresentanza  proporzionale  e  i  gruppi 
abbiano  reso  impossibile  l'esistenza  di  un  Governo  in  Italia.  Noi  »jte- 
niamo  fuori  d'opera  discutere  su  questi  punti,  perchè  il  ritorno  al 
passato  non  è  prevedibile:  crediamo  invece  che  i  v^xi  termini  su  cui 
impostare  la  questione  siano  diversi.  L'allargamento  del  suffragio, 
la  formazione  dei  partiti,  la  rappresentanza  proporzionale,  la  costi- 
tuzione dei  gruppi  hanno  completamente  cambiata  la  struttura  della 
vita  parlamentare  italiana.  È  su  queste  nuove  basi  che  bisogna  co- 
struire i  Governi  dell'avvenire,  i  quali  saranno  tanto  più  solidi  e  fat- 
tivi, quanto  più  si  accosteranno  alle  mutate  condizioni  di  fatto  del- 
l'organismo politico  italiano.  Giova  portare  la  rappresentanza  prò- 


NOTE   E   COMMENTI  79 

porzionale  dalla  Camera  al  Governo,  e  dare  ad  ogni  gruppo  la  de- 
signazione dei  ministri  che  debbono  rappresentarlo,  con  forme  or- 
ganiche, e  che  offrano  sicura  garanzia.  È  questione  che  abbiamo  agi- 
tata più  volte  (1),  e  che  sarà  argomento  precipuo  delle  contestazioni 
politiche  nel  prossimo  avvenire.  Ad  ogni  modo  il  semplice  fatto  che 
uomini  eminenti  come  gli  on.  Giolitti,  De  Nicola  ed  Orlando  non 
hanno  creduto  nelle  presenti  condizioni  parlamentari  di  poter  co- 
stituire un  gabinetto  forte  e  vitale,  è  cosa  di  tale  gravità  che  deve  se- 
riamiente  impensierire. 

Oggidì  il  dovere  di  tutti  è  di  cooperare  col  nuovo  Governo  per 
il  bene  della  Nazione.  Speriamo  a  tale  uopo  che  i  singoli  deputati  ed 
i  gruppi  sentano  altamente  le  responsabilità  loro  di  fronte  al  Paese. 

Due  questioni  il  nuovo  Ministero  deve  subito  affrontare: 
la  sistemazione  della  Banca  di  Sconto,  che  speriamo  avvenga 
secondo  i  concetti  da  noi  più  volte  manifestati; 

la  Conferenza  Internazionale  di   Genova,   di  cui  tutti  augu- 
riamo il  successo. 

Le  discussioni  e  le  incertezze  che  si  ebbero  finora  circa  la  convo- 
cazione di  questa  Conferenza  devono  ormai  cessare,  e  dobbiamo  au- 
gurare il  migliore  esito.  La  maggiore  garanzia  di  questo  successo  sa- 
rebbe da  tutti  ravvisata  nella  nomina  delFon.  Tittoni  a  Presidente 
della  Conferenza  stessa,  come  ne  corse  voce  in  questi  giorni.  Se  l'emi- 
nente Statista  potrà  assumere  siffatto  incarico,  la  sua  autorità  mon- 
diale e  la  sua  alta  competenza  diplomatica  costituiranno  per  il  Paese 
il  più  sicuro  aflBdamento.  Chi  ha  visto  la  p)osizione  eminente  che 
l'on.  Tittoni  seppe  ad  un  tratto  acquistare  cilla  prima  assemblea  della 
Società  delle  Nazioni  a  Ginevra,  non  può  dubitare  di  quanto  possano 
in  lui  il  valore  ed  il  patriottismo  insieme  congiunti. 

Ci  sia  per  ultimo  lecito  di  constatare  con  legittima  soddisfazione 
come  la  lista  dei  nuovi  ministri  contenga  in  buon  numero  antichi  ed 
autorevoli  collaboratori  della  nostra  Rivista,  e  ad  essi  mandiamo  sa- 
luti ed  auguri  cordiali.  Dell'on.  Schanzer  si  potrebbe  quasi  dire  che 
ha  cominciato  la  sua  brillante  carriera  con  i  dotti  studi  pubblicati 
in  queste  pagine,  che  in  tempi  diversi  accolsero  pregevoli  scritti  de- 
gli on.  Riccio,  Luigi  Rossi,  Peano,  Teofìlo  Rossi  e  Di  Cesarò.  E  fac- 
ciamo pure  particolare  menzione  dell'importante  studio  sulla  riforma 
della  legge  elettorale,  pubblicato  in  questa  Rivista  dall'on.  Casertano, 
Sotto- segretario  di  Stato  agli  Interni,  e  di  un  dotto  scritto  sopra  P. 
Villari  dell'on.  Calò,  Sotto-segretario  alle  Belle  Arti. 

Il  Paese  attende  il  nuovo  Ministero  all'opera.  Esso  desidera  ar- 
dentemente un  Governo  forte  e  risoluto,  che  faccia  fermamente  ri- 
spettare l'ordine  e  la  legge,  e  che  assicuri  il  buon  assetto  delle  ge- 
stioni finanziarie  statali  e  locali.  L'on,  Facta  se,  come  confidiamo, 
saprà  dare  al  Paese  un  Governo  siffatto,  avrà  acquistato  un  nuovo 
titolo  alla  riconoscenza  nazionale. 


(1)  Spectator,  La  crisi  e  V evoluzione  delle  istituzioni  rappresentative  - 
Bappresentanza  proporzionale  e  Governo,  in  Nuova  Antologia,  16  higlio  1921. 

Id.,  Il  governo  dei  gruppi  e  la  collaborazione  socialista,  in  Nuova  Anto- 
ìogia,   16  settembr^e  1921. 

Meda,  Il  Governo  di  coUaborazione,  in  Nuova  Antologia,  16  ottobre  1921. 


80  NOTE   E   COMMENTI 

La  Banca  di  Sconto, 

Le  vicende  politiche  hanno  certamente  contribuito  a  ritardare 
una  prima  e  necessaria  sistemazione  della  Banca  di  Sconto.  Le  linee 
generali  dei  primi  e  più  urgenti  provvedimenti  furono  indicate  in 
questa  Rivista  (1),  e  siamo  lieti  di  constatare  come  esse  abbiano  in- 
contrate numerose  e  autorevoli  adesioni.  I  punti  fondamentali  si 
possono  così  riassumere: 

costituzione  imimediata  di  una  forte  e  sana  Banca  Nazionale 
di  Sconto,  con  un  capitale  cospicuo,  interamente  versato  a  contanti. 
Oramai  si  considera  come  tramontata  l'idea  poco  felice  di  costituire 
in  parte  il  capitale  della  Banca  con  crediti  di  dubbia  o  di  diflBcile 
esazione;  il  che  sarebbe  stato  un  grave  errore  nelle  presenti  condi- 
zioni dell'economia  monetaria  in  Italia  ed  all'estero; 

liquidazione  della  caduta  Banca  di  Sconto  col  minor  danno 
dei  creditori  e,  se  possibile,  degli  azionisti; 

disponibilità  immediata  a  favore  dei  creditori  attuali  di  una 
parte  almeno  del  loro  credito,  possibilmente  fino  al  50  per  cento; 

nessuna  garanzia  da  parte  dello  Stato  e  nessun  onere  a  carico 
dei  contribuenti; 

nessuna  responsabilità  a  carico  degli  Istituti  di  emissione  e 
nessun  onere  a  carico  loro; 

facilitazioni  fiscali  ed  azione  morale  da  parte  dello  Stato  e 
degli  Istituti  di  emissione,  per  promuovere  ed  agevolare  la  necessa- 
ria sistemazione  : 

costituzione  di  un  nuovo  organismo  di  credito,  sano  e  forte, 
che  colla  austerità  e  bontà  della  sua  gestione  realizzi  tali  profitti  da 
soddisfare  i  creditori  e  possibilmente  anche  gli  azionisti  della  Banca 
di  Sconto,  come  fece  la  Banca  d'Italia  verso  l'antica  Banca  Na- 
zionale. 

Oramai  su  questi  punti  si  va  orientando  la  pubblica  opinione, 
ed  essi  possono  formare  la  base  di  una  prima  ed  equa  soluzione.  V'ha 
soltanto  ancora  da  chiarire  il  regime  di  sistemazione  dei  creditori. 

Tutti  gli  sforzi  di  questi  giorni  sono  stati  diretti  a  stabilire  a 
favore  dei  creditori  un  metodo  graduale  di  rimborsi  successivi  fino 
ad  un  massimo  del  60  al  70  per  cento  dei  crediti  attuali.  Noi  ci  per- 
mettiamo di  dissentire  recisamente  da  questo  sistema  di  rimborsi, 
che  non  giova  né  alla  Banca,  né  ai  suoi  creditori. 

Più  la  Banca  rimborsa  e  più  si  esaurisce,  con  danno  suo  e  dei 
correntisti.  Non  ha  più  mezzi  per  fare  operazioni  e  per  guadagnare  i 
profìtti  indispensabili  alla  sua  vita  e  alla  sua  ricostituzione.  È  la 
Banca  che  divora  Se  stessa.  Dall'altro  lato  i  creditori  che  hanno  real- 
mente bisogno  di  danaro  si  trovano  rimborsati  a  gocce,  con  danno 
loro  e  dell'economia  produttiva  del  paese.  E  chi  garantisce  loro  que- 
sto rimborso,  ed  in  qual  tempo? 

Si  è  per  ciò  che  abbiamo  proposto  e  continuiamo  a  proporre  che 
per  impulso  del  Governo  sia  istituito  un  sistema  di  anticipazioni  ai 
creditori  fino  al  50  per  cento  dei  loro  crediti,  presso  le  banche  ordi- 

(1)  Aroentarius,  La  crisi  d^ìla  Banca  Italiana  di  Sconto,  in  Nuova  .4nf#- 
logia.    IC  febbraio  1922. 


NOTE   E   COMMENTI  81 

narie,  le  casse  di  risparmio  ed  almeno  come  risconto  anche  presso 
gl'Istituti  di  emissione.  Resterà  sempre  ferma  la  responsabilità  per- 
sonale del  creditore  che  certamente  nella  generalità  dei  casi  non 
potrà  a  meno  di  essere  solvibile  per  il  distacco  improbabile  che  po- 
tesse verificarsi  tra  il  50  per  cento  di  anticipazione  e  l'ammontare 
delle  attività  realizzate  nella  liquidazione.  Se  una  banca  anticipa  il 
50  per  cento  ad  un  creditore  della  Sconto,  ritenuto  solvibile,  e  la  li- 
quidazione realizza  solo  il  40  per  cento,  è  più  che  probabile  che  il 
creditore  possa  facilmente  rispondere  di  questa  differenza  di  10 
punti,  cosicché  una  tale  operazione  di  anticipazione  non  presenta 
alcun  rischio  per  qualsiasi  banca. 

Notizie  attendibili  affermano  infatti  che  una  forte  e  sana  Banca 
Popolare  ha,  da  qualche  tempo,  adottato  il  sistema  di  accordare  an- 
ticipazioni fino  al  50  per  cento  sui  libretti  della  Banca  Sconto,  come 
se  si  trattasse  di  un  titolo  industriale  qualsiasi.  In  qualche  città  l'af- 
fluenza dei  creditori  fu  piuttosto  notevole,  ma  per  piccole  somme; 
il  che  ci  conferma  nell'opinione  che,  anche  se  adottato  in  tutta  Italia, 
un  tale  metodo  non  cagionerebbe  alcuna  seria  perturbazione  nel  mer- 
cato monetario  italiano.  Siccome  l'interesse  è  del  7  per  cento,  il  de- 
naro viene  attinto  dai  soli  creditori  che  ne  hanno  veramente  bisogno. 

Questa  proposta  ha  avuto  l'adesione  di  massima  di  un  eminente 
economista,  il  senatore  Luigi  Einaudi,  nel  Corriere  della  Sera  del 
24  febbraio  (N.  47),  come  pure  venne  propugnata  da  altri  autorevoli 
scrittori  e  giornali.  Ci  permettiamo  quindi  di  raccomandarla  viva- 
mente all'attenzione  del  nuovo  Ministero  del  Commercio,  on.  Teo- 
filo  Rossi,  che  avendo  una  così  larga, esperienza  del  movimento  eco- 
nomico nazionale,  comprenderà  ad  un  tratto  la  necessità  di  una 
prima  e  provvisoria  sistemazione  della  Banca  di  Sconto.  L'on.  Be- 
lotti,  con  alcuni  utili  provvedimenti,  ebbe  la  saviezza  di  evitare  un 
fallimento,  che  avrebbe  arrecati  danni  ben  maggiori  alla  Banca  ed 
al  Paese.  Spetta  ora  ai  nuovi  ministri  del  Tesoro  e  del  Commercio, 
gli  on.  Peano  e  T.  Rossi,  di  promuovere  un'opera  solida  di  risana- 
mento e  di  ricostruzione,  quale  è  assolutamente  richiesta  dalle  con- 
dizioni dell'economia  nazionale.  Se,  ad  esempio,  anche  mediante  la 
costituzione  di  un  Consorzio  bancario,  promosso  dal  Governo  e  dagli 
Istituti  di  emissione,  si  avesse  da  un  capo  all'altro  della  penisola  un 
sistema  di  anticipi  fino  al  50  per  cento,  noi  crediamo  che  il  Paese  ne 
proverebbe  un  giovamento  immediato.  Soltanto  occorre  fare  subito. 

Allo  stato  attuale  delle  cose,  nessuno  sa  quale  sarà  l'entità  dei 
rimborsi,  ed  in  quale  tempo  si  effettueranno.  Né  ci  sembra  accetta- 
bile, per  non  dire  di  più,  una  promessa  di  rimborsi  che  nessuno  ga- 
rantisce. Tutto  ciò  crea  incertezze  e  sfiducia  nel  Paese.  Da  questa  si- 
tucLzione  bisogna  uscire  al  più  presto.  Il  favore  inconsueto  che  ac- 
colse la  nostra  proposta  di  anticipo  fino  al  50  per  cento,  dimostra  che 
essa  risponde  a  necessità  urgenti.  Essa  non  preclude  la  via  ad  altre 
soluzioni  organiche  e  forti. 


Tol.   CCXVII,  eeri©  VI  —  1'   marzo  1922. 


NOTIZIA   LETTERARIA 


Due  romanza:  Stella  mattutina  di  Ada  Nbori  e  Dio  Nero  di  Claricb  Tartuvau. 

o  Stella  mattutina  »  di  Ada  Negri. 

Sulla  coperta  del  libro  il  Sacchetti  ha  disegnato  una  fìgiiretta  di 
ragazzina  non  bella,  male  in  panni  ed  in  carni,  che  vi  guarda  attra- 
verso le  sbarre  di  un  gran  cancello  di  villa  patrizia,  e  può  dirsi  che 
tutto  il  racconto  sia  lì,  in  quel  gesto  di  bambina  esile  e  bruna,  dallo 
sguardo  scrutatore  e  pensoso. 

La  figura  della  «  portinaretta  »,  vivente  più  nel  giardino  della 
padrona  che  nella  guardiola  della  nonna,  scontrosa  ed  orgogliosa,  ta- 
citurna ed  irrequieta,  vi  rimane  nella  memoria  sempre  più,  di  mano 
in  mano  che  salite  su,  su  con  lei,  attraverso  gli  anni  e  gli  stenti  e 
non  vi  lascia  nemmeno  quando,  divenuta  maestrina,  la  vedete  af- 
facciarsi alle  soglie  del  mondo,  con  il  diploma  tra  le  mani  e  la 
mamma  vecchia  da  mantenere. 

Sicuro,  la  maestrina,  quella  stessa  maestrina  che,  molti  anni  or 
sono,  con  un  libro  di  versi  tirati  giù  con  la  febbre  di  creare  nei  polsi 
e  la  violenza  della  passione  nel  cuore,  fece  meravigliare  i  critici 
più  arcigni  e  severi  e  si  fece  da  loro  consacrare  poeta,  ad  onta  ed  a 
malgrado  delle  incertezze  e  dei  difetti  di  una  poesia  di  vent'anni. 

E  la  vita  della  bimba  «  scarna,  dritta,  agile  »  è  rimeista  incasto- 
nata, più  di  quanto  ella  stessa,  forse,  non  creda,  e  nella  maestrina 
irruente  di  anni  fa,  e  nella  donna  poeta  e  celebre  di  oggi. 

Si  dice  soventi  che  l'artista  sia  un  eterno  fanciullo,  ed  è  vero; 
ma  io  credo  che  vi  siano  artisti  che  sono  tali,  solo  perchè  sono  stati 
fanciulli  di  particolar  vita  e  fisonomia. 

Sono  quelli  dall'anima  più  semplice  ed  elementare,  per  i  quali 
gli  anni  di  puerizia  e  di  adolescenza  rimangono  come  la  fonte  di 
tutta  la  loro  sensibilità  posteriore  e  della  lor  vita  interiore.  In  quegli 
anni,  l'anima,  direi  quasi,  a  fior  di  pelle,  riceve  in  pieno  gli  stimoli 
dell'ambiente,  ne  risente  le  sensazioni  a  mille  doppi;  la  mente  loro 
scorre  su  tutto  con  velocità  più  che  pazza;  tutto  li  fa  vibrare  e  li  ine- 
bria della  sua  bellezza,  ed  essi  vivono  la  loro  arte,  come  si  dice,  com- 
pletamente ed  intensamente,  ma  in  superficie;  e  più  tardi,  maturi  di 
anni  e  di  esperienza,  stanchi  o  no,  in  buona  fede  o  no,  ritornano 
sulle  sensazioni  acquistate  inconsciamente  da  adolescenti,  scendendo 
in  profondità,  rendendole  smaglianti  ed  evidenti  con  la  perizia  che 
loro  mancava. 

E  la  Negri  è,  a  parer  mio,  uno  di  questi  artisti  dall'anima  eem- 
plice  ed  elementare  e  profondamente  lirica,  che  ha  saputo  mutare  in 


NOTIZIA   LETTERARIA  83 

sangue  ed  in  caime  gli  eventi  di  puerizia.  «  Stella  mattutina  »,  la  storia 
della  rag-azzina  orfana  di  babbo,  schiva  di  carattere  ed  orgogliosa, 
tutta  intenta  alla  vita  della  sua  anima  e  delle  cose  che  le  capitano 
innanzi,  più  che  la  storia  della  Negri  bambina,  ci  dà  quella  della 
sensibilità  molteplice  di  lei  e  del  come  le  si  foggiò,  prima  che  le 
fiorisse  tra  le  mani  l'arie  di  esprimerla.  Ella  ci  dà  signorilmente 
oggi  la  chiave  dello  scrig^no  segreto  ove  è  nata  e,  anche,  s'è  chiusa 
l'anima  dei  suoi  versi  e  delle  sue  prose. 

E  la  chiave  apre  tesori  meravigliosi  di  personalità  nella  bimba. 

La  vediamo,  avida  di  racconti,  di  letture,  di  cose  belle,  rima- 
nere estatica  a  fissare,  come  in  sogno,  una  siepe  di  gigli  bianchi, 
fioriti  insieme  in  una  mattinata  di  sole  e  stendere  le  mani  come  per 
pregare,  ma  la  voce  della  proprietaria  la  richiama  brutalmente  alla 
realtà,  imponendole  di  non  toccare  i  fiori  e  minacciandola  se  ne  co- 
gliesse uno.  «  Ma  ella  non  voleva  toccare.  Stava  in  adorazione  sol- 
tanto! ».  Quest'episodio,  che  la  Negri  commenta,  aggiungendo  al  pen- 
siero della  bambina,  la  amara  domanda  se  sempre  qualcuno  non  la 
chiamerà  ladra,  quando  tenderà  le  braccia  e  l'anima  verso  la  bel- 
lez2a,  ci  mostra  appunto  tutti  gli  aspetti  del  poeta,  la  meravigliosa 
sensibilità,  l'atteggiamento  dello  spirito  più  contemplativo  che  at- 
tivo, il  suo  profondo  lirismo. 

E  la  sensibilità  travolgente  metterà  dopo,  nei  suoi  versi,  imma- 
gini incalzanti  e  pittoriche,  poiché  tutto  la  fa  vibrare;  immagini 
di  cose  e  di  visi,  che  faran  ressa  alla  i>enna,  rendendole  insopporta- 
bile il  vincolo  sintattico,  che  spezzerà  soventi  con  efificacia  ed  ardire. 

Alla  bambina  contemplante  in  solitudine  il  mondo  degli  uomini 
umili  in  lavoro,  l'atteggiamento  contemplativo  del  suo  spirito  farà 
dire,  pur  intuendo  la  infinita  dolcezza  della  fraternità  :  «  Come  è 
bello!  »  e  non:  Come  è  buono!;  e  ciò,  perchè  in  fondo  Dinin  è  po- 
vera come  quegli  uornini,  è  vero,  ma  non  può  dimenticare  di  sen- 
tirsi e  di  essere  diversa  dagli  altri  per  anima  ed  intelligenza. 

Il  lirismo  infine  che  la  chiude  nel  suo  mondo  completamente, 
fanciulla  d'anni  allora  ed  eternamente  tate  dopo,  le  farà  rivestir  del 
suo  io,  della  sua  anima  le  cose  del  mondo  e  cantare  ed  amare  le 
storie  per  le  storie,  l'amore  per  l'amore,  il  dolore  per  il  dolore,  più 
che  non  le  storie  perchè  di  vita,  l'amore  perchè  d'anime  e  di  carne, 
il  dolore  perchè  d'uomini. 

E  vediamo  la  giovanetta  passare  le  sue  ore  migliori  ad  ascol- 
tare avidamente  di  nascosto,  fingendo  di  e^ere  andata  a  dormire,  i 
romanzi  letti  alla  sera  dalla  mamma  alla  nonna;  amare  tanto  le 
tranquillità  solenni  e  deserte  dei  cimiteri,  quanto  le  strade  affollate 
con  gli  organetti  di  Berberia  ed  il  chiasso  del  transito,  osservatrice 
taciturna  e  vibrante;  sfiorata  dall'amore  e  dal  dolore  di  quelli  che 
le  vivono  intomo,  esseme  turbata,  scossa,  ma  non  corrosa;  quasi  che 
si  trattasse  di  storie  d'altri,  lontane  da  lei,  quasi  che  un  secreto 
pensiero  la  rattenesse:  quello  di  non  volersi  troppo  lasciare  andare 
ad  essi  per  non  esseme  contaminata,  mentre  invece  non  è  che  il  suo 
spirito,  la  sua  anima  che  vibra  troppo  della  bellezza  di  essi,  troppo 
intensamente  se  ne  bea,  godendone  e  soffrendone  le  linee  grandiose 
ed  ineluttabili. 

Tutto  questo  Ella  ci  dice  di  allora,  come  se  fosse  di  altri,  di 
sogno,  poiché  gli  anni  di  puerizia  e  di  adolescenza  si  velan  sempre 


84  NOTIZIA    LETTERARIA 

di  fantastico  nel  ricordo;  ma  tutto  questo  era  anche  latente  nella  sua 
opera  di  poeta  da  «Fatalità»  al  «Libro  di  Mara».  Ne  apparivano 
gli  sprazzi  qua  e  là,  ma  non  permettevano  riconoscere  «  in  toto  »  la 
sua  personalità,  né  ricercarla. 

D'altra  parte  non  sarebbe  mai  stato  possibile  farlo,  se  l'autrice 
non  ci  avesse  dato,  come  ha  fatto  con  quest'ultima  opera,  la  chiave 
della  sua  sensibilità. 

Le  accuse  e  le  critiche  che  le  sono  state  mosse  per  il  passato,  e 
il  socialismo  troppo  sentimentale  e  troppo  poco,  gli  scatti  romantici 
un  po'  freddi  e  rettorici,  l'eccessivo  cerebralismo  dominante  anche 
là  dove  il  cuore  spezza  vincoli  e  leggi,  avranno  potuto  avere  la  loro 
ragion  d'essere  e  la  loro  giustezza,  secondo  il  punto  di  vista  ed  il 
tempo  in  cui  furono  fatte,  ma  oggi  esse  trovan  la  loro  soluzione  ed  il 
loro  annullamento  completo  in  questo  libro  quasi  di  memorie. 

E  la  storia  della  fanciulla  esile,  dal  grande  animo  d'artista, 
buona  e  semplice,  che  l'A.  racconta  con  una  prosa  smagliante  di  co- 
lori, volta  a  volta,  poetica  ed  incisiva;  oltre  che  a  mostrare,  come  ho 
detto,  completa  la  vera  sensibilità  della  scrittrice,  dice  anche  e  pro- 
mette che  Ella  saprà  darci  ancora  nuove  j>arole  di  bellezza  rifacen- 
dosi alle  basi  del  suo  meraviglioso  «  io  »>  di  poeta. 


«  //  Dio  nero  »  di  Clarice  Tartufari. 

Se  M  il  mondo,  come  dice  l'autrice,  ruzzolava  in  maniera  assai 
curiosa  »  negli  anni  di  guerra,  per  quel  che  avveniva  alla  sua  super- 
fìcie, purtuttavia  esso  non  aveva  per  nulla  mutata  la  cadenza  del 
passo,  né  tanto  meno  la  via  della  sua  passeggiata  attorno  al  sole  con 
la  luna  a  compagna  fedele  e"  gradita. 

E  mentre  agli  uomini  sembrò  che  tutto  dovesse  ritenersi  chiuso 
nell'ambito  della  guerra  e  della  morte  che  sovrastava;  la  vita,  che 
in  un  tratto  della  crosta  terrestre  era  appunto  buttata  in  un  canto, 
con  sorriso  o  con  rabbia,  altrove,  a  pochi  chilometri  di  distanza,  si 
prendeva  rivincite  a  iosa  su  quegli  stossi  uomini,  avvincendoli,  at- 
tanagliandoli in  mille  guise,  donandosi  loro  completamente,  bella  e 
fascinatrice,  leale  e  perfida,  ribelle  e  docile. 

È  terribilmente  umano  ed  ineluttabile  che  accanto  alla  bara  vi 
sia  la  culla,  dietro  il  funere  il  festino,  come  dietro  il  palcoscenico, 
ove  l'attore  e  l'aubore  trepidano  e  vivono  con  l'animo  sospeso  ai 
gesti  della  folla,  vi  sia  una  infinita  congerie  di  gente  che  vive  del 
palcoscenico  e  per  la  cfuale  l'opera  che  si  recita,  bella  o  brutta  che 
sia,  applaudita  o  fischiata,  non  rappresenta  altro  che  una  cifra  di 
pili  nella  partita  incassi  del  libro  mastro. 

Son  leggi  queste  che  conducono  gli  uomini  e  lor  cose  oltre  la 
loiro  stessa  vita,  ed  il  loro  stesso  affannarsi,  sono  appunto  quelle  che 
l'Antigone  del  tempo  andato  chiamava  «  non  scritte  ed  infallibili 
d^li  Dei  ». 

Il  mondo  ruzzola  come  una  biglia  attraverso  lo  spazio  e  nulla 
ne  cambia  il  cammino,  gli  uomini  rampano  sulla  sua  superfìcie,  si 
affannano,  si  odiano,  si  uccidono,  e  la  vita  li  riconduce  sempre  e 
presto  su  nuovi  sentieri,  poiché  l'amore,  il  dio  luminoso,  ricostruisce 
senza  pK)sa  ciò  che  l'odio  distrugge. 


NOTIZIA    LETTERARIA  86 

Questo  è  in  breve  il  filo  conduttore,  il  «poetico"  del  romanzo 
della  Tartufari.  Negativo  dunque  nelle  sue  premesse  ed  immediate 
conseguenze  di  scetticismo,  diventa  altamente  positivo  nelle  conse- 
guenze ultime,  in  quanto,  ricostruire  con  gioia  e  con  amore  e  sempre 
più  dolce  e  più  durevol  cosa  che  non  abbattere  con  rabbia.  E  i  per- 
sonaggi che  giocano  attorno  a  questa  nonna,  che  sfilano  sull'esile 
trama  d'amore  di  due  di  essi,  son  gente  che  segue  questa  legge  e 
non  sa,  e,  mentre  crede  di  volger  le  cose  al  proprio  vantaggio,  non 
fa  che  ubbidirvi. 

Il  romanzo  è  un  racconto  di  ambiente  ove  domina  il  materia- 
lismo più  smaccato  e  quattrinaio  del  retro-fronte,  ambiente  di  guerra; 
ma  questa  è  lontana  dai  personaggi;  è  lassù,  fatta  da  quegli  uomini 
in  grigioverde  presso  i  confini,  a  cui  essi  non  n^ano  tutto  l'ossequio 
di  frasi  infiocchettate  di  lodi  e  di  esaltazione,  mentre  che  per  sé 
tengono  altro  pensiero  ed  altro  vivere. 

E  la  gente,  che,  come  dicevo,  vive  del  palcoscenico  e  per  il  pal- 
coscenico, per  cui  tutto  si  riduce  in  una  cifra  o  in  gioiello,  è  gente 
che,  presa  nel  turbinìo  degli  eventi  che  dicono  di  vivere  in  fretta, 
non  può  avere  che  una  vita  interiore  embrionale,  agisce,  vive,  ma 
non  pensa;  forse  perchè  lassù  al  confine  si  vive  troppo  interiormente 
e  si  pensa  e  si  muore  anche  troppo. 

Il  capostazione  di  paesello,  axì  esempio,  che  pieno  di  intelligenza 
e  scarso  di  scrupoli,  giocando  sul  tempo  e  sul  credito,  compra  e  vende 
il  vendibile  e  l'acquistabile,  diventando  in  breve  ricco  a  milioni,  non 
pensa  che  al  suo  denaro,  al  suo  tornaconto,  poco  si  cura  della  moglie 

—  diafana  e  bellissima  figura  di  donna  buona,  condannata  dal  male 

—  pochissimo  del  figlio,  meno  aixx)ra  del  gingillo  di  lusso  borghese 
che  si  è  comprato  per  seconda  moglie  credendo  di  esseme  innamo- 
rato; e  come  lui  le  figurette  di  donnine  esilissime  con  l'anima  nella 
scollatura  del  vestito,  che  gli  si  agitano  intomo,  il  contadino  impe- 
scecanito  e  testardo,  il  tenentino,  figlio  di  pax»,  imboscato  e  stupe- 
fatto. 

E  lassù  si  muore  con  f>assione,  poiché  la  vita  è  tutta  passione  che 
brucia,  di  odio,  di  rabbia,  di  dolore,  e  qui  si  gode  alla  frenesia,  al 
parossismo  per  il  momento  e  per  l'ora,  e  quelli  che  tornano  sanno  e 
vedono  e,  poiché  lassù  balla  «  la  signora  vestita  di  nulla  »  e  qui  le 
signore  svestite  di  tutto;  s'imbrancano  con  esse  sorridendo  amara- 
mente per  tornar  di  nuovo  al  confine,  se  non  soddisfatti,  almeno 
ubriachi  di  un'ora  pazza  e  maliarda. 

Ma  c'è  anche  chi  pensa,  o  meglio,  sente  con  maggiore  intensità 
ed  ha  una  vita  interiore,  simile  a  quelli  che  tornavano  e  partivano 
sconfortati,  ed  è  chi  ama  oltre  il  confine.  L'italiana  che,  fidanzata  a 
un  tedesco  tien  serrato  il  suo  amore  per  il  nemico,  operando  il  bene 
tra  gli  amici,  cerca  di  riprendere,  a  cose  finite,  l'ordito  incominciato 
con  gioia  anni  prima.  Ma  anche  ella  è  stata  immersa  nella  vita  che 
le  turbinava  accanto  e,  se  non  contaminata,  travolta,  ne  è  stata  squas- 
sata nelle  fibre,  nel  suo  stesso  amore  che  ha  cacciato  in  silenzio  giù 
in  fondo  all'animo.  E  quando  si  ritrovano  daccapo,  uno  con  l'orgoglio 
della  razza,  ammaccato  dall'onta,  l'altra  col  ciglio  secco  per  aver 
troppo  serrate  le  lacrime,  non  si  ritrovano  più  e  devono  riconqui- 
starsi. 

E  ciò  mentre  l'odio,  non  più  fra  le  trincee  nemiche,  ma  qui,  in 


86  NOTIZIA   LETTERARIA 

casa,  acceso  tra  chi  vuol  ritenere  senza  stento  e  chi  vuol  prendere 
senza  fatica,  fa  crepitare  le  mitragliatrici  sulle  piazze. 

Queste  anime  tormentate  e  forti,  quest'ambiente  in  fondo  anti- 
patico, ma  sovranamente  vero,  fatto  di  superficialità  e  di  pretese, 
è  reso  alla  perfezione,  penetrato  intimamente  dalla  prosa  svelta, 
agile,  nervosa,  in  cui  l'autrice,  sgombrato  il  campo  da  pesantezze  di 
particolari  descrittivi,  ha  profuso  le  sue  migliori  qualità  di  osserva- 
zione e  di  gusto.  Ella  non  sii  indugia  a  descrivere,  ma  racconta,  non 
si  ferma  a  ragionare  o  riflettere,  ma  vive  con  i  suoi  personaggi,  li 
segue  da  presso,  infilando  a  tratti  una  gugliata  di  umorismo  fine  e 
tagliente,  certe  volte  amaro,  certe  volte  bonario,  ma  sempre  pene- 
trante ed  elevato.  La  realtà  non  la  preoccupa,  la  occupa,  ed  il  ro- 
manzo perciò,  lungi  dall'essere  verista,  riesce  vero,  poiché  l'A.,  con 
quel  paJi-icolar  senso  di  equilibrio  che  la  distingue,  ha  saputo  tener 
corte  le  redini  sui  particolari  e  sfuggire  così  a  tempo  il  brutto  del- 
l'eccessiva verità. 

Forse  l'aver  voluto  camimrnar  si>edita  dietro  i  suoi  personaggi, 
presi  dalla  febbre  del  vivere,  questo  curarsi  poco  della  loro  vita  inte- 
riore, ha  fatto  sì  che  qualcuno  le  sia  uscito  di  mano  un  po'  troppo 
simile  a  macchinetta  e  si  teme  s'abbia  a  vederlo  fermare  in  tronco, 
col  gesto  a  mezz'aria,  se  la  molla  si  spezzi  di  colpo  o  venga  a  man- 
care per  un  accidente  qualsiasi.  E  mentre  vi  sono  figure  di  ombra, 
schizzate  di  passata,  con  calore  e  con  sentimento  tutte  piene  di  poesia 
vera  e  umana,  non  detta  ma  lasciata  intravedere;  altre  invece  di 
primo  piano,  riescono  un  po'  fredde  e  di  disegno  duro.  Era  neces- 
sario del  resto  che  così  fosse,  poiché  queste  appartengono  più  al  poe- 
tico, che  alla  poesia  dell'opra  e  della  vita. 

Tra  poesia  e  sogno  poetico,  intendo,  corre  la  st^sa  relazione  che 
tra  fiamma  ed  alone  —  magnifiche  cose  entrambe  e  meravigliose,  tal- 
volta più  superbo  di  colori  il  secondo  che  la  prima  —  ma  l'essenza, 
la  vita,  è  tutta  lì,  in  quel  misterioso  processo  che  trasforma  la  ma- 
teria in  colore  e  calore;  l'alone  è  altra  cosa,  è  il  riflesso  della  fiamma, 
il  pensiero  e,  come  tale,  ha  leggi  cui  non  si  può  sfuggire,  né  si  deve. 

L'A.  ha  scelto  i  più  bei  colori  dell'alone  e  ne  ha  accettato  e  reso 
tutti  gli  splendori  superando  sé  stessa,  ma  era  mestieri  che  lasciasse 
la  fiamma  in  un  canto,  a  mandare  i  colori  che  le  si  consentivano. 

È  questa  una  peculiare  caratteristica  dell' A.  doppiamente  im- 
portante perchè  donna  e  scrittrice. 

Ella,  autodidatta  e  coltissima,  è  condotta  più  a  cercar©  il  perchè 
delle  cose  e  degli  uomini  che  a  viverne  intensamente  la  vita.  Onde 
è,  che  l'opera  ne  esce  quadrata,  solida,  tutta  improntata  di  forza  di 
I)ensiero,  quasi  maschile  nella  forma  e  nel  contenuto;  e  l'architet- 
tura del  libro,  l'alone,  il  sogno  poetico,  finisce  con  l'imporsi  per  le 
sue  necessità  e  gravare  sui  personag^gi,  lasciando  loro  poco  tempo 
per  sentire  il  calore  della  fiamma. 

Ma  questo  non  conta  e  nulla  toglie  al  valore  indiscutibile  dell'A. 
che  ha  saputo  metterci  innanzi  la  vita  di  ieri  ed  il  suo  pulsar  turbi- 
noso, schiava  sempre  delle  leggi  ineluttabili  che  la  governano;  con 
verità  insuperata,  ripeto,  e  non  con  verismo,  mostrando  con  quale 
magistero  possegga  la  sua  prosa  e  quale  arte  abbia  per  animarla. 

G.  E.  Calapaj. 


TEATRO    E    MUSICA 

GIULIETTA  E   ROMEO 

TRAGEDIA  LIRICA  DI   RICCARDO  2AN DONAI 


Non  SO  bene  se  l'idea  sia  stata  suggerita  da  Rioc«Lrdo  Zandonai 
ad  Arturo  Rossato,  o  se  vi  abbia  questi  pensato,  o  altri  l'abbia  con- 
sigliato :  ad  (^Tii  modo,  avere  attinto  gli  elementi  di  un  libretto  sulla 
tragedia  d'amore  di  Giulietta  e  Romeo  direttamente  dalla  novella  di 
Luigi  da  Porto,  rielaborata  poi  dal  Randello,  facendo  astrazione 
dalla  mirabile  opera  di  Guglielmo  Shakespeare,  era  idea  buona:  se 
non  altro,  dava  modo  di  evitare  i  raffronti  immediati  con  i  molti 
spartiti,  inspirati  dalla  trama  scenica  shakespeariana;  e  in  questi  la 
geniale  ricchezza  dell'originale  è  fatalmente  alterata  e  distrutta  nel 
necessario  schematismo  del  melodramma,  per  cui  devesi  rinunziare 
a  molti  personaggi  ed  episodi  caratteristici,  cosicché  appare  monco 
e  insufficiente  il  disino  drammatico  e  lo  svolgimento  scenico  del 
libretto  per  chiunc[ue  abbia  presente  il  testo  dello  Shakespeare.  Ma 
se  il  libretto  del  Rossato  merita  questa  lode,  ciò  non  significa  che 
possa  dirsi  un  buon  lavoro:  tutt'altro;  e  questo  non  soltanto  perchè 
la  stupenda  creazione  del  grande  poeta  inglese  ha  valore  definitivo 
e  non  possiamo  quindi  facilmente  sentirci  soddisfatti  da  una  diffe- 
rente stesura  :  ma  anche  perchè  manca  di  intima  efl5cacia  e  non  pre- 
senta organismo  saldo  e  sano.  Scomparsi  i  personaggi  principali  e 
secondari  della  tragedia,  essendo  assommati  nel  solo  Tebaldo  tutti 
i  Capuleti  (sono  restati  i  nomi,  non  le  vive  persone  di  Gregorio  e 
di  Sansone),  e  in  un  solo  Montecchio  l'intero  parentado  di  Romeo; 
eliminate  figure  notevoli  come  frate  Lorenzo,  la  ineffabile  nutrice, 
Renvolio,  il  vivace  Mercutio,  i  genitori  di  Giulietta,  il  padre  di 
Romeo;  troviamo  invece  nuovi  personaggi,  come  Isabella,  fante  di 
Giulietta,  un  Cantatore,  un  banditore,  un  Remabò  i>adrone  di  scu- 
deria; tipi  incolori,  che  male  sosiituiscono  gli  scomparsi,  animati 
dal  genio  possente  dello  Sheikespeare. 

Anche  l'amorosa  passione  dei  due  giovani,  così  ricca  di  ardente 
e  sana  sensualità,  assume  un  carattere  ibrido,  tra  inamidato  e  con- 
venzionale, di  un  sentimentalismo  borghese,  quasi  da  olec^rafia. 
Pare  che  il  librettista  abbia  ceduto  a  quel  superficiale  simbolismo 
di  maniera,  che  considera  emblema  di  castità  le  colombe,  mentre 
quelle  graziose  bestiole  hanno  tendenze  ben  differenti.  E  tutto  quel- 
l'animato mondo,  riboccante  di  vitalità,  di  altissima  poesia,  di  au- 
dacie per  cui  si  è  scandalizzato  quache  pudibondo  critico  tedesco 


88  TEATRO   E    MUSICA 

o  scandinavo,  incapace  di  sentire  e  apprezzare  la  sincerità  scevra  da 
ipocrisie  che  l'antichità  classica  ha  tramandato  allo  spirito  italico, 
Bi  è  dileguato,  per  cedere  il  posto  ad  un  villanissimo,  bestiale  indi- 
viduo, che  nemmeno  ha  la  scusa  di  esser  geloso  (infatti  Tebaldo  si 
compiace  di  annunziare  alla  cugina  che  essa  dovrà  sposare  un  conte 
di  Lodrone);  e  ad  uno  sciame  di  fanciulle  incolori,  che  giocano  al 
torchio,  giuoco  insipido  e  scimunito  quanto  mai;  e  tutti  parlano  un 
linguaggio  che  vuol  essere  arcaico  ed  è  soltanto  artificioso. 

Il  primo  atto  si  svolge  in  una  piazzetta  in  Verona;  vi  sono  due 
osterie:  in  una  si  adunano  i  Gapuleti,  nell'altra  i  Montecchi.  Tebaldo 
incita  i  primi  a  stare  in  guardia,  e  si  allontana  con  un  gruppo  di 
maschere  che  si  recano  al  palazzo  dei  Gapuleti,  in  cui  si  danza:  i 
Montecchi  cantano  in  coro  una  canzone  alquanto  sguaiata,  ed  escono 
dall'osteria  con  ima  donna,  che  va  proprio  a  passare  sotto  il  naso 
dei  Gapuleti,  tanto  per  dar  pretesto  ad  una  rissa  fra  i  due  gruppi. 
Mentre  la  zuffa  è  impegnata  e  tumultuosa,  un  uomo  mascherato 
interviene  e  fermi,  tutti,  dominando  semplicemente  quel  putiferio 
con  la  voce  :  ma  ecco  Tebaldo,  sempre  inferocito,  a  rinfocolare  le  ire, 
calmate  questa  volta  dall'annunzio  che  giunge  la  scolta  :  e  tutti  fug- 
gono a  gambe  levate.  Resta  solo  Romeo  (è  il  mascherato);  Giulietta 
si  affaccia  al  balcone  :  scena  d'amore  :  scalata  di  Romeo  alla  finestra, 
per  discendere  presto  (è  vicina  l'alba)  dopo  interruzione  per  il  pas- 
saggio delle  maschere  essendo  finita  la  festa:  raggio  di  luna  e  co- 
retto interno;  Romeo  allontanandosi  manda  un  bacio  a  Giulietta,  in- 
vestita da  un  raggio  del  sole  nascente. 

Il  secondo  atto  è  nel  cortile  del  palazzo  dei  Gapuleti  :  Giulietta 
e  le  fanti  giuocano  al  torchio  e  pare  si  divertano  un  mondo:  beate 
loro!  Ma  ecco  Tebaldo,  il  quale,  con  la  solita  intonazione  d'uomo 
gratuitamente  maleducato,  dice  a  Giulietta  (dopo  allontanate  le  fanti) 
una  massa  di  male  parole,  annunziandole  il  maritaggio  combinato 
dal  padre  di  lei,  per  il  giorno  seguente:  Giulietta  protesta  e  svela 
aver  giurato  fede  di  sposa  a  Romeo.  Una  fiera  zuffa  fra  Gapuleti  e 
Montecchi,  che  si  svolge  dietro  le  quinte,  obbliga  ad  allontanarsi 
Tebaldo,  che  ritiene  potere  abbattere  Romeo.  Ma  questi  è  nelle  stanze 
di  Giulietta:  essa  lo  fa  venire  in  cortile  (imprudente!  perchè  non 
andar  lei  in  casa?)  per  dirgli  che  è  disposta  a  fuggire  con  lui  :  ma 
toma  d'improvviso  con  la  spada  in  pugno  Tebaldo,  che  ha  sorpreso 
Isabella  mentre  faceva  la  guardia  (non  molto  bene,  a  quel  che  pare) 
agli  sposi  amanti:  solite  insolenze  villane,  finché  Romeo  perde  la 
pazienza,  snuda  la  spada:  i  due  si  battono  e  Tebaldo  cade.  Invasione 
di  Gapuleti,  che  portano  via  il  cadavere,  imprecando  contro  l'ucci- 
sore, che  è  lì,  ma  nessuno  lo  vede.  Partiti  tutti.  Isabella  suggerisce 
a  Giulietta  il  narcotico  che  la  farà  creder  morta,  e  le  permetterà  di 
fuggire  con  Romeo. 

La  prima  parte  del  terzo  atto  è  a  Mantova,  mentre  l'avvicinarsi 
di  un  temporale  fa  allontanare  la  folla  raccolta  per  una  Sagra: 
giunge  un  cantore,  il  quale  canta  un  lamento,  allora  appreso  dai 
suoi  colleghi  di  Verona,  in  morte  di  Giulietta.  Romeo,  che  è  in  attesa 
del  ritomo  di  un  famiglio  con  novelle  da  Verona,  getta  un  grido  terri- 
bile; afferra  il  cantore  e  vuole  da  lui  più  complete  notizie;  e  gli  fa  ri- 
petere il  canto  di  morte.  Ecco  anche  il  famiglio  a  rinarrare  la  fine 
della  fanciulla  :  Romeo  chiede  il  suo  cavallo,  balza  in  sella  e  cavalca 


TEATRO   E    MUSICA  89 

in  furia  verso  Verona,  mentre  la  bufera  imperversa.  Si  riapre  il  ve- 
lario, quando  il  temporale  si  placa:  appare  il  chiostro  del  convento, 
ove  è  la  cappella  dei  Gapuleti  :  in  essa,  distesa  sopra  un'arca.  Giu- 
lietta, che  par  morta.  Romeo  esprime  tutto  il  suo  amore,  tutto  il  suo 
strazio:  chiama  a  gran  voce  l'adorata  sposa,  e  ingoia  il  veleno  che 
deve  unirlo  a  lei  nella  morte  :  ed  ecco  il  risveglio  della  fanciulla,  la 
quale  si  slancia  verso  il  suo  amore,  fremente,  gioiosa.  Ma  il  veleno 
compie  l'opera  sua,  lentamente,  sì,  ma  irrimediabilmente:  suonano 
campane,  si  levano  canti  religiosi  dal  chiostro,  canti  d'amore  dalla 
via,  mentre  Romeo  seguita  a  sentire  gli  effetti  del  veleno;  Giulietta 
esprime  la  sua  disperazione,  presa  da  un  delirio  pio,  e  Romeo  con- 
tinua a  soffrire  e  contorcersi;  ancora  si  riodono  le  voci  dal  chiostro  e 
dalla  strada,  finché  Romeo  riesce  a  morire:  Giulietta  lo  imita,  colta 
da  misterioso  malore  :  e  cala  la  tela. 

* 
•  • 

Se  il  libretto  di  Giidietta  e  Romeo  non  è  gran  cosa,  ha  però  in 
sé  ben  chiari  i  due  fondamentali  elementi  drammatici  e  sentimentali 
il  cui  contrasto  ha  attirato  sopra  tutto  l'attenzione  dei  molti  musi- 
cisti che  hanno  voluto  trattare  questo  soggetto,  scorgendovi  viva  fonte 
di  espressività  intima  ed  esterna,  di  lirismo  e  di  teatralità  :  l'odio 
accanito  delle  due  famiglie  rivali  —  l'amore  ardente  dei  due  giovani 
che  alle  due  famiglie  appartengono.  Non  è  mio  compito  indagare 
quale  sarebbe  stato  il  mezzo  migliore  per  determinare  musicalmente 
tale  contrasto  :  né  penso  sarebbe  stato  consigliabile  per  un  musicista 
italicino  porsi  nelle  strettoie  di  un  sistema  che  potrebbe  apparire 
atto  a  riprodurre  materialmente,  plasticamente  la  lotta  affannosa 
delle  due  opposte  tendenze:  il  sistema  strettamente  tematico  wagne- 
riano; piuttosto  poteva  pensarsi  ai  ricorsi  melodici  di  tipo  italiano, 
quali  usò  con  tanta  efficacia  Giuseppe  Verdi.  Però  Riccardo  Zajidonai 
non  ha  delineato  con  tutta  la  desiderabile  forza  significativa  il  con- 
trasto profondo  che  anima  la  passionale  vicenda  degli  amanti  di  Ve- 
rona :  sembra  che  il  fecondo  maestro,  sicuro  di  sé  per  la  sua  meravi- 
gliosa padronanzia  di  ogni  mezzo  di  espressione  sonora,  per  la  faci- 
lità prodigiosa  della  sua  penna,  abbia  affrontato  quasi  d'improvviso 
il  lavoro  di  elaborazione  musicale,  seguendo  e  commentando  il  li- 
bretto dal  principio  alla  fine,  sotto  l'immediato  impulso  delle  singole 
posizioni,  delle  successive  manifestazioni  di  pensiero,  di  sentimento, 
di  azione  :  sembra  non  abbia  accolto  in  sé,  prima  di  porsi  al  lavoro, 
ed  evocato  sinteticamente  le  energie  vitali,  fondamentali  del  dramma, 
immaginando,  creando  nuclei  centrali  cui  far  capo  e  da  cui  irradiare 
ogni  attività  sentimentale  e  scenica. 

Si  può  obiettare  che  le  violente  espressioni  di  Tebaldo  sono  sot- 
tolineate da  un  rapido  tratto  ritmico  (una  terzina  discendente  per  se- 
mitoni), che  riappare  in  altri  momenti,  quasi  debba  rappresentare 
il  substrato  dell'odio  tra  Gapuleti  e  Montecchi  :  ma  non  ha  davvero 
la  consistenza  e  la  forza  significativa  necessarie  per  assumere  sif- 
fatto carattere;  e  ancor  meno  ha  sensibile  valore  qualche  disegno 
ritmico  che  appare  e  riappare  nelle  scene  d'amore;  né  può  assurgere 
alla  efficacia  di  un  simbolo,  e  di  simbolo  di  così  grande  passione.  Se- 
guendo lo  svolgimento  dello  spartito,  si  può  meglio  scorgere  la  man- 


90  TEATRO   E    MUSICA 

canza  di  essenziali  punti  d'appoggio  sui  quali  imperniare  l'opera 
d'arte  perchè  raggiunga  organicità  perfetta;  di  temi  eloquenti  e  fe- 
condi da  cui  possano  scaturire  fremiti  di  vita. 

Le  prim*  scene  del  primo  atto  non  mancano  di  animazione  :  tut- 
tavia non  può  dirsi  che  la  ^musica  che  giunge  dal  palazzo  mentre 
fervono  le  danze,  abbia  festosità  o  brio;  né  che  abbiano  giocondità  i 
vocalizzi  delle  maschere  che  traversano  la  piazza.  Indovinata  è  in- 
vece la  canzone  intonata  nell'osteria  dei  Montecchi,  canzone  carat- 
teristica nella  voluta  sua  volgarità;  animata  è  la  scena  della  baruffa; 
ben  sentito  il  contrasto  fra  Romeo  invocante  pace  e  Tebaldo  rab- 
bioso; dopo  il  passaggio,  piuttosto  funebre,  della  scolta,  si  svolge 
largamente  il  dialogo  amoroso  tra  Giulietta  e  Romeo  :  la  musica  pro- 
cede per  episodi  delicati,  elegantemente  svolti,  molto  melodici  :  non 
vi  sono  gli  slanci  materiati  di  émioroso  lirismo,  non  gli  scatti  passio- 
nalmente trascinanti,  che  di  momento  in  momento  si  attendono  e 
sperano,  quale  l'amore  fervido  dei  due  giovani  sembra  promettere: 
la  scena  offre  spunti  notevoli,  che  non  giungono  però  a  destare  vera 
conmiozione  nel  nostro  animo,  benché  ne  sia  innegabile  la  nobile 
espressione  :  in  fine  buon  effetto  delle  voci  lontane  che  intonano  uno 
stornello,  effetto  cui  nello  spartito  si  ricorre  con  qualche  insistenza, 
fino  a  sembrare  una  ricercatezza  romanticamente  manierata. 

Il  secondo  atto  si  apre  con  una  scena  primaverile,  in  cui  il  gaio 
sciame  femminile  che  circonda  Giulietta  svolge  il  giuoco  del  torchio, 
giuoco  che  sembra  diverta  molto  quelle  brave  figliuole,  ma  non  in- 
teressa eccessivamente  lo  spettatore,  e  che  si  prolunga  alquanto,  con 
un  commento  musicale  spezzato  un  po'  affannosamente;  sembra  che 
nemmeno  il  musicista  sia  profondamente  convinto  del  vero  signifi- 
cato e  della  portata  di  questo  giuoco;  é  rimasto  freddo  e  fredda  è  la 
sua  musica.  La  brutalità  urtante  di  Tebaldo,  nella  sua  scena  (o  sce- 
nata) con  Giulietta,  si  esplica  con  accenti  musicali  sonori,  fragorosi 
più  che  robusti  :  e  il  solo  episodio  in  cui  un  senso  di  dolcezza  si  dif- 
fonde, nel  ricordare  che  egli  fa  del  tempo  della  fanciullezza  vissuto 
con  la  cugina,  si  espande  in  un  sentimentalismo  alquanto  superfi- 
iciale,  come  se  si  trovassero  a  disagio  certe  espressioni  gentili  in  una 
bocca  usa  soltanto  a  sgarbate  violenze.  Ed  ecco  l'eco  di  una  nuova 
baruffa;  una  breve  soena'sentimentale  tra  i  due  amanti;  un  dialogo 
a  contrasto,  che  richiama  alla  mente  quello  del  primo  atto,  pure  tra 
Romeo  e  Tebaldo;  il  duello;  la  partenza  di  Romeo  e  l'accenno  al 
narcotico  che  farà  apparir  morta  Giulietta.  L'atto  è  scenicamente 
movimentato,  più  del  precedente;  e  i  brevi  periodi  di  stasi  valgono 
a  dar  risalto  alla  agitazione  degli  altri  episodi.  Nel  complesso  però^ 
il  secondo  atto  appare  musicalmente  più  debole  del  primo  sotto  l'a- 
spetto dell'invenzione,  sebbene  i  colori  orchestrali  siano  vivaci  e 
densi. 

Nel  terzo  atto,  dopo  la  scena  corale,  spezzata  da  brevi  episodi, 
sorge  il  lamento  del  Cantatore  per  la  morte  di  Giulietta;  canto  sem- 
plice, spontaneo,  commovente:  melodia  di  carattere  vagamente  po- 
polare, affettuosa,  signiificativa,  che  si  riode  ben  volentieri  per  rin- 
novare una  sensazione  gentile  ed  eloquente.  Ed  ecco  l'intermezzo 
sinfonico:  Romeo  balza  sul  cavallo  e  corre  a  Verona  mentre  infuria 
la  bufera:  pagina  orchestrale  robusta  e  irruente,  anche  se  dia  l'im- 
pressione del  procedere  un  po'  pesante  di  un  plotone  di  cavalleria 


TEATRO   E    MUSICA  91 

anziché  di  dtie  soli  cavalieri,  tanto  è  fréigorosa  e  densa.  La  mente 
non  può  a  meno  di  ricordare  la  meravigliosa  corsa  all'abisso  nella 
Dannazione  del  Berlioz,  che  produce  così  profonda  impressione  con 
tanta  semplicità  di  mezzi.  La  cavalcata  dello  Zandonai  si  inizia  con 
tale  intensità  sonora  da  non  potere,  procedendo,  acquistarne  di  più  : 
e  allora  sembra  quasi  vada  perdendo  vigore:  le  voci  che  chiamano 
dolorosamente  Giulietta,  sono  troppo  umane  nella  realizzazione  mu- 
sicale, e  non  possiamo  considerarle,  come  vorrebbe  il  librettista, 
voci  del  cuore  di  Romeo,  del  vento,  del  tuono;  non  «  la  tempesta,  il 
cielo  e  la  terra,  gridano  il  nome  disperato  »,  ma  una  moltitudine  che 
esclama  «  Giulietta  mia  »,  al  pari  di  Romeo,  con  non  lieve  strazio 
della  buona  reputazione  di  quella  poveretta:  l'anima  inferocita  di 
Tebaldo  pare  abbia  imma^nato  simile  offesa.  Al  turbinìo  della  tem- 
pestosa cavalcata,  segue  la  malinconia  accorata  del  chiostro  funereo  : 
il  lamento  di  Romeo,  il  risveglio  di  Giulietta,  lo  strazio  della  duplice 
morte.  E  qui  il  musicista  ha  voluto  carezzosamente  plasmare  i  pal- 
piti dei  due  cuori  amorosi,  ha  voluto  lumeggiare  i  pensieri  delle  due 
menti  straziate,  avvolgere  in  un  velo  d'oro  le  due  anime  che  amore 
terrà  unite  in  etemo  :  e  si  è  indugiato  nella  ricerca  di  espressioni  do- 
lorosamente flessibili,  in  cui  si  uniscano  in  un  indissolubile  nodo 
amore  e  morte.  Ma  non  ha  trovato  il  grido  sublime,  degno  dell'alta 
tragedia;  non  il  fremito  profondo  che  squassa  i  due  esseri  travolti 
da  un  fato  inesorabile  :  forse  troppo  ha  voluto  dicessero  il  librettista, 
e  troppo  ha  fatto  dir  loro  il  musicista  :  stringendo,  sintentizzando,  le 
espressioni  si  eleverebbero  e  purificherebbero  :  e  gli  accenti  di  morte 
dei  due  innamorati  giovani  potrebbero  levarsi  con  purezza  e  inten- 
sità avvincenti,  se  più  rapidi  e  semplici  e  liberi  dalle  aggiunzioni 
esteme  dei  cori  sacri  e  profani,  ideati  al  solo  scopo  di  un  effetto  sen- 
timentale, che  però  turba  la  tragica  purezza  della  morte  amorosa. 


Riccardo  Zandonai  ha,  con  questo  nuovo  spartito,  confermato 
la  sua  magistrale  forza  fattiva,  di  musicista  nobile,  sicuro,  pode- 
roso: soltanto  confermato,  perchè  Giulietta  e  Rom^o  non  segna  un 
passo  innanzi  nella  sua  vita  artistica.  Ho  assistito  al  nascere  di  tutti 
i  suoi  spartiti  :  e,  oltre  la  soddisfazione  di  potere  apprezzare  una  così 
lieta  fioritura  di  opere  d'arte,  ho  potuto  affermare  ogni  volta  che  il 
maestro  fecondo  e  sicuro,  aveva  avuto  una  limpida  visione  dell'o- 
pera d'arte  :  ogni  suo  spartito,  pur  dimostrandosi  frutto  della  mede- 
sima pianta  robusta,  aveva  un  suo  significato,  un  suo  carattere,  un 
suo  colore  :  dal  Grillo  del  focolare  si  differenzia  profondamente  Cow- 
chita;  e  da  essi  nettamente  si  allontanano  Melaenis,  Francesca  da 
Rimini,  La  ma  della  finestra  :  sono  tutti  figli  dello  stesso  padre,  sani 
e  ben  formati  :  ma  ciascuno  di  essi  ha  una  fisonomia  ben  distinta. 
Ora  ciò  non  si  verifica  per  Giulietta  e  Romeo  :  il  nuovo  spartito  non 
si  differenzia  dalla  Francesca  da  Rimini  né  per  struttura,  né  per  co- 
lore, né  per  indirizzo  dramanatico,  né  per  tipo  melodico:  Giulietta 
é  troppo  sensibilmente  sorella  di  Francesca,  e,  bisogna  riconoscerlo, 
sorella  minore.  In  essa  si  ritrovano  tutti  i  pregi  di  fattura  e  di  espres- 


92  TEATRO   E    MUSICA 

sione  della  maggior  sorella,  col  difetto  fondamentale  della  ripetizione 
di  una  uguale  manifestazione  estetica:  non  è  davvero  un  passo  in- 
dietro; ma  neppure  è  un  passo  avanti  :  e  da  Riccardo  Zandonai  que- 
sto attendevamo.  Ma  egli,  nella  sua  equilibrata  e  organica  potenzia- 
lità, saprà  trovare  facilmente  nuove  parole  con  nuovo  soggetto;  e, 
meditandoci  sopra,  senza  aver  troppa  fretta,  ci  darà  quella  nuova  con- 
cezione d'arte  che  ben  sappiamo  che  egli  può  offrirci . 

Giorgio  Barini. 

La  prima  rappresentazione  di  Giulietta  e  Bomeo  (14  febbraio  1922,  Tea- 
tro Codtanzi  -  Roma)  è  stata  allestita  e  diretta  dall'autore,  ammirabilmente 
coadiuvato  dal  comm.  Carlo  Clausetti  per  la  preparazione  scenica.  Ha  avuto 
esecutori  eccellenti  Gilda  Dalla  Rizza^  Giulietta  ideale  per  azione,  canto,  voce, 
figura  ;  Michele  f  leta,  Romeo  eccellente,  che  ha  saputo  con  gli  splendidi  mezzi 
vocali  e  la  giovanile  foga,  dar  vita  alla  figura  dell'innamorato  giovane,  al- 
quanto immiserita  dal  librettista;  Carmelo  Maugeri,  Tebaldo  rabbiosLasimo, 
dalla  voce  solida,  dall'accento  incisivo;  il  Nardi,  prezioso  interprete  di  un 
Montecchio  e  del  Cantatore.  Il  maestro  Consoli  ha  istruito  in  modo  eccellente 
la  massa  corale,  il  cui  compito  è  nel  nuovo  spartito  di  grande  responsabilità 
e  difficoltà.  Orchestra  diligente,  sicura,  omogenea,  vigorosa  ed  elegante.  Alle- 
stimento scenico  e  costumi  alquanto  discutibili  ;  ma  ben  curati.  Movimenti  di 
attori  e  masse  ben  riusciti,  animati  ed  equilibrati.  Il  primo  atto  ebbe  le  più 
calorose  accoglienze,  come  era  giusto  ;  il  secondo  lasciò  l'uditorio  un  po'  freddo, 
e  non  pienamente  convinto;  il  terzo  atto  interessò  e  fu  gustato  assai  nella 
prima  parte  e  sopratutto  nell'intermezzo  orchestralo;  l'ultima  parte  stancò 
alquanto  per  la  sua  prolissità  non  avvivata  da  vero  fuoco  di  inspirazione:  ma 
non  mancarono  applausi,  che  salutarono  lietamente  l'autore  e  i  suoi  coope- 
ratori. 


NOTIZIE,  LIBRI  E  RECENTI  PUBBLICAZIONI 


ITALIA 

£  imminente  la  pubblicazione  in  un  nitido  elegante  volume  su  carta  ve- 
lina, d'oltre  mille  pagine,  di  tutte  le  Poesie  di  Arturo  Graf.  Editrice  la  nota 
Casa  Giovanni  Chiantore  di  Torino,  Successore  di  Ermanno  Loescher. 

—  Per  celebrare  il  centenario  dantesco  l'Istituto  storico  Italiano,  un  po' 
in  ritardo  per  ragioni  tipografiche,  pubblicherà  dentro  marzo  un  numero  del 
suo  Bollettino  contenente  solo  articoli  danteschi.'  Ekx^one  il  sommario:  6.  Bi- 
scaro:  Dante  a  Havenna;  F.  Torraca:  Il  fiore;  R.  Morghen:  Dante,  il  VH- 
lari  e  B.  Malispini;  P.  Fedele:   L'attentato  d'Anagni. 

—  CJol  titolo  di  Biographia  la  Casa  Editrice  «  Scienza  ed  Arte  »  inizierà  la 
pubblicazione  di  una  vastissima  raccolta  di  biografie  di  tutte  le  persone  illustri 
del  mondo  contemporaneo  nonché  dell'antichità.  La  raccolta  sarà  illustrata  da 
disegni,  tavole  in  nero  e  a  colori  e  carte  geografiche,  secondo  lo  richiederanno 
le  circostanze.  Le  biografie  saranno  scritte  da  competenti  e  corredate  da  docu- 
menti come  pure  da  copiose  bibliografie. 

—  Con  quest'anno  si  è  cominciata  a  pubblicane  a  Cagliari  una  nuova 
rivista:  La  Bivista  militare  italiana,  che  si  propone  di  contribuire  alla  for- 
mazione della  coscienza  militare  in  Italia. 

—  L'Accademia  «  Scienza  ed  Arte  »  di  Trieste,  ha  organizzato  un  corso  di 
Teoria  degli  elettroni,  che  fu  tenuto  dall'illustre  studioso  di  problemi  cosmici, 
prof.  dott.  Giorgio  Ravasini  di  Buie  d'Istria,  noto  per  la  sua  scoperta  dell'auto- 
catalisi  e  l'altra  sulle  fasi  evolutive  d,ella  materia.  Il  corso  è  terminato  verso 
la  metà  del  mese  scorso. 

—  Il  Circolo  universitario  di  studi  storico-religiosi,  sorto  in  Roma  un  anno 
fa,  con  l'intento  di  incoraggiare  gli  studi  religiosi  in  Italia,  ha  organizzato  per 
quest'anno  un  ciclo  di  conferenze,  tenute  tutte  da  professori  universitari,  su 
La  preghiera  nelle  grandi  religioni.  Tutto  il  ciclo  sarà  poi  stampato  in  volume. 
H  prof.  N.  Turchi  ha  inaugurato  il  ciclo  con  una  dotta  conferenza  su  Mito 
e  Bito  nella  religione.  Il  2  gennaio  E.  Buonaiuti  ha  pronunciato,  di  fronte 
a  foltissimo  pubblico  che  ha  seguito  oon  grandissimo  interesse  l'affascinante 
parola  òel  geniale  oratore,  la  prima  conferenza  sul  tema:  La  preghiera  nei' 
Cristianesimo  primitivo.  Seguirono  poi:  il  16  gennaio,  N.  Turchi  sulla  Pre- 
ghiera nelle  religioni  classiche;  il  30  gennaio,  G.  Levi  della  Vida  sulla  Pre- 
ghiera nella  religione-  d'Israele;  il  13  febbraio  C.  Formichi  sulla  Preghiera  nel 
Buddismo,  e  il  27  scorso  G.  Tucci,  sulla  Preghiera  nelle  religioni  dell'estremo 
oriente. 

—  Fra  le  tante  riviste  sorte  col  nuovo  anno  diamo  notizia,  fra  le  altre, 
di  due:  Aperusen  e  Levana.  La  prima  è  una  rivista  di  cultura  e  di  letteratura 
edita  a  Foligno,  e  vorrebbe  divenire  quasi  una  guida  per  tutte  le  persone  colte 
attraverso  la  cultura  e  la  letteratura  contemporanea.  La  seconda  è  una  rivista 
di  studi  pedagogici  diretta  da  E.  Codignola  e  edita  da  Vallecchi  di  Firenze.  Si 
pubblicherà  ogni  tre  mesi  in  un  fascicolo  di  100  pagine  e  conterrà  le  seguenti 
rubriche:  La  vita  della  scuola  in  Italia  e  all'Estero  -  Varietà  -  Recensioni  - 
Note  ed  appunti  -  Schermaglie  -  Fra  libri  e  riviste. 

—  In  questi  giorni  si  è  pubblicato,  sotto  gli  auspici  di  enti  pubblici  e  privati. 
Il  mondo  a  Dante,  grande  fascicolo-ricordo  del  seoentenario  Dantesco.  Questa 
ricca  pubblicazione  raccoglie  tutti  gli  avvenimenti  dedicati  a  Dante  in  Italia  e 
all'Estero.  Non  un  nome,  non  un  paese  sono  stati  trascurati.  A  questa  impo- 


94  NOTIZIE,    LIBRI    E    RECENTI    PUBBLICAZIONI 

nente  cronistoria  vanno  uniti  scritti  di  Boselli,  D'Ovidio,  Del  Lungo,  Barsilai, 
Chiappelli  e  di  altri  eminenti  dantisti,  illustrati  da  innumerevoli  incisioni. 

—  Tra  le  novità  letterarie  più  interessanti  che  la  Casa  Editrice  Monda- 
dori pubblica  in  questo  principio  di  anno  —  oltre  le  Memorie  di  un  depu^ 
tato  di  Ettore  Janni,  già  apparse  in  parte  sopra  una  nota  rivista  ed  ora 
integralmente  raccolte  in  volume  —  sono  due  romanzi  di  vita  contemporanea 
della  più  viva  attualità:  Il  padrone  sono  me  di  Alfredo  Fanzini  e  II  Cavalier 
Mostardo  di  Antonio  Beltramelli.  —  Nei  primi  giorni  di  febbraio  è  tiscit*  il 
nuovo  romanzo  di  Alfredo  Testoni  intitolato  II  romanzo  della  signora  Catta- 
Teina.  La  pop>olare  eroina  dei  famosi  sonetti  bolognesi  narra  in  questo  volume 
le  proprie  memorie,  tracciando  un  quadro  pieno  di  bonario  umorismo  della  vita 
bolognese  degli  ultimi  trent'anni.  —  G.  A.  Borgese  ha  consegnato  in  questi 
giorni  all'fMitore  Mondadori  il  manoscritto  di  un  volume  di  poesie  intitolato 
La  giovinezza,  in  cui  sono  raccolte  liriche  scritte  dal  1914  al  1921,  le  quali  pos- 
sono considerarsi  come  un  commento  lirico  al  romanzo  2?u6é  che  G.  A.  Bor- 
gese ha  pubblicato  la  primavera  scorsa.  —  Fragilità  è  il  titolo  di  un  nuovo  vo- 
lume di  novelle  di  Virgilio  Brocchi,  che  vedrà  la  luce  al  più  presto  e  di  cui 
la  Nuova  Antologia  spera  di  dare  ai  suoi  lettori  una  primizia.  Virgilio  Broc- 
chi lavora  attualmente  ad  un  nuovo  romanzo:  Il  destino  in  pugno,  che  si  ricol- 
lega all'ultima  sua  opera:  Il  posto  nel  mondo.  Sono  annunciati,  per  la  prossima 
primavera,  romanzi  nuovi  di  Ada  Negri,  Marino  Moretti,  Michele  Saponaro, 
Umberto  Fracchia,  Mario  Puccini,  Nicola  Moscardelli,  nonché  un  nuovo  vo- 
lume di  poesie  di  Corrado  Covoni:  Il  quaderno  dei  sogni  e.  delle  stelle,  e  un 
volume  postumo  inedito  di  Federigo  Tozzi,  col  quale  la  Casa  Editrice  Monda- 
dori inizierà  la  raccolta  completa  delle  opwre  del  compianto  scrittore  senese. 
—  La  rivista  Novella  bandisce,  nel  suo  primo  numero  di  gennaio,  un  concorso 
per  una  novella  che  abbia  come  protagonista,  o  in  primo  piano  fra  i  suoi  per- 
Bonaggi,  un  bambino.  Offre  premi  per  oltre  3000  lire. 

—  La  poesia  dialettale  sarà  arricchita,  prossimamente,  di  due  nuovi  vo- 
lumi dei  quali,  data  la  grande  popolarità  dei  loro  autori,  è  viva  l'attesa  nel 
pubblico:  Le  cose  di  Trilussa,  e  II  nuovo  Can-zoniere  Veronese  di  Berta  Bar- 
barani. 

—  A  Comegliano  Veneto  si  è  epenta  donna  Maria  Dell'Ongaro-Cocuzzi 
nipote  del  poeta  patriota  Francesco  Dall'Ongaro. 

—  F.  Zandonai  terminata  e, portata  in  porto  l'opera  Giulietta  e  Rom^o, 
si  accinge  a  musicare  I  Marmorari  di  Svezia,  soggetto  trecentesco  preparato 
dal  poeta  Ottone  Schanzer. 

—  Il  ministro  Della  Torretta  ha  bandito  un  concorso  a  premio  per  un 
libro  di  lettura  ad  uso  delle  scuole  elementari  italiane  all'estero.  Il  premio  sarà 
di  10,000  lire  e  il  concorso  si  chiuderà  il  30  settembre  1923. 

—  Francesco  Sapori,  l'autore  de  La  Trincea,  di  Terrerosse,  de  La  pace 
degli  an'geli,  ha  consegnato  alla  Casa  Editrice  Mondadori  il  suo  nuovo  romando 
dal  titolo:   Delitto.  Il  libro  sarà  pubblicato  il  primo  di  marzo. 

Appunti  di  diritto    cnstitnzionale  di  GAETANO  MOSCA,  tersa  edizione.  — 
Milano,  Soo.  Editr.  Libr.,  1921. 

La  terza  edizione  del  manuale  del  Mosca  non  presenta  modifiche  so- 
stanziali di  fronte  alle  due  precedenti:  ma  n'è  l'aggiornamonto  diligente  e 
preciso,  ohe  tiene  conto  non  solo  di  tutte  le  recenti  leggi,  ma  dello  stosse  pro- 
poste e  disegni  di  leggo  aventi  qualche  importanza  pel  diritto  costituzionale. 
È  conservata  la  divisione  del  libro  in  due  parti  :  la  prima,  intitolata  La  genesi 
delle  costituzioni  moderne,  ov'è  dato  molto  luogo  alla  evoluzione  ed  ai  pro- 
gressi del  diritto  costituzionale  inglese  dalle  origini  al  regno  di  Giorgio  IV  ;  la 
seconda,  Lo  Statuto  Albertino,  ch'è  l'esposizione  sistematica  del  diritto  costi- 
tuzionale oggi  vigente  in  Italia:  particolarmente  accurati  e  diffusi,  in  questa 
parte,  i  paragrafi  dedicati  al  Parlamento.  Nell'insieme  gli  Appunti  raggiun- 
gono pienamente  uello  che  l'A.  dichiara  suo  scopo:  «fornire  alle  persone  di 
media  cultura  informazioni  precise  sui  punti  fondamentali  delle  istituzioni  che 
ci  reggono  ». 

La  ▼igiene  greca  delift  vita  di  A.  TILGHER.  Quaderni  di  Bilychnis,  n.  6,  1922. 

Con  la  perspicuità  e  la  potenza  di  sintesi  che  lo  distingue,  il  Tilgher  ci 
ha  dato  in  questo  volumetto  un  enunciazione  chiara  ed  acuta  di  quel  che  rap- 


I 


NOTIZIE,    LIBRI   E   RECENTI    PUBBLICAZIONI  95 

presenta  il  pensiero  greco  nello  sviluppo  di  tutto  il  pensiero  umano  nella  storia. 
Conoscitore  profondo  del  pensiero  greco,  quale  ci  si  era  da  tempo  rivelato 
nel  suo  volume  sui  Filosofi  antichi  edito  dall' «  Atanor  »  di  Todi,  l'autore  esa- 
mina le  caratteristiche  più  salienti  della  concezione  filosofica  della  vita  neUa 
Grecia  antica,  fissandone  i  vari  momenti  ed  aspetti,  nella  concezione  imma- 
nentistica dell'Eterno  ritomo,  nel  dualismo  fra  l'essere  e  il  non  essere  che  la 
informa,  nel  peòs^imismo  che  da  questa  visione  doveva  derivare  e  nelle  forme 
d'ascetismo  che  caratterizzarono  l'ultimo  periodo  della  filosofia  greca.  Seguono 
poi  quattro  interessanti  appendici  su  Pindaro,  Epicuro,  la  Civiltà  del  Fato,  e 
V Amore  presso  i  Greci.  L'opera  del  Tilgher,  di  non  più  di  30  pagine,  scritta 
con  profondità  ed  acume,  in  una  forma  viva  e  piena  di  forza,  non  può  fare 
a  meno  d'interessare  vivamente  chiunque  si  occupi  della  storia  del  pensiero 
umano,  e  ai  sforzi  di  determinare  in  esso  la  posizione  del  pensiero  contempo- 
raneo. 

L'ITALIA  ALL'ESTERO 

Lo  scultore  italiano  Antonio  de  Francisci  ha  vinto  il  concorso  per  la 
scultura  del  conio  del  dollaro  d'argento  americano  commemorativo  della  pace. 
Lo  scultore  prese  a  modello  la  moglie. 

—  La  Banca  d'Italia  di  S.  Francisco  ha  chiuso  il  bilancio  del  1921  con  un 
bilancio  di  194  milioni  e  179,449  dollari  con  un  aumento,  nel  corso  dell'anno, 
sui  depositi,  di  36,879,064  dollari,  assommando  i,  depositi  del  1921  a  dollari 
177,867,610.  L'Istituzione  conta  l'enorme  cifra  di  291,994  depositanti. 

—  A  Baltimora  il  prof.  Rudolph  Altrocchi,  dell'Università  di  Chicago,  ha 
tenuto  ai  soci  della  Modem  Language  Aasociation  una  conferenza  su  Nicolò 
Tommaseo,  nella  quale  dimostra  l'insigne  scrittore  italiano  come  precursore 
col  suo  romanzo  Fede  e  Bellezza,  dei  -famosi  veristi  francesi,  Flaubert  e  Zola. 

—  La  casa  editrice  John  W.  Luce  e  Co.  di  Boston,  ha  pubblicato,  sotto 
il  titolo  Plays  of  the  Italian  Theatre,  traduzioni  di  lavori  di  Verga,  Morselli, 
Lopez  e  Pirandello. 

—  Wv-the  Leig  Kinsolving  ha  pubblicato  un  gruppo  di  composizioni  poe- 
tiche d'ispirazione  italiana  col  titolo  The  Speli  of  Italy. 

—  La  Casa  Editrice  Dood  di  New  York  pubblica  un  interessante  volume 
su  Roma:   The  color  of  Rome,  di  O.  M.  Potter. 

—  Nella  rivista  letteraria  deWEvening  Post  di  New  York  del  3  dicembre, 
vi  sono  interessanti  note  bibliografiche  sui  recenti  lavori  di  Ardengo  Soffici, 
G.  Lipparini,  Federico  Tozzi  ed  altri. 

—  Il  noto  pianista  Alfredo  Casella,  col  concorso  del  violinista  Arrigo 
Serate  e  del  violoncellista  Arturo  Bonanni  ha  tenuto  a  New  York  concerti 
applauditissimi. 

—  Il  poeta  G.  A.  Cesareo,  vecchio  collaboratore  dell'Antologia,  è  stato  in- 
vitato a  tenere  alla  Sorbona  a  Parigi  un  corso  di  letteratura  italiana.  L'illu- 
stre professore,  dopo  la  prolusione  terrà  un  ciclo  di  conferenze  su  Dante  e  poi 
svolgerà  un  periodo  della  storia  letteraria  italiana. 

L'intellicrence  oatholiqne  dans  l'Italie  dn  XX  siede     di  VAUSSARD  M.  — 

Paris,    1921. 

Crediamo  che  il  lettore  più  benevolo,  chiuso  il  libro  recente  che  Maurice 
Vaussard,  ha  consacrato  alla  cultura  cattolica  italiana,  non  potrà  sottrarsi 
all'impressione  che  il  contenuto  ne  sia  sensibilmente  sproporzionato  al  titolo. 
Nessuno  infatti  che  abbia  seguito  senza  preconcetti  e  senza  speciali  finalità  il 
movimento  della  cultura  italiana  nel  primo  ventennio  del  secolo,  riuscirà  a 
capacitarsi  che  il  cattolicismo  sia  rappresentato  in  esso  unicamente,  come  vor- 
rebbe far  credere  il  Vaussard,  dai  seguenti  nomi:  Toniolo,  Meda.  Sturzo,  Ge- 
melli, Ferrini,  Maffi,  Borsi,  Papini.  Si  capisce  i)erfettamente  che  un  quadro 
sommario  di  un  movimento  culturale  non  può  essere  tracciato,  se  non  coglien- 
done e  fissandone  le  figure  rappresentative.  Ma  è  appunto  sulla  selezione  fatta 
dal  Vaussard  per  delineare  in  iscorcio  l'operosità  culturale  odierna  dei  cattolici 
italiani  che,  ci  sembra,  possono  essere  sollevate  copiose,  e  non  arbitrarie  ob- 
biezioni. Specilamente  scorrendo  le  pagine  fuori  del  volume,  in  cui  l'A.  tratta 
degli  eventuali  rapporti  fra  cattolici  italiani  e  cattolici  francesi,  si  ha  la  vaga 
impressione  che  tutto  il  libro  sia  stato  suggerito  da  una  particolare  preoccu- 
pazione: quella  di  stabilire  una  salda  e  cordiale  intesa  fra  quei  gruppi  cattolici 
francesi  che  prendono  più  viva  parte  alla  vita  politica  della  Repubblica,  ©  1© 
organizzazioni  politiche  del  cattolicismo  in  Italia. 


LIBRI  E  RECENTI  PUBBLICAZIONI 


V.    Ciak.    Annibal   Caro   traduttore  Generale  Filarsti.   Eolo  -   Giano  - 
delVa  Eneide  ».   —   G.    B.    Paravia    e  Mercurio.  Saggi  politici  con  prefazio- 
C,  Milano,  Roma,  Firenze.  ne  di    E.   Ciccotti.   —  Firenze,    Val- 
La  nazione   educativa  di  sé,  testa-  lecchi.   L.   2.50. 
mento    morale,    letterario    e    politico  P.    Monelli.   Le   scarpe  al  sole.  — 
di    Nioooix)    Tommaseo,    edito    per   la  Bologna,  Cappelli,  1922.  L.  8. 
prima  volta,  con  proemio  di  G.  Gm-  M.     Baoiocchi     de    Pbón.    L'educar- 
DETTI.    —    Reggio    Emilia,    Guidetti,  zione    del    carattere,    con    prefazione 
1922.   L.   12.                           .  di  A.  Anile.  —  Firenze,  1921.  L.  12. 
G.    Mortara.    Prospettive    economi-  M.  Baoiocchi  de  Peón.  Contempla- 
che  per  il  1922.  —  Città  di  Castello,  zioni.    —    Firenze,    Tipografia    Gian- 
Società    Tipografica    ((  Leonardo    da  tino,    1921.    L.    7. 
Vinci»,    1922.    (Edizione    fuori    oom-  F.    Dessy.    Poesie.   —   Firenze,   Ti- 
mercio).  pagrafia    Giuntino,    1922. 

A.    Bbrn.ardino.    Tributi    e    bilanci  E.  Levi.  La  storia  della  magìa.  — 

in  Sardegna  nel  primo  ventennio  del-  Todi,  <«  Atanòr  »,  L.  30. 

la  sua  annessione  al  Piemonte  {1721-  A.    Ponti.    Il   Senato    Italiano.    — 

1740).  —  Torino,   Bocca,   1921.  Catania,   1921. 

A.  NoTARi.  Teo.  Il  romanzo  del  Col  W.  Frenkel.  Amore  e  Bolscevifmo. 

di  Lana.  —  Roma,  Alfieri  e  Lacroix.  Talmud  e  Khamstvo.  —  Roma,   «  La 

U.   Ghiron.    Le   visioni  di  Àtropos.  Rapida  »,   1922.   L.   4. 

—  R.    Sandron,   editore.   L.    3.50.  P.   Pesce-Maineri.  7  pericoli  socia^ 
L.    Ventura.     Dalla     guerra     alla  li   del   cinematografo.  —  Torino,   Ge- 

scuola.    —     Milano,     Roma,     Napoli,  nova,    Casa    editrice    «  Problemi    mo- 

Albrighi  Segati  e  C,  1922.  L.  4.50.  derni»  presso  S.   Lattee  e  C.  L.  5. 

Generale    Filareti.    Danton    e    Bo-  G.  Flecchia  Im  fine  del  mondo.  — 

bespierre.    (Saggio    di    psicologia   so-  Torino,  Genova,  Casa  editrice  <«  Pro- 

ciale).  —  Milano,  Roma,  Napoli,  Al-  blemi    moderni  »    presso    S.    Lattea    e 

brighi  Segati,  1922.  L.  4.  C,   1922.  L.  4. 

PUBBLICAZIONI    PERELLA   —    FIRENZE. 

G,    A.    BoROESG.    Resurrezioni.    —  Le  opere  di  Giuseppe  Mazzini  aoel- 

1922.    L.   8.  te  ed  illustrate  da  F.  L.  Mannitooi. 

G.    Carbonera.    Pagine   di   storia    e  L.   10. 

di  vita  greca.  1921.  L.  5.  A.  Momigliano.  Dagli  n  Sposi  Pro- 

G.  Rensi.  Introduzione  alla  scerpsi  messi  »    ai    «  Promessi    Sposi  ».    1922. 

etica.  L.   30.  L.    4. 

PUBBLICAZIONI    GIANNOTTA    —  CATANIA. 

S.  Santanoblo.  Dante  e  i  trovato-  N.    Martoolio    e     L.     Pirandello. 

ri  provenzali.  1921.  L.  10.  Teatro  dialettale  siciliano.   Voi.   VII. 

Mona.   S.   Romeo.  S.   Agata   V.   M.  1922.   L.  6. 
e  il  suo  culto.  1922.  L.  10. 

PUBBLICAZIONI    STRANIERE. 

Q.  Matjriac.  Le  Baiser  au  Lépreux  Le    Vili    livre   des   «  Stancea  »   de 

—  Paris,  Grasset,  1922.  Fra.  6.  Jean    Morbas.    —   Paris,    Edition    de 
G.  Ohnet.  Tout  se  paye.  —  Paris,  la  douce  France,  1922.  Fra.  2. 

Ollendorf,    Frs.    6.  M.  P.  Serva.  A  AUemanha  Saqueck- 

G.    SouLAGES.    L'idylle    Vénitienne.  da.  —  S.  Paulo,  1921. 

—  Paris,  <(Le  Livre»,  1921.  Frs.  12. 

PUBBLICAZIONI  PLON    —    PARIGI. 

H.    Bordeaxjx.    Le  vie  au  thédtre.  G.  Pérochon  Nene.  Prix  Goncourt 

Oinquième    et    demière    sèrie,     1919-  1920.   Frs.   8. 

1919.  —  1921.  Brs.  8.  L.     Dttmxtr.     Un    caco    de    genie. 

P.    BouRGET  de    l'Académie    Fran-  Frs.    3. 

paise.  L'émigré.  Fi».  3.  L.  Baumann.  L'immoli.  Frs.  3. 


Ugo  Msssna.  Re^vomainìe 


Etcm»  —   Ditta  Arnutni   <**.   Mario  Coanier. 


FECE  DDNQUE  BENE  FIRENZE  A  SBANDIRE  DANTE?!! 


Una  quarantina  d'anni  fa  visitai  in  Firenze  un  mio  caro  amico 
toscano,  che  sempre  rimpiango,  maestro  e  critico  insigne;  il  quale, 
nel  donarmi  un  suo  volume  dantesco,  dopo  un  lungo  colloquio  uscì 
a  dire:  «  Dante  però,  sapete,  non  doveva  essere  mica  un  bel  carat- 
tere; filosofo  mal  grazioso,  dice  il  Villani».  Sorpreso  e  sgomento, 
tanto  pili  ohe  non  sarei  stato  discreto  a  impegnare  quasi  sull'uscio 
una  viva  discussione,  mi  restrinsi  a  dir  quanto  segue.  —  Bisogne- 
rebbe sempre  distinguere,  nella  storia  come  nella  vita,  il  carattere 
dal  temperamento.  Senza  voler  porre  tra  i  due  smonimi  un  divario 
rigido  e  pedantesco,  si  può  dir  ohe  il  carattere  è  la  somma  delle  aspi- 
razioni e  ispirazioni  abituali  di  un  uomo,  e  degli  sforzi  supremi  di 
cui  egli  sia  capace  nelle  occasioni  più  gravi  della  sua  vita  pubblica 
o  privata;  mentre  il  temperamento  importa  le  abitudini  e  gli  sforzi 
più  superficiali,  procedurali  starei  per  dire,  quasi  più  fisici  che  mo- 
rali. Il  carattere  definisce  il  valor  morale  d'un  uomo,  ma  quel  ohe 
spesso  decide  della  sua  sorte  immediata  nel  mondo  è  piuttosto  il 
temperamento.  Ecco  lì  uno  semippe  intento  al  bene  pubblico,  sempre 
pronto  ad  ogni  sacrificio,  franco,  coraggioso,  generoso,  ed  è  insomma 
un  bello  o  un  grande  carattere;  ma  è  iracondo,  né  sa  tacere  o  dif- 
ferire le  sue  censure.  Blccone  un  altro,  profondamente  egoista,  ma 
cauto,  furbo,  mellifluo,  lesto  a  fingere  ogni  condiscendenza,  a  far 
Ggni  favore  che  non  rechi  a  lui  alcun  danno,  a  mostrarsi  abilmente 
afflitto  di  non  poter  fare  quel  favore  che  in  realtà  potrebbe  benis- 
simo rendere  se  non  vi  fiutasse  un  lontano  pericolo  di  un  discapito 
proprio  anche  minimo.  Di  codesti  due  uomini  il  primo  rischierà  d'es- 
sere comunemente  qualificato  per  un  caratteraccio,  il  secondo  per 
un  modello  di  bontà.  Dante  era  un  irascibile,  ma  le  sue  opere  e  la 
sua  vita  ci  fanno  in  lui  rifulgere  un  bello  e  grande  carattere.  E  quanto 
al  filosofo  mal  grazioso,  badate  bene  che  noi  tutti,  che  attendiamo 
a  studiare  e  a  scrivere,  proviamo  un  così  vivo  tormento  se  altri  in- 
terrompe il  nostro  lavoro,  o  perfino  le  nostre  peripatetiche  rumina<- 
zioni,  da  riuscir  difficilmente  a  nascondere  la  noia  che  ci  si  reca,  il 
che  agl'inesperti,  e  talora  anche  a  quei  che  non  tollerano  d'esser 
seccati  loro,  ma  si  scordano  di  ciò  quando  gli  fa  comodo  di  seccare 
gli  altri,  fa  l'impressione  di  un'indole  sgarbata  e  scompiacente.  Al- 
lora poi  gli  uomini  di  studio  erano  più  rari,  e  più  frequente  perciò 
nella  turba  il  sospetto  oh'ei  fossero  sprezzanti  — . 

Appena  fui  in  istrada,  rimasticando  quell'improvvisa  sentenza 
dell'amico,  mi  si  riatfacciarono  alla  mente  iparole  consimili  ohe  avevo 
udite  nei  begli  anni  di  Pisa  da  miei  condiscepoli  e  da  altri,  le  quali, 
dette  così  tra  il  serio  e  il  faceto,  in  quel  modo  tanto  familiare  all'ar- 

7  VoL  CCXVII.  serie  VI  —  16  inam>  1922. 


98  FECE   DUNQUE    BENE    FIRENZE   A    SBANDIRE   DANTE?!! 

guto  spirito  dei  Toscani,  m'eran  parse  niente  più  ohe  scherzi.  E  poi 
ripensai  anche  a  un  periodo  di  un  illustre  letterato  e  gran  brav'uomo, 
Emmanuele  Repetti.  E  ancora  mii  tornarono  alla  memoria  certe  sgar- 
batezze che  alcuni  cinquecentisti  toscani,  nella  questione  della  lin- 
gua, non  avevano  risparmiate  al  divino  poeta:  benché  allora,  meno 
male,  la  controversia  stessa  le  rendesse  più  perdonabili.  E  mi  chiesi  : 
—  ma  dunque  ancor  oggi  ribollono  in  alcuni  corregionali  di  lui  certi 
rancori,  e  fa  capolino  una  certa  velleità  d'insinuare  che  non  ebbero 
tutti  i  torti  i  concittadini  a  liberarsi  d'un  uomo  molesto  per  indole? 
E  chi  meno  t'aspetteresti  scappa  a  dire  in  privato  quel  che  forse  in 
pubblico  per  buoni  riguardi  non  direbbe?  — 

Gli  è  proprio  cosi.  Tutta  la  glona  che  colui  ha  data  alla  sua 
patria,  e  tutta  la  pietà  che  ispira  la  sua  vita  infelice,  non  son  bastate 
a  prosciugare  del  tutto  una  sottile  vena  d'umori  acri  tramandatasi 
nei  secoli,  pur  in  mezzo  alla  maggiore  e  migliore  tradizione  toscana 
tutta  amore  e  pentimento  verso  il  grande  esule. 

Ultimamente  tali  umori  hanno  ottenuto  una  specie  di  ripresa  e 
un  nuovo  coonestamento  da  certe  speculazioni  sulla  storia  fiorentina, 
per  le  quali  quella  democrazia  così  destra  nell'accresoere  la  sua  pro- 
sperità economica  e  nel  tener  duro  contro  chiunque  paresse  minac- 
ciarla, è  decantata  come  un  portento  di  aita  sapienza  politica,  e  il 
povero  Dante  è  finito  col  sembrare  un  uomo  inetto  a  comprendere 
l'avvenire,  un  utopista  incomodo  alla  patria  :  la  quale,  via,  non  ebbe 
tutti  i  torti  ad  averlo  in  uggia!  La  teorica  del  materialismo  storico, 
non  del  tutto  falsa,  ma  unilaterale,  miope,  iperbolica,  faziosa,  è  riu- 
scita a  suscitare  una  superlativa  ammirazione  per  la  ricchezza,  un 
entusiasmo  più  o  meno  fittizio,  il  quale  è  in  perfetta  antitesi  con  la 
nobile  esagerazione  dei  moralisti  puri,  che  nella  vita  e  nella  storia 
tengon  vòlto  l'animo  soprattutto  alle  virtù  morali,  e  nell'eccesso 
della  ricchezza  scorgono  più  ohe  altro  il  pericolo  della  corruzione. 
E  quell'entusiasmo  penetra  talvolta  nei  giudizi  storici  anche  di  co- 
loro che  nella  vita  attuale  sono  ben  lontani  dal  considerar  soltanto 
il  fattore  economico.  Ci  s'aggiunge  che,  come  il  nazionalismo  cat- 
tolico neoguelfo  fece  che  al  Balbo  e  ad  altri  riuscisse  ostica  la  fiducia 
di  Dante  nell'Imperatore  tedesco  ed  il  culto  per  il  Sacro  Romano 
Impero,  così  il  nazionalismo  odierno  tutto  laicale  è  propenso  ad 
ammirare  ogni  resistenza  guelfa  all'Impero,  senza  troppo  conside- 
rare il  valore  intrinseco  dei  motivi  della  resistenza  e  il  valore  effet- 
tivo dei  fini  con  essa  conseguiti.  E  così  per  tre  impulsi  si  mormora 
qua  e  là  contro  il  poeta  per  divino  ch'ei  sia  :  il  dispiacere  che  quel 
continuo  compatire  che  si  fa  il  suo  esilio  tomi  in  perpetuo  rimpro- 
vero a  Firenze  antica,  e  un  ipo'  -quasi  di  rinfaccio  ai  discendenti  di 
quella;  l'illusione  di  saper  guardare  con  più  acuto  e  più  moderno 
criterio  storico  la  strabocchevole  ricchezza  che  disgustava  il  poeta 
moralista;  la  credenza  che  un  alto  e  giusto  sentimento  nazionale 
fosse  la  vera  ragione  dell'atteggiamento  che  Firenze  tenne  contro 
Arrigo. 

•A- 
•  • 

Comunque,  di  una  parte  almeno  di  quest'ordine  d'idee  rispetto 
al  grande  fiorentino  ci  viene  da  Firenze  un  saggio  molto  facondo  e 
vivace  :  l'opuscolo  del  professore  Ermenegildo  Pistelli  intitolato  Per 


FECE   DUNQUE   BENE   FffiENZE   A   SBANDIRE   DANTE?!!  99 

la  Firenze  di  Dante  (Sansoni  editore,  1921,  pag.  46).  Nel  quale  due 
persone  son  però  prese  specialmente  di  mira:  un  grande  antico, 
buono  e  generoso,  il  Boccaccio;  ed  un  buon  uomo  contemporajieo, 
che  son  io.  Sono  stato  sempre  alieno  dal  far  repliche  polemiche, 
anche  in  gioventù,  che  qualcuna  n'ho  dovuta  fare  per  forza;  ed  ora 
poi  non  v'è  nulla  "che  più  mi  pesi,  tanto  che  spesso  mi  astengo  dal 
leggere  quel  che  altri  scrive  contro  di  tne  per  non  aver  la  noia  di 
sentirmi  risonare  nella  mente  quel  che  «potrei  risponderò  se  volessi 
rispondere.  Ma  il  valoroso  paladino  m'ha  investito  per  un  discorso 
tenuto  da  me  nella  seduta  solenne  dei  Lincei  avanti  ai  Sovrani,  ed 
io  debbo,  almeno  una  volta  tanto,  difendere,  più  che  me  stesso,  l'alto 
pulpito  dal  quale  parlai. 

Prima  che  con  altri  però,  il  Pistelli  se  la  piglia  un  poco  col  mae- 
stro bolognese  Giovaimi  del  Virgilio,  che,  innamoratosi  di  Dante, 
in  un'egloga  a  lui  rivolta  accennò  all'esilio  come  a  un  disonore  per 
l'ingrata  città,  ingratae  dedecus  urbi;  e  nell'epitaflao  che  compose 
quando  Dante  morì,  disse  che  l'ingrata  Firenze,  patria  crudele,  a 
questo  figlio  suo  non  arrecò  altro  frutto  che  triste,  l'esilio: 

...Hnic  ingrata  tulit  tristem  Florentia  fructum, 
Exilium,  nato  patria  oruda  suo... 

L'epitcìflBo,  ricordiamolo  in  iparentesi,  non  fu  mai  inciso;  ma,  quando 
dopo  più  anni  fu  fatta  una  tomba  definitiva,  vi  fu  inciso  l'esastico 
ohe  ancor  c^gi  vi  si  legge,  e  che  anch'esso  batte  su  quel  chiodo: 
«  Qui  son  chiuso  io  Dante,  esule  dai  patrii  confini,  cui  generò  Fi- 
renze, madre  di  scarso  amore  »  : 

...  Hic  claudor  Dantes,  patriis  extorris  ab  oris, 
Qnem  genuit  parvi  Florentia  mater  amoris... 

E  non  sarà  stata  una  mera  reminiscenza  delle  parole  del  primo  epi- 
grafista nella  mente  del  secondo  :  egli  è  ohe  questi,  il  Canaccio,  espri- 
meva il  sentimento  tradizionale  in  Ravenna  forse  più  che  altrove, 
come  quegli,  il  del  Virgilio,  aveva  espresso  il  sentimento  non  solo 
suo  proprio,  ma  di  quanti  ammiravano  in  quella  contrada  adriatica 
il  povero  esule,  e  di  coloro  più  particolarmente  che  in  Ravenna  gli 
stavano  attorno  e  gli  volevan  bene,  né  sapevan  quindi  capacitarsi 
che  la  città  che  lo  aveva  generato  lo  tenesse  per  forza  lontano  da  sé. 
E  il  Pistelli  avrebbe  fatto  bene  a  rammentarsi  che  da  tutt'altra  parte, 
da  un  pistoiese  che  insegnava  a  Siena,  la  morte  di  Dante  era  stata 
subito  compianta  in  una  canzone  il  cui  commiato  è  ben  altrimenti 
ac-erbo  per  Firenze,  che  non  le  due  epigrafi  suddette,  che  alla  fin 
fine  si  restringono  ad  accennare  il  fatto  nella  sua  semplice  e  inne- 
gabile sostanza.  Messer  Gino  dic-eva: 

Canzone  mia,   a  la  nuda  Fiorenza 
oggimai  di  speranza,  te  n'andrai-... 

e  la  speranza  non  è  già  quella  che  Fiorenza  nutrisse  di  rivedere  un 
giorno  il  suo  poeta,  come  sulle  prime  può  parer  che  intenda;  ma 
vuol  dir  che  Firenze  non  isj>eri  più  di  divorare  Dante. 

Gino  si  riferisce  alla  profezia  messa  in  bocca  a  Brunetto,  che  la 
fortuna  riservi  a  Dante  quest'onore,  ch^e  l'una  e  l'altra  fazione  in  cui 


100  FECE   DUNQUE   BENE    FIRENZE   A    SBANDIRE   DANTE?!! 

Firenze  era  divisa  avrebbe  avuto  del  iptiri  la  smania  di  divorarlo, 
ma  non  ci  sarebbero  riuscite.  E  però  continua: 

di'  che  ben  può  trar  guai, 

ch'ornai  ha  ben  di  lungi  al  becco  l'erba. 

£000,  la  profezia  che  ciò  sentenza 

ben  è  compiuta,  Fiorenza;  e  tu  '1  sai! 

Se  tu  conoscer  hai, 

il  tuo  gran  danno  piangi,  che  t'acerba! 

E  quella  savia  Ravenna,  che  serba 

il  tuo  tesoro,  allegra  se  ne  goda 

(oh'è  degna!)  per  gran  loda. 

Così  volesse  Iddio  che,  per  vendetta, 

fosse  diserta  l'iniqua  tua  setta! 

È  inutile:  come  la  gratitudine  per  Ravenna  era  ed  è  naturale 
in  chi  amò  ed  ama  Dante,  così  la  riprovazione  per  Firenze;  ed  è  vano 
cercare  i  capiscuola  di  tali  sentimenti.  Di  Gino  da  Pistoia  cajpisco 
che  si  può  dire  che  fu  amicissimo  di  Dante,  ohe  fu  esule  anche  lui 
e  per  colpa  della  stessa  iniqua  setta;  ma  a  buon  conto  ecco  lì  un 
altr'uomo  insigne,  bene  informato  dei  fatti,  che  prima  del  Boccaccio 
e  come  in  fondo  tutta  la  posterità,  censurò  aspramente  la  patria 
crudele  al  figlio  suo. 

Il  Pistelli  pone  questa  tesi,  o,  com'ei  dice,  regola:  «che  l'in- 
vettiva contro  Firenze  prorompe  sdegnosa  soltanto  quando  l'ammi- 
razione per  Dante  è  appassionata  e  piena  »  ;  e  un  riscontro  ne  scopre 
nel  fatto  che  il  Petrarca  invece,  parlando  a  denti  stretti  di  Dante 
perchè  obbligatovi  dal  Boccaccio,  si  contentò  di  accennare  con  pa- 
rola misurata  aWingiustizia  dei  Fiorentini,  con  tutto  che  del  mede- 
simo bando  fosse  stato  vittima  pure  suo  padre  ser  Petracco.  In  ve- 
rità io  non  vedo  a  che  giovi  quella  tesi  o  regola,  che  insiste  sopra  un 
fenomeno  tanto  naturale,  tanto  ovvio.  Si  sa  bene  che  più  si  ama  e 
si  ammira  una  persona,  e  più  ci  si  sdegna  contro  chi  l'ha  malme- 
nata. Ci  (potranno  bensì  essere  dei  casi,  come  per  esemipio  quello  dì 
due  coniugi  che,  senza  che  se  ne  sappia  il  perchè,  da  un  giorno  al- 
l'altro si  siano  aspramente  separati,  e  gli  amici  del  marito  buttino 
a  priori  la  colpa  sulla  moglie  e  gli  amici  della  moglie  sul  marito; 
e  allora  gli  uni  e  gli  altri  sono  parziali  e  parlano  a  passione.  Ma  nel 
caso  di  una  pubblica  condanna  così  notoria  nei  suoi  motivi,  a  che 
serve  il  rilevare  ohe  più  biasimò  la  condanna  chi  più  era  tenero  per 
il  condannato?  Tirare  poi  in  ballo  il  Petrarca  iper  controprova  è  toc- 
care un  tasto  pericoloso.  In  quella  lettera  al  Boccaccio  con  la  quale 
avrebbe  dovuto  smentire  la  sua  invidia  per  Dante,  il  Petrarca  nwi 
riesce  a  dissimularla.  Il  nostro  Carducci  non  se  ne  volle  persuadere, 
il  che  ci  commuove  se  pensiamo  che  la  ritrosia  a  persuadersene  mo- 
veva da  un  sentimento  simile  a  quello  che  spinse  il  Boccaccio  a  pro- 
vocare la  lettera:  l'affetto  per  il  Petrarca.  Ma  ebbe  tanto  più  ra- 
gione il  Foscolo  a  riconoscer  l'invidia  in  quel  Petrarca  che  anch'egli 
studiava  e  amava.  Oltre  il  resto,  il  Boccaccio  e  gli  altri  contempo- 
ranei, a  prescindere  da  <^ni  manifestazione  aperta  e  positiva  d'in- 
vidia s'avevan  a  sentir  offesi  dal  semplice  fatto  negativo,  che  non 
vedevano  il  Petrarca  riscaldarsi  iper  il  grandissimo  predecessore 
quanto  si  sarebbe  per  tutte  le  ragioni  aspettato  da  lui. 


FECE   DUNQUE    BENE    FIRENZE   A    SBANDIRE    DANTE?!!  101 

Intanto  mi  sia  lecito  di  far  di  passata  un'osservazione.  Nel  Pe- 
trarca l'invidia  nasceva  non  solo  dall'indole  sua  ambiziosa,  ma  era 
alimentata  e  forse  aveva  avuta  la  prima  mossa  da  ricordi  e  affetti 
domestici.  Tra  Dante  e  ser  Petracco  non  ci  saranno  stati  rapporti 
unicamente  amichevoli,  chi  pensi  al  modo  sdegnoso  con  cui  Dante 
accennava  a  tutti  in  complesso  i  suoi  compagni  d'esilio.  Messer  Fran- 
cesco avrà  sentito  in  casa  critiche,  e  magari  rancorose,  per  questo 
o  quell'atto  o  scatto  dell'Alighieri;  e  si  vede  che  di  lui  era  un  po' 
geloso  anche  per  conto  di  suo  padre.  E  certo  il  figlio  ci  fa  sorridere 
là  dove  dice  che  tra  i  due  amici  e  compagni  di  sventura  v'era  stata 
molta  somiglianza  di  studi  e  d'ingegno  {studiorum  et  ingenii  multa 
similitudo) ,  senonchè  il  padre  per  sacrificarsi  tutto  alla  famiglia 
aveva  lasciato  andare  e  Dante  aveva  trascurato  la  famiglia  e  tutto 
il  resto  per  badar  solo  alla  fama.  Figuriamoci!  Se  ser  Petracco  avesse 
persistito  negli  studii,  altro  che  Divina  Commedia  avrebbe  saputo 
irar  fuori!  quell'egoistaccio  di  Dante  si  sarebbe  potuto  andar  a  ri- 
porre! Pare  incredibile  ohe  il  Petrarca  non  s'accorgesse  ohe  col  fare 
un  paragone  di  quel  genere  egli  dava  addirittura  nel  puerile  (1). 
Comunque  siasi,  il  Petrarca  non  solo  «portò  il  segno  della  sua  in- 
feriorità a  Dante,  invidiolilo  »,  come  scultoriamente  disse  Cesare 
Balbo;  ma,  ipur  avendo  grande  nobiltà  d'animo,  non  s'int«nerì  ab- 
bastanza per  il  predecessore  povero  e  travagliato,  che  la  parzialità 
per  il  «proprio  padre  e  le  mormoréLzioncelle  udite  in  casa  gli  avevano 
infuso  una  certa  preconcetta  antipatia  e  gelosia. 

Che  dunque,  per  tornare  al  nostro  proposito,  il  Petrarca  all'esilio 
di  Dante  abbia  alluso  con  parola  piuttosto  mite,  è  naturale:  tanto 
più  che  ser  Petracco  nell'esilio  era  riuscito  a  farsi  uno  stato,  e  lui, 
messer  Francesco,  ci  aveva  fatto  fortuna;  e  molto  tardi  si  degnò  d'an- 
dar a  conoscere  la  città  di  Firenze,  né  oi  si  volle  stabilire,  e  in  cc»i- 
clusione  non  aveva  esperienza  diretta  dello  strazio  d'un  esule  nelle 
condizioni  di  Dante,  e  non  aveva  quindi  alcun  impulso  a  toccarne 
altrimenti  che  con  tepore.  Del  resto,  l'andamento  stesso  del  discorso 
non  lo  menava  a  soffermarsi  su  quel  punto;  eppoi  il  civium.  iniuria 
dice  alla  fin  fine  quanto  è  necessario,  tanto  che  al  Pistelli  non  piace 
interamente,  sicc;hè  vi  soggiunge  :  «  e  fu  così  più  nel  vero  »  :  dove 
quel  più  sembra  insinuare  che  il  Petrarca  avrebbe  fatto  meglio  a 
non  parlar  nemmeno  d'iniuna!  Leghiamocela  al  dito. 


(1)  Dove  dice  che  in  quel  totale  abbandono  di  Dante  al  desiderio  della 
fama  illum,  satis  mirari  et  laudare  vix  valeam,  quem  non  civium  iniuria,  non 
exiliuìti  non  paupertas,  non  simultatum  aculei,  non  amor  coniu-gis,  non  nato- 
rum  pietcbs,  ab  arrepto  semel  calle  distraxerit ,  ci  si  sente  l'onda  delle  prime  pa- 
role d'Uliese  del  XXVI  AeW Inferno,  e  una  precisa  reminiscenza  nei  due  accenni 
alla  famiglia,  il  che  è  notevole  per  altri  rispetti  e  a  noi  qui  importa  perchè  ha 
l'aria  di  una  ritorsione,  d'un' applicazione  all'autore  stesso  di  ciò  ch'egli  aveva 
scritto  per  uno  dei  suoi  dannati.  Non  bisogna  certo  calcar  la  mano,  ne  voler 
fiutare  una  malignità  grossa  in  una  impalpabile  finezza  d'intenzione  e  di  stile; 
ma  tutti  quei  non,  che  voglion  parere  altrettanti  omaggi  alla  fermezza  di  Dante, 
posson  mai  essere  sinceramente  tali  in  tutto  e  per  tutto,  messi  come  sono  a  ri- 
scontro dell'abnegazione  di  ser  Petracco  alla  quale  il  figlio  era  sicuramente  grato 
e  accennava  con  intento  indubbiamente  laudativo? 


102  FECE   DUNQUE   BENE    FIRENZE   A    SBANDIRE   DANTE?!! 


• 


Ma  passiamo  al  maggior  colpevole,  al  Boccaccio.  Con  le  sue 
esagerazioni  retoriche  egli  avrebbe  rappresentata  la  condanna  di 
Dante  come  un  torto  all'individuo,  mentre  ei  fu  bandito  con  una 
turba  di  più  centinaia  di  altri  che  nessuno  si  piglia  l'incomodo  di 
compatire;  e  come  un  torto  a  cui  la  stessa  sua  grande  autorità  e  le 
eccezionali  benemerenze  sarebbero  state  incentivo,  laddove,  continua 
il  Pistelli,  gli  uffici  esercitati  da  Dante  furono  in  quella  democratica 
repubblica  adempiuti  da  tanti  altri  e  non  meno  efficacemente. 

Non  nego  che  alcune  delle  esagerazioni  boccaccesche  siano  ar- 
gutamente osservate  dal  Pistelli,  e  che  una  tara  debba  farsi  all'ine- 
vitabile ma  ingenuo  preconcetto  dei  posteri,  che  Dante  fosse  già  pei 
contemporanei  e  pei  concittadini  tutto  quello  che  è  per  noi,  e  ci  vo- 
lesse quindi  una  superlativa  malvagità  per  travolgerlo  in  quel  tur- 
bine di  guerra  civile,  per  non  eccettuarlo  da  quelle  espulsioni  in 
massa.  La  censura  a  un  tal  preconcetto  non  è  nuova,  e,  per  non 
cercar  altro,  ricorderò  ohe  Vittorio  Imbriani  v'insistè  molto  un  mezzo 
secolo  fa.  Ma  io  ripeto  al  Pistelli  quel  che  allora  andavo  dicendo 
airimbriani.  Sfrondiamo,  signorsì,  le  involontarie  iperboli,  rettifi- 
chiamo gli  errori  di  prospettiva,  mettiamoci  nei  panni  dei  contem- 
poranei, sforziamoci  di  ridurre  Dante  alle  proporzioni  che  aveva 
rispetto  a  coloro  quando  a  trentasei  anni  fu  sbandito,  e  anche  quando 
fino  ai  cinquantasei  anni  fu  lasciato  sempre  fuori  dell'ovile;  ma  guar- 
diamoci pure  dal  rimpicciolirlo  troppo  e  dal  figurarci  i  contempo- 
ranei più  ottusi  e  più  storditi  che  non  erano. -Sta  bene,  quando  fu 
sbandito  ei  non  aveva  scritta  la  Commedia,  ma  era  pui*  l'uomo  ca- 
pace di  scriverla,  l'uomo  il  cui  ingegno  e  la  cui  magnanimità  dove- 
vano già  apparire  e  farsi  per  forza  notare;  l'uomo  che  del  resto  era 
già  conosciuto  come  gentil  poeta  d'amore,  come  autore  d'un  libello 
così  splendido  quale  la  Vita  Nuova,  che  in  una  città  dove  abbondava 
il  naturale  ingegno,  il  gusto  fino,  il  gusto  per  la  poesia,  non  era  po- 
tuto passare  inosservato;  e  dove  la  sua  popolarità  fu  anche  forse 
accresciuta  dall'esser  qualche  sua  lirica  musicata  da  Casella.  E  negli 
uffici  che  aveva  tenuti,  per  comuni  che  fossero  a  molta  gente  co- 
mune, avevan  pur  dovuto  brillare  le  sue  doti  più  caratteristiche;  e 
nella  resistenza  contro  il  papa,  dalla  quale  ^li  stesso,  che  non  era 
un  megalomane,  ci  dice  essergli  derivata  tanta  odiosità  in  Corte  di 
Roma,  doveva  essersi  fatto  veramente  onore,  tanto  da  non  rimaner 
oscuro  nemmeno  in  quella  quasi  ateniese  democrazia  che  di  Aristidi 
non  voleva  saperne.  Né  certo  come  un  quidam,  fu  inviato  proprio 
lui  a  capo  dell'ambasceria  a  Bonifazio,  e  da  questo  trattenuto  presso 
di  sé.  Compiangiamo  dunque  tutti  quelli  che  furono  sbanditi  con 
lui,  riconosciamo  che  in  una  procella  di  quella  fatta  {civili  lyrbine 
a  dir  del  Petrarca)  difficile  era  per  chicchessia  il  salvarsi;  ma  non  è 
lecito  considerare  il  poeta  come  uno  dei  tanti,  sperduto  nella  folla, 
scacciato  come  un  Bianco  e  nulla  più,  da  chi  fosse  del  tutto  incon- 
sapevole di  scacciare  un  uomo  di  singolare  levatura.  No  :  vi  fu  man- 
canza di  riguardò  all'ingegno  e  alla  virtù,  ed  anzi  acre  gusto  di  non 
lasciarsene  imporre  e  di  levarsi  di  tomo  un  uomo  incomodo;  e  se  i 


FECE   DUNQUE   BENE    FIRENZE   A   SBANDIRE   DANTE?!!  103 

soverchiatori  non  s'accorsero  di  offendere  il  Dante  dei  secoli,  furon 
però  di  certo  lieti  di  ferire  il  Dante  che  'per  altezza  d'ingegno  già 
superava  la -turba.  Compiangiamo,  ripeto,  i  suoi  compagni  di  sven- 
tura, ma  non  ci  scandolezziamo  di  cosa  tanto  naturale  qual  è  che  i 
posteri  si  siano  impietositi  soprattutto  (per  lui,  che  è  l'unico  vicino 
al  loro  cuore,  l'unico  di  cui  sanno  il  cuor  ch'egli  ebbe;  e  per  lui  so- 
prattutto maledicano  ^li  autori  di  quella  sventura.  Le  ire  e  le  cru- 
deltà partigiane  spiegano  tante  cose  che  parrebbero  inesplicabili, 
ma  in  fin  dei  conti  non  bisogna  considerarle  come  fossero  un  cieco 
flagello  della  natura,  un  terremoto  o  un  ciclone;  poiché  invece  sono 
un  trionfo  di  tristi  pensieri,  di  biasimevoli  sentimenti,  ribollenti  in 
quei  dati  uomini,  in  quella  certa  classe,  in  quella  città,  in  quel 
tempo.  E  se  un  giovane  come  Dante  potè  essere  così  semplicemente 
sbandito,  e  non  mai  richiamato  neppur  quando  quelli  che  gli  stavan 
vicino  lo  riverivano  come  un  vecchio  venerando,  ciò  non  fa  punto 
onore  a  chi  governò  la  città,  né  alla  città  che  lasciò  fare. 

Fin  da  un  mezzo  secolo  mi  son  ribellato  alla  moda  che  vi  fu, 
massime  per  colpa  del  Bartoli  e  dell'Imbriàni  (che  in  ciò  congiura- 
vano sebben  tutt'altro  ohe  amicamente),  di  screditare  il  Boccaccio, 
come  un  inventore  o  spacciator  di  frottole  circa  la  vita  di  Dante. 
Sicuro,  in  lui  il  genio  del  novelliere  scatta  su  non  appena  la  materia 
gliene  dà  un  lieve  appiglio,  come  dove  a  proposito  del  matrimonio 
di  Dante  si  stempera  in  tutta  quella  monellesca  cicalata  contro  il 
prender  moglie.  Il  talento  del  narratore  lo  sospinge  poi  spesso  a 
colorire  con  acoessorii  troppo  precisi  qualche  fatto  di  cui  egli  non 
poteva  conoscere  se  non  la  linea  principale.  La  domestichezza  con 
le  declamazioni  accademiche  lo  trascina  qua  e  là  a  divenir  prolisso, 
vacuo,  declamatorio.  Ma  egli  era  oltre  il  resto  un  uomo  molto  dotto, 
e  capace  di  esercitare  anche  la  critica,  e  per  Dante  aveva  tale  un 
culto,  che  toma  assurdo  supporre  che  inventasse  delle  fole  o  acco- 
gliesse senz'ombra  di  giudizio  ogni  storiella  che  altri  gliene  raccon- 
tasse. Tutto  questo  ho  predicato  sempre,  e  presto  ho  avuto  in  ciò 
molti  compagni;  ma  non  mi  sarei  mai  aspettato  ohe  sarebbe  venuto 
un  giorno  che  avessimo  a  difendere  il  Boccaccio  dall'accusa  d'essere 
stato  troppo  parziale  per  Dante,  e  d'aver  suggestionato  gli  altri  a 
biasimare  aspramente  il  suo  esilio  ! 

Tra  i  pedissequi  sarei  io,  che  scrissi  :  «  Ahimè  che  quello  ch'è 
il  più  bel  vanto  della  Toscana  e  dell'Italia,  l'aver  dato  a  sé  e  al  mondo 
un  tale  poeta  e  un  tale  uomo,  è  insieme  e  sarà  sempre  la  maggior 
vergogna  dell'Italia  e  della  Toscana,  poiché  questa  non  seppe  ohe 
scacciarlo,  irremissibilmente  scacciarlo,  e  quella  non  seppe  ricettarlo 
e  onorarlo  se  non  assai  scarsamente;  e  non  gli  avrebbe  offerto  nem- 
meno quella  cotal  placidità  di  tramonto,  se  la  cara  Ravenna  non 
fosse  stata...  ».  Or,  per  quanto  mi  ripugni  di  star  ad  analizzare  pa- 
role mie,  parecchie  cose  ho  da  notare.  Se  scrissi  Toscana  anziché 
Firenze,  di  che  il  Pistelli  si  adombra,  non  fu  perchè  io  ignori  la  di- 
versità dei  rapporti  di  Dante  con  le  diverse  città  di  Toscana,  ma 
perché  di  tutte  egli  fu  scontento  e  nessuna  seppe  avvincerlo  a  sé  e 
divenirgli  una  seconda  patria;  e  piìi  di  tutto  perché  mi  piacque  nel 
nome  generico  della  regione  sottintendere  la  città  nativa,  senza  pro- 
clamare bruscamente  il  nome  di  questa  in  un  momento  solenne. 
Parimente,   un'attenzione  delicata  ebbi  nel  mentovare   la  Toscana 


104  FECE   DUNQUE   BENE    FIRENZE   A    SBANDIRE    DANTE?!! 

avanti  aìVItalia  nel  vanto  d'aver  generato  il  sommo  poeta,  e  invece 
Vìtalia  avanti  alla  Toscana  nella  vergogna  dell'averlo  mal  compreso. 
La  cortes©  malizia  di  codesto  chiasmo  non  sarebbe  sfuggita  al  sot- 
tile spirito  del  mio  critico,  se  questo  non  fosse  stato  velato  dalla 
passione  d'una  tesi.  Ei  si  sarebbe  accorto  che  il  tirare  in  camipo 
l'intera  regione  e  l'intera  nazione,  e  con  qued  pietoso  invertimento 
di  prospettiva,  e  il  finir  poi  col  contrapporre  Ravenna  all'Italia 
anziché  direttamente  alla  Toscana  o  a  Firenze,  era  un  risparmiare 
il  pili  possibile  la  città  madre  nel  giorno  che  si  celebrava  il  maggior 
suo  figlio;  era  un  far  intravedere  che  la  colpa  di  quella  si  atteneva 
all'indole  dei  tempi,  alle  condizioni  dell'Italia  d'allora,  e  che  non 
sarebbe  giusto  raffigurarsi  per  quel  secolo  una  Firenze  tutta  spietata 
in  mezzo  ad  un'Italia  tutta  carità  e  dolcezza.  Credo  dunque  d'essere 
stato  e  giusto  e  umano;  e  che  umano  sarei  stato,  non  giusto,  se  avessi 
detto,  come  fa  il  Pistelli,  che  il  caso  di  Dante  «fu  una  disgrazia, 
non  fu  una  colpa,  non  è  una  vergogna  ».  Sarebbe,  sì,  stata  una  mera 
disgrazia,  se,  per  esempio,  su  un  documento  abilmente  foggiato  da 
un  falsario  nemico  personale  di  Dante,  il  Comune  l'avesse  in  buona 
fede  creduto  reo  di  perduellione  e  l'avesse  punito.  Ma  punire  un 
nobile  e  innocente  cittadino,  con  tanti  altri,  per  semplice  impeto 
e  interesse  fazioso,  fu  colpa,  sia  pure  ohe  la  colpa  si  possa  attenuare 
coi  cattivi  esempi  che  quella  generazione  aveva  ereditati  dalle  gene- 
razioni anteriori,  coi  costumi  violenti  di  quei  tempi,  e  con  quant'altro 
si  voglia.  Fu  una  colpa  ed  è  una  vergogna.  La  vergogna  del  resto  è 
un  fatto,  né  si  dissipa  a  forza  di  sottigliezze;  e  può  avpr  inM<.f.  ìw.r. 
fino  dove  non  vi  sia  una  vera  e  propria  colpa. 

C'è  talvolta,  dice  il  poeta,  cosa  che  l'uomo  non  deve  lare,  ^jcru 
che  senza  colpa  fa  vergogna!  Il  nostro  caso  poi  è  questo  :  il  mondo 
celebra  a  coro  un  grand'uomo,  e  intanto  è  costretto  a  pensare  che 
questi  é  morto  lontano  dalla  patria,  struggendosi  dalla  brama  di  ri- 
vederla. Che  volete?  fosse  anche  ciò  avvenuto  per  una  mera  fatalità 
(e  mera  fatalità  non  fu),  per  la  sua  patria  é  sempre  una  vergogna  ! 
0  perchè  Firenze  ha  più  volte  tentato  di  ottener  da  Havenna  almeno 
le  ossa  dell'esule?  Gli  é  che  ha  sempre  sentito  che  l'esiliarlo  fu  una 
colpa,  e  che  ad  ogni  modo,  ancorché  si  potesse  questa  giustificare, 
il  sussistere  quel  perenne  ricordo  dell'esilio  che  è  la  tomba  di  Ra- 
venna, é  un  perpetuo  rimbrotto  a  Firenze,  una  macchia  che  pdaxje- 
rebbe  scancellare.  E  poiché  il  mondo  intero  celebra  quell'uomo,  non 
é  punto  inopportuno  che  dall'Italia  stessa  sorgan  sempre  voci  ohe 
riconoscano  la  vergogna  e  col  ipostumo  ^pentimento  1'  fAmi^..rinn 
Per  questo  non  esitai  a  dir  quel  che  dissi. 

Dispiace  aRresì  al  Pistelli  ohe  oggi  si  ripetano  cene  ei-pressioiu 
amare  di  Dante  contro  la  cupidigia  e  l'epicureismo  dei  suoi  concit- 
tadini, e  dice  che  «  usare  i  colori  di  Dante  é  lecito  soltanto  a  lui  », 
e  severamente  ammonisce  me  e  un  altro  che  quei  colori  «  staccati 
così  dal  quadro  non  hanno  ipiù  significato».  Or  lasciamo  stare  die  i 
colori  tolti  da  un  quadro  tornerebbero  meri  colori,  laddove  le  frasi 
tolte  da  un  poema  cxjnservano  il  lor  significato,  oltreché  richiaman 
subito  tutto  il  pensiero  del  poeta.  Io  però  riconosco  volentieri  che 
mentre  certe  frasi  anche  staccate  dal  contesto  non  perdono  nulla 
del  significato  che  hanno  in  esso,  altre  invece  più  o  meno  si  trasfi- 


FECE   DUNQUE    BENE    FIRENZE   A    SBANDffiE    DANTE?!!  105 

gurano  portate  via  di  là  {!).  E  allora  è  scon^■eniente  o  ingenuo  ap- 
propriarsi e  spendere  gli  spiccioli  del  verso  dantesco.  Se  qualcuno, 
sdegnato  d'uno  sgarbo  ricevuto  da  alcuni  Fiorentini,  li  chiamasse 
bestie  fiesolane,  se  non  lo  facesse  per  celia,  commetterebbe  una  so- 
lenne goffaggine.  Ma  (juando  a  noi,  spettatori  e  vittime  di  certi  spo- 
stamenti sociali,  torna  spoijtaneo  alla  mente  che 

La  gente  nuova  e  i  subiti  guadagni 
Orgoglio  e  dismisura  han  generato, 

e  in  queste  parole  troviamo  effigiata  a  puntino  la  condizione  odierna, 
e  immaginiamo  ohe,  salvo  certe  dissomiglianze,  il  fatto  che  nau- 
seava il  poeta  doveva  rassomigliar  molto  al  fatto  presente,  e  a  que- 
st'ultimo applichiamo  la  poetica  formula,  e  col  presente  sentiamo 
più  vivo  il  passato,  chi  o  che  cosa  ci  può  vietare  tutto  ciò?  Che  Fi- 
renze ad  ogni  modo  si  dilatasse,  prosperasse,  traricchisse,  fosse  così 
meglio  in  grado  di  elevare  quei  mirabili  edifìzi  che  ancora  oggi  ci 
anrmialiano,  e  che"  tali  maraviglie  non  fossero  neppure  impedite  da 
tutte  quelle  civili  discordie,  da  quei  bandi  crudeli,  da  quelle  zuffe 
sanguinose,  può  ad  alcuni  parere  che  sia  uno  spettacolo  storico  così 
bello  e  grandioso,  da  far  dimenticare  le  mormorazioni  di  Dante,  la 
cui  assenza  per  nulla  nocque  a  quell'incremento,  e  da  far  sembrare 
petulanti  e  temerari  e  anacronistici  i  paragoni  che  altri  osi  fare  tra 
quei  tempi  e  i  nostri.  Ma  chiunque  riguarda  molto  anche  nella  storia 
al  senso  morale,  e  quindi  nella  cronaca  fiorentina  dal  giorno  che  i 
Bianchi  furono  spodestati  fino  a  quello  della  discesa  d'Arrigo,  scorge 
uno  dei  più  disgustosi  drammi  umani,  ove  nessuno  (Tincorrotta  vir- 
tude  atto  si  scopre,  quegli  ripete  più  docilmente,  e  non  come  un 

(1)  Colgo  quest'occasione  pter  dir  di  passata  alcune  cose  che  non  servono 
alla  mia  polemica.  Io  credo  che  il  rimpianto  di  Cacciaguida  per  la  ristretta 
cerchia  antica,  e  il  malumore  pel  troppo  dilargarsi  di  questa,  non  rappresentino 
a  rigore  il  preciso  sentimento  del  poeta,  quantunque  le  parole  attribuite  a 
un'anima  santa  debbano  sostanzialmente  contenere  di  solito  ciò  che  il  poeta 
opina  esser  la  verità  ;  bensì  credo  che  col  suo  abituale  fino  umore  drammatico  il 
poeta  abbia  inteso  di  dare  al  trisavolo  l'atteggiamento  naturale  ai  vecchi  a  cui 
dà  noia  l'eccessiva  mutazione  della  città  quale  i  primi  ricordi  la  rendevano  ad 
«sei  cara.  Non  già  che  il  nipote  si  rallegrasse  tropj»  neppure  lui  di  quel  feb- 
brile allargamento,  ma  insomma  una  parte  di  questo  era  familiare  a  lui  dalla 
nascita  e  costituiva  inevitabilmente  un  dolce  ricordo  dei  suoi  primi  anni  ;  ma 
egli  vuol  soprattutto  che  il  trisavolo  abbia  l'aria  del  ìaudator  temporis  cu:tiì 
Così  soggiungo  in  via  di  confronto,  vi  è  chi  trova  che  l'elogio  di  San  Francesco 
nel  Paradiso  non  sia  così  caldo  e  così  schiettamente  eloquente  come  parrebbe 
che  dovesse  uscire  dall'anima  di  Dante  per  un  personaggio  che  gli  doveva  esser 
sommamente  simpatico;  ebbene,  dico  io,  gli  è  che  l'elogio  è  messo  sul  labbro 
di  San  Tommaso,  e  deve  perciò  avere  un  non  so  che  di  compassato,  di  mona- 
stico, di  scolastico,  di  eloquenza  sacra,  di  Pange  lingua!  Così,  nello  stupendo 
episodio  di  Stazio  dei  canti  XXI  e  XXII  del  Purgatorio,  dov'è  tanta  grazia  e 
tenerezza  e  lepore,  i  discorsi  di  Stazio  peccano  di  prolissità  ;  ma  chi  abbia  fa- 
miliarità con  la  Tebaide  può  accorgersi  prima  o  poi  (o  anche  mai,  giacche  vedo 
die  nessuno  ci  ha  finora  badato)  che  in  Stazio  ombra  il  poeta  deve  aver  oon- 
traffatto  la  caratteristica  prolissità  di  Stazio  autore.  Ma  non  è  qui  il  luogo 
di  ripigliare  quest'ordine  di  considerazioni  sul  quale  ho  tanto  insistito  altrove, 
e  torniamo  in  carreggiata. 


106  FECE   DUNQUE   BENE    FIRENZE   A    SBANDIRE   DANTE?!! 

semplioe  sfogo  d'un  fuoruscito,  le  accese  «parole  del  moralista  Dante; 
e  non  teme  di  commettere  un  crimine  di  lesa  fiorentinità  affermando 
che,  se  la  troppa  povertà  facilmente  trascina  alla  colpa,  la  troppa 
ficchezza  è  per  altra  via  e  in  altro  modo  non  meno  male  suada,  e 
che  il  prosperoso  rigoglio  d'una  città,  sia  pure  accomipagnato  dal 
magnifico  fiorire  delle  arti,  non  è  cosa  del  tutto  lieta  e  ammirevole, 
se  majcc-hiata  da  crudeltà,  da  ingiustizie,  da  vendette  feroci,  da  abi- 
tuale turbolenza. 

• 
*  * 

Il  contegno  poi  dei  Neri  di  fronte  ad  Arrigo,  che  aguzzò  tanto 
l'ira  del  poeta,  al  Pistelli  par  degno  d'ammirazione.  In  ciò  non  gli 
manca  un  certo  ajppoggio  di  storici  autorevoli,  quali  appassionati 
nemici  dell'idea  imperiale,  cfuali  vogliosi  d'essere  equanimi  e  dare  a 
quel  che  vi  fu  di  accorto  e  di  giusto  nell'azione  del  governo  fioren- 
tino un  rilievo  non  minore  di  quello  che  meritano  le  nobili  illusioni 
di  Dante.  E  mi  affretto  a  dire  che  su  questo  punto  il  Pistelli  scrive 
pagine  eloquenti,  e,  salvo  qualche  trascurabile  eccezione,  o  intera- 
mente giuste,  o  giuste  se  il  discorso  si  arresta  là  dove  a  lui  piace 
di  arrestarlo.  Egli  ha  senza  dubbio  ragione  di  dolersi  che,  forse 
affascinati  dal  pensiero  netto  e  dalle  parole  impetuose  di  Dante,  gli 
uomini  colti  non  sogliono  rendere  piena  giustizia  a  Firenze,  in  ciò 
che  il  suo  sforzo  contro  Arrigo  ebbe  di  energico,  di  preveggente,  di 
tenace,  di  vittorioso.  Sennonché  il  fascino  non  emana"  solo  dalle  pa- 
role di  Dante,  ma  altresì  da  quello  che  affascinò  Dante  stesso,  cioè 
dal  fatto  che  quel  buono  e  bello  imperatore  discese  in  Italia  con  la 
pili  sincera  intenzione  di  pacificare  gli  animi  e  col  proposito  di  con- 
tenersi ^me  un  padre  amoroso.  Orbene,  che  questo  attraesse  non 
solo  il  classicista'  memore  dell'Impero  Romano,  e  il  pensatore  che 
sognava  un  tutore  supremo  della  giustizia  in  terra,  e  il  fuoruscito 
che  con  l'aiuto  di  lui  sperava  rimpatriare,  ma  attraesse  pure  tante 
città  e  popoli  e  signori,  e  quasi  soltanto  in  Firenze  non  destasse  la 
menoma  simpatia,  anzi  la  più  rabbiosa  renitenza,  è  proprio  una 
cosa  così  bella  in  tutto  e  così  magnanima  come  pare  al  nostro  va- 
lente critico?  Lasciamo  da  parte  le  speranze  utopistiche  di  Dante, 
ma  Siam  noi  sicuri  che  se  Arrigo  fosse  riuscito  nell'impresa  l'Italia 
non  ne  avrebbe  avuto  che  danno?  Qui  davvero  temo  che  si  cada  in 
un  anacronismo,  considerando  Arrigo  coi  suoi  Tedeschi  come  un 
imperatore  berlinese  o  viennese  con  tutto  il  loro  corteo  di  oppres- 
sioni e  d'altro.  Il  caso  era  molto  diverso,  né  vuol  dir  poco  che  lo 
stesso  Petrarca  in  fatto  di  Sacro  Romano  Impero  non  si  straniasse 
molto  dal  concetto  dantesco,  quantunque  vi  rimanesse  men  fido,  più 
pronto  a  cedere  ad  altre  seduzioni  più  concrete.  Chi  può  dire  che 
cosa  sarebbe  potuto  nascere  dall'insediarsi  in  Roma,  e  lontano  il 
Papa  in  Provenza,  un  brav'uomo  e  bene  intenzionato,  col  titolo  di 
Re  dei  Roman;  ed  Imperatore,  e  dal  rinnovarsi  cosi  con  qualche 
divario  il  caso  di  Federico  II?  La  storia,  lo  so,  non  si  fa'  con  l'im- 
maginazione, sicché  non  conviene  asserire  che  Arrigo  avrebbe  av- 
verata almeno  una  parte  delle  speranze  di  Dante;  ma  neanche  è 
lecito  giurare  che  le  avrebbe  in  tutto  deluse:  com'è  d'altra  parte 
innegabile  che  quell'Italia  che  risultò  dal  fallimento  di  Arricro.  cioè 


FECE   DUNQUE   BENE    FIRENZE   A   SBANDIRE   DANTE?!!  107 

dal  trionfo  dei  Fiorentini,  e  che  mise  capo  alle  tante  miserie  dei  due 
secoli  ulteriori  e  di  tutta  la  nostra  storia,  non  fu  tal  cosa  da  farci 
benedire  quel  trionfo.  Né  essi  trionfatori  miravano  molto  lungi, 
sicché  si  possano  encomiare  quali  precursori  magnanimi  e  non  in- 
consapevoli delle  future  rivincite  del  sentimento  nazionale  italiano 
contro  l'oppressione  straniera.  Se  Dante,  idealizzando  troppo  l'im- 
pero di  Roma  antica  e  troppo  fantasticando  sulla  reviviscenjza  di 
esso  nel  mondo,  spingeva  lo  sguardo  troppo  in  là  nel  passato  e  troppo 
in  qua  nell'avvenire,  in  modo  da  travedere  un  po'  sul  presente,  i 
suoi  nemici,  chiaroveggenti  rispetto  al  presente,  riuscirono  a  vincere 
il  loro  punto,  ma  non  per  questo  si  possono  magnificare  senz'altro  i 
loro  motivi  e  i  loro  fini.  Perchè  s'inviperirono  contro  Arrigo?  Perchè 
questi,  il  missionario  delle  pacificazioni,  voleva  ch'ei  facessero  pace 
con  Arezzo,  e  perchè  prescriveva  ad  ogni  città  di  riaiprir  le  porte 
ai  fuorusciti  !  Se  per  suscitargli  contro,  col  danaro  e  coll'astuzia, 
altri  nemici,  stuzzicavano  in  questi  anche  l'orgoglio  italiano  verso 
i  barbari,  non  è  però  supponibile  che  soprattutto  un  ombroso  senti- 
mento di  dignità  nazionale  governasse  l'anima  di  quei  Fiorentini 
che  pochi  anni  innanzi  avevano  così  abiettamente  messa  la  città 
loro  in  mano  di  un  regio  avventuriero  di  Francia,  come  non  avevano 
recalcitrato  alle  sopraffazioni  d'un  pontefice  ambizioso  e  violento, 
parso  invece  intollerabile  all'Alighieri  e  ad  altri  Bianchi.  In  realtà, 
nel  loro  superbo  puntiglio,  che  li  trasse  anche  a  ingenerosamente 
schernire  l'improvvisa  morte  dell'Imperatore,  essi  mirarono  ai  loro 
interessi  commerciali  e  industriali  che  li  avvincevano  alla  Francia 
e  al  Reame  angioino.  E  diipoi,  nella  non  lunga  durata  della  libertà 
fiorentina,  non  balenò  mai  un  pensiero  alto,  un  impulso  generoso 
che  trascendesse  quella  vita  municipale  e  regionale.  Solo  il  povero 
Machiavelli  si  levò  finalmente  al  più  alto  ideale  patriottico  nazio- 
nale. L'aspro  duello  con  Arrigo  appagò  dunque  l'orgoglio  e  aumentò 
la  forza  di  Firenze,  ma  la  posterità  non  lo  ha  idoleggiato  perchè 
non  vi  scorse  mai  né  un  motivo  generoso,  degno  di  gareggiare  col 
nobile  proposito  di  Arrigo,  né  il  fulgore  della  gloria  militare,  né 
l'uso  di  mezzi  sempre  lodevoli,  né  effetti  chiaramente  e  sicuramente 
benefici  per  l'Italia.  Anche  dopo  la  calda  apologia  di  cui  discor- 
riamo, l'ammirazione  vera  resterà  sempre  per  Dante,  che  si  lasciò 
sedurre  dalle  aspirazioni  magnanime  d'un  principe  buono,  dalla 
speranza  che  questi  pacificasse  la  discorde  e  sbattuta  Italia,  e,  come 
il  Pistelli  medesimo  ampiamente  riconosce,  dall'ideale  di  un  grande 
passato,   dall'intuito  vago  di  un  perenne  miraggio  dell'umanità. 

Che  il  governo  dei  Neri  non  interrompesse  il  rigoglio  di  Firenze, 
e  riuscisse  (lasciamo  stare  se  con  vantaggio  o  no  dell'Italia)  a  di- 
sfare un  imperatore,  è  cosa  certamente  notevole,  ma  che  non  può 
far  dimenticare  che  lo  scempio  dei  Bianchi  fu  scempio  della  parte 
più  moderata,  alla  quale  appartenevano  i  cittadini  migliori,  e  i  più 
di  quelli  che  oggi  soglion  dirsi  gl'intellettuali.  Non  vorrei  errare  per 
insufficienza  di  dottrina  storica,  ma  non  credo  che  la  parte  dei  Neri, 
così  ricca  di  gente  cattiva  e  facinorosa,  avesse  nessuno  da  contrap- 
porre, non  dico  a  Dante,  ma  a  Guido  Cavalcanti,  a  Dino  Compagni, 
a  Sennuccio  del  Bene,  a  ser  Petracco  e  ad  altri.  Non  si  parla  ohe  di 
Giovanni  Villani,  che  però  si  mostra  spesso  così  equanime  e  così 
poco  partigiano,   da  far  venire  la  voglia  di  qualificarlo  piuttosto 


108  i-t'.t    ui  .NyLE    BENE    FIHEìNZE    A    oBANJiiit    iMNIE?!! 

grigio  che  nero.  Ogni  partito  buono  ha  la  sua  zavorra,  s'intende, 
come  ogni  partito  cattivo  ha  eccezioni  onorevoli;  ma,  tutto  sommato, 
la  rivoluzione  in  cui  Dante  fu  tra^^olto,  e  il  Compagni  a  stento  si 
salvò,  fu  un  sormontare  del  partito  più  violento,  più  rozzo,  più 
senza  scrupoli,  più  senza  dignità  cittadina,  contro  il  partito  più 
savio,  più  colto,  più  mite,  più  buono.  Dato  e  non  concesso  che 
■potesse  dirsi  disgrazia  e  non  colpa  l'essere  Dante  stato  vittima  di 
quella  rivoluzione,  la  rivoluzione  stessa  fu  colpa,  ed  è  un'onta  per 
la  città  che  i  peggiori  vi  potessero  schiacciare  i  migliori.  Non  vi 
riuscirono  senza  complicità  d'un  tristo  pontefice  e  d'uno  straniero 
crudele,  né  bisogna  certo  dimenticare  giammai  ohe  in  ogni  città  o 
nazione  molta  parte  degli  uomini  è  più  o  meno  irresponsabile,  stru- 
mento o  vittima  degli  atti  e  delle  passioni  di  quel  numero  più  ri- 
stretto d'uomini  che  fa  la  ipolitica  d'un  paese  e  ne  ha  il  vero  merito 
o  la  vera  colpa;  ma  la  storia,  ohe  sottintende  tutto  questo,  bada  alla 
somma  degli  avvenimenti  e  delJe  loro  cause,  e  dei  fatti  gloriosi  o 
malvagi  la  gloria  o  l'ignominia  attribuisce  al  paese  ove  i  fatti  si 
compirono.  La  cacciata  feroce  dei  Bianchi  è  un'ignominia  per  la 
Firenze  di  quegli  anni,  e  una  ignominia  nell'ignominia  è  che  tra. 
quei  cacciati  ci  fosse  un  Dante  Alighieri.- 

Né,  aggiungiamo,  è  facile  ammettere  che  quell'espulsione  di 
cittadini  migliori  sia  stata  senz'alcun  danno  per  l'avvenire  morale 
della  città.  Nel  suo  componimento  Poeti  di  parte  bianca  il  Carducci 
fa  dire  a  un  signore: 

...  O  cieca 
E  diserta  Firenze,  or  ohe  ti  resta 
Altro  che  frati  e  bottegai! 

Ma  codesti  son  colori  carducciani,  e  io  mi  guarderò  bene  di  ra.- 
sparli  dal  suo  quadro;  e  solo  ne  colgo  il  destro  per  insistere  sul 
danno  ohe  Firenze  dovette  avere,  se  non  per  il  suo  sviluppo  edilizio, 
ma  forse  pel  suo  procedimento  morale  e  letterario,  dall'esser  la  Re- 
pubblica divenuta  sempre  più  cosa  di  banchieri,  di  mercanti,  d'in- 
dustriali, e  dall'aver  essa  amputato  da  sé  e  Dante  e  virtualmente  il 
Petrarca  ed  altri  ed  altri  più  o  men  degni  di  far  loro  compagnia. 

• 
•  * 

In  cambio  di  chieder  conto  a  chi  oggi  ripeta  quel  che  è  il  senti- 
mento generale  circa  l'esilio  di  Dante,  da  Giovanni  del  Virgilio  e 
Cine  da  Pistoia  fino  ai  giorni  nostri,  deve,  chi  voglia  difender  Fi- 
renze, chieder  lui  venia  di  poterla  difendere  senza  cJie  subito  gli  si 
gridi  contro,  e  ha  da  circoscrivere  la  difesa  a  sfrondare  l'offesa  di 
ciò  che  in  essa  vi  fu  o  vi  è  d'iperbolico  e  di  gonfio.  «  La  colpa  è  », 
dice  il  Pistelli,  «d'una  lunga  tradizione  letteraria  ohe  arriva  fino 
al  Carducci  »;  ma  non  so  perchè  ei  si  fermi  al  Carducci,  quando  la 
tradizione  sopravvive  intatta  a  quel  così  alto  poeta  e  critico,  e  co- 
desta e  antichità  e  perennità,  codesta  comunanza  a  non  toscani  ed  a 
tojicani  è  la  più  bella  prova  che  un  sentimento  così  universale  e  così 
istintivo  può  venir  bensì  temperato  con  riflessioni  equanimi,  non 
già  soffocato  con  argomentazioni  non  tutte  spassionate  né  scevre  di 
sottigliezza. 


FECE  DUNQUE   BENE    FIRENZE   A   SBANDIRE   DANTE?!!  109 

Non  SO  se  di  quella  tradizione  il'  Pistelli  abbia  avuto  presenti 
al  'jjensiero  due  campioni  per  diverse  ragioni  particolarmente  note- 
voli; ad  ogni  modo  mi  piace  di  rifarli  presenti  a  me  e  ai  lettori. 
L'uno  è,  intanto,  Michelangelo  Buonarroti,  l'anima  più  dantesca 
che  sia  nata  in  Firenze  dopo  Dante,  e  insieme  uno  dei  cittadini  più 
devoti  e  più  benefici  alla  patria,  che  egli  s'adoprò  a  difendere  contro 
un  tu tt' altro  imperatore  che  quello  onde  il  poeta  era  stato  seguace. 
In  due  sonetti,  con  quella  sua  ipotente  durezza  che  diremmo  quasi 
alfieriana,  egli  scalpellò  aspri  versi  contro  Firenze.  Non  sono  men 
fieri  nella  forma  a  cui  li  ridusse  il  nipote  omonimo,  ma  giova  richia- 
marli in  quella  che  dagli  autografi  ristabilì  Cesare  Guasti  (Firenze, 
Le  Monnier,  1863,  pag.  153-5),  e  non  nuoce  trascrivere  in  nota  la  pa- 
rafrasi che  egli  ne  fece. 

Dal  ciel  discese,  e  col  mortai  suo,  poi 

Che  visto  ebbe  l'inferno  giusto  e  '1  pio 

Ritornò  vivo  a  contemplare   Dio,^ 

Per  dar  di  tatto  il  vero  lume  a  noi: 
Lucente  stella  che  co'  raggi  suoi 

Fé'  chiaro,  a  torto,  el  nido  ove  naqqu'io; 

Ne  sare  '1  premio  tutto  '1  mondo  rio: 

Tu  sol,  che  la  creasti,  esser  quel  puoi. 
Di   Dante  dico,   che  mal  conoeciute 

Fur  l'opre  sue  da  quel  popolo  ingrato, 

Che  solo  a'   justi  manca  di  salute. 
Fuss'io  pur  lui!  e' a  tal  fortuna  nato, 

Perl  'aspro  esilio  suo,  con  la  virtute. 

Dare'  del  mondo  il  più  felice  stato  (1). 

Quante  dime  si  de'  non  si  può  dire, 

Che  troppo  agli  orbi  il  suo  splendor  s'accese; 

Biasmar  si  può  più  '1  popol  che  l'offese, 

Cai  suo  men  pregio  ogni  maggior  salire. 
Q|uesto  discese  ai  merti  del  falline 

Per  l'util  nostro,  e  poi  a  Dio  ascese: 

E  le  porte  che  '1  ciel  non  gli  contese. 

La  patria  chiuse  al  suo  giusto  desire. 
Ingrata,  dico,  e  della  sua  fortuna 

A  suo  danno  nutrice;  ond'è  ben  segno 

Ch'a'  più  perfetti  abbonda  di  più  guai. 

(1)  Dal  cielo  discese  (lo  spirito  di  Dante);  e  poiché,  «nito  al  corpo,  ebbe 
visitato  l'Inferno  dove  punisce  i  rei  la  giustizia,  e  quello  dove  gastiga  la  Mise- 
ricordia divina  (cioè  il  Purgatorio),  ritornò  al  Paradiso,  essendo  ancora  in  vita, 
a  contemplare  Dio;  affinchè  potesse  dare  a  noi  ndtizia  vera  delle  cose  che  sono 
fuori  di  questa  terra.  E  tal  lume  di  scienza  potè  egli  darci,  essendo  come  una 
splendida  stella;  la  quale  fece  illustre  quella  patria  di  ciò  immeritevole,  in  cui 
pure  io,  Michelangelo,  sono  nato.  Ma  la -patria  non  era  sufficiente  a  retribuirlo, 
se  tutto  il  mondo,  malvagio  com'è,  non  sarebbe  stato  a  lui  premio  condegno  :  no, 
tu  solo,  o  Dio,  che  creasti  quell'anima  grande,  potevi  essere  la  sua  retribuzione. 
Io  parlo  di  Dante,  e  dico  che  l'opere  sue  vennero  mal  oonosciute,  o  guiderdo- 
nate, dall'ingrato  popolo  fiorentino,  che  a  tutti  dà  favore,  tranne  i  giusti.  Ma, 
ciò  non  di  meno,  io  vorrei  essere  Dante;  ne  m'importerebbe  di  correre  la  sua 
stessa  fortuna  ;  perchè,  quando  avessi  la  sua  virtù,  non  vorrei  cambiare  il  suo 
duro  eeiglio  col  più  felice  stato  del  mondo. 


Ilo  FECE   DUNQUE   BENE    FIRENZE   A    SBANDIRE   DANTE?!! 

Fra  mille  sue  ragion  sol  ha  quest'una: 
So  par  non  ebbe  suo  esilio  indegno, 
Simil  uom  né  maggior  non  nacque  mai     (1). 

L'altro  campione  è  nientemeno  che  il  decantato  cronista  dei  Neri, 
il  Villani.  Già  nel  capitolo  necrologioo  (IX,  136)  aveva  detto  :  «  E  '1 
suo  esilio...  fu  per  cagione,  che  quando  messer  Carlo  di  Valois  della 
casa  di  Francia  venne  in  Firenze  l'anno  1301,  e  caccionne  la  parte 
bianca,...  il  detto  Dante  era  de  maggiori  governatori  della  nostra  città 
e  di  quella  parte;  bene  che  fosse  guelfo,  e  però  sanza  altra  colpa,  colla 
detta  parte  bianca  fu  cacciato  e  sbandito  di  Firenze  ».  Né,  per  non 
parere  un  pan^irista  dovendo  accennare  ai  difetti  dell'esule,  diceva 
altro  se  non  :  «  Questo  Dante  per  lo  suo  savere  fu  alquanto  presun- 
tuoso e  schifo  e  isdegnoso,  e  quasi  a  guisa  di  fìlosafo  malgrazioso 
non  bene  sapea  conversare  co'  laici  ».  Ma  più  tardi,  giunto  ai  fatti 
posteriori  di  quasi  un  quarto  di  secolo  alla  morte  di  Dante  (XII,  44), 
il  caro  uomo  uscì  in  tali  elogi  che  paiono  incredibili  da  parte  di  un 
Nero,  perfino  da  parte  di  lui  che  tra  i  Neri  era  una  mosca  bianca! 
Dopo  aver  biasimata  l'ingratitudine  di  Firenze  verso  i  Pazzi  e  i  To- 
singhi,  e  i  Rossi,  continuava:  «  Di  (juesto  torto  fatto  per  gli  reggenti 
del  popolo  a'  sopraddetti  gentili  uomini,  con  lo  inzigamento  degli 
altri  grandi  per  invidia,  avemo  fatta  menzione  per  dare  assemplo  a 
quelli  che  verranno,  come  riescono  i  servigi  fatti  allo  ingrato  popolo 
di  Firenze;  e  non  è  pure  avvenuto  a'  detti,  ma  se  noi  ricogliamo  le 
ricordanze  antiche  di  questa  nostra  cronica,  intra  gli  altri  notabili 
uomini  che  feciono  per  lo  comune  si  fu  messer  Farinata  degli  Uberti, 
che  guarentì  Firenze  che  non  fosse  disfatta;  e  messer  Giovanni  Sol- 
danieri,  che  fu  capo  alla  difensione  del  popolo  contra  al  conte  Guido 
Novello  e  agli  altri  ghibellini;  e  Giano  della  Bella,  che  fu  comincia- 
tore  e  fattore  del  secondo  popolo;  e  messer  Vieri  de"  Cerchi^  'e  Dante 
Alighieri,  e  altri  cari  cittadini  e  guelfi,  caporali  e  sostenitori  di  que- 
sto popolo.  I  meriti  e  guiderdoni  ricevuti,  i  detti  e  loro  discendenti, 
dal  popolo,  assai  sono  manifesti  pieni  di  grandissimo  vizio  d'ingra- 
titudine, e  con  grande  offensione  a  loro  e  ai  loro  discendenti,  sì  d'e- 
silio e  disfazione  de'  loro  beni  e  d'altri  danni  fatti  loro  per  lo  ingrato 
popolo  maligno  :  che  disceso  de'  Romani  e  de'  Fiesolani  ab  antiquo, 
ancora,  se  leggiamo  l'antiche  storie  de'  nostri  padri  romani,  non  veg- 
giamo  tralignare».  E  quindi  si  volgeva  a  toccar  dell'ingratitudine 

(1)  Non  ai  può  dir  mai  di  Dante  quanto  se  ne  dovrebbe,  perchè  il  suo 
splendore  soverchiò  tanto  le  viste  da  rimanerne  ciechi:  ed  è  più  facile  dir  male 
del  popolo  che  gli  feoe  ingiuria  che  salire  qualsivoglia  gran  dicitore  a  celebrare 
degnamente  il  suo  minor  pregio.  Egli  discese  nei  luoghi  dove  si  rimeritano  con 
giuste  pene  le  colpe,  per  darcene  utile  ammaestramento,  e  p>oi  salì  fino  a  Dio: 
e  il  cielo  non  isdegnò  d'aprirgli  le  porte,  mentre  la  patria  gli  chiuse  le  sue  quan- 
tunque egli  desiderasse  giustamente  di  rientrarvi.  Patria  ingrata,  che  a  proprio 
danno  nutrisce  le  cagioni  della  sua  sventura  (cioè,  del  suo  cadere  da  libertà 
discorde  in  misera  servitù):  del  qual  suo  prepararsi  la  rovina  da  se  medesima 
è  argomento  certo,  che  agli  tiomini  più  eccellenti  (come  l'Alighieri)  ella  sia  più 
larga  di  guai.  E  fra  le  mille  ragioni  che  si  potrebbero  addurre,  dirò  questa 
sola:  Che,  se  non  vi  fu  mai  esilio  indegno  come  questo,  neppure  nacque  mai 
uomo  pari  o     maggiore  di  Dante. 


FECE   DUNQUE   BENE    FIRENZE   A    SBANDIRE   DANTE?!!  Ili 

del  popolo  romano  per  Camillo,  per  Scipione  Africano,  per  Giulio 
Cesare,  e  dopo  altre  malinconie  concludeva  scusandosi  della  digres- 
sione, cui  era  tratto  «  per  le  opere  degli  straboccati  \-izi  de'  nostri 
rettori  ».  —  Non  rianderò  io  le  davvero  straboccate  osservcizioni  del- 
rimbriani  {Sltcdi  danteschi,  pagg.  110-13)  volte  a  dar  dell'ingenuo 
al  Villani,  ma  non  negherò  che  nelle  parole  di  questo  si  ravvisi 
l'uomo  che  aveva  familiari  le  opere  di  Dante,  e  l'ammiratore  disposto 
a  guardarlo  già  al  modo  della  posterità,  ed  altresì  lo  storico  che  pre- 
sume di  levarsi  a  riflessioni  sintetiche  con  enfasi  e  pessimismo  di 
moralista.  Sennonché,  badiamo,  egli  era  sempre  un  contemporaneo 
di  Dante,  potè  perfino  averlo  conosciuto  (ancorché  non  si  voglia  dar 
peso  a  sospette  testimonianze  che  ciò  affermano)  ;  c'era  in  lui  un  sen- 
timento intimo  e  vivo  delle  cose  e  delle  persone  quale  in  nessun  mo- 
derno ci  può  mai  essere.  È  ad  ogni  modo  un  bel  caso  il  trovar  Dante 
così  glorificato  e  così  compassionato  da  chi  apparteneva  al  partito 
che  lo  esiliò.  E  allora,  per  aver  un  giudizio  equanime  sull'esilio  del 
poeta  bianco  non  resta  che  ricorrere  a  Corso  Donati  o  a  Gante  dei 
Gabrielli!  Ma,  in  verità,  che  peccato  che  in  quella  Firenze  non  ci 
fosse  qualche  Villani  di  più  e  qualche  villano  di  meno! 

• 
*  • 

Più  volte,  nello  scorrer  queste  calde  pagine  del  Pistelli,  vien  da 
chiedersi  :  ma  insomma  vuol  egli  addirittura  che  Firenze  facesse 
bene  a  scacciare  Dante  o  a  non  riammetterlo  mai  più?  C'è  di  quelli 
che  lo  scaccerebbero  anche  oggi  se  risorgesse?  Ma  lasciamo  questa 
seconda  ipotesi,  astratta  e  impossibile,  giacché  né  Dante  può  risor- 
gere, né  oggi  un  Gomoine  può  esiliar  nessuno;  e  non  istiamo  (juindi 
neppure  a  replicare  che,  se  oggi  Firenze  perfidiasse  nel  rimanere  Fi- 
renze, tutta  Italia,  per  Dio,  diverrebbe  Ravenna!  Restringiamoci 
dunque  alla  nostra  domanda  più  generica.  Ebbene,  ad  essa  sembra 
aver  risposto  implicitamente,  e  nel  modo  più  inaspettato,  il  Pistelli 
con  questa  dedica  messa  in  fronte  all'opuscolo  :  «  Ad  Antonio  Gar- 
BASSO  con  l'augurio  che  lui  gonfaloniere  Firenze  ritrovi  la  coscienza 
e  gli  spiriti  della  Firenze  di  Dante  ».  La  Firenze  di  Dante?!  cioè  quella 
che  Dante  biasimò  e  da  cui  egli  fu  scacciato?  Se  l'augurio  dicesse  che 
Firenze  ritrovi  la  ricchezza  dei  tempi  in  che  pai>a  Bonifazio  potè  de- 
finirla la  fonte  delVoro  e  Dante  deplorava  che  producesse  e  span- 
desse il  maledetto  fiorino,  manco  male.  Firenze,  come  tutti  i  grandi 
Comuni,  ha  dopo  la  guerra  da  smaltire  "più  milioni  di  disavanzo,  e 
per  il  gonfaloniere  o  sindaco  sarebbe  gran  fortuna  il  ritorno  alle 
condizioni  di  sei  secoli  fa.  Ma  l'augurio  è  che  Firenze  ritrovi  quella 
coscienza  e  quegli  spiriti,  e  allora  sarebbe  stato  più  semplice  rievo- 
care la  Firenze  dei  tempi  di  Bonifazio  Vili  o  di  Clemente  V,  o  che 
so  io,  e  non  tirare  in  ballo  il  povero  Dante.  Meglio  scordarsi  di  lui 
nel  momento  che  il  desiderio  era  rivolto  a  una  Firenze  senza  Dante 
e  contro  Dante.  Capisco,  è  il  suo  centenario,  ed  è  spontanea  la  ten- 
tazione di  rendergli  omaggio  :  ma  un  omaggio  di  tal  fatta  è  illusorio, 
è  meramente  acustico,  e  si  direbbe  quasi  canzonatorio  se  non  fosse 
sdrucciolato  dalla  penna  di  un  dantista.  Intanto,  poiché  è  venuto  in 
campo  il  sindaco  di  Firenze,  soggiungo  essermisi  riferito  che,  quando 
il  20  settembre,  in  Campidoglio,  si  udì  il  bel  discorso  di  Corrado 


112  FECE   DUNQUE   BENE    FIRENZE  A    SBANDIRE   DANTE?!! 

Ricci,  quegli,  nelle  poche  parole  che  ebbe  a  pronunziare  come  rap- 
presentante di  Firenze,  toccò  del  non  intjiuslo  esilio,  sicché  poi  molti, 
finita  che  fu  la  solennità,  attorniarono  il  Ricci  per  domandargli  se 
d:awero  il  sindaco  avesse  pronunziate  quelle  parole  o  loro  avessero 
udito  male.  Or  qui  si  vede  ancor  una  volta  quanto  siano  pericolosi 
i  paradossi,  che,  inducendo  negli  animi  una  persuasione  nuova  o 
contraria  al  sentimento  generale,  li  sospingono  a  sfidare  un  tal  sen- 
timento pur  senza  alcuna  necessità  e  pur  quando  meno  sarebbe  il 
caso  di  farlo.  Che  bisogno  aveva  l'illustre  e  valente  scienziato  subal- 
pino, parlando  in  nome  di  Firenze,  di  toccare  ad  ogni  costo  quel 
tasto  doloroso  dell'esilio,  e  che  convenienza  può  avene  scorta  nel 
toccarlo  proprio  lui  in  tal  maniera  da  parer  quasi  di  ribadire  uflBcial- 
mente  la  secolare  condanna  fiorentina  che  il  mondo  ha  tanto  con- 
dannata? Ahimè,  ben  altrimenti  parlava,  come  ognun  può  vedere 
nel  bel  libro  di  Isidoro  Del  Lungo,  Dell'esilio  di  Dante  (pagg.  25, 
196,  197),  il  Cionsiglio  comunale  di  Firenze  quando  nel  deliberare, 
il  4  maggio  1864,  che  s'implorasse  da  Ravenna  la  restituzione  delle 
ceneri  di  Dante,  incominciava  :  «<  Considerando  esser  debito  de'  ne- 
poti,  il  fare  ammenda  pei  torti  degli  avi  con  sanarne,  quanto  è  da\ 
essi,  gli  effetti;  Considerando  che  il  sacro  deposito  delle  ossa  di 
Dante  Alighieri  in  Ravenna  è  a  un  tempo  stesso  testimonianza  e  per- 
petuazione dello  iniquo  esilio  patito  dal  massimo  Cittadino;  Consi- 
derando che  la  città  di  Firenze,  nel  disporsi  a  celebrare  il  sesto  cen- 
tenario di  Dante,  non  può  astenersi  dal  rinnovare  il  voto  già  antica- 
mente espresso,  e  poi  rimasto  sempre  vivo  negli  animi,  di  sanare 
quel  permanente  effetto  di  un  torto  avito;  Delibera,  ecc.».  Chi  fa- 
ceva da  gonfaloniere,  nel  rimettere  codesta  deliberazione  al  sindaco 
di  Ravenna,  dichiarandola  conforme  al  sentimento  dell'intera  citta- 
dinanza, non  imitava  per  l'appunto  la  magnanima  umiltà  dei  suoi 
colleghi,  e  la  temperava  scrivendo  come  i  Fiorentini  volessero  «  ripa- 
rare, più  che  ai  torti  dei  loro  maggiori,  alla  tristezza  dei  tempi  nei 
quali  vissero  ».  Forse  gli  parve  un  dovere  della  sua  carica  smerzare 
un  poco  le  tinte,  e  dignitosamente  insinuare  una  scusa  pegli  antenati; 
ma  infine  non  negava  la  tristezza  e  solo  la  ributtava  sui  tempi,  e  non 
istonava  dal  coro  di  quelli  in  cui  nome  scriveva.  Ora  siamo  arrivati 
al  non  ingnusto  esilio,  cioè  ad  una  frase  che  sembra  rimbeccare  per 
dritta  opposizione  la  parola  accorata  di  Lui  che  diceva  che  per  aver 
troppo  amata  Firenze  ei  pativa  inffiìisto  esilio,  e  la  formula  extU  iin- 
meritìis  che  si  trova  in  cima  alle  sue  epistole.  E  quest'affronto  ci  vo- 
leva proprio  nella  solennità  secentenaria?  e  proprio  in  Campidoglio? 
Ma  l'esilio,  bisogna  dirlo,  se  amareggiò  l'uomo,  fece  viepiù  gi- 
gantesco lo  scrittore.  Grande  educatrice  è  la  sventura;  un  grande  raf- 
finatore, non  che  degli  animi,  ma  degl'ingegni,  è,  dentro  certi  limiti, 
il  dolore!  Eppoi  col  peregrinare  fuor  della  terra  nativa  gli  si  dilargò 
l'orizzonte  intellettuale,  l'esperienza  e  degli  vizi  ìtmani  e  del  valore, 
la  conoscenza  dei  varii  costumi  e  dei  diversi  linguaggi  d'Italia;  vide 
da  vicino  altre  forme  di  democrazie  o  di  signorie;  conobbe  altri  paesi 
e  monunnenti,  altri  paesaggi  e  spettacoli  di  natura,  più  belli  o  più 
grandiosi  o  più  orridi  che  non  quelli  della  leggiadra  regione  sua,  ove 
anche  le  cose  sembrano  parlar  toscano,  tanto  soglion  essere  ordinate, 
misurate,  gentili.  La  lontananza  dalla  ristretta  cerchia  della  patria 
regionale  giovò  a  Dante,  come  al  Petrarca,  al  Boccaccio,  e  (già  lo 


FECE    ^...^    .L    BENE    FIRENZE    A    SBANDIRE    DANTE?!!  113 

notò  il  Chiappelli)  al  Carducci;  e  come  al  più  autoctono  dei  moderni 
poeti  toscani,  al  Giusti,  giovò  perfino  una  breve  dimora  a  Milano, 
donde  tornò  capace  di  scrivere  il  SanC Ambrogio.  Sicuro,  senza  l'e- 
siliò la  Comedìa  difficilmente  sarebbe  divenuta  ciò  che  chiamiamo 
la  Divina  Commedia;  o  chi  sa  se  neppure  sarebbe  stato  scritto  un 
poema  con  quel  titolo.  Abbiamo  perciò  a  ringraziarne  la  crudeltà 
della  patria?  L'Imbriani  (op.  cit.,  113)  scovò  un  poeta  avellinese, 
Francesco  Murena,  che  il  1830  concludeva  un  non  disprezzcibile  so- 
netto così: 

«  Che,  di  pleiade  cassa  e  di  consiglio, 

Fiorenza  ingrata,  tu  gravavi  al  fondo 
D'c^ni    miseria   lo   maggior   tuo   figlio! 

Pur  se  a  quel  vasto  immaginar  profondo 

Fu  nerbo  l'ira   dell'ingiusto  esiglio. 

Di  tanta  colpa  oggi  t'assolve  il  mondo  ». 

Ma  son  modi  di  dire  codesti,  estri  momentanei,  non  veri  giu- 
dizi, né  stabili.  Simili  considerazioni  possono  attenuare  un  poco 
l'acerbità  del  rancore  o  del  rimorso,  ma  di  assoluzione  non  è  da  par- 
lare. Gli  effetti  buoni  dell'esilio  furono  imprevisti,  preterintenzio- 
nali, e  solo  i  cattivi  furon  voluti,  evidenti,  immediati,  continui;  e 
imperdonabili.  Imperdonabili  nel  senso  che  abbiam  ripetutamente 
detto  e  che  non  vorrei  ripetere  per  la  centesima  volta.  Nei  princi- 
pianti o  negl'inesperti  d'ogni  maniera,  l'idea  che  Firenze  scacciò 
Dante  suscita  il  fantasma  d'una  città  intera  in  cui  nobili  e  plebei, 
uomini  e  donne,  giovani  e  vecchi,  si  levassero  a  gridare  dalli  dalli, 
e  contro  a  un  uomo  che  già  avesse  i  meriti  che  aveva  il  giorno  della 
sua  morte  :  come  se  insomma  Torino  avesse  a  quel  modo  scacciato 
Camillo  Cavour  nel  maggio  1861,  o  Milano  Alessandro  Manzoni  nel 
maggio  del  1873.  Anche  ad  uomini  non  semplici  può  lì  per  lì,  alla 
stordita,  presentarsi  in  confuso  un'immaginazione  pressappoco  si- 
mile. Ma  essa  non  è  che  una  i)arodia  della  realtà,  una  tragica  cari- 
catura. Sennonché  una  parodia  in  senso  opposto  è  un  concepire  la 
realtà  in  modo  da  rappresentarsi  l'esilio  di  quel  grand'uomo  come 
una  pietra  caduta  in  capo  ad  un  ignoto  in  mezzo  ad  una  folla  tumul- 
tuante. Il  fatto  storico,  purgato  delle  iperboli  compassionevoli  e  fan- 
tastiche, e  d'altra  f«.rte  non  schiacciato  dalle  allegazioni  in  prò  di 
Firenze,  si  riduce  a  questo,  che  però  non  è  poco  :  i  cittadini  peggiori 
sopraffecero  i  migliori,  e  tra  essi  l'ottimo;  e  ciò  con  le  più  velenose 
intenzioni,  e  con  le  più  violente  maniere.  E  verso  quell'ottimo  perfi- 
diarono fino  all'ultimo,  e  fin  oltre  la  morte;  e  ci  vollero  altri  vent'anni 
perché  fossero  abilitati  i  figli  a  ricuperare  i  beni  del  padre,  qualifi- 
cato sempre  coi  titoli  regalatigli  da  Gante  dei  Gabrielli.  Solo  nel  1350 
i  Capitani  della  Compagnia  di  Orsanmichele  commettevano  al  Boc- 
caccio, che  si  recava  a  Ravenna,  di  consegnar  dieci  fiorini  d'oro  a 
suor  Beatrice  in  quel  monastero  di  S.  Stefano  dell'Uliva.  Tali  largi- 
rioni  soleva  quell'opera  pia  fare,  tra  le  altre,  a  religiosi  poveri;  e  que- 
sta sarà  stata  suggerita  dal  Boccaccio  medesimo.  Nonostante  ciò,  e 
benché  non  si  tratti  d'uno  slancio  affettuoso  della  città  o  dei  suoi  reg- 
gitori, ci  riesce  comimovente  che  da  Firenze  partisse  finalmente  un 
sesmo  di  devozione,  sia  pure  indiretto,  per  la  memoria  del  poeta,  e 
vòlto  aa  quella  Ravenna  dov'egli  giaceva  da  ventinov'anni,  e  destinato 

8  VoL  OCXVII,  «erte  VI  —  16  marzo  1922. 


114  FECE   DUNQUE   BENE    FIRENZE   A    SBANDIRE   DANTE?!! 

a  quella  figliuola  che  con  senso  teneramente  poetico  aveva  monacai) 
dosi  assunto  il  nome  della  donna  spiritualmente  amata  e  cantata  dui 
padre,  e  che  intennediario  dell'elemosina  fosse  il  Boccaccio.  Da  ul- 
timo, nell'agosto  1373,  a  petizione  dei  cittadini  chiedenti  la  esposi 
zdone  morale  e  retorica  del  poema,  il  Comune  ne  instituì  la  pub 
blica  lettura,  affidandola  al  Boccaccio,  che  prese  a  farla  in  santo  St<. 
fano  di  Badia,  e  pur  troppo  ci  morì  sopra.  Sempre  il  buon  Boccac- 
cio in  campo  a  rendere  e  far  rendere  onore  al  grande  esule;  ma  son 
pure  in  campo  una  buona  volta  i  cittadini  e  i  reggitori  stessi  della 
città,  e  la  solenne  lettura  è,  secondo  l'uso  d'allora  per  le  gravi  adu- 
nanze pubbliche  anche  non  pie,  in  una  chiesa,  forse  altresì  per  amor 
dell'indole  morale  e  religiosa  del  poema.  E  così  dopo  più  che  mezzo 
secolo  fu  infine  amnistiato  Dante,  o  perlomeno  ei  Dante! 

* 

Vorrei  giungere  subito  alla  conclusione,  nua  mi  convien  prima 
rifarmi  un  momento  al  mio  vecchio  colloquio  fiorentino  da  cui  ho 
preso  le  mosse.  Là  io  consentii  che  Dante  avesse  qualche  difetto  di 
temperamento,  di  quelli  che  più  nocciono  nel  mondo  e  più  spiegano 
il  naufragio  d'un  grande  carattere.  Oggi,  fuor  delle  strette  d'una  ra- 
pida polemica  a  tu  per  tu,  e  dopo  tant'anni  di  più  mature  riflessioni, 
sarei  meno  corrivo  ad  ammettere  la  gravità  di  quei  difetti.  Senza 
dubbio,  l'irascibilità  se  l'attribuisce  egli  stesso,  per  il  modo  onde  s'at- 
teggia nel  Purgatorio  col  partecipare  alla  pena  degl'irosi;  il  Boc- 
caccio, con  espressioni  di  quelle  sue  un  po'  strabocchevoli,  lo  rap- 
presenta come  intollerantissimo,  in  Romagna,  nelle  discussioni  po- 
litiche. Or  senza  negare  quel  che  anche  le  molte  sfuriate  del  poema 
e  delle  altre  opere  dimostrano,  giova  che  si  consideri  quanti  e  quanti 
sentimenti  gentili,  delicati,  teneri,  sereni  soprabbondino  in  tutte  le 
opere  sue,  e  quanto  buon  umore  anche  e  comicità  e  fine  arguzia  (ne- 
gata solo  da  quelli  che  d'arguzia  non  s'intendono),  e  arguzia  adoprata 
pure  contro  sé  stesso,  che  è  il  più  bel  segno  d'un'indole  ilare  e  bo- 
naria: cose  tutte  ohe  smentiscono  il  concetto  di  un  Dante  sempre  più 
o  meno  arcigno,  che  fosse  tutt'al  più  un  burbero  benefico,  capacis- 
simo bensì  di  sentimenti  dolci  nel  suo  intimo,  ma  tutto  punte  al  di 
fuori.  E  poiché  il  caso  mi  ci  porta,  noto  un  particolare  significativo. 
Quel  passo  del  'Convivio  (IV,  14)  ove  sdegnandosi  contro  i/n'altrui 
opinione  esce  a  dire:  fispondere  si  vorrebbe  non  con  le  parole  ma  col 
coltello  a  tanta  bestialitade,  è  spesso  addotto,  talora  lepidamente, 
qual  massimo  segno  d'iracondia;  ma  niuno  credo  abbia  portala  l'at- 
tenzione sulla  natura  dell'opinione  che  lì  è  causa  dello  sdegno.  Non 
si  tratta  d'un  errore  di  geometria  o  di  loica,  ma  egli  insorge  contro 
quelli  che  per  chiamar  nobile  un  oggetto  o  un  animale  esigono  che 
sia  buono,  e  per  dir  nobile  un  uomo  dicon  che  la  bontà  non  c'entri, 
e  basti  si  sia  dimenticata  la  bassa  condizione  degli  antenati.  La  vel- 
leità dunque  di  risponder  con  una  coltellata  moveva  da  quell'acuta 
ribellione  del  suo  senso  morale  contro  chi  nel  definire  la  nobiltà 
umana  non  richiedeva  la  bontà  attuale.  L'impeto,  incruento,  non  è 
senza  una  ragione  profonda,  non  è  segno  d'una  abituale,  sia  pure  in- 
nocua, bruschezza  di  maniere.  Ed  è  notevole  che  mentre  nel  Pvr- 
gatorio,  ripeto,  fa  in  modo  di  partecipare  alla  pena  degl'irosi,  e  dice 


FECE   DUNQUE    BENE    FIRENZE   A    SBANDIRE   DANTE?!!  115 

che  a\Tà  poco  bisogno  di  purgarsi  dell'invidia,  ma  piuttosto  della 
superbia,  nel  pantano  dello  Stig"e  invece  mette  un  Eibisso  tra  sé  e  gli 
orgog'liosi-invidiosi,  come  Filippo  Argenti  e  i  suoi  compagni,  e  si  fa 
abbracciare  ed  esaltare  da  Virgilio  quale  alma  sdegnosa,  come  per 
protestare  solennemente  che  l'inclinazione  sua  allo  sdegno  e -al  di- 
sdegno ha  radice  in  sentimenti  nobili  ed  è  il  preciso  opposto  della 
fastosità  superba  e  sprezzante  degli  uomini  mondani  e  trivialmente 
iracondi  di  ira  mala.  La  superbia  che  egli  si  ascrive  in  Purgatorio, 
certo  di  carattere  veniale,  è  quel  po'  di  vanagloria  che  difficilmente 
l'uomo  di  studio  riesce  a  schivare,  e  la  ritrosìa  ad  umiliarsi  a  chieder 
favori,  che  nell'esilio  dovè  dargli  tanta  tortura.  Del  rimanente,  tutta 
l'affettività  buona  e  ingenua  della  Yita  Nuova,  rammirazione  entu- 
siastica e  tenera  pei  grandi  scrittori,  l'amicizia  deferente  e  cordiale 
per  Guido  Cavalcanti  e  per  Gino,  il  rimorso  vivissimo  tutto  spon- 
taneo per  colpe  contro  le  sue  idealità,  ci  rivelano  un'anima,  benché 
altera,  non  altezzosa.  La  sventura  lo  inasprì  ma  non  lo  guastò,  e  l'ar- 
dore del  bene  fu  l'ispiratore  delle  sue  collere  come  delle  sue  dol- 
cezze. Ovunque  non  fu  buon  vino,  fu  buon  aceto;  così  mi  diceva  un 
giorno  il  D'Ancona,  convenendo  meco  nel  condannare  certi  dubbii. 
Sarebbe  fatuità  creder  Dante  infallibile  ed  impeccabile,  ma  un'as- 
serzione peggio  che  gratuita  sarebbe  che  alla  superfìcie  egli  fosse 
così  scabro,  da  potersi  con  ciò  spiegare  tutta  o  quasi  tutta  la  sua 
jx)ca  fortuna. 

Quanto  all'animo  di  lui  rispetto  alla  forma  di  governo  e  alla  po- 
litica del  suo  Gomune,  si  può  dir  che  vi  fosse  una  naturale  antipatia, 
benché  latente  fino  agli  anni  della  catastrofe.  Aristocratico  per  finezza 
d'ingegno  e  d'animo  e  per  coltura,  e  contento  d'appartenere  a  una 
famiglia  antica  dove  c'era  stato  anche  un  cavaliere,  si  era  pure  ac- 
conciato, guelfo  per  tradizione  domestica,  a  servire  il  guelfo  Co- 
mune, con  le  armi  e  nelle  magistrature  civili.  Sennonché,  già  nel  1294 
non  gli  sarebbe,  pare,  dispiaciuto  di  seguire  altrove  un  principe. 
Questo  viene,  insomma,  a  significare  ciò  che  egli  si  fa  dire  da  Carlo 
Martello  : 

Assai  m'amasti,  e  avesti  ben  onde, 

Chèj  s'io  fossi  giù  stato,  io  ti  moetraya 
Di  mio  amor  più  oHre  che  le  fronde. 

Non  di  largizioni  poteva  trattarsi,  cosa  volgare  per  un  Dante  e  per 
il  paradisiaco  incontro,  ma  doveva  esserci  stato  almeno  un  vago  ac- 
cordo per  il  quale  il  giovane  poeta  sarebbe  andato  in  Provenza  o  a 
Napoli  in  corte  del  giovane  principe,  salito  che  fosse  al  trono  o  anche 
prima.  Codesta  anticipata  disposizione  a  quella  vita  di  uomo  di 
corte,  che  poi  nell'esilio  ebbe  più  volte  a  fare  o  sperare,  qualcosa 
significa;  quantunque  sia  da  riconoscere  che  allora  i  Fiorentini  vo- 
lentieri cercavan  fortuna  altrove,  e  in  tal  numero  da  poter  Boni- 
fazio VII!  definirli  il  quinto  elemento  dell'universo,  senza  che  ciò 
possa  interpretarsi  come  un  desiderio  che  tutti  e  ciascuno  avessero 
di  fuggire  lo  spettacolo  della  vita  pubblica  fiorentina.  Ma  insomma 
quel  che  fu  costretto  a  fare  alla  men  peggio  nell'esilio  era  proprio  la 
sua  vocazione:  vocazione  nell'ordine  pratico,  s'intende,  oltre  quella 
ideale  di  scrittore.  E  ciò  si  scorge  ben  chiaramente  dal  magnificare 
che  fa  nel  poema  e  nelle  prose  la  liberalità  di  certi  principi  della  pas- 


116  FECE   DUNQUE   BENE    FIRENZE   A   SBANDIRE   DANTE?!! 

sala  generazione  e  la  loro  smania  di  circondarsi  d'uomini  sapienti 
e  virtuosi;  dal  flagellare  l'avarizia  e  la  grossolanità  dei  più  dei  prin- 
cipi contemporanei;  dal  celebrare  con  quEisi  eccesso  di  gratitudine 
quelli  che,  come  i  Malaspina  e  pochi  altri,  gli  si  fossero  mostrati 
cordiali.  Si  vede  che  quello  sarebbe  stato  il  suo  mondo,  purché  non 
fosse,  come  a  lui  pareva,  degenerato.  E  di  quelle  istituzioni  fiorenti- 
nesche delle  quali  era  stato  spettatore,  partecipe  e  vittima,  egli  era 
stomacato.  I  disastri  toccati  a  lui  e  alla  sua  parte,  gli  avevano  dato 
incentivo  a  riflettere  sopra  di  quelle,  ma  il  dolore  provato  lo  aveva 
tratto  a  riflessioni  disinteressate,  degne  d'un  pensatore  per  natura 
sua  schivo  del  disordine,  della  irrequietezza,  volubilità,  ingiustizia, 
violenza,  che  s'accompagnavano  a  quella  forma  di  governo.  Come 
Socrate  non  sapeva  darsi  pace  che,  mentre  nessuno  saflBderebbe  ad 
un  barcaiuolo  inesperto,  la  nave  dello  Stato  avesse  a  esser  guidata 
dal  primo  venuto;  così  a  Dante  pareva  assurdo  il  modo  di  governarsi 
della  sua  città  :  alla  quale  avrebbe  voluto  tornare  per  necessità  do- 
mestiche e  per  l'affetto  che  stringe  l'uomo  al  suolo  nativo,  ma  non 
certo  per  cacciarsi  in  quella  trista  politica,  e  trovarsi  di  nuovo  agnello 
tra  i  lupi.  Significativo  è,  fra  tanti  altri,  quel  passo  del  Convivio 
(IV,  27),  ove  dice  che  nella  vecchiezza  l'anima  nobile  è  prudente, 
giusta,  larga,  affabile,  e  che  per  la  giustizia  appunto  il  reggimento 
delle  città  fu  commesso  ai  vecchi,  al  Senato;  e  soggiunge  :  «  0  mi- 
sera, misera  patria  mia!  quanta  pietà  mi  stringe  per  te,  qual  volta 
leggo,  qual  volta  scrivo  cosa  che  a  reggimento  civile  abbia  rispetto!  ». 
In  quella  democrazia,  ove  poco  posto  poteva  trovare  il  rispetto  al 
valore  personale,  all'esperienza  dell'età  provetta  e  ad  ogni  altro  me- 
rito di  tal  genera,  egli  ravvisava  la  realtà  più  diametralmente  op- 
posta al  proprio  ideale  (1). 

(1)  Come  un  aegno  di  prosunzione  alcuni  rammentano  il  Giwsti  son  duo  ma 
non  vi  sono  intesi  {Inf.,  VI,  73)  che  egli  si  fa  dire  da  Ciacco,  cui  ha  domandato 
se  iu  Firenze  alcun  v'è  giusto  (ibid.,  62).  Ma  quello  è  uno  dei  versi  più  fraintesi 
del  poema  :  nel  suo  spirito,  dico,  non  nel  suo  senso  materiale.  Ab  antico,  presosi 
il  duo  alla  lettera,  ci  s'è  vista  una  lusinghiera  allusione  che  il  poeta,  per  boooa 
d'un  personaggio  espertissimo  del  mondo  fiorentino,  facesse  anzitutto  a  sé  me- 
desimo, e  si  è  quasi  da  tutti  cercato  chi  fosse  l'altro  che  nell'allusione  avesse 
l'onore  d'essergli  accoppiato;  e,  com'è  naturale,  si  pensò  subito  al  Cavalcanti 
principalmente,  o  al  più  al  Compagni,  o  ad  altri.  Ingenue  tali  <lesignazioni,  per 
ragioni  speciali,  accennate  da  altri  pel  Cavalcanti,  e  io  potrei  indicarne  pel 
Compagni,  se  ne  valesse  la  pena;  ma  l'ingenuità  maggiore  è  di  aver  creduto 
che  qui  ci  fosse  una  veiata  coppia  di  nomi  da  svelare,  laddove  il  duo  simboleg- 
gia senz'altro  un  numero  indeterminato.  Posto  in  oonnessione  con  l'alcun  della 
domanda,  il  quale  nell'uso  d'allora  poteva  significare  anche  semplicemente  «no, 
viene  a  dire  non  altro  che  più  d'uno.  Non  s'è  badato  che  qui  Dante  pensava  al 
suo  Geremia,  dove  esordisoe  (cap.  V):  ((Girate  per  le  vie  di  Gerusalemme,  e 
guardate,  e  considerate  e  cercate  per  le  sue  piazze,  se  trovate  un  uomo  che  fac- 
cia quello  che  è  giusto,  e  che  cerchi  di  esser  fedele,  ed  io  farò  a  lei  misericor- 
dia». Il  quale  Geremia  pensava  alla  sua  volta  al  Genesi  (XVIII,  23  segg.), 
dove  Abramo,  tentando  ottener  da  Dio  che  non  stermini  Sodoma  e  non  isperda 
il  giusto  per  il  peccatore,  gli  chiede  se  perdonerebbe  alla  città  ave  si  trovaasero 
cinquanta  giusti,  e  Dio  glielo  concede,  e  lui  ne  approfitta  per  discendere  a  qua- 
rantacinque e  poi  a  quaranta,  a  trenta,  a  venti,  a  dieci,  e  Dio  fin  li  seguita  a 
concedere  ;  ma  invano,  poiché  non  vi  si  trovò  che  un  giusto  solo,  e  Sodoma  fu 
distrutta!  Con  Geremia  il  Signoro  si  oontentenebbe^  notò  6.  Girolamo,  di  un 


FECE   DUNQUE   BENE    FIRENZE    A    SBANDIRE    DANTE?!!  117 


•  • 


L'apologista  di  Firenze  conclude  con  queste  parole  :  «  Lecito  è 
affermare  che  l'unica  creazione  di  Dio  degna  desser  pvaragonata  a 
Dante  fu  ed  è  proprio  la  sua  Finenze.  Nessun'altra  città  del  mondo 
era  altrettanto  degna  d'un  figliuolo  come  Dante  ». 

Parole  grosse,  molto  grosse!  Tuttavia  a  me  in  fondo  paiono  vere. 
Solamente,  confesso  che,  se  io  fossi  più  o  men  fiorentino,  lascerei  che 
le  dicessero  Italiani  d'cdtre  contrade  :  per  esempio,  nativi  della  città 
in  cui  furono  scritti  i  Promessi  Sposi,  ed  eretto  quel  duomo  che  fu 
battezzato  l'ottava  maraviglia.  Ma  tiriamo  via;  anzi  confessiamo 
un'altra  cosa  :  è  un  così  bel  campanile  quello  di  Giotto,  che  bisogna 
tollerare  aequto  arùmo  un  po'  di  campanilismo  in  chi  sia  nato  o  vis- 
suto all'ombra  di  quello.  Piuttosto,  chi  volesse  analizzare  il  con- 
cetto fondamentale  del  brano  surriferito  pK>trebbe  osservare  che,  es- 
sendo Dante  il  primo  e  più  alto  di  tutti,  ed  unica  la  sua  grandezza^ 
come  l'autore  stesso  dice,  ed  essendo  perciò  della  gloria  di  Firenze 
parte  grandissima  appunto  d'aver  generato  Dante,  quelle  parole  so- 
lenni vengono  dunque  in  sostanza  a  dire,  che  solo  la  città  che  fu 
capace  perfino  di  generare  un  Dante  era  degna  di  generare  Dante!  E 
messa  la  cosa  in  tali  termini,  Dante  viene  ad  essere  quel  che  in  un 
bilancio  si  chiama  una  partita  di  giro.  Ma  tiriEimo  via  anche  su  que- 
sta possibile  critica,  che  avrebbe  un  tanto  di  giusto  e  di  serio,  ma  ha 
troppo  l'aria  d'essere  una  sofisticheria  e  uno  scherzo;  e  senza  piìi  pe- 
danteggiare guardiamo  francamente  la  cosa  in  sé  stessa.  Sicuro,  per 
l'acume  dell'intelletto,  per  la  finezza  del  gusto,  per  l'arguzia,  per  il 
senso  dell'arte,  per  la  plasticità  dell'immaginativa,  per  la  felice  vena 
idiomatica  e  stilistica,  e  per  altri  rispetti  ancora,  non  si  può  imma- 
ginare una  madre  più  degna  di  quel  figlio,  un  figlio  più  somigliante 


solo  gitisto.  Il  poeta^  dunque,  per  cui  Firenze  è  paragonabile  a  quelle  bibliche 
città  incorse  nell'ira  del  Signore,  chiede  geremiacament«  a  Ciacco  se  v'è  almeno 
un  giusto  in  Firenze,  e  Ciacco  risponde  che  non  uno  ma  parecchi  ve  ne  sono, 
sennonché  restano  inascoltati.  Strano  sarebbe  che  in  tutta  intera  una  città,  sia 
pure  limitandosi  alle  così  dette  classi  dirigenti,  si  Toleese  cirooscrivere  la  retti- 
tudine a  due  sole  determinate  |>ersone!  A  quegl' interpreti  poi  i  quali  riconoscono 
come  il  duo  valga  un  numero  indeterminato,  ma  s'accordano  nel  ripetere  che 
secondo  Ciacco  i  giusti  sono  dunque  in  Firenze  ben  pochi,  io  dico  che  invece 
non  bisogna  lasciarsi  trasportare  dal  solito  uso  che  oggi  facciamo  del  due  per 
indicare  una  quantità  minima  (come  in  far  d/ue  passi,  non  vai  due  soldi,  ha^ta 
un  paio  di  volte,  e  sim.),  bensì  aver  l'occhio  sempre  al  contesto,  al  Se  alcun 
v'è  giusto,  e  insomma  che  Ciacco  vuol  anzi  dire  non  esser  poi  tanto  pochi  i 
giusti,  ma  non  aver  voce  in  capitolo.  E  si  noti  questo  ma,  che  può  avere  un 
valore  pieno  e  opportuno  soltanto  nel  caso  che  Ciacco  dica  che  di  giusti  ve  n'è 
in  Firenze  una  certa  quantità,  poiché  se  dicesse  che  ve  n'è  proprio  due  o  pres- 
sappoco, sarebbe  troppo  naturale  che  in  tutta  una  città  non  trovassero  ascolto, 
e  la  congiunzione  avversativa  non  sarebbe  troppo  a  suo  luogo.  Che  poi  Dante  si 
reputasse  uno  di  quei  giusti  che  in  Firenze  non  mancavano,  e  comprendesse 
anche  sé  stesso  nel  generico  accenno  di  Ciacco,  diavol  fallo!  ;  ma  chi  ih  casi 
simili  non  include  anche  sé?  e  chi  può  tacciar  di  superbia  Dante  perete  credesse 
sé  giusto?  Il  cantore  della  rettitudine  chiamò  sé  altrove,  per  lasciare  il  posto  di 
poeta  dell'amore  a  Oino,  e  per  dar  risalto  alle  proprie  canzoni  morali;  ©  anche 
li  non  v'é  che  ridire. 


118  FECE   DUNQUE   BENE    FIRENZE   A    SBANDIRE   DANTE?!! 

a  quella  madre.  Ma  per  altre  virtù,  come  l'adorazione  della  giustizia, 
la  passione  del  bene,  la  profondità  del  sentimento,  il  rispetto  filiale 
ai  vecchi,  la  deferenza  agli  uomini  superiori  per  ingegno  o  per  virtù, 
la  tendenza  speculativa,  si  può  dire  che  egli  avrebbe  potuto  benis- 
simo nascere,  e  forse  anche  meglio,  altrove.  Gli  uomini  grandi  so- 
glion  esser  in  parte  i  più  tipici  rappresentanti  del  natio  loco,  ma  in 
parte  aver  qualità  individuali,  che  li  avvicinano  più  ad  altre  stirpi; 
e  non  è  punto  il  caso  di  dire  che  di  codesto  fatto  non  sia  anche  Dante 
un  esempio  cospicuo,  e  pdr  entrambi  i  rispetti.  Certo  che  dopo  il 
gran  triumvirato  la  letteratura  toscana  non  brillò  molto  per  valore 
morale.  Senza  dimentic^ire  il  Passavanti  e  gli  altri  scrittori  pii,  né 
quelli  essenzialmente  morali  come  il  Palmieri  e  l'Alberti,  né  altri 
autori  dabbene,  lo  storico  non  può  non  provare  una  specie  di  avvi- 
limento a  vedere  la  divina  lingua  toscana  sprecata  in  molte  futilità, 
aridità,  leggerezze.  Nulla  di  simile,  per  molti  e  molti  décennii,  a 
quella  letteratura  nobilmente  civile  di  cui  diede  p)oi  saggio,  poniamo, 
il  Piemonte  dall'Alfieri  al  Balbo,  la  Lombardia  dai  Verri  e  dal  Par 
rini  al  Manzoni.  E  quando  si  viene  al  Machiavelli  e  al  Guicciardini, 
c'è  da  ammirare  il  realismo  politico  e  la  grande  perspicacia,  ma  c'è 
da  sgomentarsi  della  crudezza  di  quel  realismo,  eccetto  che  il  Ma- 
chiavelli ci  allarga  il  cuore  col  suo  ardente  patriottismo  unitario. 
Conviene,  è  vero,  tener  conto  della  differenza  dei  tempi,  e  di  quella 
delle  varie  influenze  europee,  ma  diciamo  per  intenderci  alla  meglio. 
E  perché  poi  questo  non  sia  un  frantenderci,  mi  preme  dir  su- 
bito che  non  v'è  in  codeste  mie  riserve  la  menoma  intenzione  d'irri- 
verenza verso  la  città  e  la  regione  ove  Dante  nacque,  o  di  ripicco 
verso  chi  la  difende  con  soverchio  calore.  Quella  irriverenza  sarebbe 
SEicrilega  da  parte  di  ogni  Italiano,  e  da,  parte  mia  anche  contradit- 
toria,  assurda.  Nessuna  delle  genti  italiane  ha  contribuito  alla  for- 
mazione, allo  sviluppo,  all'innalzamento  dell'intelletto  nazionale, 
quanto  la  Toscana.  In  ciò  essa  supera,  e  di  gran  lunga,  tutte  le  altre; 
e  a  nessuna  si  deve  da  queste  altrettanta  gratitudine  :  anche  perché 
di  solito  si  guarda  bene  dal  rinfacciare  alle  stirpi  sorelle  il  gran  de- 
bito che  hanno  verso  di  lei.  E  quanto  a  me,  la  Toscana  fu  come  la 
terra  promessa  della  màa  adolescenza,  e  la  lontananza  in  cui  dopo 
ne  son  dovuto  stare  mi'é  stata  causa  di  una  perenne  nostalgia.  Credo 
che  quei  pochi  che  hanno  letto  ciò  che  io  sono  venuto  in  tanti  anni 
pubblicando,  non  che  quei  non  pochi  amici  che  ho  in  riva  all'Amo, 
possano  far  fede  della  gran  veracità  del  sentimento  che  qui  ho 
espresso.  E  una  cosa  stavo  per  dimenticare  che  m'affretto  a  dire,  o 
meglio  a  ripetere,  poiché  m'avvenne  anni  sono  d'insistervi:  la  rico- 
noscenza cioè  che  noi  tutti  d'altre  regioni  dobbiamo  avere  per  il 
dolce  rifugio  che  nello  scorso  secolo  i  patrioti  italiani,  sbanditi  dagli 
altri  Stati  e  staterelli  aspramente  governati,  trovarono  nel  cuore  stesso 
della  Penisola,  in  grazia  della  mitezza  del  Governo  granducale,  che 
a  conti  fatti  vuol  dire  della  gentilezza  che  era  propria  del  popolo  to- 
scano. Se  dunque  ho  arrischiata  qualche  considerazione  che  può 
parer  pungente  o  maliziosa,  è  solo  perché  la  sincerità  del  discorso  lo 
richiedeva,  e  come  ai  nobili  personaggi  così  alle  nobili  stirpi  ogni 
riguardo  è  dovuto  fuorché  l'adulazione.  E  francamente  concludo  :  sì, 
Firenze  fu  degna,  degmissima,  e  miagari  la  sola  degna,  di  generare 
quell'incomiparabile  poeta  ed  artista;  ma  non  si  mostrò  degna  di  ri- 


FECE   DUNQUE   BENE    FIRENZE   A   SBANDIRE   DANTE?!!  119 

Cattarlo.  È  un  fatto  la  prima  cosa,  è  un  fatto  la  seconda.  Se  vi  piace 
inorgoglire,  ben  legittimamente,  del  primo  fatto,  rassegnatevi  a  ri- 
pensare con  la  debita  umiltà  al  secondo!  Altrimenti  c'è  il  caso  di 
sentir  cavillare  in  senso  opposto  :  che  Tuomo  nasce  qua  o  là  per  mero 
caso,  che  il  grand'uomo  è  un'eccezione  dappertutto,  che  da  Firenze 
un  solo  Dante  p'è  venuto,  che  quando  un  uomo  è  concepito  dalla  ma- 
dre la  città  non  ne  sa  nulla,  non  vi  partecipa  colla  sua  volontà,  e 
non  c'è  merito  dove  non  c'è  volontà.  Un  groviglio  paradossale,  s'in- 
tende, ma.  che  pure,  benché,  o  forse  perchè  tale,  troverebbe  chi  lo 
pigliasse  sul  serio. 

Oltre  a  tutto  il  resto  c'è  una  considerazione  da  fare.  La  tradizio- 
nale riprovazione  di  certi  vecchi  peccati,  come  di  famosi  errori  o 
delitti  giudiziarii,  ha  un  valore  amnronitivo,  parenetico;  e  può  riu- 
scire ad  un  fine  pratico.  Certo,  sarebbe  ingenuo  illudersi  che  un  tal 
fine  sia  facile  a  ottenere,  e  che  la  storia  sia  a  tal  s^no  maestra  della 
vita  da  bastare  il  ricordo  dei  delitti  antichi  a  impedire  del  tutto  i 
nuovi;  come  d'altra  parte  sarebbe  una  strana  ingiustizia  che  per  non 
perdere  i  buoni  effetti  che  possan  derivare  dal  pentimento  per  un'an- 
tica crudeltà  si  volessero  soffocare  delle  prove  lampanti  che  per  ina- 
spettata scoperta  mostrassero  l'insussistenza  di  quella  crudeltà.  Ma 
se  tutto  si  riduce  a  stiracchiare  quel  che  tutti  sanno,  a  buttar  cenere 
sul  fuoco,  a  cercar  di  attutire  la  schietta  impressione  che  da  secoli 
desta  in  ciascun  animo  un'enormità  come  quella  d'un  gran  cittadino 
scacciato  dalla  patria  di  cui  egli  è  la  gloria  più  fulgida,  codesto  non 
è  che  appagare  un  malinteso  amor  proprio  retroattivo,  ed  è  rinun- 
ziare a  un  ammaestramento  insostituibile,  ad  un  memento  formida- 
bile. Il  quale  insieme  con  gli  altri  simili  ha  giovato  e  giova  entro 
certi  limiti  a  mitigare  i  costumi  politici.  Anche  la  condanna  di  So- 
crate è  in  parte  spiegabile,  e  a  spiegarla  ci  aiutano  proprio  le  apo- 
logie stesse  di  Platone  e  di  Senofonte,  ma  che  perciò?  La  morte  di 
quel  giusto  è  un'eterna  macchia,  e  la  più  grossa,  della  democrazia 
ateniese.  Tutte  cotali  macchie  son  come  un'eredità  dolorosa  della 
civiltà  umana,  e  tutte  insieme  le  inculcano  d'esser  nell'avvenire  guar- 
dinga. 

E  qui  mi  soccorre  in  buon  punto  il  suffragio  d'uno  statista  no- 
bilissimo, che  nel  culto  di  Dante  trovò  sempre  ispirazione  e  conforto, 
Sidney  Sennino;  il  quale,  chiudendo  la  sua  conferenza  sul  VI  del 
Paradiso^  diceva:  «Ed  al  sentimento,  che  proviamo  tutti,  di  intensa 
gratitudine  verso  chi  ha  arricchito  di  tanta  vera  e  purissima  gloria  il 
nome  d'Italia,  verso  chi  è  stato  così  efficiente  strumento  del  risorgi- 
mento nazionale,  e  ci  ha  dati,  a  tutti  noi,  tanti  elementi  di  godimento 
dello  spirito  e  di  maggior  dignità  della  vita,  si  mescola  pure,  se  ben 
scrutiamo  il  fondo  del  nostro  cuore,  un  senso  come  di  rimorso,  quasi 
un  desiderio  di  espiazione,  per  quella  parte  di  comune  responsabi- 
lità che  pur  ricade  sui  figli  per  le  colpe  dei  padri,  dell'ingiusto  e  cru- 
dele trattamento  che  il  più  grande  degl'Italiani  ebbe  a  soffrire  di 
mano  dei  suoi  concittadini  » .  «  Non  vi  è  morale  più  commovente  di 
cfuesta»,  esclama  il  poeta  Lowel,  «che  il  riconoscimento,  per  parte 
dei  suoi  contemporanei,  di  una  natura  così  streiordinariamente  do- 
tata e  così  degna,  si  debba  riassumere  nel  bando  di  Firenze:  Igne 
comburaluT  sic  quod  inoriatur:  sia  arso  col  fuoco,  così  che  muoia». 
Questa  morale  non  s'indirizza  a  voi,  gentili  signore,  che  della  cosa 


120 


FECE   DUNQUE   BENE    FIRENZE   A    SBANDIRE    DANTE?!! 


pubblica  non  vi  occupate,  ma  volge  il  taglio  a  noi,  uomini  politici, 
traducendosi,  per  tutti  i  tempi,  in  un  solenne  ammonimento  di  tol- 
leranza e  di  carità  » , 

Nell'inaugurare  il  racconto  delle  peregringizioni  di  Dante  disse 
il  Balbo:  «L'Italia  è  ab  antico  la  terra  degli  esilii  ».  E  già  il  Man- 
zoni diciassettenne,  a  Francesco  Lomonaco,  un  meridionale  che  pei 
fatti  del  '99  era  emigrato  nella  Cisalpina  e  vi  aveva  pubblicato  una 
Vita  di  Dante,  indirizzava  quel  sonetto  così  bello  nel  tutto  insieme, 
così  incisivo  nelle  terzine,  così  potente  nella  chiusa,  il  quale  inco- 
mincia : 

Come  il  divo  Alighier  l'ingrata  Flora 
Errar  fea  per  oivil  rabbia  sanguigna... 
Eìsule  egregio  narri,  e  tu  pur  ara 
Duro  esempio  ne  dai... 

E  termina: 

Tal  premj,  Italia,   i  tuoi  migliori,  e  poi 
Che  prò  se  piangi,  e  '1  cener  freddo  adori, 
E  al  nome  voto  onor  divini  fai? 
Sì  da'  barbari  oppressa  opprimi  i  tuoi, 
E  ognor  tuoi  danni  e  tue  oolpe  deplori, 
Pentita  sempre  e  non  cangiata  mai. 

E  dopo  centovent'anni  non  si  può  dire  che  l'apostrofe  del  precoce 
sapiente  sia  divenuta  del  tutto  inopportuna,  mero  ricordo  di  tempi 
andati,  senz'alcun  riscontro  nella  realtà  odierna.  Sennonché  i  tanti 
pentimenti  accumulatisi  nella  nostra  storia  qualche  cangiamento 
han  pure  portato;  e  almeno  le  ingiustizie  traducentisi  in  atti  di  fe- 
rocia ovvero  indefinitamente  protratte,  sono  oramai  fuori  d'uso. 
Ma  non  perchè  in  qualche  modo  è  cangiata,  deve  la  patria  nostra 
cessare  d'esser  pentita  dielle  colpe  antiche;  tra  le  quali  è  sempre  delle 
più  orrende  quella  per  cui  dovè  ramingare  povero  e  dog"lioso  per  le 
terre  d^Italia  il  gran  padre  dell'Italia  futura! 

Francesco  d  tniiiio. 


IL  DIO  DEI  VIVENTI 


ROMANZO 


Durante  la  notte  la  sua  mano  si  gonfiò,  prese  una  forma  strana, 
quasi  ridicola. 

—  Sembra  la  mano  di  un  prete  grasso,  —  egli  pensò,  accostan- 
dola all'altra  ch'era  rimasta  magra  e  sottile.  —  Adesso  le  donne! 

Non  gli  doleva  e  quindi  non  se  ne  dava  pensiero.  Ricordava 
che  poco  tempo  prima  una  scheggia  gli  aveva  fatto  gonfiare  un  piede; 
e  da  ragazzo  era  abituato  a  continui  guai  causati  da  spine,  da  sassi, 
da  chiodi;  più  di  una  volta  aveva  ricevuto  calci  di  cavallo  senza 
risentirne  gran  danno. 

Quella  mano  gonfia  gli  dava  solo  un  ipo'  di  noia  per  l'inquietu- 
dine che  ne  provava  la  madre;  bisognava  cercare  di  nascondergliela; 
e  anche  alla  serva. 

Sebbene  fosse  appena  giorno,  le  donne  èrano  già  alzate,  e  si 
sentiva  il  fruscio  della  scopa  e  il  mormorio  del  macinino  del  caffè. 
Belila  che  dormiva  in  una  vasta  stanza  terrena,  con  la  finestra  verso 
il  cortile,  aprì  le  imposte,  vide  la  serva  che  spazzava  sotto  la  tettoia 
davanti  alla  stalla. 

—  Rosa,  —  le  gridò  —  comincia  a  mettere  la  sella  al  puledro; 
voglio  subito  andare  fuori,  con  questa  bella  giornata. 

Nella  stalla  i  cavalli  scalpitavano,  quasi  chiedendo  anch'essi  di 
andare  presto  fuori,  con  quella  bella  giornata;  ma  la  ragazza  con- 
tinuò la  sua  faccenda  come  se  non  avesse  sentito. 

Come  fare  per  nascondere  la  mano?  pensava  Belila;  e  ricordava 
di  aver  tante  volte  saltato  quella  finestra  per  uscir  fuori  di  casa  di 
nascosto  della  madre. 

—  Rosa,  sei  sorda?  Hai  sentito  o  no?  Puoi  preparare  la  bisaccia 
col  pane  per  due  pasti. 

La  ragazza  lo  guardò  di  laggiù,  dalla  penombra  della  tettoia; 
ed  egli  ebbe  l'impressione  che  ella  indovinases  il  suo  ;pensiero. 

Anche  la  ma'dre  uscì  nel  cortile,  col  grembiale  colmo  di  orzo  che 
cominciò  a  spargere  alle  galline;  i  suoi  occhi  un  po'  gonfi  si  rivol- 
gevano alla  finestra. 

—  Belila,  e  la  mano? 

—  Ma  niente,  —  egli  disse,  senza  però  mostrare  la  mano.  — 
Dite  a  Rosa  che  selli  il  puledro. 

—  Il  puledro  no.  il  puledro  no,  figlio  mio;  lascialo  a  casa  :  prendi 
la  cavalla. 

Egli  accondiscese  subito;  e  Rosa  andò  a  staccare  la  mansueta 


122  IL  DIO  DEI  VIVENTI 

cavalla  che  serviva  anche  per  le  donne  quando  andavano  in  cam- 
pagna. 

—  Il  babbo  non  s'è  ancora  alzato?  —  domandò  Bellia,  sempre 
dalla  finestra. 

—  Adesso  porterò  su  un  po'  d'acqua  tiepida  e  gli  laverò  i  piedi, 
—  disse  la  madre  che  usava  fare  quasi  ogni  giorno  questo  lavacro; 
e  lo  faceva  con  affetto,  anzi  con  una  specie  di  religione:  perchè 
l'uomo  cammina  per  il  bene  della  famiglia. 

—  Adesso  lei  va  su,  e  Rosa  torna  a  scopare  —  pensò  Bellia,  — 
ed  io  me  la  svigno. 

Aspettò  un  momento  e  sentì  la  madre  salire  pesantemente  le 
scale,  ch'erano  attigue  alla  sua  camera;  allora  usci,  attraversò  fur- 
tivo il  corridoio,  entrò  nella  cucina. 

E  subito  come  un  fantasma  vide  davanti  a  sé  zia  Annia;  e  gli 
occhi  vivi  di  lei  si  fermarono  sulla  mano  gonfia. 

—  Che  hai  fatto  a  quella  mano? 

Il  suo  accento  era  di  rimprovero,  come  s'egli  si  fosse  fatto  male 
per  colpa  sua. 

—  Ma  niente,  —  egli  disse,  nascondendo  il  dorso  della  mano 
contro  il  fianco,  e  tentò  di  uscire  nel  cortile. 

La  vecchia  lo  seguiva  come  un'ombra. 

—  Fammi  vedere  quella  mano,  Bellia.  Bada  che  è  brutta. 
Anche  la  serva  sentì;  sporse  il  viso  aguzzo.  Era  finita:  bisognava 

abbandonarsi  alle  donne.     E  d'altronde  egli  ne  provò  un  certo  sol- 
lievo, perchè  si  accorse  che  in  fondo  anche  a  lui  la  cosa  dava  pensiero. 

—  Eccovi  la  mano,  —  disse  rassegnato.  —  Fatemi  fare  il  ballo 
di  scongiuro  come  i>er  il  morso  della  tarantola. 

La  vecchia  s'asciugò  le  mani  rugose  col  grembiale,  prima  di 
prendere  quella  di  lui:  e  la  guardò,  la  volse,  la  rivolse,  toccò  con 
la  punta  dell'indice  i  segni  rossicci  della  morsicatura  che  erano  sulla 
parte  carnosa  verso  il  pollice  :  poi  prèmette  il  dito  qua  e  là  sul  dorso 
gonfio  che  cedeva  cdla  pressione  e  tosto  si  risollevava. 

—  Ti  duole? 

—  Macché! 

—  La  mano  è  brutta,  —  ripetè  la  vecchia.  —  Sta  a  casa,  Bellia, 
non  sforzarla,  le  faremo  un  bagno  d'aceto. 

Quando  la  madre  ridiscese,  col  catino  dove  aveva  lavato  i  piedi 
al  marito,  vide  zia  Annia  che  a  sua  volta  lavava  con  una  pezzuola 
la  nnano  di  Bellia.  E  depose  subito  spaventata  il  catino,  mentre  il 
figlio  volgeva  il  viso  ridente  e  diceva: 

—  È  forse  la  prima  volta  che  mi  si  lavano  le  zampeff 

Egli  dunque  rimase  a  casa,  anche  perchè  non  sapeva  dove  an- 
dare. Sebbene  di  natura  allegra  e  spensierata,  non  aveva  amici,  non 
pensava  ancora  all'amore,  non  aveva  vizi  né  pretese,  gli  piaceva  solo 
chiacchierare  e  scherzare,  specialmente  con  le  donne,  ed  era  un  po' 
vanitoso. 

Do^o  la  morte  dello  zio,  la  certezza  di  esser  l'unico  erede  di 
tutta  la  proprietà  Barcai,  gli  riemijDiva  il  cuore  di  gioia,  non  perchè 
fosse  avido  di  danaro  o  pensasse  di  vivere  senza  lavorare,  ma  per  la 
considerazione  della  gente.  Il  dubbio  che  l'eredità  fosse  iniqua  non 
lo  preoccupava  e  non  gl'im/portava  nulla  che  l'amica  o  il  presunto 
figlio  dello  zio  gli  serbassero  rancore;  per  conto  suo  egli  non  odiava 


IL  DIO  DEI  \t\t:nti  12^ 

nessuno,  non  odiava,  ma  neppure  amava;  in  fondo  era  un  pò  insen- 
sibile ed  egoista. 

Si  meravigliò  che  il  più  ad  inquietarsi  per  l'affare  della  mano 
fosse  suo  padre.  Ecco  che  scendeva  dalla  sua  camera  al  piano  supe- 
riore, già  col  cappottino  corto  indosso,  per  il  lutto,  e  in  mano  una 
forbice  da  potare. 

Nel  veder  Belila  seduto  a  tavola  a  far  colazione  con  gli  avanzi 
della  cena,  il  suo  viso,  al  solito,  si  rischiarò;  era  come  se  un  raggio 
di  sole  lo  illuminasse,  ogni  volta  che  vedeva  il  figlio;  come  se  la  fre- 
schezza e  la  bellezza  del  giovane  si  riflettessero  sul  suo  viso  torvo. 

Ma  subito  distinse  la  mano  gonfia,  che  zia  Annia  aveva  giudi- 
cato bene  di  non  fasciare,  e  riprese  la  sua  maschera  scura  :  e  comin- 
ciò a  sgridarlo  invece  di  confortarlo. 

—  Tu  fai  le  cose  sempre  di  tua  testa,  come  se  non  abbi  un  pa- 
dre né  una  madre.  Se  ieri  non  inforcavi  quella  maledetta  bestia  non 
ti  accadeva  nulla  :  se  non  avevi  fretta  di  recarti  lassù,  in  quel  male- 
detto luogo,  non  ti  succedeva  questo  guaio.  Ma  a  te  non  importa 
nulla  di  dar  dispiacere  ai  tuoi,  pur  di  fare  il  tuo  piacere:  mentre 
noi,  se  occorre  rischiamo  anche  l'inferno  per  te. 

Belila  continuava  a  mangiare  tranquillo,  solo  abbassava  gli  oc- 
chi per  guardare  la  sua  mano,  come  se  i  rimproveri  del  padre  fos- 
sero rivolti  a  lei  sola. 

Per  conto  suo  la  mano  pareva  si  sforzasse  a  servirlo  con  pre- 
mura un  po'  goffa,  tutta  mortificata  di  essere  la  causa  del  male, 
oggetto  di  discordia. 

—  Non  ho  da  dipingere  né  da  scrivere,  anche  se  sto  qualche 
giorno  così  —  disse  finalmente  Bellia  —  e  mangiaj-e  vedo  che  mangio 
senza  difficoltà.  Se  non  fate  presto  a  mettervi  a  tavola  non  vi  lascio 
nulla. 

Ma  il  padre  non  aveva  voglia  di  mangiare.  Uscì  nel  cortile  e 
disse  sottovoce  a  Rosa: 

—  Sta  attenta  se  passa  il  dottore  e  chiamalo  perchè  guardi  la 
nmno  di  Bellia. 

Il  dottore  stava  poco  distante  dalla  casa  dei  Barcai  e  tutti  i 
giorni  lo  si  vedeva  passare  e  ripassare  per  le  sue  visite. 

Rosa  guardò  il  padrone  negli  occhi,  coi  suoi  occhi  acuti  di  lince, 
e  gli  disse  anche  lei  sottovoce,  come  fossero  d'intesa  su  qualche  cosa 
che  non  si  poteva  dire  a  voce  alta  : 

—  Non  sarebbe  meglio  andare  a  prendere  un  fazzoletto  o  un  pan- 
nolino di  quella  donna  per  scongiurare  il  male? 

Sulle  prime  egli  rimase  colpito  da  queste  parole  che  avevano  un 
accento  misterioso,  e  fu  per  rispondere  di  sì  :  poi  s'irritò. 

—  Va'  al  diavolo  con  le  tue  credenze;  e  guarda  piuttosto  se  passa 
il  dottore. 

Poi  lui  stesso  fu  vinto  dall'idea  che  un  pò  di  malefìzio  c'entrasse, 
nella  disgrazia  del  figlio,  e  che  Lia  poteva  scongiurarlo. 

Bisognava  tornare  da  Lia  :  non  durante  la  giornata  però,  per  non 
dare  nell'occhio  alla  gente,  se  la  gente  ci  vede  già  tanto  di  notte  e 
attraverso  i  muri,  figuriamoci  di  giorno  e  all'aperto. 

Infatti,  quando  egli  più  tardi  uscì,  s'accorse  che  tutti,  anche 
i  monelli  della  strada,  lo  seguivano  con  gli  occhi.  E  gli  sguardi  di 
tutti,  uomini  e  donne,  gli  sembravano  i  raggi  di  una  lanterna  che 


r24  IL  DIO  DEI  VIVENTI 

si  proiettavano  su  di  lui  per  scrutarlo  bene  fino  all'anima:  tutti 
volevano  sapere  cosa  egli  pensava,  dove  andava,  ohe  intendeva  di 
fare. 

E  fra  di  sé  reagiva,  imprecava  il  suo  prossimo  curioso:  ma 
istintivamiente  cercava  di  nascondersi  e  cajimiinava  rasente  i  muri, 
nell'ombra;  a  occhi  bassi  sebbene  a  testa  dritta. 

Del  resto  non  andava  in  nessun  luogo  segreto,  andava  a  far  l'af- 
far  suo,  a  far  aggiustare  dal  vecchio  fabbro  la  forbice  per  potare. 

11  vecchio  fabbro,  che  era  anche  maniscalco  e  arrotino,  abitava 
in  un  luogo  strano,  nella  sagrestia  di  una  piccola  chiesa  in  rovina, 
qualche  centinaio  di  metri  distante  dal  paese. 

Anni  prima,  sebbene  vecchio  già,  era  andato  anche  lui  in  Ame- 
rica (anzi  era  stato  poi  lui  a  consigliare  il  marito  di  Lia,  suo  appren- 
dista, di  imitarlo),  ed  era  ritornato  con  un  sacchetto  di  monete  d'oro, 
quasi  ricco  quindi;  la  notte  stessa  del  suo  arrivo  il  sacchetto  gli 
venne  rubato:  e  adesso  viveva  nelle  rovine  della  chiesetta  e  della 
sua  vita. 

Ma  non  parlava  mai,  se  non  interrogato,  della  sua  disgrazia. 

E  del  resto  viveva  abbastanza  bene  col  suo  guadagno,  tanto  più 
che  in  America  aveva  imparato  diversi  mestieri,  e  sapeva  aggiu- 
stare gli  strumenti  a  molla,  le  macchine  da  cucire  e  perfino  i  gioielli 
delle  donne. 

Una  quiete  infinita  regnava  intomo  alla  sua  dimora  :  l'erba  cre- 
sceva altissima  intomo  agli  avanzi  dei  muri  della  chiesetta,  che  sem- 
bravano i  muri  di  un  cortile  a  ridosso  della  vecchia  sagrestia  —  e 
davanti  si  stendeva  un  prato,  così  coperto  di  fioralisi  che  pareva 
riflettesse  l'azzurro  intenso  del  cielo  di  maggio. 

Sotto  una  tettoia  primitiva  che  funzionava  da  officina,  il  vec- 
chio piccolo  e  tozzo  e  un  po'  sciancato,  con  un  testone  calvo  dal 
quale  pareva  che  i  capelli  fessero  caduti  per  fermarsi  in  una  lunga 
barba  grigia,  lavorava  silenzioso  davanti  alla  sua  incudine  :  un  muc- 
chio di  strumenti  e  di  ferramenta  era  per  terra. 

Nel  vedere  Zebedeo  non  si  mosse,  non  smise  di  lavorare,  ma 
parve  anche  lui  uscire  dalla  sua  indifferenza  per  guardarlo  con  una 
certa  curiosità. 

Zebedeo  trasse  di  sotto  il  cappotto  la  forbice  e  gliela  porse:  il 
lavoro  da  farsi  era  minimo,  si  trattava  di  cambiare  solo  la  molla 
rotta,  e  il  fabbro  poteva  farlo  lì  per  lì,  ma  nonostante  le  premure  del 
cliente  mise  lo  strumento  sul  mucchio  e  disse: 

—  Bisogna,  aspettare  il  turno,  puoi  venire  a  prenderla  domani 
sera.  Oh,  bada  poi  che  io  non  assumo  nessuiM,  responsaJoilità  se 
viene  rubata. 

Zebedeo  lo  sapeva,  era  una  condizione  che  il  vecchio  faceva 
a  tutti. 

—  Zio  Michele,  —  gli  disse,  —  vi  lascio  qualmente  le  forbici; 
se  le  rubano  non  sarà  un  danno  come  quello  che  fecero  a  voi  quella 
volta. 

Il  vecchio  sollevò  il  viso,  lo  guardò  torvo,  poi  riprese  a  lavo- 
rare: ma  Zebedeo  non  se  ne  andava:  pareva  provasse  gusto,  quella 
mattina,  a  ricordare  al  fabbro  la  sua  disgrazia. 

—  Zio  Michele,  voi  non  avete  saputo  mai  nulla  del  fatto? 


IL  DIO  DEI  VIVENTI  125 

—  Se  ne  avessi  saputo  qualche  cosa  non  me  lo  avresti  doman- 
dato. In  questo  paese  le  cose  si  sanno  da  tutti,  persino  dai  gatti. 

—  Ma  la  giustizia  non  s'è  occupata  di  lar  ricerche? 

—  La  giustizia?  11  fuoco  la  bruci.  Io  credo  che  siano  stati  loro, 
quelli  della  giustizia,  a  rubarmi  il  sacchetto,  tanto  poco  si  sono  oc- 
cupati a  ricercare  il  colpevole. 

—  Io,  fossi  stato  in  voi,  non  mi  sarei  dato  pace.  Avrei  cercato 
per  conto  mio,  avrei  venauta  l'anima  al  diavolo  pur  di  sapere  qual- 
che cosa. 

—  Ho  cercato,  ho  cercato  :  ho  fatto  fare  il  gioco  delle  carte,  sono 
stato  dalla  fattucchiera,  ho  promesso  una  novena  a  Sant'Antonio  se 
riuscivo  a  sapere  qualche  cosa.  E  qualche  dubbio  ce  l'ho;  ma  come 
si  fa,  senza  prove,  senz'aiuto?  Non  mi  resta  che  maledire.  Oh,  que- 
sto si  :  quando  tu  mi  vedi  così  tranquillo  a  lavorare,  io  recito  un  ro- 
sario di  maledizioni  :  che  ti  si  marcisca  la  mano  con  la  quale  mi  hai 
spogliato,  e  l'altra  mano  ancora,  e  ogni  giuntura  ti  si  rallenti;  che 
tu  possa  essere  divorato  vivo  dai  vermi,  e  ogni  moneta  rubata  a  me, 
frutto  del  mio  sudore,  ti  serva  a  comprare  medicamenti,  e  ti  ca- 
schino gli  occhi,  e  tua  figlia  e  i  suoi  figli  siéino  dispersi  membro  per 
membro,  ro^i  dalla  malattia  e  dal  cancro,  davanti  a  te  impotente  ad 
assisterli. 

—  Eh,  basta!  —  disse  Zebedeo.  —  Ce  n'è  per  tutti  gli  assassini 
del  mondo. 

—  No,  non  basta  figlio  mio.  È  il  mio  unico  conforto,  e  se  mi  to- 
gli (juello  è  come  che  mi  derubi  un'altra  volta. 

—  Dio  non  vuole,  a  maledire  così. 

—  Se  non  voleva,  non  doveva  lasciarmi  derubare.  Non  solo 
vuole,  ma  sono  certo  che  è  lui  a  farmi  imprecare  così  :  e  le  maledi- 
zioni cadono,  Zebedeo,  cadono!  Vedrai  che  un  giorno  o  l'altro  la  leb- 
bra coprirà  il  corpo  del  mio  assassino,  ed  ^li  ven^^  a  chiedermi  per- 
dono. Ma  io  non  perdonerò  no  :  né  a  lui,  né  a  sua  madre,  né  ai  suoi 
figli. 

Zebedeo  lo  ascoltava  un  pò  ironico:  eppure  provava  un  miste- 
rioso senso  di  terrore:  pensava  sempre  alle  maledizioni  di  Lia,  alla 
mano  morsicata  di  Belila,  e  ripreso  più  a  fondo  dalla  sua  inquietu- 
dine, tornò  indietro,  passò  per  le  strade  dove  poteva  incontrare  il 
dottore. 

Le  strade  erano  tranquille,  e  tutto  il  paesello,  steso  al  sole  fra  i 
prati  fioriti,  si  godeva  il  bel  mattino  di  maggio;  sui  davanzali  delle 
piccole  finestre  e  sulle  loggie  di  legno  fiorivano  entro  recipienti  rotti 
e  vasi  di  sughero,  garofani  e  viole. 

Gli  uomini  erano  già  al  lavoro,  e  anche  le  donne  sfaccendavano 
dentro  casa;  solo  in  un  angolo  della  piazza,  davanti  a  una  rivendita 
di  vino,  i  grossi  proprietari  trattavano  i  loro  affari  o  chiacchieravano 
di  cose  inutili. 

Altre  volte  anche  lui  usava  frequentare  quel  posto,  quella  com- 
pagnia: adesso  passò  dritto,  duro,  salutando  appena  con  la  testa:  e 
di  nuovo  si  sentiva  seguito  dallo  sguardo  di  quegli  uomini  che  gli 
sembravano  nemici  sebbene  tutti  suoi  amici  e  parenti. 

Ed  ecco  che  senza  volerlo  spinto  da  una  forza  invisibile,  si 
trova  davanti  alla  porta  di  Lia  :  la  strada  faceva  gomito  colla  piazza, 
ed  era  una  delle  più  popolari  e  povere  del  paese,  sterrata,  con  casu- 


126  IL  DIO  DEI   VIVENTI 

pole  basse  che  parevano  tane:  la  casa  di  Lia,  a  un  piano,  tinta  di 
bianco,  con  la  porta  nuova  e  un  balconcino  di  ferro  pareva  un  pa- 
lazzo fra  tanta  miseria. 

Sul  balconcino  stava  un  ragazzetto  smilzo  e  nero  con  un  libro 
in  mano:  i  suoi  lunghi  e  dolci  occhi  neri  scintillarono  nel  vedere  e 
riconoscere  il  passante.  E  il  lassante  se  ne  accorse;  e  quello  sguardo 
lo  punse  più  che  tutti  gli  altri. 

Perchè  il  ragazzetto  era  il  figlio  del  povero  Basilio. 


•  • 


Da  una  di  quelle  casuipole  appunto  usciva  il  dottore:  così  alto 
che  doveva  piegarsi  per  passare  nella  porticina. 

Aveva  già  dei  larghi  pantaloni  estivi  di  tela  grezza  ohe  gli  ri- 
cadevano a  canbpana  sui  piedi  enormi,  e  un  capjìelìo  di  paglia  suJla 
grossa  testa  bruna  ricciuta.  Anche  la  barba  era  crespa.  Coi  suoi  occhi 
grossi  bruni  un  po'  fìssi  e  il  naso  camuso  egli  ricordava  un  agnel- 
lone,  eppure  piaceva  immensamente  alle  donne,  che  erano  felici  se 
si  ammalavano,  per  essere  visitate  da  lui.  Ecco  che  tutte  si  affaccia- 
no adesso  alle  porticine  e  ai  finestrini  per  salutarlo;  egli  risponde 
con  un  largo  gesto  della  mano  che  pare  una  benedizione,  senza  guar- 
dare nessuno,  e  mette  la  mano  sulla  testa  dei  ragazzetti  della  strada 
per  fermarli  e  non  investirli,  mentre  ascolta  distratto  Zebedeo,  che 
lo  ha  raggiunto  e  gli  cammina  duro  a  fianco;  duro  in  apparenza, 
in  fondo  umiLe  e  supplichevole. 

—  Mi  capita  questo,  —  diceva  sottovoce.  —  ieri  il  mio  ragazzo 
è  stato  morsicato  alla  mano  da  un  puledro;  e  la  mano  s'è  gonfiata. 
Bisognerebbe  che  tu  me  lo  guardassi. 

Gli  dava  del  tu  perchè  lo  conosceva  da  ragazzetto,  e  dopo  tutto 
era  figlio  di  un  antico  suo  mezzadro. 

—  Vieni  subito,  Antonino?  Siamo  quasi  vicino  a  casa:  fai  presto; 
uno  sgnardo  e  basta. 

—  La  mano  gli  duole? 

—  Lui  dice  di  no;  ma  forse  lo  dice  per  non  inquietare  la  madre. 
Il  dottore  camminava  distratto  e  pensieroso;  quando  furono  allo 

svolto  della  strada  invece  di  prendere  a  destra  verso  la  casa  del 
Barcai  si  diresse  a  sinistra. 

—  Non  vieni?  —  disse  Zebedeo  fermandosi;  poi  riprese  a  seguirlo 
perchè  sapeva  che  prima  di  andare  dov'era  chiamato  il  dottore  si 
faceva  molto  pr^are. 

—  Dopo  tutto  sei  un  antico  guardiano  di  capre,  villanzone  ri- 
fatto che  non  badi  se  non  ad  accumulare  quattrini  :  ed  hai  lasciato 
morire  di  stanti  tuo  .padre  —  pensava. 

—  Antonino,  —  supplicò  di  nuovo,  —  vieni  per  l'amor  di  Dio. 
Per  la  madre,  che  è  molto  preoccuipata. 

—  Ho  da  fare  altre  due  visite  urgenti,  prima,  —  gridò  allora  il 
dottore.  La  sua  voc«  richiamò  ancor  più  l'attenzione  delle  donne  e 
tutte  adesso  oltre  ohe  guardar  lui  guardavano  con  curiosità  Zebedeo. 

E  Zebedeo  dovette  tacere  umiliato;  ma  continuò  a  seguire  il 
dottore,  aspettandolo  fuori  della  porta  dei  malati. 


IL  DIO  DEI  VIVENTI  127 

Lultima  delle  visite  era  fortunatamente  in  una  casa  poco  di- 
stante dalla  sua;  e  si  trattava  di  un  caso  straordinario  che  servì  a 
svagarlo  alquanto. 

Si  trattava,  dunque,  di  una  donna  benestante  ma  idiota  presa 
da  convulsioni  isteriche  perchè,  dato  convegno  nientemeno  allo 
stesso  Sant'Antonio  della  parrocchia,  qualcuno  era  venuto  davvero 
la  notte  prima  a  visitarla  camuffato  da  Santo;  e  mentre  lei  serviva 
il  vino  e  le  altre  cose  buone  preparate  per  lui,  ecco  sopraggiungere 
San  Pietro  con  le  chiavi,  per  chiedere  spiegazioni  ad  Antonio  del 
come  era  uscito  senza  permesso  dal  paradiso  chiuso.  Dopo  un  taffe- 
ruglio più  umano  ohe  divino  i  due  santi  se  n'erano  poi  andati  por- 
tandosi via  il  vino  e  le  altre  cose  buone,  e  lasciando  la  donna  tra- 
mortita. 

Dal  cortile,  dove  anche  Zebedeo  era  penetrato  col  dottore,  si 
vedeva  attraverso  una  finestra  aperta  la  disgraziata  donna  stessa  su 
un  divano;  agitava  le  gambe  e  rantolava,  con  la  bocca  storta  e  vio- 
lacea, gli  occhi  gonfi  chiusi;  due  vicine  di  casa,  piegate  su  lei  la  tene- 
vano ferma  e  le  dicevano  parole  di  conforto,  ma  di  tafito  in  tanto 
si  scambiavano  uno  sguardo  e  stringevano  le  labbra  per  non  ridere. 

—  Lasciatela,  —  ordinò  il  dottore,  e  le  prese  il  polso  e  trasse 
l'orologio. 

Calmata  dalla  sola  presenza  di  lui,  ella  mise  giù  i  piedi  sul  pa- 
vimento e  sedette  composta. 

—  Raccontami  il  fatto,  —  egli  disse  rude  e  assieme  indiffe- 
rente, chinando  un  po'  la  testa  come  per  ascoltare  i  battiti  del  polso. 

—  È  stato  così,  —  cominciò  una  delle  donne. 

—  Lascia  dire  a  lei,  —  ^li  urlò;  ma  anche  nel  suo  sdegno  era 
freddo,  lontano. 

La  malata  cominciò  a  parlare  con  voce  bassa  e  turbata  come 
quando  si  confessava.  Era  giovane  ancora  col  viso  acuto  scuro  e  gli 
occhi  ardenti. 

Zebedeo,  appoggiato  al  davanzale  estemo  della  finestra,  l'ascol- 
tava con  più  interesse  del  dottore. 

—  Il  fatto  è  questo.  Io  andavo  tutte  le  sere  a  pregare  in  chiesa; 
irimanevo  fino  a  tarda  ora,  finché  non  c'era  più  nessuno.  E  lui,  San- 
t'Antonio, mi  guardava  coi  suoi  occhi  di  stella  e  pareva  movesse  le 
labbra  d'oro  per  dirmi  qualchecosa.  Sì,  nii  diceva  qualche  cosa;  e 
io  mi  avvicinavo  e  parlavo  con  lui.  Sono  una  donna  sola,  senza  com- 
pagnia :  sono  idiota  e  tutti  si  burlano  di  me.  Nessuno  mi  vuol  bene. 
Se  non  avessi  da  vivere  mi  toccherebbe  di  chiedere  l'elemosina,  e 
forse  mi  prenderebbero  a  sassate.  Ma  Dio  e  i  santi  parlano  con  noi, 
semplici  :  la  gente  c'invidia  per  questo.  Così  io  dissi  a  Sant'Antonio  : 
Sant'Antonio  mio.  perchè  non  venite  a  farmi  visita?  E  diglielo  oggi, 
diglielo  domani,  finalmente  promise  che  sarebbe  venuto  ieri  sera. 
Ed  è  venuto;  piano,  piano  è  venuto,  senza  far  chiasso;  ed  io  l'ho  rice- 
vuto nella  mia  casa  indegna  di  lui.  Avevo  preparato  qualche  cosa, 
si  capisce,  e  lui  si  degnava  di  accettare  il  mio  buon  cuore...  Ed  ecco... 
no...  il  resto  non  lo  posso  raccontare...  non  posso,  non  posso... 

Ricominciò  ad  agitarsi;  il  dottore  la  tenne  ferma  con  la  sua 
mano  muscolosa. 

—  Guardami  in  faccia  —  le  impose  —  e  continua. 

La  donna  non  poteva  davvero  raccontare  il  resto;  era  troppo 


iZ->  IL  DIO  bbi    \ìm;.NT1 

•penoso  per  lei  :  ma  cominciò  a  piangere,  d'un  pianto  caldo  infantile 
che  la  sollevò. 

2Iebtxleo  si  turbava  sempre  più;  un  tempo  avrebbe  riso:  adesso 
che  il  dolore  toccava  anche  lui,  adesso  che  l'ombra  di  un  misterioso 
potere  camminava  accanto  alla  sua,  era  quasi  propenso  a  creder© 
vero  il  latto  accaduto  alla  donna. 

E  si  sdegnò  per  la  brutalità  con  la  quale  il  dottore  parlava. 

—  Ascolta,  Rita:  quei  due  malandrini  non  ti  hanno  portato  via 
quattrini  per  caso?  No?  Tanto  meglio.  Ma  il  vino  le  paste  e  l'arrosto 
t«  li  hanno  portati  via  ,accidenti  a  loro!  Si  vede  che  anche  in  para- 
diso c'è  carestia.  Senti,  io  ti  darò  una  medicina  per  calmarti;  ma 
ricorda  bene  ogni  cosa:  è  necessario  che  tu  dica  tutto,  perchè  qui 
c'entra  anche  il  delegato  di  pubblica  sicurezza. 

Ella  piangeva  sempre. 

—  'Che  può  il  delegato  contro  i  santi?  La  colpa  è  tutta  mia,  che 
ho  fatto  disobbedire  Sant'Antonio  :  ma  la  mia  intenzione  era  buona; 
era  per  sola  amicizia  che  volevo  la  sua  visita. 

—  Com'era  il  viso  del  Santo  malandrino  sopraggiunto? 

Al  solo  accenno  a  questo  santo  malandrino  la  donna  trasaliva 
tutta  e  straltunava  gli  occhi. 

—  Non  lo  so,  non  lo  so;  non  l'ho  veduto...  non  posso  ricordarlo. 

—  Ma,  e  quello  di  Sant'Antonio  lo  ricordi?  Com'era? 

—  Era  il  suo  viso,  liscio  e  bello  come  una  rosa:  come  volete 
che  fosse? 

—  Ci  son  tanti  mascalzoni  col  viso  liscio  e  bello  come  la  rosa,  — 
egli  osservò,  continuando  il  suo  interrogatorio  crudo  più  da  giudice 
che  da  medico.  Poi  ordinò  una  pozione  calmante  e  disse  alle  donne 
di  non  abbandonare  l'isterica. 

Quando  ritrovò  Zebodeo  nel  cortile  ad  aspettarlo  parve  lo  ve- 
desse solo  allora:  si  lasciò  ripetere  di  che  si  trattava,  e  finalmente 
accondiscese  ad  accompagnarlo. 

Trovarono  Bellìa  a  trastullarsi  nel  cortile;  aveva  preso  per  le  ali 
una  piccola  pollanca  che  pareva  una  colomba  e  le  metteva  un  na- 
strino rosso  alla  zampa.  "Tutto  era  tranquillo  intomo,  come  se  la 
morte  non  fosse  di  recente  passata,  sebbene  la  serva  preparasse  sotto 
la  tettoia  una  caldaia  di  liquido  nero  per  tingere  i  fazzoletti  da  lutto. 
Nel  vedere  il  dottore  anche  lei  arrossì  e  cercò  di  nascondersi,  tanto 
egli  le  piaceva  :  poi  piano  piano  si  fece  avanti,  si  avvicinò,  lo  fissò 
in  viso.  Egli  esaminava  la  mano  di  Bellìa  con  una  certa  cura;  s'era 
animato  perchè  il  caso  lo  interessava;  sbottonò  il  polso  della  camicia 
e  denudò  il  braccio  bianco  e  muscoloso  del  giovine;  glielo  sollevò, 
lo  palpò,  parve  guardarlo  attraverso  la  luce. 

Tutti  stavano  a  guardare  con  ansia  silenziosa,  allacciati  l'uno 
all'altro  dal  filo  dello  stesso  pensiero;  lui  solo,  Bellìa,  sorrideva  un 
po'  beffardo  un  po'  stupito,  e  abbandonava  la  mano  gonfia  al  dottore 
come  non  fosse  la  sua.  In  fondo  era  inquieto  anche  lui,  non  tanto 
per  il  male  suo  quanto  per  l'aria  grave  del  dottore. 

E  gli  dava  fastidio  raccontare  com'era  andata  la  cosa  :  anche  lui 
non  ricordava  con  precisione  il  modo  col  quale  la  bestia  indiavolata 
lo  aveva  morsicato. 

—  Correva  più  di  un  cane:  per  fermarlo  mi  lasciai  andar  giù 
afferrandolo  per  la  criniera  :  è  allora  ohe  mi  ha  morsicato,  ma  lì  per 
lì  non  me  ne  accorsi. 


IL  DIO  DEI  VIVENTI  129 

—  E  dopo  di  questo,  —  intervenne  il  padre,  —  non  volle  la- 
sciarsi fasciare  la  mano. 

—  Hai  fatto  male,  figlio  mio,  c'è  senza  dubbio  un  po'  d'infezione; 
avete  in  casa  qualche  disinfettante? 

Non  avevano  nulla,  ma  zia  Anna  disse  con  presunzione  di  aver 
lavato  lei  la  mano  con  l'aceto.  ' 

Il  dottore  non  le  badò  :  e  questo  la  offese. 

Zebedeo  invece  era  contento  che  il  dottore  prendesse  sul  seria 
la  cosa;  solo  gli  pareva  che,  mentre  con  la  donna  isterica  s'era  mo- 
strato brutale,  qui  assumesse  un'aria  quasi  di  mistero.  0  forse  si 
trattava  di  una  cosa  molto  grave? 

Fatto  sta  che  il  dottore  volle  Bellìa  con  sé  per  disinfettargli  bene 
la  mano;  e  non  si  pronunciò  oltre. 

Zebedeo  li  accompagnò. 

/  * 

'  -k-k 

La  casa  del  dottore  era  ancora  una  povera  abitazione  da  con- 
tadini, col  cortiletto  recinto  di  un  muro  basso;  nella  stanza  terrena 
•ove  egli  riceveva  uno  scaffale  con  libri  rilegati,  un  armadio  a  vetri 
una  lunea  tavola  dov'egli  faceva  stendere  i  clienti  erano  i  soli  ar- 
redi della  sua  professione. 

Egli  guadagnava  moltissimo,  perchè  oltre  ad  aver  la*  condotta 
per  i  poven,  si  faceva  pagare  dai  ricchi,  ed  era  chiamato  anche  in 
altri  paesi  per  consulti  e  operazioni  :  possedeva  inoltre  terreni  e  be- 
stiame: eppure  viveva  miseramente  sempre  più  avido  di  denaro. 

Mentr'egli  disinfettava  la  mano  di  Bellìa,  le  galline  e  il  cane 
si  affacciavano  liberamente  alla  porta  della  stan.^a  che  dava  sul  cor- 
tile, e  pareva  osservassero  quel  che  avveniva  là  dentro:  e  a  sua  volta 
Bellìa  si  divertiva  a  guardare  i  gattini  neri  saltellanti  intomo  alla 
g'ovine  madre  distesa  al  sole  che  offriva  loro  le  mammelle  color 
viola. 

D'improvviso  un  ragazzo  spinse  con  violenza  il  portone  ed  entrò 
di  corsa  fino  alla  stanza. 

—  Che  il  dottore  venera  subito,  —  disse  ansando,  eppur  guar- 
dando intomo  curioso,  —  il  vicario  sta  molto  male;  ha  vomitato  tanto 
sangue. 

—  Vomita  ancora?  —  domandò  con  ironia  il  dottore. 

—  No:  adesso  ha  cessato. 

—  E  allora  va'.  Verrò  fra  poco:  va':  chiudi  il  portone. 

Il  ragazzo  guardava  la  mano  di  Bellìa  e  non  se  ne  andava. 

Allora  Zebedeo  lo  spinse  verso  il  cortile,  irritato;  perchè  avrebbe 
voluto  che  non  si  sapesse  del  male  del  figlio. 

Il  dottore,  divenuto  improvvisamente  loquace,  sparlava  del  vi- 
cario. 

—  Speriamo  si  decida  una  buona  volta  a  crepare.  È  lì.  asrerap- 
pato  aUa  cassetta  della  chiesa  come  un  naufrago  alla  sua  tavola. 
Vuol  rifarsi  del  sangue  che  vomita  col  denaro  che  succhia  ai  po- 
veri. E  poi  facesse  il  suo  dovere:  auando  lo  cercano  per  le  funzioni 
sacre  sta  male:  quando  si  tratta  di  ritirare  la  prebenda  sta  benissimo. 

—  Avrà  bisogno,  di  denari,  —  disse  Bellìa. 

E  il  dottore,  mentre  gli  fasciava  la  mano,  si  mise  a  discorrere 
seriamente  con  lui. 

9  Voi.  CCXVir,  eerie  VI  —  16  mano  1928. 


130  IL  DIO  DEI  VIVENTI 

—  Mac-ehè  bisogno!  È  solo,  non  ha  madre  né  padre  né  parenti,: 
ne  ha  anche  troppi  di  denari.  Cento  volte  gli  dissi:  ma  ritirati,  va' 
in  riva  al  mare,  fa'  una  cura,  —  Già,  e  allora  i  soldi  della  prebenda 
chi  se  li  piglia?  E  allora  crepa.  I  denari,  credi  pure,  Aglio  mio,  sono 
la  rogna  del  mondo. 

—  Ma  senti  chi  parla!  —  pensava  Zebedeo;  mentre  Belila  diceva 
ridendo  : 

—  Oh  io  per  me  quanti  ne  ho  tanti  ne  spendo.  Il  guaio  è  che 
non  ne  ho. 

—  Li  avrai  anche  tu  un  giorno;  ne  avrai  troppi  anche  tu;  spe- 
riamo te  li  godrai. 

Zebedeo  sentiva  voglia  di  fargli  le  fiche  sotto  gli  occhi,  ma  in 
fondo  era  soddisfatto  che  egli  trattasse  bene  Bellìa.  Sia  contento 
Belila,  tutto  il  resto  non  importa. 

E  mise  la  mano  sotto  il  risvolto  del  cap'pott9  per  trarre  il  por- 
tafogli; in  quel  momento  era  felice  e  avrebbe  pagato  la  visita  anche 
cento  lire,  se  il  dottore  glie  le  avesse  chieste. 

—  Quanto  è  per  il  tuo  disturbo  Antonino? 

Il  dottore  rimetteva  In  ordine  i  suoi  strumenti;  non  rispose. 

—  Antonino...  —  insistè  l'altro. 

—  E  andate,  c'è  tempo!  —  gridò  allora  di  mala  maniera. 

—  C'è  tempo,  —  pensava  Zebedeo  rabbuiandosi,  mentre  se  ne 
andava  col  figlio.  —  Dunque  il  nfiale  può  continuare. 

• 

•  • 

Il  male  forse  non  sarebbe  continuato  senza  un  incidente  avve- 
nuto nel  frattempo  in  casa  Barcai. 

Il  fuoco  che  la  sen'a  aveva  acceso  sótto  la  tettoia,  come  ella 
usava  sempre  che  doveva  far  bollire  la  caldaia,  s'era  questa  volta 
attaccato  ad  un  mucchio  di  frasche  imprudentemente  accatastate  lì 
accanto:  le  fiamme  salivano  alte  e  furiose  e  minacciavano  di  incen- 
diare il  tetto  e  la  stalla  attigua. 

Già  la  gente  accorreva  da  ogni  parte,  mentre  Belila  e  il  padre 
uscivano  dal  cortile  del  dottore:  e  Zebedeo  indovinò  subito  una 
nuova  disgrazia  poiché  vide  la  nuvola  di  fumo  che  saliva  dalla  sua 
casa.  Si  mise  a  correre,  e  cominciò  a  urlare  quando  il  portone  spa- 
lancato gli  apparve  come  la  bocca  di  un  forno;  le 'fiamme  pareva 
scaturissero  di  sotterra  e  si  slanciavano  e  volavano  via  con  grandi 
ali  rosse. 

Attraverso  il  fumo  soffocante  che  riempiva  il  cortile  figure  nere 
correvano  qua  e  là  con  secchi  d'acqua. 

—  La  mia  casa  s'è  mutata  in  inferno,  —  egli  urlò  fuori  di  sé, 
togliendosi  la  berretta  e  sbattendola  come  tentasse  di  smorzare  con 
essa  il  fuoco. 

E  dimenticò  ogni  altra  cosa.  Corse  al  pozzo  dove  Rosa  e  la  pa- 
drona, rosse  e  sudate  attingevano  l'acqua  e  la  versavano  nelle  sec- 
chie, e  prese  due  di  queste;  e  per  qualche  minuto  non  fece  altro  che 
correre  dalla  tettoia  al  pozzo  e  dal  pozzo  alla  tettoia  e  lanciare  acqua 
sul  fuoco.  Anche  gì:  altri,  uomini  e  donne,  facevano  lo  stesso;  i  vi- 
cini di  casa  portavano  l'acqua  dai  loro  pozzi,  i  bambini  aiutavano; 
e  lutti  pareva  si  divertissero.  Ma  l'incendio  continuava  e  anche  le 


IL  DIO  DEI  VIVENTI  131 

fiamme  avevano  qualche  cosa  di  allegro,  alimentate  anziché  abbat- 
tute dagli  sputi  dell'acqua. 

I  cavalli  nitravano  e  scalpitavano  nella  stalla;  già  una  trave 
della  tettoia  dapprima  annerita  fumava  e  s'accendeva  in  cima  come 
un  sigaro. 

Allora  Zebedeo,  acciecato  dal  fumo  ©  dall'angioscia,  s'accorse 
che  Belila  aveva  appoggiato  una  scala  di  fuori  e  smovera  le  t-egole 
del  tetto. 

—  Largo,  —  gridava.  —  Adesso  smuovo  la  trave  e  la  faccio  an- 
dar giù. 

Tutti  si  accostarono,  coi  secchi  in  mano  guardando  in  alto:  in 
breve  s'udì  uno  schianto;  una  nuvola  di  polvere  si  mischiò  a  quella 
del  fumo;  il  tetto  cadeva  soffocando  il  fuoco  con  le  sue  macerie. 

La  tettoia  era  rovinata,  ma  la  stalla  e  la  Casa  erano  salve. 

Cessato  il  pericolo  cominciarono  le  recriminazioni. 

—  Sei  stata  tu,  —  gridava  il  padrone  a  Rosa.  —  E  chi  pagherà 
il  danno,  adesso? 

La  ragazza,  buttata  per  terra  e  mezza  morta  per  la  stanchezza 
e  lo  spavento,  si  guardava  le  mani  scorticate  dalla  corda  del  secchio 
per  attingere  acqua  e  sing-hiozzava. 

—  Sono  stata  io,  —  dissse  infine.  —  Ebbene,  fate  quello  che  vo- 
lete :  o  cacciatemi  via  o  tenetemi  al  servizio  fino  a  scontare  il  danno. 

Questa  sottomissione  non  calmava  Zebedeo;  perchè  non  era  al 
danno  della  tettoia  che  egli  pensava;  pensava  alla  mano  di  Bellìa 
che  nello  sforzo  s'era  sfasciata  e  gonfiata  di  più  e  prendeva  un  colore 
scuro  come  annerita  dal  fumo. 

E  avrebbe  voluto  richiamare  subito  il  dottore,  ma  non  osava. 
Per  calmarlo  Bellìa  disse  che  sarebbe  andato  lui  a  farsi  nuovamente 
fasciare  la  mano,  e  stava  per  uscire  quando  il  dottore  stesso  arrivò  : 
aveva  saputo  dell'incendio  e  degli  sforzi  del  giovane  e  lo  sgridò  con 
asprezza,  cosa  che  fece  grande  piacere  a  Zebedeo. 

Bellia  cominciò  ad  annoiarsi. 

—  Se  mi  tormentate  così  —  disse  appena  andato  via  il  dottore  — 
mi  nascono  e  non  mi  vedrete  per  una  settimana. 

—  Nasconditi  pure,  purché  lasci  in  pace  la  tua  mano. 

Allora  Bellia  andò  a  coricarsi  sul  suo  lettuccio  nella  camera  ter- 
rena e  si  addormentò  prof  ondarne  te  :  la  madre  entrò  in  punta  di 
piedi  e  chiuse  la  finestra  e  tutti  stettero  in  silenzio  per  non  distur- 
bare il  sonno  di  lui,  come  quando  era  bambino. 

• 
•  • 

Nei  giorni  seguenti  Zebedeo  ebbe  molto  da  fare  per  lo  sgombero 
e  il  riattamento  della  tettoia  :  uno  dei  servi  del  povero  Basilio  e  anche 
Rosa  tutt'ora  stordita  sebbene  avesse  bevuto  un'acqua  contro  lo  spa- 
vento preparata  dalla  fattucchiera,  aiutavano  i  muratori. 

A  Bellia  non  veniva  permesso  neppure  di  avvicinarsi  :  Rosa 
stessa,  che  esagerava  sempre  i  suoi  sentimenti,  avvertiva  il  padrone 
se  il  giovane  accennava  a  fare  qualche  cosa. 

E  Bellia  scrollava  le  spalle  e  si  metteva  a  sedere  accanto  alla  " 
porta  di  cucina  con  la  mano  sostenuta  da  una  fcLscia  legata  al  collo, 
triste,  preoccupato,  non  per  il  male,  ma  per  la  sua  forzata  inazione. 


132  IL  DIO  DEI  VIVENTI 

Di  tanto  in  tanto  la  madre  o  la  vecchia  gli  mettevano  un  impacco 
sulla  mano  che  cominciava  a  venire  in  suppurazione,  ed  egli  lasciava 
fare  inerte  con  negli  occhi  già  così  freschi  e  vivi  un'espressione  di 
indifferenza;  e  pareva  che  le  sue  palpebre  si  appassissero  come  petali 
di  gardenia.  Anche  la  bocca  era  violacea  e  arida:  una  lieve  peluria 
gli  cresceva  sopra  il  labbro  e  sulle  gote  ed  egii  non  se  la  radeva  piìi, 
non  solo,  ma  quando  la  madre  gli  diede  i  denari  perchè  andasse  dal 
barbiere  disse  con  dispetto; 

—  Non  li  voglio.  Voglio  lasciarmi'  crescere  la  barba  finché  vivo. 

Il  dottore  era  la  sola  persona  che  riusciva  a  scuoterlo  e  confor- 
tarlo seobene  non  si  pronunciasse  mai  chiaramente  circa  la  natura 
e  la  durata  del  male. 

Ecco  che  entra  dopo  aver  picchiato  forte  col  bastone  sul  porton- 
cino  aperto  per  avvertire  ciie  viene;  la  serva  fa  di  tutto  per  avvici- 
narsi, lo  guarda  alle  spalle,  sul  collo,  arrossisce  e  instintivamente  si 
erge  sul  busto  e  dondola  i  fianchi  per  farsi  notare  da  lui. 

Anche  Zebedeo  e  le  donne  gii  vanno  incontro  e  mentre  la  madre 
lo  guarda  con  fede  e  speranza  zia  Annia  l'osserva  fredda  diffidente 
e  non  gli  rivolge  mai  per  prima  la  parola.  Belila  s'irrita  per  tutta 
quell'accolta  di  persone  intorno  a  lui;  abbandona  la  mano  all'esame 
rapido  del  dottore  e  prova  un  gusto  cnjdele  se  la  mano  ha  peg- 
giorato. 

Un  giorno  disse  freddamente: 

—  Se  verrà  la  cancrena  bisognerà  tagliarla. 

—  Tu  sei  pazzo  —  gridò  il  padre. 

—  Perchè  ti  metti  in  mente  queste  scempiaggini? 

—  Ma  io  non  ho  paura  di  nulla  :  tanto,  da  campare  ce  n'ho. 

E  tornò  a  sedersi  accanto  all'uscio  di  cucina,  tirando  calci  alle 
galline  e  ai  gatti  che  tentavano  di  passargli  davanti. 

Neppure  Ladrone  il  buon  cane  di  guardia  col  quale  erano  amici 
da  tanti  anni  riusciva  piii  ad  avere  la  sua  simpatia  :  invano  gli  si 
aggirava  intorno  scodinzolando,  guardandolo  con. occhi  dolci  e  lu- 
centi, invano  tentava  di  leccargli  la  mano  sana:  egli  lo  scacciava 
col  piede,  voleva  star  solo  col  suo  male  e  col  suo  pensiero  segreto: 
un  pensiero  che  egli  non  voleva  rivelare  intero  neppure  a  sé  stesso. 

Così  un'afa  pesante  e  un'ambra  grigia  gravavano  nella  casa  un 
giorno  tanto  serena, 

L#a  stessa  figura  di  Zia  Anna  vi  portava  qualche  cosa  dd  estraneo, 
di  misterioso;  era  come  l'ombra  lunga  del  morto  rimasta  lì  a  ricor- 
dare che  un'iniquità  era  stata  compiuta,  che  Dio  forse  voleva  punire 
la  famiglia  avida  col  male  del  figlio,  con  le  disgrazie  che  accade- 
vano: perchè  alla  caduta  della  tettoia  erano  succeduti  altri  guai; 
l'afta  s'era  sviluppata  nel  bestiame  lasciato  dal  povero  Basilio,  e  già 
due  vacche  erano  morte  :  altro  bestiame  era  stato  rubato.  Una  sera 
Zebedeo  decise  di  tornare  da  Lia.  Ella  non  s'era  fatta  più  viva,  anzi 
a  quanto  riferivano  le  donne  del  vicinato  viveva  ritirata  e  lavorava 
in  casa  senza  voler  ricevere  nessuno.  Zebedeo  tuttavia  non  si  fidava 
di  quella  quiete  apparente. 

Questa  volta  trovò  anche  il  ragazzo  accanto  alla  madre  che  cu- 
civa: tutti  e  due  seduti  su  piccoli  sgabelli,  presso  la  tavola,  sotto 
la  luce  diretta  d'un  lume  ad  olio;  e  il  riflesso  dorato  dei  capelli  di 


IL  DIO  DEI  VIVENTI  133 

Salvatore  faceva  contrasto  con  la  massa  opaca  della  testa  di  Lia 
avvolta  in  un  fazzoletto  nero. 

Zebedeo  non  aveva  pensato  di  poter  trovare  il  rageizzo  e  la  sua 
presenza  lO  turbò  :  quegli  occhi  vivi  e  astuti,  dolci  e  intelligenti  gli 
penetravano  fino  all'anima. 

D'altronde  pensava  che  quello  che  aveva  da  dire  alla  madre  po- 
teva sentirlo  anche  il  figlio,  e  se  quei  due  penetravano  a  fondo  nella 
sua  pena  e  ne  provavano  pietà  tanto  meglio,  o  se  ne  provavano  gusto 
tanto  meglio  ancora  :  egli  veniva  lì  per  frugare  nella  sua  piaga  e  cer- 
care dolore  per  conforto. 

luttavia  prese  un  tono  scherzoso  rivolgendosi  al  ragazzo. 

—  Studi  ancora,  a  quest'ora?  E  mettilo  a  dormire,  quel  libro: 
non  vedi  che  è  stanco  di  essere  letto?  E  tu  va  fuori  a  giuocare  coi 
ragazzi. 

—  Il  mio  Salvatore  non  va  mai  fuori,  la  sera  —  disse  seria  la 
madre  alzandosi  per  accostare  una  sedia  a  Zébedeo.  —  Siedi. 

—  Non  va  fuori  per  obbedirti;  ma  i  ragazzi  devono  sempre  di- 
sobbedire. 

—  Tu  dicevi  così  al  tuo  Bellia? 

—  Non  glie  lo  dicevo  ma  lo  pensavo.  I  ragazzi  che  obbediscono 
non  sono  veri  ragazzi  sani.  Sai  che  cosa  sono,  Salvatore? 

Il  ragazzo  lo  guardava  con  gli  occhi  luminosi,  tanto  che  Zebedeo 
non  sapeva  distinguere  se  in  quello  sguardo  vi  fosse  più  ostilità  o 
benevolenza,  befTa  o  malizia;  ma  fu  contento  nel  veder  ridere  Sal- 
vatore quando  egli  disse: 

—  Sono  ragazze. 

Lia  credette  che  l'uomo  volesse  parlare  da  solo  a  solo  con  lei,  e 
per  questo  consigliasse  il  ragazzo  ad  uscire. 

—  Va  a  dormire.  Salvatore. 

Allora  fu  Zebedeo  a  pregarla  di  lasciarlo  ed  il  ragazzo  abbassò 
gli  occhi  sul  libro,  ma  per  quanto  leggesse  non  voltava  mai  la  pagina. 
Anche  Lia  cuciva:  e  Zebedeo  vedeva  le  sue  mani  e  l'ombra  delle 
sue  mani  sulla  tela  e  l'ago  e  l'ombra  dell'ago  ficcarsi  nella  tela  con 
un  movimento  misterioso;  e  aveva  paura  che  la  donna  mormorasse 
fra  di  sé  maledizioni  e  scongiuri. 

—  Non  sono  più  venuto,  Lia,  perchè  in  questi  ultimi  giorni  le 
disgrazie  mi  sono  fioccata  come  la  grandine.  Una  sventura  non  viene 
mai  sola.  Forse  saprai  già  dell'incendio. 

Il  viso  di  lei  pan  e  farsi  più  acuto  per  un  lieve  sorriso  di  scherno. 

—  Che  cos'è  una  tettoia  per  te,  Zebedeo  Barcai?  Se  ti  lamenti 
per  questo!  0  forse  devi  venire  da  me  per  prestarti  cento  scudi  per 
accomodarla? 

—  Beffami  pure  —  pensava  Zebedeo  —  se  ciò  ti  fa  piacere  e 
sminuisce  il  tuo  odio,  beffami  pure. 

—  Eppoi  ho  il  bestiame  malato,  e  anche  il  mio  Bellia  ha  una 
mano  malata.  (Sapeva  Lia  o  fìngeva  di  non  sapere?  Il  suo  viso  s'era 
abbassato  e  si  nascondeva.  Bisognava  dirle  tutto?  Bisognava).  Gliel'ha 
morsicata  il  puledro  del  povero  Basilio,  e  pare  ci  sia  un  po'  d'infe- 
zione. Domani  il  dottore  gli  deve  fare  un  taglio  per  portar  via  la 
materia. 

—  Il  dottore?  Il  fuoco  lo  bruci.  Tu  dai  retta  al  dottore?  Egli  taglia 


134  IL  DIO  DEI  VIVENTI 

la  carne  viva  ai  cristiani  per  trame  del  denaro.  Io  se  avessi  un  male 
non  nni  lascerei  neppure  toccare  da  lui. 

—  Tu  vuoi  impressionarmi  per  ritardare  l'operazione  e  far  ve- 
nire la  cancrena. al  mio  Bellia,  —  pensava  Zebedeo,  eppure  la  donna 
gli  sembrava  sincera  e  già  le  sue  parole  gli  destavano  un  senso  di 
diffidenza  contro  il  dottore. 

—  Non  gliela  far  toccare  la  mano,  a  tuo  figlio.  Lascia  che  il 
male  si  maturi  da  sé:  poi  basta  che  tua  moglie  lo  punga  con  un 
ago  e  tutto  è  fatto.  Basta  la  punta  di  un  ago.  Ti  ricordi  (ella  pun- 
geva la  tela  per  dimostrare  come  andava  fatto)  ti  ricordi  quando  il 
povero  Basilio  ebbe  quell'ascesso  al  collo?  Il  dottore  diceva  di  ta- 
gliare :  egli  taglia  sempre,  quel  figlio  di  boia;  ma  Basilio  diede  retta 
a  me.  Bastò  la  punta  di  un  ago  per  farlo  guarire. 

—  Ma  che  cosa  credi  che  abbia  da  fare  il  dottore?  La  lancetta 
non  è  che  un  grosso  ago. 

—  A  volte...  —  ella  disse  a  bassa  voce  —  a  volte  sono  loro,  i 
dottori,  che  avvelenano  la  lancetta  per  far  continuare  il  male  e  poi 
prendersi  la  grossa  paga. 

—  Lia!  Una  donna  saggia  come  tu  sembri  non  dice  queste  cose. 

—  Perchè?  Sono  angeli,  i  dottori?  Sono  uomini;  amano  il  denaro 
e  quindi  sono  anche  essi  capaci  di  tutto. 

QuéìY anch'' essi  turbò  Zebedeo:  accennava  a  lui?  Accennava  a  lui. 

—  Salvatore,  senti  che  dice  tua  madre?  per  fortuna  tu  non  credi 
a  queste  cose. 

Il  ragazzo  sollevò  gli  occhi  dal  libro  ma  non  rispose  :  ci  credeva 
o  non  ci  credeva? 

—  Tu  fai  male,  Lia,  a  far  credere  al  ragazzo  queste  cose  —  disse 
l'uomo  abbassando  anche  lui  la  voce. 

—  Quali  cose?  Che  ci  sono  uomini  senza  scrupoli?  Purtroppo 
lo  imparerà  poi  da  sé.  Basta  che  sia  buono  lui  e  che  il  male  resti  fuori 
di  lui. 

—  Senti,  Lia  —  riprese  Zebedeo  —  io  non  credo  ch'esista  tanto 
male  nel  mondo.  Lo  pensiamo  noi;  pensiamo  che  gli  altri  possano 
fare  tanto  male,  ma  è  fantasia  nostra.  Ed  é  peggio  che  essere  cat- 
tivi noi. 

Edi  parlava  così  perché  il  ragazzo  sentisse:  non  sapeva  perchè, 
ma  ^ndesso  la  sua  pena  maggiore  era  che  Salvatore  lo  credesse  col- 
pevole. 

—  E  anche  se  lo  tocchiamo  con  le  dita,  il  male,  dobbiamo  «sempre 
crederlo  minore  di  quello  che  é:  ai  ragazzi  poi  non  bisogna  parlarne. 
Ne  avranno  l'esperienza,  si,  ma  c'è  tempo  davanti  a  loro.  Lasciamoli 
godere  finché  possono.  Io  al  mio  Bellia  non  ho  mai  detto;  il  tale  fa 
questo  male,  il  tale  fa  auest'altro.  Per  miesto  è  cresciuto  buono  lui  : 
a  sedici  anni  è  ancora  come  un  bambino. 

—  Il  tuo  Bellia  è  nato  in  un  letto  di  rose  e  la  fortuna  gli  è  stata 
madrina;  per  questo  è  ancora  bambino  e  sarà  sempre  bambino;  ma 
altri  nascono  col  flore  della  sventura  in  mano  e  non  hanno  ancora  i 
denti  che  l'esperienza  della  vita  li  ha  fustigati:  non  parliamone  — 
ella  concluse  aggrottando  le  sopracciglia.  Allora  Zebedeo  cambiò 
discorso:  raccontò  della  donna  che  aveva  rice\iito  la  visita  di  San- 
t'Antonio, con  barzellette  che  fecero  sorridere  Salvatore:  però  gli 
sembrava  strano  che  il  ragazzo  non  parlasse  mai. 


IL  DIO  DEI  VIVENTI  135 

—  Ma  ìa  lingua  non  ce  l'hai?  —  domandò  quasi  irritato  di  quel 
silenzio.  —  II  maestro  non  t'insegna  a  parlare? 

—  II  maestro  m'insegna  a  tacere  —  rispose  il  ragazzo;  e  parlava 
ul  serio,  eppure  sembrò  a  Zebedeo  che  quel  moccioso  si  burlasse 
-1  lui. 

—  Bello,  quel  maestro!  È  solo  lui  che  vuol  {)arlare?  Digli  da  parte 
mia  che  lui  {>arla  per  tre,  per  trenta  anzi,  se  a  tutti  voi  trenta  scolari 
v'insegna  a  tacere.  E  se  gli  darete  retta  diventerete  tutti  idioti.  Ta- 
cere! È  qucindo  l'uomo  non  sa  parlare  che  tutti  gli  saltano  addosso 
come  le  mx)sche  sull'asino  senza  coda.  E  se  viene  incolpato  di  qualche 
malanno  e  non  sa  difendersi  lo  schizzano  in  aria  come  un  masso 
spaccato  dalla  mina. 

—  Se  non  fa  del  male  nessuno  lo  incolpa  —  disse  Salvatore. 
L'altro  replicò;  e  parlava  animatamente  e  pareva  fosse  venuto 

solo  per  questo,  per  discutere  col  ragazzo.  La  madj-e  guardava  il  suo 
Salvatore  con  ammirazione;  le  pareva  Cristo  fanciullo  di  contro  ai 
dottori  cavillosi  del  tempio. 

• 

•  • 

Certo  era  intelligente,  Salvatore:  a  dieci  anni  si  sentiva  già  su- 
'^•eriore  a  Zebedeo  e  lo  conskierava  con  compatimento:  ma  in  fondo 
t^ntiva  uit  vago  terrore  di  lui  {)erchè  lo  credeva  colpevole:  non  lo 
odiava,  non  calcolava  materialmente  il  danno  che  gli  veniva  fatto, 
con  una  fiducia  superba  nel  suo  valore  di  ragazzo  studioso  che  sa- 
rebbe andato  avanti  da  sé;  ma  quell'uomo  torvo  dalla  figura  diabo- 
lica rappresentava  per  lui  un  mistero  che  lo  rattristava  nella  pro- 
fondità del  suo  essere,  una  forza  «dia  quale  solo  Dio  può  resistere: 
rappresentava  il  male. 

Eppure,  nel  sentirlo  parlare  come  parlava,  era  'propenso  a  cre- 
derlo innocente;  no,  non  aveva  distrutto  il  testamento,  come  la  madre 
affermava;  e  questo  penderò  e  le  affermazioni  di  Zebedeo  che  nel 
mondo  non  esiste  poi  tanto  male,  gli  davano  un  senso  di  gioia. 

La  madre  però  vigilava;  sentiva  ciò  che  passava  nell'anima  del 
ragazzo  e  di  tanto  in  tanto  lasciava  cadere  nel  discorso  qualche  pa- 
rola che  distruggeva  l'effetto  di  quelle  di  Zebedeo,  senza  accennare 
mai  all'eredità,  evitando  anche  di  nominare  il  povero  Basilio  che 
pareva  non  ricordasse  più.  Ma  l'uomo  non  s'illudeva:  Basilio  era 
=  :mpre  lì,  presente,  e  parlava  con  la  voce  di  lei. 

• 

•  * 

—  Sai  che  Pietro  Paolo  mi  ha  scritto?  —  disse  lei  d'improvviso. 
Pietro  Paolo  era  il  marito. 

—  È  una  lettera  curiosa;  adesso  te  Ig.  farò  leggere.  Dove  l'hai 
messa  Salvatore? 

Salvatore  cercò  la  lettera  nel  cassetto  della  tavola,  e  mentre  Ze- 
bedeo la  leggeva  si  scostò  alquanto  e  finalmente  si  mise  anche  lui  a 
leggere  davvero  il  suo  libro. 

Per  qualche  momento  un  silenzio  profondo  regnò  nella  cucina 
pulita  e  ordinata  come  una  stanza  da  ricevere  :  e  quei  tre  parevano 
una  famigliola  raccolta,  quieta  intomo  al  lume  domestico. 


136  IL  DIO  DEI  VIVENTI 

La  lettera  di  Pietro  Paolo  era  lunga,  scritta  su  uno  di  quei  grandi 
fogli  a  quadratini  ohe  usavano  un  tempo  i  commercianti.  Egli  diceva 
di  aver  saputo  della  morte  di  Basilio,  e  invece  di  compiacersene  fa- 
ceva le  sue  condoglianze  a  Lia. 

«  So  pure  che  non  ti  ha  lasciato  nulla,  e  questo  mi  fa  meraviglia; 
ma  tutto  è  possibile  nei  mondo,  e  le  cose  meno  credibili  sono  quelle 
che  più  di  frequente  succedono.  Chi  per  esempio  mi  avrebbe  un 
giorno  detto  che  io  finivo  così,  e  che  mi  sarei  rassegnato  a  tutte  le 
mie  disgrazie? 

«  È  che  Dio  ci  dà  la  vita,  ci  dà  la  disgrazia,  ma  ci  aiuta  sempre. 
Così  i  miei  affari  grazie  a  Dio  vanno  bene:  il  mio  negozio  s'è  ingran- 
dito. Ho  due  commjBSsi,  e  le  ordinazioni  crescono  di  giorno  in  giorno. 
Devo  confessare  che  anche  il  tempo  mi  ha  aiutato;  perchè  avevo  molta 
roba  in  magazzino  e  adesso  il  ferro  ha  preso  un  prezzo  d'oro.  Dunque, 
ti  volevo  dire  questo,  Lia:  mettiamo  una  pietra  sul  pwissato,  e  scu- 
sami se  qualche  volta  ti  ho  scritto  in  quel  modo:  ma  era  la  passione 
e  la  rabbia  che  mi  trasportavano.  Con  tutto  il  mio  guadagno,  io  faccio 
una  vita  miserabile,  sulla  sedia  a  ruote,  spinto  da  una  serva  come 
un  bambino.  Adesso  poi  questa  donna,  sebbene  in  casa  mia  sia  lei 
la  padrona,  e  s'abbia  messo  un  gruzzolo  a  parte,  mi  vuol  lasciare: 
ha  trovato  un  marito  più  giovane  di  lei  che  le  mangerà  tutto,  si  ca- 
pisce; il  mondo  è  fatto  così:  i  pesci  groq^  divorano  i  piccoli. 

«  Io  in  casa  ho  bisogno  di  una  donna  che  mi  aiuti  e  poi  sono 
stanco  di  star  solo,  di  non  voler  bene  a  nessuno.  Ho  pensato  sempre 
al  tuo  ragazz.ino,  e  sempre  pensavo:  se  Dio  ci  avesse  dato  qiwsto 
figlio  prima  della  mia  partenza  tutto  sarebbe  andato  meglio  :  Lia  non 
mi  avrebbe  tradito. 

<(  Basta  con  le  parole.  Il  fatto  è  questo  :  se  tu  vuoi  tornare  con 
me  io  non  ti  farò  più  cenno  del  passato.  Qui  è  un  paese  dove  tutti 
lavorano,  e  quindi  non  si  occupano  dei  fatti  altrui. 

«Nessuno  troverebbe  strano  che  noi  ci  si  riunisse:  anzi  tutti 
me  lo  consigliano,  il  tuo  Salvatore  avrebbe  in  me  un  vero  padre. 
Sento  che  è  un  ragazzo  studioso:  lo  faremo  studiare.  Pensaci  bene, 
Lia,  io  credo  che  tornando  tu  a  casa  mia,  con  le  tue  cure,  con  la  i>ace 
nell'anima  e  il  benestare  io  migliorerei  in  salute.  E  anche  se  non 
avessi  da  campare  molto,  ad  ogni  modo  il  tuo  avvenire  sarebbe  as- 
sicurato perchè  lascierei  tutto  a  te.  Rispondimi  e  credimi  sempre  il 
tuo  affe2Ùonatissimo  marito 

Pietro  Paolo» 

«  P.  S.  Vorrei  far  venire  qui  anche  il  vecchio  Michele  Pala,  quello 
che  mi  ha  insegnato  il  mestiere.  Con  la  sua  abilità,  gli  farei  guada 
gnare  molto.  Gli  ho  scritto;  ad  ogni  modo  ti  prego  di  recarti  da  lui 
e  pregarlo  di  rispondermi». 

A  misura  che  leggeva,  Zebedeo  provava  un  senso  di  sollievo.  Se 
Lia  tornasse  cól  marito  e  sgombrasse  il  paese  e  la  sua  coscienza' 
Ma  subito,  dal  modo  noncurante  con  cui  la  donna  lasciò  che  egli  K 
porgesse  invano  la  lettera  e  poi  la  rimettesse  sulla  tavola,  e  sovra- 
tutto  da  un  lieve  sogghigno  che  le  torceva  la  bocca,  si  accorse  ch'ella 
pensava  in  tutt'altro  modo. 

E  perchè  ella  non  indovinasse  il  suo  intimo  pensiero  prese  anche 
lui  un'aria  canzonatrice. 


IL  DIO  DEH  VIVENTI  137 

—  Ha  buone  intenzioni  il  valentuomo!  • 

—  Buone  intenzioni  sì,  malanno  al  resto  della  sfua  persona!  Mi 
vuole  per  tirargli  la  carriuola  poiché  la  serv^a  lo  abbandona.  Ma  io 
gli  tiro  il  collo,  se  «vuole,  non  la  carriuola. 

—  Ma  ha  molti  quattrini  —  arrischiò  Zebedeo  —  e  un  mezzo  pa- 
ralitico come  lui  muore  presto. 

La  donna  lo  guardò  di  sotto  in  su  con  uno  sguardo  che  gli  passò 
sul  viso  come  una  vampata. 

—  Non  mi  son  valsi  i  denari  di  chi  mi  voleva  bene,  e  come  pos- 
sono dunque  valermi  quelli  di  chi  mi  odia?  —  ella  disse  :  poi  accennò 
con  gli  occhi  a  Salvatore.  —  La  mia  eredità  è  una  sola,  e  quella  nessun 
ladro  me  la  potrà  togliere. 

Zebedeo  sentiva  .voglia  di  sbuffare,  di  pestare  i  piedi.  Ma  perchè 
dunque  non  se  n'andava?  Ck)sa  era  venuto  a  fare?  Cosa  era  venuto  a 
fare?  Sì,  d'un  tratto  ricordò  :  era  venuto  a  offrire  denaro  alla  donna 
per  aiutarla  a  vivere;  ma  era  venuto  anche  spinto  dal  bisogno  di  un 
aiuto  che  gli  facesse  sormontare  la  sua  pena  segreta. 

E  l'aiuto  era  quello  :  di  soffrire,  per  espiare,  per  placare  la  donna 
e  sopratutto  la  sua  propria  coscienza. 

Allora  andò  incontro  al  rancore  di  Lia  stuzzicandola  ma  a  viso 
coperto  come  quando  andava  per  raccogliere  le  api  nell'alveare. 

—  A  me,  tuo  marito  mi  sembra  guidato  da  buone  intenzioni. 
Parlo  nel  tuo  interesse,  Lia,  e  nell'interesse  del  ragazzo.  E  lui  scrive 
schiaro;  (riprese  la  lettera  e  lesse)  :  «  Ad  ogni  modo  anche  se  avessi 
da  campare  poco,  il  tuo  avvenire  sarebbe  assicurato  perchè  lascerei 
tutto  a  te».  Tutto  sta  a  vedere  se  questo  suo  famoso  negozio  è  così 
bene  impiantato  e  così  lucroso  come  lui  dice.  Certo  poi  tu  dovresti 
fare  le  cose  per  bene  e  scrivergli  :  sì  sono  disposta  a  venire,  ma  tu 
garantiscimi  sul  serio  le  tue  promesse. 

Lia  non  rispondeva,  non  sollevava  più  gli  occhi,  pareva  non 
l'ascoltasse  neppure;  e  anche  il  ragazzo  leggeva  adesso  e  Zebedeo  si 
sentì  isolato  lontano  da  loro. 

—  Capisco  che  tu  sei  giovane,  —  ricominciò  tuttavia  con  un'in- 
sistenza che  maravigliava  lui  stesso.  —  Legarti  a  un  uomo  così  già 
mezzo  morto  è  una  cosa  poco  allegra  :  però  ci  sarebbero  tanti  van- 
taggi e  sempre  la  probabilità  che  egli  ritomi  presto  nel  seno  del 
Signore. 

—  Se  non  ci  pensa  lui,  a  tornar  presto  nel  seno  del  Signore,  ci 
penserò  io,  —  ella  disse  allora  sottovoce  con  accento  d'odio  profondo  : 
—  ch'egli  smetta  di  tormentarmi!  Io  non  lo  cerco;  non  l'ho  più  cer- 
cato da  tanti  anni.  Se  voleva  uccidermi  doveva  farlo  subito:  se 
non  poteva  lui  poteva  mandare  un  sicario,  ma  poiché  mi  ha  lasciato 
vivere,  allora,  che  mi  lasci  dunque  vivere  adesso.  Mille  volte  mi  ha 
scritto  di  aver  giurato  sul  Cristo,  mentre  il  sacerdote  benediva  il  ca- 
lice della  santa  messa,  che  mi  avrebbe  ucciso.  E  chi  mi  assicura  che 
adesso  tutto  questo  non  sia  una  commedia  per  farmi  andare  da  lui 
e  vendicarsi?  Ma  io  lo  consacro  al  diavolo,  prima!  E  può  darsi  che 
egli  abbia  delle  buone  intenzioni  davvero,  ma  io  non  posso  credergli  : 
e  forse  questo  è  anche  il  mio  castigo.  La  gente  dice  che  sono  stata 
io  a  fargli  paralizzare  le  gambe;  se  Dio  mi  darà  ascolto  gli  farò  pa- 
ralizzare anche  le  braccia  e  la  lingua. 

—  Lia,  come  sei  odiosa! 


138  IL  DIO  DEI  VIVENTI 

—  Odiosa,  sì,  per  cHi  mi  fa  del  male.  Io  non  faccio  del  male  a 
nessuno.  Se  male  ho  fatto  l'ho  fatto  a  me  stessa  e  che  dunque  mi  si 
lasci  in  pace:  anche  le  vipere  se  non  sono  stuzzicate  non  mordono. 
Ma  se  io  odio,  odio  con  ragione;  e  allora  Dio  mi  aiuta  nella  ven- 
detta, e  mi  manda  fino  in  casa  la  mia  soddisfazione.  Vedi  come... 
(Zebedeo  pensò  :  come  io  sono  qui!)  questo  furfante  mi  scrive.  Dopo 
avermi  diffamato  per  tutto  il  mondo  dicendo  che  sono  una  stregona, 
e  dopo  avermi  minacciato  di  morte  mi  manda  a  dire  ohe  è  infelice. 
Ma  schiatta  dunque;  il  dolore  si  paga  solo  col  dolore. 

—  È  vero,  —  disse  Zebedeo;  e  chinò  la  testa  davanti  a  lei. 
Tacquero  di  nuovo:  e  di  nuovo  qualche  cosa  li  univa  sotto  la 

quieta  luce  del  lume  :  una  parentela  di  errore  di  pena  di  espiazione. 

• 

Grazu  Deledoa. 
[Continita). 


i 


» 


A  PROPOSITO  DI    UNA  NUOVA  RACCOLTA 
DI   LETTERE  MAZZINIANE 


Or  è  qualche  mese  sono  state  pubblicate  a  Londra  (1)  le  belle  in- 
teressantissime lettere  che  l'esule  genovese  scrisse,  a  suo  conforto, 
alla  famiglia  Ashurst,  la  più  grande  famiglia  amica  che  egli  avesse 
sul  suolo  inglese,  negli  anni  all'annosi  delle  sue  peregrinazioni  d'ol- 
ir'Alpe.  Tali  lettere,  dopo  una  serie  di  vicende  sfortunate  che  le  ten- 
nero per  lunghi  anni  nell'ombra,  vengono  finalmente  presentate  al 
pubblico,  dando,  con  la  naturalezza  ed  il  brio  onde  sono  animate,  un 
nuovo  palpito  di  realtà  e  di  vita  al  carattere  di  quel  grande  che  tanto 
ci  interessa  oggi,  per  rav\'erarsi  di  molte  sue  profezie,  in  questo 
caotico  dopo  guerra.  La  figura  morale  del  Mazzini,  piena  di  impeti 
e  di  passione,  balza  chiara  e  netta  nelle  confidenze  che  egli  fa  a 
questa  che  fu  la  sua  «  seconda  famiglia»,  come  egli  la  chiama,  alla 
quale  commenta  la  situazione  italiana  proprio  quale  essa  è,  nel  suo 
continuo  alternarsi  di  eventi  fortunosi  ed  avversi,  di  scoramenti  e 
di  speranze,  in  quegli  anni  sacri  al  nostro  Risorgimento. 


Ma  ohi  sono  questi  Ashurst?  Come  li  conobbe  il  Mazzini?  L'ori- 
gine di  questa  amicizia  risale  al  tempo  del  famoso  scandalo  della 
Posta  Inglese,  la  quale,  aprendo  clandestinamente  le  lettere  sug- 
gellate che  dall'Italia  venivano  inviate  al  Mazzini,  si  rese  indegno 
strumento  della  politica  reazionaria  borbonica  ed  asburghese  fino  a 
portare  alla  fucilazione  due  martiri  purissimi  :  i  fratelli  Bandiera. 
Che  in  quel  fermento  insurrezionale  degli  anni  precedenti  il  '48,  con 
scarso  senso  pratico  incoraggiati  dal  Mazzini,  i  Bandiera  vi  ebbero 
parte  attivissima,  ma  le  rivelazioni  fatte  da  Lord  Aberdeen  e  da 
altri  spioni  all'Austria,  e  specialmente  la  violazione  di  quelle  lettere 
per  mezzo  delle  quali  il  Mazzini  veniva  messo  al  corrente  dei  loro 
piani,  prepararono  la  condanna.  Tutto  questo  suscitò  in  Inghilterra 
una  terribile  indignazione  contro  il  Governo  disposto  a  rendere  agli 
Stati  esteri  servigi  di  un  tal  genere.  Garlyle,  quel  grande  scettico  che 
pur  fu  legato  al  Mazzini  da  vera  simpatia  spirituale,  scrisse  al  Times 
una  nobile  lettera  di  protesta,  ed  al  medesimo  tempo,  quasi  per  un 
istintivo  bisogno  di  riparazione,  molti  tra  i  solitari  ammiratori  del- 
l'esule, e  gli  Ashurst  tra  i  primi,  gli  si  strinsero  attorno  a  confor- 
tarlo con  le  manifestazioni  più  cordiali  di  amicizia  e  di  stima.  Assai 

(1)  Mazzini' s,  Lettera  to  an  English  family,  1844-1854,  edit  and  with  an 
introduction  by  E.  F.  Richards.  London,  J.  Lane,  1920. 


140     A  PROPOSITO  DI   UNA  NUOVA  RACCOLTA  DI  LETTERE  MAZZINIANE 

bella  e  simpatica  fu  quella  gara  la  quale  commosse  profondamente 
il  Mazzini,  e  gli  fece  sentire,  con  le  gioie  .più  pure  dell'amicizia,  un 
senso  nuovo  e  più  forte  di  fiducia  nella  vita.  Le  amicizie  che  si  an- 
darono così  formando  ebbero  quasi  tutte  una  caratteristica  loro  spe- 
ciale. Quella  del  Carlyle,  per  esempio,  fu  assai  strana  e  bizzarra, 
perchè  nata  tra  individui  animati  da  un  credo  filosofico  così  diverso 
per  non  dire  opposto;  ma  c'era  in  comune  una  grande  levatura  mo- 
rale e  li  affratellava  il  culto  di  Dante.  Così,  per  quanto  le  contese  e 
lo  dispute  fossero  assai  frequenti  e  penose  tra  loro,  per  quanto  il 
Mazzini  si  eccitasse  a  volte  nella  discussione  fin  quasi  alle  lacrime, 
rimanevano  buoni  amici  lo  stesso,  e  a  rinsaldare  vieppiù  quell'ami- 
cizia provvedeva  il  tatto  squisito  e  fine  di  una  nobile  donna,  della 
signora  Carlyle,  che  tanto  il  Mazzini  ebbe  ad  ammirare  e  a  stimare. 

E  ipoi  c'era  William  Shaen,  l'angelo  salvatore  degli  esuli,  colui 
al  quale  il  Mazzini  confidava  i  più  intimi  suoi  pensieri,  e  che  tanto 
lavorò  a  formare  intorno  all'esule  la  cerchia  cara  di  amici  devoti  : 
0  i  Craufurd,  cui  furono  indirizzate  tutte  quelle  lettere  mazziniane 
assai  note  in  Italia;  e  gli  Stansfeld,  imparentati  agli  Ashurst,  e 
Margherita  Fuller  la  quale,  per  quanto  dapprima  fosse  mal  disposta 
verso  il  Mazzini,  dopo  che  ebbe  visitata  la  sua  scuola  per  i  piccoli, 
suonatori  girovaghi,  iniziò  quell'amicizia  che  doveva  di  poi  tanto 
rinsaldarsi  nei  giorni  della  Repubblica  Romana. 

Ma  la  sua  più  grande  famiglia  amica  fu  la  famiglia  Ashurst 
«cara  buona  e  santa  famiglia»,  come  egli  la  chiama,  «che  mi  cir- 
condò di  cure  amorevoli  tanto  da  farmi  talora  dimenticare  se  la  me- 
moria dei  miei,  morti  senza  avermi  a  lato  lo  consentisse,  l'esilio». 
Una  delle  ragazze,  Carolma,  sposò  appunto  un  amico  del  Mazzini, 
James  Stansfeld.  Essa  era  pel  Mazzini  un  tipo  ideale  di  femminilità; 
un'altra,  Emilia,  andò  sposa  al  Hankes,  ed  in  seguito  a  divorzio,  al 
Venturi,  un  operaio  francese  che  pur  seppe  dare  alla  moglie  intel- 
lettuale e  colta  la  felicità  che  invano  essa  aveva  ricercato  nel  primo 
infausto  matrimonio.  Emilia  fu  donna  che  uni  alla  forza  logica  tutta 
maschile  il  profondo  intuito  femminile,  ed  e^be  carattere  così  equili- 
brato e  saldo  che  il  Mazzini  più  volte  scrisse  a  lei  invocando  resi- 
slenza  morale  e  coraggio,  laddove  a  Carolina  chiedeva  quiete  pel  suo 
spirito  affaticato  e  stanco,  ed  alla  signora  Ashurst  la  materna  bene- 
dizione. Ma,  senza  nominare  tutti  i  membri  della  famiglia  a  cui  il 
Mazzini  scriveva  con  tatto  e  finezza  tale  da  non  lasciare  quasi  scor- 
gere quali  tra  essi  fossero  i  preferiti,  ricorderò,  ancora  soltanto  Gu- 
glielmo Ashurst,  uno  di  quegli  uomini  che  lavorano  attivamente  nel- 
l'ombra e  che  riuscì  a  fondare  assieme  con  lo  Stansfeld,  col  Taylor, 
con  lo  shaen  la  «  Lega  Internazionale  del  Popolo  »  e  successivamente 
'<  L'Associazione  tra  gli  amici  d'Italia». 

In  queste  lettere  inglesi,  dallo  stile  intimo  ed  affettuoso,  appare 
chiaro  il  bisogno  che  egli  sente  di  interessarsi  della  vita  di  questi 
suoi  lontani  e  di  interessarli  della  propria  in  tutte  le  sue  varie  e 
mutevoli  vicende. 

È  questa  una  corrispondenza  dalla  quale  il  Mazzini  ritrae  gran- 
dissimo sollievo  e  benessere  morale  per  l'influsso  che  quella  brava 
gente  di  casa  Ashurst,  gente  quieta,  ma  sensibile  e  buona,  lontana 
da  rancori  e  da  ire  di  parte,  esercita  sullo  spirito  forte  e  dolorante 
del  grande  veggente.  Quella  che  più  fortemente  esercitò  quest'in- 


A  PROPOSITO  DI  UNA  NUOVA  RACCOLTA  DI  LETTERE  MAZZINIANE     i41 

flusso  fu  Emilia,  per  la  quale  il  Meizzini  ebbe  vera  predilezione  fra- 
terna, ed  essa  comprese  il  suo  spirito  tanto  da  divenire  la  migliore 
autorità  del  suo  credo  politico  e  religioso.  Peraltro  tale  influsso  ripo- 
sante e  benefico  il  Mazzini  lo  ritrasse  inconsapevolmente  non  sol- 
tanto dagli  amici  Ashurst,  a  lui  carissimi,  ma  da  tutto  l'ambiente 
inglese,  tutto  fatto,  a  dire  il  vero,  di  schietta  e  larga  ospitalità,  e 
vorrei  dire,  dal  paese  stesso,  pieno  di  tranquillo  benessere  e  di  sano 
vigore  come  il  verde  rigoglioso  dei  suoi  pascoli  grassi. 

Assai  diversa  è,  peraltro,  questa  corrispondenza  con  gli  Ashurst 
quando  la  si  paragona,  mettiamo,  con  quella  dei  Craufurd.  Le  let- 
tere agli  Ashurst  dallo  stile  calmo  e  profondo,  sono  tutte  dense  di 
pensiero,  tutte  vibranti  di  póissione  e  di  amore;  quelle  ai  Craufurd, 
invece,  affrettate  e  concise  come  il  bollettino  di  un  uomo  daffari, 
riflettono  uno  stato  psicologico  oppresso  da  una  sola,  grande  preoc- 
cupazione, la  scarsezza  dei  mezzi.  Ma  come  poteva  il  povero  Maz- 
zini sognare  associazioni  segrete,  scuole  e  Comitati  d'azione  senza 
sognare  nel  medesimo  tempo  quattrini,  quattrini  e  quattrini?  Come 
proteggere  i  profughi  bisognosi  di  protezione  e  di  lavoro  all'estero, 
come  fondare  giornali  e  riviste  patriottiche,  come  preparare  il  lievito 
della  rivolta  in  Italia  e  fuori  d'Italia  senza  far  circolare  sottoscri- 
zioni benevole,  mercè  l'attiva  collaborazione  di  amici  veri  e  fidati? 
Questa  ricerca  affannosa,  assillante  di  denaro  fa  sì  che  quelle  lettere 
siano  tutte  riempite  di  una  terminologia  affaristica  a  base  di  quote, 
fondi,  stato  di  cassa,  spese  in  corso,  tale  che  non  si  direbbe,  al  primo 
vederle,  scritte  da  un  uomo  così  nutrito  di  idealità  e  di  sogni.  An- 
cora oggi,  rileggendo  quelle  pagine  che  ricordano  ad  una  ad  una 
tutte  le  lire  versate  dalla  carità  inglese  per  la  nostra  causa,  e  ripen- 
sando alla  questua  umiliante  che  quel  nostro  Italiano  dovè  fare  in 
terre  straniere  per  riunire  quelle  migliaia  che  la  nostra  classe  bor- 
ghese apatica  e  sonnolenta  non  seppe  procurargli,  ci  si  sente  umiliati 
e  depressi.  Ma  la  virtù  non  è  in  coloro  che  custodiscono  l'orgoglio, 
ma  in  quelli  che  sanno  farne  rinuncia  per  un  fifie  alto  e  puro  al- 
l'infuori  di  sé  stessi. 

Nelle  lettere  agli  Ashurst  si  parla  invece  di  avvenimenti  politici 
e  di  idealità  lontane  da  ogni  richiamo  alla  spinosa  realtà  economica. 
Chi  non  conosce  la  storia  del  nostro  Risorgimento  la  impara  e  credo 
non  la  dimentichi  più,  poiché  ai  dati  minuziosi  ed  ai  pettegolezzi 
diplomatici  su  cui  s'intessono  le  vecchie  storie  (vecchie  nella  fattura, 
non  nel  tempo)  vengono  sostituiti  pochi  commenti  larghi  e  profondi 
che  gettano  luce  schietta  e  pura,  tanto  sullo  sipirito  retrivo  delle 
Corti  europee  della  prima  metà  dell'SOO,  quanto  sulla  delicata  situa- 
zione morale  italiana  di  quei  decenni.  Non  credo  peraltro  affatto 
che  il  Manzini,  scrivendo  agli  Ashurst,  pensasse  di  abbozzare  sotto 
forma  epistolare  una  storia  d'Italia  riguardante  quel  periodo,  ma 
certo  esse  formano  per  sé  stesse  un  magnifico  diario  della  evoluzione 
politica  e  psicologica  d'Italia  dopo  il  '40.  In  queste  egli  appare,  a 
volte  fiducioso  e  forte,  a  volte  sconfortato  e  mesto,  ma  sempre  sen- 
sibile alla  dolce  nota  degli  affetti  intimi  e  famisrliar:  che  vibrano 
nell'animo  suo  forti  e  tenaci  ogni  qualvolta  egli  scriva  a  qualcuno 
di  loro. 

Sono  dolente  —  scrive  ad  Elìsa  —  di  non  essere  pratico  della  vostra 
lingua,  poiché  vi  devo  dire  che  ove  scrivessi  bene  il  solo  giudizio  che  possa 


142  A  PROPOSITO  DI  UNA  NUOVA  RACCOLTA  DI  LETTERE  MAZZINIANE 

arrecarmi  un  coniorto  infinitesimale .  ma  sempre  un  conforto,  è  quello  delle 
domie,  ossia  delle  >poohe  donne  ohe  eUmo. 

E  a  Carolina: 

Ancora  una  parola  oggi,  cara  Ceirolina.  Essa  mi  semJQra  l'unica  cosa  dolce 
nella  vita.  Lo  scrivere  a  voi,  ad  Emilia,  a  tutta  la  vostra  cerchia  affettuosa,  è 
per  me  come  ral)l>andono  di  un  fanciullo  dolorante  in  grembo  alla  sua  TTìanuDa. 
Ma  non  md  fraintendete,  io  non  sono  né  accasciato  oè  vigliacc£tmente  ma^ 
lìnconico. 

E  continua  riferendosi  ai  falliti  moti  di  Milano  del  '53: 
Io  mi  addoloro  per  la  cosa  in  sé,  la  <|uale,  sebbene  da  pochi  soltanto  sarà 
creduta,  o  capita,  (fu  cosi  prossima  al  compimento.  Ventiquattro  ore  di  resi- 
stenza a  Milano  avrebbeo'o  fatto  tutto;  l'accensione  di  un  fuoco  universale 
attraverso  l'Italia  e  ventiquattro  ore  di  resistenza  hanno  dovuto  essere  subor- 
dinati a  così  piccole  circostanze.  Voi  saprete  tutto  più  tandi  e  vedrete  che  io 
non  fui  né  un  matto  né  un  sognatore  come  tutta  l'Italia  mi  cii>ede  oggi.  In 
<Iuanto  a  me  individualmente,  nella  impossibilità  in  cui  mi  trovo  di  spiegare 
e  di  svelare  i  fatti,  ogni  parte  attiva  nella  direzione  è  finita.  Per  conseguenza 
mi  dimetterò  subito,  scioglierò  il  Comitato  Nazionale,  consegnerò  tutti  i  poteri 
alla  Direzione  Centrale  dn  Roma  e  ne  uscirò... 

La  questione  Romana,  la  più  seria  iper  lui  dopo  quella  dell'Unità, 
lo  agita  e  lo  fa  dubitare  di  sé  stesso.  Scrivendo  ad  Emilia  il  2  mar- 
zo '49: 

...Parto  questa  notte  per  Roma,  ho  tutte  le  vostre  lettere,  fino  al  22  feb- 
braio 1849,  ma  mi  è  stato  impossibile  lo  scrivere.  Scriverò  da  Roma,  e,  in 
tutti  i  modi,  riceverete  da  me  dei  giornali.  Sto  bene  ma  piuttosto  malinconico 
e  senza  alcun  senso  di  forza  dentro  di  me,  desiderando  l'azione  materiale 
sulle  barricate  o  altrove  a  qualunque  altra  fornw.  di  attività.  Qui  lo  scontro 
non  sembra  ancora  in  vista,  poiché  i  nostri  uomini  mantengono  la  i>osizione 
senza  che  vi  sia  avanzata  dal  lato  opposto.  Ma  non  credo,  che  passi  il  mese 
senza  che  avvenga  la  crisi.  Tutti,  l'Austria,  Napoli,  la  Francia,  l'Inghilten-a 
sembrano  esserci  contro,  ma  noi  faremo  tutto  quel  che  potremo.  La  stampa 
estera  ci  è  vergognosamente  ostile,  tutti  gli  articoli  che  vedo  a  caso  sui  vostri 
giornali,  un  tessuto  di  bugie... 

Una  delle  cose  di  maggior  rilievo  è  il  contrasto  tra  la  volontà 
del  Mazzini,  che  cova  l'azione,  e  l'inerte  mollezza  della  classe  media 
italiana,  la  quale  lascia  pietosamente  disperdere  le  più  belle  dispo- 
sizioni del  nostro  popolo.  È  questa  un'idea  assillante  che  lo  tormenta 
e  lo  esaspera: 

...La  cosi  detta  classe  intellettuale  è  rovinata  dallo  scetticismo,  dalle  in- 
gannevoli speranze,  dai  calcoli  errati  e  dalla  ostinata  inerzia  del  Medici  e  degli 
uomini  d'arme.  (Si  riferisce  al  tempo  dei  martiri  di  Mantova).  Il  favore  che 
gode  l'alleanza  austriaca  e  l'azione  combinata  della  Francia  e  dell'Inghilterra 
contro  la  Grecia,  aggravano  la  situazione.  Io  ho  momenti  di  vera  disperazione. 
Per  altro  non  sono  impaziente  e  smanioso  di  azione  a  tutti  i  costi,  e  ove  tro- 
vassi giusto  il  loro  ragionamento,  e  la  massa  del  popolo  inaidatta  alla  situa- 
zione, mi  sentirei  certamente  rassegnato,  e  mi  metterei  a  scrivere,  a  stampare, 
a  educare;  ma  la  massa  del  popolo  è  buona,  volonterosa  e  pronta,  tanto  che, 
se  potessi  trovarmi  tra  quella  liberamente  ed  essere  al  medesimo  tempo  dap- 
pertutto la  guiderei  e  poi  penserei  al  resto.  Invece  son  lontano,  incapace  di 


A  PROPOSITO  DI  UNA  NUOVA  RACCOLTA  DI  LETTERE  MAZZINIANE     143 

agire  se  non  a  mezzo  di  intermediari,  a  mezzo  di  quella  stessa  classe  che  è 
aàsolutamente  riluttajite. 

(Dalla  Svizzera  o  dalla  Frootiera  Italiama,  5  maggio  1854.  Ad  Emilia). 

Poiché  in  quel  tempo  ferma  è  in  lui  la  convinzione  che 
l'insorgere  d'Italia  sia  un  fatto  relativamente  facile,  ora  che  l'idea  si  è  diffusa 
nelle  masse,  ed  è  amaro  —  dice  —  il  vederle  ostacolate  dai  miei  migliori 
amici,  dagli  stessi  uomini  ohe  crederlo  avessero  acquistata  la  coscienza  della 
forza  italiana  a  Venezia,  a  Roma  ed  altrove. 

(A  Carolina,  dalla  Svizzera  22  febbraio  1853). 

Ma  tali  uomini  appunto  il  Mazzini  li  giudica  fiacchi,  d'intel- 
letto mediocre,  incapaci  di  sfruttare  il  momento  fatale  facendo  da 
leva  sul  popolo.  Onde  il  suo  insoddisfatto  bisogno  di  azione  che  lo 
fonde  in  ispirito  con  Garibaldi  nell'ansia  di  raggiungere  il  vagheg- 
giato intento.  Egli,  che  alla  mentalità  comune  è  apparso  solitario 
f»ensatore,  segregato  dal  mondo,  lontano  da  ogni  fremito  di  vita 
reale,  vuole  morire  «col  tricolore  italiano  sul  petto,  e  non  con  un 
attacco  di  paralisi  sulle  carte  e  sui  libri».  (A  Carolina,  Front.  Ital., 
11/2/ 1853).  Non  questa  sola  ma  tutte  le  sue  lettere  inglesi  dalle  espres- 
sioni incisive  e  scultoree  pulsano  di  vita  e  di  ardore  ad  ogni  accenno 
della  questione  nazionale,  come  il  polso  accelerato  dell'ammalato  in 
attesa  della  crisi.  La  crisi  che  viene  infatti  a  coronare  gli  sforzi  degli 
audaci  e  degli  eroi  realizzando  finalmente  il  grande  sogno  del  Maz- 
zini: l'unità  d'Italia. 

Ma  vi  sono  moltissimi  altri  profili  interessanti  in  queste  lettere 
come  i  suoi  apprezzamenti  sui  francesi,  sempre  a  proposito  della 
Repubblica  Romana: 

I  Francesi  hanno  deciso  che  la  Repubblica  non  si  muoverà  finché  non  è 
uccisa  da  apoplessia;  in  quanto  alle  altre  specie  di  morte,  morte  lenta  per  tisi, 
morte  per  vergogna  e  via  di  seguito,  abbiajno  abolito  tutto  ciò.  Essi  sono  mal- 
menati, picchiati,  insultati  a  destra  e  a  manca;  au  nom  de  la  République,  essi 
combattono  contro  le  Repubbliche,  essi  sono  privati  della  libertà  di  stampa, 
del  diritto  di  riunione,  i  loro  soldati  rossi  au  nom  de  la  liberté  du  vote  sono 
mandati  in  Africa,  i  loro  eroi,  i  fondatori  della  République,  languono  a  Dou- 
blens,  Vincennes,  Mont  Saint  Michel,  trasportati,  uccisi,  le  loro  elezioni  a 
SaóJis  e  Loire  annullate,  la  loro  diplomazia  legata  all'Austria  in  Svizzera. 

Anche  aperti  e  schietti  sono  i  suoi  giudizi  sulla  politica  estera 
in  rapporto  all'Italia,  a  proposito  dell'intervento  o  non  intervento 
delle  potenze  europee  nella  faccenda  italiana,  e  specialmente  quelli 
riguardanti  il  Regno  Unito.  Dice  il  Mazzini  sul  diritto  di  autodeci- 
sione del  popolo  romano  nel  riammettere  o  no  il  papa  dopo  i  fatti 
del  '49  : 

L'Inghilterra  dovrebbe  ora  insistere  a  che  il  popolo  avesse  a  scegliere 
liberamente  il  suo  Governo;  fu  questa  una  solenne  promessa  francese,  ed  è 
ima  vergogna  per  l'Inghilterra  il  permettere  alla  Francia  di  sedere  come  una 
potenza  conquistatrice  in  Roma. 

Ma  chi  può  sperare  generosità  dal  vostro  Governo?  Tuttavia  fate  che  gli 
amici  nostri  facciano  quel  che  pcesono.  Qui  l'opinione  è  così  unanime  che, 
ove  fosse  debitamente  consixltata,  non  permetterebbe  più  al  papa  di  ritornarvi. 

La  grande  Inghilterra,  sebbene  proclamasse  con  ispirazione 
evangelica  l'uguaglianza  civile  dei  popoli  e  il  diritto  sacro  alla  li- 


144     A  PROPOSITO  DI  UNA  NUOVA  RACXZOLTA  DI  LETTERE  MAZZINIANE 

berta,  quando  si  venne  al  dunque  si  chiuse  nel  suo  magnifico  isola- 
mento lasciando  che  oppressi  ed  oppressori  se  la  sbrigassero  tra  loro. 
In  una  lettera  del  6  agosto  '49,  scritta  ad  altro  amico  inglese,  la 
quale  è  contenuta  nel  volume  «  Regalità  e  Repubblicanismo  in  Italia» 
dice  appunto  il  Mazzini: 

Essa  non  ha  sentito  che  la  lotta  a  Roma  serviva  a  tagliare  il  nodo  gor- 
diano della  servitù  morale  contro  la  quale  ha  vanamente  opposto  le  sue  So- 
cietà bibliche,  le  sue  alleanze  cristiane  ed  evangeliche,  e  che  li  stava  per 
aprirsi,  ove  avesse  porto  un  braccio  fraterno  nella  sommossa,  larga  strada  al 
pensiero  umano.  Eìssa  non  capi  che  la  pexola  coraggiosa:  rispetto  alla  libertà 
di  pensiero,  opposta  al  linguaggio  ipccrito  del  Governo  francese,  sarebbe  stata 
sufficiente  ad  inaugurare  l'èra  di  una  nuova  politica  religiosa  e  a  conquistarle 
un  tiscendente  decisivo  sul  Continente. 

Era  questo  un  assenteismo  causato  oltre  a  tutto  da  ignoranza 
delle  cose  nostre  e  dalla  svalutazione  delle  qualità  intrinseche  della 
nostra  razza.  Appunto  su  ciò  scrive  ad  Elisa: 

...La  vera  causa  dell  entusiasmo  inglese  sulle  fatte  o  progettate  riforme 
del  Papa  è  questa:  essi  non  ci  slimano,  essi  ci  commiserano.  I  loro  sentimenti 
verso  di  noi  sono  tutti  nutriti  di  carità  cristiana  :  la  carità,  cosa  sacra  quando 
Cristo  pel  primo  ne  parlò,  cosa  peccaminosa  ora,  in  relazione  ai  miei  senti- 
menti. Essi  sinceramente  desiderano  che  noi  si  sia  meglio  nutriti,  meglio  ve- 
stiti, meglio  alloggiati,  più  comodamente  sistemati  nell'insieme.  In  quanto  al- 
l'Unità, alla  Nazionalità,  missioni  da  compiersi  in  Europa  e  per  l'Europa, 
queste  sono  trattate  come  sogni  alle  quali  non  abbiamo  diritto. 

Ed  il  Mazzini  che  ebbe  tanti  modi  di  constatare  questa  benigna- 
zione  Inglese  su  l'Italia  si  sdegna  al  sentirsi  felicitare  per  le  elargi- 
zioni di  Papa  Pio  IX  nel  '46.  Eki  in  altra  sua,  alla  stessa,  le  dice  con 
impeto  di  franchezza: 

Ce  l'ho  a  morte  coi  vostri  connazionali.  Non  posso  incontrare  conoscenti 
inglesi  per  la  strada  senza  sentirmi  rallegramenti  e  felicitazioni  con  «  guarda 
un  po'  il  Papa!  Il  Papa  ha  perdonato,  il  Papa  ha  diminuito  II  dazio  sul  cotone 
e  siilla  seta  grezza.  Dunque  via,  potete  sentirvi  felici.  Il  giorno  luminoso  della 
rigenerazione  italiana  è  cominciato  »,  e  così  di  seguilo  con  frasi  giornalistiche 
del  genere.  Quasi  potessimo  rivestirci  l'anima  di  cotone  e  di  perdono  per  i 
peccati  fatti  dagli  altri  popoli.  (Manchester,  settembre  '46). 

Ma  questa  dolorosa  svalutazione  delle  nostre  qualità  morali, 
per  cui  tanto  si  infiammava  d'ira  l'anima  di  Giuseppe  Mazzini, 
questa  ignoranza  profonda  del  processo  evolutivo  della  Nazione 
italiana  che  gli  scettici  ed  i  pessimisti  non  vogliono  ammettere, 
esiste  tuttavia  oggi  in  Inghilterra.  Pare  impossibile,  chi  l'avrebbe 
creduto  alloral  Si  valga  o  non  si  valga,  si  facciano  o  non  si  facciano 
progressi  cogli  anni,  gli  Inglesi,  salvo  poche  eccezioni,  non  sono 
disposti  a  considerare  l'Italia  all'infuori  dei  suoi  musei,  delle  sue 
gallerie  d'arte,  dei  ruderi  del  Foro,  dei  paesaggi  pittoreschi!  Nem- 
meno l'attivo  intervento  nostro  nel  conflitto  europeo  ha  scosso  quello 
stato  di  cristallizza-iione  intellettuale  in  cui  permangono  ostinati  a 
dispetto  di  tutti  i  cataclismi  del  mondo. 

La  cosa  non  è  allegra,  tutt'altro.  Ma  è  proprio  tutta  colpa  nostra 
se  agli  Inglesi  occorre  tanto  tempo  per  levarsi  dalla  mente  che  fra 
Diavolo  vive  solamente  nelle  fiabe  che  ancora  si  raccontano  ai  nostri 
bimbi.  Angelina  Tommasi. 


ARMONIE  SOCIALI 


I. 

PACE. 


Fioretti  XXI. 


Disse  Francesco:  «  Vieni,  frate  Lupo;  — 
e  fece  il  segno  lui  di  santa  croce  — 
da  la  parte  di  Cristo  io  ti  comando 
che  a  niun  vivente  tu  non  sia  feroce  ». 


10 


E  il  Lupo  a  quel  comando  ed  a  quel  segiio 
chiuse  la  bocca,  la  corsa  affrenò; 
si  trasse  mansueto  ai  pie  del  Santo 
e  come  agnello  docile  posò. 

Disse  Francesco  :   «  Frate  Lupx),  in  questa 

terra  gran  danni  e  malefìzi  fai; 

senza  di  Dio  licenza,  oltraggi  e  guasti 

a  creature  sue  facesti  assai; 

e  non  pure  a  le  bestie,  ma  protervo 

anche  agli  uomini  osasti  arrecar  guai, 

ed  ei  son  fatti  a  immagine  di  Dio.' 

Però  3ei  ladro  ed  omicida  ornai 

degnissimo  di  forca,  e  vanno  intomo 

le  grida  di  venfletta  e  gli  alti  lai. 

Ma  io  vo',  frate  Lupo,  che  sia  pace 

fra  te  e  costoro,  sì  che  tu  non  mai 

gli  offenda  più.  Prometti  a  me  che  sempr» 

ciascun  vivente  per  amico  avrai? 

E  il  Lupo  a  dimostrar  ch'aveva  inteso 
rizzò  gli  orecchi,  il  corpo  dimenò 
e  chinando  la  testa,  ad  obbedienza 
facile  e  pronto  l'animo  mostrò. 

VoL  OOTVn.  •eri»  TI  —  li 


19tt. 


146  VERSI 

Disse  Francesco  :  «  Frate  Lupo,  in  cambio 
di  questa  pace  avrai  quebe  le  brame; 
ti  nutrirà  la  gente  della  terra 
né  più  a  peccare  t'indurrà  la  fame: 
ma  tu  prometti  ohe  non  più  malvado 
persone  o  bestie  farai  viver  grame. 

E  il  Lupo  arruffò  il  pelo,  e  quasi  al  fiuto 
sentisse  carni  e  sangue  imputridir, 
diede  segno  di  schifo  e  fé'  a  le  nari 
alzate  rinnovante  aria  sorbir. 

Disse  Francesco  :  «  Frate  Lupo,  intendo 
che  di  tal  patto  tu  mi  faccia  fede, 
perch'io  me  ne  riposi  ».  E  sì  parlando 
tese  la  mano  come  Tuom  che  chiede. 
E  queUo  si  levò  per  sua  risposta 
e  nella  tesa  man  depose  il  piede. 

Come  i  frati  minor  vanno  per  via 
mossero  entrambi  verso  la  città, 
e  il  Lupo  andò  a  giurar  pubblicamente 
che  il  patto  deUa  pace  osserverà. 

Disse  Francesco  :   «  Popolo  di  Dio, 
questo  è  il  Lupo  che  v'ha  pieni  d'orrore; 
ei  molto  fu  crudele  e  fece  intomo 
con  i  denti  e  con  l'unghie  assai  dolore. 
Ora  viene  tranquillo  a  chieder  venia 
che  oprò  per  fame  e  non  per  malo  core; 
d'ora  innanzi  vuol  esservi  fratello 
e  voi  l'amate  in  nome  del  Signore. 

E  il  Lupo  trasse  fuor  molle  la  lingua, 
snodò  la  coda,  i  fianchi  si  battè, 
e  con  lento  girar  degli  occhi  fulvi 
sembrava  offrire  e  domandar  mercè. 

Disse  Francesco  :  «  E  voi  fate  ppomeaaa 
che  il  cibo  della  vita  gli  darete, 
perchè  in  parola  andai  mallevadore 
che  non  debba  soffrir  fame  né  sete, 


VERSI  147 


ed  ei  sarà  senz'irà  e  senza  frode 
mansfueto  con  voi  come  voi  siete. 
Frate  Lupo,  starai  verso  tai  patti 
con  ogni  creatura,  in  pace  e  quiete? 

E  il  Lupo  s'appressò,  piegò  i  ginocchi, 
prontamente  il  pie  dritto  sollevò 
e  premendo  così  la  man  del  Santo 
il  patto  della  pace  suggellò. 


IL 

PANE. 

Grandi,  col  muso  roseo  fumante, 
l'occhio  socchiuso,  a  passi  gravi  e  lenti, 
in  fila  i  buoi  trascinano  l'aratro 
tesi  a  lo  sforzo  i  muscoli  pazienti. 

Il  vomere,  nemico  a  ogni  erba  impura, 
squarcia  la  fredda  oscurità  profonda 
e  trae  la  zolla  al  bacio  della  luce, 
che  la  scalda  coi  raggi  e  la  feconda. 

Ritto  sul  tronco,  quale  re  sul  trono, 
l'uomo  brandisce  il  pungolo  e  comanda; 
e  legno  e  ferro  e  buoi  gnida  nel  solco 
ove  del  seme  la  virtù  si  spanda. 

Lento  spunta  dal  germe  un  filo  verde 
che  il  sol  nutrisce,  la  rugiada  irriga, 
e  s'allung'a  e  s'ingrossa,  finché  piena 
e  bionda  porge  al  mieti tor  la  spiga. 

Giù  dalla  rupe  con  fragor  che  assorda 
cade  il  torrente;  per  la  balza  oscura 
biancheggiano  le  spume  e  vorticose 
pomponsi  a  valle  a  l'urto  delle  mura. 

Stride  girando  rapida  la  pietra 

e  morde  e  spezza  e  stritola  e  riduce 

in  bianca  polve  la  preziosa  messe 

con  la  forza  che  l'uom  cerca  e  conduce. 


148  VERSI 

Pur  n^li  avanzi  suoi,  distrutto,  infranto 
quel  seme  accoglie  la  virtù  nativa, 
che  negli  effluvi  del  bollor  s'espande 
nel  fermento  del  lievito  s'avviva. 

Industre  man  li  plasma  e  in  nuova  forma 
gli  offre  del  fuoco  a  le  carezze  arcane, 
e  rilucente  nella  crosta  d'oro 
spira  l'odore  e  l'allegrezza  il  Pane. 

Per  te,  o  Pane,  simbolo  di  vita, 
han  le  braccia  vigor,  vibra  il  cervello; 
tu  ci  raccogli  al  desco  di  famiglia 
soggetti  al  padre,  eguali  col  fratello. 

Chi  mai,  sdegnoso  della  propria  parte, 
con  bieca  invidia  ti  può  dir:  sei  mio? 
Madre  di  tutti,  dei  tesori  l'arca 
t'  aprì  Natura  e  ti  promise  Iddio, 


III. 


LAVORO. 

Fu  creduto  condanna:  Iddio  sdegnato 
l'avea  prescritto  in  pena  del  peccato. 

Dagli  alberi  non  più 
senza  fatica  l'uomo  avrebbe  i  frutti 
né  la  terra  darebbe  il  cibo  a  tutti 

per  innata  virtù. 
Ed  il  Lavoro  fu  legge  agli  umani. 
Dal  primo  di  quei  secoli  lontani 

sino  a  l'ultima  età 
il  comime  Lavoro  unì  e  protesse; 
il  campo  arato  maturò  la  messe 

e  sorse  la  città. 
L'uomo  scelse  nel  fondo  dei  torrenti 
pietre  angolose,  ciottol'  taglienti, 

la  creta  radunò; 
e  quelle  usò  per  ascia  e  per  martello, 
di  questi  fece  ruvido  coltello, 

con  Tal  tra  edificò 


VERSI  149 


e  ne  plasmò  li  fianchi  a  le  capaaine, 
che  intessute  di  vimini  e  di  canne 

hanno  nell'accfue  il  pie. 
Pure  è  pietoso  nella  mente  acerba 
e    in  un  vaso  d'argilla  il  cener  serba. 

di  chi  vita  perde. 
Il  Lavoro  s'accrebbe.  Generosa, 
come  a  l'amplesso  dell'amor  la  sposa, 

la  terra  il  seno  aprì 
e  sul  dorso  dei  monti  e  per  le   valli 
il  balem'o  di  lucidi  metalli 

l'occhio  umano  ferì. 
Oh  il  lieto  giorno  che  le  braccia  nude 
rovente  il  ferro  attorsero  e  l'incude 

squillante  risonò! 
un  fabbro  eletto,  ai  primi  raggi  aflBso 
della  bellezza,  il  vago  paradiso 

dell'Arte  contemplò. 
Lavoro  ed  Arte.  —  Furon  marmo  ed  oro 
il  portico,  il  teatro,  il  tempio,  il  foro, 

i  palazzi  dei  re; 
ma  quei  resti  ricordano  la  pena 
dello  schiavo,  cui  strinse  la  catena 

ferocemente  i  pie. 
Libertà  venne;  e  furono  famiglie 
concordi  a  l'opra;  furon  meraviglie 

di  rinato  fulgor 
il  battistero,  il  ducono,  il  camposanto, 
per  accoglier  con  gioia,  fede,  pianto 

chi  nasce,  \'ive  e  muor. 
Né  il  miracolo  cessa.  L'immortale 
Genio  ch'agita  il  mondo  drizza  l'ale 

a  più  sublime  voi: 
rompe  i  suggelli  al  libro  dei  misteri, 
e  i  sogni  del  pensier  splendono  veri, 

come  risplende  il  sol. 
Lavoro  e  Scienza.  —  Vanno  in  densa  schiera 
a  l'oflBcina,  ai  campi,  a  la  miniera 

di  mille  le  tribù, 
non  più  per  affrontar  travagli  immani 
o  gemere  a  lo  sforzo  delle  mani 

come  al  tempo  che  fu; 


160  VERSI 

ma  guide  accorte  a  docili  strumenti, 
che  arcana  forza  in  macchine  sapienti 

costringe  ad  obbedir. 
La  mente  e  il  braccio  in  armonia  serena 
saldan  gli  anelli  d'aurea  catena 

e  ride  l'avx^enir. 


IV. 
AMORE. 


S.  Matteo  V. 


Gesù  ristette  sul  pendio  del  monte. 


Le  rame  rinascenti  degli  olivi 
mt^veva  il  vento  e  inai^gentava  il  Bole. 

Confusamente 
la  varia  moltitudine  sedea 
su  l'erba  verde  al  pie  dei  tronchi  ombrosi 
in  silenzio,  in  attesa;  i  visi  intenti, 

fìssi  gli  sguardi 
in  Lui  che  da^li  azzurri  occhi  soavi 
mandava  raggi  di  superno  lume. 
Sotto  il  cielo  sereno  scintillava 

tranquillo  il  mare. 

E  Gesù,  aperte  a  benedir  le  braccia, 
disse  :  «  Beati  i  mansueti  e  quelli 
che  pace  e  carità  nutron  nel  core. 

Novella  luce 
splende  a  voi  nelle  tenebre  e  vi  desta 
a  rinascenza  di  novella  vita; 
nuovi  destini  vi  prepara  nuova 

legge  d'amore. 
Amatevi  l'un  l'altro;  sia  divelto 
da  le  radici  il  mal  germe  dell'ira. 
Ed  anche  allora  che  prostesi  offrite 

presso  l'altare. 


VEBSI 

se  mai  vi  punga  il  cor  subitamente 
ricordo  acerbo  d'un  fratello  offeso, 
correte  a  lui;  più  grata  andrà  l'offerta 

dopo  la  pace. 
Pu  detto  a  voi  :  sia  giusta  la  misura 
della  vendetta  pei  sofferti  danni; 
ma  io  vi  dico:  perdonate,  e  in  cambio 

amate  ancora. 
Fu  detto  a  voi:  pei  prossimi  sia  vivo 
l'amore  sempre  e  pei  nemici  l'odio; 
ma  io  vi  dico:  amate  ognuno,  e  prima 

ohi  v'è  nemico. 

Siamo  chiusi  gli  orecchi  a  la  nefasta 
voce  che  ad  opre  disumane  istiga; 
l'albero  infetto  addensa  nei  suoi  frutti 

veleno  amaro. 
Chi  rinacque  all'amore  in  fermo  sasso 
fonda  la  casa,  e  per  cader  di  piogge, 
soffiar  di  venti  e  straripar  di  fiumi 

rimane  immota; 
Ma  i  protervi  e  i  malefìci  la  casa 
fondan  su  arena  instabile:  le  piogge, 
i  venti,  i  fiumi  infuriano  ed  è  grande 

la  sua  rovina». 


151 


Festante  un  coro  d'angeli  dal  cielo 
cantò:  «Incomincia  il  r^no  dell'Amore». 
Dal  monte  un  coro  d'uomini  rispose  : 
«E  così  sia». 

Giulio  Navone. 


IL  CANTICO 


Don  Lorenzo  spinse  la  bussola  della  chiesa:  e  lo  scroscio  della 
Dora  colmò  l'aria  azzunra.  Di  sopra  ai  bassd  tetti  del  municipio  le 
creste  candide  del  Monte  Bianco  splendettero  nel  sole. 

Gli  occhi  del  parroco,  turchini  come  pallide  genziane,  scesero 
dalle  vette  d'oro  candido  sulla  fronte  del  giovane  maestro  che  lo  se- 
guiva uscendo  dall'ombra  con  la  sua  aria  leggermente  trasognata;  e 
sorrise  anche  a  lui. 

—  Ho  ragione?  —  disse:  —  Quando  il  settembre  è  bello,  è  più 
bello  del  luglio  a  Courmayeur.  Che  limpidezza!  Smaglia. 

Adriano  Davetti  non  rispose,  ma  dall'alto  della  scalinata  si  volse 
a  sinistra,  e  risalì  con  lo  sguardo  dal  fondo  della  valle  alla  cima  del 
Grammont:  i  prati  fulgevano,  le  foreste  fasciavano  alla  base  le  rupi 
violacee,  spolverate  d'oro,  le  creste  tagliavano  il  cielo,  le  vette  s'im- 
mergevano nel  turchino,  e  tutto  era  preciso  e  luminoso  nella  traspa- 
renza cristallina  dell'aria.  Sussurrò  : 

—  Sarebbe  il  paradiso  ad  aver  l'anima  tranquilla. 

—  Si  è  stancato  troppo,  figlio  mio? 

—  Non  credo!  —  rispose  il  ma;estro;  ma  le  mani  e  le  braccia 
gli  tremavano,  come  se  uno  sforzo  eccessivo  le  avesse  fiaccate  sulla 
tastiera  dell'orgaino. 

—  Ed  io  ho  paura  di  sì.  Monsignore  l'ha  mandato  qui  a  riix>sare, 
ed  io  abuso  della  sua  bontà...  Non  ci  mancava  altro  che  le  facessimo 
insegnare  la  messa  cantata  ai  ragazzi  di  padre  FulgenziI 

—  No,  don  Lorenzo!  —  protestò  dolcemente  il  maestro.  —  Mi  fa 
tanto  bene! 

Dietro  a  loro  la  porta  della  chiesa  fu  spinta,  ne  uscì  una  schiera 
di  fanciulli;  ciascuno  d'essi  passando  salutava:  ultimi  vennero  due 
chierici;  uno  dopo  l'altro  baciarono  la  mano  al  vecchio  parroco,  e 
scesero  la  scalinata. 

—  Fra  pochi  giorni  sarà  finita  anche  questa,  —  riprese  il  par- 
roco. —  La  colonia  alpina  ritornerà  a  ToriiK>:  i  villeggianti  si  sper- 
deranno per  l'Italia:  non  ci  saranno  più  né  funzioni,  né  accademie 
in  chiesa...!  Non  ci  sarà  altra  musica  che  quella  dei  campani  e  delle 


Nota.  —  Dobbiamo  alla  cortesia  dell'editore  Mondadori  il  permeaso  di 
pubblicare  queste  pagine  che  formano  un  capitolo  di  Fragilità,  il  nuovo  vo- 
lume di   Virgilio   Brocchi   d'imminente   pubblicazione. 


IL  CANTICO  153 

mandrie  ohe  scendono  dai  pascoli.  Sentirà  ohe  pace!  Perchè  lei  si 
fermerà  con  noi,  vero? 

—  Se  loro  non  mi  mandano  via! 

Don  Loren^io  lo  guardò  con  quel  suo  sguardo  azzurrino  pieno  di 
sorriso  e  insieme  di  rimprovero,  e  disse  : 

—  Sa  che  cosa  ci  farà  sopportare  la  pena  della  sua  partenza,  a 
me  e  a  Sidonie,  quando  lei  se  ne  dovrà  andare?  Il  pensiero  che  sarà 
proprio  guarito...  Prima  no,  figlio  mio!  Me  lo  promette? 

—  Sto  tanto  meglio;  ma  glielo  prometto. 

—  È  vero  —  ammise  il  vecchio  parroco,  —  lei  sta  molto  meglio  : 
pare  um  altro!  —  E  lo  guardò.  Alto,  ma  esile,  il  musicista  portava 
le  spalle  erette  quasi  a  fatica:  i  suoi  occhi  larghi,  del  color  dell'ac- 
ciaio, si  turbavano  facilmente  sotto  l'altrui  sguardo:  e  il  rossore 
improvviso  gli  correva  e  dileguava  sul  pallido  volto.  Ma  quel  pallore 
s'era  bronzato  di  sole,  e  la  fronte  si  era  spianata;  sorridendo  la  bocca 
s'invermigliava  sotto  l'arco  dei  bafiB  un  po'  spioventi  :  né  più  egli  si 
curvava  sul  bastone  come  un  convalescente  che  trema  sulle  gambe. 

—  Si  ricorda  —  sorrise  Don  Lorenzo  —  quando  Pian  Goret  le 
pareva  troppo  lontano?  Non  vedo  l'ora  che  una  bella  nevicata  ci 
spiani  il  dorso  della  montagna  per  fare  con  lei  una  volata  sugli  sci 
dal  col  Ghécrui  al  Portud.  Non  è  proprio  stanco.  Facciamo  una  visita 
agli  alveari? 

—  Non  deve  andare  all'arrivo  della  diligenza? 

—  Manca  un'ora.  C'è  tempo. 

Gli  si  mise  innanzi  per  un  sentiero  che  tagliava  la  strada,  s'iner- 
picava dietro  la  chiesa,  attraversava  il  prato  e  spariva  più  su  nella 
foresta.  Camminava  col  passo  duro  e  lento  delle  guide  alpine,  le  spalle 
poderose  spinte  innanzi;  e  al  sole  la  testa  nuda  brillava  d'argento. 
Quando  fu  al  limite  del  bosco,  sd  volse  per  attendere  il  suo  giovane 
amico,  e  la  bella  faccia  placida  venata  di  rosso  gli  si  illuminò  dello 
sguardo  ingenuo  e  chiaro  come  lo  sguardo  d'un  bambino. 

—  Corro  troppo? 

—  Mi  scusi  :  pensavo. 

Il  parroco  non  gli  chiese  che  cosa  pensasse;  ma  lo  prese  a  braccio 
senza  aver  l'aria  di  sorreggerlo  e  affondò  tra  i  larici;  uscì  dalla  fo- 
resta, per  affrontare  il  terreno  franoso,  a  ciufiB  d'erba.  Sul  cancelletto 
aperto  nel  recinto  rustico  del  suo  orto  botanico,  disse  con  ingenuo 
vanto  : 

—  Non  è  certo  il  giardino  dell'abate  Chanotux:  non  ci  sono 
le  rarità  delle  Ande  e  dell'Himalaya;  ma  le  api  ci  trovano  i  fiori  delle 
nostre  Alpi,  e  li  preferiscono. 

Dagli  scheggioni  ohe  rivestivano  le  grotte  cascavano  a  ciuflB  le 
sassifraghe  rosee;  nella  aiole  cinte  di  sassi  stellavano,  trapunte  d'ar- 
gento, le  rose  alpine  del  Col  di  Jula,  della  Téte  del  Liconne,  del  Col 
d'Amdant;  tremolavano  all'aria  i  fioretti  aromatici  dell'/ra  e  del  Ge- 
nepy;  lucevano  come  lampadine  elettriche  le  genziane  turchine,  le 
genziane  violacee  del  Grammont  e  del  Cormet  fulgevano  i  soli  aran- 
ciati delle  arniche,  i  papiaverini  gialli  del  Piccolo  San  Bernardo;  sui 
pratelli  rabbrividivano  le  negritelle  odorose  di  vainiglia,  e  ridevano 
le  faccette  delle  viole  tricolori:  erti  sulle  placche  rocciose  si  rizza- 
vano violenti  di  turchino  gli  stocchi  velenosi  degli  aconiti;  si  arric- 
ciavano su  gli  steli  i  fiori  carnosi  dei  gigli  screziati  :  e  da  per  tutto 


154  IL  CANTICO 

sospiravano  fragili,  pallidi,  senza  foglia,  fioritura  iperborea,  colchici 
lilla  ohe  i  montanari  chiamano  freddoline. 

Un  ruscelletto  piombava  cantando  da  una  rupe;  si  allargava  in 
un  limpido  seno  orlato  di  ranuncoli  e  dei  candidi  ciuffetti  piumosi 
che  impennacohiiano  gli  alti  acquitrini;  ne  rifluiva  per  rivoletti  tutti 
niiurmuri  e  gorgogli,  tra  il  ronzìo  operoso  delle  api  che  mettevano 
nell'aria,  sui  fiori  i  miìle  baleni  delle  alucce.  Gli  alveari,  come  pa- 
lazzetti  di  legno,  si  allineavano  al  sole,  di  là  del  bacino,  contro  la 
mui-aglia  rocciosa,  sopra  la  bassa  foresta  sfiorita  dei  rododendri 
contorti. 

Le  api,  come  se  avessero  riconosciuto  don  Lorenzo,  ronzavano 
vibrando  intomo  al  capo  d'argento;  egli  si  chinava,  mondava,  get- 
tava con  gesto  uguale  e  pacato:  solo  quando  alzava  il  coperchio 
d'un'amia,  soffiava  dalla  grossa  pipa,  che  s'ora  tratta  dalla  sottana, 
uno  sbuffo:  e  nel  tumulto  improvviso  delle  pecchie  la  sua  faccia 
spariva  tra  il  fumo  come  tra  i  nuvoli  gli  Dei  omerici  dinanzi  al 
fragore  e  allo  scompiglio  della  battaglia. 

In  disparte  il  maestro  Davetii  ascoltava  la  musica  delle  acque 
e  delle  api,  curvo  su  di  sé  come  sopra  una  caverna  armoniosa:  ed 
era  così  assorto  che  sussultò  quando  don  Lorenzo  gli  sorse  dinanzi 
dicendo  : 

—  Ce  n'è  del  miele  quest'anno!...  Pia  sarà  contenta. 

—  Chi? 

.     —  Mia  nipote:  Pia  Runa,  la  figlia  di  nostra  sorella... 

—  La  signora  che  arriva  oggi? 

Il  prete  accennò  di  sì;  si  curvò  sul  laghetto,  si  lavò  le  mani  di- 
guazzando; poi  le  scosse  violentemente  e  le  tese  al  sole  per  asciu- 
garle: quando  furono  asciutte,  trasse  dal  taschino  il  grosso  orologio 
d'argento,  e  disse  : 

—  É  ora. 

Uscendo  dal  cancelletto  riprese:  Capisco  ohe  lei  abbia  paura 
d'ogni  novità,  e  che  la  spaventi  l'idea  d'un  ospite  tra  noi;  ma  io  non 
sarei  contento  anche  per  lei  che  mia  nipote  si  fermasse.  La  vecchiaia 
è  conteigiosa;  e  i  giovani  hanno  bisogno  di  gioventù... 

—  Fossi  giovane  io  come  lei  e  la  signora  Sidonie...! 

Il  parroco  non  raccolse  l'interruzione,  e  compì  il  proprio  pen- 
siero: 

—  Ma  è  impossibile  che  suo  marito  ce  la  lasci  a  lungo.  Pensi 
che  è  sposata  da  pochi  giorni...  La  sua  visita  potrebbe  essere  una 
tappa  del  viaggio  di  nozze. 

—  Viene  con  suo  marito,  dunquel  —  esclamò  rannuvolandosi 
Adriano  Davetti. 

Anche  don  Lorenzo  si  rannuvolò  : 

—  Già...!  —  disse,  —  dovrebbe.  Ma  pwune  di  no...  Anzi  è  certo 
che  viene  sola.  Ad  ogni  modo  stia  tranquillo,  maestro:  Pia  è  una 
creatura  che  tien  poco  posto;  non  le  darà  disturbo. 

Uscirono  dal  bosco;  s'affacciarono  al  prato,  squillò  lontano  sulla 
strada  del  Verand  tra  una  nuvola  di  polvere  la  tromiba  della  corriera: 
il  parroco  gridò  : 

—  Venga  pur  piano  lei! 

A  gran  passi  scese  attraverso  il  pendìo,  saltò  giù  dal  muricciolo, 
costeggiò  la  chiesa  e  spari. 


IL  C\MTICO  iÒÒ 


•  • 


Il  Davetti  si  arrestò:  era  veramente  infastidito  come  se  la  sua 
vita  in  canonica  da  un  momento  all'altro  stesse  {>er  diventare  intol- 
lerabile; e  il  mondo  intomo  gli  si  fece  cupo  come  la  sua  ipocondria. 
L'ultimo  raggio  di  caldo  sole  moriva  sulla  vetta  violacea  del  Cram- 
mont;  e  dalla  Giorassa  alla  guglia  del  Flambeau  la  chiostra  gigan- 
tesca del  monte  Bianco  si  illividiva  sui  ghiacciai  spenti. 

Provò  tale  sconforto  che  non  ebbe  più  né  desideri  né  pensiero; 
una  cosa  sola  desiderò,  ma  vagamente,  quasi  senza  coscienza:  es- 
sere chi  sa  dove,  ma  lontano,  ma  solo;  e  non  dover  vedere  visi  nuovi, 
ascoltare,  parlare,  offrire  la  propria  faccia  all'altrui  curiosità,  la  pro- 
pria tristezza  all'altrui  commiserazione. 

Sussultò  come  se  udisse  realmente  la  voce  della  signora  Sidonie 
rispondere  a  una  domanda  che  non  aveva  voce  che  di  vento  confuso, 

—  È  nostro  ospite  :  ce  l'ha  mandato  il  vescovo  di  Novara  ohe  fu 
compagno  di  seminario  dello  zio.  Dicono  che  sia  un  bravo  musicista 
—  è  maestro  di  cappella  —  ma  per  passione,  non  per  bisogno  :  è  un 
signore. 

Il  vento  confuso  sussurrò  qualche  cosa,  a  cui  rispose  la  voce 
nota: 

—  Poverino,  è  malato.  È  malato  anche  nell'anima.  Volle  guidare 
liii  un'automobile;  aveva  con  sé  la  moglie  sposata  da  pochi  mesi  : 
forse  non  era  pratico:  ruzzolò  giù  per  una  ripa...  Quella  povera  ra- 
gazza ebbe  una  gran  scossa:  le  nacque  il  bambino  troppo  presto;  e 
non  lo  potè  allattare  perchè...  perchè  pare  tocca  ai  polmoni.  La  do- 
vettero ricoverare  in  un  sanatorio  della  Svizzera;  e  c'è  da  due  anni. 
Lui,  poverino,  fu  per  qualche  mese  tra  la  vita  e  la  morte  perchè  la 
macchina  gli  si  rovesciò  addosso.  Ma  la  malattia  più  grave  l'ha  nel- 
l'anima, perchè  si  è  messo  in  testa  che  è  colpa  sua  se  la  moglie  è... 
e  se  il  figlio  è  debole,  debole  come  un  cardellino  nato  in  gabbia. 
Chi  sa  se  gli  vive! 

Con  un  gesto  di  dolorosa  pazienza  Adriano  si  strofinò  la  mano 
sulla  fronte.  Sotto  di  lui,  balzando  a  lato  della  chiesa,  il  campanile 
vetusto  s'aguzzava  in  aria  e  spiava  dalle  finestrelle  vuote  il  gran 
cerchio  dei  monti  e  la  valle:  le  campanine,  soavi  come  campani  di 
mandrie  lontane  sugli  alti  pascoli,  lo  chiamavano:  egli  sentì  il  pro- 
prio nome  nella  loro  voce,  e  la  dolcezza  lo  placò. 

Scese  lentamente,  entrò  nella  chiesola;  s'inginocchiò  dinanzi  alla 
balaustrata;  pregò.  Il  pensiero  di  sua  moglie,  il  pensiero  del  suo 
piccino  si  congiunsero  nella  sua  preghiera,  si  dilatò  nella  fiducia  in 
Dio:  e  la  speranza  lo  compose  in  quiete.  Si  fece  il  s^no  della 
croce,  attraversò  l'aitar  maggiore,  la  sacristia  e  uscì  dalla  portic- 
ciola  dell'abside.  Di  là  dalla  scalinata  che  scendeva  sulla  piazza, 
s'apriva  l'androne  della  ca.nonica,  sprofondato  verso  il  buio. 

—  Eiccolo  —  esclamò  giocondamente  la  voce  di  Don  Lorenzo 
appena  egli  apparve  sul  gradino  della  chiesa. 

Egli  sussultò:  aveva  dinanzi  il  parroco,  la  signora  Sidonie;  e 
una  giovinetta  infagottata  tra  scialli  e  mantelli,  affogata  da  Un  alto 
cappello  a  campana,  sotto  cui  s'arrotondava  una  faccina  «<  spaurita 
e  patita». 


156  IL  CANTICO 

—  Mia  nipote,  —  presentò  la  signora  Sidonie;  —  e  questo  è  il 
maestro  Davetti  di  cui  ti  abbiamo  parlato. 

Allora  il  cappellone  a  campana  parve  rovesciarsi  all'indietro; 
je  dall'ombra  due  occhioni  guardarono  umidi  di  pietà. 

Sopraggiujigeva  un  alpigiano  curvo  sotto  tre  grosse  valige;  chiese 
affannoso  nel  suo  aspro  dialetto  : 

—  Dove  le  metto  giù,  signor  curato? 

Nello  stesso  dialetto,  ohe  non  somigliava  né  al  francese  né  al 
piemontese,  don  Lorenzo  gli  rispose: 

—  Venitemi  dietro. 

Le  donne  e  il  facchino  lo  seguirono.  —  L'androne  buio  e  largo, 
tra  la  cucina  a. sinistra,  la  sala  da  pranzo  e  l'ufficio  parrocchiale  a 
destra,  nascondeva  in  fondo  tre  gradini  che  si  spezzavano  girando 
per  raggiungere  un  pianerottolo:  dal  pianerottolo  la  scala,  incassata 
tra  le  pareti,  saliva  verso  la  luce,  ad  un  corridoio  lungo,  bianco, 
disteso  da  finestra  a  loggia,  tra  una  doppia  fila  di  usci,  come  una 
corsia  di  convento:  e  ciascun  uscio  portava  appesa  un'immagine 
litografata  o  un  crocefisso  o  una  piccola  croce  nuda.  Nell'angolo 
della  finestra  si  drizzava  contro  il  muro  un  fascio  di  sci,  sormontato 
da  un  cappellone  floscio  che  quasi  toccava  il  basso  soflBtto  :  nel  mezzo 
del  corridoio,  tra  due  usci,  sporgeva  una  rastrelliera  su  cui  si  sten- 
devano piccozze  e  fucili;  e  ne  pendevano  un  sacco  da  montagna, 
due  boraoce  e  grossi  mazzi  di  fiori  secchi. 

Pia  si  guardò  intomo  e  il  suo  sospiro  si  mutò  in  sorriso  :  sorri- 
deva agli  sci  e  ai  fiori,  alla  loggia  aperta  a  cui  si  affacciava  la  Téle 
d'Arpe  aguzza  e  dorata:  salutava  ecco  la  cameretta  di  zia  Sidonie; 
e,  attraversando  il  corridoio,  si  avviava  dritta  all'uscio  che  seguiva 
l'uscio  di  don  Lorenzo,  col  respiro  stanco  e  pur  ampio  di  chi  giunge 
finalmente  al  suo  rifugio.  Ma  la  zia  Sidonie  le  disse  : 

—  Più  in  là,  piccola. 

E  lo  zio  quasi  scusandosi  seguitò  : 

—  Non  ti  aspettavamo:  non  volevamo  mettere  troppo  lontano 
il  nostro  mialato:  gli  demmo  la  tua  stanza. 

—  Ti  rincresce,  piccola? 

Sì,  le  rincresceva:  le  rincresceva  come  se  avesse  trovato  occu- 
pato il  proprio  posto  anche  nel  cuore  degli  zii;  e  rimase  un  attimo 
sbigottita,  ma  don  Lorenzo  ripetè  con  vxxse  accorata  : 

—  Ti  rincresce,  piccola? 
Ekl  ella  sorrise  : 

—  Ma  no,  ma  no!  Un  passo  più  in  là  o  più  in  qua  è  proprio  la 
stessa  cosa. 

Il  facchino  depose  sul  pavimento  della  cameruccia  le  valigie, 
ringraziò  il  «  signor  curato  »  ed  uscì.  I  suoi  scarponi  rumoreggia- 
rono lenti  sulle  tavole  del  corridoio  e  si  smorzarono  a  poco  a  poco 
sulle  scale.  Pia  sollevò  il  cappello  che  le  copriva  d'ombra  la  faccia 
e  lo  depose  sul  letto;  abbracciò  stretta  la  zia  e  le  posò  il  capo  sulla 
spalla  con  un  respiro  affannato. 

—  Avrai  bisogno  di  metterti  in  libertà...!  —  disse  esitando  don 
Loren2». 

—  Non  te  ne  andare!  —  pregò  Pia  :  —  ti  devo  chiedere  un  con- 
siglio. 

fi  chiuse  l'uscio. 


IL  CANTICO  157 

Di  là  dalla  parete  si  l€fvò  una,  sommessa  voce  d'armionium:  un 
sospiro  profondo,  che  pareva  velato  dai  sordini,  ma  pur  g^iungeva 
così  gonfio  di  pianto,  che  ac^x)rava. 

• 
•  • 

Era  il  maestro  Davetti.  Chiuso  nella  sua  camera,  suonava  cur- 
vandosi sulla  tastiera  screpolata,  quasi  per  impedire  che  le  voci  si 
dilatassero  spaziando  fuori  del  suo  petto  :  e  sfiorava  appena  gli  avori 
per  non  liberare  gli  squilli.  Ma  a  poco  a  poco  scordò  sé  e  gli  altri, 
scordò  il  tempo  che  passava,  l'oscurità  che  gli  addensava  lentamente 
velo  su  velo,  finché  una  nocca  picchiò  all'uscio  e  dallo  spiraglio  lu- 
minoso s'affacciò  don  Lorenzo  dicendo  con  vope  in  cui  era  spenta, 
ogni  giocondità: 

—  Signor  Adriano,  vuol  scendere  a  cena?  È  pronto. 
Egli  si  alzò  di  scatto. 

—  Eccomi! 

In  quell'attimo  si  ricordò  con  fastidio  l'ospite  nuova:  la  vide 
con  la  faccina  insignificante  sepolta  nel  gran  cappello  piumato,  e 
pensò: 

—  Ha  un  visetto  da  buona;  ma  é  tanto  bruttina! 

Certo  era  bruttina  o  quasi;  ma  cjuando  egli  la  rivide  a  fronte 
nuda,  sotto  la  lampada,  seduta  accanto  alla  zia,  stretta  tra  la  coda 
del  pianoforte  e  la  mensa  rotonda,  quasi  non  la  riconobbe  :  i  capelli 
neri  pesanti  le  fasciavano  la  faccia  involare,  troppo  tonda,  col 
naso  troppo  corto,  col  mento  troppo  diviso;  ma  sotto  la  fronte  un 
po'  angusta  lucevano  due  grandi  occhi  vellutati  che  non  si  rassegna- 
vano a  sospirare  :  e  la  giovinezza  le  dava  una  freschezza  rosata  che 
il  viaggio  e  il  dolore  non  avevano  appannata. 

Pareva  che  inghiottisse  a  fatica  le  cucchiaiate  di  brodo,  e  rispon- 
deva con  pallidi  sorrisi  a  don  Lorenzo  e  a  zia  Sidonie  che  le  parla- 
vano sommessamente,  pietosamente,  come  a  una  piccola  malata  che 
si  vuol  confortare  pur  con  la  carezza  della  voce;  ma  di  tratto  in 
tratto,  come  se  dimenticassero  che  bisognava  esser  tristi,  gli  occhi 
di  Pia  mandavano  un  guizzo  e  le  labbra  si  accendevano  d'un  riso 
vero.  Ci  fu  un  momento  in  cui  una  risata  le  zampillò  fresca  dalla 
gola:  la  mozzò  di  subito  rannicchiandosi  mortificata.  Ma  allora  lo 
zio  e  la  zia  presero  a  parlare  a  voce  naturale,  e  più  francamente  la 
esortarono  a  bere,  e  le  colmarono  il  piatto;  ed  ella  mangiò  e  bevve; 
poi  rise  di  nuovo  e  non  abbassò  più  la  fronte;  e  parlò  calma,  som- 
messa, ma  senza  tremore;  e  la  sua  voce  aveva  risonanze  così  dolci, 
una  vibrazione  così  armoniosa,  che  il  musicista  d'un  tratto  la  guardò 
e  le  chiese: 

—  Lei  canta,  signora? 

—  Canto...!  —  ella  rispose  con  un  accento  e  una  sospensione 
che  significavano  :  «  canto  come  un'operaietta  che  impara  le  canzoni 
della  strada  » .  E  c'era  nel  suo  volto,  in  tutta  la  sua  personcina  tonda 
tanta  ingenua  e  fresca  e  contagiosa  giovinezza  che  Adriano  le  sorrise. 

Chi  sa  come,  non  c'era  più  su  loro  la  desolazione,  o  almeno  non 
accorava  più:  anche  Sidonie  respirava  alleggerita.  Ma  dof>o  cena^ 
invece  di  caffè  volle  dare  alla  nipote  una  chicchera  d'iva  che  con- 
cilia il  sonno,  e  poi  le  disse: 


158  IL  CANTICO 

—  Devi  essere  stanca,  piccola!  Andiamo,  andiamo  a  dormire! 

Si  chinò  ad  abbracciarla:  c'era  nella  sua  persona,  ohe  si  pie- 
gava così  sulla  seggiola,  il  ricordo  dei  lontanissimi  anni  in  cui, 
bimba.  Pia  lasciava  ciondolare  sulla  tavola  la  testolina  assonnata, 
ed  ella  se  la  prendeva  in  braccio  sussurrando:  «  Dà  la  buona  notte 
a  don  Lorenz»!  ».  E  poi  la  sollevava  stringendosela  contro  il  petto 
per  salire  le  scale. 

—  Buona  notte! 

—  Buona  notte. 

Venne  la  domestica  e  sparecchiò  in  silenzio. 

In  silenzio  Adriano  Davetti  guardava  pendere  dalla  parete,  sopra 
il  pianoforte,  il  ritratto  del  papa  appena  morto,  il  ritratto  del  papa 
appena  eletto,  e  in  mezzo,  dentro  una  cornice  dorata,  Aò/re  Dame 
de  la  guérison  ritta  sui  gradini  della  sua  eh  lesola,  il  braccio  teso 
contro  il  ghiacciaio  della  Brenva  precipite  sotto  i  dirupi  e  le  guglie 
vertiginose  del  Monte  Bianco.  Don  Lorenzo  trasse  dalla  credenza 
una  bottiglia  dorata  e  la  piantò,  ritta  tra  due  bicchierini,  sulla  ta- 
vola; tolse  dal  cassetto,  di  sotto  al  tappeto,  un  mazzo  di  carte,  e  si 
mise  a  mescolarle  lentamente,  distrattamente.  Chiese  versando  il 
liquore  : 

—  Un  genepì? 

Poi  accese  la  pipa;  posò  la  mano  sul  mazzo  delle  carte,  e  dopo 
una  breve  esitazione  mormorò  : 

—  Lei  è  ormai  di  casa  :  mi  pare  giusto  di  dirle  subito  come 
stanno  le  cose.  Mio  cognato  è  debole,  ma  ostinato:  sarà  un  bravo 
negoziante,  ma  non  ha  mai  concepito  che  sua  moglie  e  sua  figlia 
abbiano  un'anima.  Il  suo  socio  è  peggio  di  lui,  anche  perchè  è  più 
vecchio.  Per  perpetuare  la  loro  società,  decisero  d'unire  in  matri- 
monio i  figli:  e  non  furono  più  possibili  discussioni.  Né  io  né  Si- 
donie  approvammo  le  nozze,  e  tanto  meno  le  approvava  nostra  so- 
rella, la  mamma  della  ragazza,  anche  per  la  differenza  d'età  d^li 
sposi:  Pia  ha  poco  più  di  vent'anni;  il  Runi  ne  ha  quasi  trentasei. 

Soffiò  qualche  buffata  come  quando  affumicava  le  api,  poi  ri- 
prese con  voce  più  sorda  : 

—  Però  Pia  aveva  il  cuore  libero;  non  amava  il  fidanzato,  ma 
non  amava  nessun  altro.  Lui  invece...  Fecero  un  breve  viaggio  non 
lieto...  Ieri  tornarono  a  Torino;  e  quel  disgraziato  confessò  a  sua 
moglie  che  aveva  già...  un  l^ame:  oh  legittimo  no!  né  dinanzi  a 
Dio,  né  dinanzi  agli  uomini;  ma...  un  legame,  ecco.  Il  padire  aveva 
vietato  al  Runi  di  sposare  quella  donna,  pena  la  miseria;  egli  aveva 
obbedito;  ma  ne  aveva  due  figli... 

—  Povera  signora  Pia!  —  esclamò  il  Davetti. 

Don  Lorenzo  assentì  alzando  ed  abbassando  pian  piano  il  capo 
e  sospirò: 

—  Ah,  sì,  povera  Pia!  Dire  tutto  a  suo  padre?  Voleva  dire  af- 
frontare una  coercizione  intollerabile  alla  coscienza.  Rifugiarsi  tra 
le  braccia  di  sua  madre  era  come  schiantarle  il  cuore  inutilmente. 
Si  è  ricordata  dello  zio.  È  venuta  qui  per  rifugio,  poverina,  e  a  chie- 
dere se  non  si  possa  annullare  il  suo  matrimonio. 

Adriano  lo  guardò  in  faccia  sospeso;  il  parroco  scoese  il  capo  per 
rispondere  no,  di  no,  di  no:  poi  riprese: 

—  Forse  la  legge  degli  uomini  può  annullare  un  matrimonio 


IL  CANTICO  159 

che  fu  un  tradimento,  ma  per  la  legge  della  Chiesa  il  matrimonio 
in  ogni  caso  è  indissolubile,  perchè  Dio  non  congiunge  solo  i  corpi, 
ma  le  anime. 

—  Anche  (juando  uno  dei  diie  non  poteva  giurare  senza  sacri- 
legio? 

Dolorosamente,  ma  sicuramente  il  sacerdote  rispose: 

—  Anche!  La  promessa  celebrata  dinanzi  a  Dio  annulla  ogni 
altra  promessa.  E  d'altra  parte  —  aggiunse  —  il  matrimonio  non 
è  un  contratto  che  cessa  d'eesere  valido  quando  uno  dei  contraenti 
manca  al  proprio  impegno. 

Il  maestro  sussurrò  ancora: 

—  Povera  signora! 

—  Sì,  povera  Pia!  Ma  il  Signore  le  ha  dato  il  dono  della  rasse- 
gnazione. Quando  temevo  che  si  sarebbe  disperata,  si  rasserenò  in 
volto:  e  sa  che  cosa  disse?...  «  Pazienza;  farò  conto  d'essere  una  ra- 
gazza che  ha  rinunziato  a  sposarsi.  Dopo  tutto  non  è  una  gran  di- 
sgrazia vero  zia  Sidonie?  ». 

Allora  Adriano  provò  una  pietà  così  grande  ohe  sospirò  per 
quella  poveretta  come  per  una  sorella  di  pena. 

—  Scopa?  —  domandò  don  Lorenzo.  Prima  che  il  maestro  ri- 
spondesse, gli  gettò  dinanzi  ad  una  ad  una  le  carte,  ed  esortò  : 

—  Su,  un  sorso  di  genepìi 

• 
•  • 

I  villeggianti  emigrarono  a  poco  a  poco:  prima  le  ville,  poi  gli 
alberghi  si  chiusero;  ma  il  cielo  continuava  a  risplendere  mirabil- 
mente limpido;  talora  un  vortice  di  tormenta  impennacchiava  ap- 
pena d'aria  argentea  la  cupola  del  Monte  Bianco,  e  spariva;  una  nu- 
vola bianca,  gonfia  di  luce  s'affacciava  al  colle  del  Gigante;  ma  il 
vento  che  l'aveva  spinta  su  dalla  Francia  la  dissolveva  nella  sma- 
gliante azzurrità  del  cielo,  e  la  soffiava  via  soflfioe  verso  la  Svizzera. 

Le  api  ronzavano  ancora  dalle  amiche  alle  genziane,  dall'iva  alle 
negri  tei  le;  e  le  amie  traboccavano  di  miele. 

Poi  dagli  alti  pascoli  tra  il  Gol  de  la  Seigne  il  Pré  de  Bar,  dal 
Fresney,  dal  Bruillard,  e  dalle  Jorasses;  dal  Grand  Goliaz  e  dalle 
Grandes  Rocheres,  per  le  alte  \-ie  della  Testa  Bernarda,  della  Saxe, 
del  Mont  Fortin  e  del  Ghécrui,  con  la  Dora  della  Val  Venis  con  la 
Dora  della  Val  Ferret,  le  mandrie  scesero  nella  conca  fulgida  di 
Courmayeur,  e  la  invasero,  fiumana  di  rosse  groppe  ondeggianti, 
che  coprì  col  suo  fragore  di  mugli  e  di  campani,  l'incessante  fragore 
del  fiume  sbalzante  tra  i  macigni  verso  gli  sbocchi. 

Pia  aiutava  lo  zio  a  smelare,  la  zia  a  rassettare  la  casa;  e  nascon- 
deva all'uno  e  all'altra  la  malinconia  mortificata  che  talvolta,  quando 
era  sola,  le  oscurava  la  fronte,  come  un  soffio  di  tormenta  il  Monte 
Bianco. 

Ella  aveva  compassione  di  sé  e  di  Adriano  Davetti;  e  il  Davetti 
di  lei;  ma  non  se  lo  dicevano:  anzi  si  nascondevano  la  loro  pietà  per 
verecondia;  non  mostravano  neppure,  a  parole,  di  conoscere  l'uno 
la  sventura  dell'altro  per  il  timore  di  rincrudirla  rispecchiandola; 
ma  ciascuno  sapeva  che  l'altro  sapeva  e  gli  era  grato  del  riserbo;  e 
con  un  sorriso  talvolta  lo  ringraziava. 


160  IL  CANTICO 

E  quel  sorriso  scambiato  così  per  simpatia  di  riconosc>6nza  si  fa- 
ceva meno  melanconico  e  più  schietto,  man  mano  che  la  familiarità 
cresceva,  e  con  la  familiarità  il  desiderio  di  alleviare  l'altrui  dolore 
dividendolo  sia  pure  nel  segreto  del  proprio  cuore.  Così  l'inconsa- 
pevole sforzo  di  parere  sereni  per  rasserenare,  addolciva  le  inquie- 
tudini e  insensibilmente  in  qualche  ora  le  assopiva  nell'oblìo. 

Una  sera  tarda  zia  Sidonie  accompagnò  nella  sua  camera  Pia; 
spinse  le  lunghe  persiane  che  dal  soffitto  al  pavimento  s'aprivano 
sulla  loggia  di  legno:  e  la  loggia,  alta  sul  pendìo  del  prato,  con- 
giungeva esternamente  le  camere  occidentali  della  casa.  Guardò  il 
cielo  e  gettò  un'esclamazione  di  meraviglia: 

—  Che  stellato!  Pia,  vieni  a  vedere.  Sigiior  Adriano,  signor 
Adriano  venga  a  vedere  che  cielo  1 

Il  Davetti  si  rimise  la  giubba  e  aprì  la  sua  porta;  dalla  finestra 
più  in  fondo  si  affacciò,  sbattendo  le  persiane  contro  le  pareti,  don 
Lorenzo;  e  gli  ciltri  tre  si  accostarono  a  lui. 

Le  costellazioni  ardevano  il  cielo:  grandi,  fulgide,  fìtte  fìtte  co- 
privano l'azzurro  di  grappoli,  di  monili,  di  strisce,  di  pennacchi, 
scintillando  vive  con  un  palpito,  un  tremolìo  che  dava  le  vertigini: 
pareva  ohe  inghirlandassero  di  scintillii  le  torri  del  Monte  Bianco  e 
brillassero  come  cascate  di  gemme  ardenti  sul  candore  dei  ghiacciai. 

Pia  e  il  Davetti  si  guardarono  come  se  temessero  di  sognare: 
ma  don  Lorenzo  disse: 

—  Domani  piove  :  è  troppo  bello. 

La  mattina  seguente  la  valle  fu  colma  di  nebbie:  il  monte  fu- 
migava: colonne  inwnense  di  vapori  foschi  sormontavano  dalla  Fran- 
cia, si  rovesciavano  incontro  ai  vortici  neri  che  traboccavano  dal  Gol 
Ferret,  dal  Gol  della  Seigne,  che  salivano  più  fìtti,  più  opachi  dalle 
due  Dorè.  Il  Monte  Bianco  scomparve,  scomparvero  il  Crainmont, 
la  Téte  d'Arpe^  lo  Chetif^  i  colli  più  vicini,  tutto:  la  caligine  colmò 
la  conca;  non  ci  fu  nella  foschia  cupa  che  il  sordo,  ovattato  fragore 
del  fiume. 

Il  tuono  rotolò  da  vetta  a  vetta;  i  lampi  squarciarono  la  nuvo- 
laglia: piovve. 

Le  vette  riapparvero;  ma  si  videro  attraverso  i  rovesci  dell'acqua  : 
il  cielo  flagellava  la  terra;  i  dorsi  delle  montagne  diventarono  preci- 
pitosi letti  di  torrenti;  ogni  canalone  fu  una  cascata,  ogni  sporgenza 
una  doccia,  ogni  fenditura  un  ruscello,  ogni  dirupo  una  cateratta; 
in  fondo  alla  valle,  nera  e  tremenda,  la  Dora  precipitava  rombando, 
si  scagliava  contro  le  rive  ed  i  ponti,  sbalzava  urlando  tra  i  macigni, 
come  un'orda  furibonda  di  belve  impazzite. 

Poi  la  furia  delle  piogge  si  quetò  :  un  cerchio  d'azzurro  si  aprì, 
si  dilatò  intomo  al  Maudit,  invase  il  cielo  dalle  Guglie  della  Brenva 
al  Dente  del  Gigante;  ma  sotto  il  ghiacciaio  della  Brenva,  di  là  dalla 
confluenza  delle  due  Dorè,  il  villaggio  d'Enlrèves  chiedeva  aiuto  con 
la  voce  affannata  delle  sue  campane  :  vedeva  i  vortici  rovinosi  sradi- 
care  i  larici,  rotolare  i  macigni,  scagliarli  contro  la  diga  e  i  piloni 
dell'unico  ponte  che  lo  congiunge  alla  vita:  e  dal  Verand,  da  Do- 
lonne,  dal  Villair,  da  tutti  i  paeselli  di  Courmayeur  i  valligiani  ac- 
correvano al  soccorsol  Accorse  con  essi  don  Lorenzo,  e  guidava  la 
•lotta  contro  l'impeto  irresistibile  del  fiume  che  saettava  gli  alberi 
come  catapulte,  li  gettava  di  traverso  tra  spalletta  e  piloni  per  sbar- 


IL  6ANTIC0  161 

rare  g^li  archi,  colmarli  di  rupi,  scavalcare  il  ponte,  travolgere  la 
diga,  invadere  la  valle. 

Courmayeur  era  deserta:  invano  Adriano  Davetti  s'affacciava 
dalla  finestra  della  canonica  per  chiedere  notizie  a  qualcuno  che  pas- 
sasse. Inginocxzhiata  sopra  una  sedia,  curva  sul  pianoforte  zia  Sidonie 
pregava  Sótre  Dame  de  la  guérisoii:  il  muglio  cupo  della  Dora  rin- 
tronava come  un  incessante  tonare. 

Cadeva  la  sera  :  Pia  non  reggeva  più  all'inquietudine,  disse  : 

—  Vado  a  vedere. 

Si  gettò  sulle  spalle  una  majitella  col  cappuccio:  senza  parlare 
il  Davetti  la  seguì.  Presero  la  via  della  Saxe.  Sotto,  il  piano  era  tutto 
pozzanghere,  stagni  e  fango;  ne  emergevano  truci  gli  scogli  rotolati 
giù  dalla  montagna.  Il  rombo  della  Dora  cresceva  man  mano  che 
essi  si  accostavano  all'irrompere  dei  due  bracci  nella  confluenza, 
dove  i  flutti  neri  urtandosi  si  scagliavano  in  alto  come  cavalloni 
flagellati  dal  tramontano  contro  la  scogliera. 

—  Povera  gente!  —  mormorò  Pia  pensando  all'ansia  di  tutto  un 
paese  minacciato,  che  portava  in  salvo  i  bambini  e  le  bestie  su  per 
la  montagna. 

—  Forse  il  pericolo  maggiore  è  passato!  —  le  rispose  Adriano. 

—  Da  molte  ore  non  piove;  la  piena  deve  scemare. 

—  Dio  volesse! 

Gli  uomini,  scaglionati  lungo  il  torrente  dal  ponte  verso  la  valle 
alta,  con  lunghi  ramponi  arroncigliavano  gli  alberi  —  foglie  e  radici 

—  saettati  dalla  corrente  e  li  traevano  a  riva  :  don  L#orenzo  e  gli  altri 
valligiani  dall'alto  delle  spallette  e  dal  parapetto  si  protendevano  con 
pertiche  salde  per  deviare  i  tronchi  sfuiggiti  ai  ramponi  perchè  non 
cozzassero  il  pilone  né  ingombrassero  le  arcate:  e  le  acque  si  sca- 
gliavano sotto  il  ponte,  con  l'impeto  e  il  fragore  d'un  treno. 

Ma  lentamente,  lentamente  scemavano. 

Il  parroco  v^ide  la  nipote  e  il  Davetti  scendere  verso  di  loro,  s'in- 
filò la  veste  che  aveva  affagottata  sopra  un  paracarro,  e  corse  incontro 
ad  essi: 

—  Figlioli  miei,  —  disse,  —  non  è  luogo  da  donne  e  da  malati: 
tornate  a  casa. 

—  C'è  ancora  pericolo? 

—  Non  credo:  l'acqua  è  più  chiara:  le  fraiie  son  finite;  sia  lo- 
dato il  Signore. 

—  Sia  lodato  il  Signore!  —  replicò  fervidamente  Adriano,  E  Pia 
respirò. 

—  Allora,  zio,  —  ella  aggiunse,  —  puoi  tornare  a  casa  con  noi. 
I  contadini  si  aggrupparono  intomo  a  loro  a  capo  del  ponte;  una 

vecchia  guida  disse  con  brusca  riverenza: 

—  Avete  lavorato  tutto  il  giorno,  signor  curato:  andate  a  ripo- 
sare; ormai  basta  che  restino  i  giovani  a  guardia. 

I>on  Lorenzo  si  sporse  ad  osservare  il  fiume  a  monte;  esitò  un  ai- 
timo,  poi  sussurrò  religiosamente  : 

—  Cade  la  notte,  la  nostra  guardia  diventa  inutile;  lasciamo  che 
ci  guardi  il  Signore.  Ma  se  torna  il  pericolo,  —  aggiunse  più  forte, 

—  ch'amatemi. 

Sulla  strada  alta  l'ombra  della  montagna  si  faceva  cupa;  lon- 

11  ToL  CCXVn.  «erie  VI  —  16  mano  192». 


162  IL  CANTICO 

tano,  di  qua  e  di  là  della  Dora,  lucevano  le  costellazioni  elettriche 
dei  villaggi. 

Adriano  aveva  freddo;  un  brivido  gli  scosse  le  spalle;  Pia  lo 
vide,  disse  con  voce  piena  di  rammar'co: 

—  È  uscito  senza  mantello!... 

E  gli  gettò  sulle  spalle  la  sua  mantellina. 

—  Oh  no!  —  egli  si  schermì.  —  Non  è  possibile  che  io  lasci  lei 
al  freddo! 

I  loro  occhi  s'incontrarono  con  la  stessa  preghiera  : 

—  La  tenga!  —  esortò  don  Lorenzo  :  —  Pia  la  riparo  io. 

—  Si  tolse  il  pastrano  e  ne  copri  insieme  se  stesso  e  la  nipote, 
cingendola  col  braccio. 

La  mantella  era  tepida  del  calore  di  Pia  :  egli  se  ne  avvolse  e  la 
morbida  stoffa  gli  fasciò  la  faccia  con  una  carezza  in  cui  languiva 
un  tonuissimo  profumo:  e  gli  parve  di  riconoscerlo. 

Tornò  il  sereno,  il  gelo  strinse  i  ruscelli  :  gli  alberi  scheletriti  si 
vestirono  di  fìlograne  d'argento :" poi  anche  in  valle  nevicò:  nevicò 
senza  interruzione  il  giorno,  la  notte,  i  giorni  che  seguirono.  I  monti, 
le  case  trasparivano  attraverso  la  danza  dei  fiocchi;  il  paese,  con  un 
gran  cuscino  di  neve  sopra  ogni  tetto,  pareva  in  letargo  come  le  tane 
delle  marmotte;  ma  gli  uomini  vegliavano  inerti  accanto  alle  donne 
laboriose  dentro  le  stalle  senz'aria,  tra  i  fiati  umidi  delle  bestie. 

Don  Lorenzo  appoggiava  la  fronte  ai  vetri  deUa  canonica  e 
pensava  : 

—  Ohe  il  Signore  sia  benedetto  anche  per  la  neve!  Stende  le 
coltri  sulle  biade  e  soii  fieni;  le  salva  dai  bruchi  e  dal  gelo:  ricolma 
le  sorgenti  dei  fiumi;  alimenta  le  fontane,  rinnova  la  vita... 

Sidonie  sferruzzava  le  maglie  e  le  calze;  Pia  intrecciava  il  refe 
sugli  spilli  del  tombolo;  tendeva  l'orecchio  alla  voce  deW harmonium 
che  cantava  sotto  le  mani  del  Davetti,  e  seguiva  dentro  di  sé  il  tenue 
filo  della  musica  sacra;  talvolta  il  filo  melodico  diventava  piena  onda 
dentro  di  lei  e  traboccava. 

Un  giorno  dall'andito  egli  l'udì  cantare  e  s'avvicinò  sulla  punta 
dei  piedi  sull'uscio  chiuso:  ascoltò  stupito  riconoscendo  la  propria 
musica. 

Componeva  allora  in  armonia,  a  guisa  d'oratorio,  un  passo  di 
San  Bernardo,  ardente  parafrasi  del  cantico  dei  cantici  in  cui  il  mi- 
stico amore  si  effondeva  con  passione  quasi  dolorante  d'ascesi,  an- 
siosa d'annientamento. 

Nel  sacro  spasimo  di  quella  divina  ebbrezza  Adriano  aveva  ten- 
tato di  versare  il  proprio  tormento  che  batteva  le  ali  anelando  a  dis- 
solversi nell'oceano  luminoso  dell'estasi. 

II  salmo  non  aveva  parole  per  Pia:  s'effondeva  nella  sua  voce 
come  musica  pura;  ma  il  musicista,  ascoltando,  dava  al  canto  le 
sillabe  latine  dileguanti  a  fior  di  labbro:  «...l'infiammato,  il  vee- 
mente amore,  quando  essere  contenuto  non  può,  trabocca  e  non  bada 
con  qual  ordine,  con  qual  legge,  con  quali  parole...  ». 

Inconsapevolmente  spinse  l'uscio.  Pia  lo  vide  e  di  subito  tacque 
arrossendo;  confuso  egli  le  domandò  : 


IL  CANTICO  163 

—  Perchè  non  continua? 

—  Ma  se  non  so  neppure  quello  che  canto! 

Gli  zii  le  erano  accanto,  sorrisero:  egli  balbettò; 

—  Credo  che  sia  un  cantico  di  san  Bernardo... 

—  Lo  suonava  lei  suìV armonium.  Credevo  che  fosse  musica  sua... 
La  canticchiavo  pian  piano  per  non  sciuparla  troppo. 

Adriano  ebbe  la  tentazione  di  confessarle  «  Non,  avrei  creduto 
che  la  mia  musica  fremesse  così  »;  ma  non  ebbe  l'ardire;  disse  solo: 

—  Lei  ha  una  voce  religiosa:  dovrebbe  imparare  quel  cantico. 

—  Glielo  insegni!  —  esclamò  don  Lorenzo. 

—  Se  la  signora  Pia  me  lo  permette...  volentieri! 

—  Ma  so  appena  appena  leggere  la  musica!...  Le  farei  perdere 
la  pazienza  di  sicuro. 

—  Provate!  —  incoraggiò  zia  Sidonie. 

Provarono,  ma  il  pianoforte  strideva  scordato,  e  ronzava  di  corde 
spezzate. 

—  Impossibile!  —  si  dolse  il  maestro.  —  E  poi  bisogna  che  la 
nota  non  si  rompa,  ci  vuol  proprio  VaTmonium.  —  Arrossì  aggiun- 
gendo: —  È  meglio  che  saliamo  tutti...  a  provare  colVarmonium. 

• 
•  • 

Tanto  nevicò  che  Pia  imparò  la  musica  e  le  parole  latine  del 
sermone  mistico  di  san  Bernardo. 

Quando  la  notte  non  riusciva  a  prender  sonno,  le  cantava  silen- 
ziosamente dentro  di  sé;  e  la  pace  interiore  le  si  colmava  d'estasi. 
•Poi  volle  capire  anche  il  significato  letterale  del  cantico;  un  giorno 
pregò  lo  zio  di  tradurlo,  sottolineò  la  musica  e  il  latino  con  le  parole 
italiane,  e  pazientemente  le  imparò  a  memoria  con  nuova  e  puris- 
sima gioia  spirituale.  Ma  quando,  raccolta  nel  suo  tettuccio,  e  s'era 
fatto  silenzio  nella  camera  vicina,  le  cantò  tacitamente  a  se  stessa, 
il  cuore  le  si  mise  a  battere,  a  battere  e  poi  parve  fermarsi  in  un  lan- 
guore di  svenimento. 

La  mattina  dopo  lo  zio  battè  all'uscio: 

—  Affacciati!  C'è  il  sole! 

Pia  aveva  dormito  poco;  ma  balzò  dal  letto  e  spalancò  le  per- 
siane della  loggia  ritraendosi  abbagliata.  Il  candore  sfavillava:  dal 
fondo  della  valle  alle  cime  del  Monte  Bianco  la  conca  era  un  candido, 
soffice  fulgore. 

Lo  zio  giocondamente  si  strofinava  le  mani,  e  rideva: 

—  La  mère  de  giace  è  scesa  dal  Monte  Bianco;  ha  invaso  il 
mondo.  Tutta  la  valle,  tutti  i  colli  fanno  una  pista  meravigliosa. 
Mettiti  il  maglione  e  il  berretto  :  io  preparo  gli  sci. 

Pia  l'udì  picchiare  alla  porta  vicina  e  ripetere: 

—  Su,  anche  lei,  Adriano!  Facciamo  una  sciata  facile  dal  Pian 
Goret  al  Verand  :  c'è  un  pendìo  di  seta. 

Ella  rimestò  nei  cassetti;  cinse  sulle  gambiere  una  gonna  corta 
tutta  pieghe;  infilò  la  maglia  ruvida,  ghermì  berretta  e  guanti,  ed 
uscì.  Usciva  in  quel  momento  dalla  sua  camera  Adriano,  la  guardò, 
arrossì,  disse: 

—  Buon  giorno!  —  E  balbettò:  —  Pare  un  ragcLzzino! 

Ma  ella  si  sapeva  modellata  dalla  maglia;  arrossì  a  sua  volta; 


164  IL  CANTICO 

e  per  nascondere  quel  rossore  corse  dallo  zio  e  lo  aiutò  a  legare  il 
fascio  degli  sci. 

Julien  OUier,  la  guida,  si  bilanciò  sulle  spalle  il  fascio  delle  snel- 
lissime  gondole  flessibili,  e  dei  bastoni  da  neve;  poi  precedette  il 
pendìo  del  Pian  Goret:  don  Lorenzo  davanti  a  loro  a  grandi  passi 
scarponava  nella  neve  e  ogni  sua  orma  serviva  da  tacca,  a  chi  lo  se- 
guiva. Quando  furono  sulla  spianata  meridionale  del  colle,  Julien 
gettò  il  fascio  sulla  neve  e  disse  : 

—  È  di  zucchero.  Vuole  che  l'aiuti,  signor  maestro? 

—  Ma  io  so  appena  reggermi,  —  disse  Adriano. 

—  E  dopo  tanto  tempo  —  sorrisa  Pia  —  io  non  so  se  nemmeno 
mi  reggo. 

Ma  appena  ebbe  allacciati  gli  sci  alla  solida  scarpa,  molleggiò 
su  l'uno  e  sull'altro  piede,  si  bilanciò,  si  die  la  spinta,  e  saettò  via 
dritta  per  il  pendio  dolce  della  soffice  conca. 

—  Piano,  pianol  —  le  gridò  lo  zio:  —  aspettami:  non  fidarti 
a  saltare,  dirigiti  sul  Pussey. 

Invece  Pia  si  curvò  appena  sul  fianco  e  volteggiando  con  largo 
giro  gli  ritornò  accanto;  e  per  non  cascare  s'accucciò  ridendo: 

—  Come  mi  tremano  le  gambe!  —  Ma  si  rialzò  di  scatto  e  riprese 
il  volo. 

Il  curato  sussurrò  al  Davetti  : 

—  Se  fosse  ardita  di  spirito  come  è  temeraria  della  persona,  suo 
padre  non  l'avrebbe  piegata;  ma  ha  l'anima  troppo  dolce. 

Si  die  la  spinta  e  balzò  con  una  precisa  linea  dritta  sulla  scia 
serpeggiante  della  fanciulla,  la  sfiorò,  la  sorpassò,  si  volse  per  aiu- 
tarla a  fermarsi. 

—  Aspettiamo  Adriano,  —  le  disse. 

Era  tutta  rosea;  la  corsa  le  aveva  acceso  il  sangue  di  veemenza 
e  d'allegria:  gli  occhi  le  splendevano,  il  petto  le  si  gonfiava:  eretta 
sulle  anche  pareva  piìi  alta  e  più  snella;  anche  la  voce  vibrava  di 
giocondità  gridando: 

—  Coraggio,  signor  Adriano!  Bravo,  bravo!  Si  sciolga;  si  lanci 
da  solo! 

Alto  alto,  curvo  sugli  sci  il  Davetti  oscillava  come  la  terra  gli 
fuggisse  di  sotto,  e  si  reggeva  alla  guida,  rinfrancandosi  a  poco  a 
poco.  Quando  fu  vicino.  Pia  gli  rise: 

—  Bravo,  bravo,  così!  Dia  una  mano  allo  zio  e  una  mano  a  me... 
Butti  il  bastone...  Via! 

Congiunti  a  braccia  distese,  tutti  e  tre  per  la  morbida  conca  del 
Verand  scivolavano  sulla  neve  con  velocità  d'ali.  Adriano  si  sentiva 
sospeso  e  ansava  col  fiato  mozzo;  ma  Pia  s'eccitava  con  la  crescente 
rapidità  e  rideva: 

—  Più  forte,  più  forte!  Un  altro  poco,  e  poi  saltiamo  i  tetti  del 
Verand... 

Ma  nella  veemenza  della  corsa,  d'un  tratto  il  vento  le  spazzò  via 
il  berretto. 

—  I  capelli,  i  capelli!  —  ella  gridò  ridendo. 

Nel  volo  le  trecce  rotolarono  giù,  si  sciolsero,  ondeggiarono/ e  l8 
si  avvolsero  in  selvaggia  criniera  intorno  alla  faccia. 
S'arrestarono  :  ella  rideva  ancora  : 


1 


IL  CANTICO  165 

—  Come  faccio  adesso?  Poveretta  me,  le  mie  forcine...!  Chi  me 
le  ripesca...? 

Le  ripescarono  ad  una  ad  una,  disseminate  per  il  campo  di  neve, 
Julien  Ollier  e  lo  zio. 

Pia  se  ne  stava  come  inginocchiata  sugli  sci  ai  piedi  del  Davetti 
che  si  puntellava  sul  bastone  a  rotella;  ma  ella  si  sentiva  bella  negli 
occhi  di  lui,  con  quella  sua  splendida  chioma  nera  che  le  fasciava  il 
mento  e  il  collo,  incorniciandole  il  volto  fresco  di  gioia;  e  lo  guar- 
dava e  sorrideva;  e  indugiava  a  raccogliere  i  capelli  per  imprigio- 
narli sotto  quel  berretto  che  ora  oscillava  all'aria  nelle  mani  di  Julien. 

Le  risonò  inconsapevolmente  sulle  labbra  la  parola  e  la  musica 
del  salmo  «  Dilectus  meus  mihi  et  ego  illi!  »  :  udendo  trasalirono  stu- 
piti :  ella  si  morse  un  labbro  per  troncare  il  canto,  ed  arrossì.  Anche 
Adriano  si  fece  di  fuoco.  Lentamente  si  girò  verso  la  valle,  quasi 
volgendole  le  S{>alle:  e  con  un  corruccio  improvviso.  Pia  s'alzò,  si 
gettò  dietro  il  dorso  i  capelli,  li  divise,  li  attorse,  li  annodò,  vi  calcò 
il  berretto;  e  fuggì  per  non  essere  veduta  così  brutta. 

ViRGiLio  Brocchi. 


METODI  E  CONDIZIONI  PER  IL  RIPRISTINO 
DELLA  CIRCOLAZIONE  NORMALE 


L'Europa  ebbe  in  retaggio  dalla  guerra  mondiale  tre  dolorose 
eredità.  Uno  stato  d'animo  sommamente  travagliato,  anzi  convulso, 
per  cui  si  i>assa  dall'una  all'altra  crisi  senza  saper  trovare  un  ri- 
medio ohe  non  sia  pur  esso  un'incentivo,  un'impulso  a  nuove  per- 
turbazioni, a  nuovi  sommovimenti.  Una  tendenza  a  giudicare,  se 
non  leciti,  tollerabili  certi  atti  di  brutale  ferocia  con  cui  si  attenta 
alla  vita  umana  e  cinicamente  la  si  sopprime,  tendenza  del  resto 
propria,  come  bene  ha  avvertito  il  Tocqueville  nei  suoi  Souvenirs, 
ad  ogni  periodo  od*  epoca  di  rivoluzione.  Infine  un  disordine  mone- 
tario, la  cui  gravità  non  ha  misura  possibile  di  confronto,  né  per 
la  sua  estensione,  né  per  la  sua  importan2^,  né  infine  per  gli  effetti, 
disastrosi  del  pari  per  le  fortune  degli  Stati  come  per  quelle  dei  pri- 
vati. Lascio  al  filosofo  e  alio  storico  lo  studio  delle  due  prime  infer- 
mità. Modesto  economista,  senza  pretesa  di  dir  cose  nuove,  mi  ac- 
cingo a  riassumere  taluni  fatti  suggeriti  dalla  osservazione  pili  re- 
cente intomo  ai  modi  più  opportuni,  non  dirò  per  sopprimere,  ma 
almeno  per  attenuare  i  mali  dell'odierna  patologia  della  circolazione. 


I. 

Il  terribile  conflitto,  di  cui  fummo  spettatori,  ha  dimostrato,  che 
le  singole  manifestazioni  degli  strumenti  dello  scambio,  si  risolvano 
esse  nell'uso  d'una  moneta  vera  o  d'una  moneta  fittizia,  trovano  la 
loro  reale  misura  —  per  quanto  si  riferiscono  all'oro  come  al  metallo, 
che  nella  cerchia  delle  nazioni  civili  ha  conseguito  la  preminenza 
adeguata  all'importanza  dei  pagamenti  che  vi  si  effettuano  —  in  una 
espressione  di  valori  intemazionali.  Ed  invero  quando  si  considera 
la  moneta  legale  d'un  paese  rispetto  a  quelle  degli  altri  si  stabilisce 
una  condizione  di  parità,  in  cui  ciascuna  moneta,  calcolata  nella 
consistenza  del  suo  peso,  viene  determinata  dal  rapporto  di  valore 
in  cui  essa  si  trova  di  fronte  all'oro  come  mezzo  d'acquisto  di  eeeo. 
Certamente  sulle  variazioni  di  siffatto  rapporto  agiscono  cause  col- 
legate a  fatti  nazionali  e  cause  collegate  a  fatti  intemazionali,  ma 
l'espressione  del  rapporto  è  obbiettivamente  una  espressione  di  valori 
internazionali. 

Tra  le  cause  connesse  a  fatti  nazionali  si  registrano  quelle  che  o 
alterano  la  domanda  o  modificano  l'offerta  della  moneta,  sia  questa 


METODI   E   CONDIZIONI  167 

costituita  da  masse  metalliche  o  da  titoli  di  credito,  che  intendano 
sostituirvisi.  Nell'uno  e  nell'altro  caso  va  tenuto  conto  della  quan- 
tità della  moneta  in  circolazione  e  della  rapidità  della  circolazione. 
Così,  a  pari  quantità,  il  biglietto  di  banca  al  portatore  ha  maggiore 
rapidità  di  circolazione  del  check  e  questo  della  lettera  di  cambio. 
Però,  quando  si  studiano  i  fatti  nazionali  agenti  sul  valore  della  mo- 
neta, si  prescinde  dal  considerarne  la  domanda,  assegnandole  più 
che  altro  il  carattere  d'una  causa  modificatrice  d'una  data  condizione 
d'offerta.  Perciò  i  fatti  nazionali,  che  si  studiano  come  agenti  sul- 
l'offerta, sono  in  qualche  modo  polarÌ2Kati  sul  simbolo  assunto  per 
moneta,  anziché  sugl'interni  rapporti  di  scambio  che  il  simbolo  è 
chiamato  a  rappresentare. 

Alle  leggi  relative  al  commercio  intemazionale  sono  legate  le 
cause  connesse  a  fatti  intemazionali.  Da  un  lato  queste  agiscono  per 
ciò  che  si  riferisce  ai  rapix)rti  di  credito  o  di  debito  fra  le  varie  na- 
zioni, in  quanto  questi  rapporti  hanno  la  loro  manifestazione  in  una 
equazione  di  simboli  monetarii.  Dall'altro  esse  operano  altresì  per 
ciò  che  si  attiene  alla  distribuzione  dei  metalli  preziosi,  cioè  della 
moneta,  da  paese  a  paese. 

Rispetto  al  primo  punto  è  noto  come  il  valore  intemazionale 
d'una  merce,  e  quindi  anche  dei  metalli,  sia  piìi  o  meno  alto  a 
seconda  dell'ampiezza,  anzi  della  preminenza  della  quantità  in  va- 
lore dei  crediti  del  paese,  di  cui  si  tratta,  sulla  quantità  dei  cre- 
diti dell'altro  paese  con  cui  avviene  lo  scambio.  L'oro  del  Messico, 
più  volte  si  disse,  a\Tà  un  valore  intemazionale  tanto  più  alto  per 
l'Inghilterra  quanto  meno  il  Messico  avrà  bisogno  delle  merci  inglesi, 
quanto  più  l'Inghilterra  dovrà  ricorrere  alle  merci  messicane.  Ed  in- 
versamente. Il  valore  intemazionale  d'una  merce  è  essenzialmente 
dominato  dalla  rispettiva  preminenza  della  domanda  reciproca  d'un 
paese  per  le  merci  dell'altro. 

Rispetto  al  secondo  punto,  cioè  rispetto  alla  distribuzione  dei 
metalli  preziosi,  e  quindi  della  moneta,  ciò  che  decide,  come  splen- 
didamente ha  esposto  lo  Chevalier,  è  la  produttività  dell'industrie 
nei  singoli  paesi.  Quanto  più  varia  è  la  produzione  d'un  paese,  sia 
questa  agricola,  industriale  o  commerciale,  tanto  più  a  minor  costo 
vi  affluirà  l'oro  e  quindi  minore  per  tal  paese  sarà  il  sacrificio  per 
l'acquisto  di  esso.  Né,  aggiungo,  si  dovrà  dare  importanza  soltanto 
all'ampiezza  della  produzione  ed  alla  sua  varietà,  ma  altresì  al  pe- 
riodo di  rigiro  del  capitale  in  una  ide-ntica  unità  di  tempo.  Perciò  vi 
sarà  maggiore  produttività  dell'industrie  e  quindi  più  pronto  il  ri- 
chiamo dell'oro  quanto  minore  sarà  l'intervallo  del  ritomo  in  siffatta 
unità  di  tempo.  Il  che  dimostra  la  prev^alenza  da  questo  aspetto  dei 
popoli  commerciali  sugl'industriali  e  sugli  agricoli,  degli  industriali 
sugli  agricoli. 

Ora,  quando  si  sttudiano  le  monete,  le  une  di  fronte  alle  altre,  in 
quella  parità  che  ne  esprime  la  reale  potenza  d'acquisto  in  rapporto 
all'oro,  noi  ci  troviamo  di  fronte  ad  una  espressione  di  valori  inter- 
nazionali, sia  in  quanto  si  riflettono  nell'equazione  della  domanda 
reciproca  le  mutazioni  dei  rapporti  di  credito  d'un  paese  di  fronte 
all'altro,  sia,  eventualmente,  per  ciò  che  concerne  la  produzione  del- 
l'oro e  la  sua  conversione  in  moneta  nel  mercato  internazionale,  sia 
infine  rispetto  alla  distribuzione  dell'oro  in  relazione  alla  produtti- 


168  METODI   E   CONDIZIONI 

vita  dei  singoli  paesi.  Certamente  tali  espressioni  di  valori  intema- 
zionali sono  modificate  dai  fattori  agenti  sull'offerta  della  moneta 
nelle  singole  nazioni,  restandone  inalterata  la  domanda.  Anzi  una 
modificazione  nell'offerta,  sia  in  senso  di  accrescimento,  sia  in  senso 
di  riduzione  della  massa  adibita  a  moneta  altera  quella  espressione 
di  valori  intemazionali,  riducendo  o  aumentando  ia  potenza  d'acquisto 
della  moneta  nazionale  di  fronte  all'oro.  Ma  siffatta  consacrazione 
non  è  possibile  in  sino  a  quando  tutti  gli  elementi  internazionali  di 
siffatta  espressione  non  ne  abbiano  risentita  l'influenza  talché  la  de- 
finitiva manifestazione  rimane  pur  sempre  un  fatto  internazionale. 
D'altronde,  per  quanta  imp>ortaiiza  abbiano  i  simboli,  l'elaborazione 
operante  suJe  variazioni,  da  cui  dipende  tale  definitiva  manifesta- 
zione, è  strettamente  legata  ai  fattori  che  agiscono  profondamente 
sulla  condotta  degli  elementi  economici,  così  di  produzione  come  di 
-scambio. 

Deriva  da  ciò  che  il  disordine  monetario,  specie  se  da  lungo 
tempo  protratto,  non  può  esser  considerato  come  un  fatto  sporadico 
o  quasi  accidentale.  I  fenomeni  esteriori,  che  più  arrestano  l'atten- 
zione dei  profani,  sono  appunto  connessi  a  que'  fattori,  remoti  ed 
immanenti,/ ed  essi  operano  sulla  particolare  asprezza  ed  intensità 
dei  fenomeni,  sulla  loro  continuità,  in  una  parola  sul  loro  modo  di 
agire  e  sul  corso  rispettivo  di  effettuazione.  Se  quindi  si  vuoù  curare 
il  disordine  monetario  non  conviene  prescindere  dallo  studio  di  tali 
fattori,  non  altrimenti  di  quanto  avviene  per  quelle  malattie  più 
ostinate,  che  non  danno  tregua  se  non  si  dispone  una  terapia  razio- 
nale e  ricostituente. 


II. 

Il  disordine  monetario  fu  provocato  e  diffuso  in  tutti  gli  Stati 
civili,  sì  belligeranti  che  neutrali.  Si  produsse  con  intensità  più  per- 
sistente e  perniciosa  presso  le  nazioni  in  gnerra  quanto  più  si  pro- 
cede dagli  Stati  anglosassoni  alla  Francia,  all'Italia,  alla  Germania, 
alla  Czeco-Slovaochia,  alla  Russia,  alla  Polonia,  all'Austria.  I  carat- 
teri principali  di  siffatte  manifestazioni  si  possono  riassumere  nei 
seguenti  : 

1"  Progressivo  indebitamento  delle  nazioni  belligeranti  verso  i 
paesi  fornitori  di  materie  prime,  di  prodotti  alimentari  e  di  mate- 
riale bellico.  Il  semplice  sguardo  alle  statistiche  del  movimento  com- 
merciale dell'Italia,  della  Francia  ed  anche  della  Gran  Bretagna  di- 
mostra quale  enorme  deficit  nella  bilancia  dei  pagamenti  si  sia  for- 
mato, in  particolare  di  fronte  all'Unione  Nord-Americana,  negli  anni 
decorsi  dal  1914  al  1919.  A  questo  deficit  si  aggiungano  i  prestiti  co- 
lossali, collocati  in  gran  parte  nell'Inghilterra  e  negli  Stati  Uniti,  e  si 
comprenderà  agevolmente  quale  bilancia  dei  pagamenti  si  sia  for- 
mata tra  i  paesi  creditori  e  i  paesi  debitori.  Non  ne  furono  colpita, 
soltanto  le  quote  dei  rispettivi  redditi  complessivi,  ma  altresì  le  basi 
di  redditualità  proprie  alle  singole  categorie  del  capitale  nazioi 

2°  Eccesso  nella  offerta  della  moneta  legale  rispetto  alle  e 
zioni  di  prodiittività  delle  singole  economie  nazionali.  Il  fatto  si  ve 
riflcò  così  nelle  nazioni  belligeranti  come  nei  paesi  neutrali.  In  questi 


PER  IL  RIPRISTINO  DELLA  CIRCOLAZIONE  NORMALE  169 

ultimi  la  immigrazione  della  moneta  metallica  determinò  un  note- 
vole aumento  nei  prezzi  e  con  esso  un'accrescimento  nelle  emissioni 
dei  biglietti  di  banca  o  di  Stato  (1).  Fosse  tendenza  a  giovarsi  di  un 
mezzo  di  cambio  apparentemente  più  economico  o  preoccupazione 
di  trattenere  in  paese  una  più  forte  massa  metallica,  o  infine  il  pro- 
posito di  tesaurizzare  quanto  di  per  sé  l'intrinseca  produttività  non 
avrebbe  attirato,  il  fatto  è  dovunque  costante.  Così  la  Spagna,  che 
il  1°  agosto  1914  aveva  un  contante  metallico  [cash)  di  50,991,000  di 
sterline  ed  una  emissione  di  77,557,000,  il  19  novembre  del  1921  aveva 
in  cassa  125,186,000  e  una  circolazione  di  169,433,000  di  sterline.  Del 
pari  nella  Svizzera,  neL'Olanda,  nella  Svezia,  nella  Norvegia,  nella 
Danimarca.  Inutile  poi  riferire  gli  aumenti  prodottisi  nei  paesi  bel- 
ligeranti, naturalmente  nella  circolazione  fiduciaria  e  di  Stato,  al 
fine  di  sopperire,  senza  troppo  sforzo  d'invenzione,  alle  spese  di 
guerra  e  alle  sue  conseguenze.  In  totale  da  uno  studio  pubblicato 
nello  Statisi  di  Londra  del  26  novembre  1921  è  dimostrato,  che,  dal 
luglio-agosto  1914  al  settembre-ottobre  1921,  la  circolazione  degli  Stati 
belligeranti  e  neutrali  e  del  Giappone,  non  calcolando  né  la  Russia, 
né  l'Austria,  né  l'Ungheria,  né  la  Turchia,  è  aumentata  di  165  mi- 
liardi e  668  milioni  di  lire  italiane! 

3°  Il  corso  dei  cambi  tanto  più  sfavorevole  quanto  -più  diffuso  e 
profondo  U  disordine  monetario.  Registrare  a  quali  corsi  sieno  saliti 
il  dollaro,  la  sterlina,  il  franco  svizzero,  il  tallero  olandese  presso  le 
nazioni  belligeranti,  il  ricordare  come  nei  paesi  neutrali  all'immi- 
grazione della  moneta  abbia  fatto  seguito  l'aumento  dei  prezzi  e  come 
l'arresto  o  almeno  la  riduzione  della  esportazione  abbia  in  essi  creata 
una  oscillante  situazione  della  bilancia  dei  pagamenti,  che  a  sua 
volta  riflette  le  sue  ripercussioni  sui  corsi  del  cambio,  j>armi  opera 
inutile  o  almeno  superflua.  Certo  si  è  che  qui  pure  i  profondi  fat- 
tori, a  cui  sono  legate  le  variazioni  nel  valore  della  moneta,  hanno 
esercitato  la  loro  efficacia  in  relazione  alla  diversa  preminenza  del 
loro  modo  d'agire.  Si  consideri  p.  e.  la  condizione  dell'Austria.  La 
guerra  vi  ha  distrutto  enormi  masse  di  capitali.  Da  ciò  una  produt- 
tività dell'industrie  minima,  quasi  nulla.  Se  vi  si  aggiunge,  che  il 
distacco  dall'Ungheria  ne  riduce  le  fonti  dell'alimento  mentre  la  crea- 
zione della  Czeco-Slovacchia  ha  tolto  alla  sua  bilancia  commerciale 
una  partita  attiva  di  considerevole  importanza,  si  comprende  la  cre- 
scente depressione  della  corona  austriaca.  Uguali,  o  non  dissimili, 
considerazioni  si  potrebbero  ripetere  per  il  rublo  russo,  p>er  il  lei 
i-umeno  e  per  la  corona  polacca.  In  ogni  caso  p)erò  le  cause  fonda- 
mentali di  corsi  di  cambio  così  permanentemente  sfavorevoli  sono 
l'estremo  disequilibrio  della  bilancia  dei  pagamenti  intemazionali  e 
la  svalutazione  della  moneta  derivante  dall'eccesso  della  circolazione. 

4°  La  mutabilità  delle  oscillazioni  dei  cambii.  Se  si  considera 
la  curva  dei  cambii,  p.  e.  per  l'Italia  dal  1914  ai  nostri  giorni,  essa 
é  indiscutibilmente  progrediente.  Ma  vi  sono  delle  fasi  di  ritiro,  di 
arresto  e  di  ripresa,  a  cui  si  connettono  rilevanti  oscillazioni.  Alcuni 
attribuiscono  siffatte  variazioni  all'azione  della  speculazione.  Né  que- 
sta si  può  negare!  Specie  di  quella,  le  cui  fila  sono  mosse  da  gruppi 

(1)  Bellissime  osservazioni  sugli  effetti  dell'immigrazione  dell'oro  in  Olanda 
ha  il  C.  A.  Verrijn  Sttjabt  nell'iJcon.  Journal  del  marzo  1919. 


170  ^         METODI   E  CONDIZIONI 

prevalenti  o  coalizzati  nei  grandi  centri  monetarii  e  bancarii.  Però 
la  speculazione  può  spiegare  mutamenti  di  poca  importanza,  altalene 
di  qualche  linea,  certo  non  per  questo  meno  pregiudicevoli  al  com- 
mercio. All'opposto  le  cause  più  frequenti  delle  oscillazioni  si  trovano 
negli  avvenimenti  sociali  e  politici.  Per  essi  non  di  raro  è  scossa  la 
fede  nella  consistenza  e  nella  vitalità  dei  singoli  Stati  o  di  date  com- 
binazioni politiche,  nelle  preoccupazioni  onde  s'allarma  e  su  cui  lucra 
la  borsa,  in  una  parola  in  quei  fattori  psicologici,  a  cui  egregiamente 
si  riferisce  Ad.  Wagner  come  ad  elementi  di  turbamento  dell'aggio 
in  tempi  anormali  (1). 


III. 

È  noto  come  la  dottrina  abbia  tentato  di  ooordinao^  intomo  a  due 
metodi,  l'uno  opposto  all'altro,  i  varii  modi  adottati  per  ricondurre 
la  circolazione  alle  sue  condizioni  normali.  Per  l'uno  si  riduce  la 
moneta  legale  al  valore,  a  cui  è  scesa  la  moneta  reale  per  effetto  della 
sua  svalutazione  [devalvation).  Per  l'altra  si  promuove  una  eleva- 
zione, una  rivalutazione  della  moneta  legale  in  modo  da  ottenere  che 
il  corso  reale  della  moneta  pareggi  la  sua  impronta  legale.  Il  primo 
metodo  si  disse  adottato  in  quei  paesi,  nei  quali  il  corso  forzoso  dura 
da  moltissimo  tempo:  ivi,  si  aggiunge,  l'aggio  sull'oro  ha  ridotto  così 
il  valore  della  moneta  reale  da  assegnarle  un  apprezzamento  penna- 
nen temente  inferiore  al  suo  valore  legale.  Il  secondo  al  contrario 
parve  più  proprio  di  quei  periodi  economici  nei  quali  la  differenza 
fra  l'uno  e  l'altro  valore  in  relazione  all'oro  non  è  consacrata  da  un 
lungo  intervallo  di  durata. 

In  realtà,  a  parte  le  difficoltà  proprie  al  ripristino  della  circola- 
zione normale,  predominano  sulla  preferenza  da  assegnarsi  piuttosto 
all'uno  che  all'altro  metodo  considerazioni  essenzialmente  giuridiche. 
Difatti,  quando  un  alto  aggio  ha  durato  lunghi  anni,  i  prezzi  delle 
merci  si  sono  adattati  alla  diminuzione  nel  valore  della  moneta.  In 
siffatto  evento  tutte  le  obbligazioni  sono  misurate  sull'unità  mone- 
taria diminuita  di  valore,  amenochè  non  sia  espressamente  pattuito 
il  loro  pagamento  in  metalli.  In  tale  condizione  il  riportare,  dopo 
un  decorso  di  30  o  di  40  anni,  il  valore  reale  della  moneta,  così  da 
lungo  tempo  deprezzata,  al  suo  valore  l^ale,  significherebbe  un'in- 
giusto aggravio  pel  debitore  ed  un'illegittimo  arricchimento  per  il 
creditore  (2). 

Vi  hanno  esempii  dell'uno  e  dell'altro  metodo.  Nei  più  vicini 
cicli  della  storia  moderna,  in  cui  il  corso  forzoso  per  la  prima  volta 
si  riferiva  a  biglietti  di  banca  anziché  ad  altri  artificii  di  moneta- 
zione, prevalse  la  devalvation.  Così  venne  applicata  nel  1781  negli 
Stati  Uniti  d'America  alla  moneta  continentale,  introdotta  per  le  esi- 
genze della  guerra  di  indipendenza  e  deprezzata  in  tal  modo  da  ar- 
rivare al  rapporto  1 :500  di  fronte  al  denaro  metallico.  Fu  riscattata 

(1)  Die  rusxische  Papie.rwàhrung ,  pag.  91.  E  cita  fatti  avvenuti  in  Rusia 
nel  1866  e  nel  1867. 

(2)  Lexis,  Pajnergeld,  pag,  997  del  II  voi,  delVHandwdrterbuch  der  Staats 
tcis-tcnscìiaften.  Iena,  1910. 


PER  IL  RIPRISTINO  DELLA  CIRCOLAZIONE  NORMALE  171 

al  rapporto  1:20  con  l'emissione  di  certificati  fruttanti  interesse.  Del 
pari  nell'impero  Austriaco  nel  1811  :  le  bancozettel  emesse  nel  1796 
vi  vennero  affrancate  al  quinto  del  loro  valore  nominale.  Né  diver- 
samente si  operò  in  Russia  in  forza  ^éWukase  del  1°  luglio  1839, 
dando  in  cambio  di  3  i/2  rubli  assegnati  un  rublo  argento  (1).  A  sua 
volta  non  attuò  un  difforme  procedimento  l'Argentina  con  la  legge 
4  novembre  1899,  convertendo  tutta  la  quantità  dei  biglietti  di  cre^ 
dito  emessi  a  corso  legale  in  moneta  nazionale  d'oro,  al  cambio  d'un 
I)eso  moneta  nazionale  di  corso  legale  per  quarantaquattro  centavos 
di  peso,  moneta  nazionale  d'oro  battuto. 

Il  metodo  della  elevazione  del  valore  della  moneta  fiduciaria  o 
forzosa  ad  un  valore  uguale  al  suo  valore  legale  è  il  metodo  dei  po- 
poli più  ricchi,  moralmente  e  politicamente  piìi  sani.  Lo  applicò  an- 
zitutto l'Inghilterra,  seguendo  le  inspirazioni  di  Ricardo  nella  fa- 
mosa polemica  con  Bosanquet,  quando  fu  approvato  l'atto  di  Peel 
del  1819.  Per  esso  la  Banca  d'Inghilterra  doveva  rimborsare  i  suoi 
biglietti  al  tasso  di  4  lire  e  1  scellino  l'oncia  d'oro  dal  1°  febbraio  al 
1*  ottobre  1820,  al  tasso  di  3  lire  19.6  dal  1°  ottobre  predetto  al 
1°  maggio  1821,  infine  al  tasso  di  3  lire  17  scellini  e  4  1/2  denari  dal 
1°  maggio  1821  al  1"  maggio  1823,  giorno  in  cui  il  cambio  era  alla 
pari  anche  di  fronte  all'oro  monetato.  È  del  resto  noto  come  la  realtà 
delle  cose  abbia  anticipati  i  corsi  preordinati  dalla  legge.  Più  presso 
a  noi  ne  diedero  pure  esempio  gli  Stati  Uniti  d'America  nel  1865, 
quando,  per  avviarsi  all'abolizione  del  corso  forzoso,  il  Congresso 
sancì  la  proposta  del  Segretario  della  tesoreria,  Mac  CuUoch,  di  riti- 
rare lentamente  dalla  circolazione  una  quantità  sempre  maggiore  di 
biglietti  di  banca.  Nonostante  che  la  esecuzione  della  proposta  dopo 
tre  anni  sia  stata  sospesa,  fu  successivamente  ripresa  e  forma  il 
nucleo  principale  di  varii  provvedimenti  per  elevare  il  valore  della 
moneta  e  renderne  possibile  il  riscatto  alla  pari,  quale  si  ottenne 
nel  1879.  La  Francia  a  sua  volta  non  ebbe  bisogno  di  proclamare 
metodo  siffatto  nella  crisi  susseguita  dopo  la  guerra  del  1870-71;  ma 
lo  vide  attuarsi  da  sé  quasi  insensibilmente.  Difatti,  già  nel  1873, 
app>ena  2  anni  e  mezzo  da  quando  lo  Stato  era  ricorso  alla  Banca 
per  p^restiti  aumentandone  la  circolazione,  il  premio  sull'oro  diminuì 
in  modo  rilevante  e  cessò  in  via  definitiva  nel  1875.  Non  può  dirsi 
del  pari  che  non  abbia  mirato  ad  una  elevazione  del  valore  reale  della 
moneta  l'Italia  nel  tentativo  di  abolizione  del  corso  forzoso  intrapreso 
nel  1881.  Certo  non  intese  di  procedere  ad  una  riduzione  del  valore 
legale.  Rimarchevoli  esempii  si  hanno  altresì  nell'Austria  e  in  Russia. 

Non  è  che  in  Austria  nel  1892  si  abbia  voluto  decretare  l'aboli- 
zione del  corso  forzoso,  che  vi  durava,  pressoché  ininterrotto,  da 
56  anni,  bensì  tutto  il  sistema  della  riforma  monetaria  ebbe  in  mira 
di  preparare  le  condizioni  per  il  ritorno  ad  una  circolazione  normale. 
Fu  perciò  sostituita  al  bimetallismo  una  forma  di  monometallismo 
zopfK)  al  fine  di  sottrarre  la  circolazione  almeno  alle  oscillazioni  de- 
rivanti dalla  depressione  nel  valore  dell'argento.  Venne  inoltre  auto- 
rizzato un  prestito  di  obbligazioni  di  rendita  fruttante  il  4  %  in  oro 
per  ricavarne  i  218.4  milioni  necessarii  al  riscatto  dei  biglietti  di 

(1)  De^Iocca,  La  circolazione  monetaria  e  il  corso  forzoso  in  JRussia.  Ann. 
di  statistica,  voi.  24,  pag.  119. 


172  METODI   E   CONDIZIONI 

Stato  (1).  Infine  fu  rivolta  allo  stesso  intento  l'assidua  cura  intesa  ad 
aumentare  le  riserve  metalliche  della  Banca  Austro-Ungarica,  a  coor- 
dinare alla  riforma  i  civanzi  attivi  della  bilancia  commerciale  e  le 
sorti  migliori  della  finanza  pubblica,  a  ridurre  sempre  più  le  quote 
del  debito  pubblico  esistente  all'eslero. 

Quanto  aLa  Russia  non  si  può  dire,  per  il  fatto  che  la  legge 
fondamentale  del  3-16  gennaio  1897  abbia  stabilito  il  rapporto  tra 
il  rublo  d'oro  e  il  rublo  credito  da  1:1.50  o,  che  è  lo  st^so,  abbia 
uguagliato  il  rublo  credito  a  66  2/3  copechi  d'oro,  che  con  ciò  si  sia 
inteso  di  voler  applicare  il  metodo  della  devalvation.  In  effetto  i 
quattro  grandi  ministri,  Abaza,  Bunge,  Wischnegradski  e  Witte,  che 
presiedettero  per  oltre  tre  lustri  all'ordinamento  della  riforma,  pur 
consentendo  una  misura  transitoria  di  ragguaglio  di  prezzi  di  fronte 
al  lungo  tempo  da  che  durava  il  corso  /orzoso,  ebbero  per  intenzione 
di  promuovere  una  completa  ripresa  dei  pagamenti  metallici.  Da  ciò 
la  formazione  d'una  scorta  speciale  di  500,000,000  di  rubli  d'oro  per 
una  circolazione  complessiva  al  1°  gennaio  1897  di  1,067,856,000  di 
rubli  credito,  pur  prescindendo  dal  rimanente  ammontare  dei  fondi 
aurei,  spettanti  per  varii  titoli  al  tesoro  e  alla  Banca  Imperiale,  in 
ulteriori  312,950,524.76  di  rubli  d'oro  (2). 

È  evidente,  del  resto,  che  il  metodo  della  devalvation  non  può 
trovare  applicazione  presso  nazioni  che  intendano  mantenere  e  con- 
solidare il  loro  credito  pubblico.  Né  esso  risponde  all'intimità  sempre 
più  stretta,  che  lo  sviluppo  dei  fatti  e  degl'istituti  economici  ha  creato 
nell'odierna  società  internazionale. 

Niuna  cosa  abbatte  al  nulla  il  prestigio  economico  e  finanziario 
d'uno  Stato  quanto  la  mancanza  alla  fede  pubblica,  quanto  la  offesa 
ai  patti  che  esso  ha  giurati.  Direi  quasi  che  la  coscienza  collettiva 
subisce,  certo  a  malincuore  e  a  contraggenio,  le  violazioni  dei  trattati 
politici,  non  può  adattarsi  ad  atti,  che  disconoscano  le  garanzie  eco- 
nomiche, su  cui  riposa  l'autorità  e  l'esistenza  stessa  dello  Stato.  Ciò 
spiega  l'isolamento  economico  dell'impero  Austriaco  dopo  il  1816, 
nonostante  la  sua  preminenza  politica  sull'Europa  di  quel  tempo. 
Ciò  vale  a  confermare  l'importanza  via  via  assunta  dalla  Prussia, 
che  non  ha  avuto  mai  bisogno  di  ricorrere  al  corso  forzoso  lungo  il 
secolo  XIX.  Più  ancora  ciò  vale  a  legittimare  il  predominio  commer- 
ciale, non  ancora  scosso,  non  ancora  vulnerato,  dell'impero  Britan- 
nico! Nemmeno  nei  momenti  più  calamitosi  della  guerra  mondiale 
esso  si  rassegnò  a  proclamare  al  mondo  l'inconvertibilità  della  sua 
moneta  fiduciaria. 

V'ha  di  più.  Certe  violazioni,  certe  lesioni  sono  possibili  nei 
cerchi  ristretti  di  piccole  economie  nazionali,  dove  la  vita  economica 
si  svolge  quasi  in  modo  indipendente  da  rapporti  intemazionali, 
dove  la  complessità  delle  relazioni  è  così  scarsamente  progredita  da 
potersi  affermale  che  la  Bjg^Te^Qi7.\<ynQ  sociale  vive  assai  più  sui 
proprii  sforzi  che  non  sai  quelli  di  altre  comunità.  Appena  il  ciclo 
delle  relazioni  si  allarga,  appena  i  nodi  si  complicano  e  i  rapporti 
intemazionali  diventano  una  condizione  dell'attività  economica  della 

(1)  Relazione  Stunbach  citata  dal  Loriki,  La  questione  della  valuta  in 
Austria-Ungheria,  paj?.  448. 

(2)  Cf  r.  LoRiNi,  La  riforma  monetaria  della  Russia. 


à 


PER  IL  RIPRISTINO  DELLA  CIRCOLAZIONE  NORMALE  173 

nazione,  questa  non  può  mancare  ai  proprii  impegni,  nemmeno  nel- 
l'apparenza. Altrimenti  è  reciso  lo  stame  della  sua  esistenza  e  il  fu- 
turo non  può  preparai'le  che  o  la  distruzione  materiale  con  l'isola- 
mento economico  o  la  distruzione  morale  col  servag-gio  politico. 


IV. 

Nonostante  la  prevalenza  del  metodo  della  rivalutazione,  non  è 
da  credere  che  la  soluzione  del  problema  sia  agevole  e  quasi  intui- 
tiva. In  ogni  caso  un  siffatto  procedimento  di  politica  economica 
difficilmente  potrebbe  attuarsi  in  breve  tempo  e  quasi  all'improvviso. 
D'altro  canto  non  dobbiamo  abbandonarci  alla  sfiducia,  né  conviene 
trasportare  nel  giudizio  della  vita  degli  Stati  e  sopratutto  delle  na- 
zioni il  pessimismo,  che  possiamo  nutrire  nel  corso  della  vita  indi- 
viduale. Siamo  pure  pessimisti  per  noi  stessi;  non  per  il  nostro  paese, 
non  per  le  nazioni  giovani  come  l'Italia,  la  Francia,  la  Germania,  la 
Czecc^-Slovacchia,  gli  Stati  Balcanici.  Per  esse  dobbiamo  alimentare 
quell'ottimismo,  che  trova  d'altronde  nelle  potenti  energie  delle  co- 
munità moderne  il  più  valido  rinfranco. 

Onde  rendere  possibile  la;  rivalutazione  della  moneta  conviene 
tener  conto  di  due  categorie  di  fattori.  Una  categoria  si  collega  a 
quelle  condizioni  di  ambiente  economico,  a  cui  opportunamente  si 
riferiva  il  compianto  Lorini,  così  benemerito  di  questi  studi,  nono- 
stante l'eccessiva  esuberanza  del  suo  stile  ed  anche  talvolta  l'indeter- 
minatezza. La  seconda  categoria  comprende  i  provvedimenti  finan- 
ziarli, in  cui  si  risolve  una  concreta  azione  per  la  rivalutazione  della 
moneta. 

Fra  le  condizioni  favorevoli  di  ambiente  economico  vanno  regi- 
strate : 

1.  V aumento  della  produzione.  Nell'Inghilterra,  durante  gli 
anni  1815,  1816  e  Ì8i7,  i  copiosi  raccolti  provocarono  una  minore  di- 
minuzione di  valore  del  biglietto  di  fronte  all'oro,  talché  i  direttori 
della  Banca  d'Inghilterra  intrawidero  la  possibilità  di  riprendere  i 
pagamenti  in  denaro  (1).  Del  pari  nella  Russia.  I  ricchi  raccolti  del 
1888,  del  1889,  del  1893-94,  lo  stesso  sviluppo  delle  industrie,  che 
accettarono  di  buon  grado  più  alto  saggio  d'imposizione  sui  loro 
profitti,  aiutarono  l'energica  opera  del  Witte.  Né  diversamente,  per 
quanto  parzialmente,  nell'Austria  negli  anni  anteriori  alla  riforma 
monetaria.  In  alcune  provinole  vi  fu  una  certa  corrispondenza  fra 
l'aumento  dei  salarli  e  la  diminuzione  dei  prezzi;  il  che  accennerebbe 
ad  un  qualche  incremento  nei  salarli  reali.  Però  l'indagine  in  tempi 
di  corso  forzoso  é  troppo  difficile  e  malsicura  per  arrivare  a  conclu- 
sioni concrete  e  definitive.  Oltre  a  ciò  è  un  postulato  ormai  univer- 
salmente accolto,  che  gli  effetti  dell'aggio,  sia  in  senso  di  incremento, 
sia  in  senso  di  riduzione,  agiscono  dapprima  sui  prezzi  all'ingrosso, 
indi  su  quelli  al  minuto  e  soltanto  nell'ultimo  stadio  sui  salarii  (2). 

(1)  Andreades,  Eistoire  de  la  Banque  d'Angleterre,  voi.  I,  pag.  330. 

(2)  Relazione  Simonelli  sul  corso  forzoso  in  Italia.  Stringher,  Sulla 
estinzione  del  corso  forzoso  in  Italia.  Annali  dell'Industria  ©  del  Commer- 
cio, 1879,  n.  8. 


174  METODI   E  CONDIZIONI 

2.  Il  mifflioramento  della  bilancia  dei  pagamenti  internazio- 
nali. In  questa  espressione  vanno  compresi  tutti  quegli  elementi  di 
incremento  o  di  compensazione,  che  completano  la  parte  attiva  della 
bilancia  commerciale.  Non  vi  è  dubbio  però  che  il  nucleo  principale 
della  bilancia  dei  pagamenti  è  costituito  dalle  quantità  delle  merci 
comprese  nel  movimento  delle  importazioni  e  delle  esportazioni.  Ri- 
spetto ad  esso  non  si  può  dire,  che  soltanto  un'eccedenza  attiva  tem>- 
poranea  delle  esportazioni  sulle  importazioni  possa  rendere  possibile 
la  ripresa  dei  pagamenti  metallici.  Certo  egli  è,  che  l'insuccesso  ita- 
liano del  1881-83  è  parallelo  ad  una  persistente  deficienza  delle  espor- 
tazioni di  fronte  alle  importazioni  (da  154,732,145  lire  nel  1879  sale 
a  180,360,942  nel  1883),  né  esisteva  allora  così  copioso  l'afflusso  delle  ri- 
messe degli  emigranti.  Del  pari,  negli  Stati  Uniti  d'America.  La  co- 
raggiosa iniziativa  di  Mac  Culloch  trovò  contro  di  sé  non  soltanto 
l'opposizione  degl'industriali  speculatori,  pronti  a  chiedere  il  rinno- 
vato assenzio  delle  emissioni,  ma  altresì  una  bilancia  del  commercio 
non  ancora  definitivamente  favorevole.  Essa  segna  nel  1866  un'ecce- 
denza a  favore  delle  importazioni  di  dollari  85,952,544  ed  anche  con 
numeri  più  alti  in  seguito,  finché  si  muta  nel  1874  in  una  eccedenza 
di  esportazioni  che  da  18,876,698  dollari  arriva  nel  1878  a  257,786,964 
dollari  (1).  In  genere  però  la  ripresa  dei  pagamenti  metallici  si  ac- 
compagna o  é  preceduta  se  non  da  una  bilancia  permanentemente 
attiva,  da  un  miglioramento  nei  traffici  verso  l'estero.  Il  Porter  (2) 
ricorda,  che  nel  1815  vi  fu  nella  Gran  Bretagna  una  ripresa  del  mo- 
vimento commerciale,  specie  nell'esportazione  di  prodotti  di  lana. 
Così  i  filati  e  tessuti  di  cotone,  che  uscirono  dal  Regno  Unito  nel  pe- 
riodo decorso  dal  1810  al  1816  con  una  media  di  436  milioni  di  fr., 
lo  furono  dal  1817  al  1826  con  una  media  di  613.  E,  venendo  a  tempi 
più  vicini,  nella  Francia,  dopo  il  1870,  il  movimento  commerciale 
aiutò  potentemente  l'economia  nazionale  a  liberarsi  dal  regime  anor- 
male della  moneta.  Ricorda  L.  Say,  nel  suo  splendido  rapporto  sul 
pagamento  dell'indennità  di  guerra,  che,  mentre  negli  anni  1870 
e  1871  vi  fu  un'eccesso  d'importazioni  sulle  esportazioni  rispettiva- 
mente per  65,300,000  e  per  694,200,000,  immediatamente  dopo,  nel 
1872  e  nel  1873,  s'avvertì  il  fenomeno  inverso  portandosi  l'eccedenza 
dell'esportazione  sull'importazione  in  que'  due  anni  a  191,300,000  e 
a  326,700,000.  Ne  é  un  segreto  per  alcuno,  che  l'incremento  nelle 
esportazioni  dei  cereali  ha  segnato  per  l'Argentina  altrettante  tappe 
nel  miglioramento  della  sua  situazione  monetaria.  Da  parte  sua  la 
Russia  nei  quinquennii  1885-90  e  1891-95  andò  a  rappresentare  con 
una  media  di  255.6  milioni  di  rubli  nel  primo  periodo  e  di  171.7  nel 
secondo  l'eccedenza  del  valore  delle  merci  esportate  sulle  importate. 
Infine  nella  monarchia  Danubiana  la  bilancia  commerciale  appare 
attiva  sino  dal  1874.  Nel  quinquennio  1-886-1890  l'eccesso  delle  espor- 

(1)  Sono  queste  1«  cifre  citate  dallo  Stringhi»  «ralla  base  del  Quaritrìy 
Report  of  the  Chief  of  the  bureau  of  statistios  del  30  giugno  1878  Però  l'olla 
gato  n.  16  del  rapporto  di  Mac  Culloch  del  1866  porta  per  gli  anni  186.5  e  1866 
una  eccedenza  delle  esportazioni  sulle  importazioni  rispettivamente  di  dollari 
102,202,936  e  127,786,040.  Esso  si  riferisce  però  a  cifre  di  valore  lordo  {gro$$ 
value). 

(2)  Progrks  de  la  Grande  Bretagne,  traduc.  francese. 


\ 


PER   IL  RIPRISTINO  DELLA  CIRCOLAZIONE  NORMALE  175 

tazioni  vi  si  segna  per  159.4  milioni  di  fiorini.  Il  che  invogliava  di 
per  sé  ad  una  riforma  razionale  della  valuta. 

3.  Uinizio  del  risanamento  delle  finanze.  Non  vi  è  dubbio,  che 
la  abrogazione  dell'atto  di  restrizione  del  1797,  attuata  nell'Inghil- 
terra mediante  l'atto  di  Peel  del  1819,  è  contemporanea  ad  un  note- 
vole sollievo  di  quella  finanza.  Nel  discorso  tenuto  dal  Reggente  alla 
Camera  dei  Comuni  nel  1819  fu  rilevato  che,  mentre  nel  1818  le  en- 
trate superavano  già  le  spese  di  1,500,000  di  sterline,  nel  1819  si 
avrebbe  avuto  un'avanzo  di  3  milioni,  I  successivi  energici  provvedi- 
menti intesero  a  ridurre  le  spese  e  ad  introdurre  nuove  imposte  (1). 
Un  mirabile  esempio  di  sistemazione  finanziaria  offre  la  storia  del- 
l'Unione Nord-Americana  per  gli  anni  immediatamente   successivi 
alla  fine  della  guerra  di  secessione.  Difatti,  mentre  gli  esercizi  1862 
iLsque  1865  si  chiusero  con  deficit  spaventosi  procedenti  da  423  a 
602,601  e  956  milioni  di  dollari,  coperti  per  intero  da  accensioni  di  de- 
biti, nell'esercizio  1866,  cessati  i  pagamenti  di  guerra,  le  entrate,  giun- 
te a  dollari  558,032,620.06  riescono  a  coprire  tutte  le  spese  ordinarie, 
comprese  in  esse  gl'interessi  del  debito  pubblico  divenuto  per  quei 
tempi  imponente  (2,783,425,187.21  dollari)  ed  a  lasciare  un'avanzo 
di  37,281,679.58  di  dollari  (2).  Quanto  alla  Francia  le  discussioni  ivi 
sorte  sul  bilancio  del  1874,  sia  nella  sua  prima  forma,  sia  nelle  suc- 
cessive rettifiche,  fra  il  ministro  cessante  L.  Say  e  il  suo  succes- 
sore M.  Magne  non  concordano  sui  risultati  contabili  e  in  particolare 
sul  modo  di  sopperire  al  fondo  degli  ammortamenti.  Però  esse  ac- 
cennano ad  un   notevole   assestamento  delle   finanze   francesi,   che 
avrebbe  potuto  mantenersi  ed  accrescersi  se  il  severo  indirizzo  finan- 
ziario inaugurato  da  Thiers  e  da  Leon  Say  non  avesse  trovato  contro 
di   sé  la  competizione  irosa  dei  partiti  e  l'inesorabile  spinta  alle 
spese  (3).  Non  ugual  giudizio  può  farsi  per  l'Italia  nel  periodo  1879- 
1882,  in  cui  essa  si  sforza  di  abolire  il  corso  forzoso.  Se  invero  nel- 
l'anno 1879  ha  un'avanzo  accertato  di  41,964,069  e  nel  1882  un'avanzo 
presunto  di  28,854,171  di  lire,  negli  anni   1880  e  1881  registra  un 
deficit  per  14,957,189  e  32,229,816.  La  Russia,  invece,  salda  i  bilanci 
del  1892,  1893  e  1894  con  avanzi  rispettivamente  di  43.4,  159.6  e  77.6 
milioni  di  rubli.  Che  se  nel  1895,  alla  vigilia  della  riforma,  l'eserci- 
zio si  chiude  con  un  eccesso  di  passività  di  102.7  milioni,  ciò  non 
dipende,  né  da  difetto  di  entrate  ordinarie,  che  anzi  salgono  a  1255.8 
milioni,  né  da  esuberanza  di  spese  ordinarie  ridottesi  a  1,137.8  mi- 
lioni, bensì  da  un  notevole  aumento  nelle  spese  straordinarie.  Lo 
stesso  si  dica  per  l'Austria-Ungheria.  Ivi  fu  predisposta  la  riforma 
monetaria  con  Vanimo  intento  a  consolidare  il  bilancio  mediante  un 
proporzionale   riordinamento   delle   imposte  e  Vaspirazione   ad   un 
lungo  periodo  di  pace  (4).  Ed  invero  i  bilanci  austriaci  del  1889  e 

(1)  Pebrer,  Histoire  financière  et  statistique  generale  de  VEmpire  briian- 
nique,  I,  pag.  131. 

(2)  Allegati  n.  7  ed  8  al  Beport  of  the  secretary  of  the  treasury  on  the 
state  of  the  financy  for  the  year,  1866. 

(3)  L.  Say,  Discorsi  del  17  marzo,  14  dicembre  1873  e  7  novembre  1874,  rao- 
oolti  nell'opera  Les  finances  de  la  France  sous  la  troisième    république,  voi.  I. 

(4)  Così  il  Ganseb  nello  studio:  Die  Valutaregulierung  in  Oest.-Ung.,  ci- 
tato dal  LoRixi,  La  questione  della  valuta  neW Austria-Ungheria,  pag.  169. 


176  METODI   E   CONDIZIONI 

del  1890  si  chiudono  con  avanzi  di  11.1  e  di  22.2  milioni  di  fiorini  e 
quegli  ungheresi  degli  anni  1889,  1890  e  1891,  del  pari  con  differenze 
attive  di  2.6,  27.0  e  30.3  milioni  di  fiorini. 

4.  La  progressiva  riduzione  del  debito  pubblico  all'estero. 
Troppo  corrisponde  al  fine  questa  condizione  per  poterne  contestare 
la  legittimità.  Taluni  Stati  del  resto,  come  l'Inghilterra  e  la  Francia, 
erano  troppo  potenti  per  sé  stessi  per  dover  calcolare  su  prestiti  al- 
l'estero. Altri,  ad.  es.,  l'Austria,  lasciarono  parte  notevole  del  proprio 
conolidato  su  mercati  non  strettamente  nazionali  (1).  Checché  sda 
di  queste  ed  altre  eccezioni  la  persistenza  d'un  grande  debito  all'e- 
stero urta  contro  soverchi  scogli  per  non  promuoverne  una  lenta,  ma 
progressiva  eliminazione.  E  fosse  pure  il  debito  ingente  giudico  più 
cauto  un  qualsiasi  regolamento,  anche  a  lunghissima  scadenza,  an- 
ziché una  presuntuosa  dimenticanza  onde  sarebbe  aggravata  senza 
pietà  la  condizione  del  popolo  debitore  di  fronte  al  popolo  creditore. 
Questo  poi  avrebbe  cento  occasioni  per  far  pagare  ad  usura,  o  nei 
prezzi  delle  materie  di  suo  monopolio  o  in  una  più  limitata  domanda 
dei  prodotti  esportabili,  il  mancato  impegno.  In  particolare  poi  la 
sistemazione  e,  possibilmente,  la  riduzione  del  debito  all'estero  por- 
terebbe con  sé  il  benefico  effetto  di  restringere  il  materiale  incendia- 
rio delle  speculazioni  di  borsa,  tanto  più  pronta  a  combattere  con  le 
sue  manovre  il  risanamento  della  moneta,  quanto  più  sono  incerti  i 
rapporti  finanziarii  fra  gli  Stati  e  oscillanti  le  valutazioni  del  mer- 
cato dei  titoli  pubblici  (2). 

Tra  i  provvedimenti  finanziarii,  intesi  a  promuovere  una  pro- 
gressiva rivalutazione  della  moneta,  vanno  in  particolare  considerati 
i  due  seguenti,  qui  sotto  esposti.  La  loro  azione  va  però  considerata 
insieme  e  contemporaneamente  in  quanto  gli  effetti  si  accumulano  e 
s'incrociano  nel  rispettivo  svolgimento. 

1.  Il  processo  di  limitazione  della  quantità  della  carta  moneta. 
Per  quanto  il  Bullion  Report  avesse  vigorosamente  confutato  l'opi- 
nione dei  direttori  di  banca  e  di  altri  commercianti  pVofani,  giusta 
la  quale  il  ribasso  nel  corso  del  cambio  fra  Londra,  da  una  parte, 
Parigi,  Amburgo  ed  Amstef'dam,  dall'altra,  sarebbe  dipeso  da  un 
accrescimento  del  valore  dall'oro,  anziché  dal  deprezzamento  nei  bi- 
glietti di  banca  in  causa  della  loro  eccessiva  quantità,  nessun  prov- 
vedimento inteso  a  limitare  tale  quantità  si  trova  contenuto  nell'atto 
di  Peel  del  1819.  La  ragione  di  tal  fatto  si  spiega  con  la  lentezza  con 
cui  le  teorie  ricardiane,  accolte  nel  Bullion  Report^  avevano  guada- 
gnato l'opinione  pubblica  anche  dei  cosidetti  tecnici.  Oltre  a  ciò  nel 
periodo  1815-1820  lo  sviluppo  degli  affari  era  stato  tale  da  neutraliz- 
zare con  l'aumento  nella  domanda  della  moneta,  almeno  nei  primi 
anni  del  quinquennio,  gli  effetti  d'una  offerta  ancora  eccessiva.  Ed 
invero,  stando  ai  dati  del  Pebrer,  la  circolazione,  che  al  31  dicem- 

(1)  Tali  i  mercati  di  Berlino  e  di  Franooforte. 

(2)  Notevole  a  questo  proposito  l'abilità  con  cai  il  Co.  Witte  seppe  sot- 
trarre ai  fiochi  di  borf^a  la  vendita  e  l'acquisto  di  tratte  sull'estero,  fissandone 
l'alionnzione  da  parte  drll'amministrazione  finanziaria  al  nuovo  rapporto  fra 
il  rublo  d'oro  ©  il  rublo  credito,  come  pure  l'energia  con  cui  seppe  respingere 
le  domande  di  nuove  emissioni  nel  1896.  V.  su  tutto  ciò  Lorini,  op.  cit., 
pag.  74  e  133. 


PER  IL  RIPRISTINO  DELLA  CIRCOLAZIONE  NORMALE  177 

bre  1814  era  di  26,074,570  sterline  sale,  alla  stessa  data,  nel  1815,  a 
26,129,040,  nel  1816  a  28,915,940.  Però  al  31  dicembre  1817  discende 
a  26,005,240,  nel  1818  a  23,910,800,  nel  1819  a  23,278,000.  Infine,  e 
ciò  è  rimarchevolissimo,  nel  1820,  anno  in  cui  si  comincia  ad  appli- 
care l'atto  di  Peel,  viene  ridotta  a  18,515,920  e  d'allora  diminuisce 
sempre  più  talché  nel  1830  arriva  a  16,282,060  sterline  (1).  Se  quindi 
la  riduzione  non  vi  fu  nella  legge,  ebbe  però  la  sua  completa  consa- 
crazione nei  fatti. 

Dicemmo  già  come  il  concetto  fondamentale,  a  cui  s'inspirava  il 
Mac  Culloch  nel  preparare  la  ripresa  dei  pagamenti  metallici  nel- 
l'Unione Nord-Americana,  si  difflnisse  nel  ritiro  delle  legai  tender 
notes.  Tanto  risulta  dai  suoi  rapporti  del  4  dicembre  1865  e  del  3  di- 
cembre 1866.  Perciò  il  segretario  della  tesoreria  con  l'atto  12  mar- 
zo 1866  venne  autorizzato  a  ritirare  dalla  circolazione  una  quantità 
corrispondente  a  10  milioni  di  dollari  entro  sei  mesi  e,  successiva- 
mente, un'importo  di  quattro  milioni  di  dollari  al  mese.  In  defini- 
tiva le  legai  tender  notes,  che  al  1°  gennaio  1866  ammontavano  a 
425,839,319  di  dollari  erano  ridotte  due  anni  dopo  a  356,000,000.  L'o- 
pinione degli  uomini  d'affari,  troppo  angustamente  interessata,  era 
però  contraria  a  siffatte  limitazioni.  Perciò  sotto  la  pressione  di  quella 
corrente  il  Congresso  sospese  la  riduzione  della  circolazione.  Essa  si 
mantenne  negli  anni  seguenti  nell'importo  di  356,  salvochè  nel  1874 
giunse  fino  a  382  milioni.  Però  la  circolazione  complessiva  (banche 
nazionali  e  di  Stato,  legai  tender  notes  e  fractional  currenaj)  andò 
diminuendo  dal  1867  al  1874,  specie  tenendo  conto  dell'aumento 
della  popolazione  (2).  Ci  volle  la  violenta  crisi  del  1874  perchè  il 
resumption  act  fissasse  al  1°  gennaio  1879  l'epoca  della  cessazione  del 
corso  forzoso  mediante  il  riscatto  delle  legai  tender  notes  ridotte  già 
ad  un'importo  di  346  milioni. 

Non  si  può  dire  che  in  Francia  la  limitazione  della  circolazione 
sia  stata  fra  gli  atti,  che  portarono  come  effetto  il  ritorno  alle  con- 
dizioni normali.  Ivi  il  corso  forzoso,  deliberato  il  12  agosto  1870, 
avrebbe  consentito  alla  Banca  di  Francia  quel  massimo  di  emissione 
che  il  decreto  15  luglio  1872  aveva  determinato  in  3,200,000,000  di  fr. 
Però,  la  circolazione,  che  nel  1871  ammontava  a  2,075,206,000  con 
una  riserva  di  551,500,000,  sale  nel  1878  a  2,338,996,000  con  una  ri- 
serva di  2,072,700,000  (3).  In  realtà  l'indirizzo  della  Banca  di  Fran- 
cia rimase  costantemente  quello  di  accrescere  il  suo  fondo  metallico 
e  di  aumentare  la  circolazione  in  proporzione  di  quell'incremento. 
Il  che  —  diversamente  per  l'Italia  —  le  era  consentito  dalla  natura 
e  dallo  sviluppo  del  movimento  commerciale  della  Francia  e  dalla 
massa  di  crediti,  sia  per  tratte,  sia  ner  investite  in  titoli,  che  auesta 
nRzione  era  in  2:rado  di  collocare  all'estero.  Quindi  nel  senso  di  una 
limitazione  della  circolazione,  più  della  riduzione  della  quantità, 
valse  in  Francia  l'incremento  nel  rapporto  fra  l'ammontare  della  ri- 
serva e  quello  della  circolazione.  ^ 

(1)  Op.  cit.,  I,  pag.  299  e  segg. 

(2)  Stringhtkr,  scritto  citato,  pagg.  49-50. 

(3)  CotJRTOis,  Eistoire  de  la  Banque  de  France.  —  SAiwT-GBins,  La  Ban- 
ft»e  de  France. 

13  ToL  CCTVII,  serie  VI  —  16  mano  1922. 


1T8  METODI    E   CONuiZiuNI 

Lasciando  da  parte  di  considerare,  se  all'insuccesso  italiano  del 
1881-83  abbia  cooperato  anche  il  difetto  di  qualsiasi  nonna  relativa 
alla  riduzione  dei  biglietti  propri!  ai  singoli  istituti  d'emissione,  a 
cui  si  conservò  anche  il  corso  legale,  aggiungiamo  alcune  considera- 
zioni intorno  alla  politica  adottcìta  nei  riguardi  della  limitazione 
della  circolazione  dalla  Repubblica  Argentina  e  dall'impero  Russo  (1). 

La  legge  argentina  4  novembre  1899  conteneva  al  suo  art.  7  una 
prescrizione,  che  fu  argomento  ad  ampia  discussione  e  a  vivaci  cri- 
tiche. In  forza  di  quell'articolo  la  Gassa  di  conversione  aveva  facoltà 
di  emettere  e  di  dare,  a  chiunque  ne  facesse  domanda,  biglietti  di 
corso  legale  in  cambio  d'oro  nella  proporzione  d'un  peso  di  corso 
legale  per  quarantaquattro  centavos  d'oro  e  di  versare  del  pari,  a 
chiunque  lo  domandasse,  dell'oro  in  cambio  di  moneta  di  carta  all'i- 
dentica ragione  di  cambio.  Questo  ordinamento  avrebbe  potuto  pro- 
muovere il  ritomo  al  baratto  fra  oro  e  biglietto  quando  non  fossero 
stati  mantenuti  i  due  pesos  e,  a  tal  fine,  si  fosse  ridotta,  sia  pure  len- 
tamente, la  quantità  del  peso  carta.  L'aver  conservat^o  ambidue  i  sim- 
boli ha  esposto  il  rapporto  a  tutte  le  oscillazioni  dei  raccolti  e  del  mo- 
vimento commerciale,  mentre  la  possibilità  di  farlo  non  poteva  sot- 
trarre la  Cassa  alle  tentazioni  di  nuove  emissioni.  Così  avvenne  che 
negli  anni  successivi  al  1899  il  riscatto  si  arrestò,  né  si  riprese  il  ba- 
ratto se  non  quando  una  copiosa  esportazione  accrebbe  il  fondo  me- 
tallico. 

Più  razionale  fu  il  procedimento  adottato  dalla  Russia.  Esso  si 
svolge  in  un  periodo  di  quindici  anni,  cioè  dal  1881  al  1897.  Narra 
il  Lorini  che  fu  primo  il  ministro  Abaza  con  ukase  del  gennaio  1881 
a  iniziare  il  ritiro  e  la  distruzione  d'una  parte  dell'eccesso  della  cir- 
colazione. Gli  segue  il  Bunge,  che  nel  1886  trasmette  al  Wischne- 
gradski  una  circolazione  ridotta  per  317  milioni  di  rubli.  Certo  si 
è  che  la  circolazione  effettiva  di  biglietti  di  credito  dal  1881  al  1891 
discende  da  1,085,050,000  di  rubli  a  907,416,000.  Che  se  essa  dal  1891 
al  1897  risale  a  1,067,856,000  ciò  avviene  per  il  contemporaneo  au- 
mento del  fondo  metallico,  che,  nei  due  anni,  innalza  il  rapporto  tra 
oro  e  biglietti  dal  23.31  al  46.82  per  cento. 

2.  La  progrediente  costituzione  d'un  fondo  metallico.  Non  pre- 
scrizioni di  leggi  e  nemmeno  artificiosi  espedienti  provocarono  incre- 
mento del  fondo  metallico  negli  anni  anteriori  o  posteriori  all'aboli- 
zione del  Restriction  Act,  ma  il  corso  naturale  dei  fatti  economici,  lo 
stesso  afflusso  dell'oro  derivante  dalle  rinnovate  fonti  dell'esporta- 
zione. Ed  invero  nel  quinquennio  1811-1815  la  media  del  valore  depo- 
sitato in  verghe  presso  la  Banca  d'Inghilterra  era  appena  di  2,932,312 
sterline.  Invece  nel  quinquennio  successivo  raggiunge  l'importo  di 
7,480,116  sterline  e  nel  1821  tocca  le  11,233,590  sterline,  né  si  allon- 
tana da  tal  cifra  in  tutto  il  decennio  (2). 

Anche  negli  Stati  Uniti  d'America  l'aumento  del  fondo  metal- 

(1)  Nell'Austria  la  circolazione  complessiva  (tesoro  e  banche)  fu  nel  1892, 
anno  della  riforma,  di  834  milioni  di  fiorini  contro  una  riserva  di  302  milioni. 
Il  rapporto  era  perciò  del  36.13.  Si  disse  già  ohe  la  riforma  dolla  valuta  in- 
tendeva soltanto  a  preparare  le  condizioni  per  il  riscatto  della  carta  moneta 
a  tempo  da  destinarsi. 

(2)  Pebrer,  op.  cit.,  I,  pag.  3. 


\ 


PER  IL  RIPRISTINO  DELLA  CIRCOLAZIONE  NORMALE  179 

lieo  riuscì  certamente  di  grande  contributo  al  risanamento  della  cir- 
colazione. Esso  però  dipese  da  cause  naturedi,  troppo  evidenti.  Giusta 
i  dati,  riassunti  con  diligenza  e  con  precisione  dallo  Stnngher,  la 
produzione  dell'oro  dal  1845  al  1865  vi  fu  di  875,561,769  di  valore  in 
dollari.  Dal  1866  al  1875  vi  si  aggiunge  un  importo  di  448,225,000.  In- 
fine, negli  anni  1876-1878  la  produzione  dell'oro  s'accrebbe  di  dollari 
92,326,000.  Naturalmente  dall'insieme  di  queste  cifre  bisogna  de- 
trarre la  differenza  fra  l'esportazione  e  l'importazione  del  metallo, 
che  fu  considerevole,  in  quanto,  per  ambidue  i  metalli^  ammontò  nel 
solo  periodo  decorso  dal  1862  al  1878  a  863,680,403.  Certo  si  è  che  la 
riserva  metallica  del  tesoro  come  quella  delle  banche  nazionali  andò 
sempre  aumentando  nel  periodo  decorso  dal  1866  ai  1879.  Secondo 
i  calcoli  del  direttore  generale  delle  zecche,  la  situazione  dello  stock 
d'oro  al  30  giugno  1878  —  fatte  le  dovute  detrazioni  per  esportazioni 
e  per  consumo  del  metallo  per  scopi  artistici  ed  industriali  —  era  di 
dollari  244,353,390.  In  definitiva  al  1°  ottobre  1878  il  direttore  gene- 
rale delle  zecche  accertava  un  deposito  metallico  complessivo  di 
358,443,947  dollari,  di  cui  259,353,390  in  oro  (i). 

Abbiamo  già  rilevato  quale  importanza  abbia  avuto  l'incremento 
delle  riserve  metalliche  nel  riordinamento  dei  rapporti  tra  Banca  e 
Tesoro  in  Francia  dopo  il  1870.  A  questi  rapporti  in  fondo  si  ridure 
la  storia  del  corso  forzoso  di  sifTatto  periodo.  Le  riserve  metalliche  vi 
costituiscono  la  garanzia  fondamentale  di  tutto  il  sistema  normale 
dell'ordinamento  del  credito,  non  già  l'avviamento  alla  ripresa  dei 
pagamenti.  Questa  è  troppo  favorita  dalle  condizioni  d'ambiente  per 
aver  d'uopo  di  siffatti  spedienti. 

Inversamente  in  Italia.  Tralasciando  di  considerare,  se  il  pre- 
stito dei  644  milioni,  di  cui  400  in  oro,  deliberato  con  la  legge  7  apri- 
le 1881,  n.  133,  fosse  suflBciente  ad  agevolare  la  conversione  dei  940 
milioni  di  biglietti  consorziali,  pei  biglietti  proprii  dei  singoli  isti- 
tuti il  rapporto  tra  la  riserva  d'oro  e  la  circolazione,  anziché  aumen- 
tare, negli  anni  più  prossimi  all'operazione  andò  sempre  più  dimi- 
nuendo. E  valga  il  vero  (2);« 

Smw  M  \mM  «  Imi  e  U 

Ani  MiJ  «  vWa  h  Mti  #isdM 

1878 815,821,351 

1879 853,160,146 

1880 911,840,526 

1881 861,739,444 

È  alquanto  incerta  la  consistenza  del  fondo  metallico  apparte- 
nente alla  monarchia  Danubiana  negli  anni  più  prossimi  alla  riforma 
monetaria.  Le  affermazioni  di  Ottorino  Haupt,  che  forse  meglio  di 
altri  approfondì  questo  argomento,  non  sono  accolte  da  tutti  gli  scrit- 
tori, né  i  confronti  e  rilievi  enunciati  dal  Lorini  in  argomento  rie- 

(1)  Stringhi»,  scritto  citato,  pag.   152. 

(2)  Dall'aspetto  economico  del  problema  non  è  il  caso  di  tener  conto  del 
fondo  metallico  in  argento,  metallo  che  nei  quattro  anni  andò  sempre  più 
diminuendo  di  valore  di  fronte  all'oro.  E  cioè:  1:  17.19;  17.96;  18.39;  18.06. 
Cfr.  SoETBEER,  Materialien,  ecc.,  pag.  20. 


Wtatra  €*n 

■WMrti 

79,364,616.30 

9.72% 

80,427,468.70 

9.43% 

77,618,700.50 

8.51% 

71,304,720.50 

8.27% 

180 


METODI   E   CONDIZIONI 


scono  sempre  aJddisfacenti.  A  chi  scrive  sembra  però  preminente  il 
fatto,  che  quanto  più  ci  avviciniamo  al  1892  la  riserva  della  Banca 
Austro-Ungarica  aumenta  e  il  rapporto  di  essa  con  la  circolazione, 
specie  nell'ultimo  anno,  tende  a  diventare  più  alto.  Veggansi  i  se- 
guenti dati  in  fiorini  di  valuta  austriaca  (i)  : 


Aail 
1885 
1890 
1891 
1892 


litcrva  t  ossa 
198,736,036 
219,523,506 
221,080,997 
282,185,484 


ma 
10,242,126 
24,966,862 
24,850,245 
16,969,983 


hiàt 
209,038,161 
244,490,368 
245,931,242 
299,155,467 


OmUtltw 
363,6U3,000 
445,934,240 
455,222,220 
477,987,590 


UnMte 

57.47 
54.82 
54.02 
62.59 


Furono  due  le  fonti  principali,  a  cui  si  rivolse  la  forte  intelli- 
genza dei  ministri  russi  per  la  costituzione  di  un  poderoso  fondo 
metallico.  L'una,  propria  ad  un  paese  di  miniere,  la  produzione  del- 
l'oro dalle  sabbie  dei  fiumi  e  dai  monti  Urali  e  Baikal,  l'altra,  possi- 
bile per  ogni  Stato,  il  pagamento  in  oro  dei  dazi  di  confine.  Difatti 
la  produzione  dell'oro  vi  sali  da  17,245  chilogrammi  d'oro  fino  nel 
1881  a  43,478  chilogrammi  nel  1895.  Da  parte  loro  i  dazi  di  confine 
dal  1877  al  1895  diedero  un  prodotto  di  ben  1348.2  milioni  di  rubli 
d'oro,  confutando  con  così  potente  contributo  le  obbiezioni  opposte 
da  P.  Leroy-Beaulieu  a  questo  modo  di  formazione  dei  fondi  metal- 
lici (2).  Qualunque  sia,  ad  ogni  mojo,  la  via  prescelta  per  la  costi- 
tuzione d'una  riserva  —  e  quelle  due  adottate  dalla  Russia  vanno  col- 
locate, almeno  in  ordine  di  preferenza,  in  un  grado  più  eminente 
del  ricorso  a  prestiti  all'estero  —  sifTatto  provvedimento  è  ormai  con- 
sacrato così  nella  pratica  come  nella  dottrina  dalle  maggiori  auto- 
rità (3).  Le  seguenti  cifre  additano  come  abbia  progredito  la  costitu- 
zione del  fondo  metallico  in  Russia  nel  periodo  più  prossimo  alla 
riforma.  Vi  è  palese  altresì  l'importanza  sempre  minore  della  scorta 
d'argento  e  la  prevalenza  acquistata  dall'oro  monetato  suL'oro  in 
verghe. 


Mii^Iiaia 

di    rubli    me 

talliri 

ArraoRtare  conp'essivt 

ku\ 

Oro  In  mcnete 

Oro  il  verihe 

Arg  ut* 

it.L  scorta  nrta.l  ca 

1881      .     . 

.     .         139,943.8 

30,392.6 

1,136.1 

171,472.6 

1886      .     . 

.     .         133.972.4 

36,373.7 

1,126.4 

171,472.5 

1891      .     . 

.     .         187,465.7 

22,913.6 

1,125.7 

211,505.0 

1893      .     . 

.     .         296,038.0 

64,341.4 

1,125.7 

861,505.1 

1895       .     . 

.     .        350,8130 

1,125.7 

351,938.7 

1897      .     . 

.     .        600,000.0 

600,000.0 

V. 

L'esposizione  dei  fatti,  ora  raccolti,  ci  porta  forse  a  concludere, 
che  la  ripresa  dei  pasramenti  metallici  sia  un  vano  e  disperato  tenta- 
tivo là  dove  non  esistano  rigogliose  quelle  condizioni  naturali  di  ri- 
sveglio economico,  di  cui  ci  offersero  un  saggio  l'Inghilterra  nel  1815- 

(1)  Da  prospetti  riprodotti  dal  Lorini,  op.  cit.,  pag.  78. 
(2>  Science  de$  financex,  3»  ediz.,  voi.  II,  pag.  692. 
(8)  Pareto,  Cout»  d'economie  politique,  pag.  825. 


PER  IL  RIPRISTINO  DELLA  CIRCOLAZIONE  NORMALE  181 

1819  con  l'improvviso  fiotto  della  sua  produzione  industriale  e  la 
Russia  con  l'invidiabile  opulenza  delle  sue  miniere? 

Non  mi  sembra  di  dover  sottoscrivere  una  sentenza  così  severa. 

Certamente  così  nella  vita  politica  degli  Stati  come  in  quella 
economica  delle  Nazioni  non  conviene  dare  la  preferenza  agli  spe- 
dienti  meccanici  sulle  forze  organiche,  da  cui  il  processo  sociale  con- 
segue e  moto  e  svolgimento.  Troppo  è  complessa  la  struttura  e  la 
azione  della  società  umana,  anche  se  oggetto  di  studio  in  una  sola 
nazione,  per  supporre  che  uno  stato  morbido  così  profondo,  quale 
quello  d'una  circolazione  inquinata,  possa  trovar  scampo  per  effetto 
di  temporanei  artifici,  piìi  o  meno  improvvisati.  All'opposto  è  giuo- 
coforza  tener  sempre  presenti  le  condizioni  generali  e  particolari  del 
circolo  d'interessi  e  di  forze,  su  cui  si  opera.  Occorre  coordinare  le 
singole  provvisioni,  che  a  quello  son  proprie  e  quasi  connaturali.  Né 
vale  il  violentare,  sotto  la  pressione  del  desiderio  del  bene,  il  pro- 
cesso dei  fattori  predisposti  a  coordinare  l'azione  politica  e  legisla- 
tiva, ma  giova  promuovere  un  lento,  ma  progressivo,  adattamento  di 
quanto  si  va  divisando  al  loro  corso  normale.  Solo  in  tal  guisa  il  di- 
segno iniziato  troverà  in  quelli  conforto  e  sicuro  compimento. 

Ferma  tale  premessa  una  risposta  all'angoscioso  dubbio,  sopra 
formulato,  non  si  può  dare  se  non  tenendo  conto  del  grado  di  svi- 
luppo delle  singole  nazioni  e  della  intrinseca  efficacia  delle  forze  na- 
turali, etniche  e  storiche,  su  cui  si  può  contare  per  il  loro  avanza- 
mento futuro.  Considerare  uguali  tutte  le  nazioni,  prescindendo  dai 
caratteri  differenziali  proprii  al  loro  svolgimento  storico,  è  cozzare 
contro  la  realtà.  Non  altrimenti  se  si  volesse,  con  un  metodo  compa- 
rativo ormai  superato,  identificare  il  processo  biologico  d'un  corpo 
animale  con  l'evoluzione  della  società  uméma.  Vi  sono  d'altronde,  e 
vi  furono,  popoli  così  stazionarii  e  decadenti  da  non  potervisi  rico- 
stituire un  regime  monetario  al  di  sopra  del  grado  di  corruzione  o 
di  depressione,  in  cui  esso  era  caduto.  Ma,  allorquando  la  popola- 
zione col  suo  movimento  riproduttivo  può  compensare  ogni  perdita 
e  fiancheggiare  ogni  espansione,  quando  la  genialità  della  razza  crea 
nuove  forme  di  lavoro  e  di  produzione,  quando  la  terra  può  dare  un 
reddito  nazionale,  anche  superiore  agli  sforzi  fatti  per  rinnovarlo, 
quando,  nonostante  tutte  le  subite  delusioni,  si  comprende  la  forza 
della  accumulazione  e  del  risparmio,  quando  vi  è  nel  popolo  una 
energia  collettiva  tanto  salda  da  saper  mantenere  e  difendere  la  pro- 
pria indipendenza  politica,  non  è  da  dubitare  che  così  fermo  volere 
non  riesca  altresì  a  preparare  e  a  secondare  le  vie  più  opportune  e 
pili  efficaci  per  riconquistare  con  la  rinnovata  purezza  del  sistema 
monetario  anche  la  indipendenza  economica. 

Giulio  Alessio. 


i 


LE  TASSE  SULLE  VENDITE,  SUL  LUSSO 

E  SULLA  CIFRA  D'AFFARI  ALL'  ESTERO  ED  IN  ITALIA 


I. 


La  legislazione  tributaria  del  periodo  della  guerra,  elaborata 
sotto  la  pressione  delle  sue  formidabili  esigenze  finanziarie  e  nella 
urgenza  di  sopperirvi,  si  volse  da  una  parte  ad  aggravare,  con  pro- 
gressivi inasprimenti,  i  tributi  esistenti,  e  dall'altra  a  crearne  dei 
nuovi. 

Questi  possono  distinguersi  in  due  categorie  ben  diverse  fra  di 
loro.  Alcuni  ebbero  carattere  di  veri  e  propri  tributi  straordinari  di 
guerra,  e  sono  essenzialmente  quelli  che  colpirono  coloro  che  realiz- 
zarono per  causa  della  guerra  profitti  straordinari  o  che  godettero 
di  esenzioni  dagli  obblighi  personali  della  mobilitazione.  Altri,  in- 
vece, rappresentano  nuovi  tributi  di  carattere  ordinario  che  colpi- 
scono manifestazioni  economiche  che  prima  andavano  esenti  e  che 
le  maggiori  esigenze  fiscali  hanno  reso  necessario  di  chiamare  a  con- 
tributo. 

I  primi  rappresentano  nel  nostro  firmamento  tributario  stelle 
filanti  :  i  secondi  vi  costituiscono  invece  vere  costellazioni  perma- 
nenti, destinate  a  rimanervi  per  fronteggiare  una  situazione,  nella 
quale  al  declinare  delle  risorse  straordinarie  dei  tributi  di  guerra 
che  prelude  alla  loro  non  lontana  estinzione  (1),  non  si  accompagna 
la  cessazione  dei  carichi  e  degli  oneri  che  la  guerra  ha  lasciato  dietro 
di  sé  in  duro  retaggio,  quali  gli  interessi  del  gigantesco  debito  pub- 
blico, il  carico  delle  pensioni  di  guerra,  le  spese  delle  ricostnizioni 
delle  terre  devastate. 

Tra  questi  nuovi  tributi,  creati  affrettatamente  sotto  l'incalzare 
del  fabbisogno,  principalissimi  per  la  entità  del  rendimento,  sono 
le  tasse  sui  pagamenti,  sulle  vendite,  sugli  scambi,  sul  lusso,  ec-c., 
che  sotto  diversi  nomi  e  con  vario  ordinamento,  sono  state  introdotte 
nelle  legislazioni  finanziarie  di  molti  paesi,  e  che  ovunque  vanno  ora 

(1)  Le  entrate  per  imposte  sui  sopraprofitti  di  ;guerra  e  sugli  aumenti  di 
patrimonio  per  causa  di  guerra  cominciano  col  primo  semestre  del  corrente 
esercizio  1921-22  la  loro  parabola  discendente.  Esse  infatti  che  erano  ammon- 
tate nel  primo  semestre  dell'esercizio  1920-21  a  lire  807,461,076,  nel  secondo 
semestre  dello  stesso  esercizio  salirono  a  lire  1,097,061,403  per  discendere  nel 
primo  semestre  del  corrente  esercizio  1921-22  a  lire  99i8,433,201. 


LE  TASSE  SULLE  VENDITE,   SUL  LUSSO  183 

trasformandosi  dal  loro  primo  imperfetto  ordinamento,  e  assumendo 
un  assetto  più  stabile  ed  una  sistemazione  più  organica  ed  ampia. 
Ck)sì  principalmente  avvenne  in  Francia,  colla  recente  istituzione 
della  tassa  sulla  cifra  di  affari  in  sostituzione  delle  precedenti  tasse 
sui  pagamenti  e  sulle  vendite. 

Non  è  compito  di  questo  studio  un'indagine  teorica  sulla  natura 
di  tali  tributi,  che  rappresentano  forse  un  ibrido  tra  le  tasse  sui  con- 
sumi, quelle  sugli  affari,  e  le  imposte  sui  redditi  :  ma  che  di  fatto 
colpiscono  il  reddito  in  quanto  è  speso  dal  contribuente  o  nei  con- 
sumi di  lusso,  se  la  tassazione  è  ancora  limitata  a  questi,  o  anche  nei 
consumi  normali,  dove  ha  essa  già  assunto  una  base  più  larga  ed 
estensiva,  la  quale  però  ovunque  non  comprende  i  consumi  di  carat- 
tere alimentare  e  di  più  stretta  necessità  per  la  vita. 

I  redditi  risparmiati  sfuggono  invece  completamente  a  questa 
imposizione,  che  ha  in  ciò  una  giustificazione  di  ordine  economico 
particolarmente  apprezzabile  nell'attuale  situcizione  di  eccesso  di  con- 
sumo sulla  produzione,  oltre  alla  giustificazione  di  ordine  finanziario 
riposta  nelle  cospicue  risorse  di  cui  siffatta  imposizione  può  essere 
feconda,  a  rimedio  di  situazioni  finanziarie,  così  profondamente  dis- 
sestate da  non  potere  trovare  adeguato  conforto  nei  consueti  ritocchi 
finanziari  di  limitato  rendimento.  Non  vi  ha  dubbio  che  si  tratta 
di  un'imposta  che  mal  resiste  alla  critica  scientifica  astratta,  poiché 
essa  non  ha  alcun  contenuto  di  progressività,  né  di  personalità:  e 
anzi  prescinde  affatto  dalla  capacità  contributiva  del  cittadino.  È 
una  specie  di  taglia,  di  falcidia,  compiuta  in  occasione  di  un  atto 
di  acquisto  o  di  un  affare  attraverso  il  quale  si  sorprende  e  si  col- 
pisce il  contribuente.  La  giustificazione  di  queste  tasse  è  essenzial- 
mente pratica,  in  relazione  alla  situazione  così  desolata  dei  bilanci 
statali,  e  risiede  nel  fatto  che  esse,  potendo  avere  una  base  molto 
larga,  sono  suscettive  di  un  rendimento  cospicuo  anche  con  aliquote 
mod^e,  e  senza  eccessive  diflBcoltà  di  accertamento  e  di  riscossione. 

Questi  tributi  consentono,  infcitti,  di  colpire  i  consumi  di  earat-" 
tere  generale  che  non  siano  ancora  soggetti  a  quelle  particolari  tas- 
sazioni di  fabbricazione,  di  consumo  o  di  vendita,  che  colpiscono, 
ad  es.,  il  caffè,  lo  zucchero,  il  vino,  i  generi  di  monopolio,  ecc.  ecc. 
Il  che  rende  evidente  la  loro  notevole  potenzialità  di  rendimento, 
pur  mantenendone  moderate  le  aliquote. 


II. 

La  vicenda  legislativa  di  queste  tasse  si  presenta  particolarmente 
caratteristica  in  Francia.  Un  primo  disegno  di  legge  in  data  12  giu- 
gno 1917,  presentato  dal  ministro  delle  finanze  Thierry,  diretto  fra 
l'altro  a  stabilire  un'imposta  sulle  vendite  effettuate  da  tutti  i  com- 
merciajiti,  non  ebbe  fortuna.  Ma  poco  dopo  la  legge  31  dicem- 
bre 1917,  accanto  ad  una  tassa  di  venti  centesimi  per  cento  franchi 
per  tutti  i  titoli  di  qualsiasi  natura  constatanti  pagamenti  o  versa- 
menti di  somme,  sia  a  commercianti  per  causa  diversa  dall'esercizio 
del  loro  commercio,  sia  a  non  commercianti,  istituiva  all'art.  23  una 
tassa  di  venti  centesimi  per  cento  franchi  sui  pagamenti  per  vendite 


184  LE  TASSE  SULLE  VENDITE,   SUL  LUSSO 

al  minuto  o  al  consumo  di  ogni  merce,  derrata,  somministrazione  od 
oggetto  qualunque,  quando  i  pagamenti  superano  i  150  franchi,  e 
su  tutti  i  titoli  da  consegnarsi  dai  venditori  in  prova  di  pagamenti 
inferiori  ai  150  franchi,  ma  superiori  a  10  franchi.  Infine  la  stessa 
legge  (articolo  27)  stabiliva  una  tassa  del  10  per  cento  sul  pagamento 
delle  merci,  derrate,  somministrazioni  ed  oggetti  qualsiasi,  classifi- 
cati di  lusso  e  venduti  al  minuto  o  al  consumo  sotto  qualunque  forma 
da  commercianti  o  da  non  commercianti,  e  una  tassa  del  10  per  cento 
(art.  28)  sulle  spese  relative  all'alloggio  o  al  consumo  sul  posto  di  be- 
vande 0  derrate  alimentari,  fatte  in  stabilimenti  classificati  di  lusso. 

La  legge  entrò  in  vigore  il  1°  aprile  1918  e  il  ministro  delle  fi- 
nanze Klotz,  nella  sua  relazione  presentata  alla  Camera  il  13  no- 
vembre 1917,  ne  presumeva  un  provento  erariale  di  1,300,000,000  di 
franchi.  11  gettito  fu  invece  di  franchi  210,000,500  nell'anno  1918,  di 
franchi  629,144,500  nell'anno  1919  e  di  franchi  804,432,000  nel  1920, 
anno  nel  quale  dal  1°  luglio  cominciò  ad  essere  applicata  l'imposta 
sulla  cifra  di  affari  sostituita  a  quella  di  cui  agli  art.  23  a  28  della 
legge  31  dicembre  1917. 

L'imposta  sulla  cifra  di  affari  fu  istituita  con  l'articolo  50  della 
legge  25  giugno  1920,  nella  misura  dell'I  per  cento,  oltre  ad  un  de- 
cimo a  favore  dei  comuni,  sulla  cifra  di  affari,  quale  è  definita  dal- 
l'art. 62  della  legge;  salva  la  elevazione  al  3  per  cento  per  l'alloggio  e 
i  consumi  in  stabilimenti  di  seconda  categoria,  al  10  per  cento  per 
l'alloggio  e  i  consumi  in  stabilimenti  di  prima  categoria,  e  per  le 
vendite  di  oggetti  o  somministrazioni  di  lusso  (articolo  63).  Un  de- 
creto del  27  giugno  1920  stabilì  la  classificazione  degli  oggetti  e  som- 
ministrazioni di  lusso,  e  il  regolamento  25  luglio  stesso  anno  dettò 
le  norme  per  la  esecuzione  della  legge.  Sono  esenti  dalla  tassa  le  ven- 
dite di  cose  destinate  alla  esportazione:  vi  sono  invece  soggette  le 
cose  importate  dall'estero  nella  misura  dell'I.  10  per  cento  o  del  10 
per  cento  a  seconda  della  loro  natura,  se  di  uso  comune  o  di  lusso, 
in  quanto  dirette  a  privati,  e  invece  sempre  dell'I. 10  per  cento  se  di- 
rette a  commercianti  per  il  loro  commercio. 

La  legge  31  luglio  1920  previde  per  quell'anno  un  introito  rli 
franchi  2,084,333,000  dalla  imposta  sulla  cifra  di  affari  :  ma  le  riscos 
sioni  non  salirono  che  a  franchi  942,187,500.  Per  l'anno  1921  la  pre- 
visione fu  stabilita  in  franchi  4,998,000,000:  senonchè,  vista  la  poca 
corrispondenza  del  prodotto,  con  la  legge  di  finanza  30  aprile  1921 
la  previsione  venne  ridotta  a  franchi  2,900,000,000  oltre  franchi  12 
milioni  per  la  tassa  sul  lusso  a  decorrere  dal  1"  aprile;  però  a  tutto 
novembre  1921  le  riscossioni  non  avevano  dato  che  1,724,219,000 
franchi. 

È  interessante  seguire  l'andamento  delle  riscossioni,  che  segna 
un  costante  regresso,  solo  arrestatosi  negli  ultimi  mesi,  che  invece 
denotano  una  sensibile  ripresa. 

Tra  i  proventi  mensili,  i  seguenti  dimostrano  tale  curva  di  ri- 
scossione: 

Settembre  1920  .  .  fr.  «92,791.500  Giugno  1921  .  .  ,  fr.  146,699,000 
Dicembre  1920  .  .  ^  203,175,000  Settembre  1921  .  .  „  167,:^80,0(X> 
Marzo  1921.     ....     147,628000      Novembre  1921     .  „     171,894,000 


E  SULLA  aFRA  D'AFFARI  ALL'ESTERO  ED  IN  ITALIA  186 

La  riscossione  nel  1921  fu  in  complesso  di  franchi  1,897,457,000, 
con  una  deficienza  di  quasi  tre  miliardi  sulla  previsione  originaria, 
e  di  1,002,543,000  sulla  previsione  rettificata  il  30  aprile  1921.  Per 
l'esercizio  1922,  nel  bilancio  presentato  agli  uflBci  della  Camera  nella 
seduta  dell'S  luglio  1921,  il  ministro  delle  finanze  Paul  Doumer,  per 
fronteggiare  il  disavanzo  di  3  miliardi  nel  bilancio  ordinario,  pro- 
pose il  raddoppio  della  aliquota  della  tassa  sulla  cifra  degli  affari, 
portandola  dall'i  al  2  per  cento  e  ripromettendosene  così  un  provento 
totale  di  franchi  5,600,000,000.  Ma  le  Commissioni  parlamentari  non 
approvarono  la  proposta,  e  respingendo  ogni  maggiore  imposizione, 
ritornarono  il  bilancio  al  Governo,  perchè  provvedesse  a  eliminare 
il  disavanzo  con  economie. 

Questa  deliberazione  fu  da  alcuni  additata  come  esempio  all'Italia. 
Esempio  però  assai  pericoloso  poiché  alla  realtà  di  un  sacrificio  dei 
contribuenti,  sia  pure  grave  ma  efficace  a  migliorare  decisamente 
la  situazione  del  bilancio,  fu  preferita  la  speranza,  se  non  la  illusione, 
di  economie,  le  quali  anziché  far  respingere  la  proposta  del  nuovo 
aggravio,  avrebbero  potuto  —  se  attuabili  —  concorrere  con  esso  ad 
affrettare  il  risanamento  di  quella  finanza  statale,  che  non  comprende 
nel  suo  bilancio  normale  o  ordinario  oneri  e  carichi  cospicui,  come 
quelli  delle  pensioni  di  guerra  e  delle  ricostruzioni,  che  hanno  per 
contropartita  le  riparazioni  dovute  dalla  Germania. 


III. 

Le  caratteristiche  principali  della  leg^e  francese  sulla  imposta 
sulla  cifra  di  affari  sono  le  seguenti: 

Essa  si  uniforma  al  sano  principio  di  una  moderata  aliquota  e 
di  una  larga  base,  requisiti  fondamentali  per  un  elevato  gettito.  È 
vero  che  per  le  vendite  delle  cose  di  lusso  la  aliquota  si  eleva  fino  al 
10  per  cento  e  sale  anzi  per  i  vini  e  liquori  fino  al  15  per  cento  e  al 
25  per  cento,  ma  il  rendimento  di  gran  lunga  maggiore  della  tassa  è 
dato  dagli  affari  colpiti  colla  aliquota  minore,  e  cioè  coll'l.lO  per 
cento  ivi  compreso  il  decimo  per  i  comuni.  La  tabellina  seguente  ben 
lo  dimostra  per  il  primo  semestre  del  1921. 

Al  1.10%  A1S%  Al  10%  Totale 

Gennaio  1921  ....  152,4Q0.800  2,283,176  28,713,785  183,487,763 

Febbraio  1921.      .     .     .  128,783.370  2,00>J,  74  20,90P,083  151,695,134 

Marzo  1921      ....  125,934,830  2,474.885  J9,fi92,640  148,102,362 

Aprile  1921      ....  132.494,730  2.884,641  22.2.35,5»- 8  157,574,939 

Maggio  1921   ....  121,391,070  2,213,410  22,231,148  146,969,191 

Tale  distribuzione  del  gettito  della  tassa  bene  si  spiega  ove  si 
rifletta  che  essa,  nella  sua  aliquota  dell'I. 10  per  cento,  colpisce  tutti 
coloro  che  abitualmente  od  occasionalmente  acquistano  per  riven- 
dere o  compiono  atti  inerenti  a  professioni  assoggettate  all'imposta 
dei  benefici  commerciali  e  industriali  o  esercitano  imprese;  e  che  la 
cifra  d'affari  sulla  quale  viene  liquidata  la  tassa  é  data,  per  i  vendi- 
tori di  merci,  derrate,  oggetti  qualsiasi,  dall'ammontare  della  ven- 


186  LE  TASSE  SULLE  VENDITE,   SUL  LUSSO 

dita,  e  per  gli  altri  contribuenti  dall'importo  dell©  provvigioni,  sen- 
serie, prezzi  di  locazione,  interessi,  sconti,  aggi  e  altri  profitti. 

Vanno  esenti  dalla  imposta  le  vendite  e  gli  affari  relativi  al  pane, 
ai  prodotti  monopolizzati,  ai  servizi  pubblici  a  tariffa  controllata,  alle 
assicurazioni,  ed  inoltre  quelli  già  colpiti  da  imposta  speciale,  come 
le  operazioni  di  borsa,  gli  affari  conclusi  da  società  di  capitalizza- 
zione e  quelli  relativi  agli  spettacoli  e  divertimenti.  La  tassa  del  3  per 
cento  colpisce  le?  somministrazioni  di  bevande  e  derrate  alimentari 
negli  stabilimenti  di  seconda  categoria,  e  quella  del  10  per  cento  le 
vendite  al  minuto  o  per  il  consumo,  di  merci  e  oggetti  classificati  di 
lusso  e  le  somministrazioni  di  bevande  o  derrate  alimentari  negli 
stabilimenti  di  prima  categoria.  Sono  inoltre  colpite  col  15  per  cento 
e  col  25  per  cento  rispettivamente  le  vendite  di  bottiglie  di  vini  e  di 
liquori. 

Caratteristica  veramente  peculiare  della  costruzione  di  questa 
imposta  e  della  sua  riscossione,  è  che  essa  colpisce  propriamente  la 
cifra  d'affari  complessiva  del  contribuente,  quale  risulta  dai  suoi  re- 
gistri, e  non  mai  l'atto  singolo  di  vendita,  neppure  per  le  vendite 
al  diretto  consumatore  e  nemmeno  per  le  categorie  di  vendite  col- 
pite colle  aliquote  più  alte.  Di  conseguenza  la  tassa  non  deve  mai 
essere  pagata  dal  compratore,  né  quindi  mai  deve  constare  il  suo 
pagamento  da  registrazione  sulla  fattura  rilasciata  al  compratore,  o 
da  apposizione  di  marche  da  bollo  su  di  essa.  La  tassa  diventa  un 
elemento  del  costo,  un  coefficiente  del  prezzo  di  vendita. 

Tale  grande  semplificazione  a  tutto  vantaggio  del  compratore  e 
del  pubblico  è  però  duramente  sentita  dal  commerciante,  sul  quale 
si  aggrava  il  controllo  fiscale  diretto  a  fronteggiare  la  maggiore  faci- 
lità delle  frodi.  Ogni  commerciante  deve,  infatti,  avere  contabilità  che 
permettano  di  determinare  l'importo  delle  sue  transazioni,  e  tenere 
libri  su  cui  segnare  l'importo  di  ciascuna  vendita  o  affare,  giorno  per 
giorno,  e  deve,  oltre  a  fornire  agli  agenti  fiscali  tutti  gli  elementi  oc- 
correnti, rimettere  ogni  mese  agli  uffici  finanziari  un  estratto  indi- 
cante l'importo  totale  degli  affari  fatti  durante  il  mese  precedente, 
distinguendo  gli  affari  in  base  alle  categorie.  Su  questi  estratti  si  li- 
quida l'ammontare  delle  tasse  mensili  corrispondenti  alle  diverse  ali- 
quote. Gravi' penalità  assicurano  l'osservanza  di  questi  obblighi. 

Il  concetto  di  tale  ordinamento  è  evidentemente  quello  di  fare 
dei  commercianti  gli  agenti  percettori  della  tassa  per  conto  dello 
Stato,  evitando  ogni  molestia  al  pubblico  dei  compratori,  ma  non  a 
torto  si  è  detto  che  una  delle  ragioni  per  cui  il  rendimento  della  im- 
posta si  è  mantenuto  cosi  inferiore  alla  previsione,  è  forse  appunto 
quella  che  i  commercianti  mal  volentieri  si  prestano  a  questo  com- 
pito, ed  hanno  inoltre  un  interesse  diretto  e  immediato  —  anziché 
solo  quello  indiretto  di  favorire  il  compratore,  come  da  noi  —  nel 
sottrarsi  al  pagamento  della  tassa. 

Tale  è  nelle  sue  grandi  linee  generali  l'ordinamento  della  im- 
posta sulla  cifra  d'affari,  quale  esiste  in  Francia,  e  che  differisce  pro- 
fondamente dal  sistema  adottato  dal  legislatore  belga  nella  legge  28 
agosto  1921  che  crea  nuove  risorse  fiscali  (1),  La  tassa  istituita  nel 
Belgio  con  tale  l^ge,  più  che  una  imposta  sulla  cifra  d'affari,  è  una 

(1)  Moniteur  Belge,  30  settembre  1921,  n.  8442. 


E  SULLA  CIFRA  D' AFFARI  ALL'ESTERO   ED  IN  ITALIA  187 

vera  e  propria  tassa  sulle  vendite,  poiché  essa  colpisce  colla  aliquota 
dell'I  per  cento  sull'importo  del  prezzo  «  ogni  vendita  o  scambio  di 
merci,  ogni  trasmissione  tra  viventi,  a  titolo  oneroso,  di  beni  mobili 
per  loro  natura  » . 

È  notevole  però  che  sono  esenti  dalla  tassa,  oltreché  le  vendite 
di  derrate  alimentari,  e  quelle  di  prezzo  inferiore  a  30  franchi  o 
anche  di  150  se  riguardano  prodotti  delle  masserie,  delle  coltiva- 
zioni, dell'allevamento  e  del  commercio  del  carbon  fossile,  anche  le 
vendite  «  qualunque  ne  sia  l'importo,  fatte  dai  bottegai,  dai  venditori 
al  minuto  direttamente  ai  privati  per  uso  loro  personale  e  per  uso 
famigliare  »  (art.  49,  n.  li).  Questa  restrizione  limita  evidentemente 
la  portata  della  imposizione  sàie  sole  vendite  fra  commercianti,  poi- 
ché quelle  fatte  ai  consumatori  rientrano  nelle  esenzioni  di  cui  al 
nimnero  11. 

Il  sistema,  di  riscossione  è  profondamente  diverso  da  quello  fran- 
cese, in  dipendenza  diretta  della  diversa  costruzione  della  tassa.  Non 
è  più  il  complesso  degli  affari  del  contribuente  che  è  colpito,  ma  ogni 
singola  vendita,  per  cui  la  tassa  non  è  più  dovuta  dal  solo  commer- 
ciante, venditore,  ma  invece  solidamente  dal  venditore  e  dal  compra- 
tore. Inoltre  la  tassa  non  si  riscuote  già  in  base  alle  risultanze  com- 
plessive dei  registri  del  venditore,  ma  invece  per  ogni  singolo  atto 
di  vendita  e  mediante  apposizione  obbligatoria  di  marche  da  bollo 
sulla  ricevuta  del  pagamento,  il  cui  rilascio  è  anch'esso  obbligatorio. 
I  registri  non  servono  che  di  controllo,  e  a  tale  scopo  sono  prescritti, 
cioè  «  per  assicurare  la  riscossione  della  tassa»  (articolo  33). 

L'istituzione  così  recente  di  tale  tassa  non  permette  di  rilevarne 
e  commentarne  i  risultati,  che  però  certo  devono  essere  proporzional- 
mente inferiori  a  quelli  della  imposta  sulla  cifra  di  affari  in  Francia, 
data  che  questa  colpisce,  mentre  quella  esenta,  le  vendite  al  dettaglio 
ai  consumatori  fatte  nelle  botteghe. 

Tasse  analoghe  sono  state  introdotte  anche  in  altri  paesi.  In  Ger- 
mania fu  dapprima  istituita  colla  legge  26  giugno  1916  una  tassa 
sulle  operazioni  commerciali,  liquidabile  sull'ammontare  dei  paga- 
menti ricevuti  da  commercianti.  Tale  tassa  colla  legge  28  giugno  1918 
fu  trasformata  in  tassa  sulla  cifra  d'affari,  la  cui  aliquota  fu  nel  di- 
cembre 1919  portata  all'I, i/2  per  cento,  come  tariffa  generale,  ina- 
sprita fino  al  i5  per  cento  per  alcune  merci  di  lusso-  Caratteristica  di 
tale  ordinamento,  affatto  sua  particolare,  è  che  vi  sono  anche  sog- 
getti gli  esercenti  le  professioni  liberali,  i  quali  invece  sia  in  Francia, 
che  nel  Belgio  vi  sono  esenti.  La  tassa  inoltre  colpisce  non  solo  le 
vendite,  ma  anche  gli  affari,  le  locazioni  di  appartamenti,  la  custo- 
dia dei  valori  e  oggetti  preziosi,  ecc.  ecc.  Anche  in  Germania,  come 
in  Francia,  una  parte  dei  proventi  é  destinata  ai  comuni,  ed  altra  ai 
bilanci  degli  stati  particolari.  Questa  tassa  nel  1918  diede  un  gettito 
di  150,588,000  marchi,  nel  1919  di  686,800,000,  nel  1920  di  3,102,000,000. 
Attualmente  la  Germania  nel  progetto  di  risanamento  della  finanza 
dell'impero,  presentato  alla  Commissione  delle  riparazioni,  ne  eleva 
le  aliquote  al  2  per  cento. 

Anche  in  Serbia  esiste  una  imposta  supplementare  sulle  case  di 
commercio,  diretta  a  colpire  il  giro  degli  affari  in  genere.  Essa  deter- 
mina una  previsione  di  gettito  di  400  milioni  di  dinari. 

Nel  dicembre  1921  nel  Portogallo  venne  pure  istituita  una  «  tassa 


188  LE  TASSE  SULLE  VENDITE,   SUL  LUSSO 

sopra  il  valore  delle  transazioni  »  che  colpisce  tutti  coloro  che  eserci- 
tano qualsiasi  commercio,  professione,  arte  od  affari.  Tale  lassa  col- 
pisce colla  aliquola  del  4  per  cento  gli  affari  di  vendita  di  gemme  e 
di  cose  di  lusso,  del  3  per  cento  quelli  degli  alberghi  e  ristoranti  di 
primo  ordine,  del  2  per  cento  quelle  degli  alberghi  e  ristoranti  di  mi- 
nore importanza,  gli  spettacoli  pubblici  quando  vi  si  rappresentano 
produzioni  straniere  e  con  artisti  stranieri.  Inoltre  colpisce  con  tale 
aliquota  tutte  le  transazioni  sui  beni  mobili,  su  oggetti  qualsiasi, 
sulle  forniture  allo  Stato.  Colla  aliquota  dell'i  per  cento  sono  colpiti 
tutti  gli  altri  affari,  ivi  compresi  i  profìtti  bancari.  La  imjwsta  è  pa- 
gata mensilmente  dal  venditore.  Questa  costruzione  è  evidentemente 
ispirata  al  tipo  francese,  salvo  la  diversità  delle  aliquote. 

Progetti  di  legge  in  senso  analogo  sono  in  corso  di  elaborazione 
in  Romania  e  in  Czeco  Slovacchia. 

In  Inghilterra  invece  l'istituzione  di  questa  tassa  fu  nettamente 
respinta  i>er  la  considerazione  che  la  tassa  su^li  affari  colpisce  anche 
chi  ha  perduto,  e  che  inoltre  questa  tassa  danneggerebbe  il  commer- 
cio di  mediazione,  così  fiorente  in  Inghilterra,  aggravando  le  provvi- 
gioni. 

La  Svizzera  preferì  a  questa  tassa  una  nuova  imposta  straor- 
dinaria di  guerra  (28  novembre  1920)  suppletiva  a  quella  statale 
del  1915. 


IV. 

L'attuale  legislazione  italiana  è  in  questa  materia  frammentaria, 
inorganica  e  incompleta.  Numerose  leggi  regolano  svariate  imposte 
che  colpiscono  singole  categorie  di  vendite  ed  affari,  con  diversità  di 
sistemi  di  riscossione,  e  disparità  di  aliquote,  talvolta  complesse  e 
defatiganti.  Gli  inconvenienti  di  una  tale  situazione  sono  gravi  e  si 
riassumono  in  un  gettito  limitato,  non  avendo  l'imposta  larga  base, 
né  carattere  estensivo,  e  in  complicazioni  moleste  per  l'amministra- 
zione e  per  i  contribuenti. 

L'ordinamento  vigente  fu  preceduto  da  una  fase  di  legislazione, 
che  non  ebbe  applicazione,  ma  che  deve  essere  ricordata.  Con  de- 
creto legislativo  24  novembre  1919,  n.  2163,  venne  istituita  una  tassa 
di  bollo  sulle  vendite  di  oggetti  di  lusso  e  comuni  fra  commercianti 
e  privati  consumatori  in  ragione  del  10  per  cento  del  prezzo  per  i 
primi,  quali  enumerati  in  appositi  elenchi  e  del  2  per  cento  per  i  se- 
condi. Da  tale  tassa  erano  solo  esenti  i  prodotti  alimentari  di  prima 
necessità,  i  combustibili,  il  sapone  da  bucato,  le  merci  e  generi  di 
uso  comune  fino  al  prezzo  di  lire  cinque,  ed  inoltre  le  merci  soggette 
a  speciali  tasse,  come  le  gemme,  profumerie,  bottiglie  di  vino  e  li- 
quori. La  tassa  era  a  carico  dell'acquirente  che  doveva  pagarla  all'atto 
dell'acquisto  a  mani  del  venditore,  che  era  tenuto  a  versarla  all'uf- 
ficio del  registro  col  sistema  dell'abbonamento  annuale.  Il  canone  di 
questo  era  fissato  senz'altro  per  le  vendite  e  somministrazioni  di 
lusso  nel  doppio  del  reddito  netto  di  categoria  B,  accertato  nell'anno 
precedente  agli  effetti  della  ricchezza  mobile,  e  nel  quinto  di  tale  red- 
dito netto  per  le  vendite  e  somministrazioni  di  cose  di  uso  comune. 
Per  coloro  che  esercitassero  promiscuamente  la  vendita  di  cose  di 


E  SULLA  CIFRA  D'AFFARI  ALL'ESTERO  ED  IN  ITALIA  183 

lusso  e  comuni,  il  commercio  all'ingrosso  e  quello  al  minuto,  quello 
di  cose  soggette  alla  tassa  e  di  cose  esenti,  il  canone  doveva  deter- 
minarsi dall'intendente  di  finanza  sulla  base  del  riparto  del  reddito 
netto  fra  le  diverse  branche  del  commercio  esercitato  dal  contribuente. 
Agli  agenti  fiscali  veniva  data  la  più  ampia  libertà  d'ispezione  sui 
libri  del  commerciante. 

Tale  tassa  —  il  cui  difetto  essenziale  era  quello  del  criterio  affatto 
arbitrario  preso  a  base  del  canone  di  abbonamento,  senza  alcun  reale 
riferimento  alle  somme  effettivamente  pagate  a  titolo  di  tassa  dai 
compratori  al  venditore  —  avrebbe  dovuto  andare  in  vigore  il  1°  gen- 
naio 1920.  Ma  col  decreto  8  gennaio  1920,  n.  3,  fu  procrastinata  al 
i"  febbraio  1920,  e  fu  stabilito,  fra  l'altro,  che  il  potere  deirintendente 
di  finanza,  per  la  fissazione  del  canone,  dovesse  essere  integrato  da 
una  commissione  composta  di  funzionari  finanziari  e  di  rappresentanti 
dei  commercianti.  Ma  nemmeno  con  queste  modifiche,  tale  tassa,  così 
congegnata,  doveva  entrare  in  applicazione,  perchè  poco  dopo,  e  cioè 
col  decreto-legge  26  febbraio  1920,  n.  167,  veniva  profondamente  mo- 
dificata e  trasformata  nell'attuale  tassa  di  lusso  e  sugli  scambi. 

La  nuova  tassa  differisce  sostanzialmente  dalla  precedente  sotto 
vari  aspetti,  e  fra  questi,  due  essenziali  :  il  primo  che  la  tassa  vi- 
gente, a  differenza  di  quella  del  decreto  24  novembre  1919,  non 
colpisce  la  vendita  di  cose  di  uso  comune  fatta  al  consumatore,  ma 
invece  solo  la  vendita  di  cose  di  lusso,  mentre  per  le  cose  di  uso  co- 
mune colpisce  unicamente  gli  scambi  fra  commercianti;  il  secondo 
che  non  è  piìi  ammesso  il  sistema  dell'abbonamento,  ma  invece  la 
tassa  si  esige  sulle  singole  vendite  o  scambi,  mediante  l'apposizione 
e  l'annullamento  di  marche  da  bollo. 

Sostanzialmente  il  decreto  legge  26  febbraio  1920  stabilisce  an- 
zitutto la  tassa  sulla  vendita  ai  consumatori  ed  acquirenti  di  cose  di 
lusso,  il  cui  prezzo  non  sia  inferiore  a  lire  cinque,  nella  seguente 
misura  : 

vendite  da  lire  5  a  lire  30,  lire  0.10  per  ogni  lira  o  frazione  di  lira; 

vendite  da  lire  30  a  lire  100,  lire  0.50  per  ogni  5  lire  o  frazione  di  5  lire; 

vendite  da  lire  100  a  lire  1000,  lire  1   per  ogni   10  lire  o  frazione  di 
10  lire; 

vendite  da  lire  1000  a  lire  6000,  lire  5  per  ogni  50  lire  o  frazione  di 
60  lire; 

superiori  a  lire  5000,  lire  10  per  ogni  100  lire  o  frazione  di  100  lire. 

Merci  di  lusso  sono  considerate  Cfuelle  enumerate  in  due  tabelle, 
di  cui  una  comprende  le  merci  di  lusso  per  se  stesse  e  cioè  indipen- 
dentemente dal  loro  prezzo  e  l'altra  quelle  che  sono  soggette  alla 
tassa  solo  in  quanto  il  valore  supera  il  minimo  indicato.  La  tassa  è 
a  carico  dell'acquirente  che  deve  pagarla  all'atto  dell'acquisto,  col- 
pisce anche  le  merci  importate  dirette  a  privati  e  anche  quelle  espor- 
tate da  privati.  Per  quelle  esportate  da  negozianti  o  commercianti 
la  tassa  non  era  dovuta  per  le  spedizioni  di  valore  superiore  a  lire 
mille,  limite  che  ora  venne  soppresso  con  recente  decreto-  La  tassa 
si  riscuole  colle  marche  da  bollo  doppie  apposte  a  un  libretto  di  scon- 
trini a  madre  e  figlia,  numerati  progressivamente,  con  obbligo  del 
commerciante  di  rilasciare  lo  scontrino  per  ogni  vendita.  Solo  per  le 


190  LE  TASSE  SULLE  VENDITE,   SUL  LUSSO 

vendite  di  valore  superiore  a  lire  6000  la  tassa  di  bollo  si  versa  al- 
l'ufficio del  registro  mediante  banco  giro  postale,  i  cui  estremi  de- 
vono indicarsi  sullo  scontrino.  Penalità  severissime  colpiscono  le  in- 
frazioni fraudolente  e  disciplinari  alla  legge. 

Tale  tassa  cominciò  ad  essere  applicata  solamente  col  mese  di 
marzo  1921,  e  non  appena  entrata  in  riscossione,  avrebbe  dovuto  es- 
sere raddoppiata  in  forza  della  legge  sul  prezzo  del  pane  27  feb- 
braio 1921,  se  l'attuazio'ne  di  tale  raddoppio  non  fosse  stata  sospesa 
col  Regio  decreto  26  giugno  1921,  n.  963. 

Collo  stesso  decreto-legge  26  febbraio  1920,  n.  167,  venne  inoltre 
istituita  la  tassa  sugli  scambi  in  sostituzione  di  quella  sulle  vendite 
delle  cose  di  uso  comune  stabilita  col  precedente  decreto  24  novem- 
bre 1919.  Questa  tassa  sugli  scambi  delle  cose  non  di  lusso  costituisce 
per  la  sua  larghissima  base  negli  altri  paesi  la  maggiore  entrata  di 
questa  categoria  di  tributi,  malgrado  la  sua  minore  aliquota.  Dai 
dati  avanti  esposti  risulta  che  in  Francia  essa  contribuisce  per  oltre 
i  4/5  nell'importo  complessivo  della  tassa  sulla  cifra  d'affari.  Non 
così  da  noi  e  ciò  per  due  ragioni  :  la  prima  che  questa  tassa  riguarda 
e  colpisce  solo  gli  scambi  e  le  vendite  fra  commercianti,  e  non  quelle 
da  queste  ai  consumatori,  la  seconda  che  l'aliquota  ne  è  fissata  solo 
nel  0.30  per  cento  anziché  nell'i  per  cento  come  in  Francia. 

A  tale  tassa  del  0.30  per  cento,  comprensiva  di  quella  comune  e 
generale  di  bollo,  va  soggetto  ogni  scambio  di  materia  prima,  pro- 
dotti e  merci  intervenuto  a  causa  dell'esercizio  industriale  e  commer- 
ciale tra  industriali,  commercianti  ed  esercenti,  non  risultante  da 
scrittura  registrata.  La  tassa  è  a  carico  del  debitore,  si  riscuote  con 
applicazione  di  marca  da  bollo,  non  colpisce  le  vendite  di  merci 
esportate  o  importate,  salvo  che  la  ditta  estera  mittente  o  destinata- 
ria abbia  una  sede  nel  Regno,  applicandosi  in  altro  caso  la  tassa 
normale  di  bollo  in  ragione  del  0.20  per  cento.  Sono  esenti  gli  scambi 
di  prodotti  alimentari  di  prima  necessità,  di  combustibili,  saponi  da 
bucato,  generi  di  monopolio.  La  responsabilità  del  pagamento  è  so- 
lidale tra  chi  acquista  la  merce  e  chi  la  vende. 

A  lato  di  queste  due  tasse  principali  altre  ne  esistono  nella  nostra 
l^slazione  che  colpiscono  singole  categorie  di  vendite  o  di  affari. 

Così  le  note  e  i  conti  degli  alberghi,  locande  e  pensioni  e  quelle 
dei  ristoranti,  trattorie  e  caffè  sono  colpite  con  due  tasse  separate  e 
distinte  fra  di  loro,  con  aliquote  diverse  e  complicate- 

I  ristoranti,  trattorie  e  caffè  sono  distinti  in  cinque  classi,  e  cioè: 
di  lusso,  di  prima,  seconda,  terza  categoria  e  minori.  La  tassa  col- 
pisce diversamente  tre  quote  dell'importo  del  conto  per  ciascuna  per- 
sona: e  cioè  con  una  tassa  fìssa  di  lire  0.10  per  l'importo  del  conto 
fino  a  lire  10;  con  una  tassa  di  lire  1  per  la  classe  di  lusso,  di  lire  0.60 
per  la  prima  categoria,  di  lire  0.40  per  la  seconda,  di  lire  0.30  per  la 
terza,  per  una  seconda  quota  dell'importo  del  conto  fino  a  lire  20 
per  ciascuna  persona  per  le  prime  due  classi  e  fino  a  lire  15  per  le 
altre  due;  e  finalmente  con  una  tassa  di  lire  0.50  per  ogni  cinque  lire 
la  quota  dell'ammontare  del  conto  eccedente  le  lire  20  per  le  prime 
due  classi,  le  lire  15  per  le  altre  due.  Per  gli  esercizi  di  entità  infe- 
riore la  tassa  è  limitata  a  quella  di  bollo  di  line  0.05,  raddoppiata 
per  i  comuni  superiori  a  25  mila  abitanti. 


E  SULLA  aFRA  D'AFFARI  ALL'ESTERO  ED  IN  rTAUA  191 

La  complicazione  di  tale  tariffa  determinò  un  decreto  minista- 
riale  16  febbraio  1921,  num.  244,  col  quale  si  stabilì  che  la  tassa  debba 
applicarsi  sempre  nella  misura  stabilita  sino  a  lire  20  per  le  prime 
due  classi,  o  a  lire  15  per  le  due  successive,  se  anche  il  conto  ecceda 
le  lire  20  o  le  lire  15.  Successivamente  la  tassa  fu  ancora  ridotta. 

Per  gli  alberghi  la  tassa  è  stabilita  in  una  misura  più  semplice, 
e  cioè  per  quelli  di  lusso  in  lire  0.50  per  ogni  5  lire  o  frazione  di  5 
lire,  per  quelli  di  prima  categoria  in  lire  0.30  per  ogni  5  lire  o  fra- 
zione di  5  lire,  per  quelli  di  seconda  categoria  in  lire  0.20  per  ogni  5 
lire  0  frcLzione  di  5  lire,  per  gli  altri  in  lire  0.05  fino  a  lire  5  e  lire  0.10 
per  ogni  100  lire  o  frazione  fino  a  lire  1000,  o  in  lire  0-20  per  ogni 
lire  100  oltre  le  lire  1000.  Il  diverso  regime  di  tariffa  per  i  conti  degli 
alberghi  e  quelli  dei  ristoranti,  mentre  non  si  fonda  su  alcuna  ra- 
gione essenziale,  porta  con  sé  gravi  complicazioni  o  incertezze,  come 
nel  caso  dei  grandi  alberghi  cha  hanno  un  servizio  separato  di  risto- 
rante alla  carta,  e  come  in  quello  di  consumazioni  di  bottiglie  di 
vino  soggette  a  speciale  tassa  di  lusso  perchè  di  prezzo  superiore  a 
lire  8;  complicazione  o  incertezze  aggravate  ancora  dal  fatto  ohe  a 
questa  tassa  già  complessa  altre  se  ne  sovrappongono,  e  cioè  le  addi- 
zionali per  mutilati,  quella  turistica  e  la  tassa  di  soggiorno. 

Un'altra  tassa  speciale  colpisce  la  vendita  delle  gemme  e  dei  gio- 
ielli, regolata  dal  Testo  unico  6  gennaio  1918,  n.  135,  modificato  col- 
l'articolo  11  del  Regio  decreto  26  febbraio  1920,  n.  167.  La  tassa  è  del 
10  per  cento  sul  prezzo  degli  oggetti  di  argento,  di  prezzo  superiore 
a  lire  25,  ed  è  del  15  per  cento  sul  prezzo  degli  oggetti  d'oro,  e  sulle 
gemme.  La  tassa  è  pagata  dal  compratore,  e  del  pagamento  deve  ri- 
sultare sia  dalla  fattura,  il  cui  rilascio  è  obbligatorio,  che  dai  libri 
del  commerciante.  Anche  questa  ta'^a  avrebbe  dovuto  essere  raddop- 
piata in  applicazione  della  legge  sul  prezzo  del  pane,  ma  la  contra- 
zione che  essa  ha  dimostrato  nel  suo  rendimento,  e  la  facilità  delle 
frodi,  eccitate  dalla  elevatezza  delle  aliquote,  hanno  consigliato  di 
sospendere  tale  misura. 

/  profumi  sono  pure  soggetti  ad  una  tassa  speciale,  riscossa  me- 
diante bolli  apposti  agli  oggetti  stessi,  e  che  attualmente  dopo  varie 
vicende  e  modifiche  e  rimaneggiamenti  è  stabilita  nel  10  per  cento 
fino  al  prezzo  di  lire  5,  nel  20  per  cento  da  oltre  lire  5  fino  al  prezzo 
di  lire  100,  nel  30  per  cento  per  i  prezzi  superiori  (Regio  decreto  21 
ottobre  1921,  n.  1526). 

Le  specialità  medicinali  conservano  il  trattamento  fiscale  del  10 
per  cento,  che  avevano  i  profumi,  prima  del  detto  inasprimento. 

/  vini,  li{uori  e  acque  minerali  in  bottiglie  pure  essi  sono  assog- 
gettati ad  una  tassa  di  vendita  regolata  dai  decreti-legge  24  novem- 
bre 1918,  n.  2086,  23  febbraio  1919,  n.  255,  22  giugno  1919,  n.  1142,  e 
dal  Regio  decreto  24  novembre  1919,  n.  2177.  Anche  di  questa  tassa 
fu  stabilito  il  raddoppio  con  la  legge  sul  prezzo  del  pane  22  feb- 
braio 1921,  raddoppio  che  fu  sospeso  col  Regio  decreto  26  giugno  1921, 
n.  953,  finché  col  Regio  decreto  21  agosto  1921,  n.  1260,  venne  stabi- 
lita la  attuale  tariffa  che  colpisce  la  vendita  in  ragione  del  10  per 
cento  del  prezzo  della  bottiglia-  Dalla  tassa  sulle  acque  minerali, 
sono  esenti  quelle  che  si  usano  solo  dietro  prescrizione  medica  e  in 
dose  definita  :  e  così  le  saline  purgative,  le  sulfuree,  le  bromoiodate, 


192 


LE  TASSE  SULLE  VENDITE,   SUL  LUSSO 


le  arsenicali.  Sono  del  pari  esenti  le  acque  potabili  messe  in  com- 
mercio, le  gazzose  soggette  ad  una  tassa  propria,  e  le  acque  di  seltz. 
Un  altro  tributo,  che,  pure  essendo  teoricamente  stabilito  sulla 
produzione,  si  riscuote  però  sulla  vendita  da  parte  del  fabbricante, 
e  col  sistema  delle  marche  da  bollo,  è  quello  che  colpisce  i  tessuti  di 
lusso,  i  merletti  e  i  guanti,  in  ragione  del  10  per  cento  del  prezzo  di 
fattura.  Questa  tassa,  stabilita  col  decreto  luogotenenziale  24  novem- 
bre 1919,  n,  2165  (allegato  A),  fu  modificata  con  Regio  decreto  8  gen- 
naio 1920,  n.  8,  e  andò  in  riscossione  il  1°  febbraio  1920. 


V. 

Riassunta  così  la  legislazione  nostra  in  materia,  occorre  breve- 
mente esaminare  quale  sia  stata  la  portata  finanziaria  di  tali  tributi, 
in  relazione  sia  alle  previsioni  fatte,  sia  a  quelle  che  possono  farsi 
per  l'avvenire,  ove  non  si  addivenga  a  un  razionale,  organico  assetto 
dei  tributi  stessi,  allo  scopo  di  estenderne  la  base,  di  semplificarne 
la  riscossione  e  di  reprimerne  le  frodi. 

La  tassa  sul  lusso  e  sugli  scambi  nella  quale  rientrano  anche  le 
riscossioni  delle  tasse  sui  conti  degli  alberghi  e  ristoranti,  esclusi 
quelli  minori,  andata  in  riscossione  nel  marzo  1921,  ha  dato  i  se- 
guenti introiti  : 


Febbraio  (1)  1921. 

Marzo  „     . 

Aprile  ri 

Maggio  ,     . 

Giugno  „     . 

Luglio  „     . 


691 ,050 
23,541,727 
I7,120,2r>8 
13,l92,8rt4 
n,'>64,340 
11,128,409 


Agosto 

Settembre 

Ott.)ì)re 

Novembre 

Dicembre 

Gennaio 


1921. 


1922 


14,332,521 

17,572.K74 
22,698.206 
IM,  149,968 
2:^,274,523 
13,501,226 


In  complesso  quindi  nei  suoi  primi  undici  mesi  tale  tassa  ha 
fruttato  lire  186,640,523  e  nel  primo  semestre  dell'esercizio  1921-22 
lire  107,170,105,  di  fronte  ad  una  previsione  per  l'intiero  esercizio  di 
350  milioni. 

La  tassa  sui  gioielli  e  pietre  preziose  ha  date  le  riscossioni  se- 
guenti : 

Esercizio         1917-18 .     .  L.  4,3ȓ8  430      Esercizio        1920-21    .     L.  24.097/(21 

1918  19        .    .     7,»>tì2,728       1»  semestre    1921-22     .      »      8,029,i;45 

»  1919-20.     .    .   17,887,200      Qonnaio  1922     .     »      1,828,304 

In  complesso  nei  primi  7  mesi  dell'esercizio  1921-22  furono  ri- 
scossi per  la  tassa  sui  gioielli  lire  9,857,949  con  una  diminuzione  di 
lire  5,215,268  in  confronto  ai  corrispondenti  7  mesi  dell'esercizio 
1920-21.  La  previsione  per  Tesercizio  1921-22  fu  stabilita  in  35,000,000 
di  lire. 

La  tassa  sulle  profumerie  e  specialità  medicinali  ha  dato  la  se- 
guente riscossione: 

Esercizio  1917-18  .  L.  17,649.315  Es^roixio  1920-21  .  •  43,016,848 
1918  19  .  .  22  14^,510  1»  semestre  1921-22  .  .  21,44R,^80 
1919-20    .      .    39,237,522      Gennaio  1922     .      .     4,022.217 


(1)  Per  vendita  anticipata  di  marche. 


E  SULLA  CIFRA  D'AFFARI  ALL'ESTERO  ED  IN  ITALÌA  193 

In  complesso  nei  primi  sette  mesi  dell'esercizio  1921-22  furono 
riscosse  lire  25,470,797  con  una  diminuzione  di  lire  2,068,055  in  con- 
fronto dei  corrispondenti  7  mesi  dell'esercizio  1920-21.  La  previsione 
per  l'esercizio  1921-22  era  stata  fatta  in  lire  50,000,000. 

La  tassa  siti  conti  di  trattorie,  osterie  e  caffè  che  riguarda  solo 
gli  esercizi  di  minore  importanza,  i  cui  conti  sono  soggetti  a  un  bollo 
fìsso  di  cent.  0.05,  raddoppiato  per  i  comuni  di  popolazione  superiore 
ai  25,000  abitanti,  ha  dato  i  seguenti  gettiti: 


rcizio 

1918-19. 

.     L.  3,808,039 

1°  semestre 

1921     . 

.     L.  2,514,390 

> 

1919-20. 

.     »    4,619,801 

Gennaio 

1922     . 

.     >       571,661 

* 

1920-21, 

.     »    5,38tì,974 

In  complesso  nei  primi  sette  mesi  dell'esercizio  corrente  sono 
state  riscosse  lire  3,186,051  con  una  diminuzione  di  proventi  in  con- 
fronto al  corrispondente  periodo  dell'esercizio  scorso  di  lire  173,016. 
La  previsione  per  l'esercizio  corrente  fu  stabilita  in  lire  10,000,000. 

La  tassa  di  bollo  sui  vini,  liquori,  acque  minerali  in  bottiglia  ha 
dato  i  seguenti  risultati  : 

Esercizio        1919-20     .     L.  14,220,655      1»  semestre  1922     .     .     L.  11,920,647 
1920-21     .      »    21,537,183      Gennaio        1922     .      .      .      2,947,364 

In  comiplesso  nei  primi  sette  mesi  dell'esercizio  corrente  sono 
state  riscosse  lire  14,868,011  con  un  aumento  nelle  riscossioni  del 
corrispondente  periodo  dell'esercizio  precedente  di  lire  698,551.  La 
previsione  per  il  1921-22  era  stabilita  in  lire  35,000,000- 

Finalmente  la  tassa  di  fabbricazione  sui  guctfiti  e  tessuti  di  lusso 
ha  dato  nell' 

esercìzio  1919-20  (4  mesi)  L.  28,145,830       1°  semestre  1921-22    .     L.  22,037,910 
1920-21     .     .       »    71,664,782      gennaio  1922     .      »      3,953,558 

In  complesso  nei  primi  sette  mesi  dell'esercizio  corrente  questa 
tassa  ha  dato  un  gettito  di  lire  25,581,345  con  una  diminuzione  di 
ben  lire  18,773,658  sul  corrispondente  periodo  dell^esercizio  prece- 
dente. La  previsione  per  l'esercizio  corrente  fu  stabilita  in  100  milioni. 

Da  tali  dati  già  risulta  che  tutte  queste  tasse  palesano  una  note- 
vole contrazione  nel  loro  rendimento,  salvo  la  tassa  sulle  bottiglie, 
che  ne  va  esente  sia  per  la  natura  stessa  di  questo  consumo,  più  re- 
sistente alla  crisi  economica  ed  alla  elevatezza  delle  aliquote,  sia  per 
il  recente  rimaneggiamento  della  sua  tariffa. 

La  deficienza  delle  riscossioni  è  anche  più  grave  e  impressionante 
in  confronto  alle  previsioni  del  corrente  esercizio  le  quali  erano  state 
fatte  in  relazione  alle  riscossioni  degli  esercizi  precedenti,  ed  a  una 
supposizione  di  progressivo  incremsento  delle  riscossioni  stesse.  La 
deficienza  sulle  previsioni  si  rileva  nelle  risultanze  del  1°  semestre 
dell'esercizio  corrente,  ed  essa  risulta  chiaramente  dal  seguente  pro- 
spetto : 

13  Voi.  OCXVn,  ««rie  VI  —  16  mano  1922. 


ìì 


194  LE  TASSE  SULLE  VENDITE,   SUL  LUSSO 

PreTiaioni  Riscoaslone 

semestre  1931-22  effettiva 

1.  Tassa  di  lusso  e  scambi 175,000,000  108,170,105 

2.  Tassa  sui  gioielli 17,500,000  8,029,W5 

3.  Tassa  sulle  profumerie  e  specialità  medicinali  25,000,000  21,i48,580 

4.  Tassa  sui  conti  di  trattorie 5,000,000  2,614,890 

6.  Tassa  sulle  bottiglie  di  vini  e  liquori .     .     .  17,500,000  11,920,647 

6.  Tassa  sui  guanti  e  tessuti  di  lusso.     .     .     .  50,000,000  22.087,910 

Totale    .     .     .     290,000,000  173,121,277 

La  deficienza  sulle  previsioni  nel  semestre  è  perciò  di  116,787,723 
lire  ed  essa  si  accentua  ancora  ove  si  abbia  riguardo  alle  riscos- 
sioni del  niese  di  gennaio.  Di  fronte  al  sesto  della  previsione  seme- 
strale, pari  a  lire  48,333,000,  le  riscossioni  furono  le  seguenti  : 

Tassa  lusso  .     .     .     .     L.  13,501,226      Conti   trattorie    .     .     .     L.     571,661 

Gioielli »      1,828,304      Bottiglie »    2,947,364 

Profumerie    ....      »     4,022,217      Quanti  e  tessuti  lusso  .     »    3,953,558 

ossia  complessivamente  L.  26,924,330,  con  una  deficienza  perciò  sulle 
previsioni  di  lire  21,509,000,  che  se  si  mantenesse  tale  quale  nei  pros- 
simi cinque  mesi  —  arrestandosi  cioè  la  tendenza  alla  diminuzione 
—  rappresenterebbe  per  il  secondo  semestre  dell'esercizio  una  defi- 
cienza in  confronto  alle  previsioni  di  line  129,054,000.  Con  che  la  de- 
ficienza sulle  previsioni  per  l'intero  esercizio  sarebbe  di  circa  246  mi- 
lioni sui  580  previsti. 


VI. 

Dai  dati  sovra  riassunti  risulta  quanto  esiguo  sia  nel  nostro  paese 
il  contributo  che  questa  categoria  di  imposte  dà  alle  esigenze  finan- 
ziarie dello  Stato,  e  come  questo  contributo  tenda  anche  a  decrescere. 

Di  ciò  una  causa  irisiedé  indubbiamente  nella  crisi  economica 
che  contrae  e  riduoe  i  consumi  di  lusso:  ma  non  è  certo  questa  la 
causa  maggiore. 

La  ragione  principale  della  constatata  esiguità  di  tali  riscossioni 
deriva  invece  principalmente  dall'ordinamento  vigente  di  tali  tri- 
buti, inorganico  e  incompleto,  poiché  mentre  la  tassa  scambi  non 
incide  su  quella  larga  base  d'imposizione,  che,  pure  con  modeste  ali- 
quote, assicurerebbe  cospicui  gettiti;  d'altra  parte  i  tributi  sui  con- 
sumi di  lusso  hanno  un  assetto  frammenterio,  che  presenta  inutili  e 
moleste  complicazioni,  ed  ingiustificate  diversità  di  sistemi  di  ri- 
scossione, di  guisa  da  ingenerare  stanchezza,  da  determinare  resi- 
stenze, da  dare  pretesto  a  legittime  ed  illegittime  rimostranze  di  con- 
tribuenti. 

Le  ri.'iltanze  sovra  esposte  dimostrano  pure  che  ove  la  propor- 
zione che  esiste  in  Francia  fra  le  somme  di  tassa  riscosse  per  le  ven- 
dite di  cose  di  uso  comune  e  quelle  riscosse  per  vendite  relative  ai 
consumi  di  lusso  potesse  pure  avverarsi  da  noi,  lai^hi  gettiti  si  rea- 
lizzerebbero. Infatti  le  tasse  sulle  vendite  di  lusso  che  rappresen- 
tano in  Francia  una  parte  minima  sul  complesso  delle  riscossioni, 


E  SULLA  aFRA  D'AFFARI  ALL'ESTERO  ED  IN  ITALIA  195 

ne  costituiscc^no  invece  da  noi,  comprendendovisi  beninteso  quelle 
sui  gioielli,  profumi,  bottiglie,  la  principale  parte.  Infatti  la  tassa 
sugli  scambi,  sia  per  la  tenuità  della  aliquota,  sia  sopratutto  per  la 
sua  non  solida  costruzione  legislativa  e  per  la  mancanza  di  suflBcienti 
difese  e  controlli,  dà  un  gettito  esiguo. 

Ora  l'esame  della  situazione  di  bilancio,  l'altezza  a  cui  sono 
giunti  i  tributi  esistenti,  la  deficienza  di  altra  materia  imponibile,  la 
potenzialità  di  questo  tributo,  se  riformato  e  riordinato,  profittando 
anche  dell'esperienza  fattasi  altrove,  convincono  che  da  esso  sola- 
mente possono  ancora  trarsi  nuove  cospicue  risorse,  tali  da  potere 
affrettare  quell'equilibrio  e  quel  pareggio,  a  cui  la  nostra  finanza  si 
avvia  con  tanti  sforzi,  ma  che  indubbiamente  diverranno  anche  più 
faticosi  nel  colmare  le  ultime  deficienze,  quando  cioè  si  saranno 
fatte  le  possibili  economie,  e  le  entrate  avranno  raggiunto  il  massimo 
limite  di  sforzo. 

Non  vi  ha  dubbio  che  anche  da  noi  un'imposta  sulla  cifra  di 
affari,  riordinata  e  organicamente  costruita,  senza  vessazioni,  ma 
con  tutte  le  difese,  può  dare  un  gettito  non  minore  di  un  miliardo, 
somma  che  costituisce  appena  la  metà  di  quella  che  è  la  affettiva  ri- 
scossione attuale  in  Francia  malgrado  tutte  le  delusioni  avute  in  con- 
fronto a  previsioni  molto  superiori, 

È  vero  anche  che  una  imposizione  di  cpiesto  genere  che  colpisca 
anche  i  trapassi  delle  cose  di  uso  conrmne,  pure  escludendo  i  generi 
alimentari  di  prima  necessità,  potrà  costituire  un  coefficiente  degli 
alti  prezzi  :  ma  mentre  dall'una  parte  le  imposte  dirette  non  presen- 
tano margine  di  ulteriori  inasprimenti  —  specialmente  con  la  pros- 
sima attuazione  della  riforma  generale  delle  imposte  sui  redditi,  che 
ad  alte  aliquote  accompagna  la  eliminazione  di  ingiuste  esenzioni  di 
intere  categorie  di  contribuenti  — ,  d'altro  lato  ogni  imposta  più  o 
meno  direttamente  si  ripercuote  sul  costo  della  vita.  Questo  del  resto 
ne  resterà  influenzato  in  misura  minima  e  tanto  più  insensibile,  in 
quanto  col  ricostituirsi  dei  tessuti  economici  lacerati  dalla  guerra, 
coll'incremento  della  produzione,  col  miglioramento  dei  cambi,  colla 
ripresa  della  solidarietà  economica  intemazionale,  anche  il  costo 
della  vita  dovrà  pure  man  mano  attenuarsi,  riprendendo  il  corso  di 
quella  parabola  discendente,  il  cui  inizio  già  si  era  delineato  e  che 
ebbe  poi  a  subire  un  arresto,  che  si  deve  ritenere  transitorio. 

L'attuale  miglioramento  dei  cambi,  ove  abbia  a  persistere  ed  a 
proseguire,  come  fanno  sperare  alcune  ragioni  —  e  principalmente 
il  diminuito  fabbisogno  di  valute  estere  per  importazione  di  generi 
alimentari,  e  specialmente  di  grano  e  zucchero  di  cui  il  paese  è  prov- 
visto fino  al  prossimo  raccolto,  o  quasi  —  non  potrà  non  ripercuotersi 
favorevolmente  a  non  lontana  scadenza  sui  prezzi.  Già  i  cereali  hanno 
iniziato  il  periodo  del  ribasso,  colla  riduzione  del  prezzo  di  cessione 
del  grano  statale,  in  relazione  alle  condizioni  del  mercato  e  del  cam- 
bio, da  L  128  a  L.  115. 

VII. 

Con  questi  obbiettivi,  di  incremento  del  cespite  tributario,  e  di 
sistemazione  degli  attuali  sistemi  di  riscossione,  lo  scrivente,  come 
ministro  delle  Finanze,  ha  elaborato  e  presentato  alla  Camera,  alla 


196  LE  TASSE  SULLE  VENDITE,   SUL  LUSSO 

seduta  del  16  febbraio,  un  disino  di  legge,  che  riprendendo  in  esairip 
tutta  questa  materia  tributaria,  la  regola  sistematicamente,  con  tra- 
sformazioni sostanziali  e  innovazioni  radicali. 

Una  prima  parte  di  tale  disegno  di  legge  sopprime  l'attuale  tassa 
sugli  scambi  tra  commercianti,  e  vi  sostituisce  una  tassa  sulla  cifra 
d'affari,  costruita  sul  tipo  di  quella  francese,  e  che  differisce  sostan- 
zialmente dalla  precedente  tassa  sugli  scambi,  sotto  tre  punti  di  vista 
essenziali  : 

a)  che  l'aliquota  è  elevata  dal  0.30  all'uno  per  cento,  aliquota 
peraltro  non  eccessiva,  né  superiore  a  quella  praticata  negli  altri 
paesi.  Tale  aliquota  è  comprensiva  anche  della  addizionale  per  mu- 
tilati, il  che  implica  una  notevole  semplificazione; 

6)  ohe  la  nuova  tassa  non  colpisce  solo  le  vendite  e  gli  scambi 
dei  commercianti  fra  di  loro  ma  anche  quelle  dal  commerciante  al 
consumatore,  salvo  che  per  i  generi  alimentari  di  più  largo  consumo, 
combustibili,  sapone  da  bucato,  ecc.,  e  salve  le  merci  di  lusso  le  quali 
sono  colpite  dalla  tassa  maggiore  loro  particolare  regolata  dalla  se- 
conda parte  del  disegno  di  legge; 

e)  che  la  tassa  non  colpisce  solo  gli  affari  consistenti  nelle  ven- 
dite, ma  anche  tutti  gli  affari  compiuti  da  quanti  compiono  atti  di 
comjnercio  per  sé  o  per  altri,  e  così  anche  quelli  dei  mediatori,  inter- 
mediari, locatori  di  cose  mobili,  banchieri,  imprenditori  di  ser- 
vizi, ecc.  Bene  inteso  che  per  le  banche  la  cifra  di  affari  non  è  data 
dalla  somima  capitale  del  loro  movimento,  e  delle  operazioni  coni 
piute,  il  che  sarebbe  eccessivo,  come  neppure  è  data  dalla  sola  diffe 
renza  fra  i  tassi  corrisposti  ai  depositanti  e  correntisti,  e  quelli  rea- 
lizzati nei  reinvestimenti,  differenza  che  rappresenta  non  la  cifra  di 
affari,  ma  il  solo  profìtto  lordo.  Essa  è  data  invece  dall'ammontare 
degli  interessi,  scamibi,  aggi  realizzati,  così  come  per  i  venditori  è 
data  dall'ammontare  dei  prezzi  riscossi  nelle  vendite. 

Non  è  chi  non  veda  che  con  tale  ordinamento  la  tassa  vorrà  ve- 
ramentt^  ad  assumere  una  larghissima,  base,  dalla  (|uale  solo  può  ri- 
promettersi quella  cospicua  cifra  di  riscossione  clip  il  bilancio  ne  at- 
tende. 

Anche  per  quanto  riflette  il  sistema  di  riscossici k^  m  modificazione 
è  comtpleta,  perchè  questa  tassa  non  si  riscuoterebbe  più  sul  singolo 
atto  di  vendita,  colle  marche  da  bollo,  il  che  sarebbe  eccezionalmente 
N-essatorio  per  il  compratore,  una  volta  che  la  tassa  è  estesa  anche  alla 
vendita  al  dettaglio  al  consumatore,  ivi  conupresa  la  vendita  delle 
cose  di  uso  comune.  Invece  la  tassa  è  dovuta  dal  venditore  in  base 
alla  cifra  complessiva,  risultante  dai  registri  che  egli  è  obbligato  a 
tenere,  degli  affari  stessi,  e  alle  denunzie  periodiche  che  deve  fare 
della  loro  entità. 

Queste  denuncie  secondo  la  legge  francese  devono  farai  ogni 
mese,  ma  ciò  parve  una  eccessiva  molestia,  ragion  per  cui  tale  ob- 
bligo venne  invece  nel  nostro  progetto  reso  trimestrale,  salvo  per  le 
banche  a  regolarlo  con  norme  e  termini  speciali,  adatti  alle  partico 
lari  esigenze  di  tali  contribuenti,  delle  quali  potrà  pure  tenersi  conto, 
al  fine  di  regolare  in  modo  a  loro  adatto,  la  materia  delle  registra- 
zioni degli  affari.  Anche  il  pagamento  della  tassa  verrà  fatto  a  tri- 
mestri all'ufficio  del  registro. 


E  SULLA  CIFRA  D'AFFARI  ALL'ESTERO  ED  UN  ITALIA  197 

Queste  le  caratteristiche  principali  di  tale  tassa,  i  cui  partico- 
lari dettagli,  risultanti  dal  testo  del  disegno  di  legge,  non  è  qui  il 
caso  di  illustrare. 

Basti  accennare  che  le  esenzioni  oltreché  le  matBrie  alimentari  e 
di  prima  necessità  per  la  vita  (combustibili,  saponi,  ecc.),  compren- 
dono anche  il  gas  e  la  elettricità,  nella  considerazione  che  essi,  se 
venduti  per  forza  motrice,  sono  un  elemento  della  produzione  delle 
cose  la  cui  vendita  sarà  poi  soggetta  alla  tassa,  e  se  venduti  per  illu- 
mina zi<me  sono  già  sc^getti  a  speciale  tassazione  sul  consumo.  Be- 
ninteso che  su  tali  \endite  esentate  dalla  tassa  sulla  cifra  d'affari,  si 
applicherà  la  tassa  di  bollo  normale.  Sono  altresì  esenti  da  tale  tassa 
gli  affari  relativi  ai  generi  di  monopolio,  le  imprese  di  trasporto  a 
tariffa  controllata,  gli  affari  relativi  ad  assicurazioni,  quelli  riguar- 
danti spettacoli  pubblici,  alberghi,  ristoranti  e  trattorie,  questi  ul- 
timi perchè  regolati  separatamente. 

Sono  soggette  alla  tassa  le  merci  importate  dall'esteiro,  a  chiunque 
siano  dirette,  e  così  anche  al  privato  consumatore,  non  potendo  evi- 
dentemente in  tal  caso  perseguirsi  per  il  pagamento  della  tassa  il 
venditore  straniero.  Sono  però  esenti  le  reimportazioni  di  merci  non 
vendute.  Sono  esenti  da  tassa  le  merci  esportate  all'estero  da  n^o- 
zianti.  Inoltre,  per  favorire  maggionnente  tale  esportazione,  si  è  anche 
disposta  la  riduzione  della  tassa  di  bollo  normale  sulle  note,  conti, 
fatture  relative  a  materie,  prodotti,  merci  da  esportarsi. 

La  tassa  è  abbuonata  totalmente  o  parzialmente  in  caso  di  an- 
nullamento delle  vendite,  del  rifiuto  di  accettazione,  di  ribasso  del 
prezzo  per  diversità  della  merce  consegnata  da  quella  contrattata, 
per  restituzione  di  imballaggi.  I  libri  da  tenersi  dal  coninerciante, 
sono  ridotti  al  minimo  assolutamente  indispensabile  per  l'esistenza 
stessa  della  tassa,  e  cioè  ad  un  rostro  di  controllo  nel  quale  devono 
registrars'  giorno  per  giorno  le  singole  operazioni  di  vendita  o  gli 
affari,  e  i  loro  estremi.  Per  le  operazioni  di  valore  inferiore  a  lire 
cento  basta  una  scritturazione  complessiva  in  blocco  a  fine  giornata. 

La  seconda  parte  della  legge  regola  la  tassa  sulle  vendite  ai  con- 
sumatori delle  cose  di  lusso,  la  cui  aliquota  viene  stabilita  nel  5  %. 
Tale  attenuazione  della  attuale  aliquota  del  10%  corrispcmde  al  con- 
cetto ispiratore  della  riforma,  che  è  quello  di  sostituire  a  tassa  a 
base  ristretta,  con  aliquote  elevate,  tasse  a  base  larga,  con  aliqfuota 
modesta.  Per  le  ragioni  sovTaesposte,  e  per  la  stessa  esperienza  fatta 
dalle  attuali  aliquote,  si  ritiene  che  il  rendimento  di  tale  tassa,  non 
verrà  a  diminuire,  per  il  compenso  derivante  dal  diminuito  incita- 
mento alla  frode.  Un  esempio  basterà  a  dimostrarlo.  Golia  attuale 
legislazione  le  calzature  sono  soggette  alla  tassa  di  vendita  del  10% 
solo  se  il  suo  prezzo  supera,  lire  150.  Se  il  prezzo  è  inferiore  a  tale 
cifra  non  vi  ha  tassa.  Gol  nuovo  sistema  tutte  le  calzature,  qualunque 
ne  sia  il  prezzo,  pagheranno  una  tassa  di  vendita  in  ragione  dell'I  %, 
che  sarà  elevata  al  5  %,  se  il  prezzo  supererà  le  L.  150.  È  ben  evidente 
che  la  riscossione  sarà  maggiore,  essendo  moltiplicata  la  materia 
imponibile,  e  diminuito  l'incentivo  di  fraudolenti  simulazioni  di 
prezzo. 

L'aliquota  del  10  %,  che  è  ogg^i  quella  generale  per  le  vendite  di 
lusso,  si  applicherà  invece  solo  più  per  le  vendite  di  vini  e  liquori  in 
bottiglia,  di  gemme,  gioielli  e  cose  preziose  e  di  profumerie,  venendo 


198  LE  TASSE  SULLE  VENDITE,   SUL  LUSSO 

COSÌ  ad  essere  unificate  e  semplificate  tutte  le  relative  tasse  e  ricon- 
dotto ad  identità  di  aliquota  e  di  sistemi  di  riscossione.  Con  ciò  viene 
ad  app)ortarsi  in  qualcl|e  caso  una  diminuzione  su  quella  che  è  la 
misura  attuale  della  tassa,  —  e  così  per  i  gioielli  e  per  le  profumerie 
—  ma  d'altra  parte  l'eccessiva  elevatezza  delle  aliquote,  ohe  è  il  mag- 
g-iore  ostacolo  al  rendimento  della  tassa,  e  la  convenienza  della  uni- 
ficazione, consigliano  tale  provvedimento.  Da  tale  maggiore  aliquota 
vanno  però  esenti  le  acque  minerali  e  le  specialità  medicinali,  che 
saranno  colpite  con  quella  nonnaie  per  le  cose  di  lusso  del  5%. 

La  riscossione  della  tassa  sulle  vendite  delle  cose  di  lusso  viene 
regolata  in  modo  diverso  da  quella  della  tassa  sulla  cifra  d'affari  per 
la  sostanziale  differenza  della  tassa  stessa  e  per  la  maggiore  eleva- 
tezza della  aliquota.  Men/tre  la  tassa  sulla  cifra  d'affari,  pur  rica- 
dendo in  definitiva  sul  consumatore,  colpisce  più  direttamente  il 
commercianite,  quella  sulle  vendite  di  lusso,  come  tributo  suntuario  e 
rivolto  a  colpire  direttamente  il  consumatore,  da  questo  deve  essere 
pagato  all'atto  della  singola  vendita.  D'altra  parte  colla  solidarietà 
dell'obbligo  del  pagamento  nell'acquirente  e  nel  venditore  e  col  du- 
plice controllo  dei  libri  del  venditore  e  dello  scontrino  da  rilasciarsi 
al  compratore,  si  possono  fronteggiare  meglio  le  frodi.  Per  cui  per  la 
tassa  di  vendita  sulle  cose  di  lusso  rimane  fermo  il  principio  che  la 
tassa  è  a  carico  del  com/pratore  che  deve  pagarla  a  mani  del  vendi- 
tore, il  quale  è  però  responsabile  solidalmente  del  suo  pagamento. 
Eiasa  continuerà  ad  applicarsi  col  sistema  delle  marche  da  bollo 
applicate  allo  scontrino,  o  agli  oggetti,  a  seconda  dei  casi,  salvo  il 
caso  di  vendita  di  oggetti  di  lusso  d'importo  superiore  a  lire  6000, 
nel  qual  caso  rimane  fermo  il  pagamento  all'ufficio  del  registro.  È 
data  però  facoltà  al  Ministro  delle  finanze  di  modificare  i  sistemi  di 
riscossione  non  esclusa  la  facoltà  di  consentire  abbonamento,  colle 
dovute  garanzie,  il  ohe  permetterà  quelle  modificazioni  e  quelle  age- 
volazioni, che  la  praticai  consiglierà  ad  evitare  ogni  inutile  vessazione. 

Anche  per  tale  tassa  vale  la  norma  ohe  vi  sono  soggetti  gli  og- 
getti ilmportati  <^lai  consumatori,  semprechè  non  siano  oggetti  personali 
d'uso.  Gli  oggetti  importati  dai  commercianti  per  uso  del  loro  com- 
mercio sono  invece  soggetti  alla  tassa  dell'i  %  sulla  cifra  di  affari,  se 
anche  di  lusso.  Gli  oggetti  esportati  dai  commercianti  sono  esenti  da 
ogni  tassazione. 

La  tassa  di  lusso  sugli  alberghi  e  ristoranti  viene  pure  radical- 
mente modificata  e  semplificata.  Infatti  in  sostituzione  delle  attuali 
svariate  tasse  viene  stabilita  una  percentuale  unica  e  complessiva  su 
tutte  le  somministrazioni  di  qualsiasi  genero,  e  cioè  sull'importo 
complessivo  del  conto,  esclusi  naturalmente  i  rimborsi  di  spesa.  Tale 
aliquota  è  identica  j>er  gli  alberghi  e  per  i  ristoranti,  ossia  secondo 
l'importanza  degli  stabilimenti  va  dal  2%  per  quelli  di  minore  im- 
portanza, al  5%  per  quelli  di  prim'ordine,  al  10%  per  quelli  di  lusso. 
In  tale  unica  percentuale  sono  comprese  le  addizionali  e  la  tassa  tu- 
ristica. La  semi>lificazione  è  quindi  radicale  sotto  ogni  aspetto,  to- 
gliendo ragione  a  lagnanze  e  proteste  oggi  forse  non  completamente 
infondate. 

Sul  nuovo  ordinamento  di  queste  tasse  sono  ancora  da  fare  due 
rilievi  : 


E  SULLA  CIFRA  D'AFFARI  ALL'ESTERO  ED  IN  ITALIA  199 

il  primo  che  si  sono  attenuate  le  attuali  penalità,  ritenendosi 
che  maglio  convenga  alla  serietà  della  legge  il  contenere  le  multe  in 
limiti  ragionevoli  che  non  l'elevarle  a  culmini  così  elevati  da  renderle 
praticamente  inesigibili; 

in  secondo  luogo  si  è  stabilito  che  un  deoimo  dei  proventi  delle 
due  tasse  sulla  cifra  d'affari  e  sulle  vendite  di  lusso  vada,  a  vantaggio 
dei  Comuni,  ripartito  fra  di  loro  in  ragione  di  popolcizione.  Si  con- 
corre così  con  un  noa  indifferente  contributo  a  risolvere  le  diflacoltà 
in  cui  si  dibatte  la  finanza  locale  con  un  mezzo  ohe  sembra  doversi 
preferire  a  quello  richiesto  da  vari  Ck>muni  di  estendere  il  dazio  con- 
sumo anche  alle  materie  assoggettate  invece  alla  tassazione  erariale, 
e  che  non  potrebbero  sottrarvisi  senza  privare  lo  Stato  di  una  cospicua 
fonte  di  proventi.  Non  è  stabilita  a  favore  dei  Comimi  alcuna  percen- 
tuale sulla  tassa  relativa  agli  alberghi,  esistendo  già  a  loro  profìtto 
la  tassa  di  soggiorno. 

Le  vicende  parlamentari  non  hanno  consentito  allo  scrivente  di 
portare  alla  discussione  della  Camera  tale  disegno  di  legge,  che  dando 
un  ordinamento  organico  a  tutta  questa  categoria  di  tributi,  oggi 
frammentariamente  regolati,  e  togliendo  ragione  o  pretesto  ad  op- 
posizioni e  agitazioni  di  contribuenti,  ed  allargando  la  base  della 
imposizione,  può  assicurare  nuove  cospicue  entrate  al  bilancio  e  con- 
correre in  notevole  misura  ad  avviare  la  nostra  finanza  al  suo  ne- 
cessario risanamento,  che  rappresenterà  il  compenso  più  sicuro  e  ri- 
muneratore al  sacrifìcio  che  ancora  si  richiede  ai  contribuenti. 

Ove  tale  progetto  non  venga  mantenuto,  rimarrà  come  un  mo- 
desto contributo  di  studio  al  grande  problema  della  ricostruzione 
della  finanza  nazionale. 

Marcello  Soleri. 


vt 


LIBRI  E  RECENTI  PUBBLICAZIONI 


Dante  e.  l'Italia.  Nel  VI  centena- 
rio della  morte  del  Poeta  -  MCMXXI. 
Angeutti  F.,  Dei.  Lungo  I.,  D'O- 
vidio F..  P LAMINI  F.,  Gentile  G.. 
Mazzoni  G..  Parodi  E..  G.,  Pietro- 
uONo  L.,  Ricci  C.  Rossi  V..  Salva- 
dori  G.  —  Fondazione  Marco  B^sìmj 
^edizione    fuori    commercio'). 

G  Benedetti.  Fiume,  porto  Barone 
e  il  retroterra.  Documenti,  inchie- 
ste, rivelazioni  eul  più  palpitante 
problema  della  vita  nazionale.  Con 
un  documento  autografo  di  G.  D'An- 
nuzio.  —  Roma,  Maglione  e  Strini, 
1922.   L.    12.60. 

M.  MoRANDi.  Arturo  Graf.  —  Ro- 
ma,  Mondadori,   1921.   L.    12. 

Racine.  Andromaque,  con  intro- 
duzione e  note  di  L.  de  Anna.  — 
Firenze,    Le    Mounier.    L.    4.50. 

Shakespeare.  Julius  Caesar,  con 
introduzione  e  note  di  G.  Ammanna- 
To.  —  Fireni.  ,  Le  Mounier.   L.  5.50. 

Cornbille.  Le  Cid,  con  introduzio- 
ne e  note  di  L.  de  Anna.  —  Firen- 
ze, Le  Mounier.   L.  6.50. 

Molière.  L'avare,  con  introduzio- 
ne e  note  di  L.  de  Anna.  —  Firen- 
ze,   Le   Mounier.    L.    5.50. 

G.  Milanesi.  Eva  mari  va.  —  Ro- 
ma,  Mondadori.    L.   8. 

V.  Bondois.  Settantacinque  milio- 
ni e  altre  cose.  —  Firenze,  «  La  Vo- 
ce »,  1922.  L.   7.50. 

C.  Alvi.  In  vita  perfetta  godere. 
Romanzo.  —  Todi,  «  Atanòr  ».   L.  8. 

N.  Vaccalluzzo.  L'esule.  —  Ca- 
tania,   Giannotta,    1922. 

A.  Marsicati.  Piccolo  romanzo  di 
una  vela.  —  Milano,  «Alpee».  L,  7. 

G.  P.  Della  Sanguigna.  Il  natale 
di  Boma.  Mistero.  —  Firenze,  Car- 
pigiani   e   Zipoli,    1922,  L.   4.60. 


G.  P.  Della  Sanguigna.  Le  ma- 
schere e  i  guerrieri.  Fantasia  vene- 
ziana. —  Firenze,  Carpigiani  e  Zi- 
poli,   1922.    L.    6. 

C.  Dadone.  (riannetto  impara  a  vi- 
vere. Racconto  -  galateo  per  la  gio- 
ventìi.  —  Torino,  Società  Editrice 
Intemazionale.   L.    7.50. 

La  conquista  de  le  vie  aeree  nel 
mondo.  A  cura  della  compagnia  di 
navigazione    aerea.    —   Roma.    L.   4. 

H.   Ellis.   Ia)  scopo  d*Ua  Eugenia. 

—  Roma,     «  Ijeonardo     da     Vinci  »>, 
1922.  L.  2.20. 

G.  SoiALHUB.  Du€  versi  Danteschi: 
«  Pape  Sataii,  pape  Satan  aleppe  ». 
«  Bafel  mai  amech  zabi  almi  ».  — 
Livorno,  Arti  Grafiche,  1922.  L.  2.50. 

R.  QuAZZA.  La  politica  europea 
nella  questione  valtellinica.  —  Vene- 
zia,  1921. 

O.  Folco.  Decadenza  e  perenzione 
nei  procedimenti  ammini.ttrativi  con 
prefazione  del  prof.  P.  Cogliolo.  .— 
Napoli,   Joveno.    li.   20. 

L.  Antonelli  Calfus.  Il  paradiso 
delle  rose.  —  Milano.  Aliprandi 
L.   6. 

E(A  DE  QuBVioz.  La  città  e  le  mon- 
tagne.  Traduzione  di  G.   Db  Medici. 

—  Firenze,    BattLstelIi.   L.   6. 

G.  Scotti.  Marco  Marini,  orienta- 
li.'<ta  Bresciano  del  Cinquecento.  Per 
nozze  Marini-Scotti.  —  Pavia,  Ti- 
pografia  Artigianelli,    1921. 

L.  Cappiello.  Di  un  influsso  pro- 
venzale nel  parlare  sorrentino.  — 
P'ontana,    1921.    L.   5. 

A.  Dolce.  A  piedi  nudi.  Teatro 
sintetico  senza  veli.  —  Cropani, 
Velletri,   1922.  L.  0.76. 

V.  Sapienza.  Della  traduzione  « 
dell'arte  di  tradurre.  —  Francavill» 
■(  Gens  nostra  ».  L.  5. 


UQO  Mbssiki.  Uespanaaìnie 


Aom»  —  Ditt*  Arm»ni  d<  Mario  Otwrrtor. 


L       ) 


ENRICO  CASTELNUOVO 


Volati  ormai  —  attraverso  una  guerra  furibonda  e  una  pace  con- 
vulsa —  volati  sette  anni  da  quella  rig^ida  e  mesta  mattinata  d'in- 
verno in  cui  Venezia  celebrava,  con  disegnale  solennità  di  corteo 
ma  con  pari  riverenza  d'anime,  due  funerali.  Nell'ora  medesima  le 
erano  stati  tolti  un  Nestore  quasi  centenario  del  nostro  Risorgimento, 
recante  inciso  nei  malleoli  il  solco  della  catena  nemica,  e  un  emi- 
nente cittadino,  osservatore  acuto  e  fine  narratore,  pubblicista,  mae- 
stro ajnato  e  onorato,  giunto  alla  vecchiaia  con  giovanile  calore  d'ita- 
lianità: Luigi  Pastro,  Enrico  Gastelnuovo  (1).  Figure  profondamente 
diverse,  eppure  tali  da  poter  essere  congiunte  nel  culto  della  patria, 
massime  in  quei  giorni  gravi  e  trepidi  in  cui  i  nostri  cuori  palpita- 
vano nell'attesa  della  suprema  risoluzione.  Perchè  Luigi  Pastro  era. 
un  glorioso  superstite  di  quel  manii)olo  di  congiurati,  d'eroi,  di  mar- 
tiri, che  avevano  infuso  nell'anima  popolare  ancora  torpida  il  lievito 
sacro  della  ribellione  allo  straniero;  ed  Enrico  Gastelnuovo  un  degno 
rappresentante  di  quella  borghesia  larga  di  pensiero,  eletta  per  col- 
tura, liberale  in  politica,  liberista  in  economia,  ch#'  trovò  la  sua 
guida  sapiente  ed  agile  nel  Conte  di  Cavour.  Bene  dunque  la  Dante 
Alighieri,  che  accoglie  nel  nome  del  poeta  profeta  tutte  le  forme 
dell'idealità  nazionale,  portò  l'iride  del  suo  vessillo  dall'una  all'altra 
esequie,  dalla  bara  del  cospiratore  sfuggito  per  miracolo  al  capestro 
austriaco  a  quella  del  cittadino  immacolato,  dello  scrittore  e  maestro 
fervidamente  italiano  che  qui  commemoriamo. 

Rievocando  la  ssua  immagine,  io  non  adempio  solo  a  un  alto 
dovere;  obbedisco  a  un  intimo  sentimento  personale. 

La  pagina  più  candida  d'un  antico  libro  caro  ad  Enrico  Castel- 
nuovo,  i  Ricordi  di  Marco  Aurelio,  è  quella  in  cui  l'imperatore  ri- 
pete dagli  Dei  la  grazia  di  avere  avuto  tante  persone  che  gli  vollero 
bene  e  gli  fecero  del  bene.  Oggi,  questa  religione  della  gratitudine 
ha  poco  seguito,  non  dirò  tra  i  Sovrani  filosofi  che  sono  scomparsi, 
ma  tra  la  comune  degli  uomini,  i  quali  corrono  troppo  frettolosa- 
mente per  concedersi  la  sosta  gentile  dei  raccoglimenti  e  delle  me- 
morie. Ma  io  che  non  appartengo  alla  schiera  dei  frettolosi,  voglio 
rimanere  fedele  alla  vecchia  religione.  E  ricordo  che  quando  salii 

(1)  Enrico  Gastelnuovo,  il  geniale  novellista  e  romanziere,  così  caro  al  pub- 
blico italiano,  fu  per  molti  anni  collaboratore  prezioso  della  Nuova  Antologia. 
Ma  fu  anche  insegnante  valentissimo  e  Direttore  deUa  R.  Scuola  Superiore  di 
Commercio  di  Venezia.  Siamo  pertanto  lieti  di  pubblicare  la  Commemorazione 
che  dell'eminente  scrittore  e  maestro  tenne  nella  Scuola  stessa,  domenica  22 
gennaio,  il  senatore  prof.  Antonio  Fradeletto. 

14  Voi.  OCX  VII,  aeri©  VI  —  1*  aprile  1922. 


202  ENRICO  CASTELNUOVO 

per  la  prima  volta  questa  cattedra,  giovane  ignoto,  incerto  dell'av- 
venire, Enrico  Castelnuovo  mi  venne  incontro  e  mi  rivolse  alcune 
di  quelle  parole  buone  che  sono  per  l'anima  giovanile  un  viatico  e 
alle  quali  seguì  un'affettuosa  amicizia,  durata  ininterrottamente  Ano 
alla  sua  morte.  Lo  ricordo  dopo  quareintun  anni  di  vicende  care 
ed  amare  e  ripeto  ancora  come  in  quel  giorno:  «  grazie,  maesitrol  ». 

• 
•  • 

Ho  la  fortuna  di  poter  raccogliere  le  notizie  della  sua  vita  dalle 
memorie  ch'egli  scrisse  fra  i  72  e  i  73  anni,  sotto  il  titolo  Divaga- 
zioni senili,  memorie  non  destinate  alla  pubblicità,  ma  che  la  fiducia 
del  figlio  suo  mi  permise  di  consoiltare. 

Era  nato  a  Firenze  l'S  febbraio  del  1839.  Una  grande  sventura 
s'abbattè  sulla  sua  infanzia.  Il  pvadre  abbandonò  la  famiglia  e  l'Italia, 
quand'egli  aveva  appena  diciotto  mesi,  andò  a  riparare  in  Egitto,  né 
più  ricomparve.  Sua  madre  ritornò  allora  a  Venezia  e  seppe  compen- 
sare il  fanciullo  di  quel  crudele  abbandono  con  duplice  virtù  di  te- 
nerezza operosa.  Trascorsero  alcuni  anni  difficili;  ma  grazie  ad  aiuti 
di  parenti  ed  amici,  grazie  all'economia  materna,  si  potè  provvedere 
alla  sua  prima  educazione.  Aveva  nove  anni,  quando  scoppiò  la  ri- 
voluzione del  1848.  «  Serbo  memoria  del  gran  trambusto  che  ci  fu 
«  nei  giorni  18,  21,  22  marzo  e  del  gran  giubilo  con  cui  fu  salutata 
«  la  partenza  degli  austriaci  e  la  proclamazione  della  Repubblica, 
«  che  agli  anziani  pareva  la  resurrezione  della  Serenissima  »  (tram- 
busto, giubilo,  illusioni  che  echeggiano  nel  romanzo  Dal  primo  piano 
alla  soffitta,  dove  la  rivoluzione  veneziana  ci  comparisce  di  tra  le 
quinte  dell'intimità  domestica). 

Ed  eccoci  ad  uno  di  quei  contrasti  fra  la  spontanea  vocazione 
e  le  pratiche  necessità  della  vita  che  s'incontrano  così  spesso  nelle 
biografie  degli  uomini  superiori,  durante  gli  anni  giovanili.  Finito 
il  corso  elementare,  egli  avrebbe  potuto  seguire  gli  studi  classici, 
verso  i  quali  si  sentiva  inclinato;  ma  dovendo  mettersi  in  grado  di 
guadagnare  e  di  guadagnar  presto,  scelse  la  via  degli  studi  tecnici. 
Anche  in  questi,  tuttavia,  la  vocazione  si  palesava.  «  Ero  uno  dei 
primi  in  lettere  italiane  e  il  professore  mostrava  di  tenermi  in  gran 
concetto  ».  Entrato  nelle  Scuole  Reali  (l'attuale  Istituto  Tecnico),  vi  si 
trovò  a  disagio  e  fu  sempre  stentatamente  promosso,  per  l'invincibile 
inettitudine  a  comprendere  la  matematica,  per  la  scarsa  disjwsizione 
alle  materie  scientifiche  in  genere,  e  per  l'incapacità  d'imparare  il 
disegno  (riuscì  soltanto  a  stilizzare  un  profilo  di  micio  e  di  questo 
capolavoro,  che  andava  volentieri  riproducendo,  si  compiaceva  con 
uno  di  quei  tratti  d'ingenuità  che  sono  propri  dell'ingegno  fresco  e 
sincero).  Perpetrò  allora,  com'egli  scrive,  i  suoi  primi  «  delitti  poe- 
tici »  :  una  ballata  sentimentale  e  un  poemetto  in  ottava  rima  d'ar- 
gomento classico  ed  eroico.  Gli  Orazi  e  Curiazi,  presto  interrotto, 
perchè  lo  sgomentò  l'ampiezza  del  tema. 

Il  bisogno  costrinse  il  poeta  esordiente  a  darsi  al  commercio. 
Sulla  fine  del  '54,  a  quindici  anni  e  mezzo,  entrò  nel  Banco  di  suo 
zio  Della  Vida,  con  un  assegno  così  modesto  come  umili  erano  gli 
uffici  a  lui  affidati.  Questi  gradatamente  si  elevarono,  l'assegno  au- 
mentò, ma  la  fiamma  della  passione  non  s'accese.  Coscienzioso  per- 


ENRICO  CASTELNUOVO  203 

altro  scrupoloso  fino  all'estremo  nell'adempimento  di  ogni  suo  do- 
vere. Procurava,  intanto,  di  ampliare  la  sua  istruzione,  dedicandosi 
particolarmente  alla  letteratura  italiana,  alle  lingue  straniere,  un  po' 
anche  cdl'economia  politica;  ma  gli  nuoceva  la  scarsa  preparazione 
fondamentale,  né  certo  lo  incorava  il  sentirsi  spesso  ripetere  :  «  Amico 
«  caroy  se  vuoi  diventare  un  brav'uomo  d'affari^  non  perdere  tempo 
a  siti  libri  n.  Preconcetto  angusto  ma  allora  assai  difihiso,  contro  il 
quale  doveva  cominciare  la  lotta  fra  noi,  un  ventennio  dopo,  con  la 
prox-vida  fondazione  di  questa  Scuola. 

Maturavano  ormai  le  fortune  della  patria.  I  giovani  della  bor- 
ghesia colta  ardevano  di  spiriti  patriottici;  non  pochi  varcavano  la 
frontiera,  correvano  a  ingrossare  lo  stuolo  d^li  emigrati,  s'inscrive- 
vano in  Piemonte  all'Accademia  Navale  e  al  Colico  Militare.  Quando 
poi,  sul  principio  del  '59,  la  guerra  augurata  parve  sicura,  cominciò, 
irruento,  l'esodo  dei  volontari.  «  Io  mi  trovai  allora  in  un  altro  di 
«  quei  momenti  critici  della  vita  in  cui  l'uomo  è  combattuto  fra  do- 
«  veri  sacri  del  pari  e  sente  che  a  qualunque  partito  s'appigli,  sarà 
«  travagliato  da  rimorsi  e  rimpianti  ».  Non  gli  reggeva  l'émimo  d'ab- 
bandonare sua  madre,  di  cui  era  l'unico  sostano  e  che,  senza  di  lui, 
sarebbe  stata  costretta  a  vivere  di  carità.  «  Leggevo  ne'  suoi  occhi 
«una  tacita  desolata  preghiera...  Non  mi  lasciare...  e  mi  pareva  si 
«  svolgessero  davanti  a  me  le  pagine  della  sua  vita  dolorosa...  Ma 
«  il  non  poter  dire  oggi,  vecchio  e  presso  alla  morte,  fui  anch'io  sol- 
«  dato  dell'indipendenza,  il  non  poter  dire  questo,  è  per  me  una 
«  grave  pena  » .  Oh  nobile  anima,  questa  pena  che  tu  confidavi  alle 
intime  carte  è  la  riprova  più  commovente  della  tua  alta  sensibilità 
di  cittadino,  che  nemmeno  la  pietà  di  figlio  valeva  ad  acquetare! 

Nella  vita  d'allora,  di  tanto  più  semplice  e  raccolta  della  nostra, 
sbocciavano  facilmente  tra  congiunti  e  amici  d'infanzia  quelle  sim- 
patie che  poi  si  traducono  in  vincoli  d'amore.  Così  nell'autunno 
del  1861  il  giovine  ventiduenne  si  fidanzò  con  una  sua  cugina,  Emma 
Levi,  da  lungo  tempo  diletta.  Egli  scrive  che  quel  periodo  fu  tra  i 
più  felici  della  sua  vita.  Gioia  breve.  La  sposa  morì  quattro  anni 
dopo  le  nozze,  lasciandogli  nel  cuore  e  nella  casa  un  vuoto  straziante, 
consolato  col  volgere  del  tempo  dai  due  figliuoli,  Guido  e  Bice:  l'uno 
dei  quali  doveva  rivelare  in  sommo  grado  le  disposizioni  scientifiche 
negate  al  padre,  riuscendo  matematico  insigne,  e  l'altra  ereditare 
dal  padre  una  vena  del  suo  senso  artistico,  portandola  in  un  campo 
frescamente  appropriato  all'ingegno  femminile,  nella  pittura  floreale. 

Durante  gli  ultimi  anni  della  dominazione  austriaca  nel  Veneto, 
s'era  formato  un  gruppo  di  giovani  d'alto  intelletto  e  di  moderna 
coltura,  i  quali  impresero  un'efficace  propaganda  politica  ed  econo- 
mica, con  l'intento  ideale  e  pratico  di  tenere  sempre  vivo  lo  spirito 
di  libertà  e  d'italianità  e  di  preparare  i  concittadini,  nell'imminenza 
preveduta  del  riscatto,  al  degno  esercizio  dei  nuovi  doveri.  Erano 
tra  essi  Antonio  Tolomei,  Emilio  Morpurgo,  Alessandro  Pascolato, 
Alberto  Errerà,  e  primeggiava  un  uomo  destinato  ad  esercitare  nella 
vita  pubblica  italiana  un'opera  infaticabile  di  elevazione  e  di  soli- 
darietà sociale,  Luigi  Luzzatti.  Enrico  Gastelnuovo  s'affratellò  a  quel 
gruppo,  legandosi  al  Luzzatti  d'intima  amicizia,  che  poi  si  convertì 
in  parentela.  Liberato  il  Veneto,  egli  non  tardò  ad  aggregarsi  all'ala 
estrema  del  partito  liberale-moderato  (la  parola  estrema  aveva  in 


204  ENRICO  CASTELNUOVO 

quegli  annd  e  sopra  tutto  in  quel  caso  un  significato  ingenuamente 
mite  che  oggi  ci  fa  sorridere).  Erano  i  così  detti  azzurri,  lontani  egual- 
mente dal  conservatorismo  rigido  e  dal  radicalismo  con  origini  e 
tendenze  repubblicane.  Il  Gastelnuovo  scrisse  dapprima  sparsamente 
nei  giornali  d)i  Venezia,  di  Padova,  di  Treviso;  nel  1869,  iniziatasi 
la  liquidazione  della  Gasa  di  Commercio  Della  Vida,  di  cui  era  di- 
venuto procuratore,  si  diede  a  collaborare  alla  Stampa,  organo  ap- 
punto degli  azzurri,  diretto  da  Alessandro  Pascolato,  al  quale  suc- 
cedette l'anno  appresso.  Egli  propugnava  le  idee  degli  amici  con 
chiarezza  e  vigore,  senza  trascendere  mai  in  contumelie  o  in  volga- 
rità; ma  si  doleva  dell'ambiente  angusto,  pettegolo,  irascibile,  liti- 
gioso, troppo  diverso  insomma  dal  suo  spirito  equilibrato  pur.  nel- 
l'ardore della  polemica.  Ed  una  di  quelle  polemiche  lo  trascinò  a 
un  duello,  dal  quale  uscì  ferito  nella  mano  con  indelebile  segno. 
Egli  sorrideva  delle  così  dette  «soluzioni  cavalleresche»,  perchè 
quando  non  hanno  effetto  cruento  riescono  ridicole,  e  quando  l'hanno, 
sono  anacronisticamente  disumane;  ma  in  quel  momento,  da  quel 
posto,  di  fronte  all'ingiusta  violenza  dell'attacco,  stimò  dover  suo 
piegarsi  alla  consuetudine.  E  col  dovere,  fosse  gradito  o  increscioso, 
approvato  o  meno  dalla  logica  pura,  egli  non  transigeva  mai. 

Il  1870  segna  l'esordio  della  sua  produzione  geniale  e  feconda 
d'artista.  La  Nuova  Antologia  pubblicava  //  colpo  di  stato  di  Cla- 
Tina,  primo  suo  rEicconto,  affettuoso,  ingenuo,  con  trasparenti  allu- 
sioni alla  malinconica  vedovanza  dell'autore.  Nel  '72  La  Perseve- 
ranza di  Milano  apriva  le  sue  appendici  alla  fortunata  novella  // 
Quaderno  della  zia  (suggeritagli  forse,  lontanamente,  dalle  Confes- 
sioni di  un  ottuagenario  di  Ippolito  Nievo):  gentile  e  mesta  nar- 
razione autobiografica,  inquadrata  nella  cornice  di  grandi  avveni- 
menti storici,  dal  crollo  della  Serenissima  a  quello  delle  fortune 
napoleoniche.  La  collaborazione  letteraria  del  Gastelnuovo  al  grande 
giornale  milanese  durò  circa  vent'anni,  cessando  solamente  nel  1891 
col  romanzo  Troppo  amata.  Mentre  uscivano  i  capitoli  de  11  Qua- 
derno della  zia,  Enrico  Gastelnuovo  conobbe  Emilio  Treves,  l'acuto 
e  accorto  editore,  il  quale,  poco  appresso,  venne  riproducendo  in 
nitidi  volumi  i  romanzi  che  comparivano  ne  La  Perseveranza  e  le 
novelle  inserite  nella  Nuova  Antologia  e  nella  Illustrazione  italiana. 
Dal  Treves  egli  si  allontanò  più  tardi,  ma  ritornò  a  lui  con  le  due 
ultime  pubblicazioni,  perchè  —  diceva  scherzosamente  —  anche  in 
fatto  di  editori  ((  Von  revient  toujours  à  ses  prerrUères  amours». 

Sul  cadere  del  1872  (ormai  il  giornale  La  Stampa  era  morto 
d'inanizione)  Francesco  Ferrara,  il  sommo  economista,  primo  Diret- 
tore di  questa  Scuola,  invitava  il  Gastelnuovo  ad  assumere  l'inse- 
gnamento delle  Istituzioni  commerciali:  scelta  felice,  perchè  alla  pra- 
tica della  materia,  coscienziosa  se  non  appassionata,  egli  congiun- 
geva la  facoltà  d'una  limpida  esposizione;  eppure  non  s'indusse  ad 
accettare  che  dopo  molta  incertezza,  l'indole  sua  essendo  tale  da 
troppo  diffidare  di  sé  piuttosto  che  da  troppo  presumere.  Insegnò 
per  oltre  quarant'anni  e  nel  1905  fu  chiamato,  con  unanime  fiducia, 
a  reggere  la  nostra  Scuola.  Gome  egli  abbia  saputo  tenere  la  sua 
cattedra  e  il  governo  di  questo  Istituto,  dirò  più  innanzi  e  saranno 
cose  vive  nella  memoria  e  nella  gratitudine  nostra.   Nel  febbraio 


ENRICO  CASTELNUOVO  205 

del  1914  la  legge  inesorabilmente  pareggiatrice  dei  limiti  d'età  lo 
collocava  a  riposo.  Non  se  ne  dolse,  ma  sentì  profondamente  la  ma- 
linconia degli  ozi  forzati.  Meno  d'un  anno  dopo,  il  22  gennaio 
del  1915,  la  fibra  robusta  cedeva  ad  una  breve  acuta  malattia  e  il 
nobile  spirito  ammutoliva  per  sempre. 


• 
•  • 


Il  ritratto  dell'uomo  di  pensiero  e  del  cittadino  balza  dalle  pa- 
gine da  cui  ho  attinto  le  sue  notizie  biografiche  ed  è  perfettamente 
conforme  all'immagine  che  hanno  potuto  farsene  anche  coloro  ai 
quali  non  toccò  la  ventura  di  conoscerlo,  ap{)ena  abbiano  posto  mente 
agli  stati  di  coscienza  che  traspaiono  da'  suoi  libri  d'immaginazione 
e  ai  concetti  informatori  de'  suoi  studi  sttorici  e  critici.  Prova  lumi- 
nosa di  veracità.  In  religione  :  agnostico,  convinto  che  la  scienza  non 
varrà  mai  da  sola  a  squarciare  il  gran  mistero  della  vita  e  della  morte 
e  perciò  tollerante,  rispettoso  d'ogni  credenza,  massime  di  quelle  che 
inducono  ad  umiltà  di  cuore.  In  politica:  amico  di  libertà,  fedele 
alle  instituzioni  monarchiche  come  presidio  di  consistenza  unitaria, 
avverso  ad  ogni  connubio  con  lo  spirito  confessionale,  pronto  ad  ac- 
cogliere le  meditate  riforme,  nemico  delle  avventate  improvvisazioni. 
In  sociologia:  alieno  per  istinto  e  per  coltura  da  ogni  forma  di  so- 
cialismo, da  quello  statale  e  burocratico  come  da  quello  sindacale  e 
rivoluzionario;  persuaso  che  lo  Stato  deve  bensì  integrare  le  defì- 
cenze  sociali  e  favorire  le  nuove  energie  del  cooperativismo,  ma  che 
la  soppressione  o  anche  la  mortifica2Ìone  delle  iniziative  individuali 
rappresenterebbe  un  funesto  impoverimento  di  forze  e  di  capacità 
produttiva.  Seguace,  insomma,  di  quelle  idee  tem{)erate  e  mediane 
che  un  giorno  prevalevano  nella  vita  pubblica,  che  rimangono  an- 
cora il  patrimonio  di  piccole  minoranze  intellettuali,  ma  che  non 
possono  convenire  ai  partiti  di  massa,  i  quali  vivono  di  formulazioni 
sintetiche  meglio  che  d'analisi,  di  aspirazioni  e  di  passioni  meglio 
che  di  ponderata  ragione,  e,  appunto  perchè  partiti  di  massa,  non 
sanno  adeguatamente  apprezzare  le  virtù  autonome  dell'individuo. 

Riandando  il  passato,  Enrico  Castelnuovo  si  rendeva  lucido 
conto  del  grande  rivolgimento  di  cose  e  d'anime,  di  idee  e  di  co- 
stumi compiutosi  intorno  a  lui,  e  paragonando  le  nuove  genera- 
zioni alla  propria,  amava  chiamarsi,  senza  querimonie,  non  però 
senza  malinconia,  «  un  superstite  »  e  anche  «  un  postumo  » .  Ma  d'una 
cosa  si  diceva  felice  e  fiero:  d'aver  potuto  assistere,  attraverso  una 
laboriosa  vicenda  di  lotte,  di  errori,  di  sventure,  di  glorie,  all'ascen- 
sione d'Italia.  Nella  sua  fanciullezza,  l'aveva  veduta  misera,  lacera, 
contristata  da  tirannie  straniere  e  domestiche;  ora  poteva  salutarla 
libera,  raccolta  ad  unità,  debole  talvolta  ne'  suoi  governi,  sana  e  ro- 
busta nel  suo  popolo,  circondata  forse  dall'invidia  di  altre  genti, 
non  più  dalla  loro  commiserazione  o  dal  loro  disdegno.  Patria!  —  è 
l'ultima  parola  che  suona  in  quelle  pagine.  Patria!  —  fu  l'ultimo 
battito  di  quel  cuore,  alla  vigilia  della  grande  guerra  di  rivendica- 
zione. 


206  ENWCO  CASTELNUOVO 


Una  memore,  commossa  attrattiva  ha  per  noi  la  sua  persona 
morale. 

Quante  volte  16  apparenze  e  le  abitudini  sono  in  disaccordo  con 
l'intima  essenza  dell'uomol  Quante  volte  dietro  un  atteggiamento 
esteriore  che  parrebbe  annuncio  di  sincerità  e  di  fierezza  si  rim- 
piatta un'anima  pusilla  o  falsa,  e  dietro  un  aspetto  remissivo  vibra 
im'anima  battagliera!  Vi  furono  arditi  lottatori  e  demolitori  spirituali 
che  sembravano  i  più  timidi  fra  gli  uomini;  ultimo,  a  memoria  della 
mia  generazione,  ilmesto  Renan.  Così,  se  il  nostro  indimenticabile 
estinto  fosse  stato  giudicato  soltanto  dalle  abitudini,  si  sarebbe  detto 
una  tipica  figura  di  piccolo  borghese,  inappuntabilmente  metodico. 
Sempre  le  stesse  cose  alle  stesse  ore:  la  sveglia,  lo  studio,  il  lavoro, 
i  pasti,  le  passeggiate,  le  visite,  il  sonno.  Senonchè  questa  non  era 
la  metodicità  vuota  e  melensa  da  lui  stesso  denunciata  e  derisa;  era 
semplicemente  la  veste  consuetudinaria  de'  suoi  rapporti  con  gli  altri 
uomini  e  con  le  esigenze  della  vita  comune  e  non  implicava  alcuna 
timidità,  alcuna  pigrizia  morale,  alcuna  rinuncia  all'indipendenza 
dello  spirito. 

Lo  spirito  era  spregiudicato,  nel  senso  psicologicamente  migliore 
della  parola:  rifuggente,  cioè,  dagli  aforismi  dogmatici,  dalle  con- 
venzionalità stereotipate,  da  quelli  ohe  io  chiamerei  clichés  intellet- 
tuali e  sociali.  Egli  aveva  abbracciato  il  principio  dell'universale 
relatività  :  un  principio  che  domina  la  scienza  moderna,  ma  che  può 
anche,  in  qualche  punto  e  per  qualche  aspetto,  accostarsi  ad  un  mo- 
nito dell'antica  saviezza,  quello  dell'imiversale  vanità. 

«  Da  ogni  fonte  d'insegnamento  può  scaturire  così  il  bene  come 
il  male;  bene  e  male  sono  costantemente  intrecciati  e  inseparabili; 
spesso  il  dolore  mette  capK)  alla  letizia  e  la  letizia  ha  un  fondo  re- 
condito di  dolore;  spesso  l'amore  contiene  una  contraddizione  fatale 
per  cui  lascia  dietro  a  sé  uno  strascico  d'odio;  spesso  coscienza  ed 
azione  si  rivelano  in  antitesi  con  la  dottrina  professata  e  il  cristiano 
ortodosso  e  osservante  può  essere  praticamente  uno  scettico,  come  lo 
scettico  per  teoria  può  essere  praticamente  un  cristiano». 

Data  questa  fondamentale  concezione,  quali  sono  i  più  logici  at- 
teggiamenti del  nostro  giudizio?...  Sono  Vindulgenza  e  Vironia.  Ed 
ecco  i  due  tratti  caratteristici  della  visione  morale  di  Enrico  Castel- 
nuovo.  L'odio,  l'accanimento,  gli  erano  ignoti;  compativa  le  debo- 
lezze; gli  pareva  che  la  Pietà,  la  quale  non  ignora  e  non  mente  ma 
comprende  e  i>erdona,  fosse  superiore  alla  Verità,  che  denuncia  bru- 
talmente le  cose  come  furono,  e  alla  stessa  Giustizia,  che  ne  ricerca 
e  pesa  le  cagioni.  Non  gli  riusciva  peraltro  di  vincere  la  propria 
antipatia  contro  le  forme  aride  e  grette  del  carattere,  contro  la  pe- 
danteria, contro  l'ambizione  senza  cuore,  contro  quelle  virtù  arcigne 
che  consistono  nel  soffocare  ogni  palpito  d'umana  passione.  Questi 
i  difetti  morali  a  cui  si  mostrava  più  avverso  nella  vita  e  che  più 
volentieri  pungeva  con  l'arte. 

E  quanto  il  pensiero  era  agile  e  libero,  altrettanto  schietto  e  leale 
il  carattere.  Ignorava,  o  disdegnava,  le  viziature  proprie  dei  lette- 


ENRICO  C.\STELNUOVO  207 

rati,  la  posa,  Va.\iio-réclame,  il  mutuo  incensamento;  s'adombrava 
I>erfino  della  lode,  specialmente  se  parevagli  poco  misurata.  Era  ri- 
belle a  qualunque  forma  di  lusinga  e  d'ipocrisia,  anzi,  mentre  il  più 
fra  g-li  uomini  inclina  a  blandire  in  faccia  per  ferire  alle  spalle,  egli 
seguiva  la  via  opposta.  Poteva  essere  rude  con  voi;  era  benevolo,  o, 
almeno  giudice  mite,  dietro  di  voi.  «  Burbero  benefico  »  avremmo 
voluto  chiamarlo,  se  l'animo  suo  e  la  sua  parola  non  avessero  rive- 
lato virtù  squisite  di  gentilezza  e  di  affettività  lontane  dalla  psico- 
logia sommaria  del  tipo  goldoniano. 


•  * 


Un  uomo  simile  doveva  essere  uno  scrittore  irreprensibilmente 
sincero. 

In  teoria,  egli  si  dichiarava  eclettico:  ricercatore  e  adoratore  della 
bellezza,  qualunque  fosse  la  sua  veste.  In  pratica,  cioè  nell'arte  nar- 
rativa, alla  quale  s'era  istintivamente  volto  perchè  la  più  arrende- 
vole al  suo  spirito  d'osservazione,  egli  si  mantenne  sempre  un  rea- 
lista. Ma  un  realista  temperato,  il  qucde,  rifuggendo  non  solo  dalla 
rappresentazione  ostentata  delle  brutture  ma  dalla  glaciale  imper- 
turbabilità, amava  ravvivare  il  suo  racconto  con  una  vena  d'umo- 
rismo, ch'era  per  lui  non  una  moda  letteraria  d'accatto,  ma  la  forma 
spontanea  del  connubio  fra  i  due  tratti  che  dissi  caratteristici  della 
sua  visione  morale  :  indulgenza  e  ironia.  Vena  interamente  originale, 
dunque?...  Ecco:  io  non  posso  disconoscere  ch'egli  abbia  risentito 
l'influenza  del  romanzo  inglese,  come  la  risentirono  altri  scrittori 
italiani.  Lo  stesso  Giacinto  Gallina,  così  domesticamente  nostro,  non 
ricorda  qua  e  là  in  Così  va  il  mondo,  bimba  mia!  i  Tempi  diffi- 
cili di  Carlo  Dickens?...  Ma  l'umorismo  di  Castelnuovo  ha  un  fondo 
personale  e  italianamente  pacato;  non  è  mai  né  troppo  acre  e  mor- 
dente, né  troppo  sentimentale;  non  trascende  nella  caricatura;  non 
si  compiace  di  smorfie  grottesche  per  poi  irrorarle  di  lagrime.  Imma- 
ginate un  uomo  buono  e  arguto,  che  vigili  su  se  stesso  e  non  voglia 
né  comprimere  il  ^o  cuore  né  di  continuo  esibirlo,  né  rinunciare 
alla  sua  arguzia  né  abbandonarvisi  immoderatamente  :  ne  uscirà  un 
compromesso  tra  il  senso  caustico  che  punge  e  il  sentimento  morale 
che  compatisce.  Tale  l'umorismo  di  Enrico  Castelnuovo. 

Tre  doti,  organicamente  collegate,  spiccano  nel  novellista  e  nel 
romanziere:  schietta  sensazione  degli  ambienti  paesani,  come  pochi 
l'ebbero  in  Italia;  acume  d'osservazione  intomo  alle  cose  e  alle  anime; 
rappresentazione  felice  di  tipi.  L'ambiente  da  lui  preferito  e  più  in- 
timamente sentito  era  quello  veneziano,  con  la  sua  pittoresca  sceno- 
grafìa e  con  le  abitudini  tradizionalmente  radicate  di  casa,  di  piazza 
e  di  caffé.  La  sua  facoltà  d'osservazione  si  esercitava  direttamente 
sulla  realtà,  senza  passare  attraverso  i  filtri  delle  reminiscenze  let- 
terarie, e  se  non  discendeva  fino  ai  torbidi  fondi  della  natura  umana, 
ne  coglieva  con  agile  sicurezza  le  manifestazioni  normali.  Quanto  ai 
tipi,  egli  .usava  trarli  dalle  persone  con  cui  era  in  maggiore  consue- 


208  ENRICO  CASTELNUOVO 

tudine  (di  molti  fra  essi  ci  è  facile  ravvisare  gli  originali),  filandovi 
intomo  sorriso  di  celia  o  lume  delicato  di  poesia. 

Folta,  varia,  viva,  genuinamente  italiana  ed  umana  la  famiglia 
►  che  s'aggira  e  passa  in  quella  trentina  di  volumi!  Penso  che  potrei 
ripartirla  in  gruppi,  secondo  le  varie  affinità  e  sfumature  morali, 
intomo  ai  due  poli  opposti  deWabiiegazione  e  déiVegoismo.  L'ora 
me  lo  vieta.  Ck)nsentitemi  soltanto  d'accennare  alle^fìgure  da  lui  ma- 
nifestamente preferite.  Sono  gli  esseri  per  i  quali  èi  la  vita  non  ebbe 
dramma,  o  il  dramma  della  vita  anziché  giungere  a  maturità  alla 
luce  djel  sole,  rimase  latente,  ravvolto  nell'ombra,  mutilato  o  com- 
presso: creature  ohe  vivono  quasi  sempre  assorte  in  un  compito  di 
devozione.  Non  vi  ritorna  dinanzi,  col  suo  passo  svelto  e  leggero  di 
solerte  massaia  che  tutto  prevede  e  a  tutto  provvede,  l'Angela  Ter- 
ralba  di  Nozze  d'oro,  vittima  per  poco  della  sua  instancabile  e  in- 
compresa missione  famigliare?  Non  rivedete  la  zia  Clara  de  /  Mon- 
Qalvo,  che  pensò  il  giusto  e  operò  il  bene,  dimentica  di  sé  per  gio- 
vare agli  altri?  E  salendo  dalla  vita  casalinga  a  un  ordine  spiritual- 
mente elevato,  non  vi  si  affaccia  la  stanca  immagine  di  Don  Giusto. 
che  datosi  alla  Chiesa  per  delusione  d'amore  e  per  devozione  filiale, 
assiste  al  quotidiano  sgretolarsi  della  propria  fede  e  soffoca  nell'in- 
timo dell'anima,  fino  all'ultima  ora,  la  spietata  tragedia?...  Nel  ri- 
trarre codesti  tipi  Enrico  Castelnuovo  tocca  l'eccellenza,  fors&  perché, 
accostandosi  per  qualche  lato  alla  sua  indole  morale,  permettevano 
alle  attitudini  dell'artista  di  concordare  appieno  con  le  spontanee 
inclinazioni  dell'uomo. 

All'artista  fu  mosso  appunto  per  certe  improprietà  e  negligenze 
di  lingua  e  di  stile.  Critiche  talora  giuste;  talora  pedantescamente 
spigolistre  o  fondate  sul  preconcetto  ohe  la  forma  abbia  un  intrinseco 
pregio  d'affezione,  indipendente  dal  contenuto  e  dal  tòno  del  conte- 
nuto. Si  potrebbe  piuttosto  notare  ne'  suoi  romanzi  qualche  squilibrio 
di  misura,  come  la  prolissità  di  alcuni  dialoghi,  o,  per  contro,  la 
scarsità  di  svolgimento  data  a  situazioni  stupendamente  immaginate. 
Non  dimenticherò  mai  la  pagina  del  romanzo  Dal  primo  piano  alla 
soffitta,  in  cui  il  vecchio  patrizio  rovinato,  maniaco,  illuso  di  pos- 
sedere ancora  una  miniera  d'oro  che  dovrà  ristorare  la  sua  fortuna, 
comincia  a  raccontare  alla  nipotina  arrampicatasi  sulle  sue  ginoc- 
chia una  storia  in  cui  le  reminiscenze  delle  fiabe  udite  da  fanciullo 
si  mescolano  alle  sue  illusioni  :  la  storia  di  un  re  e  d'una  regina  che 
avevano  una  bimba  bella  come  il  sole  e  d'un  mago  il  quale  aveva 
scoperto  dei  filoni  d'oro  e  fabbricata  con  quell'oro  una  casa  grande, 
grande,  dove  mettere  dentro  la  bimba...  quando,  fiilminato  da  una 
sincope,  il  vecchio  s'interrompe  improvvisamente  e  piega  la  fronte 
nell'aureo  bagliore  di  quel  sogno,  mentre  la  fanciulla  si  ostina  a  ri- 
petere «nonno  dorme,  nonno  dorme».  Scena  potenzialmente  mera- 
vigliosa, ma  più  che  svolta,  accennata.  —  Questa,  io  credo,  la  ragione 
per  la  quale  egli  rieiice  più  d'una  volta  artisticamente  superiore  nella 
novella,  la  natura  e  i  limiti  di  codesto  componimento  implicando 
una  ponderata  economia  di  sviluppo.  Ed  egli  medesimo  lo  avvertiva, 
scrivendo  nelle  memorie  autobiografiche  che  alcune  tra  le  sue  no- 
velle gli  sembravano  «  meno  indegne  di  sopravvivere». 

Cronologiciimente,  la  produzione  di  Enrico  Castelnuovo  può  di- 


ENRICO  CASTELNUOVO  209 

vidersi  in  due  periodi.  Le  opere  pubblicate  dal  72  all'SS,  da  II  gita- 
derno  della  zia  a  Due  eonvinzioni  corrispondono  in  gran  parte  ad 
una  vita  oltrepassata  :  quella  ohe  precedette  la  rivoluzione  ncLzionale 
e  quella  che  immediatamente  la  seguì  :  la  prima,  vita  di  aristocra- 
tici retrivi  e  di  gaudenti  spensierati  in  alto,  di  folle  per  lung-o  tempo 
servili  o  indifferenti  in  basso,  di  ardite  personalità  ed  esigue  mino- 
ranze incitatrici  nelle  classi  medie;  la  seconda,  vita  borghese,  eco- 
nomicamente modesta,  moralmente  semplice,  intellettualmente  ri- 
stretta forse  ma  equilibrata.  Nelle  opere,  invece,  che  vanno  dal  1888 
al  1908,  dal  romanzo  Filippo  Bussini  jitniore  all'ultimo  e  di  più 
largo  volo  /  Moncalvo,  noi  cogliamo  echi  e  riflessi  di  condizioni  di- 
verse, economicamente  vistose  e  spenderecce,  moralmente  senza  scru- 
poli, intellettualmente  più  larghe  e  meno  savie:  echi  e  riflessi  che 
consistono,  sebbene  misuratamente  resi,  nella  m-aggiore  libertà  del 
costume,  nell'arrivismo  sfrenato  e  sfrontato,  nell'avidità  affaristica 
e  bancaria,  nell'abbassamento  dei  caratteri  a  paragone  dell'ingran- 
dimento progressivo  del  mondo.  —  «  Che  importa  —  dice  Giacomo 
Moncalvo,  e  con  questo  lamento  si  chiude  il  romanzo  —  che  im- 
«  porta  che  la  scienza  estenda  ogni  giorno  il  suo  dominio  sulla  nar 
«  tura,  che  ogni  giorno  si  allarghino  i  confini  del  sapere,  se  l'uomo 
«  non  cresce  in  bontà  e  dignità,  ma  diventa  più  piccolo  in  un  mondo 
«  più  grande?  » . 

Codesta  evoluzione  era  fatale,  e  gli  effetti  della  guerra,  impre- 
veduti dal  maggior  numero,  dovevano  accelerarla  ed  esasperarla; 
ma  la  fatalità  del  fenomeno  non  ci  dispensa  da  un  giudizio.  Inevi- 
tabili le  tendenze;  insopprimibile  lo  spirito  informatore;  deplorevole 
l'infrazione  voluta  d'ogni  limite,  onde  siamo  trascorsi  da  quanto  po- 
teva parere  ingenuità  o  timidità  in  una  specie  di  parossismo  e  di 
tumultuaria  anarchia. 

E  come  è  sempre  accaduto  nelle  crisi  storiche  —  alle  quali  con- 
corrono in  varia  guisa  e  con  azione  reciproca  elementi  materiali  e 
morali,  realtà  e  stati  d'animo  o  di  fantasia  —  la  letteratura  co'  suoi 
recenti  indirizzi  è  in  parte  conseguenza,  ma  in  parte  anche  causa  di 
questi  squilibri  ed  eccessi. 

L'opera  letteraria  di  Enrico  Gastelnuovo  s'allontanava  volentieri 
dal  convenzionalismo  scolastico  e  moraleggiante  (basti  ricordare 
certe  pagine  deliziose  e  crudeli  del  Fallo  di  una  donna  onesta),  ma 
obbediva  a  una  norma  di  misura  e  di  saviezza;  la  letteratura  oggi 
in  voga  sembra  perseguire  l'ideale  senza  dubbio  più  comodo  e  più 
gradito  del  libero  godimento;  la  prima  era  dimessa  nella  veste,  la 
seconda  si  adorna  di  tutte  le  preziosità  verbali;  la  prima  poteva  pec- 
care p>er  negligenze  d'arte,  la  seconda  manca  di  umana  e  commossa 
spontaneità.  E  quando  io  sento  la  nuova  borghesia,  la  borghesia  fa- 
stosa degli  arricchiti,  scagliarsi  contro  il  sovversivismo  politico  e 
sociale,  non  posso  a  meno  di  sorridere  amaramente  della  cecità  con 
cui  essa  alimenta  un  3o\^ersivismo  più  a\^-elenato  e  avvelenatore, 
quello  che  da  troppi  volumi  ricercati  e  festeggiati  nei  salotti  sti'la  a 
goccia  a  goccia  nel  sangue  e  nello  spirito  di  chi  dovrebbe  illuminrire 
e  dirigere  le  classi  inferiori. 

A  questa  pietra  di  paragone,  l'opera  del  nostro  scrittore  ci  ap- 
parisce documento  ammirevole  di  probità  personale,  artistica  e  civile. 


210  ENRICO  CASTELNUOVO 


•  • 


Ma  io  non  commemorerei  qui  Enrico  Gastelnuovo,  se  il  suo 
nome,  oltreché  alla  novellistica  e  al  romanzo,  non  rimanesse  peren- 
nemente leg-ato  alla  storia  di  Ca'  Foecari. 

Il  senso  ideale  e  il  senso  pratico  che  costituivano  due  tratti  si- 
miultanei  della  sua  fisionomia,  per  cui  l'autore  patetico  o  tenuemente 
sarcastico  di  tante  pagine  d'immaginazione  era  insieme  il  sindaco 
d'una  Banca,  scrupoloso  nell'adempimento  del  suo  uflBcio  di  controllo, 
quel  duplice  diverso  ma  non  opposto  senso  ebbe  modo  di  esplicarsi 
felicemente  nella  sua  attività  scolastica,  quale  professore  e  quale 
direttore. 

Le  Istituzioni  di  Commercio,  introdotte  da  Francesco  Ferrara  e 
insegnate  da  Enrico  Gastelnuovo  per  oltre  quarantanni,  formavano 
una  specie  di  corso  preparatorio,  a  fine  di  dare  ai  giovani  un'idea 
del  meccanismo  dei  traffici  e  di  avviarne  la  mente  allo  studio  delle 
m^aterie  economiche  e  insieme  alle  esercitazioni  del  banco  modello. 
Le  nozioni  svariale  di  questo  corso  dovevano  necessariamente  riap- 
parire nell'economia  politica,  nella  ragioneria,  nel  diritto  conuner- 
ciale,  nello  stesso  banco,  ma  era  opportuno  che  al  principio  degli 
studi  esse  si  presentassero,  raccolte  e  coordinate  in  un  tutto  orga- 
nico, agli  allievi  ancora  ignari.  Le  lezioni  di  Enrico  Gastelnuovo  ve- 
nivano pertanto  riassumendo  lo  svolgimento  storico  e  illustrando  il 
funzionamento  tecnico  de'  vari  istituti.  Erano  lucide  e  piacevoli  nella 
forma,  coscienziosamente  precise  ne'  raggua^gli,  libere  da  minuzie 
ingombranti,  né  si  scompagnavano  mai  da  un  alto  intendimento 
morale,  perché  egli  credeva  che  la  rettitudine  e  il  senso  dei  limiti 
si  traducessero  anche  nel  campo  degli  affari  in  sicuro  e  durevole 
tornaconto.  Gosì,  in  uno  de'  suoi  primi  discorsi,  egli  rivolgeva  ai  gio- 
vani queste  nobili  parole  :  «  Apprendete  fino  da  ora  a  contare  sul- 
«  l'opera  vostra  giudiziosa  e  perseverante  e  non  sui  capricci  del  caso. 
«  Non  vi  lasciate  vincere  da  impazienze  colpevoli,  non  vi  lasciate 
«  accecare  ddla  sete  del  guadagno.  Le  ricchezze  onestamente  acqui- 
«  state  sono  legittime  e  sante,  ma  il  culto  della  ricchezza  é  vile.  Di 
«tutti  gli  idoli  che  la  credulità  umana,  in  tutti  i  tempi,  ha  sollevato 
«sugli  altari,  nessuno  é  più  vano  di  quest'idolo  d'oro.  Gh'esso  non 
«possegga  mai,  o  giovani,  il  vostro  cuore».  E  tanti  anni  dopo,  sulla 
fine  del  suo  limpido  Manuale,  accennando  alle  crisi  da  cui  la  nostra 
società  è  travagliata,  egli  insisteva  sul  concetto  medesimo  di  mode»- 
razione  economica  e  morale.  «  Per  diradare  le  crisi,  per  attenuarne 
«gli  effetti,  occorrerebbe  vincere  una  malattia  del  secolo,  la  smania 
«  di  arricchire  e  di  arricohir  presto.  Liberato  da  questa  febbre  divo- 
«  ratrice,  l'uomo  troverebbe  quel  senso  della  misura  che  anche  per 
«  gli  affari  è  inestimabile  elemento  di  successo,  perché,  insegnando 
«  a  preferire  i  resultati  lenti  e  certi  al  miraggio  delle  improvvise  for- 
«  tune,  contiene  la  speculazione  entro  giusti  confini.  Ciò  che  equivale 
«  a  dire  che  se  fossimo  più  savi,  più  temperati  nei  nostri  desideri, 
«eviteremmo  gravissimi  danni.  Verità  elementari,  vecchie  quanto  il 
«  mondo,  ma  che  non  é  inopportuno  ripetere  alla  chiusa  di  un  libro 
«  scolastico  » . 

Direttore,  noi  potemmo  ammirarne  la  sagacia,  la  diligenza  con 
cui  attendeva  ai  suoi  laboriosi  doveri,  l'amorevolezza  patema  di  cui 


ENRICO  CASTELNUOVO  21  i 

era  largo  verso  gli  studenti  —  «  cara  e  balda  gioventù,  al  contatto 
«  con  la  quale  la  nostra  vecchiaia  si  rinfranca  e  par  che  rallenti  il 
«  suo  fatale  cammino  »  —  amorevolezza  non  disgiunta,  occorrendo, 
da  risoluta  fermezza.  Né  le  molteplici  cure  didattiche  e  amministra- 
tive gli  facevano  dimenticare  le  sue  qualità  di  fine  scrittore.  Lo  atte- 
stano le  bellissime  Relazioni  ch'egli  leggeva  qui,  all'aprirsi  d'ogni 
anno  accademico.  Ai  dati  statistici  e  comparativi,  alla  disamina  dei 
problema  scolastici,  all'esposizione  delle  provvidenze  legislative  e  delle 
norme  regolamentari,  egli  usava  alternare  le  sue  note  personali  di 
arguzia  e  di  gentilezza.  Talora  una  pagina  di  riflessioni  severe  era 
interrotta  dal  frizzo  repentino  che  richiamava  sulle  nostre  labbra  un 
sorriso  o  le  apriva  alla  prorompente  ilarità.  Tal'altra,  i>arlando  dei 
nòstri  amati  allievi  o  ricordando  i  defunti  colleghi,  egli  suscitava 
intorno  a  sé  un  dolce  consenso  d'affetti,  un'onda  mesta  di  rimpianti. 
Durante  il  periodo  in  cui  Enrico  Gastelnuovo  resse  la  nostra 
Scuola,  questa  subì  ima  decisa  evoluzione,  che  venne  allontanandola 
dall'originario  concetto  di  assoluta  autonomia,  propugnato  da'  suoi 
fondatori  e  per  lungo  tempo  risi>ettato.  Fu  evoluzione  conforme  a 
tutto  quanto  l'indirizzo  della  nostra  vita  pubblica,  la  quale,  anziché 
continuare  ad  inspirarsi  al  culto  geloso  delle  libere  iniziative,  venne 
accettando  in  misura  sempre  più  larga,  o  addirittura  reclamando, 
l'ingerenza  e  la  disciplina  dello  Stato.  Per  vero,  la  legge  del  20  mar- 
zo 1913,  che  riiordinia  e  consolida  gli  Istituti  sup>eriori  commerciali, 
riconferma  in  linea  di  massima  la  nostra  autonomia;  in  pratica,  per 
altro,  la  circoscrive  entro  angusti  confini,  che  gli  articoli  del  Rego- 
lamento restringono  anche  più.  Quest'indirizzo  non  poteva  corri- 
spondere all'intimo  convincimento  di  Enrico  Gastelnuovo,  il  quale, 
come  ricordai,  apparteneva  ad  una  generazione  che  sia  per  coltura, 
sia  per  reazione  ai  governi  dispotici,  diflBdava  dell'azione  statale,  o, 
per  ripetere  le  parole  di  im  grande  liberista,  presumeva  contro  di 
essa.  Ma  il  suo  spirito  positivo  non  poteva  disconoscere,  riguardo  alla 
nostra  Scuola,  le  imperiose  necessità  di  siffatta  evoluzione,  perchè, 
da  una  parte,  l'intrinseco  valore  dei  nostri  studi  correv-a  il  gravisr 
Simo  pericolo  di  rimanere  menomato,  qualora  non  fossero  stati  sug- 
gellati da  un  titolo  uflBciale,  e,  dall'altra,  gli  Enti  locali  non  erano 
più  in  grado  di  sopperire  da  soli  ai  nuovi,  crescenti  bisogni.  Egli 
accettò  pertanto,  lealmente,  questa  nuova  condizione  di  cose,  adope- 
randosi a  che  il  nostro  Istituto,  il  più  anziano  e  il  più  completo  pe' 
suoi  ordinamenti  che  esista  in  Italia,  non  ricevesse  detrimento  dalla 
concorrenza  di  altri  più  recenti,  ma  potesse  attingere  dall'azione  di- 
sciplinatrice dello  Stato  copia  adeguata  di  mezzi  ed  eflBcaeia  di  prov- 
vedimenti. 


•  * 


Né  a  ciò  si  limitava  la  sua  tranquilla  e  metodica  operosità. 

Tra  i  romanzi  e  le  novelle,  tra  le  cure  didattiche  e  amministra- 
tive, tra  le  pubblicazioni  scolastiche,  trovavano  posto  altri  e  diversi 
scritti  :  poesie  e  traduzioni  poetiche,  commemorazioni  di  uomini 
insigni,  commenti  e  giudizi  intorno  ad  opere  straniere,  saggi  su  Ve- 
nezia nostra. 


212  ENRICO  CASTELNUOVO 

Le  poesie,  composte  quasi  tutte  per  occasioni  nuziali,  non  aspi- 
rano certo  a  spiccata  originalità;  esse  esprimono  nobiltà  di  sentimenti 
civili,  gentilezza  d'affetti  domestici,  con  una  limpida  verseggiatura, 
dove  risuona  qualche  eco  del  Foscolo  e  del  Leopapdi.  Le  traduzioni 
poeticele  dall'inglese  e  dal  tedesco  hanno  pregi  di  fedeltà  e  anche  di 
grazia  disinvolta.  Bellissime  le  commemorazioni,  perchè  egli  sapeva 
com,porre  in  armonia  i  diversi  tratti  e  momenti  delle  virtù  e  dell'opera 
dei  cari  e  illustri  perduti,  senza  mai  cadere  in  quelle  iperboliche 
apologie  che  scemano  il  consenso  o  provocano  addirittura  le  riserve 
di  chi  conobbe  e  sa. 

Cenno  più  ampio  meriterebbero,  se  il  tempo  lo  permettesse,  le 
letture  che  il  Gastelnuovo  veniva  facendo  all'Istituto  Veneto  intorno 
a  pubblicazioni  straniere.  Alcune  riguardano  la  poesia  e  l'arte,  come 
quelle  sulla  concezione  estetica  di  Leone  Tolstoi  da  lui  respinta, 
perchè  informata  esclusivamente  a  criteri  etici  e  religiosi,  sopra  un 
poemetto  di  Guglielmo  Wordsworth,  il  dolce  poeta  laghista,  su  Rud- 
yard.  Kipling,  il  poeta  apostolo  della  forza,  su  Rabindranatah  Ta- 
gore,  il  poeta-veggente  indù,  su  Paolo  Heyse,  il  novellatore  gentile  e 
fervidamente  innamorato  d'Italia.  Altre  trattano  di  materia  politica, 
come  la  critica  della  democrazia  moderna  dell'Ostrogorski,  le  vicende 
e  le  impressioni  del  nostro  Risorgimento  nelle  lettere  della  Regina 
Vittoria,  il  diario  e  la  corrispondenza  di  Lady  John  Russell,  la  figura 
del  principe  di  Bismarck  nei  ricordi  di  un  pittore  inglese.  Altre,  in- 
fine, si  riferiscono  a  soggetti  di  psicologia  sociale,  come  l'analisi  delle 
opinioni  americane  sulla  forza  e  sulla  ricchez2a,  nella  Vita  strenua 
di  Teodoro  Roosevelt  e  nel  Dominio  degli  affari  di  Andrea  Gamegie. 

La  grande  varietà  di  codeste  materie  attesta  la  versatile  coltura 
dello  scrittore;  ma  attraverso  a  quella  varietà  alita  il  suo  spirito  co- 
stante di  misura  e  di  equilibrio.  Egli  ammira  l'energia,  ma  è  avverso 
all'imperialismo  tracotante,  né  sa  aderire  al  soverchio  dispregio  de' 
deboli;  nella  vita,  accanto  all'operosità  pratica  assegna  un  alto  po- 
sto alla  pura  contemplazione,  come  nell'arte  la  assegna  alla  pura  bel- 
lezza; e  condannando  il  demagogismo,  non  esita  tuttavia  a  ricono- 
scere l'universalità  ineluttabile  e  benefica  del  movimento  democratico. 

Monografìe  e  discorsi  dotti  e  attraenti  gli  inspirò  Venezia.  Egli 
ritrasse  con  fine  garbo  una  libera  e  colta  gentildonna  del  settecento, 
Caterina  Dolfin  Tron,  pubblicandone  lettere  inedite  e  ricollocandola 
nella  cornice  di  quell'età  gaudiosa  e  spensierata;  compendiò  la  storia 
della  nostra  poesia  vernacola  in  una  sintesi  giudiziosa,  sebbene  ne- 
cessariamente incompleta,  perchè,  quand'egli  scriveva,  non  erano  an- 
cora sbocciati  i  fiori  più  freschi  e  fragranti  di  lirica  dialettiile  che 
mai  spuntassero  sul  margine  delle  lagune,  intendo  i  versi  di  Riccardo 
Selvatico;  riprese  a  trattare  con  erudizione  viva  il  periodo  storico 
che  quarant'anni  prima  gli  era  servito  di  sfondo  j)er  //  quaderno 
della  zia,  periodo  politicamente  mutevole  e  moralmente  depresso,  che 
seguì  il  crollo  della  Serenissima  e  vide  avvicendarsi  l'oc-cupazione 
francese  e  il  giacobinismo  municipale,  la  dominazione  austriaca,  il 
ritomo  dei  francesi  e  nuovamente  la  signoria  dell'Austria;  glorificò, 
in  un  discorso  rimasto  ancora  inedito,  la  figura  magnanima  di  Da- 
niele Manin.  lE  in  tutte  queste  pagine,  come  nei  romanzi  d'argo- 
mento o  colorito  veneziano,  trasfuse  il  suo  amore  per  l'incompara- 


ENRICO  CASTELNUOVO  213 

bile  Città,  per  le  sue  tradizioni  secolari,  pe'  suoi  cispetti  pittoreschi, 
pel  suo  popolo  argutamente  bonario  o  scettico  nelle  giornate  comuni, 
argutamente  rassegnato  e  stoico  nelle  giornate  di  passione. 

* 
•  * 

Può  dirsi  che  Venezia  abbia  mostrato  d'apprezzare  adeguata- 
mente l'alto  valore  di  quest'uomo?... 

La  mia  risposta  non  sa  essere  affermativa,  se  almeno  ricordo  il 
gelido  silenzio  con  cui  la  stampa  cittadina  accoglieva  quei  racconti 
che  radunavano  a  circolo  le  famiglie  attorno  alla  lampada  notturna, 
che  spictnavano  con  un  sorriso  tante  rughe,  che  a  tante  anime  affa- 
ticate recavano  ristoro  e  conforto.  Basta  a  spiegarci  questa  noncu- 
ranza l'indole  del  Gastelnuovo,  schiva  e  ritrosa,  come  ce  la  descrisse 
con  la  sua  consueta  finezza  d'analisi  e  nobiltà  di  {)arola,  Giovanni 
Bordiga?  {!)•  Non  basta,  perchè  anzi  l'eccesso  della  modestia  indivi- 
duale provoca,  nella  collettività  consapevole,  una  reazione  compensa- 
trice. Altre  e  più  generali  le  ragioni,  che  si  palesarono  anche  in  altri 
casi.  Intanto,  le  grandi  città  storiche,  che  assistettero  pel  corso  di  se- 
coli ai  più  straordinari  avvenimenti,  hanno  un  po'  tarda  e  pigra  la 
corda  dell'ammirazione  verso  l'ingegno  che  non  si  esplichi  in  forme 
vistose  e  clamorose.  Poi,  in  una  città  come  la  nostra,  artisticamente 
superba  ma  socialmente  angusta,  mancano  le  prospettive  necessarie 
ai  sicuri  giudizi,  e  ne  consegue  una  specie  d'inversione  delle  leggi  ot- 
tiche, per  la  quale  uomini  e  cose  superiori  facilmente  rimpiccioli- 
scono, mentre  uomini  e  cose  minori  facilmente  grandeggiano.  E  lo 
stesso  Gastelnuovo,  pur  così  modesto,  esprimeva  confidenzialmente, 
nella  forma  dubitativa  di  un  forse,  il  rimpianto  di  non  essere  cre- 
sciuto in  una  scena  più  vasta... 

Ma  se  a  lui  venne  meno  quella  consacrazione  uflBciale  che  può 
desumersi  dalla  larghezza  de'  pubblici  onori  e  dalle  esaltazioni  della 
stampa,  ne  fu  risarcito  dall'estimazione  profonda,  affettuosa,  di  una 
schiera  di  concittadini  illustri.  Ricordo:  —  Giacinto  Gallina,  il  mira- 
bile commediografo  che  ravvivò  velandolo  di  malinconie  l'estro  gol- 
doniano, Riccardo  Selvatico,  il  fine  poeta  e  nobile  magistrato  citta- 
dino, Glotaldo  Piucco,  critico  penetrante  della  scena  teatrale  e  della 
scena  politica,  Carlo  Combi,  profugo,  erudito,  maestro,  rivendicatore 
eloquente  dell'italianità  dell'Istria,  Rinaldo  Fulin,  ricercatore  inter- 
prete coordinatore  originale  e  sagace  dei  nostri  vetusti  documenti, 
Paulo  Fambri,  poligrafo  arguto  e  inesauribile,  Alessandro  Pascolato, 
che  allo  studio  del  diritto  e  della  storia  alleava  le  eleganze  letterarie. 
Clemente  Pellegrini  e  Marco  Diena,  insigni  e  austeri  giuristi,  Leo- 
poldo Bizio,  versatile  poliglotta  e  agile  traduttore.  Renato  Manzato, 
che  la  modernità  del  pensiero  scientifico  ornava  di  coltura  umani- 
stica, Pompeo  Molmenti,  lo  storico  geniale  e  avvivatone  dell'arte  e 
del  costume  veneziano;  e  basteranno  questi  nomi,  tutti,  ahimè,  fuor- 
ché i  due  ultimi,  di  amati  defunti,  per  misurare  la  statura  intellet- 
tuale di  quella  generazione.  Erano  uomini  diversi  di  tempra,  di  dolr- 
trina,  di  predilezioni  spirituali,  di  tendenze  politiche,  ma  tutti  con- 

(1)  6.  Bordiga,  T>i  Enrico  Gastelnuovo.  N^Ii  Atti  del  R.  Istituto  Veneto 
di  Scienze,  Lettere  ed  Arti.  Tomo  LXXV.  Parte  prima. 


214  ENRICO  CASTELNUOVO 

cordavano  nell'onorare,  nell'amare  in  Enrico  Gastelnuovo  l'acume 
dell'ingegno,  l'efficacia  dell'insegnamento,  l'integrità  dell'animo,  la 
dignità  della  vita.  Sono  queste  le  attestazioni  morali  ohe  più  confor- 
tano, perchè  indubitabilmente  sincere.  Non  oserei  dire  altrettanto 
delle  pubbliche  lodi,  che  spesso,  anche  se  non  siano  in  qualche  guisa 
contrattate,  si  regalano  per  opportunismo  o  si  distribuiscono  con  ap- 
parente spontaneità,  ma  con  la  secreta  speiranza  di  un  abbondante 
ricambio. 


*  • 

L'uomo  che  durante  tutta  la  sua  vita  pareva  mirasse  a  restrin- 
gere il  suo  posto  fra  gli  altri  uomini,  informò  a  quest'abito  mentale 
e  morale  anche  le  disposizioni  riguardanti  il  suo  dopo-morte,  e  pre- 
scrisse, fra  altro,  che,  qui  non  gli  fosse  eretto  alcun  ricordo.  La  pre- 
scrizione sembrò  a  noi  così  dura  che  non  sapemmo  rassegnare ici. 
Come?  Nel  recinto  di  Cà  Foscari,  presso  le  immagini  dei  nostri  bene- 
meriti, non  avrebbe  figurato  quella  di  lui,  che  fu  tra  i  benemeriti 
maggiori?  Obbedendo  a  quel  divieto,  non  avremmo  disobbedito  ad 
un  alto  dovere  educativo?  La  bontà  de'  suoi  figliuoli  comprese  questa 
pia  reluttanza  e  si  arrese  ed  nostro  voto.  Ma  nel  tempo  stesso  l'ar- 
tista squisito  che  s'era  disinteressatamente  assunto  di  eseguire  il  caro 
ricordo  (1),  ne  attenuò  le  forme  plastiche,  quasi  per  un  gentile  com- 
promesso fra  la  ritrosia  dell'estinto  che  voleva  abolite  le  proprie  sem- 
bianze e  la  nostra  gratitudine  che  reclamava  di  perpetuarle. 

La  sua  effigie  voi  la  vedrete  fra  poco:  scolpita  a  bassissimo  ri- 
lievo, con  lo  sguardo  che  sembra  velato,  con  un  sorriso  interiore  che 
spunta  a  fior  di  labbra,  e  vi  ritorneranno  alla  memoria  le  parole  che 
egli  proferiva  nel  congedarsi  dalla  nostra  Scuola;  vi  parrà  di  riudire 
l'inflessione  come  di  blanda  carezza  ohe  prendeva  la  sua  voce,  accom- 
pagnata da  un  ritmico  gesto  della  mano. 

Rileggiamo  insieme  religiosamente  quelle  parole.  Sono  il  suo  te- 
stamento spirituale. 

«  Ho  finito.  Sia  di  settimane  o  di  mesi,  un  intervallo  brevissimo 
mi  divide  dal  giorno  in  cui  lascerò  per  sempre  la  Scuola...  Tra- 

<  smessi  i  poteri  al  successore,  che  il  Corpo  Accademico  e  il  Consiglio 
e  il  Governo  si  decideranno  di  darmi,  entrerò  nella  zona  grigia  ove 
s'aggirano  le  ombre  malinconiche  dei  collocati  a  riposo...  Ivi,  assi- 
stendo al  rapido  volatilizzarsi  della  mia  piccola  scienza,  non  più 
tenuta  in  eserciz,io  dalle  consuete  lezioni,  mi  abbandonerò  alle  fan- 
tasticherie degli  sfaccendati;  subirò  anch'io,  ma  solo  per  un  istante, 

:<  lo  strano  fenomeno  di  sdoppiamento,  onde  ci  accade  di  considerare 
la  nostra  vita  come  cosa  distinta  da  noi,  di  rinfacciarle  quello  ch'essa 

«  non  ci  ha  dato,  e  di  dirle:  —  Era  un'altra  la  vita  che  ci  voleva  per 
me.  —  Così  talora  un  antico  sogno  d'amore,  evocato  dalle  profondità 

<  oscure  della  memoria,  turba  la  pace  serena  di  due  coniugi  ormai 
presso  la  mèta  del  viaggio  comune,  desta  nei  due  cuori  il  rimpianto 
di  un  bene  non  potuto  raggiungere,  porta  all'orlo  delle  due  bocche 
l'aspra  parola:  —  ì^on  eri  tu...  —  Frenatela  in  tempo  l'aspra,  l'in- 
cauta, la  vana  parola.  Chi  ci  assicura  che  l'antico  sogno  d'amore 

(1)  Lo  scultore  Pietro  Canonica. 


ENRICO  CASTELNUOVO  215 

«  non  si  sarebbe  risolfco  in  un  disinganno  crudele?  Sappiamo  noi  di 
«  quante  delusioni,  di  quante  ^amarezze  sarebbe  stata  intessuta  Valtra 
«  vita,  la  vita  che  ci  era  parsa  sì  bella  nelle  febbrili  vigilie  dell'ado- 
«  lescenza?...  Bando,  dunque,  alle  inutili  querimonie.  Non  guardiamo 
«  con  occhio  ostile  il  nostro  i>a^ato.  Cerchiamo  di  spremerne  il  succo 
«prezioso  che  ogni  passato  racchiude,  la  poesia  dei  ricordi.  Soave, 
«  divina  poesia,  in  cui  sa  fondono  le  ombre  e  le  luci,  e  sovente  si  tra- 
«  muta  in  dolcezza  ciò  che  fu  prima  dolore!  Sii  tu  la  consolatrice  del 
«  mio  tramonto,  popola  di  care  visioni  la  mia  solitudine,  richiama 
«  intomo  a  me  le  figure  domestiche  de'  miei  compagni  di  lavoro,  degli 
«  illustri  e  degli  umili,  di  quelli  che  invecchiarono  meco,  di  quelli 
«  ohe  caddero  lungo  il  cammino,  di  quelli  che  mi  si  posero  a  fianco 
<t  più  tardi  e  a'  quali  arridono  ancora  le  liete  promesse  deira\^enire. 
«  Ma  sopra  tutto,  o  divina  poesia  dei  ricordi,  fa  che  sino  all'ultimo 
«  giunga  al  mio  orecchio  la  nota  gaia,  squillante  della  giovinezza.  Per 
«oltre  quarant'anni  essa  mi  incitò  all'opera  quotidiana;  rompa, ora  i 
«  silenzi  monotoni  delle  oziose  giornate,  e  non  cessi  che  cpiando  mi 
«  av\olga  un  silenzio  più  grande  » . 

Pagina  che  sarebbe  dovunque  ammirevole,  ma  che  panni  unica 
nella  nostra  oratoria  scolastica,  più  incline  a  certa  compostezza  to- 
gata che  a  libertà  d'abbandoni  umani.  Bontà!  Ironia!  Voi  ci  ricom- 
parite ancora  dinanzi.  Soltanto,  l'ironia  trascorre  di  volo,  è  verbale 
non  sostanziale,  si  ripiega  scherzosamente  sullo  scrittore,  altri  non 
investe  e  non  punge.  Ciò  che  domina  è  la  bontà.  Bontà  discreta  di 
psicologo,  la  quale  tutta  si  palesa  nel  gesto  commosso  con  cui  egli 
depreca  la  dura  parola  che  starebbe  per  rinnegare  una  lunga  convi- 
venza domestica;  bontà  fervida  di  maestro,  pel  quale  la  scuola  rias- 
sumeva le  più  dolci  memorie  del  passato  ch'egli  aveva  vissuto,  le  più 
promettenti  speranze  di  un  avvenire  ch'egli  non  avrebbe  veduto.  Av- 
viandosi al  sonno  senza  fine,  Enrico  Gastelnuovo  udiva  ancora,  udiva 
con  gioia,  risonare  intomo  a  sé  il  festoso  clamore  giovanile  che  aveva 
allietato  tante  ore  della  sua  veglia  mortale.  Ricambiatelo,  o  giovani, 
voi  che  lo  avete  conosciuto  ed  amato,  voi  che  lo  conoscete  ed  amate 
attraverso  i  suoi  libri;  e  posando  l'occhio  sul  bronzo  che  ne  ritrae  le 
miti  sembianze,  volgendo  il  pensiero  all'umetta  che  laggiù  nell'isola 
solitaria  racchiude  le  sue  ceneri,  levando  l'anima  verso  la  sfera  delle 
nobili  idee  ove  alita  il  suo  spirito,  ripetete  la  memore  riconoscente 
parola:  «grazie,  maestro!  », 

Antonio  Fradeletto. 


i 


IL  DIO  DEI  VIVENTI 


ROMANZO 


Nell'andarsene  egli  si  sentì  alquanto  sollevato. 

Aveva  messo  la  mano  sulla  testa  di  Salvatore,  con  rimpressicme, 
al  contatto  di  quei  capelli  fini  e  tiepidi,  di  carezzare  una  tortora  o 
una  pernice  di-  nido. 

—  Non  studiare  troppo,  che  ti  fai  venire  male  alla  testa;  —  disse, 
e  questa  volta  convinto  di  quello  che  diceva.  —  Addio. 

—  Addio  e  buona  notte. 

Gli  parve  che  il  ragazzo  gli  fosse  meno  nemico:  e  anche  Lia 
prese  senza  parlare  il  biglietto  di  cento  lire  piegato  in  otto  che  egli 
furtivamente  le  mise  in  mano  quando  ella  lo  accompagnò  alla  porta. 

Poi  respirò  profondamente.  Era  contento  che  Lia  prendesse  i 
denari  :  forse  gliene  aveva  già  dato  un  po'  troppi,  in  così  breve  spazio 
di  tempo;  e  gli  sarebbe  dispiaciuto  oh'ellà  ci  prendesse  l'abitudine  : 
ma  era  come  un'offerta  a  un  santo  dal  quale  si  vuole  ottenere  una 
grazia. 

Intanto  invece  di  dirigersi  a  casa  sua  andava  dalla  parte  opposta 
verso  la  piazza  :  sentiva  bisogno  di  camminare,  di  sfuggire  ai  propri 
pensieri.  Avesse  almeno  avuto  come  tutti  i  suoi  amici  e  parenti  la 
consolazione  di  bere,  gli  fossero  almeno  piaciute  le  donne:  nulla, 
non  aveva  vizi  e  quindi  neppure  il  modo  di  sfuggire  almeno  momen- 
taneamente a  sé  stesso. 

Cammina  oamimina  arrivò  in  fondo  al  paese,  arrivò  davanti  alla 
chiesetta  rovinata  e  al  grande  prato  dei  fioralisi  :  la  luna  al  suo  ul- 
timo quarto  spuntava  laggiiì,  lucida,  dorata  a  nuovo;  e  i  fiori  e  i 
cespugli  già  si  specchiavano  nella  loro  ombra.  Il  cuculo  si  lamentava, 
ma  pareva  lo  facesse  per  finzione,  per  darsi  a  credere  infelice  e  quindi 
intenerire  chi  lo  ascoltava  e  farsi  amare  nonostante  la  sua  lugubre 
fama. 

Zebedeo  non  si  inteneriva,  o  meglio  s'inteneriva,  ma  irritandosi 
contro  il  suo  sentimento;  oramai  conosceva  gli  uomini  e  le  cose  e 
gli  sembrava  che  tutti  fingessero  perchè  fingeva  lui. 

Nella  tettoia  del  vecchio  fabbro  c'era  luce:  una  fiammella  ardeva 
da  sola  come  un  fuoco  fatuo. 

Avanzandosi  Zebedeo  vide  il  vecchio  seduto  scalzo  in  un  angolo 
con  gli  occhiali  sul  naso  curvo  ad  aggiustare  un  oggetto  misterioso; 
e  gli  pareva  uno  stregone  intento  a  fare  qualche  diavoleria:  ma  av- 
vicinandosi meglio  vide  che  si  aggiustava  le  scarpe. 


IL  DIO  DEI   VIVENTI  2l7 

Nel  ravvisare  il  visitatore  il  vecchio  non  smise  la  sua  faccenda, 
solo  allungò  uxia  mano  dietro  di  sé  e  dai  mucchio  degli  strumenti 
sempre  lì  abbandonati  per  terra  prese  le  forbici  da  potare,  e  gliele 
porse, 

Zebedeo  fece  scattare  il  gancio  che  le  chiudeva  forte  ed  esse  si 
aprirono  acute  e  minacciose;  la  molla  nuova  flessibile  come  un  bruco 
funzionava  benissimo. 

—  Non  sono  venuto  prima  —  disse  —  perchè  m'è  accaduto  un 
sacco  di  accidenti;  l'avrete  saputo. 

Il  vecchio  l'aveva  saputo,  ma  non  gliene  importava  niente:  ca- 
desse il  mondo  il  suo  pensiero  non  poteva  essere  distolto  dal  suo  punto 
fìsso, 

—  Fate  anche  da  calssolaio,  a  quanto  vedo  —  osservò  Zebedeo. 

—  Arrangiarsi  bisogna;  Dio  ci  ha  dato  le  mani  per  far  di  tutto. 

—  Anche  per  rubare. 

Il  vecchio  rispose  come  l'eco  alla  voce  del  cuculo. 

—  Anche  per  rubare. 

E  ficcava  forte  la  lesina  nel  cuoio. 

Zebedeo  lo  guardava  pensando  a  Lia  che  pur  essa  lavorava  di 
notte  e  sperava  vendetta  dalla  forza  del  suo  odio, 

—  Zio  Michele,  se  permettete  mi  metto  a  sedere  qui  sul  ceppo 
ove  ferrate  i  cavalli;  è  una  sedia  che  non  tentenna.  Ah,  che  vedo  dietro 
il  vostro  sgabello?  Una  bottiglia  di  vino.  È  una  buona  compagnia, 
beato  voi.  Si  sta  bene  qui;  passa  il  venticello;  pare  che  gli  angeli 
sbattano  le  ali  qui  intomo.  Dunque  io  non  sono  venuto  solo  per  le 
forbici,  sono  venuto  anche  per  domandarvi  se  avd-e  ricevuto  una 
lettera  di  Pietro  Paolo,  il  quale  vi  domanda  se  volete  andare  a  lavo- 
rare da  lui.  Voi  non  gli  avete  ancora  risposto:  perchè  non  gli  ri- 
spondete? 

Egli  si  aspettava  uno  scatto  del  vecchio,  per  la  sorpresa  di  sentir 
proprio  lui  a  far  da  intermediario  al  suo  antico  apprendista;  ma  SI 
vecchio  continuò  a  lavorare. 

—  Non  c'è  niente  da  rispondere. 

—  Perchè  non  c'è  niente  da  rispondere?  Quello  vi  propone  un 
ottimo  affare,  quasi  la  sicurezza  di  una  fortuna,  e  voi  continuate  a 
punger  la  lesina  sulle  vostre  scarpe  logore  che  non  reggono  più  nep- 
pure i  punti. 

—  Il  mio  posto  è  qui. 

—  Perchè?  Per  imprecare  contro  i  ladri  del  vostro  sacchetto?  Ma 
potete  imprecarli  ancora  là.  Dio  ci  ascolta  ovunque. 

—  Tu  ce  l'hai  coi  ladri  del  mio  sacchetto  :  pare  che  tu  fossi  della 
compagnia,  —  disse  allora  il  vecchio  non  senza  cattiveria. 

2iebedeo  imprecò;  poi  guardò  pensieroso  le  forbici  che  teneva  in 
mano  e  riprese  a  parlare  serio. 

—  Ascoltatemi,  zio  Michele:  c'è  una  persona  che  ha  interesse  che 
voi  andate  da  Pietro  Paolo  almeno  per  qualche  tempo.  Se  questa  per- 
sona vi  offrisse  un'indennità,  nel  caso  che  non  possiate  trovarvi  con- 
tento, una  indennità  e  il  modo  di  ritornare  e  di  ristabilirvi  qui,  che 
ne  direste?  * 

—  A  che  scopo  dovrei  andare? 

—  Ebbene,  voglio  parlarvi  chiaro;  siete  un  uomo  di  carattere  e 
potremo  capirci.  Si  tratta  di  andare  presso  Pietro  Paolo  per  assicu- 

15  V<d.  CCXVU.  serie  VI  —  1'  apiile  1922. 


218  IL  DIO  DEI   VIVENTI 

rarsi  anzitutto  so  davvero  egli  possiede  la  fortuna  di  cui  si  vanta,  e 
poi  per  conoscere  i  suoi  veri  sentimenti  verso  la  moglie. 
Il  vecchio  aveva  già  tutto  capito. 

—  Anche  a  me  egli  ha  scritto  che  vuol  riunirsi  alla  moglie,  e 
prenderebbe  anche  il  ragazzo;  io  credo  che  quella  donna  farebbe 
molto  bene  a  ritornare  con  lui  e  rimettersi  così  nella  via  del  Signore. 

—  Ohe  voi  siate  benedetto,  zio  Michele.  Voi  parlate  come  un 
vecchio  santo  che  siete,  —  disse  Zebedeo  con  sollievo.  —  Ma  il  guaio 
è  che  la  donna  non  vuol  sentirne  neppure  a  parlare  :  ha  paura  che 
il  marito  l'attiri  per  ucciderla. 

—  E  se  l'uccide  fa  bene:  non  lo  ha  peggio  che  ucciso,  lei?  Lo 
ha  ridotto  come  un  bue  sgarettato;  coma  e  disgrazia;  ed  era  un  buon 
ragazzo,  Pietro  Paolo,  tutto  amore  per  lei;  per  lei  è  andato  in  cerca 
di  fortuna  e  mentre  lui  faceva  questo  lei  gli  rendeva  i  bei  servizi  che 
tutti  sappiamo. 

—  Siamo  tutti  soggetti  all'errore,  —  disse  2iebedeo  sospirando, 
quasi  volesse  scusare  Lia.  —  T\itto  sta  a  sapervi  rimediare. 

—  Non  è  vero;  Dio  ci  ha  dato  un'anima  viva,  e  sta  in  noi  fare 
il  bene  e  il  male  :  noi  siamo  nel  mondo  solo  per  questo. 

—  Ma  non.  sempre  si  discerne  qual'è  il  bene  e  quale  il  male. 

—  Non  è  vero;  si  disceme  sempre  :  basta  imterrogare  la  propria 
coscienza.  Dio  ci  parla  per  mezzo  di  lei. 

—  Voi  siete  un  santo,  —  esclamò  Zebedeo,  riprendendo  il  tono 
earcastico  di  prima,  —  ma  torniamo  al  nostro  argomento.  Vi  parlo 
francamente:  io  e  la  mia  famiglia  abbiamo  interesse  che  Lia  tomi 
col  marito;  anche  perchè  la  gente  finisca  col  dimenticare  la  sua  con- 
dotta scandalosa  col  povero  Basilio.  Voi  dovreste  andare  presso  Pietro 
Paolo:  dii  là  scrivete  come  stanno  le  cose,  persuadendo  la  donna  a 
fare  il  suo  dovere. 

Era  una  parte  quasi  nobile,  quella  che  Zebedeo  gli  proponeva, 
eppure  il  vecchio  scuoteva  la  testa,  accennando  di  no,  di  no,  alla 
scarpa  che  teneva  in  mano.  No,  vecchia  scarpa,  tu  continuerai  a  sop- 
portare i  punti  delle  mie  vecchie  dita  e  a  far  compagnia  al  mio 
vecchio  piede:  ma  io  non  voglio  prendere  parte  all'impresa  lucrosa 
che  mi  propone  2iebedeo  iBareai  :  il  perehè  lo  so  io. 

E  Zebedeo  sentiva  queste  parole  non  pronunziate  e  se  ne  irri- 
tava: avrebbe  voluto  bastonare  il  vecchio,  mentre  lo  guardava  con 
venerazione. 

A 

Il  giorno  dopo  Bellia  si  recò  dal  dottore  per  l'operazione  alla 
mano.  Il  padre  lo  accompagnò  :  voleva  andarci  anche  la  madre,  ma 
egli  protestò  vivamente. 

—  Neppure  quelli  che  partono  per  la  gnerra  vengono  accompa- 
gnati così!  Lasciatemi  andar  solo. 

Il  padre  lo  seguiva  silenzioso,  deciso  a  sorvegliare  il  dottore, 
contro  il  quale  sentiva  germogliare  il  seme  della  diflSdenza  sparso 
dalle  parole  malvagie  di  Lia. 

Ma  tutto  andò  bene.  Bellia  era  un  po'  pallido  e  stringeva  i  denti 
per  frenare  un  lieve  tremito  ohe  gli  agitava  la  bocca;  però  non  sentì 
dolore  quando  la  punta  della  lancetta  gli  spaccò  la  carne  molle  e 


IL  DIO  DEI  VIVENTI  219 

bianca  nel  punto  della  mano  ove  s'era  formatta  la  materia  :  e  questa 
schizzò  gialla  e  rossa  fino  al  viso  chino  del  dottore. 

Il  dottore  non  a.veva  paura  di  nulla:  operava  in  modo  ancora 
primitivo,  senza  gxianti,  senza  eccessive  precauzioni,  e  solo  aveva 
cura  di  disinfettare  bene  gli  strumenti;  e  parlava  per  distrarre  il 
malato. 

—  Sono  stato  fino  adesso  dal  maresciallo  per  l'affare  di  Sant'An- 
tonio e  di  San  Pietro.  Io  sono  del  parere  che  l'isterica  abbia  avuto 
un'allucinazione,  con  subcoscienza  di  averla.  Tu  non  capisci  cosa 
vuol  dire?  Ecco,  lei  stessa,  saf>endo  di  desiderare,  nella  visita  del 
Santo,  una  cosa  impossibile,  ordisce  con  la  sua  inunaginazione  l'av- 
ventura grottesca.  L'ordisce  in  modo  che  Sant'Antonio  rappresenti 
la  parte  fantastica  e  San  Pietro  la  parte  reale  del  dramma.  Sant'An- 
tonio è  la  sua  fantasia.  San  Pietro  è  la  sua  coscienza  deUa  realtà  :  ed 
ella  evita  di  parlare  di  questa  seconda  parte  dell'avventura,  mentre 
è  quella  che  più  la  tormenta.  Del  resto  succede  un  po'  a  tutti,  e  più 
spesso  che  non  crediamo. 

Belila  non  capiva,  e  non  si  curava  di  caipire,  mentre  il  padre, 
che  s'era  seduto  in  un  angolo  e  cercava  di  nascondersi  il  più  possi- 
bile, capiva  i)erfettamente  :  e  accorgendosi  della  poca  comprensione 
del  figlio,  pensava  che  Salvatore  invece  avrebbe  ribattuto  e  discusso 
le  chiacchiere  del  dottore. 

Eppure  gli  piaceva  ohe  Bellia  fosse  così. 

Il  dottore  continuava  a  premere  la  mano  e  pareva  volesse  vuo- 
tarla di  tutto  il  suo  sangue;  premeva,  poi  asciugava  con  pezzi  di 
ovatta  che  buttava  insanguinati  entro  un  catino, 

— .  L'affare  è  che  il  majesciallo  non  capisce  :  non  solo,  ma  crede 
che  io  mi  burli  di  lui.  Non  è  escluso  che  egli  creda  che  uno  dei  due 
malandrini  sia  stato  io! 

Questo  sì,  fece  ridere  Bellia,  ma  a  guisa  dei  bambini  quando 
vogliono  piangere:  qualche  cosa  gli  ronzava  in  gola,  come  im'ape 
prigioniera;  il  riso  gliela  cacciò  fuori,  ed  ^li  si  sentì  sollevato  più 
che  se  avesse  pianto. 

—  Non  ridere,  sta  fermo.  Fermo!  Se  no  non  ti  dico  quello  che 
penso  di  fare  aJ  maresciallo, 

—  Me  lo  dica!  —  implorò  Bellia. 

—  Te  lo  dico,  ma  prima  dimmi  tu  quale  dei  due  dovrei  essere 
stato  io  :  Antonio  o  Pietro? 

Bellia  credette  di  fargli  un  complimento  : 

—  Sant'Antonio. 

—  E  perchè  poi?  Mi  credi  un  idiota?  I  santi  sono  tutti  idioti. 

—  Ma  anche  San  Pietro  è  un  santo. 

—  È  vero:  ma  questa  volta  si  è  mostrato  furbo.  A  dire  il  vero 
s'è  mostrato  furbo  anche  la  prima  volta,  quando  se  la  squagliò  al 
canto  del  gallo,  e  per  questo  Gesù  lo  preferisce  :  tanto  è  vero  che  gli 
ha  affidato  la  portineria  del  paradiso,  e  in  tutte  le  storielle  ove  si 
racconta  di  viaggetti  di  Gesù  in  terra,  vediamo  che  il  Signore  si  fa 
sempre  accompagnare  da  Pietro. 

Zebedeo  pensava  sempre  a  Salvatore.  Pensava  che  il  ragazzo 
avrebbe  adesso  prontamente  risposto  «  le  storielle  le  hanno  inven- 
tate gli  uomini  »  e  avrebbe  voluto  dirlo  lui,  ma  non  osò. 

—  E  anche  in  queste  storielle  Pietro  rappresenta  l'uomo  pratico. 


220  IL  DIO  DEI  VIVENTI 

ruomo  ohe  per  la  sua  esperienzaa  e  la  sua  prontezza  s'è  guadatalo 
pienamente  la  fiducia  di  Dio  e  quindi  le  chiavi  del  paradiso.  Se  lui 
non  vuole  non  lascia  uscirne  neppure  Dio:  e  se  lui  vuole  può  farci 
rientrare  Lucifero,  nel  paradiso.  Non  mi  dispiacerebbe  dunque  di 
fare  la  parte  di  Pietro;  eppure,  a  pensarci  bene,  preferisco  quella  di 
Antonio. 

—  Perchè?  —  domandò  Bellia  disorientato. 

—  Perchè  Antonio  è  più  felice.  Il  nostro,  s'jntende,  Antonio  l'ere- 
mita, Antonio  del  porchetto.  Mi  piace  perchè  è  buono,  perchè  può 
vivere  solo,  perchè  infine  un  giorno  che  ha  voglia  di  far  baldoria, 
può  ammazzare  e  arrostire  il  porchette.  Ecco  che  ridi  ancora.  Ridi 
pure  adesso;  il  nemico  è  fuori  di  te. 

—  Sai  —  disse  poi  fasciandogli  di  nuovo  la  mano  —  voglio  far 
credere  al  maresciallo  che  uno  dei  due  sono  stato  io  per  una  espe- 
rienza mia  scientifica  sulla  donna.  Vedrai  ohe  quello  mi  mette  dav- 
vero al  fresco. 

E  mentre  ripuliva  bene  i  suoi  strumenti,  si  volse  a  Zebedeo. 

—  E  adesso  sentite,  zio  Zebedeo;  al  fresco  bisogna  portare  questo 
ragazzo,  al  vero  fresco:  al  mare. 

Zebedeo  s'era  alzato  tutto  di  un  pezzo  e  stava  lì  rigido  e  tuttavia 
con  qualche  cosa  di  cascante  in  tutta  la  persona,  come  un  burattino. 

—  Al  mare? 

—  Al  mare,  a  respirare  un  po'  d'aria  buona.  Non  subito;  prima 
deve  guarir  bene  la  mano:  più  in  là,  in  giugno,  in  luglio,  anche 
agosto  se  occorre.  Perchè  mi  guardate  così?  Non  avete  bisogno  di  pre- 
starvi i  denari  o  di  rubarli  per  fare  questo  viaggio. 

E  a  Zebedeo  pareva  ohe  il  dottore  ammiccasse  malignamente. 

• 
•  • 

In  giugno  la  mano  di  Bellia  non  era  ancora  goiarita.  Dopo  cjualche 
miglioramento  si  gonfiò  di  nuovo;  quindi  nuovi  impacchi,  nuovi 
tagli.  Lo  stesso  dottore  si  mostrava  impressionato  e  diceva  franca- 
mente che  mai  gli  era  capitato  un  caso  eguale. 

Intanto  Bellia  deperiva  magro  pallido  melanconico, 'e  non  voleva 
più  uscire  di  casa  neppure  per  recarsi  dal  dottore,  nel  quale  anche 
lui  aveva  perduto  la  fiducia. 

Stava  tutto  il  giorno  in  cucina,  seduto  presso  l'uscio,  e  s'interes- 
sava solo  ai  fatti  delle  donne.  La  sua  vittima  era  Rosa,  che  soppor- 
tava pazientemente  i  suoi  rimbrotti  e  i  suoi  schemi  :  ma  anche  lei 
aveva  la  sua  idea  fissa,  di  procurarsi  un  oggetto  p>ersonale  di  Lia, 
un  fazzoletto  o  una  pezzuola,  per  avvolgere  la  mano  del  padroncino 
e  scongiurare  il  male  misterioso. 

I  padroni  le  avevano  proibito  di  salutare  Lia;  e  lei  non  si  fì 
d'incaricare  della  faccenda  una  terza  persona  che  poteva  non  \v 
il  segreto;  aspettava  però  un'occasione  favorevole  che  finalmente  si 
presentò. 

Era  la  vigilia  di  San  Giovanni.  Dopo  una  notte  calda  e  afosa, 
Bellia  non  volle  alzarsi  di  letto;  si  sentiva  fiacco,  stroncato  dall'in- 
sonnia e  dallo  scirocco,  e  diceva  di  aver  la  febbre:  la  madre  cacciò 
via  dalla  stanza  le  mosche  col  suo  grembiale,  poi  chiuse  gli  scurini 


IL  DIO  DEI  VIVENTI  221 

e  andò  anche  lei  a  buttarsi  come  un  sacco  vuoto  sulla  sedia  ove  il 
figlio  soleva  passare  le  sue  ore  di  ozio  e  di  noia. 

La  vecchia  zia  Annia  era  andata  a,  messa  :  Rosa  accorse  verso  la 
padrona  come  volesse  porgerle  aiuto. 

—  Sta  male,  Belila? 

—  Sta  male  sì,  dice  che  ha  la  febbre.  Questa  malìa  non  passa 
mai  —  mormorò  la  padrona  con  grande  stanchezza.  —  E  le  lagrime 
le  corsero  sul  viso  solcato  d'inquietudine. 

—  Il  dottore  non  vale  a  nulla  —  pros^uì.  —  Adesso  abbiamo 
pensato  con  Zebedeo  di  condurre  il  ragazzo  da  un  professore.  Se 
occorre  si  andrà  anche  a  Roma;  purché  questa  pena  possa  finire. 

—  Eppure...  Il  cuore  mi  dice  che  il  rimedio  è  forse  più  vicino 
ohe  non  si  creda. 

. —  E  dimmelo,  tu!  Io  ho  fatto  celebrare  sette  messe  per  le  anime 
del  purgatorio:  ho  dato  una  vitella  a  Sant'Antonio,  sette  scudi  a 
Santa  Lucia  :  ma  lui  non  guarisce. 

Rosa  si  fece  coraggio. 

—  Bisogna  togliere  qualche  oggetto  a  Lia,  volete  sentirlo?  Ve- 
drete che  il  male  passerà  :  e  staremo  meglio  tutti  perchè  qui  si  tratta 
di  malìa  :  non  vedete  che  anche  il  padrone,  vostro  marito,  non  è  più 
lui?  Ha  cambiato  umore  come  dal  giorno  alla  notte;  è  tutto  scuro  e 
tetro  come  un  monaco  in  p>enibenza.  E  tutte  le  disgrazie  che  vi  suc- 
cedono? Il  bestiame  che  muore,  il  frumento  che  si  è  seccato  prima  di 
granire,  le  cavallette  che  barino  invaso  la  vigna?  Non  vedete  persino 
le  galline  sono  malate...  Nessuno  osa  dirvelo,  ma  tutti  credono  che 
qui  si  tratti  di  malìa.  La  strega,  la  fattucchiera  è  lei  :  bisogna  tro- 
vare lo  scongiuro. 

La  padrona  piangeva  in  silenzio. 

—  Mandatemi  da  lei,  —  implorò  la  serva  piegandosi  con  le  mani 
giunte  e  declamando  alquanto  la  sua  parte.  —  Una  sera  io  vado  là 
di  nascosto  e  le  tolgo  l'oggetto;  in  nome  del  padre,  del  figlio,  dello 
spirito  santo,  tutto  andrà  bene.  Mandatemi  da  lei  con  qualche  cosa. 
^  —  Ci  ho  pensato  anch'io,  a  mandarle  qualche  cosa:  ma  l'ao- 
cetterà? 

—  Quella?  Quella  accetta  tutto  :  salvo  magari  a  maledire  lo  stesso, 
ma  accetta  ogni  cosa. 

—  E  come  le  dirai? 

—  A  questo  ci  penserò  io:  state  tranquilla,  saprò  fare  la  mia 
parte.  Io  stasera  andrò  fuori  :  dirò  a  zia  Annia  che  vado  col  vostro 
permesso  a  bagnarmi  i  piedi  al  fiume  e  cogliere  le  erbe  di  San  Gio- 
vanni. Anche  quelle  son  buone  per  lo  scongiuro:  voi  lasciatemi  an- 
dare, al  resto  p>enserò  io. 

Allora  discussero  sul  regalo  da  portare  a  Lia:  qualche  cosa  che 
le  piacesse,  che  la  placasse  almeno  per  un  poco.  Ma  bisognava  non 
destare  sospetti  in  zia  Annia,  il  cui  odio  era  irriducibile;  e  zia  Annia 
sa  tutto  quello  che  c'è  in  casa.  Pensa  e  ripensa  decisero  di  offrire  a 
Lia  del  danaro. 

—  Ma  si  offenderà. 

—  Quanto  siete  semplice,  padrona  mia!  Voi  datemi  il  danaro;  al 
resto  penserò  io. 

Tutto  il  giorno  Belila  dormicchiò  nella  sua  camera,  ove  il  caldo 
faceva  penetrare  dall'attigua  dispensa  un  odore  di  formaggio  grasso 


222  IL  DIO  DEI  VIVENTI 

e  di  conserve,  e  dal  cortile  la  puzza  della  stalla;  le  mosche  ronzavano 
nel  buio,  gli  i>assavano  sulle  mani  e  sul  viso,  gli  destavano  un  brivido 
nervoso;  insistevano  specialmente  isulla  mano  malata  e  pareva  voles- 
sero penetrare  sotto  la  fasciatura  e  succhiargli  la  piaga. 

Egli  dormicchiava,  ma  ogni  tanto  aveva  l'impressione  di  cadere 
dal  letto  e  si  svegliava  di  soprassalto.  Non  voleva  alzarsi,  non  aapeva 
neppure  ìxà  perchè;  si  sentiva  cattivo  con  una  voglia  crudele  di  far 
dispiacere  ai  suoi  e  specialmente  alla  madre,  che  ogni  tanto  veniva 
a  guardarlo  a  toccarlo  a  domandargli  come  stava. 

—  Fa  molto  caldo  oggi,  Bellia,  è  il  primo  giorno  di  caldo  e 
perciò  sei  stordito:  ma  febbre  non  ne  hai;  verso  sera  starai  meglio. 
Tuo  padre  tornerà  dal  podere  e  porterà  i  fichi  e  le  mele  dd  San  Gio- 
vanni. 

Avrebbe  voluto  dirgli  «  andrai  anche  tu  fuori,  nei  prati,  a  ba- 
gnarti i  piedi  nel  fiume  »,  ma  desiderava  ch'egli  non  si  mettesse  dav- 
vero in  mente  l'idea  di  uscire  :  era  bene  ohe  nessuno  di  casa  uscisse 
quella  notte  tranne  la  iserva. 

Bellia  pensava  al  podere,  alla  vigna  e  ai  pascoli  dello  zio:  là 
tutto  era  fresco;  i  grandi  alberi  stormii  vano  al  vento,  le  lepri  corre- 
vano rapide  da  un  cespuglio  all'altro  con  le  orecchie  dritte  e  gli  occhi 
spaventato.  L'anno  avanti,  proprio  di  quei  giorni,  c'era  stato  con  lo 
zào:  ricordava  però  che  lo  zio  non  lo  conduceva  con  molto  entu- 
siasmo nella  sua  proprietà  :  pareva  non  volesse  fargliela  inutilmente 
desiderare.  E  per  questo  egli  l'aveva  desiderata;  non  per  il  suo  grande 
valore,  ma  perchè  era  bella. 

Ed  ecco  che  era  sua,  e  non  poteva  godersela.  Pareva  ohe  il  pu- 
ledro maledétto  l'avesse  condotto  là,  quél  primo  giorno,  come  il  ca- 
vallo del  diavolo  per  fargli  vedere  il  paradiso  e  poi  cacciarvelo  fuori 
per  sempre. 

Per  sempre?  Sì,  per  semipre;  perchè  lui  aveva  il  presentimento 
di  morire  presto.  Si  sentiva  venir  meno  giorno  per  giorno  come  una 
cosa  che  si  scioglie,  come  oin  fiore  che  appassisce;  e  podchè  doveva 
morire  non  amava  pdù  di  muoversi,  di  vedere  la  luce. 

Verso  sera  si  sentì  meglio  come  aveva  predetto  la  madre.  Il  vento 
di  ponente  rinfrescava  l'aria  cacciando  via  verso  il  mare  l'afa  e  i 
vapori  ardenti;  e  da  questi  sorgeva  la  luna,  dapprima  gonfia  e  rossa 
come  avesse  corso  attraverso  un  deserto  infuocato,  poi  sempre  più 
piccola  e  chiara,  di  un  pallore  di  ghiaccio  che  si  diffuse  sulla  terra 
febbricitante. 

E  la  terra  si  assopì  in  un  sogno  ohe  risentiva  ancora  della  febbre 
del  giorno;  e  ogni  cosa  ogni  pietra  ogni  tegola  del  paese  ogni  canna 
e  ogni  foglia  dei  prati  prese  una  forma  diversa  e  cominciò  a  lucci- 
care o  a  farei  nera,  e  a  odorare. 

La  madre  entrò  nella  camera  di  Bellia  e  apri  la  finestra:  egli 
rivide  il  cielo  azzurro  sopra  la  linea  della  tettoia  nuova,  sentì  lo 
scalpitare  di  un  cavallo  nella  stalla  e  l'odore  del  fieno  e  dell'asfodeJo  : 
anche  l'incubo  si  sollevò  da  lui  e  andò  a  volar  fuori  coi  pipistrelli 
del  cortile. 

— ■  Alzati,  —  disse  la  madre.  —  Adesso  toma  tuo  padre  e  sai 
come  gli  dispiace  vederti  così.  Perchè  vuoi  farti  ammalato  quando 
non  lo  sei? 

Egli  si  alzò  e  uscì  nel  cortile. 


IL  DIO  DEI  VIVENTI  223 

Sì,  eg-li  lo  sapeva  ohe  il  padre  soffriva,  che  soffriva  più  di  lui  :  da 
qualche  tempo  non  diceva  più  nulla,  il  padre,  a  proposito  della  mano 
malata,  ma  parlava  sempre  di  andare  al  mare.  Ci  sarebbe  andato 
anche  lui.  Andare,  andare.  Aveva  una  smania  di  muoversi,  di  andare 
lontano;  tutti  i  giorni  scendeva  al  podere  a  lavorare  coi  servi  e  quando 
tornava  girava  sempre  per -il  paese;  pareva  avesse  paura  di  stare  a 
casa. 

Ecco  il  passo  della  sua  cavalla,  nella,  strada  ove  risona  un  brusìo 
di  voci  femminili  e  un  canto  di  bambini  che  ballano  e  giocano. 

Tutta  la  gente  del  paese  è  fuori  attirata  dal  chiarore  del  crepu- 
scolo e  della  luna;  e  tutti  sembrano  pr^  da  una  specie  di  ubria- 
chezza, tutti  chiacchierano  e  ridono  felici  come  se  abbiano  abbando- 
nato per  sempre  i  loro  tuguri  caldi  e  fetidi  per  abitare  la  grande  e 
luminosa  casa  della  notte  lunare. 

Il  cane  si  slancia  a  grattare  il  portone  ed  ha  un  mugolìo  di  pro- 
testa perchè  solo  la  casa  dei  suoi  padroni  è  chiusa  come  una  prigione. 

Rosa  lo  chiama  dall'uscio  di  cucina,  gli  parla  come  ad  un  uomo, 
gli  gitta  da  un  piatto  alcimi  ossi  che  rimbalzano  contro  il  selcialo 
del  cortile:  ma  anche  lei  è  irrequieta,  con  gli  occhi  lucidi,  e  d'un 
tratto  sa  slancia  verso  la  legnaia  con  un  urlo  di  rapina  e  afferra  entro 
il  pugno  una  lucciola  volante;  poi  va  ad  aprire  al  padrone. 

Il  padrone  entra  a  cavallo  nel  cortile;  la  sua  figura  tutta  nera  ar- 
riva fino  alla  luna  che  spunta  sopra  il  muro  e  l'ombra  sua  e  del  ca- 
vallo oscurano  la  notte  ckivanti  a  Belila. 

—  Ck)me  va?  —  grida,  mentre  Rosa  con  una  mano  gli  tiene  la 
briglia  e  con  l'altra  stringe  la  lucciola. 

Bellia  ha  veglia  di  rispondere  : 

—  Male,  muoio,  son  già  morto. 

Le  sue  labbra  si  rifiutano  di  parlare;  il  suo  silenzio  però  è  più 
triste  delle  sue  parole  :  e  non  lo  scuote  neppure  il  grido  di  Rosa  che 
guarda  dentro  la  bisaccia  del  padrone. 

—  Sa  icu,  sa  icu! 


• 
•  * 

Nessuno  all'infuori  di  lei  aveva  veglia  di  godere  di  quei  primi 
frutti  del  podere.  Zebedeo  non  mangiava  mai  frutta,  percliè  frutta 
e  dolci  son  cose  da  donna,  e  anche  la  moglie  e  zia  Annda  non  erano 
golose:  e  Bellia  non  aveva  voglia  di  nulla;  o  sì,  aveva  voglia  di  cose 
rare  e  se  si  riuisciva  a  procurargliele  non  le  voleva  più. 

—  Dovreste  mandarlo  al  dottore,  quel  cestino  di  fichi,  —  disse, 
quando  la  madre  lo  pregò  di  mangiarne.  —  Non  gli  mandate  mai 
nulla. 

—  Egli  non  ne  ha  di  bisogno;  ne  ha  più  di  noi. 

—  Che  importa?  È  per  fargli  vedere  che  siamo  grati.  Tutti  gli 
mandano  regali,  e  noi  niente. 

—  Per  quello  che  ti  fa!  —  disse  zia  Annia. 

—  Mi  fa  quello  che  può,  —  rispose  Bellia  esasperato.  —  Non  è 
Dio,  lui,  per  potermi  guarire.  Dio  solo  può  guarirmi  e  Dio  non  vuole. 

—  Che  hai  stasera?  —  domandò  il  padre. 

Ma  ancora  una  volta  Bellia  non  gli  rispose.  Pareva  l'tì.vesse  pro- 


224  IL  DIO  DEI  VIVENTI 

prio  con  lui,  col  padre;  e  il  padre  lo  sentiva  e  ne  provava  un'an^iscja 
pungente. 

—  Ebbene  —  disse  anche  lui  irritato,  —  se  vuoi  portarglielo,  il 
cestino  dei  fichi,  portaglielo  pure:  altro  che  cestino  di  fichi  ci  vorrà, 
per  lui  :  cestino  di  monete,  ci  vorrà. 

—  E  dategliele!  Dal  tenerle  nascoste  nel  muro  al  darle  a  lui  o  al 
diavolo  è  lo  stesso. 

—  Se  non  stai  zitto  ti  dò  uno  schiaffo,  uno,  ma  uno! 

—  Che  avete  stasera  tutti?  Vi  punge  il  diavolo  con  la  lesina?  — 
disse  la  serva  ricoprendo  con  foglie  di  vite  il  cestino.  —  Stasera  in- 
vece bisogna  vivere  con  Dio:  è  la  vigilia  di  San  Giovanni;  bisogna 
lavarsi  al  fiume  per  battezzarsi  di  nuovo.  Io  ci  vado. 

—  Tu  faresti  molto  bene  a  stare  a  casa,  —  disse  Zebedeo,  —  lo 
sai  ohe  siamo  in  lutto. 

E  anche  zia  Annia  espresse  la  sua  opinione  contraria  al  desiderio 
della  ragazza;  ma  quando  sentì  che  lui  invece,  Zebedeo,  sarebbe 
uscito,  corrugò  le  sopracciglia  e  cambiò  parere. 

Dove  andava  Zebedeo  quando  usciva  così  la  sera?  L'istinto  non 
la  ingannava;  e  solo  la  sua  grande  prudenza  e  un  senso  di  atteaa  e 
di  cieca  fede  nella  giustizia  di  Dio  le  impedivano  di  parlare. 

—  La  padrona  me  lo  ha  promesso,  non  vado  a  far  del  male: 
San  Giovanni  mi  vede. 

—  Tu  glielo  hai  promesso  davvero? 

La  padrona  era  una  donna  passiva  e  debole  e  non  aveva  mai  nes- 
suna iniziativa;  forse  per  questo  si  rispettavano  da  tutti  di  casa  i  suoi 
pochi  voleri.  Rispose  di  sì,  e  Rosa  ebbe  il  permesso  di  uscire. 

* 
•  • 

Prima  di  uscire  andò  a  lavarsi  i  piedi  nel  catino  di  pietra  ac- 
canto al  pozzo,  perchè  voleva  tuffarli  già  mondi  nel  lavacro  religioso 
del  fiume;  poi  salutò  tutti  come  per  un  lungo  viaggio  e  si  avvolse  la 
testa  nel  fazzoletto  nero  che  si  tirò  sugli  occhi. 

Belila  uscì  sul  portone  per  spiarla,  e  vide  ch'ella  camminava  ra- 
sente al  muro  dove  c'era  l'ombra  e  non  si  mischiava  ai  gruppi  delle 
altre  donne  che  andavano  al  fiume.  Un  desiderio  di  andare  anche  lui 
coi  fanciulli  che  correvano  scalzi  e  con  le  ragazze  che  ridevano  d'amore 
lo  prese  alla  gola,  lo  fece  singhiozzare.  Perchè  non  andava?  Se  an- 
dava, se  immergeva  la  mano  nell'acqua  del  fiume  forse  guariva.  Chi 
gli  proibiva  di  andare?  Il  lutto?  Il  male?  La  volontà  del  padre  e  quella 
della  madre?  Egli  conf.ondeva  tutte  queste  cose  in  una  sola,  con  ran- 
core profondo.  Ed  ebbe  voglia  di  ribellarsi,  di  uscire  dalla  prigione 
della  sua  casa  e  della  sua  tristezza,  di  fuggire,  fuggire. 

Si  mavvicinò  all'uscio  di  cucina  ma  non  entrò.  Vide  il  padre  che 
fumava  la  pi{)a;  fumava  con  rabbia  stringendo  forte  fra  i  denti  il 
cannello  e  come  cercando  di  velarsi  il  viso  col  fumo  :  vide  la  madre 
che  sbrigava  silenziosa  e  furtiva  le  faccende  che  avrebbe  dovuto  far 
Rosa;  vide  aia  Annia  che  filava,  distante  dagli  altri,  grave  e  assente 
come  una  parca:  nessuno  badava  a  lui.  Lo  tenevano  dentro  di  loro, 
e  quindi  lo  credevano  al  sicuro;  ed  egli  tornò  al  portone,  lo  chiuse 
piano  piano  dal  di  fuori  e  se  ne  andò  anche  lui  nella  notte  luminosa. 

Il  lume  della  luna  era  così  chiaro  che  le  cose  si  disegnavano  più 


I 


IL  DIO  DEI  VIVENTI  226 

nettamente  che  alla  loice  del  sole,  più  compatte,  con  un  contrasto  fra 
il  bianco  e  il  nero  ove  non  si  sapeva  quale  dei  due  vincesse. 

Anche  dentro  di  sé  Belila  sentiva  questo  contrasto:  ombra  e 
luce,  dolore  e  gioia.  Lo  stesso  pensiero  del  suo  nuale  e  quello  di  es- 
sere destinato  a  morire  presto  accrescevano  questo  suo  senso  di  feli- 
cità dolorosa.  Perchè  vivere  a  lungo?  Per  soffrire  di  più?  Era  già  an- 
noiato di  tutto;  ma  perchè?  ma  perchè?  Il  perchè  lo  sapeva  bene 
anche  lui,  in  fondo;  sapeva  che  la  vita  oramai  per  lui  aveva  una 
piaga  come  la  sua,  misteriosa  e  inguaribile,  aveva  la  mano  destra 
morsicata  dall'iniquità  del  castigo,  e  non  valeva  la  pena  di  viverla. 

Intanto  camminava,  nascondendo  bene  la  mano  entro  il  fazzo- 
letto scuro  perchè  gli  sembrava  che  la  fasciatura  bianca  splendesse 
alla  luce;  e  senza  volerlo  anche  lui  raisentava  i  muri  cercando  l'ombra 
come  sulle  tracce  di  Rosa, 

E  senza  volerlo  fece  la  stessa  strada  e  coi  passi  delle  sue  gambe 
lunghe  fu  per  raggiungere  la  serva;  ma  vide  ch'ella  si  volgeva  in- 
dietro sospettosa  e  anche  lui  per  non  essere  riconosciuto  si  tirò  in- 
dietro, scantonò  :  ai  fermò  all'angolo  della  strada,  poi  tornò  in  avanti. 
Rosa  era  sparita.  La  luna  illuminava  la  casetta  bianca  la  porta  ver- 
niciata la  loggia  della  casa  di  Lia;  e  anche  quella  facciata,  fra  le 
casette  scure,  aveva  un  chiarore  strano  come  di  luce  propria. 

BeUia  ebbe  subito  il  sospetto  che  Rosa  fosse  entrata  lì  :  a  far  che 
non  sapeva:  si  sa  mai  quello  che  fanno  gli  altri?  E  d'un  tratto  fu 
preso  dalla  necessità  di  sai)ere  se  Rosa  era  là  dentro,  e  dal  desiderio 
di  picchiare,  entrare,  assicurarsene. 

Giunto  alla  porta  non  osò.  In  fondo  aveva  paura  di  Lia  perchè 
(x>me  2Jebedeo  per  Salvatore  per  lui  quella  donna  rappresentava  il 
male. 

Non  picchiò,  ma  si  divertì  a  urlare:  un  urlo  usato  dai  pastori 
per  spaventare  i  ladri  nelle  notti  di  tempesta,  gutturale  e  fischiante, 
con  una  nota  diabolica  che  pareva  scaturisse  di  sotterra. 

Poi  corse  di  nuovo  a  nascondersi  dietro  un  muricciuolo  un  po' 
più  avanti  della  casa  di  Lia. 

Di  là  \ide  Rosa  uscire  guardinga;  la  strada  era  deserta  e  la  ra- 
gazza stette  un  attimo  incerta  se  andare  avanti  o  tornare  indietro: 
andò  avanti;  arrivata  al  muricciuolo  aprì  il  pugno,  e  dal  pugno  parve 
abocciare  un  gran  fiore  bianco:  un  fazzoletto  che  eUa  aveva  rubato 
a  Lia, 

Bellia  saltò  sul  muricciuolo  e  ripetè  il  suo  urlo,  e  parve  il  dia- 
volo balzato  fuori  da  ima  scatola. 

* 
•  • 

Rosa  si  mise  a  correre  in  avanti  a&nza.  gridare.  Mai  aveva  pro- 
vato un  terrore  simile  neppure  al  momento  dell'incendio;  il  cuore  le 
saltava  in  testa,  e  le  pareva  di  correre  a  cavallo  tanto  correva. 

Si  riebbe  appena  si  trovò  in  mezzo  a  un  gruppo  di  donne  in  fondo 
al  paese. 

—  Ho  veduto  il  diavolo,  —  disse  ansando. 

—  Non  avete  sentito  il  suo  urlo? 

—  Dove,  dove? 

—  Là...  là...  vicino  alla  casa  di  Lia. 


226  IL  DIO  DEI   VIVENTI 

Le  donne  si  misero  a  ridere. 

—  Sarà  stato  Sant'Antonio,  invece. 

Ridevano  ma  con  brivido  di  paura;  qualcuna  propose  di  tornare 
indietro  per  vedere  il  Diavolo,  ma  Rosa  ricominciò  a  correre  in  avanti 
esagerando  adesso  il  suo  terrore. 

Altre  donne  e  molti  ragazzi  si  trovavano  già  nel  sentiero  che  at- 
traversa i  prati  dopo  la  chiesetta  rovinata. 

Il  vecchio  fabbro  stava  sotto  la  tettoia,  ma  quella  sera  non  lavo- 
rava: il  chiaro  di  luna  illuminava  la  sua  officina  e  l'incudine  aveva 
un  riflesso  d'argento. 

I  ragazzi  si  divertivano  a  molestarlo  ed  ^li  lasciava  fare  seduto 
tranquillo  come  un  eremita  col  rosario  in  mano,  sullo  afondo  lunare 
della  sua  tettoia. 

In  un  attimo  la  notizia  che  la  serva  dei  Barcai  aveva  veduto  il 
diavolo  si  sparse  nel  prato  :  i  ragazzi  attorniarono  subito  Rosa  tiran- 
dola per  il  grembiale  e  per  le  vesti  finché  non  seppero  tutti  i  partico- 
lari; allora  tornarono  indietro  di  corsa  tutti  spavaldi  ma  uniti  in 
gruppo  per  farsi  coraggio. 

Nella  strada  investirono  Belila  che  se  ne  veniva  verso  il  prato; 
anche  lui  era  allegro;  gli  pareva  di  aver  cacciato  via  di  corjx)  coi  suoi 
urli  qualche  cosa  di  malefico. 

Arrivato  in  fondo  alla  strada  ormai  deserta  perchè  le  donne  erano 
tutte  andate  in  avanti  vide  una  bambina  ohe  piangeva:  sulle  prime 
la  credette  un  bamibino,  perchè  aveva  i  capelli  corti  e  un  viso  maschio, 
ma  fermatosi  a  chiederlo  cosa  faceva  lì  sola  e  come  si  chiamava  la 
sentì  rispondere  fra  i  singhiozzi  : 

—  Ella  Bella.  Fratellini  lasciato  Ella.  Correre.  Diavolo.  Paura 
Ella. 

—  Vienii  con  me  —  egli  disse  prendendola  per  mano  —  non  devi 
star©  qui  sola.  E  tua  madre  ti  lascia  andare  così? 

—  Uscita  Ella.  Fratellini  lasciata. 

—  Ma  tua  madire  dov'è? 

—  Casa. 

—  Ah,  sei  scajppata?  Eh  già,  e  io  non  sono  scappato?  Anche 
mamma  è  in  casa  e  non  sa  dove  sono. 

La  bambina  si  lasciava  condurre,  anzi  aveva  smesso  di  piangere 
e  trascinava  i  suoi  piedini  nella  polvere  prendendo  gusto  all'avven- 
tura. 

E  Bellia  le  stringeva  la  manina  calda  e  umida  di  lagrime  e  le  sem- 
brava di  stringere  nel  pugno  un  uccellino. 

—  Adesso  troveremo  qualche  donna  ohe  ti  riconduca  a  casa;  ohi 
sa  quante  ne  prenderai  staisera  di  sculacciate.  Ma  tante! 

Ella  approvava,  pronta  a  tutto. 

—  Sculacciate  Ella  tante. 

E  d'un  tratto  si  fermò,  si  chinò,  diede  un  piccolo  grido  di  gioia; 
raccoglieva  qualche  cosa  di  meraviglioso. 

—  Fammi  veder©  :  cos'hai  preso? 

Ella  fece  vedere  ma  con  diffidenza,  con  paura  che  l'oggetto  pre- 
zioso le  venisse  portato  via;  era  un  pezzettino  di  vetro. 

—  Buona  notte,  zio  Michele,  —  salutò  Bellia  davanti  alla  tettoia 
del  fabbro.  —  E  che  fate?  Siete  lì  in  agguato  aspettando  il  passaggio 
di  un  cinghiale?  Venite  a  bagnarvi  i  piedi. 


IL  DIO  DEI   VIVENTI  227 

Il  vecchio  lo  guardò  poi  guardò  la  bambina  che  a  sua  volta  lo 
fissava  incantata. 

—  È  tua  sorella? 

—  Magari!  —  esclamò  sinceramente  Bellia,  —  almeno  mi  di- 
vertirei con  lei. 

—  Figlio  di  chi  sei? 

—  Di  mio  padre  e  di  mia  madre;  —  ma  poi  si  pentì  :  —  non 
mi  conoscete?  Sono  Giovanni  Maria  Barcai,  figlio  di  Zebedeo. 

—  Cos'hai  a  quella  mano? 

—  Un  male.  —  E  Bellia  si  meravigliò  che  da  qualche  momenta 
non  pensasse  più  alla  sua  mano. 

—  E  questa  bambina  di  chi  è? 

—  Non  lo  so;  credo  dei  Bellei.  Era  sola  nella  strada  e  l'ho  presa 
con  me:  cercherò  qualche  donna  ohe  la  riconduca  a  casa. 

—  A  casa,  —  ripetè  Ella  già  un  po'  stanca  e  impaurita,  e  lo  tirò 
per  la  mano. 

Allora  egli  la  prese  in  braccio,  sul  braccio  sinistro,  e  stette  in- 
certo se  andare  nel  prato  o  tornare  al  paese. 

—  Dice  ch'era  coi  fratellini,  che  l'hanno  lasciata  in  mezzo  alla 
strada. 

—  E  i  genitori  la  lasciano  andare  così? 

—  Se  non  ci  lasciano  andare  andiamo  lo  stesso!  —  egli  disse 
facendo  saltare  sul  braccio  la  bambina  :  ed  Ella  ricominciò  a  diver- 
tirsi; rideva  e  i  suoi  dentini  e  i  suoi  occhi  parevano  di  perla.  Due 
fosisettine  profonde  le  scavavano  le  guance  rotonde  dorate.  Era  bella 
come  un  frutto,  e  nonostante  le  vestine  sporche  odorava  di  ciliegia. 
Bellia  sentiva  voglia  di  morderla  appunto  come  si  morde  un  frutto, 
per  voluttà. 

Perchè  i  genitori  non  gli  avevano  dato  fratellini  e  sorelline?  Gli 
davano  solo  terre  e  terre,  e  lui  si  sentiva  sfperso  nel  loro  deserto. 

Cominciò  a  giocare  davvero  con  la  bambina;  si  passavano  la 
guancia  una  sull'altra,  si  morsecchiavano,  volgevano  il  viso  fìngendo 
di  guardar  lontano,  di  non  vedersi  più,  e  poi  lo  rivolgevano  l'un 
verso  l'altro  con  un  grido  di  sorpresa,  per  spaventarsi  a  vicenda. 

Il  vecchio  li  guardava. 

—  Quanti  anni  hai?  —  domandò  a  Bellia. 

—  Sedici. 

—  La  creatura  ne  avrà  tre.  Sei  troppo  vecchio  per  poterla 
sposare. 

E  Bellia  provò  un  senso  misterioso  di  gioia,  come  per  una  ri- 
velazione. Sì,  »poteva  un  giorno  sposarsi,  aver  figli  anche  lui:  ci 
aveva  ,pensato  già  qualche  volta  ma  vagamente  solo  per  calcolo  o 
per  uno  stimolo  sensuale;  adesso  era  altra  cosa.  Gli  sembrava  di 
abbracciare  nella  bambina  una  donna  ch'era  insieme  sua  moglie  e 
sua  figlia;  che  gli  destava  piacere  e  tenerezza  assieme. 

—  La  sposerò  lo  stesso!  —  gridò.  —  Vero  che  ci  sposiamo?  Mi 
vuoi,  Ella?  Ti  piaccio? 

—  Piace,  Ella. 

—  Va  bene;  allora  manderò  zio  Michele  a  chiederti  in  isposa 
per  me.  Intanto,  che  facciamo?  Andiamo  al  fiume? 

—  Sta  qui,  —  disse  il  vecchio  quasi  diflBdasse  a  lasciarli  andar 


228  IL  DIO  DEI  VIVENTI 

soli,  —  torneranno  i  fratedLini  a  cercarla.  Ecco  due  radazzi  laj5giù; 
forse  son  loro. 

—  Io  non  veglio  dargliela  più;  l'ho  trovata  ed  è  mia. 

Ella  già  profittava  della  sua  .potenza;  gli  tolse  il  berretto  e  se  lo 
mise  in  testa. 

—  Rimettimi  subito  il  berretto  in  testa! 

—  Noe. 

—  Subitol  Altrimenti  ti  metto  giù  e  ti  faccio  mangiare  da  zio 
Orco;  vedilo  lì  l'Orco;  lo  vedi? 

Allora  Ella  reclinò  la  testina  sulla  spalla  e  lo  guardò  lusinghiera. 

—  Regali  berretto  Ella? 

—  Ah  come  sei  furba!  E  prendilo  (pure.  Tanto  tutto  quello  che 
è  mio  sarà  tuo. 

Due  ragcLzzetti  intanto  s'avanzavano,  ma  non  erano  i  fratellini 
di  Ella;  e  non  avevano  l'aria  di  monelli;  s'avanzavano  con  calma 
discutendo  di  cose  astruse;  ed  erano  vestiti  bene  ben  calzati  ct.m posti 
come  se  andassero  a  scuola. 

Belila  strinse  a  sé  la  bambma  come  per  farsi  riparo  di  lei  contro 
un  pericolo  indefinibile;  perchè  nel  più  piccolo  dei  diae  amici  rico- 
nosceva Salvatore. 


•  * 


Salvatore  a  sua  volta  lo  riconobbe  e  si  strinse  istintivamente  al 
compagno'  pareva  che  i  due  cugini  più  cht  odio  avessero  paura 
l'uno  dtll '^Itro.  E  Salvatore  sarebbe  passato  dritto  senza  essere  mo- 
lestato da  Rellia  se  il  compagno  non  si  fo.sse  fermato  nel  riconoscere 
la  bambina. 

—  Raffaella,  che  fai  qui^ 

A  Bua  volta  la  bambina  gli  tendeva  le  braccia  e  lo  chiamava 
—  Pape,  pai^e,  —  perchè  egli  era  un  suo  parente  e  sempre  che  la 
vedeva  giocava  con  lei. 

Belila  la  stringeva  forte  sebbene  il  ragazzo  non  intendesse  pren- 
derla per  non  sciuparsi  il  vestito  nuovo;  Ella  ci  si  divertiva;  cominciò 
a  strillare  e  Salvatore  guardò  ostile  e  beffardo  il  cugino. 

—  Ma  mettila  giù  —  disse  l'altro  ragazzo,  —  perchè  la  tieni  così? 

—  La  tengo  così  perchè  mi  pare  e  piace,  —  rispose  Bellia  fis- 
sando con  odio  Salvatore. 

E  avrebbero  litigato  senza  il  sopraggiungere  di  altri  ragazzi  fra 
i  quali  i  fratellini  di  Ella:  anch'ossi  volevano  la  bambina,  ma  questa 
si  era  di  nuovo  attaccata  al  collo  del  suo  salvatore  e  non  intendeva 
di  lasciarlo. 

Allora  1  fratelli,  affannati  per  la  corsa,  proposero  im  accomo- 
damento; andare  tutti  assieme  in  compagnia  al  fiume;  e  Bellia  si 
lasciò  trascinare,  con  la  bambina  in  braccio.  Era  il  più  grande  e  il 
piiù  alto  di  tutti;  la  sua  ombra  lo  seguiva  lunghissima  sull'erba  grigia 
del  prato  ed  egli  sentiva  Salvatore,  che  gli  veniva  appresso,  diver- 
tirsi a  calpestare  quell'ombra. 

—  Fa  pure,  —  diceva  fra  sé;  —  ma  la  roba  di  zio  Basilio  ce 
l'ho  io. 


IL  DIO  DEI  VIVENTI  229 

I  raga25zi  parlavano  del  diavolo  apparso  a  Rosa  e  uno  affermava 
di  aver  veduto  una  «  puppa  »  (1)  dietro  un  muriociuolo. 

—  Ma  va  alla  Mecca!  —  disse  beffardo  il  compaio  di  Salva- 
tore, e  bastò  questo  per  farli  tutti  ridere.  Le  loro  voci  stridevano  nel 
silenzio  del  prato  fra  il  coro  dei  grilli;  Bellia  solo  taceva  e  pareva 
il  padre  di  tutti;  e  sarebbe  stato  felice,  col  dolce  peso  della  bambina 
sul  suo  petto  e  sull'omero,  senza  l'ombra  di  Salvatore  sulla  sua  om- 
bra: e  tinche  Salvatore  pensava  che  se  fosse  stato  solo  a  fare  quella 
passeggiata,  avrebbe  potuto  poi  svolgere  un  bel  tema  «  La  notte  di 
San  Giovajini  »  col  quadro  di  quei  prati  fantastici  ove  ogni  stelo 
scintillava  e  cantava,  dove  i  fiori  dei  cardi  e  dell'asfodelo  parevano 
rose  e  gigli,  dove  le  fanciulle  legavano  con  nastri  di  seta  i  cespugli 
del  tasso  per  segnarne  la  proprietà  e  coglierne  all'alba  i  fiori  per  gli 
amuleti;  e  la  bontà  del  cielo  stesa  sulle  cose  terrene. 

Finalmente  arrivarono  al  fiume  ridotto  a  un  filo  di  acqua  con 
pozzanghere  qua  e  là  stagnanti  fra  gli  oleandri  fioriti  sul  greto  che 
I>areva  ima  strada  sabbiosa  e  fresca. 

II  chiaro  di  luna,  l'incrociarsi  delle  ombre  con  le  macchie  e  i 
cespugli,  gli  sfondi  azzurri  e  argentei,  le  figure  che  camminavano 
scaJze  sulla  rena  e  andavano  a  bagnarsi  le  mani  il  viso  i  piedi  e  a 
farsi  il  segno  della  croce  con  l'acqua  corrente,  tutto  infine,  dava  al 
luogo  una  bellezza  fantastica. 

Rosa  si  riallacciava  le  scarpe  seduta  per  terra  sul  margine  del 
fiume  quando  vide  Bellia  con  la  bambina  in  braccio  e  appresso  Sal- 
vatore.  Sognava?  0   impazziva  quella  notte? 

—  Bellia!  —  gridò  balzando  nel  gruppo  dei  ragazzi  che  si  strin- 
sero intomo  a  lei  interrogandola  di  nuovo  sull'apparizione.  —  Ma 
sei  Bellia  davvero?  E  perchè  sei  uscito?  E  perchè  hai  quella  creatura 
in  braccio?  Sei  diventato  pazzo? 

—  Sono  uscito  per  vedere  dove  andavi,  —  egli  disse  aspramente, 
irritato  perchè  lei  gli  parlava  in  quel  modo  davanti  a  Salvatore.  E 
lei  si  fece  bianca  in  viso,  stralunò  gli  occhi  e  cadde  ripiegandosi  su 
se  stessa  come  si  fosse  d'un  tratto  vuotata. 

Era  svenuta.  I  ragazzi  si  scostarono,  fecero  un  circolo  intomo  a 
lei;  nessuno  osava  toccarla.  Ma  già  accorrevano  altre  donne;  le  tol- 
sero il  fazzoletto  di  testa,  le  sciolsero  la  cintura  e  le  spruzzarono  il 
viso  d'acqua.  Ella  non  rinveniva,  bianca  alla  luna  come  un  cada- 
vere; e  Bellia,  che  aveva  messo  giù  la  bambina,  guardava  ansioso 
per  paura  che  fosse  morta.  Anche  Salvatore  si  sporgeva  a  guardare, 
ma  con  una  curiosità  fredda  e  beffarda:  fu  lui  a  raccogliere  il  faz- 
zoletto nero  da  testa  e  un  piccolo  fazzoletto  bianco  che  le  donne 
avevano  lasciato  cadere  dalla  cintura  di  Rosa. 

—  É  svenuta  perchè  ha  veduto  il  diavolo,  —  dicevano  i  ragazzi  : 
—  adesso  è  certo  che  l'ha  veduto. 

—  Ma  statevi  zitti!  Ero  io  che  volevo  farle  paura,  —  gridò  Bellia. 
Quel  grido  parve  scuoterla:  sospirò,  aprì  gli  occhi. 
Salvatore  taceva  :  sapeva  già  tutto,  lui,  perchè  la  madre  lo  aveva 

mandato  nella  sua  camera  mentre  confabulava  con  Rosa;  e  aveva 
sentito  l'urlo,  di  fuori;  e  adesso  capiva  tutto.  Taceva  perchè  il  mae- 
stro gli  aveva  insegnato  così  :  ma  si  accorse  che  il  fazzoletto  bianco 

(1)  Fantasma. 


230  IL   DIO  DEI   VIVENTI 

con  un'S  rossa  era  un  fazzoletto  ch'egli  aveva  dimenticato  sulla  ta- 
vola di  calcina,  e  se  lo  rimise  in  tasca;  poi  lo  trasse  di  nuovo  e  lo 
buttò  davanti  a  Rosa  assieme  col  fazzoletto  nero,  col  gesto  di  uno 
<3he  butta  una  borsa  d'oro. 

•  • 

Dopo  quella  notte  anche  Rosa  cominciò  a  star  male.  Invano  ri- 
corse di  nuovo  alla  donna  ohe  sfaceva  «la  medicina  dello  spavento»; 
lo  spavento  le  rimaneva  nel  .sangue,  la  faceva  svegliare  di  sopras- 
salto e  sobbalzava  ad  ogni  fruscio,  ad  ogni  sofRo  d'aria.  Ogni  giorno 
verso  sera  le  veniva  un  po'  di  febbre,  e  dimagriva  a  vista  d'occhio 
afflitta  da  un  male  interiore  indefinibile;  aveva  l'impressione  di  do- 
ver fare  sempre  qualche  cosa  ohe  non  riusciva  a  fare;  di  dover  cer- 
care una  cosa  smarrita. o  restituire  una  cosa  rubata. 

Il  fazzoletto!  Lo  teneva  ancora  lei,  sotto  il  guanciale;  e  sognava 
di  vederlo  ingrandire,  ingrandire,  diventare  un  lenzuolo,  il  lenzuolo 
che  l'avvolgeva  che  le  dava  tanto  caldo  ohe  la  stringeva  fino  a  sof- 
focarla. 

Alla  padrona  disse  di  aver  perduto  il  fazzoletto  nel  trambusto 
dello  svenimento;  ed  era  una  specie  di  vendetta  contro  Bellia. 

Una  notte  i  padroni  furono  svegliati  dalle  sue  grida:  da^pprima 
Zebedeo  credette  fossero  entrati  i  ladri  in  casa  e  balzò  nudo  dal 
letto,  si  armò  di  fucile  e  corse  nelle  scale  :  ma  di  giù  Bellia  gridava 
per  rassicurar^  i  genitori  : 

—  È  quella  pazza  che  sogna. 

Anche  lui  s'era  alzato,  del  resto,  tutto  in  sudore  coi  capelli  irti  : 
poiché  il  rimorso  di  aver  spaventato  la  radazza  e  d'essere  causa  del 
suo  male  lo  agitava,  e  i  gridi  di  lei  gli  parevano  l'eco  del  suo  urlo 
diabolico. 

E  i  gridi  continuavano.  In  breve  tutti  di  casa,  andie  zia  Annia, 
furono  nella  camera  della  serva.  Ella  stava  seduta  sul  suo  lettuccio 
basso  disfatto  :  piegata  su  se  stessa  si  tirava  in  giù  le  trecce  lunghe 
come  due  corde  nere. 

Quando  i  padroni  la  circondarono  cominciò  a  dondolarsi  tutta 
esclamando  : 

—  Gh©  ho  veduto  io!  Che  ho  veduto  io!  Che  ho  veduto  io! 

—  Avrà  sognato  l'inferno,  —  disse  Bellia  deridendola;  perchè 
aveva  l'impressione  ch'ella  recitasse  una  commedia. 

La  ragazza  cadde  in  ginocchio  sempre  tirandosi  in  avanti  le 
trecce  che  arrivavano  fino  a  terra;  e  cominciò  a  piangere. 

—  Ho  sognato  che  morivo,  —  raccontò  poi,  calmata  dalle  sue 
lagrime  e  dalle  carezze  che  la  (padrona  le  faceva  sulle  spalle;  —  il 
Rettore  in  persona  era  venuto  per  confessarmi;  sebbene  anche  lui 
agonizzante;  s'era  alzato,  per  venire  a  confessarmi  :  mi  mostrava  tre 
immagini  e  in  una  vedevo  bene  le  anime  del  purgatorio  e  nell'altra 
il  diavolo  che  portava  sulle  spalle  un  grappolo  d'uva  nera  e  ogni 
acino  era  un  peccatore,  ma  la  terza  non  riuscivo  a  vederla,  era  come 
un  vetro  toccato  dal  sole  che  non  si  lascia  guardare  e  avevo  paura 
di  essa.  Il  Rettore  mi  disse:  è  l'immagine  di  Dio;  se  chiudi  gli  occhi 
la  vedi  bene.  Io  chiusi  gli  occhi,  ma  vidi  solo  i  miei  peccati,  e  co- 
minciai a  confessarmi.  Ho  rubato  ai  padroni,  mi  sono  compiaciuta 


IL  DIO  DEI  VIVENTI  231 

del  loro  male  e  li  ho  calunniati;  se  non  potevo  altro  dicevo  ohe  non 
mi  davano  da  mangiare  o  che  erano  avari  e  superbi  mentre  è  il  con- 
trario; ero  la  loro  nemica  domestica  eppure  fìngevo  anche  a  me  stessa 
di  essere  ima  buona  serva.  Sono  andata  a  rubare  un  oggetto  dalla 
casa  di  Lia  per  disfare  la  malia  da  lei  fatta  al  mio  padrone  piccolo. 
Ho  rubato  un  feizzoletto;  ma  poi  non  l'ho  dato  alla  mia  padrona;  non 
l'ho  dato  per  cattiveria,  per  vendicarmi  dello  spavento  procuratomi 
da  Bellia:  e  sono  contenta  del  male  di  lui  perchè  lui  ha  causato  il 
mio  male;  ma  anche  perchè  è  il  mio  padrone.  Ma  non  trovo  pace: 
ho  ipaura  di  morire  e  che  il  giorno  del  giudizio  Dio  riveli  ai  miei 
padroni  quello  che  ero  io. 

I  padroni  ascoltavano,  stupiti  e  silenziosi  come  fossero  davvero 
nella  scena  del  giudizio  universale;  Bellia  era  un  po'  beffardo  seb- 
bene turbato  anche  lui  mentre  la  madre  sentiva  voglia  di  inginoc- 
chiarsi accanto  alla  serva  e  piangere  con  lei,  e  Zebedeo  provava  un 
senso  confuso  di  paura  :  gli  sembrava  che  la  serva  fosse  pazza  :  solo 
una  pazza  può  fare  così.  E  zia  Annia  in  fondo  con  la  sua  grande 
figura  nell'ombra  pareva  giudicasse  tutti  come  il  fantasma  del  tempo. 

Rosa  continuava: 

—  Il  Rettore  allora  mi  disse:  i  tuoi  peccati  non  sono  grandi; 
sono  peccati  comuni  a  tutti  gli  uomini;  ma  il  tuo  peccato  grande  è 
quello  della  finzione  :  farti  credere  'quello  che  non  sei.  Spagliati 
della  finzione  e  Dio  ti  perdonerà  ti  aiuterà  ad  essere  migliore  e  con 
questo  ti  renderà  la  pace.  Allora  tu  riuscirai  a  vedere  l'immagine 
di  Dio.  Poi  aggiunse  :  perchè  il  giudizio  universale  è  su  questa  terra 
a  tutte  le  ore  e  Dio  non  è  il  Dio  dei  morti  ma  il  Dio  dei  viventi.  Al- 
lora ho  cominciato  a  strillare  per  farvi  accorrere  e  dirvi  tutto. 

Sospirò  profondamente  poi  si  piegò  a  terra  e  baciò  il  pavimento. 
I  suoi  gesti  erano  composti,  adesso,  calmi  e  coscienti  :  si  sollevò, 
gettò  indietro  sulle  spalle  le  trecce,  baciò  la  mano  alla  padrona. 
Teneva  la  testa  bassa  e  gli  occhi  chiusi. 

Bellia  tentò  di  scherzare. 

—  E  adesso  lo  vedi,  Iddio? 

Ma  il  padre  lo  respinse  e  ritirò  bruscamente  la  mano  che  Rosa 
gli  baciava. 

• 

Questa  scena  impressionò  vivamente  Zebedeo.  Egli  non  era  stato 
mai  un  uomo  eccessivamente  religioso,  ma  onesto  e  quasi  vanitoso 
della  sua  rettitudine,  con  un  fondo  di  suiperstizione  :  quella  super- 
stizione paesana  tradizionale  tìhe  supplisce  tante  volte  alla  religione 
vera. 

Di  giorno  in  giorno  si  convinceva  sempre  più  che  Dio  lo  casti- 
gava per  l'appropriazione  ingiusta  dei  beni  del  fratello;  ma  non  per 
questo  si  decideva  a  restituirli  :  anche  perchè  sapeva  che  il  mondo 
anziché  approvarlo  avrebbe  riso  di  lui.  E  i  suoi  affari  andavano  male, 
il  raccolto  delle  fave  e  dell'orzo  ch'era  una  delle  sue  maggiori  ren- 
dite fu  scarso  e  di  qualità  scadente;  quasi  tutto  il  bestiame  ereditato 
dal  fratello  era  morto  d'afta  epizootica.  È  vero  che  moriva  anche  il 
bestiame  degli  altri  proprietari  ma  questo  non  lo  consolava.  Del  resto 
quello  che  lo  tormentava  di  più  era  il  male  del  figlio,  la  piaga  ohe 


232  IL  DIO  DEI  VIVENTI 

non  si  chiudeva;  ogni  tanto  si  ripeteva  l'ascesso  e  bisognava  tagliare 
di  nuovo;  e  il  carattere  di  Bellia  diveniva  strano,  con  alternative 
di  torpore  e  d'indifferenza,  di  nervosità  e  di  cattiveria.  Si  parlava 
sempre  di  far  venire  un  professore  o  di  condurre  Bellia  da  lui;  si 
aveva  però  soggezione  del  Dottore.  Il  Dottore  poteva  offendersi  e 
diventare  un  nemico  pericoloso;  già  si  mostrava  ostile  perchè  non 
venivano  eseguite  le  sue  ordinazioni;  allora  si  pensò  seriamente  di 
condurre  Bellia.  al  mare;  di  là  si  poteva  fare  una  scappata  in  città 
e  consultare  il  Professore  senza  ohe  nessuno  venisse  a  sa^perlo. 

Zebedeo  scrisse  ad  un  suo  amico  che  possedeva  una  casa  in  riva 
al  mare;  l'amico  offrì  subito  ospitalità:  bisognava  però  che  i  Barcai 
si  contentassero  di  due  camere  e  una  cucina  perchè  il  resto  era  oc- 
cupato dalla  famiglia  dell'ospite. 

L'idea  di  cambiare  vita  sollevò  Bellia;  anche  la  serva  rideva  da 
sola  per  la  gioia,  poiché  non  aveva  mai  veduto  il  mare  e  lo  imma- 
ginava tutto  liscio  e  quadrato  come  uno  specchio. 

Alla  madre  invece  il  pensiero  di  muoversi  dava  quasi  un  senso 
di  angoscia;  il  viaggio  le  sembrava  interminabile  pieno  di  difficoltà 
e  pericoli,  e  il  mare  le  destava  terrore;  aveva  paura  che  Bellia  s'an- 
negasse, ma  ap'punto  per  essergli  sempre  vicina,  per  sorvegliarlo  e 
salvarlo  da  ogni  male  era  pronta  ad  andare  anche  nelle  altre  parti 
del  mondo. 

La  sera  prima  della  partenza  Zebedeo  andò  a  trovare  Lia. 

Nonostante  il  caldo  la  porta  e  la  finestra  erano  chiuse;  Lia  lavo- 
rava accanto  al  lume  e  Salvatore  leggeva,  questa  volta  però  leggeva 
un  giornale  e  con  grande  attenzione. 

Egli  s'era  abituato  alle  visite  di  Zebedeo,  sapeva  che  Zebedeo 
portava  denari  alla  madre  e  trovava  tutto  naturale;  e  in  fondo  al- 
l'anima sperava  che  in  un  modo  o  nell'altro  lo  zio  gli  avrebbe  resti- 
tuito i  beni  del  padre  :  quindi  aveva  sospeso  di  giudicarlo  pure  guar- 
dandolo come  attraverso  un  velo  nero. 

Zebedeo  sedette  al  solito  pK>sto,  senza  che  nessuno  lo  invitasse; 
guardò  il  giornale  e  domandò  che  notizie  c'erano. 

—  Finalmente  hanno  fatto  la  pace,  —  rispose  List.  —  Era  tempo. 

—  Sì,  è  tempo  che  il  mondo  si  rimetta  in  ordine,  —  egli  disse 
e  gli  pareva  di  parlare  suo  malgrado.  —  Non  vedi  che  anche  il  tempo 
pare  diventato  pazzo?  A  primavera  abbiamo  avuto  un  caldo  terri- 
bile e  adesso  dopo  tutto  quel  vento  indiavolato  dei  giorni  scorsi 
fa  quasi  fresco.  I  diavoli  girano  per  il  mondo. 

—  Chi  sta  dentro  casa  come  me  non  se  ne  accorge,  —  ella  disse 
sempre  con  un  senso  nascosto  nelle  sue  parole;  —  per  chi  è  povero 
e  lavora  il  tempo  è  sempre  eguale  vale  a  dire  senmpre  brutto,  —  ag- 
giunse con  un  lieve  sorriso  che  lasciò  vedere  i  suoi  piccoli  denti  di 
faina.  —  Meno  male  ohe  si  aspetta  sempre  il  tempo  bello. 

Zebedeo  si  sentiva  continuamente  mordere  dalle  parole  di  lei  e 
gli  sembrava  di  odiarla.  Senza  il  fanciullo  una  volta  o  l'altra  l'a- 
vrebbe strangolata,  ma  il  fanciullo  era  sempre  lì  quieto  dritto  e 
luminoso  come  la  fiammella  del  lume:  l'uomo  si  rivolse  a  lui: 

—  Ebbene,  che  faranno  adesso  questi  accidenti  di  tedeschi?  Sta- 
ranno a  casa  loro  finalmente;  e  meno  male  si  rimetteranno  a  lavo- 
rare, rifaranno  aghi  con  la  punta  buona,  e  per  te  Salvatore  l'inchio- 
stro buono,  e  aspetteranno  anch'essi  il  bel  tempo. 


IL  DIO  DEI  VRTENTI  233 

Salvatore  rispose  serio: 

—  Faranno  invece  la  rivoluzione,  e  la  faranno  fare  a  tutto  il 
mondo. 

—  Non  ci  manca  che  quello!  E  il  tuo  maestro  cosa  dice? 

—  Io  non  l'ho  più  veduto  perchè  sono  stato  esonerato  da  tutti 
gli  esami  e  dal  giorno  di  San  Giovanni  non  vado  più  a  scuola. 

—  E  allora,  prendi,  comprati  le  ciliege. 

Aveva  pescato  dal  taschino  del  suo  corpetto,  ove  teneva  alla 
rinfusa  i  denari,  una  carta  da  cinque  lire  e  gliela  porgeva.  Salvatore 
guardò  la  madre  e  a  un  cenno  d'assentimento  di  lei  prese  il  biglietto, 
ma  lo  mise  sulla  tavola  fermandone  un  angolo  col  lume. 

Zebedeo  osservò  che  quella  mano  era  magra  e  bianca  e  non  osava 
dire  che  il  domani  la  sua  famiglia  andava  al  mare  perchè  gli  sem- 
brava che  anche  Salvatore  aveva  bisogno  di  cambiare  aria. 

—  Di  tuo  marito  non  hai  saputo  più  nulla? 

Pareva  ch'ella  aspettasse  questa  domanda  perchè  smise  di  cucire, 
si  raddrizzò  sulla  schiena  e  lo  guardò  dritto  neeli  occhi. 

—  Sì,  ha  scritto  ancora  proprio  ogsri.  Io  non  eli  avevo  risxx)sto, 
ma  pare  srli  abbia  scritto  maestro  Michele  il  fabbro:  che  cosa  gli 
abbia  scritto  non  so;  ma  la  lettera  di  Pietro  Paolo  adesso  è  curiosa  : 
non  posso  fartela  le'^gere  perchè  l'ho  data  ad  un'altra  persona  per 
chiederle  consisrlio.  La  lettera  di  Pietro  Paolo.  —  riprese  scandendo 
le  parole  —  è  tutta  piena  di  Dio.  Dice  che  si  sente  ogni  giorno  venire 
meno  le  forze  e  che  ha  paura  di  morire  presto.  E  mi  domanda  per- 
dono di  tutto  :  dice  di  sapere  eh©  il  ragazzo  ha  preso  buoni  punti 
e  che  se  ne  rallegra;  e  infine  conclude  così  :  o  muoio  in  breve  e  la- 
scerò tutto  al  ragazzo  o  campo  e  se  tu  lo  credi  lo  assisterò  negli  studi. 

Zebedeo  si  sentì  battere  il  cuore.  Sollievo?  Vergogna?  Invidia  di 
Pietro  Paolo  per  il  suo  atto  generoso?  Tutte  queste  cose  assieme  e 
assieme  il  dubbio  che  Lia  mentisce  iper  provarlo.  Ma  no,  non  era 
possibile  che  ella  mentisse  davanti  a  suo  fielio. 

—  A  chi  hai  dato  la  lettera?  Si  può  sapere?  —  domandò  un  po' 
geloso. 

—  Al  Rettore.  Sta  male,  il  Rettore,  vomita,  vomita  sangue;  ma 
appunto  perchè  sta  per  morire  ho  fede  in  lui  e  farò  quello  che  mi 
consiglierà.  Se  lui  me  lo  consiglia  vado  anche  ad  assistere  Pietro 
Paolo. 

Zebedeo  ricordò  il  sogno  di  Rosa  e  d'un  tratto  gli  venne  voglia 
di  andare  anche  lui  dal  Rettore.  Eppure  si  mise  a  parlar  male  di  lui. 

—  È  da  cento  anni  che  sta  per  morire  e  non  si  decide  mai. 
È  troppo  attaccato  ai  denari  per  potersene  spiccicare.  Bisogna  sen- 
tire quello  che  il  Dottore  dice  di  lui. 

—  E  lui,  il  Dottore,  chi  lo  giudica?  —  replicò  Lia  con  asprezza. 
—  Anche  tu  saprai  un  giorno  chi  è  il  Dottore. 

—  Oh  io  l'ho  bell'e  giudicato!  Siamo  nel  mondo  per  questo; 
per  giudicarci  gli  uni  con  gli  altri  come  nel  giorno  del  giudizio  uni- 
versale. 

—  Sarà  Dio,  allora,  a  giudicarci. 

—  Dio  ci  giudica  tutti  i  giorni,  —  egli  disse  ripetendo  le  parole 
del  s(^no  della  serva,  —  perchè  Dio  non  è  il  Dio  dei  morti  ma  il  Dio 
dei  viventi. 

16  Voi.  OOXVn,  eerte  VI  —  1*  aprile  1922. 


234  IL  DIO  DEI  VIVENTI 

E  dette  queste  parole  si  senti  il  coraggio  di  aggiungere,  come 
cambiando  discorso  : 

—  Domani  andiamo  al  mare.  Bellia  ne  ha  bisogno,  e  la  madre 
lo  accompagna  perchè  ha  paura  che  gli  accada  qualche  disgrazia. 
Andrò  ad  accom'pagnarli;  poi  tomo  qui:  non  posso  trascurare  gli 
affari,  che  vanno  male.  Tutto  va  alla  malora  quest'anno.  E  adesso 
anohe  i  servi  sembrano  punti  dal  diavolo:  non  hanno  voglia  di  la- 
vorare e  chiedono  il  doppio  di  paga.  Anche  i  fratelli  gemelli  che  sono 
nel  mio  podere  non  sembrano  più  loro  :  onesti  fino  allo  scrupolo, 
erano,  e  laboriosi:  adesso  stanno  sdraiati  all'ombra  e  imprecano  se 
io  laccio  loro  qualche  osservazione. 

E  stava  per  dire  come  aveva  loro  perdonato  il  debito  verso  il 
povero  Basilio,  ma  ne  ricordava  la  causa  e  si  vergognò. 

Grazu  Deledda. 
{Continita). 


GIOVANNI    VERGA 


Lo  conobbi  una  diecina  d'anni  or  sono,  a  Catania,  nella  sua  casa 
semplice  e  signorile:  libri,  qualche  segno  d'arte  alle  pareti,  e  la 
sua  figura  canuta,  ma  diritta  e  giovanile,  in  un'atmosfera  di  luce: 
una  gran  luce  di  primavera.  Semplice  e  signorile  anch'egli,  come 
tutto  attorno;  e  la  sua  voce  cordiale,  patema,  come  le  frasi  che  gli 
venivano  alle  labbra,  schiette,  limpide,  incisive,  piene  d'esperienza 
^  di  saggezza.  Pensavo,  ascoltandolo,  a  un  padron  'Ntoni  colto  e 
cittadino,  e  lo  stesso  p)ensiero  ebbe  un  giovine  musicista,  che  m'era 
compagno  in  quella  visita. 

Lo  rividi  frequentemente  per  alcuni  giorni.  Una  volta,  chieden- 
dogli che  cosa  preparasse,  mi  rispose: 

—  Attendo  finalmente  a  un'opera  bella:  faccio  l'anmiinistratore 
dei  miei  nipoti. 

Era,  nel  sorriso  bonario,  la  tranquillità  della  sua  coscienza 
d'uomo  e  l'intima  gioia  —  mi  si  lasci  dire  siciliana  —  dell'oscura 
x)pera  familiare  che  compiva. 

Ma  un'altra  volta  si  rabbuiò  e  uscì,  insolitamente,  in  queste 
parole: 

—  Per  chi  dovrei  scrivere?  Di  ciò  che  ho  scritto  sopravvive  sol- 
tanto la  Cavalleryi  rusiicana,  né  per  virtù  mia,  ma  di  Pietro  Ma- 
scagni. Le  porto,  quelle  paginette,  come  un  cappio  al  collo. 

Amarezza,  ma  dignitosa,  rassegnata,  indulgente. 


«Per  chi  dovrei  scrivere?».  Giovanni  Verga  si  sentiva,  ed  era, 
dimenticato.  Alcuni  sì,  ma  pochi,  che  ne  sapevano  appieno  il  va- 
lore, ne  pronunziavano  il  nome  con  reverenza,  e  scrivendone,  lo 
chiamavano  maestro:  l'autore  di  Mastro  don  Gesualdo,  l'autore  de 
/  Malavoglia.  Voci  sperdute,  che  sembrava  non  ci  fosse  più  posto 
in  Italia  per  quel  nome:  guizzava  di  tratto  in  tratto,  qua  e  là,  e 
spariva  rapido,  per  anni.  L'Italia  era  occupata  e  assordata  da  un 
altro  nome  ben  più  celebrato,  Gabriele  D'Aimunzio;  da  altre  op^re 
più  lette  e  in  ben  altro  tono  esaltate,  quelle  di  Gabriele  D'Annunzio, 
grande  scrittore  anch'egli,  ma  di  altra  razza.  Gcibriele  D'Annunzio 
aveva,  senza  volerlo,  c«c<;iato  nell'ombra  lo  scrittore  siciliai.o.  il 
quale  stette  in  quell'ombra,  magnifico  nel  suo  sil-^nzio  pensoso,  ad 
amministrare  il  patrimonio  de'  suoi  nipoti. 

Né  agli  Italiani,  poi,  si  può  dare  torto  di  quell'inconcepibile 
oblìo.  Raro  mutano  le  predilezioni  e  i  gusti  del  pubblico,  e  fra  due 
scrittori  di  natura  sì  radicalmente  diversa  quali  il  D'Annunzio  e  il 
Aderga  era  indubitabile  che  l'uno  dovesse  oscurar  l'altro.  E  Gabriele 


236  GIOVANNI  VERGA 

D'Annunzio  oscurò  Giovanni  Verga,  che  ne  era  rantitesi.  In  tutto. 
Sempre  così,  più  o  meno,  in  casi  analoghi,  se  diamno  uno  sguardo 
—  ma  non  voglio  istituire  raffronti,  badiamo!  —  alle  vicende  della 
nostra  storia  letteraria:  dall'Alighieri  possente  e  ignudo  —  quasi 
dimenticato  fra  i  seguaci  e  i  ripetitori  di  Francesco  Petrarca  polito 
e  fioriti)  — .  a  Giacomo  Leopardi,  possente  e  ignudo,  sommerso  dal 
romoi-e  che  sollevavano  le  strofe  di  Vincenzo  Monti,  constellate  d'im- 
magini e  di  pomposa  sonorità.  Voglio  dire  che  sembrò  povero  agli 
Italiani  l'autrre  de  /  Malavoglia  e  di  Ma^ibro  don  Gesualdo):  povero, 
legnoso,  ispido  rispetto  alla  magnitìcenza  letteraria  e  stilistica  di 
Gabriele  D'Annunzio.  Nel  D'Annunzio  acutezza  e  sapiente  sfoggio 
di  analisi,  delle  carni  e  dello  spirito,  nel  Verga  un  succedersi  inin- 
terrotto di  scorci  e  di  sintesi  rivelatrici;  nel  D'Annunzio  un  lussu- 
reggiare abbacinante  di  coiori  e  di  splendori,  nel  Verga  assenza  del 
più  lieve  tocco  descrittivo,  che  non  sprizzi  dal  dramma  stesso  che 
si  svolgo;  nel  D'Annunzio  la  linea  è  la  musicalità  incomparabili  del 
suo  fastoso  periodare,  nel  Verga  un  linguaggio  semplice,  umile,  che 
sgorga  improvviso  coi  sentimenti  delle  sue  creature;  nel  D'Annunzio 
la  sua  prepotènte  e  iuN^adente  personalità  etica  ed  estetica;  nel  Verga 
nessuna  traccia  di  lui,  invisibile  nella  vita  assoluta  dei  suoi  perso- 
natrgi;  nel  D'Annunzio  l'amore  nelle  sue  manifestazioni  più  com- 
plicate e  sensuali,  nel  Verga  nessun  compiacimento  di  passioni  mor- 
bose: accenni  esrenziali  e  giù  nelle  anime:  amore  in  quanto  deter- 
mina un  dramma;  il  dramma  di  qiK'L'annore;  Gabriele  D'Annunzio 
presente,  sempre,  col  romanzo  vario  e  interessante  della  sua  stessa 
vita,  Giovanni  Vergia  assente,  sempre,  quasi  non  esistesse,  o  mai  fosse 
psistito.  La  grande  massa  del  pubblico  — -  uomini  e  donne,  maschi 
e  femmine  —  non  potevano  che  dimenticarlo,  e  lo  dimenticarono  per 
decenni.  E  Icr  dimenticarono  anche  la  maggior  parte  dei  critici.  «  Per 
chi  dovrei  scrivere?». 


I  critici.  L'ho  già  detto:  «grande  scrittore»  e  via,  con  viva  e 
frettolosa  ammirazione.  Molti  di  essi  non  sapevano  perdonare  forse 
a  Giovanni  Verga  la  lingua  e  la  sintassi  da  lui  adoperate.  Passando, 
in  verità,  dal.a  scuola  con  la  sua  categorica  precettistica  a  —  per 
esempio  —  /  Malavoglia  con  l'apparente  dispregio  dei  più  venerandi 
precetti  scolastici  che  ad  ogni  pagina  vi  si  osserva,  non  è  a  meravi- 
gliare se  si  resti,  sulle  prime,  perplessi  e  disorientati.  Dove  un  «  bel 
periodo»,  non  so,  latineggiante  e  solenne  nella  sua  soda  ed  ampia 
architettura,  e  coi  verbi,  con  gli  aggettivi  collocati  sapientemente 
così  e  così?  Dove  un  saggio  solo  di  quella  tal  cosa,  che  scolastici  e 
accademici  dotti  e  severi  addimandano  stile  fiorito?  Siamo,  in  un 
certo  senso,  al  senno  nisticus.  Fiori,  sì,  ouanti  volete  coglierne,  ma 
di  cam.po,  di  bosco;  fiori  selvatici,  che  mettono  inaspettatamente  fra- 
granze e  tinte  —  macchie  d'oro,  macchie  vermiglie  —  tra  zolla  e 
zolla,  tra  pietra  e  pietra,  tra  quercia  e  quercia,  in  mezzo  a  ortiche, 
a  felci,  sul  muschio,  ai  crepacci  delle  vecchie  case:  le  anime  vergini 
ne  hanno  una  gioia  ineffabile,  non  cosi  le  persone  ingentilite  nelle 
consuetudini  delle  città  civili  e  popolase  e  che  prediligono,  su  tutti, 
i  rari  e  aprpariscenti  fiori  di  serra.  E  poi,  a  dirla  proprio  come  sta, 
pareva  fossero  nel  vero,  allorché  alcuni  giudicavano  asintattica  la 


GIOVANNI  VERGA       *  '  237 

prosa  di  Giovanni  Verga.  Bisog^nava  intendersi,  però:  intendersi  un 
po'  con  Fautore;  più,  anzi,  che  con  lui,  con  le  creature  de'  suoi  ro- 
manzi. 

Il  problema  infatti,  è  tutto  qui.  È  arbitro  uno  scrittore  di  pre- 
stare uno  stile  prestabilito  o  il  suo  proprio  stile  alle  creature  della 
sua  fantasia?  Altri  l'ha  fatto  e  vi  persevera  tra  larghi  e  vivaci  con- 
sensi. Giovanni  Verg-a,  nel  meglio  della  sua  opera,  no.  Gliene  hanno 
fatto,  nei  modi  più  rispettosi,  un  torto;  ma  il  torto,  a  rifletterci,  era 
più  dei  censori  che  dello  scrittore,  il  quale,  nonostante  tale  censura, 
ed  anche  —  vorrei  dire  —  per  la  ragione  ond'essa  è  nata,  prende 
posto  fra  i  maggiori  maestri  dell'arte  narrativa.  Fra  i  maestri  —  ri- 
peterò cose  d'un  mio  discorso  sul  Verga  —  che  non  eccellono  soltanto 
nel  tempo  in  cui  vivono,  ma  che  stampano  orma  inc-ancellabile  nella 
storia  letteraria  d'un  popolo.  Letteraria,  dico,  per  intenderci,  che 
Giovanni  Verga  è  il  meno  «  letterato  »  fra  qu-anti  novellatori,  roman- 
zieri e  commediografi  son  degni  di  questo  nome;  ma  io  non  so  quanti 
letterati  abbian  dato  all'arte  opere  di  compiuta  bellezza  come  quelle 
sbocciate  dalla  fantasia  creatrice  di  Giovanni  Verga.  Penso  a  Benve- 
nuto Cellini,  che  non  essendo  letterato,  lasciò  una  prosa  di  persona- 
lissimo stile  e  che  s'impronta  —  agile,  nervosa,  fremente  —  della 
sua  vita  stessa.  Né  fu  letterato  Carlo  Goldoni,  pel  quale  ancor  oggi 
l'Italia  può  vantare  un  teatro  comico.  Teatro,  come  il  romanzo,  come 
la  novella,  è  fondamentalmente  e  innanzi  tutto  vita  di  anime  :  creare 
persone  vive,  ciascuna  delle  quali,  nel  pensiero  e  nell'atto,  obbedisca 
a  una  propria  legge,  a  un  particolare  ritmo  interiore  determinato  da 
una  somma  di  sentimenti  sp>esso  fra  loro  in  contrasto  e  che  cercano 
di  prevalere  l'uno  sull'altro,  che  un'anima  umana  è  già  in  se  stessa 
un  campo  di  lotta  fra  la  ragione  e  il  sentimento,  fra  sentimenti  di- 
versi, se  non  pure  opposti;  un  campo  di  lotta  fra  quel  tanto  d'ani- 
malità e  quel  tanto  d'umanità  che  si  combattono  dentro  ciascuno  di 
noi,  e  l'uomo,  spiritualmente  ed  eticamente,  non  è  se  non  il  risultato 
di  questa  lotta  sorda  e  incessante,  per  la  quale  egli  oscilla  perpetua- 
mente tra  il  bene  e  il  male  —  il  dramma  fino  al  suicidio  o  al  parri- 
cidio — ;  tra  il  parere  e  l'essere  —  la  commedia  fino  alla  risata  più 
schietta  e  all'umorismo  più  amaro;  e  in  tanto  ci  si  rivela  il  suo 
carattere,  in  quanto  l'atto,  la  parola,  il  suo  urlo,  i  suoi  silenzi  ci 
fanno  avvertire,  volta  a  volta,  nel  modo  più  diretto  e  immediato, 
quel  che  c'è  dentro.  Attraverso  una  frase,  una  parola,  un  urlo,  una 
pausa,  poter  dire:  avviene  questo,  e  così  dev'essere,  perchè  que- 
st'uomo è  fatto  così,  e  dunque  deve  proporre  questo,  risponder  que- 
sto, far  questo;  è  naturale  che  gioisca,  è  naturale  che  soffra,  e  che 
faccia  gioire,  o  che  faccia  soffrire,  e  che  si  appigli  al  bene,  o  che 
generi  il  male,  che  si  uccida,  o  che  uccida.  Avvertire  continuamente 
la  presenza  del  carattere,  giacché  allora  soltanto  una  creatura  d'arte 
è  viva  e  vitale,  allorché  si  compie,  cioè  si  individua,  in  un  carattere. 
Carattere  :  segno  esteriore  logico  —  il  più  intonso  e  caratteristico  — 
di  ciascun  attes-giamento  interiore  che  la  creatura  d'arte  assume  in 
ciascuna  contingenza  della  realtà;  e,  insieme,  la  risultante  logica  di 
tutti  gli  atteggiamenti  che  essa  è  venuta  assumendo  nelle  varie  con- 
tingenze della  realtà  :  logica,  naturalmente,  rispetto  alla  particolare 
psicologia  di  quella  data  creatura,  inconfondibile  con  la  psicologia 
di  un'altra:  don  Abbondio,  nella  sua  miracolosa  analisi,  o,  non  so. 


238  •      GIOVANNI  VERGA 

Francesca,  nella  sua  sintesi  miracolosa.  Contenuto,  finalità  etica, 
lingua,  tutto  è  accessorio  e  secondario.  Creare  iimanità  :  è  questo  il 
presupposto  della  compiutezza  e  dunque  della  vitalità  della  novella» 
del  romanzo,  del  dramma,  del  poema.  La  letteratura  italiana  ha 
poemi  melodiosi  di  bei  versi  e  di  nobilissimo  eloquio,  ha  novelle  e 
romanzi  di  elegantissimo  stile,  lia  comedie  e  tragedie  dall'impecca- 
bile periodare  e  magari  spigliate  nel  dialogo  e  ricche  di  quella  mer- 
cantile virt-ìi  che  si  addimanda  effetto  teatrale,  ed  ha  poemi,  novelle, 
drammi  dove  con  generosità  di  propositi,  son  trattati  gravi  problemi 
sociali,  ma  cosa  morta.  Lo  scrittore,  coi  suoi  gusti  letterari,  con  le 
sue  tendenze  filosofiche,  col  suo  ideale  civile,  politico,  umanitario 
deve  annullarsi  nella  vita  assolutamente  libera  e  indipendente  dei 
suoi  personaggi:  padre  e  insieme  estraneo  delle  sue  creature.  Più 
egli  fa  sentire  la  sua  presenza,  meno  logica  è  la  vita  di  quelle  crea- 
ture, che  non  saranno  più  loro,  ma  il  loro  autore;  il  quale  con  questa 
sua  intrusione,  potrà  svolgere,  sì,  una  tesi  filosofica  o  sociale  a  lui 
cara,  potrà  colorare,  cesellare  o  scolpire  irreprensibili  pagine  di 
prosa,  potrà  dimostrarsi  il  galantuomo,  il  birbone,  lo  stilista  o  il 
purista  che  egli  è,  ma  avrà  ucciso  il  carattere  dei  suoi  personaggi. 
Pochissime,  a  contarle,  le  opere  che  hanno  vinto  il  tempo,  e  lo  hanno 
vinto  soltanto  quelle  opere,  nelle  quali  lo  scrittore  è  riuscito  alla 
creazione  del  carattere.  E  Giovanni  Verga  vincerà  il  tempo,  perchè 
nelle  persone  della  sua  fantasia  ha  sempre  trasfuso  un'anima.  Vita  dei 
campi.  Novelle  rusticane,  I  Malavoglia,  Mastro  don  Gesualdo,  Dal 
tuo  al  mio,  sono  un  mondo,  o  tanti  piccoli  mondi,  dove  ad  ogni  passo 
ci  imbattiamo  in  esseri  viventi,  ciascuno  con  la  propria  fisonomia, 
con  la  propria  anima,  con  le  proprie  passioni,  le  quali  si  estrinsecano 
non  altrimenti,  se  non  obbedendo  con  fedeltà  vigile  e  inesorata  alla 
legge  del  carattere.  Nell'atto  della  creazione  lo  scrittore  più  non 
esiste,  esistono  creature,  dentro,  nella  sua  fantasia,  che  si  atteggiano, 
che  si  muovono,  che  parlano.  E  si  atteggiano,  si  muovono,  parlano 
in  quel  dato  modo,  non  perchè  voglia  così  lo  scrittore,  ma  perchè 
così  avviene  dentro,  nella  fantasia;  lo  scrittore  diventa  quasi  spet- 
tatore: le  osserva,  le  segue,  le  ascolta  e  viene  segnando  sulla  carta: 
segna  quelle  parole,  che  sostanzialmente  debbono  esser  quelle  e  non 
altre,  perchè  così  quelle  creature  si  esprimono  e  perchè  così  espri- 
mendosi —  e  così  solo  —  sono  nella  loro  legge.  Quei  vocaboli,  quella 
sintassi,  quello  stile  insomma.  In  questo  senso,  sì  —  colore,  calore  — 
lo  stile  è  l'uomo.  leli  il  pastore  non  può  esprimersi  diversamente, 
non  può  esprimersi  diversamente  Nedda,  né  padron  'Ntoni,  né  com.- 
pare  Alfio  Mosca,  né  Mena,  né  Rosso  Malpelo,  né  la  Lupa,  né  mastro 
don  Gesualdo.  Direi  quasi  che  ogni  carattere  umano  rechi  in  sé,  coi 
propri  sentimenti  e  con  le  proprie  passioni,  i  vocaboli  e  la  sintassi 
per  esprimerli.  0  il  carattere  si  altera.  Massima  aderenza  tra  il  sen- 
timento e  la  parola  e  la  sintassi,  onde  quel  carattere  si  esprime: 
parola  che  non  vesta,  che  non  adomi,  che  non  si  sovrapponga,  che 
quasi  non  si  avverta,  perché  ignudo  più  che  si  possa  ci  giunga  il 
sentimento  nel  suo  manifestarsi,  ignudo  e  vivo  e  caratteristico  quale 
esso  rampolla  alla  scaturigine  prima. 

È  quel  che  è  avvenuto,  salvo  differenze  estrinseche,  nei  pochi 
creatori  di  caratteri,  fino  al  Manzoni,  del  quale  Giovanni  Verga  è 
consanguineo.  Meno,  se  v<^liamo,  euritmico  e  certamente  meno  let- 


GIOVANNI  VERGA  239 

terato,  ma  i  difetti  della  sua  opera  migliore  sono  compensati  da  un 
senso  di  freschezza  insolito  da  secoli  nell'arte  narrativa  italiana: 
l'apparizione  nella  nostra  letteratura  di  Vita  dei  campi  e  di  Novelle 
ruslicane  parve  l'improvviso  irrompere  d'un  primitivo,  che  mirasse 
uomini  e  cose  con  occhi  e  con  anima  nuova,  e  tutto  impregnato,  tutto, 
a  dir  così,  insaporato  di  muschio,  di  sole,  di  salsedine.  Per  questo 
rispetto  Giovanni  Verga  trova  i  suoi  simili  tra  i  novellatori  più  rap- 
presentativi deUa  letteratura  russa. 

Poche  'parole  spenderò  su  quel  tale  verismo,  dal  cui  tronco  non 
pochi  critici  vollero  germogliasse  l'ultima  opera,  cioè  la  definitiva, 
di  Giovanni  Verga,  che  la  sua  prima  produzione  si  confonde  senza 
quasi  personalità  con  la  produzione  romantica,  che  infestava  l'Italia, 
annegandovi.  Verista  nel  significato  attribuito  a  questa  parola  Gio- 
vanni Verga  non  fu  mai.  Egli  stesso,  del  resto,  lo  aveva  detto.  Dopo 
qualche  periodo  che  si  colorava  del  linguaggio  critico  di  quel  parti- 
colare momento  storico,  Giovanni  Verga  scrisse  :  «  Intanto  io  credo 
che  il  trionfo  del  romanzo,  la  più  completa  e  la  più  umana  delle 
opere  d'arte,  si  raggiungerà  allorché  l'affinità  e  la  coesione  di  ogni 
sua  parte  sarà  così  completa,  che  il  processo  della  creazione  rimarrà 
un  mistero,  come  lo  svolgersi  delle  passioni  umane;  e  che  l'armonia 
delle  sue  forme  sarà  così  perfetta,  la  sincerità  della  sua  realtà  così 
evidente,  il  suo  modo  e  la  sua  ragion  d'essere  così  necessari,  che  la 
mano  dell'artista  rimarrà  assolutamente  invisibile,  e  il  romanzo  avrà 
l'impronta  deira\"venimento  reale,  e  l'opera  d'arte  sembrerà  essersi 
fatta  da  sé,  aver  maturato  ed  essere  nata  spontanea  come  un  fatto 
naturale,  senza  serbare  alcun  punto  di  contatto  col  suo  autore;  che 
essa  non  serbi  nelle  sue  forme  viventi  alcuna  impronta  della  mente 
in  cui  germogliò,  alcuna  ombra  dell'occhio  che  la  intravide,  alcuna 
traccia  delle  labbra  che  ne  mormorarono  le  prime  parole  come  il 
fiat  creatore;  ch'essa  stia  per  ragion  propria,  pel  solo  fatto  che  è  come 
dev'essere  ed  è  necessario  che  sia,  palpitante  di  vita  ed  immutabile 
al  pari  di  una  statua  di  bronzo  di  cui  l'autore  abbia  avuto  il  coraggio 
divino  di  ecclissarsi  e  sparire  nella  sua  opera  immortale  » . 

Parole  di  chiarezza  solare  e  nelle  quali  è  tutto  De  Sanctis  e  tutta 
l'opera  di  Giovanni  Verga.  Non  asservirsi,  dunque,  supinamente  al 
vero,  come  era  vezzo  di  molti  cosi  detti  veristi,  ma  creare  opere  che 
sembrino  «  essersi  fatte  da  sé  »  «  come  un  fatto  naturale  »  e  che  stiano 
«  per  ragion  propria  ».  Non  trasportare  nell'opera  d'arte  il  vero  quale 
esso  cade  sotto  i  nostri  sensi,  ma  —  che  è  ben  altro  —  attraverso  «  il 
misterioso  processo  della  creazione»  riuscire  ad  opere  d'arte,  che 
rechino  il  segno  della  vita  reale.  Implicitamente  è  proclamata  la  ne- 
cessità dei  caratteri  umani.  I  critici,  intanto,  per  decenni  :  «  maestro 
del  verismo!  ».  Classificavano  e  via,  paghi  d'avere  sentenziato,  non 
curando  di  approfondire  se  novelle  come  leli  àJ  pastore  o  romanzi 
come  /  Malavoglia  nel  loro  lirismo  drammatico  tanto  più  intenso 
quanto  più  contenuto  non  costituissero  per  avventura  il  fatto  lette- 
rario più  squisitamente  spirituale  dell'epoca  in  cui  sorsero,  fuori  e 
sopra  ogni  andazzo  di  scuole,  di  «  maniere  »  e  di  mode  fugaci.  Ghe 
se  questo  del  Verga  fosse  verismo,  veristi  sarebbero  tutti  quanti  i 
creatori  di  caratteri,  da  Omero  a  Sofocle,  da  Shakespeare  ad  Ales- 
sandro Manzoni.  Ma  ecco:  il  verismo,  come  tante  altre  «maniere», 


240  GIOVANNI  VERGA 

è  tramontato  da  un  pezzo  e  l'opera  definitiva  di  Giovanni  Verga  è 
e  resterà  lì,  col  popolo  delle  sue  creature  che  gioiscono,  che  soffrono, 
che  invocano  amore,  pietà  o  morte  con  voci  che  saranno  eterne,  per- 
chè immutabile  per  mutare  di  eventi  sarà  il  cuore  dell'uomo  e  iden- 
tico, tra  mutevoli  circostanze  esteme,  il  dramma  travaglioso  del- 
l'umana esistenza.  Popolo  di  creature:  Nedda,  leli  il  pastore.  Rosso 
Malpelo,  mastro  don  Gesualdo,  la  Lupa,  Nanni,  compar  Alfio,  San- 
tuzza, Turidu  —  giacché  quel  che  son  venuto  dicendo  della  novella 
e  del  romanzo  vale  pel  teatro  di  Giovanni  Verga  —  e  tutti  quanti  i 
Malavoglia,  lì,  con  in  centro  padron  'Ntoni,  e  attorno  la  sua  famiglia, 
nella  «  casa  del  nespolo  »  con  le  loro  piccole  gioie  e  coi  loro  grandi 
dolori  —  chi  nasce,  chi  muore  — ;  ed  esseri  buoni  ed  esseri  cattivi 
s'innestano  nella  vita  intima  di  quella  famiglia  di  lavoratori,  che  il 
sogno  iniziale  d'un  domani  men  di!ro  segna  d'un  sinistro  fato:  esseri 
buoni,  esseri  cattivi,  tutto  il  villaggio  parla,  ciarla,  pettegoleggia,  si 
muove,  vive  la  sua  vita  oscura  e  caratteristica  mescolandola  conti- 
nuamente —  onda  nell'onda  —  con  la  vita  di  Bastianazzo,  della 
Longa,  di  'Ntoni,  di  Luca,  di  Mena,  di  Alessi,  di  Lia  e  del  caipo  di 
quella  famiglia,  padron  'Ntoni,  il  vecchio  pescatore,  il  dabben  uomo, 
che  fa  la  volontà  di  Dio  e  pronunzia  parole  di  saggezza,  levandosi 
ognor  più  vivo  ed  alto  tra  le  ventate  nemiche,  che  scuotono  la  «  casa 
del  nespolo  »  —  casa  dèi  Malavoglia  —  e  «  la  Provvidenza  »  —  la 
barca  dei  Malavoglia  — :  vive,  l'una  e  l'altra,  come  creature  umane. 
Tutto  il  bene,  tutto  il  male  della  famiglia  passano  per  quel  vecchio 
cuore  e  si  propagano  per  le  viuzze,  per  le  casette  del  villaggio,  che 
ne  riecheggian  tutte;  e  bene  e  male,  eventi  lieti  o  tristi,  la  figura  del 
vecchio  domina  gigante,  su  tutti  :  sulla  famiglia  e  sul  villaggio.  E 
più  il  fato  si  accanisce  e  fa  strazio  della  carne  e  del  nom©  dei  Mala- 
voglia —  e  il  villaggio  comenta  e  ne  partecipa,  sempre  —  più  gigan- 
teggia la  figura  biblica  di  padron  'Ntoni,  che  mai  sembrò  così  alto 
e  gigantesco  come  il  giorno  in  cui,  all'ultima  mazzata  di  quel  sinistro 
fato,  lo  si  vede  piegare,  grande  arco  logoro,  su  se  stesso  per  non 
drizzarsi  mai  più.  Spentosi  padron  'Ntoni,  sembra  sia  spenta  la  fami- 
glia intera  e  che  anch'esso  il  villaggio  si  spenga,  tanta  la  rispondenza 
—  simpatia  o  repulsione  —  fra  tutte  quelle  anime,  fra  tutte  quelle 
vicende,  fra  tutte  quelle  cose:  vita  molteplice  ed  una:  d'uomini, 
d'eventi,  di  luoghi,  animati,  tutti  nell'attimo  stesso,  come  fronde 
d'una  selva  al  maestrale,  senza  mai  una  discontinuità,  senza  mai 
una  pausa  che  non  fosse  piena  di  significato.  E  se  qua  e  là  son  tocchi 
descrittivi  del  cielo,  della  terra,  del  mare,  si  ricongiungono  alla  vi- 
cenda tragica  come  elementi  essenziali  di  essa:  la  natura  che  par- 
tecipa agli  eventi  :  quei  faraglioni  ferrigni  e  selvaggi,  nella  notte 
paurosa  del  naufragio,  hanno  anima  e  voce  umana.  E  così  l'ululo 
del  mare.  E  tutte  le  pennellate  così,  sempre:  non  decorazioni  descrit- 
tive, ma  vibrazioni  della  tragedia.  Romanzo,  sì,  tragedia  di  sempli- 
cità e  di  potenza  greca,  ma  —  insieme,  come  già  ebbi  ad  osservare  — 
sinfonia  dai  temi  innumerevoli,  ciascuno  in  sé  netto  e  chiaro,  ma 
che  si  fonde  e  si  confonde  con  gli  altri,  conferendo  ad  essi  e  riceven- 
done eloquenza  più  viva:  questo  romanzo  illustre  è  anche  uno  scoh- 
finato  organismo  sinfonico. 

Non  so  quante  altre  opere  l'arte  narrativa  italiana  possieda  così 
gagliarde,  compiute  e  originali. 

F.  P.  Mule. 


RICORDI  DAL  MARE 


A  TOMMASO  QALLABATI  SCOTTI. 

Pensando  a  lei,  nel  1918,  scrissi  d'Alessandro  Pperio  il  primo  di 
questi  Ricordi;  e  tornando  a  lei  con  affettuoso  pensiero  m'avviene  ora 
di  raccoglierli  tutti.  Ma  il  pensiero  del  terzo  va  anche  al  professore 
di  Storia  del  Cristianesimo,  Ernesto  Buonaiuti. 

I  primi  due  sono  dei  due  più  insigni  poeti  italiani  del  secolo  xix 
combattenti  per  la  libertà  della  patria  e  morti  combattendo;  il  terzo 
è  del  gran  Padre  e  Dottore  africano  del  secolo  v,  che  consacrò  l'in- 
gegno e  la  vita,  purificandosi,  alla  giustizia  e  alla  vita  della  Città  di 
Dio  e,  facendola  paragone  alla  Città  del  mondo,  ne  descrisse  le  ori- 
gini e  le  vicende  nei  secoli.  A  Lei  dunque,  che  ha  combattuto  a  fianco 
del  generale  Luigi  Cadorna,  e  al  sacerdote  romano  che  professa  la 
storia  di  quella  divina  Città  peregrinante  nel  mondo,  essi  vengono 
naturalmente,  come  di  uomini  che  sentirono  l'umanità  intera,  e  però 
aprirono  il  cuore  «  alle  acque  della  Pace  »,  che  (come  confessa  Dante) 
«  dalleterno  Fonte  son  diffuse  ». 

II  primo  scritto  è  ricordo  d'Alessandro  Poerio  :  raccoglie  cioè  il 
segreto  della  sua  vit^  e  della  morte  affrontata  nella  difesa  di  Venezia 
e  avvenuta  il  4  novembre  1848;  e  particolarmente,  negli  ultimi  versi, 
porta  alla  luce  il  presagio  che  ebbero  e  la  madre  di  lui  e  lui  un  lùese 
appunto  prima  ch'egli  cadesse  nella  sortita,  di  Mestre  del  27  ottobre. 
La  madre,  il  22  settembre,  gli  scriveva  da  Napoli  :  «  Questa  notte  ho 
sognato  che  eri  entrato  nella  mia  stanza.  Ti  sei  seduto  sul  mio  letto. 
Mi  parevi  di  perfetta  salute;  ma  solo,  afflitto  e  piangente  per  una  let- 
tera che  avevi  in  mano.  Ti  sei  accinto  a  leggerla  mettendo  gli  oc- 
chiali fissi.  Io  ti  confortavo  a  tranquillarti,  dicendoti  che  nei  tempi 
presenti  bisognava  esser  superiore  a  qualunque  dispiacere.  Il  mio  di- 
scorso è  stato  tanto  energico  che  mi  ha  fatto  destare  senza  poter  sa- 
pere cosa  conteneva  la  lettera;  ma  tu  stavi  bene,  ed  eri  curioso  con 
gli  oc<!hiali  fissi  ».  Il  sogno  della  madre  eroica  era  vero;  perchè,  tre 
giorni  dopo  ch'ella  ne  scrisse,  Alessandro,  che  non  aveva  ancora  rice- 
vuto la  lettera  di  lei,  comp>oneva  que'  suoi  ultimi  versi  (che  Vittorio 
Imbriani  pubblicò  come  Voce  dell'anima)  ai  quali  affidava  veramente 
la  «  voce  libera  e  divina  »  che  gli  annunziava  la  morte  imminente,  e, 
con  l'idea  della  «  vera  eternità  »  e  con  quella  della  «  sventura,  gentile 
espiatrice  »,  lo  preparava  ad  affrontarla  con  coraggio  e  allegrezza 


242  VERSI 

senza  la  «  superba  vanità  »  che  gli  avrebbe  chiuso  il  cuore  allo  Spi- 
rito di  Dio. 

Ippolito  Nievo,  il  poeta  garibaldino,  e  veramente  combattente 
con  Garibaldi,  nella  guerra  del  '59  e  nella  spedizione  dei  Mille,  è  ri- 
cordato qui  principalmente  com'erede,  per  gli  affetti  e  le  idee,  dei 
Martiri  di  Belfiore.  Poiché  egli,  poco  più  che  ventenne,  partecipò  alla 
cospirazione  mazziniana,  che  portò  uno  di  quegli  uomini  alla  fucila- 
zione e  dieci  alla  forca,  ed  ebbe  da  loro,  e  particolarmente  da  Enrico 
Tazzòli,  Tito  Speri  e  Pier  Fortunato  Calvi,  il  ricordo  incancellabile 
deWallegra  morte,  che  fu  luce  al  desiderio  profondo  dell'anima  sua, 
raggio  di  Dio  che  gl'illuminò  la  vita;  ma,  come  qui  si  dice,  egli  ebbe 
anche  in  quella  prima  gioventù  inoculato  il  veleno  del  dubbio  su- 
perbo e  della  menzogna  che  confonde  l'uomo  con  Dio,  che  altera  mor- 
bosamente e  gonfia  di  presunzione  lo  spirito  umano,  e  che  a  lui  fece 
mancare  il  terreno  stabile,  la  ferma  pietra,  su  cui  corre  la  ferma  via 
della  vita  vera.  Egli  che,  mosso  dall'esempio  degli  Undici  presente 
sempre  al  suo  spirito,  aveva  fatto  solenne  proposito  di  vita  integra  e 
austera  per  prepararsi  alle  battaglie  della  Patria,  nel  giorno  deside- 
rato si  trovò,  non  libero  della  mente  e  del  passo,  ma  servo  de'  suoi 
istinti  e  dei  sensi,  schiavo  d'una  funesta  passione  d'amore,  legato  di 
«roseo  laccio  »  funesto  a  una  vita  che  non  poteva  esser  sua.  E  questa 
fu  la  causa  della  sua  morte  immatura  e  paurosa,  poiché,  dopo  es- 
sersi esposto  alle  imprese  più  arrischiate  «  per  andar  incontro  alla 
morte  »,  l'ansia  di  rivedere  la  donna  che  lo  aveva  rapito  a  se  stesso, 
lo  fece  fatalmente,  a  Palermo,  salire  suWErcole,  legno  oramai  impo- 
tente a  reggere  il  mare,  che  affondò  con  tutto  il  suo  equipaggio  e  i 
passeggeri,  probabilmente  nelle  acque  di  Capri,  la  mattina  del 
5  marzo  1861. 

Nulla  dico  del  terzo  ricordato  dal  nostro  mare,  che  bagna  il  lido 
tirreno  e  Sardegna  e  Sicilia:  dove  S.  Iacopo  in  Acquaviva  ricorda 
il  suo  passaggio  dinanzi  alla  Gorgona,  Ostia  il  sublime  colloquio 
con  la  Madre  impendente  die  quo  ex  hac  vita  erat  exitura,  Cagliari 
la  sua  stazione  tra  Italia  e  Africa,  e  Siracusa  l'esempio  di  Lucia, 
della  vergine  magnanima  che  a  lui,  a  Tommaso  d'Aquino  e  a  Dante 
svelò  il  segreto  dell'animo  forte  e  dell'intelletto  chiaroveggente  di- 
nanzi al  martirio  dell'ignominia  patito  senza  il  consenso  della  mente  : 
miai  or  animus,  com'egli  disse  nella  Città  di  Dio  (I,  22),  qui  pò  test 
judicium  vulgare  prae  conscientiae  luce  ac  puritate  contemnere.  Né 
aggiungo  parole  a  spiegare  come  il  «  Vate  d'Eleusi  »,  cioè  Eschilo, 
ai  Greci  e  agl'Italici  antichi,  e  «  Giacomo  »  Leopardi  agl'Italiani  mo- 
derni, siano  testimoni  della  storia  funesta  delle  colpe  umane  che 
risale,  secondo  l'espressione  di  Virgilio,  alla  prisca  fraus,  e  come 
anch'essi  abbiano  veduto,  non  meno  di  Dante,  la  fiumana  paurosa 
che  corre  tra  le  fosche  ombre  della  valle  della  morte,  a  differenza 
dai  filosofi  superficiali  che  considerano  l'uomo  quale  dev'essere  e  non 
qual  è. 


VERSI  243 

Ippolito  Nievo. 

Dalle  acqtte  di  Capri, 


Figlio  del  mare,  Ippolito,  l'invito 
da  te  mi  vien,  di  qui  con  te  posare, 
qui  presso  il  Fiume  del  Perdono,  al  lito 
sacro  che  dato  non  ti  fu  toccare. 

Ti  vedo,  escluso  dal  volgar  convito, 
regger  puledri  indómi  e  saettare, 
e  cercar  libertà  nelllnfinito 
oltre  l'immensa  linea  del  mare. 

Ahi,  perchè,  come  serpe,  in  sé  rivolto 
si  chiuse  il  cuor?  né  l'infinito  Bene, 
né  l'alta  Verità  patria  del  core 

Ti  si  svelò  nell'ineffabil  volto 

di  Chi  dal  legno,  sotto  ingiuste  pene, 

il  grido  t'insegnò  dell'Uom  che  muore? 


II. 

Pur  non  freddo  chiaror  fosforescente 
di  lucciolette  per  campestre  via, 
ma  ben  destava  in  te,  fanciullo  ardente, 
lo  spirito  di  vita  un'armonia. 

Se  ti  parlavan  lungo  il  rio  corrente 
fiori  di  solitaria  prateria, 
o  il  sol  che  in  grande  incendio  cadente 
fuor  da  nembosa  nuvola  s'avvia. 

Ma  un  dì,  stanco  del  non  curar  di  tutti, 
ai  ciechi  istinti  del  tuo  cuor  ti  désti 
che  ti  travolser  via  nella  bufera. 

E  il  mare  irato,  coi  giganti  flutti 
rovesciò  seco  il  legno  a  cui  credesti 
e  chiuse  te  nell'alta  notte  nera. 


244  VERSI 


III. 


Ma  quando  il  tuo  gelido  corpo  accolse 
l'inviolato  talamo  profondo, 
forse  in  alba  celeste  a  te  si  volse 
l'angel  che  vide  Calvi  moribondo. 

E  d'un  sorriso  il  doloroso  sciolse 
nodo,  che  ti  stringeva  al  triste  mondo; 
ma  lo  spirito  incerto  si  raccolse 
e  tremò  d'esser  nudo  e  vagabondo. 

Quand'ecco,  al  senso  dell'arcano  segno 

raggiante  di  martirio  e  di  vittoria 

nel  fondo  del  tuo  cor  come  in  sua  stanza. 

Il  Re  t'apparve  dell  eterno  Regno: 
dolce  allor  fu  del  bene  la  memoria, 
e  l'ali  lampeggiar  della  speranza. 


IV. 


Mare,  profondo  mar,  terribil  mare, 
sì  procelloso  nell'adriaco  seno, 
che  il  mistero  di  Dio,  senza  svelare, 
narri  col  sol  cadente  nel  Tirreno, 

Apriti  al  Re  trafìtto  e  fagli  altare 
il  fondo  ove  ora  vive  il  Giel  sereno! 
Ei  della  Città  eterna  al  limitare 
far  via  l'abisso  sa,  col  suo  baleno. 

La  Madre  d'Agostino,  un  dì  gemente 

or  sorridente  ali  ineffabil  Riso, 

e  quella  d'Alessandro  a  Mestre  infranto. 

Con  la  Madre  che  or  sul  Mincio  sente 
il  fìgliuol  suo  dagli  occhi  suoi  diviso, 
offron  per  lui  di  mille  madri  il  pianto. 


VERSI  245 


V. 


E,  come  stelle,  nel  divin  fulgore 
venner  gli  undici  martiri  all'amico. 
Disse,  tornato  sacerdote,  Enrico: 
—  Da  Lui  la  Vita,  dal  regal  suo  cuore.  — 

E  Piero  :  —  Solo,  Egli  è  Liberatore; 
ombre  i  re  vostri,  ombre  d'un  sogno  antico. 
E  Tito:  —  Il  primo  Amore  io  benedico, 
che  m'insegnò  come  d'amor  si  muore. 

E  come  può  con  le  sue  forze  inferme 
edificar  la  Patria,  o  Amore  eterno, 
l'uom  che  g'alza  e  ricade,  ignudo  verme? 

Ben  distruggere  può,  schiuder  l'inferno.  — 
Vinto  il  tuo  cuore  a  Lui  si  diede  inerme, 
e  ti  fu  via  l'abisso  al  dì  superno. 


Aless?^ndro    Poerio. 

Dall'isola  di  S.  Angelo  a  Venezia. 
l. 

Certo  vi  fu. chi  della  tua  sventura 
ebbe  pietà,  non  so  se  in  terra  o  in  Cielo, 
e  il  cuor,  che  la  virtù  superba  indura, 
intenerì,  sciolse  di  morte  il  gelo. 

«Ascolta,  o  Padre,  l'umil  créatura 
dal  fondo  del  suo  cuor  piagato  e  anelo! 
dammi  il  fuoco  che  purghi  ogni  sozzura! 
ecco:  la  piaga  mia  più  non  ti  celo». 

Allor  vedesti  l'ineffabil  volto 

di  Lui  ch'ebbe  pietà,  che  tutto  volle 

patire,  e  aperse  ai  miseri  le  braccia; 

Allor  dal  gelo  il  duro  cor  fu  sciolto, 
e  pura  per  rossor,  di  pianto  molle, 
allor  celasti  sul  suo  cuor  la  faccia. 


246  VERSI 


II. 


E  attingesti  a  quel  palpito  potente 
il  Ver  che  dà  di  libertà  l'aroma, 
che  le  virtù  del  cuor  fiaccate  e  spente 
e  dal  giogo  del  mal  l'anima  doma 

Rende  alla  vita:  e  quell'ardor  lucente 
lieve  ti  fece  la  tua  dura  soma, 
e  dal  sonno  levò  te  combattente, 
rese  lo  jonio  cuor  figlio  di  Roma. 

Allor  sentisti  il  pianto  del  fratello 
che  il  Tedesco  stringea  senza  difesa, 
sgombro  alfin  delle  nubi  aride  e  vane. 

Cadesti.  E  un  popol  del  tuo  sangue  bello 
nacque,  fedele  a  immacolata  Chiesa, 
che  sola  abbraccerà  le  genti  umane. 


III. 


Fratello,  oh  come  torna  dolce  al  forte, 
per  te,  la  voce  libera  e  divina 
di  Chi  ti  disse  un  dì  :  —  Soffri  e  cammina, 
entra  con  Me  nell'ombra  della  morte.  — 

Quel  dì,  mirar  con  le  pupille  assorte 
la  fatai  carta,  o  mente  peregrina, 
la  Madre  tua  ti  vide,  la  eroina 
cieca  dinanzi  a  quelle  oscure  porte. 

Ella  non  lesse,  tu  leggesti  :  il  fato 

tuo,  di  Venezia,  dell'Italia  madre, 

la  Voce  santa  scritta  era  in  quel  foglio  : 

—  Alba  del  Ciel  la  morte  e  arcano  amato; 
ma  ahi,  per  mani  fratricide  e  ladre, 
quanto  sangue  a  purgar  l'antico  orgoglio!  - 


VERSI  247 


Agostino  di  Tagaste. 


Dal  mare  tra  Cagliari  e  Cartagine,  da  Ostia 
tiberina,  e  da  s.  Jacopo  in  Aequaviva  a  Li- 
vorno presso  l'antico  Porto  pisano. 


I. 


Nato  dell'arsa  terra  ove  Cham  cela 
le  piaghe  e  l'onte  (ahimè!)  del  suo  peccato, 
tu  il  Mister,  che  di  favole  si  vela 
lungo  il  Nilo  e  l'Ilisso,  hai  meditato, 

E  la  luce,  onde  al  cuore  Iddio  si  svela 
Padre,  hai  coi  i>adri  italici  ascoltato: 
ond'Ei  ti  trasse  all'Uom  che  il  Ver  rivela, 
amante  più  d'ogn'altro  ed. odiato. 

Or  le  genti  onde  Roma  ebbe  il  governo, 
colme  le  valli  e  umiliati  i  monti, 
queirUom  raccoglie  tutte  in  un  Ovile; 

mentre  barbari  nuovi  un  nuovo  inferno 
fan  della  terra.  Oh  tu  schiudi  le  fonti 
del  Vero  a  noi  col  tuo  romano  stile! 


IL 


E  te  condusser  due  celesti  Scòrte 
fuor  dell'empia  città  della  sozzura. 
La  Madre,  che  del  cor  t'aprì  le  porte 
a  presentir  la  voluttà  ventura; 

E  la  sicula  Vergine  che,  forte 
di  coscienza  nella  luce,  e  pura, 
non  paventò  l'ignominiosa  morte; 
ma  nell'ardor  di  carità  sicura 

Il  giudizio  volgar  sdegnò  serena. 
Esse  l'occhio  ti  dièr,  che  le  lontane 
acque  del  mare  senza  fondo  sceme 

E  il  rio  fuggente  tra  l'accesa  arena: 
e  udisti  il  pianto  delle  cose  umane 
fugaci,  e  il  canto  delle  cose  eterne. 


248  VERSI 


III. 


Veleggiava  tornando  il  mare  immenso 
e  il  sol  mirava  al  fin  del  suo  viaggio; 
ma,  quando  in  mar  si  spense  ogni  suo  raggio, 
e  si  velaron  cielo  e  mare  al  senso, 

—  Eccomi  sol  con  te  —  disse  —  che  penso, 
invisibile  Oceano  in  cui  viaggio, 
a  cui  son  terra  e  cielo  in  lor  passaggio 
come  al  sol  lieve  nuvola  d'incenso.  — 

E  pregò  pace  dopo  tanta  guerra 
ei,  che  conobbe  irrequieto  il  core 
fin  che  non  ponga  nell'Eterno  stanza, 

E  passò  peregrin  sopra  la  terra 
da  un'esultanza  piena  di  tremore 
a  un  dolor  grande  pieno  di  speranza. 


IV. 


—  Ch'io  mi  conosca  e  te  conosca!  —  Oh  grido 
che  mandò  dalle  viscere  profonde, 
Monica,  il  tuo  figliuolo.  E  gli  risponde, 
esperta  e  umil,  dal  suo  più  caldo  lido 

Italia  madre:  ed  ecco,  dal  suo  nido 
d'Aquino,  un  Sol  che  luce  e  ardore  effonde; 
ecco  salir  dalle  beate  sponde 
sotto  l'occhio  di  Dio,  veggente  e  fido, 

Vico,  che  il  carme  delle  antiche  leggi 
e  dell  umana  storia  il  corso  arcano 
raccolse,  a  onde,  e  in  nuovo  libro  scrisse. 

Tu  che  dai  legge  a  ogn'uomo  e  il  mondo  r^gi, 
tu  Lume  aggiungi  al  fioco  raggio  umanol 
E  lui  beato  che  in  tal  Lume  vissel 


VERSI  249 


V. 


—  Ch'io  mi  conosca  e  te  conosca!  —  E  vide 
quel  che  il  Vate  d'Eleusi  avea  già  visto: 
l'uom  sotto  il  pungol  di  colui  che  uccide 
pagar  del  fuoco  il  temerario  acquisto. 

Ebra  d'un  sogno  che  bugiardo  ride 
offrir  di  sé  diletto  breve  e  tristo 
vide  la  donna;  e  furie  omicide 
temprarie  il  sozzo  vin  di  fiele  misto. 

Vide  quel  che  tu,  Giacomo,  vedesti 
ix)i  che  dalla  vietata  arbor  funesto 
frutto  d'amare  lacrime  cogliesti. 

Ma  sulla  croce  di  Prometeo,  mesto 

Uomo  pietoso  dei  fratelli  mesti 

vide,  e  Dio  lo  adorò,  venuto  a  questo. 


VI. 

E  vide,  come  in  tenebroso  seno, 
il  cuor  dell'uomo  nell'error  sommerso, 
e  frutti  uscir  maligni  di  veleno 
dalla  radice  dell'amor  perverso. 

Vide,  spezzato  di  ragione  il  freno, 
•  ciechi  istinti  rapir  via  di  traverso 
lui,  che  nei  piedi,  nelle  man,  nel  pieno 
petto,  il  coltello  avea  del  male  immerso. 

Luogo  d'infermità  gli  si  scoperse 

il  mondo,  e  cupa  valle  ove  alto  suona 

nel  fondo  il  fiume  della  colpa  umana... 

Ma  nuova  luce  al  palpito  s'offerse: 
infinita  Bontà  ch'ama  e  perdona 
rende  ai  mesti  il  sorriso  e  li  risana. 

7  Voa.  COXVII,  serie  VI  —  ,1*  aprile  1922. 


260  VERSI 


VII. 


Qual  dei  mortali  vide  Iddio?  Risplende 
vago  infinito  Bene  anche  all'infante 
che  cerca  il  latte:  e  l'alta  nota  rende 
la  mente  al  Padre  nel  suo  primo  istante, 

e  intende  e  sa,  sorriso  e  amor!...  Ma  offende 
solo  in  sé  stesso  il  cuore;  ajhi,  solo  ostante 
trova  sé  stesso  al  Cielo,  e  a  sé  contende 
la  Vita  sua,  la  Luce  inebriante. 

Volgiti,  0  cuore!  esci  di  te!  che  sei 
misero,  ed  hai  nel  fondo  una  ferita 
fetida,  ch'é  del  male  aperto  segno. 

Guarda  il  volto  dell'Uom  giusto  tra.i  rei; 

mira  la  Via,  la  Verità,  la  Vita 

in  Lui:  t'affida!  avrai  la  pace  e  il  Regno. 


Vili. 

Qual  dei  mortali  vide  Iddio?  ma  splende 
alba  di  Vita  e  tema  al  desiante, 
eco  del  Cielo;  e  il  santo  Nome  rende 
la  mente  al  Padre,  tacita  adorante. 

Oh  beato  colui  che  ode  e  apprende 
e  viene  a  te.  Sole  velato,  amante, 
e  ti  conosce,  ed  adorando  prende 
il  vivo  Pan  dalle  tue  mani  sante! 

Padre!  chi  sa  la  Fonte  della  Vita? 
il  mistero  del  tuo  Verbo  nei  Cieli 
e  l'infinito  Amor  ch'è  Vita  eterna?... 

Verità,  l'amor  tuo  Gesù  m'addita, 

e  il  Figliuol  tuo.  Tu,  Padre,  in  Lui  riveli, 

il  Verbo  tuo  che  terra  e  Ciel  governa. 


VERSI  261 


IX. 


Oh  beata  Colei  che  il  dolce  Frutto 
portò  nel  grembo,  Madre  immacolata! 
che  nel  suo  cuor  l'immenso  umano  lutto 
raccolse,  e  offerse  alla  Giustizia  amata, 

Ostia  Ella  accetta  e  puro  specchio  in  tutto 
della  Giustizia  a  Dio  figlia  increata 
che,  a  restauro  dell'alto  ordin  distrutto, 
in  Lei  vestì  la  carne  desiata. 

Oh  beata  la  Donna  umile  e  pura, 

desiderio  dei  secoli  gementi 

e  principio  d'un  novo  ordine  d'anni! 

La  Pia  che  rende  all'uom  l'alta  ventura, 
la  cui  dolce  Beltà  splende  alle  genti 
visione  di  pace  tra  gli  affanni. 


X. 


E  viva  dello  Spirito,  nel  mondo 
va  peregrina  e  nell'esilio  spera 
la  celeste  Città,  ch'Egli  dal  fondo 
leva  a  quel  Sol  di  nova  primavera. 

0  Sol  che  irradii  e  muovi  il  cor  profondo, 
che  ci  dai  pace  in  mezzo  alla  bufera, 
spira  quel  Fuoco  tuo  dolce,  giocondo, 
di  pianto  è  di  sorriso,  di  preghiera 

E  di  virtìi,  che  scioglie  il  piede  al  passo, 
la  mano  all'opra,  e  non  è  stanco  mai 
finché  al  tuo  Cuor  la  tua  Città  raccoglie; 

Che  la  toglie  dal  mondo  orrido  e  basso 
alla  Vita  che  Tu,  Tu  solo,  dai, 
ed  in  divina  libertà  si  scioglie! 


252  VERSI 

LA  LUCE  CHE  CREA. 

A  im  picxol»  naseiUiro. 

Onde  verrai?  nel  sangue  gentile  che  forma  il  tuo  velo 
quale  Parola  spira  un  raggio  oh'è  riso  di  Cielo? 

Quando  la  prima  voce  dedl'inquieto  desio 

dica  che  un  cuore  umano  è,  vivo  alla  luce  di  Dio, 

E  il  ben  che  lo  quieti  e  il  latte  d'un  tepido  petto 
fatta  più  forte  ohiajni;  ohi  mosso  avrà  l'intelletto? 

Quando  alla  Mamma,  prima,  vedendola,  sorriderai, 
per  quale  arcana  luce  dirà  quel  lampo,  che  sai? 

Quando,  due  voci  in  una  congiunte  in  un  nome,  volgendo 
l'occhio,  ah  babà  dirai,  con  canto  novo  e  stupendo. 

In  quale  arcano  Nome  ohe  ancor  non  sai,  ma  che  senti, 
fiderà  l'intelletto  degli  occhi  sicuri  e  ridenti? 

E  quando  il  pianto  e  il  grido  faran  risonare  la  stanza, 
quale  desìo  deluso  diran,  quale  ignota  speranza? 

Pianto  e  sorriso,  oh  voce,  oh  luce  dell'anima,  oh  amore 
d'un  ineffabil  Bene  del  sempre  trepido  cuore! 

Oh  spirito  anelante,  volente  una  gioia  infinita, 
te  il  Nonno  dolce  orante  chiamò  desiderio  di  Vita. 

Le  voci  che  la  lingua  pronunzia  fedele,  l'amore 
congiunge,  fuoco  vivo  tornante  all'ignoto  Fattore 

Che  è  la  Vita,  il  Bene  che  illumina  ogn'uomo,  con  voce 
di  Luce,  onde  la  sua  creatura  a  sé  riconduce. 

Luce  di  Vita  ignota  che  illumini  ogn'uom  veniente... 
di  dove?...  e  peregrino...  a  quale  Patria?.-,  e  morente, 

Luce,  ineffabil  Luce,  che  Amor  solo  sa,  radiante 
in  me,  che  a  me  mi  sveli  infermo  e  lontano  vagante, 

Luce,  Parola  eterna.  Bellezza  ineffabile,  crei 

Tu  sola,  e  per  Te  siamo,  per  Te  pensiamo,  che  SEL 

Vien,  creatura  nova,  infante  che  parli  e  che  sai... 
Che  sai?...  nulla  del  mondo,  che  poi  pur  troppo  vedrai. 

Ma  pur  ti  chiami  Amtore,  ma  pur  ti  movi  ed  ascendi, 
e  amor  parla  dal  Cielo  con  voce  che  al  Padre  tu  rendi. 

Giulio  Salv adori. 


LE  SCOPERTE  ARCHEOLOGICHE 

DEL  PROF.  INNOCENZO  DALL'OSSO  A  MONTE  MARIO 


Per  avere  un'idea  chiara  della  importanza  singolare  delle  sco- 
perte fatte  sul  colle  di  S.  Agata,  a  nord  di  Monte  Mario,  dal  prof. 
I.  DciirOsso,  scoperte  di  cui  più  o  meno  esattamente  hanno  parlato 
i  quotidiani  di  Roma,  sarà  bene  premettere  —  per  istruzione  del 
grande  pubblico  —  alcune  brevi  notizie  sui  popoli  che  occuparono  il 
territorio  di  questa  parte  del  Lazio,  e  su  gli  avvenimenti  preistorici 
che  prelusero  il  sorgere  di  Roma. 

Due  popoli  di  razza  diversa  erano  stanziati  sui  monti  e  sui  colli 
su  cui  poi  doveva  svilupparsi  il  popolo  latino:  gli  Aborigeni  (curo 
ÒQoq  Yirve<T&ai  ),  nati  sui  monti  (identificati  negli  Ausones,  Osckis, 
Enotri)  e  gVItalici.  I  primi,  di  origine  achea-micenea,  imttnigrati 
dalla  Grecia  nell'Italia  meridionale  nell'epoca  del  bronzo,  sarebbero 
risaliti  (cfr.  Timeo,  Antioco,  Filisto)  dalla  Campania  nel  Lazio  al- 
l'epoca della  caduta  di  Troja  (xn  a.  G.)  e  occuparono  la  riva  destra 
del  Tevere.  Essi  per  insediarsi  in  queste  loro  nuove  sedi  ne  avevano 
espulsi  i  Siculi,  popolo  dell'età  della  pietra,  dei  quali  si  sono  sco- 
perte le  sepolture  a  scheletro  rannicchiato  a  Sgurgola,  Gantalupo, 
Mandela,  ecc.  I  secondi,  gl'Italici,  occupanti  i  colli  Albani,  popolo  di 
origine  nordica  (forse  Europa  Centrale)  con  l'esclusivo  rito  della  cre- 
mELzione,  provenivano  dalla  Valle  del  Po  —  derivazione  dei  popoli  a 
,  cui  sono  attribuite  le  terremare  emiliane  —  e  si  erano  stabiliti  nel 
LcLzio,  secondo  il  Pigorini,  verso  il  1000  a.  C. 

Gli  Aborigeni  risalendo,  come  si  è  accennato,  dall'Italia  Meri- 
dionale forse  lungo  il  tracciato  antichissimo  della  Via  Appia,  ave- 
vano attraversato  il  Tevere  a  Tor  di  Quinto,  ove  il  Tevere  è  più 
stretto,  e,  dopo  una  breve  tappa  in  località  Due  Ponti  —  ove  si  sono 
rinvenuti  parecchi  avanzi  di  materiale  analogo  a  quello  ora  scoperto 
a  S.  Agata  di  Monte  Mario  —  avevano  lungo  il  torrente  di  Acqua- 
traversa  (spurgo  del  lago  di  Bracciano)  asceso  il  colle  e  si  erano  fìs- 
sati sull'estremo  pendìo  del  Gianicolo  «  Longo  Janiculi  jugo  »  [Mar- 
ziale, Satire).  Ma  qui  comincia  la  guerra  d'invasione  degli  Etruschi 
contro  i  popoli  del  Lazio.  Gli  Etruschi,  che  erano  un  popolo  di  origine 
orientale  proveniente,  secondo  Erodoto,  dalla  liidia,  già  evoluto  tanto 
da  avere  un'arte  propria  e  una  costituzione  politica  quasi  perfetta, 
sviluppatissimo  nei  commerci  esercitando  relazioni  di  affari  con 
tutti  i  maggiori  popoli  dell'oriente,  forte  di  potenti  armi,  maestro 
di  guerre,  concepirono  un  vero  piano  di  occupazione  delle  sedi  la- 
ziali. E  gli  Etruschi  di  Vejo  —  città  fìorentissima,  a  poco  più  di  10 
km.  dal  Gianicolo  —  assalirono  da  nord-ovest  gli  Aborigeni  e  li  re- 


264      LE  SCOPERTE  ARCHEOLOGICHE  DEL  PROF.  INNOCENZO  DALL'OSSO 

spinsero  sliUa  sinistra  del  Tevere  occupando  le  antiche  sedi  dei  vinti; 
da  sud-est  gli  Etruschi  di  Caere  (Cerviteri)  si  spinsero  contro  gli 
Italici  di  Alba,  i  quali  invocarono  l'aiuto  degli  Aborigeni.  In  tal  guisa 
questi  due  popoli  di  razza,  diversa,  ma  stretti  ora  da  uno  stesso  peri- 
colo, popoli  semplici  viventi  di  pastorizia,  vedendosi  incalzati  da 
uno  stesso  nemico  più  forte,  si  unirono  in  alleanza  e  per  difendere  le 
loro  antiche  e  fertili  sedi  e  per  infrenare  le  continue  rapine,  stabili- 
rono di  costituire  un  vero  propugnacolo  sul  Palatino,  che  fu  occu- 
pato dagli  Albani,  da  cui  nasce  la  leggenda  cihe  Roma  sorga  da  una 
colonia  di  Albalonga.  Questa  ipotesi  —  o  meglio  deduzione  —  si 
fonda  sul  fatto  che  tanto  la  famosa  necrofKìli  arcaica  rinvenuta  dalla 
sagace  dottrina  di  Giacomo  Boni  nel  sottosuolo  del  Foro,  alle  falde 
del  Palatino,  e  l'altra  dell'EsqUilino,  dovuta  agli  antichi  abitatori  del 
Quirinale,  gli  Aborigeni,  respinti  colà  dagli  Etruschi,  non  risalgono 
oltre  il  IX  sec.  a.  G.  Non  basta,  perchè  nella  necropoli  del  Palatino 
si  sono  trovate  tombe  di  rito  misto,  cioè,  cremati  (forse  gli  Albani)  e 
inumati  (forse  gli  Arcadi  di  Evandro,  che  si  erano  stabiliti  su  quel 
colle  sin  dall'età  del  bronzo).  Ora  la  necropoli  dell'Esquilino  (Abori- 
geni) non  ha  mostrato  che  sepolcri  ad  inumazione  distesa,  secondo 
il  rito  preellenico. 

In  conclusione  :  verso  il  1000  noi  abbiamo  questa  situazione  :  Sul 
Gianicolo  e  su'  monti  Albani  gli  Etruschi  che  stringevano  i  popoli 
della  valle  centrale  del  Tevere  in  un  cerchio  di  ferro,  gli  Aborigeni 
sul  Quirinale,  gli  Albani  sul  Palatino. 

Venuto  a  Roma  il  prof.  Innocenzo  Dall'Osso,  circa  un  anno  fa, 
chiese  ed  ottenne  da  S.  E.  Rosadi  —  e  va  dato  merito  grandissimo 
all'illustre  parlamentare  —  di  iniziare  ricerche  sulla  Roma  primi- 
tiva. Si  conoscevano  le  necropoli  degl'Italici  sui  colli  Albani  per  gli 
scavi  eseguiti  a  Gastel  Gandolfo  ed  a  villa  Gavalletti,  ma  nulla  si  sa- 
peva ancora  delle  sedi  e  delle  necropoli  degli  Aborigeni. 

Il  Dall'Osso,  con  geniale  intuizione,  rivolse  subito  le  prime  inda- 
gini sul  Gianicolo,  per  il  fatto  che  lo  stesso  nome  dato  al  Colle  in 
onore  di  Giano  assumeva  per  lui  un  significato  specifico.  Nelle  Mar- 
che e  negli  Abruzzi,  campo  esteso  e  fecondo  di  scoperte  per  l'illustre  ' 
archeologo,  come  vedremo  in  altro  articolo,  aveva  osservato  che  do- 
vunque si  fosse  scoperta  qualche  necropoli  od  abitato  preellenico,  ivi 
sd  avevano  tracce  del  culto  di  Giano  (fiume  Giano,  monte  Giano,  Fa- 
briano [da  Fhater  Janus],  S.  Patrignano,  ecc.  ecc.).  Era  quindi  assai 
probabile  che  il  Gianicolo,  colle  di  Giano,  conservasse  tracce  dello 
stanziamento  di  popoli  preellenici.  Iniziò  quindi  sul  basso  Gianicolo, 
a  Monte  Verde,  le  sue  ricognizioni,  ma,  non  essendovisi  fatti  rilevanti 
movimenti  di  terra,  i  frutti  furono  scarsi  e  insufficienti.  Però,  avendo 
saputo  che  sul  colle  di  S.  Agata,  prolungamento  del  Gianicolo,  a  nord- 
ovest di  Monte  Mario,  si  compivano  dei  grandi  lavori  di  sterro  per 
l'edificazione  delle  case-  destinate  al  personale  delle  Poste  «  Casa  No- 
stra »,  il  Dall'Osso  andò  a  vedere,  se  avesse  potuto  trovar  tracce  si- 
gnificative per  i  suoi  studi.  E  il  suo  intuito  archeologico  fu  allietato 
da  pieno  successo,  perchè  ricercando  tra  il  terriccio  di  scarico,  ri- 
trovò dei  frammenti  di  vasi  antichissimi  di  argilla  dipinta,  di  bue- 
caro  etrusco,  e  di  quell'impasto  rozzissimo,  detto  italico,  fatto  di 
grossolana  argilla  oonuniista  a  tritumi  di  rocce,  impasto  che  dagli 


A  MONTE  MARIO  256 

archeologi  viene  fatto  risalire  all'ultima  età  del  bronzo  o  ai  primis- 
simi tempi  del  ferro. 

Il  Dall'Osso  non  ebbe  più  dubbio  sulla  esistenza  in  quei  paraggi 
di  un  abitato  preistorico  di  quell'epoca;  e  proseguendo  attentamente 
.  le  ricerche,  s'imbattè  in  certi  tagli,  eseguiti  sul  terreno  tufaceo,  a  V, 
tagli  riempiti  di  terriccio  scuro  con  cocci  di  varia  epoca. 

Esaminati  bene  questi  scavi,  seguitone  la  varia  sezione,  pre- 
sane la  lunghezza,  larghezza  e  profondità,  ne  dedusse  che  que'  tagli 
dovevano  costituire  dei  fossati  di  capanne  preistoriche.  Però  il  Dal- 
l'Osso, messa  innanzi  simile  ipotesi  di  lavoro,  volle  spiegarsi  la  na- 
tura di  quel  genere  di  scavo  affatto  nuovo,  non  trovando  lì  per  lì  plau- 
sibile che  quelle  specie  di  trincee,  profonde  da  3  a  5  metri,  senza 
un  piano  di  posa,  potessero  aver  servito  da  abitazioni.  Ma  prose- 
guendo nelle  osservazioni  notò  una  serie  di  fatti  che  chiarirono  il 
suo  presupposto.  Furono,  innanzi  tutto,  trovati  qua  e  là  i  piani  dei 
focolari,  conservanti  ancora  tracce  di  cenere  e  carboni,  poi  i  buchi 
per  i  pali,  allineati  lungo  i  margini  dei  lunghi  tagli  a  V,  non  solo, 
ma  quel  che  valse  a  dare  la  completa  spiegazione  di  quel  genere  di 
capanne,  fu  un  dente  scavato  lungo  tutto  il  p)ercorso  dei  due  tagli  *■)/-' , 
dente  sul  quale  il  nostro  archeologo  capì  che  dovevano  poggiare  le 
testate  delle  travature  di  legno,  che  riunite  dovettero  costituire  gli 
assiti  della  lunga  e  ampia  capanna  eretta  su  questo  assito  di  legno 
a  doppio  tetto  spiovente.  Questa  interpretazione,  ormai  evidente,  fu 
confortata  da  altri  particolari  studiati  in  seguito,  cioè,  da  frammenti 
di  argilla  rinvenuti  disposti  a  strati,  che  avevano  servito  —  come  fu 
osservato  anche  nelle  terremare  di  Listione  nel  Parmigiano  —  per 
spalmare  l'assito  stuccando  le  fessure  delle  travature  che  formavano 
la  piattaforma.  Oltre  tutto  questo,  quasi  a  dare  la  fìsonomia  completa 
della  vita  familiare  di  quei  capannicoli,  presso  il  focolare,  all'esterno 
dell'assito,  si  trovarono  sempre  sul  posto  entro  appositi  incavi  cir- 
colari, larghi  freimmenti  di  grandi  doli,  anch'essi  allineati  lungo  i 
margini  della  capanna,  forse  per  raccogliere  l'acqua  piovana  del  tetto. 

Stabilita  così  in  modo  indiscutibile  la  configurazione  e  la  fun- 
zione delle  capanne,  fu  evidente  che  simili  grandiose  abitazioni  do- 
vevano servare  per  la  vita  delle  gentes  che  costituivano  la  tribù  Ro- 
rnnUia,  prima  tribù  rustica.  Finora  si  sono  identificati  una  cinquan- 
tina di  questi  fossati,  ma  è  probabile  che  se  ne  possano  rinvenire 
altrettanti  —  sono  appena  2  mesi  che  durano  le  ricerche!  —  così  da 
formare  il  numero  di  100,  ossia  tutto  il  villaggio  delle  100  gentes  che 
costituivano  la  tribù.  Questa  prima  singolarissima  scoperta,  assume 
la  maggiore  importanza,  ricordando  le  giuste  deplorazioni  dell'insigne 
Maestro,  senatore  Pigorihi,  che  al  Congresso  archeologico  di  Padova 
del  1908  lamentava  il  fatto  che  ancora  s'ignorasse  la  struttura  delle 
case  dei  Latini  al  fiorire  di  Albalonga  e  al  sorgere  di  Roma. 

È  da  notare  poi  che  molto  materiale  si  è  raccolto  finora  tra  il  ter- 
riccio di  riempimento  di  questi  canaloni,  tanto  che  con  esso  si  è  po- 
tuto formare  —  in  una  misera  baracca  —  un  piccolo  museo  composto 
in  gran  parte  —  com'è  naturale  —  di  frammenti  di  stoviglie,  d'im- 
pasto rozzo,  caratteristico  della  prima  età  del  ferro,  pareti  e  fondi 
di  vasi,  anze  a  bugna  ed  a  rocchetto  proprie  di  quell'epoca,  o  ad  anello 
assottigliato  al  centro  con  ingubbiature  di  argilla  rossastra  con  tracce 
<  evidenti  di  lisciature  a  stecca,  caratteristiche  dell'età  del  bronzo. 


256      LE  SCOPERTE  ARCHEOLOGICHE  DEL  PROF.  INNOCENZO  DALL'OSSO 

framinenti  di  orci  con  beccuccio,  difeso  da  un  diaframma  bucherel- 
lato, usati  per  fare  il  formaggio,  in  tutto  simili  a  quelli  rinvenuti  in 
istazioni  dell'età  del  bronzo.  Vi  sono  poi  in  grande  abbondanza  cocci 
di  buccaro  fine  e  grossolano  di  vasi  protocorinzi  in  uso  nel  sec.  vu 
o  VI  a.  G.  Singolari  alcune  griglie  di  fornelli  portatili  di  argilla  assai 
rozza  a  tre  o  quattro  piedi.  Sopra  tutto  notevole  un  grosso  mucchio 
di  schegge  di  selce,  rifiuti  di  frecce  e  coltellini  con  parecchi  rognoni 
pure  di  piromaca  di  vario  colore  con  tracce  di  scheggiatura  artifi- 
ciale per  la  lavorazione  di  armi  e  strumenti  di  silice.  Il  Dall'Osso,  e 
chiunque  abbia  la  necessaria  competenza,  desume  da  questi  avanzi 
silìcei  l'alta  antichità  del  villaggio  preistorico  di  Monte  Mario,  per  il 
fatto  che  la  lavorazione  della  selce  andò  cessando  con  l'età  del  bronzo. 

Se  in  quel  luogo  esistevano  così  numerose  abitazioni  degli  Abo- 
rigeni, dovevano  di  necessità  essere  in  quei  pressi  le  relative  tombe, 
la  scoperta  delle  quali  poteva  dare  la  controprova  di  tutte  le  dedu- 
zioni fatte,  col  mostrare  il  rito  sepolcrale  caratteristico  e  il  mate- 
riale non  più  frammentario  ma  integro.  Le  aspettative  del  prof.  Dal- 
l'Osso furono  coronate  da  pieno  successo.  Secondo  l'antico  uso  co- 
mune, il  sepolcreto  avrebbe  dovuto  essere  scavato  a  sud-est  dell'abi- 
tato, ma  da  quella  parte  ogni  ricerca  fu  vana.  Le  indagini  furono 
portate  dal  lato  opposto,  cioè  alle  falde  di  un  vasto  pianoro  a  forma 
di  mamimiellone  situato  a  nordovest  dell'antico  villaggio.  Quivi  il 
Dall'Osso  fu  attratto  da  un  sicuro  indìzio,  dalla  presenza  di  una 
grossa  mola  di  tufo  greggio,  ritenuta  come  un'antica  macina  da 
grano;  ma  l'acuto  ricercatore  si  avvide  subito  che  si  trattava  di  un 
cippo  o  stele  sepolcrale.  Iniziato  lo  scavo  in  quel  punto,  vennero  in 
luce  tre  altri  cippi  simili  con  umboni  rilevati  al  centro,  assai  bene 
conservati.  Non  vi  era  possibile  dubbio,  colà,  sepolta  dai  secoli,  do- 
veva giacere  una  necropoli  etnisca  importantissima.  Continuando 
le  escavazioni  entro  uno  dei  soliti  trinceroni  a  V,  a  metà  dell'altezza, 
sopra  una  piattaforma  di  terriccio  battuto,  sì  rinvenne  —  con  grande 
sorpresa  —  un  notevole  gruppo  di  tombe  etrusche,  costruite  a  bloc- 
chi di  tufo  squadrati,  completamente  sconvolte  e  devastate.  L'odio 
nemico  era  giunto  sino  a'  sepolcri,  perchè  certamente  i  Romani,  ri- 
conquistando il  colle  già  abitato  dai  loro  avi,  erano  penetrati  nelle 
tombe  dei  nemici,  l'avevano  devastate  e  saccheggiate,  sapendo  che 
gli  Etruschi  seppellivano  i  loro  ricchi  morti  con  tutto  il  loro  tesoro. 
All'altezza  dèi  piano  della  tomba,  forse  ancora  in  posto,  si  osserva 
metà  di  un  letto  funebre  di  tufo,  sicuro  indizio  di  una  tomba  a  ca- 
mera. Dal  lato  occidentale  della  grande  trincea,  incavati  nel  riem- 
pimento artificiale  ben  compresso,  epperò  quasi  divenuto  compatto 
come  il  tufo,  si  rinvennero  due  ordini  di  loculi  per  la  deposizione 
dei  cadaveri,  ma  comjpletamente  privi  non  soltanto  dei  corredi  fu- 
nebri, ma  di  ogni  traccia  di  ossa,  forse  disperse  al  vento  per  odio  di 
razza.  In  un  altro  grande  scavo  aperto  a  pochi  metri  nella  stessa  di- 
rezione, venne  in  luce  un  enorme  cumulo  di  massi  squadrati  di  tufo, 
in  parte  di  cava  locale,  altri  importati  dalle  cave  di  Campagnano, 
sconnessi  e  sconvolti  così  da  parere  conseguenza  di  un  sonwnovi- 
mento  tellurico.  Anche  qui  l'odio  e  la  rapina  dei  vincitori  erano  pas- 
sati con  la  furia  di  un  cataclisma.  Un  enorme  mucchio  di  frammenti 
di  vasi  di  bucchero  finissimo  rimanevano  in  fondo  al  cavo,  solo  ri- 
cordo di  chi  sa  quale  magnifico  corredo  funebre,  poicàè  certamente 


A  MONTE  MARIO  267 

una  tomba  così  monumentale  non  poteva  appartenere  che  ad  un  lu- 
cumone,  o  ad  altro  altissimo  personaggio.  Prova  evidente  di  ciò  si 
ebbe  nel  rinvenimento  di  un  cranio  di  cavallo  presso  il  fianco  setten- 
trionale della  tomba,  testimonianza  del  sacrificio  fatto  del  nobile 
animale  sulla  tomba  del  padrone. 

Proseguendo  gli  assaggi  più  ad  ovest  si  ebbe  la  fori-una  di  sco- 
prire una  tomba  a  caanera  con  lungo  dromos,  ancora  intatta,  ma  spo- 
gliata di  ogni  corredo.  Su  di  un  ripiano,  alto  dal  suolo  circa  80  cm., 
sotto  uno  strato  di  nera  poltiglia  dovuta  alla  lenta  infiltrazione  del- 
l'acqua, giacevano  i  resti  del  cadavere  :  il  cranio,  parte  dei  femori  e 
delle  tibie. 

Sarebbe  lungo  ed  inutile  continuare  qui  a  dar  notizie  —  in  gran 
parte  uniformi  —  di  altri  numerosi  sepolcri  tornati  in  luce  in  quella 
parte  della  necropoli;  è  importante  però  accennare  ad  una  tomba  ad 
inumazione,  costituita  da  una  cassa  di  quadroni  di  tufo,  ricoperta  da 
tegoloni  pur  di  tipo  etrusco  e  ad  una  bellissima  umetta  di  buccaro, 
a  forma  di  vaso  rotondo,  munita  di  suo  coperchio  con  elegante  po- 
metto  al  centro,  rinvenuta  nel  lato  est  del  grande  incavo. 

Se  le  ricerche  avevano  avuto  buon  esito  fin  qui,  avevano  però 
mostrato  le  tombe  di  sovrapposizione  etnica,  cioè  quella  degli  Etru- 
schi, insediatisi  sul  colle  dopo  averne  scacciati  gli  Aborigeni.  Dove- 
vano perciò  venire  in  luce  anche  le  tombe  arcaiche.  E  a  questo  in- 
tento furono  rivolte  le  ricerche  del  Dall'Osso. 

Sul  declivio  del  detto  mammellone,  e  precisamente  sul  versante 
sud-est  e  nord-ovest,  dopo  accurate  indagini,  vennero  in  luce  final- 
mente le  tombe  degli  Aborigeni,  costituite  non  dalle  solite  fosse  col 
morto  dentro,  fosse  sepolcrali,  di  cui  non  si  è  trovato  esempio  a 
Monte  Mario,  ma  da  grotticelle  riunite  in  numero  di  due,  tre  e  di- 
vise da  pilastri  quadrangolari,  scavati  nello  stesso  tufo.  In  una  di 
tali  grotte  oltre  ad  avanzi  di  ossa  umane  ed  a  cocci  di  vasi,  si  è  tro- 
vato, ancora  al  posto,  un  piatto  concavo,  e  in  un'altra  un  bellissimo 
askos  di  argilla  giallognola  di  tipo  assai  arcaico  e  in  ottimo  stato  di 
conservazione.  Ora  la  forma  ad  askos  è  comune  anche  nel  sepolcreto 
dell'Esquilino,  la  seconda  sede  degli  Aborigeni. 

È  bene  qui  ricordare,  a  dimostrazione  di  quanto  si  è  detto,  che 
tale  tipo  di  tombe  a  grotticelle  si  è  trovato  negli  scavi  del  Pelopon- 
neso: a  Nauplia,  a  Sparta,  risalenti  al  periodo  arcaico  dall'vin  al  vn 
sec.  av.  C,  ossia  nella  regione  da  cui  gli  Aborigeni  inunigrarono  in 
Italia. 

Per  la  stessa  ragione  che  aveva  indotto  il  Dall'Osso  a  cercare  le 
necropoli  avendo  prima  trovato  l'abitato  arcaico,  così,  trovate  le 
tombe  etnische,  ne  dedusse  dover  esser  vicino  anche  l'abitato;  e  con 
quella  sagacia  che  lo  ispira,  essendo  le  tombe  a  nord-ovest  del  citato 
mammellone,  pensò  che  l'abitato  dovesse  sorgere  a  est.  E  in  quell'o- 
rientamento furono  iniziate  le  ricerche,  a  un  100  metri  di  distanza. 
L'aspettativa  non  fu  delusa,  perchè  sondando  accortamente,  si  sco- 
prirono i  muri  di  un'intera  insula  etrusca,  sul  genere  di  (juella  sco- 
perta dal  Brizio  a  Marzabotto,  l'etnisca  Misanum.  La  costruzione  è 
caratteristica:  vennero  in  luce  una  serie  di  mura,  formate  di  bloc- 
chi di  tufo  a  secco,  della  lunghezza  di  60  cm.  interrotti  da  altre 
mura  a  normale  con  le  prime,  in  modo  da  formare  delle  celle  da 
metri  3.50  x  3  in  media.  All'estremità  sud-est  di  detta  instUa  si  è 


258      LE  SCOPERTE  ARCHEOLOGICHE  DEL  PROF,  INNOCENZO  DALL'OSSO 

identificata  la  porta  e  un  largo  foro  quadrangolare,  che  serviva  al- 
l'infìssione  di  uno  dei  grossi  pilastri  in  legno  che  sostenevano  la  tra- 
beazione. È  bene,  in  proposito,  ricordare  che  le  abitazioni  etnische 
—  forse  per  ragioni  antisismiche  —  erano  formate  di  una  sottostrut- 
tura di  massi  di  tufo,  su  cui  si  erigeva  poi  la  casa  in  legno.  Se  ne 
sono  scoperte  evidenti  tracce  n^li  scavi  di  Vejo  e  di  Gerviteri.  Que- 
ste case  poi  avevano  —  come  quelle  di  Marzabotto  —  il  pavimento 
di  terracotta  e  il  tetto  a  tegole  ed  embrici  dipinte  in  rosso,  special- 
mente nella  parte  anteriore  del  tetto;  anche  qui  se  ne  ha  la  prova  in 
alcuni  frammenti  di  tali  tegole  dipinte  in  rosso,  rinvenute  in  quei 
pressi.  Non  è  da  credere  che  il  Pagus  etntscus  di  Monte  Mario  si  li- 
mitasse a  questa  sola  insula,  altre  tracce  di  altre  insule  si  dovranno 
certamente  trovare  nel  proseguimento  dei  lavori. 

Ciò  che  a  parere  del  Dall'Osso  costituisce  un  caposaldo  nelle  de- 
duzioni che  si  possono  trarre  da  queste  singolari  scoperte,  è  il  fatto 
che  le  mura  etnische  sorgano  su  di  uno  dei  grandi  trinceroni  delle 
capanne  degli  Aborigeni,  perchè  avendo,  anche  per  suggerimento 
dell'on.  Rosadi,  che  di  recente  si  è  recato  a  visitare  gli  scavi,  fatto 
esplorare  uno  di  questi  fossati  a  V  sottoposto  al  piano  delle  mura 
etrusche,  si  è  trovato  —  prova  di  somma  importanza  —  che  fra  il 
materiale  ceramico  raccolto  non  esiste  alcun  coccio  di  vaso  che  possa 
riportarsi  ad  un'epoca  inferiore  al  vi  sec.  av.  G.  Giò  che  dimostra  ap- 
punto che  lo  stanziamento  degli  Aborigeni  su  quel  colle  è  anteriore 
alla  invasione  etnisca,  e  che  la  dominazione  dei  Tarquini  comincia 
circa  il  618  a.  G.  Gosicchè  in  questi  scavi  noi  troviamo  una,  sintesi 
dell'antica  storia  di  Roma.  Le  tracce  de'  popoli  arcaici.  Aborigeni 
con  le  loro  abitazioni  sopra  elevate  sui  trinceroni,  poi  gli  Etnischi 
che  scacciano  dalle  loro  sedi  gli  Aborigeni,  e  sulle  loro  tombe  e  sui 
loro  sterrati  edificano  le  tombe  proprie  e  le  proprie  insule,  sopra  gli 
Etruschi  le  evidenti  tracce  della  dominazione  romana,  con  la  distru- 
zione e  col  saccheggio  dell'abitato  e  dei  monumentali  sepolcreti 
etruschi.  Non  basta,  in  parecchi  punti  si  sono  trovate  piattaforme  di 
calcestruzzo,  su  cui  dovevano  sorgere  edifici  romani.  Tre  popoli, 
dunque,  l'uno  sull'altro,  come  tre  colossali  marosi  sovrapponentisi 
nel  vasto  oceano  temipestoso  del  tempo. 

Tra  le  scoperte  avvenute  in  questi  ultimi  giorni  è  da  segnalare 
quella  di  uno  scheletro  maschile,  fornito  *del  relativo  corredo  fune- 
bre; e  cioè:  una  grande  anfora  ad  un  solo  manico,  un  piattello  di 
argilla  chiara,  una  kilix  a  vernice  nera,  di  sagoma  assai  svelta  ed  un 
orciuolo  di  tipo  arcaico;  tutto  materiale  che  non  può  essere  di  molto 
inferiore  al  v  sec.  Dato  il  singolare  carattere  di  questi  scavi,  non  si 
può  nemmeno  immaginare  quel  che  ne  può  venire  in  luce.  Certo  si 
è  che  ci  troviamo  dinanzi  ad  una  di  quelle  veramente  geniali  sco- 
I>erte,  che  costituiscono  un  rinnovamento  della  nostra  storia,  pari  a 
quelle  fatte  dal  Pigorini  con  le  terremare  e  dal  Boni  nel  Foro  e  nel 
Palatino. 

Più  recentemente  ancora  furono  scoperte  tre  dronwi  accanto  ad 
una  capanna  a  fondo  concoide,  che  immettono  in  altrettante  tombe  a 
camera.  Due  sono  state  già  esplorate  e,  come  si  prevedeva  —  avendo 
rinvenuto  il  letto  demolito  —  si  sono  trovate  saccheggiate.  Del  ricco 
corredo  funebre,  che  sogliono  contenere  le  tomtie  etrusche,  non  si 
sono  trovati  ohe  alcuni  cocci  di  vasi  precorinzii  e  frammenti  di  una 


A   MONTE   MARIO  259 

(Mnocoe  trilobata  di  bucearo,  di  uno  skifos,  di  un  cantaro,  ecc. 
Questi  oggetti,  però,  bastano  per  dimostrare  trattarsi  di  tombe  del  vi 
sec.  a.  C,  cioè  della  stessa  epoca,  situate  a  nord-ovest  dell'abitato  ca- 
pannicolo.  Una  singolarità  di  queste  tombe  è  nel  fatto  che  lungo  i 
dromoi  (corridoi)  sono  scavate  due  piccole  tombe,  forse  dei  familiari 
del  capo. 

Questi  scavi,  della  cui  singolare  importanza  il  lettore  si  sarà  già 
reso  conto  da  quanto  sono  venuto  esponendo,  furono  sospesi  per  la 
stagione  inclemente,  ma  si  dovranno  riprendere  su  più  vasta  scala 
e  con  più  larghi  mezzi,  e  —  oserei  dire  —  con  una  maggiore  libertà 
di  azione  per  colui  che  li  dirige.  A  questo  proposito  è  giusto  qui 
lodare  lo  spirito  moderno  e  antiburocratico  della  Direzione  Generale 
delle  Belle  Arti,  e  della  Soprintendenza  agli  scavi  di  Roma,  le  quali, 
appena  veggono  che  un  ispettore,  con  nobile  iniziativa  e  con  speri- 
mentata competenza,  riesce  a  fare  delle  scoperte  importanti,  lo  met- 
tono in  condiziono  di  valersi  di  quella  indipendenza  di  lavoro,  ohe 
sola  può  incoraggiare  l'opera  personale  scientifica.  E  così,  ci  augu- 
riamo, si  farà  col  Dall'Osso. 

Il  quale  —  sappiamo  —  non  soltanto  si  ripromette  di  risolvere 
i  problemi  di  architettura  domestica  che  si  sono  presentati  in  questo 
primo  perìodo  di  scavo,  ma  di  procedere  ad  una  più  vasta  esplora- 
zione delle  tomibe  etnische  e  preetrusche,  cioè  delle  tombe  a  grotti- 
cella  di  cui  finora  non  si  sono  avuti  che  pochi  esemplari.  Inoltre 
egli  intende  estendere  le  sue  ricerche  alquanto  più  a  nord  presso  il 
torrente  di  Acqua  Traversa,  ove  crede  di  poter  rintracciare  le  primi- 
tive sedi  degli  Aborigeni  dell'età  del  bronzo. 

Ma  ora  conchiudiajno  intorno  a  quanto  abbiamo  fin  qui  esposto. 

Gli  scavi  non  servirebbero  a  nulla,  se  da  essi  non  si  traessero 
—  come  dalla  più  eloquente  documentazione  —  delle  deduzioni  sto- 
riche. Ora  da  queste  scoperte  del  prof.  Dall'Osso  si  desume  : 

I.  Che  Roma  non  fu  una  colonia  di  Albalonga,  ma  il  frutto 
di  una  commistione  demografica  ed  etnografica  di  due  popoli  di 
razza  diversa:  gl'Italici  Albani  e  gli  Aborigeni; 

II.  Che  la  ubicazione  di  Roma  sulla  sinistra  del  Tevere  più  che" 
sulla  destra,  è  dovuta  all'invasione  Etnisca; 

III.  Che  Romolo  non  fu,  come  si  è  già  detto,  il  fondatore  di 
Roma,  ma  un  tipo  etnico,  vindice  di  quella  nuova  civiltà  latina  che 
si  andò  formando  con  la  cennata  fusione; 

IV.'  Che  anche  dopo  che  Romolo  riconquistò  il  Gianicolo  e  che 
ricacx^iò  gli  Etruschi  a  VeJo,  i  Romani  non  furono  sempre  indipen- 
denti, ma  che  in  un  certo  periodo  essi  subirono  una  sconfitta  dagli 
Etruschi  di  Tarquinia,  per  effetto  della  quale  i  Tarquiniesi  imposero 
ai  Romani  la  dinastia  dei  Tarquini  e  forse  lasciarono  nella  città  una 
guarnigione  etnisca;  certo  che  l'introdussero  nella  tribù  Romulia, 
donde  il  'pagus  con  la  relativa  necropoli  etnisca,  scoperta  dal  Dal- 
l'Osso; 

V,  Che  dopo  l'espulsione  dei  Tarquini  con  la  proclamazione 
della  repubblica,  anche  la  tribù  Romulia  si  liberò  dalla  guarnigione 
etrusca,  come  dimostra  il  fatto,  che  non  furono  trovate  a  Monte  Ma- 
rio tombe  posteriori  al  sec.  vi  a.  C,  data  appunto  dell'espulsione  dei 
Tarquini. 

I.  M.  Palmarini. 


PROIBIZIONISMO 


In  una  relazione  del  novembre  scorso,  il  senatore  on.  Wesley  L. 
Jones  di  Washington  descrive  gli  effetti  del  proibizionismo  nazio- 
nale sulla  delinquenza.,  le  psicosi  alcooliche,  la  laboriosità,  i  risparmi, 
l'economia,  ragricoltura,  la  vita  di  famigLia,  le  cure  dei  figli  e  la 
salute  pubblica  in  America. 

Le  maggiori  città  degli  Stati  Uniti,  con  più  di  venti  milioni  d'abi- 
tanti, (hanno  segnalato  dopo  il  1917  la  diminuzione  del  65  %  negli  ar- 
resti per  ubriachezza.  Soltanto  a  New- York,  la  meno  americanizzata 
•delle  città  americane,  i  reati  comuni  sono  diminuiti  da  15,885  a  10,614. 
Gli  omicidi  sono  diminuiti  a  Chicago  del  52  %  in  un  solo  anno.  Le 
carceri  di  Boston  che  avevano  albergato  due  anni  prima  72,900  con- 
travventori all'ubriELChezza,  ne  accolsero  il  1920  soltanto  19,897.  Nel 
Massachusetts  la  delinquenza  è  complessivamente  ridotta  alla  metà. 

L'Istituto  del  Lavoro  nell'Ohio  potè  chiudere  quattro  Ricoveri 
di  mendicità  e  vagabondaggio,  una  volta  aboliti  i  bars  e  le  bettole 
che  trasformavano  i  cittadini  d'America  in  oziosi  e  vagabondi.  La 
città  di  Pittsburg  provvedeva  nel  1910  al  mantenimento  di  14,684  car- 
cerati, ma  chiuse  le  distillerie  e  birrerie,  si  nidussero  l'anno  scorso 
a  4721. 

«  Le  statistiche  criminali  americane  sono  più  consolanti  di  quelle 
europee.  Nella  sola  Inghilterra  i  delitti  fomentati  dalle  bevande  al- 
cooliche aumentarono  dopo  il  1914  del  65  %.  A  Washington  gli  ar- 
resti erano  saliti  a  6458  nel  1916,  ma  scesero  a  5582  nel  1917,  venendo 
limitato  il  numero  delle  liquorerie,  e  continuarono  a  diminuire  a 
3232  nel  1918,  dopo  esteso  il  proibizionismo,  e  si  ridussero  a  soli  833 
nel  1920.  A  Louisville  nel  Kentucky,  le  condanne  per  ubriachezza  e 
immoralità,  dopo  un  anno  di  proibizionismo,  diminuirono  deir85%. 
Nella  città  di  Milwauhee,  già  satura  di  birra  tipo  Monaco,  da  quando 
fupon  chiuse  le  birrerie,  gli  arresti  e  le  condanne  per  abbandono  della 
famiglia  si  ridussero  del  38%,  e  quelle  per  condotta  immorale  del 
59%.  Nei  quattro  anni  di  proibizionismo,  la  popolazione  di  Rich- 
mond aumentava  del  27  %,  mentre  gli  arresti  per  disordini  e  scan- 
dali dovuti  ad  ubriachezza  scemavano  del  75  %. 

«  Ciascuno  dei  Neal  Insiitutes  curava  mensilmente  circa  30  po- 
tatores,  malati  di  psicosi  alcoolica;  adesso  non  sorpassano  il  f)aio. 
E  fu  constatato  che  i  guariti  dall'alcool  non  cascano  nel  vizio  delle 
droghe  stupefacenti.  La  Scientific  Temperance  Fedearation  registrava 
687  morti  per  alcoolismo  nel  1917,  soli  98  nel  1920.  La  Home  for 
Drunkards  di  Chicago  aveva  ricoverato  fino  al  1919  non  meno  di 
921  ubriaconi,  tra  i  quali  il  56  %  soccombeva,  mentre  nel  1920  sopra 


PROIBIZIONISMO  261 

125  alcoolizzati  i  colpiti  dal  delirium  tremens  furono  3  soltanto.  Il 
dott.  Pollock,  nella  sua  statistica  ospedaliera,  nota  che  due  anni  di 
proibizionismo  bastarono  per  rendere  superflui  gli  «  Asili  per  ine- 
briati » . 

«  I  depositi  nelle  Bajiche  del  Massachusetts  raggiunsero  nel  1920 
i  92  milioni  di  dollari;  nelle  Casse  di  Risparmio  i  versamenti  furono 
in  media  di  465  dollari  a  persona,  con  145,068  nuovi  depositanti; 
202  Banche  cooperative  incassavano  174  milioni  di  dollari.  Le  Banche 
dell'Ohio,  durante  l'anno  fiscale  chiuso  il  30  giugno  1921,  gestivano 
un  capitale  superiore  ad  un  miliardo  e  mezzo  di  dollari.  Il  giornale 
dei  metallurgici  —  Iron  Age  —  nota  che,  per  effetto  del  proibizio- 
nismo, gli  operai  dell'acciaio,  compresi  vecchi,  donne  e  bambini, 
hanno  risparmiato  in  media  550  dollari  ciascuno. 

«  Il  ì<ìew  Orleans  Times  segnala  il  30  %  di  aumento  nei  risparmi, 
oltre  l'utilizzazione  dei  locali  di  1800  liquorerie  rimaste  disponibili, 
oltre  lo  stimolo  alla  operosità,  alla  diligenza  ed  alla  gaiezza  dovuti 
al  proibizionismo.  La  Washington  Post  dell'S  novembre  1921,  rias- 
sume il  bilancio  di  623  Istituti  di  Risparmio  sociale  dell'Est  che, 
malgrado  la  depressione  economica  e  la  disoccupazione,  hanno  piìi 
di  5  miliardi  e  mezzo  di  dollari  in  deposito.  La  legge  sul  proibizio- 
nismo fece  crescere  i  risparmi,  aumentare  il  numero  dei  depositanti 
ed  il  valore  medio  delle  somme  risparmiate. 

• 
•  • 

«  Le  prime  vittime  dell'alcoolismo  dei  genitori  sono  i  bambini. 
La  Society  for  the  Prevention  of  Cruelty  to  Children  del  Massachu- 
setts segnala  nel  1921  una  diminuzione  del  63  %  nel  numero  dei  casi, 
molti  dei  quali  sono  provocati  dall'ubriachezza. 

«  Nei  distretti  dà  Franklin  e  di  Fail  River,  la  protezione  della 
infanzia  fu  richiesta  per  meno  d'un  quinto  del  numero  dei  bambini 
soccorsi  negli  anni  precedenti.  «  Diminuita  l'ubriachezza  dei  geni- 
tori, i  bambini  americani  hanno  avuto  più  da  mangiare,  più  da  ve- 
stirsi, più  cure  famigliari».  Il  presidente  Eliot  della  Università  di 
Harvard  constatava  a  Boston,  il  29  ottobre  1921  :  Il  proibizionismo 
risana  le  famiglie,  specialmente  le  fémiiglie  operaie;  le  infermiere 
furono  le  prime  ad  accorgersene  negli  ospedali.  Il  dottor  van  Ingen, 
in  Mother  and  Child  del  luglio  1921,  attribuisce  alla  legislazione  an- 
ti-alcoolica  la  salvezza  di  25,000  neonati.  Alla  stessa  causa  viene  at- 
tribuita dalla  Sopraintendenza  del  Pennsylvania  Eospital  di  Phila- 
delphia  la  rapida  diminuzione  dei  colpi  di  sole  durante  l'estate  più 
cocente.  Constatato  un  minor  numero  progressivo  di  tubercolosi  a 
Chicago,  il  commissario  Robertson  awerie  che  la  diminuzione  si 
nota  in  tutti  gli  Stati  Uniti  da  quando  la  cittadinanza  mangia  e  dorme 
meglio  e  beve  meno.  La  mortalità  per  alcoolismo  è  diminuita  in  Ame- 
rica dopo  il  1917  deir84  %.  Le  cirrosi  del  fegato  sono  ridotte  alla  metà. 

<(  Nell'ospedale  psicopatico  di  Boston  (Mass.),  secondo  i  rapporti 
del  primario  Harlan  Paine,  le  psicosi  dovute  al  bere  scemarono  dopo 
il  divieto  delle  bevande  alcooliche  del  74%.  Negli  ospedali  dell'Illi- 
nois,  di  New-York  e  della  California,  dove  i  casi  di  pazzia  aumen- 
tavano più  che  non  crescesse  la  popolazione,  l'aumento  cessò.  The 
California  Lunacy  Comtmission  calcola  che  dal  1919  il  numero  dei 


262  PROIBIZIONISMO 

colpiti  da  demenza  è  stato  inferiore  di  4094  a  quello  prevedibile  e, 
costando  ogni  pazzo  i800  dollari,  i  contribuenti  annericani  rispar- 
miano due  milioni  di  dollari  all'anno  in  un  solo  Stato  dell'Unione, 
per  sole  spese  di  manicomio. 

• 
•  • 

«  Nel  corso  di  pochi-  anni,  gli  Stati  Uniti  di  America,  grande  la- 
boratorio sperimentale  di  proibizionismo,  produrranno  una  razza 
immune  dal  veleno  alcoolioo,  immune  da  una  delle  maggiori  cause 
di  degenerazione  folle,  idiota  e  deficiente.  I  buoni  effetti  diverranno 
palesi  dopo  una  generazione,  ma  il  minor  numero  di  ricoverati  per 
malattie  cerebrali  è  indizio  che  il  divieto  di  rovinarsi  la  salute  paga 
da  sé  le  spese  che  richiede.  Ogni  deficiente  criminale,  ogni  delin- 
quente di  meno  è  tanta  maggiore'  energia  salvata  alla  Repubblica. 

«  Gli  Stati  Uniti  diventeranno  economicamente  la  Nazione  più 
forte,  conservando  quel  vigore,  che  altre  Nazioni  disperdono  nelle 
bevande.  Più  di  2  miliardi  di  dollari  risi>armiati  ogni  anno  del  de- 
naro che  veniva  speso  in  liquori,  rappresentano  un  bel  capitale,  ed 
aggiungendo  una  egual  sonmfia  prodotta  da  maggiore  laboriosità  e 
diminuito  sperpero,  avremo  l'idea  di  cosa  rappresenti  il  proibizio- 
nismo. 

«  La  frequenza  nelle  scuole  dell'Unione  è  aumentata  del  10  %. 
Una  popolazione  intelligente  è  essenziale  per  l'avvenire  della  demo- 
crazia. 

«  Il  proibizionismo  benefica  la  salute  ed  accresce  la  vitalità;  i 
medici  non  si  stancano  di  rip>etere  che  le  bevande  alcooliche  sono 
una  continua  minaccia  per  il  popolo;  che  liberata  da  queste  bevande 
la  vita  famigliane  diventerebbe  migliore  e  più  felice;  che  centinaia 
di  migliaia  di  fanciulli  sarebbero  meglio  custoditi  e  meglio  allevati; 
che  la  vita  politica  nazionale  si  purificherebbe,  e  le  leggi  emanate 
per  il  bene  pubblico  non  dovrebbero  sottostare  alla  censura  dei  li- 
quoristi; alla  censura  che  una  Commissione  giudiziaria  denunciava 
quale  strumento  di  boicottaggio  anti-americano. 

«  Una  politica  onesta  sublima  il  popolo  ohe  sa  governarsi  ed  è 
abbastanza  coraggioso  e  morale  per  non  temere  le  false  interpreta- 
zioni, le  contumelie  e  gli  schemi;  rafforza  il  popolo  americano  ed 
incoraggia  le  altre  nazioni  a  seguirne  l'esempio.  Liberi  da  bevande 
alcooliche,  gli  Stati  Uniti  d'America  diventano  la  potenza  finanzia- 
riamente, politicamente  e  moralmente  più  grande  del  mondo». 

• 

Con  queste  parole  di  incondizionata  fiducia  nell'avvenire  della 
grande  Repubblica  che  si  estende  dall'Atlantico  al  Pacifico,  l'onore- 
vole Wesley  L.  Jones  chiude  la  sua  Relazione  al  Senato  di  Wa- 
shington sugli  effetti  del  proibizionismo  nazionale  in  Ameirica. 

VrnsATOR. 


SOLENNITÀ  PER  IL  CINQUANTENARIO 

DELLA  BANCA  POPOLARE  DI  NOVARA 


Gloria  a  Voi,  popolo  di  Novara,  che  avete  educata  nel  silenzio 
operoso  una  magnifica  istituzione,  onore  della  nostra  Patria! 

Vi  reco  qui  il  saluto  riconoscente  non  solo  della  Federazione  delle 
Banche  Popolari  italiane,  ma  anche  delle  consorelle  del  Belgio,  della 
Svizzera,  dei  tre  popoli  scandinavi,  della  Francia,  della  Germania 
dove,  per  iniziativa  di  un  liberale  eminente,  che  fronteg-giò  sempre 
il  Principe  di  Bismarck,  lo  Schulze-Delitzsch,  sorsero  nel  1851  le 
mutualità  di  credito,  alle  quali  attinsi  inspirazione  ed  esperienza  per 
scrivere  dieci  anni  dopo  il  libro  Sulla  diffttsicme  del  credito  e  sulle 
Banche  Popolari,  e  per  votarmi  a  una  incessante  propaganda.  La  mia 
avanzata  vecchiaia  è  lieta  di  alzar  dinanzi  a  Voi  questi  immacolati 
simboli  della  cooperazione  europea,  poiché  la  Banca  Popolare  di  No- 
vara ben  merita  questo  saluto. 

Sorta  sul  finire  del  '71,  per  iniziativa  di  pochi  volonterosi,  fra  i 
quali  ritrovo  il  mio  indimenticabile  amico,  Carlo  Cerniti,  con  un 
capitale  di  lire  quarantasei  mila  quattrocento,  registrava  nel  1921 
più  di  ventisei  milioni  con  oltre  tredici  milioni  di  fondo  di  riserva  e 
con  depositi  di  varia  forma,  nei  quali  prevalgono  quelli  a  risparmio 
medio  e  piccolo,  nell'inisieme  oltrepassanti  i  duecento  e  ottanta  mi- 
lioni; si  potrebbero  aggiungervi  altri  duecento  milioni  rappresen- 
tanti il  disponibile  fra  i  conti  correnti  attivi  e  passivi,  tutto  difeso  e 
coperto  da  cambiali  a  breve  scadenza  e  da  titoli  di  Stato  facilmente 
liquidabili...  La  Banca  Popolare  di  Novara  per  la  intensa  e  felice  di- 
stribuzione del  credito  è  la  prima  di  Europa,  superando  le  consorelle 
(pur  potenti)  d'Italia  e  di  Germania. 

Voi  forse  lo  ignoravate,  o  cooperatori  di  Novara,  e  ve  lo  dico 
perchè  sento  che  persisterete  nella  modestia,  pur  sapendo  che  l'opera 
vostra  onora  la  Patria.  E,  oltre  le  vostre  potenti  consorelle,  quella 
di  Milano  (che  fondai  nel  1864  e  ha  sempre  il  mio  cuore  coopera- 
tivo), di  Cremona,  di  Lodi,  di  Bergamo,  di  Mortara  (rappresentata 
dal  mio  eminente  amico,  senatore  Bergamasco),  di  Pavia,  di  Padova, 
di  Venezia,  di  Alfedena  (pur  qui  rappresentata  dell'egregio  senatore 
De  Amicis),  dell'Emilia  e  di  tante  altre,  interpreto  l'animo  vostro, 
mandando  un  saluto  patriottico  alle  Banche  Popolari  venete,  che  si 

Nota.  —  La  Banca  Popolare  di  Novara  ha  festeggiato  il  19  marzo  il  sno 
cinquantenario,  essendo  stata  fondata  nel  1872  dietro  ispirazione  di  Luigi  Luz- 
zatti.  Aderendo  all'insistente  invito  dei  Novaresi,  S.  E.  Luzzatti  vi  ha  pro- 
nunciato questo  discorso. 


264  SOLENNITÀ   PER   IL   CINQUANTENARIO 

salvarono  dalla  feroce  invasione  straniera  e,  tornate  nel  caro  nido 
natio,  oggi  rifioriscono. 

Di  fronte  ai  recenti  disastri  bancari  che  offesero,  senza  dimi- 
nuirlo, il  credito  nazionale,  abbiamo  il  diritto  e  il  dovere  di  additare 
al  mondo  civile  le  nostre  Casse  di  Risparmio,  centenarie  piene  di 
vita  nuova,  le  nostre  migliori  Banche  Popolari,  cinquantenarie  esu- 
beranti di  giovinezza,  le  quali  comprendono  mirabilmente  la  loro 
missione  civile,  sociale  ed  economica,  dando  battaglie  continue  e  vit- 
toriose alle  multiformi  usure.  È  noto  al  vostro  intelletto  di  coopera- 
tori che  le  tre  più  malvagie  forme  di  usura  si  affrontano  e  si  vincono 
colle  sane  applicazioni  della  mutualità  redentrice;  accenno  all'usura 
del  denaro,  all'usura  delle  vettovaglie,  all'usura  delle  pigioni  :  tutte 
tre  mirabilmente  combattute  e  punite  nel  Vangelo.  Quelli  che  sfug- 
gono al  castigo  quaggiù  espieranno  nella  vita  futura!  Non  è  Gesù  che 
condanna  i  mutui  feneratizi,  le  ricchezze  impudiche,  mal  tolte?  Non 
è  Lui  ciie  nella  preghiera  di  ogni  giorno  ci  insegna  a  invocare  col 
pane  dello  spirito  il  nostm  salubre  pane  cotidiano?  0  quando,  cac- 
ciato da  Samaria  rifiutante  per  paura  di  compromettersi  coi  Farisei, 
al  divino  Maestro  stanco,  brevi  ore  di  riposo.  Egli  alzò  quel  grido 
pieno  di  immortale  melanconia,  ripetuto  oggidì  dai  senza-tetto  di 
tutta  la  terra:  Le  volpi  hanno  delle  tane  e  gli  icccelli  dell'aere  de'  nidi; 
ma  il  Figliuolo  delVuomo  non  ha  par  dove  posi  'l  capo? 

La  Banca  Popolare,  come  noi  l'abbiamo  creata  e  voluta,  le  isti- 
tuzioni cooperative  alimentari,  quelle  intese  a  edificar  le  case  di  un 
infinito  popolo  di  disagiati,  i  quali  non  sanno  dove  riposare  lo  stanco 
capo,  hanno  un'origine  sacra,  che  innalza,  spiritualizza  il  loro  uf- 
ficio. Mai  devono  pigliare  la  ispirazione  dalle  artificiali  moltiplica- 
zioni del  denaro,  ma  dalle  austere  e  sublimi  virtù  additate  dal  mi- 
stico libro!  E  sieno  più  volte^maledette  le  istituzioni,  che  invocando 
il  nome  del  popolo,  lo  tradiscono!  Una  Cassa  di  Risparmio,  che  ha 
cent'anni  di  vita,  una  Banca  Popolare  che  ne  novera  cinquanta,  sono 
colonne  fondamentali  della  Patria  economica;  bisogna  custodirle  colla 
gelosa  cura  usata  verso  i  capolavori  dell'arte,  ereditati  dai  nostri 
maggiori,  confondendo  gli  uni  e  gli  altri  in  uno  stesso  palpito  di 
amore  verso  l'Italia,  poiché,  secondo  la  definizione  etema  dfeU'El- 
lade:  la  bellezza  è  lo  splendore  della  verità  e  della  bontà. 

E  poiché  Voi,  insigni  amministratori  della  Banca  Popolare  di 
Novara,  nomino  fra  gli  altri  per  cagion  d'onore,  il  benemeritissimo 
Bernini,  il  competentissimo  Giardini,  e  mando  una  pia  e  affettuosa 
memoria  al  precedente  Direttore  Generale,  il  Bardeaux  (a  cui  vorrete 
consacrare  con  grato  animo  un  particolare  ricordo...  ei  dovette  supe- 
rare le  difficoltà  della  nascente  gestione),  e  poiché  voi  siete  disposti 
ad  accogliere  i  consigli  di  un  vecchio  (iniziatore  di  queste  istituzioni 
non  solo  in  Italia,  ma  anche  in  Francia,  nel  Belgio  e,  traverso  le 
inchieste  inglesi,  in  Egitto  e  nell'India),  salvatevi,  astenetevi  da^li 
affari  che  hanno  brillante  appmriscenza,  ma  concentrano  troppi  fidi 
su  poche  teste  privilegiate.  Queste  possono  costituire  la  clientela  delle 
Banche  finanziarie;  la  vostra  missione  ò  di  distribuire  il  credito  con 
equità,  di  approfondirne  le  ricerche  in  quegli  oscuri  strati  sociali 
dove  ancora  s'annida  l'usura,  di  dare  con  amorose  cure  gli  aiuti  alla 
terra  materna,  che,  come  Virgilio  ha  mallevato  nelle  Georgiche,  man- 
tiene con  fedeltà  gl'impegni  assunti,  e  dopo  le  erranti  delusioni  di 


DELLA  BANCA  POPOLARE  DI  NOVARA  266 

tanti  affari  campati  in  aria,  è,  fu  e  sarà  la  riparatrice  costante  dei 
nostri  errori. 

E  un'altra  raccomandazione  vi  rivolgo:  raccogliete  sempre  più 
intensamente  intomo  a  Voi  gli  artigiani,  i  piccoli  industriali,  i  la- 
voratori umili,  congiungeteli  in  fide  mutualità,  insegnate,  prepa- 
rate fra  loro  i  nuovi  ordinamenti  tecnici,  sorti  e  illustrati  negli  Stati 
Uniti  e,  come  premio  di  questi  oscuri  sacrifizi,  di  queste  sottili  pre- 
videnze, fate  rilucere  sulle  loro  teste  un  credito  benefico  conceduto  a 
miti  saggi,  consolatore,  fecondatore;  sono  benemerenze  codeste  oh© 
prolungheranno  la  vita  secolare  delle  nostre  istituzioni,  le  quali  de- 
vono aspirare,  come  la  Patria  che  le  ospita,  le  educa,  le  onora,  al- 
l'inmiortalità. 

So,  so  e  nessuno  ne  ha  l'animo  più  rattristato  del  mio,  so  che  si 
traversano  ore  diflBcili  nell'esercizio  e  nell'uso  del  credito;  quasi, 
quasi  si  direbbe  talvolta  col  divino  Poeta: 

La  gente  nuova,  e  i  sùbiti  guadagni, 
Orgoglio  e  diamisora  han  generata 
Fiorenza,  in  te,  sì  che  tu  già  ten  piagni. 

Fiorenza  di  Dante  è,  o  m^lio  fu,  in  qualche  buia  giornata  l'Italia 
di  oggidì. 

Ma  non  è  né  colle  leggi  improvvisate  (per  le  quali  si  tormentano 
i  buoni  e  si  salvano  gli  astuti),  né  colle  vigilanze  delle  burocrazie 
incompetenti,  né  colle  imposte  che  perdono  l'equità  e  hanno  il  sapore 
della  vendetta,  che  ci  libereremo  da  questi  vizi  ereditari;  bisogna  ope- 
rare il  bene,  contrapponendolo  al  male. 

E  restringendoci  nel  nostro  campo  del  credito,  pieno  di  torbide 
concorrenze  di  ogni  specie,  politiche,  sociali  e  religiose,  la  gente  nuova 
e  i  sùbiti  guadagni,  denunziati  da  Dante,  cercano  avidamente  i  ri- 
sparmi del  popolo  laborioso  nei  villaggi  oscuri,  nelle  campagne  soli- 
tarie, offrendo  interessi  sempre  più  alti,  contratti  equivoci  come  quelli 
dei  comodati,  col  principale  intento  di  togliere  i  STidati  peculi  dai  nidi 
dove  le  onorate  fatiche  li  generano,  per  gittarli  nelle  voragini  della 
Borsa...  La  nostra  missione,  Banche  Popolari  di  Milano,  di  Novara, 
di  Lodi,  di  Bergamo,  di  Pavia,  di"  Padova,  di  tutta  Italia,  è  quella 
di  stringersi  sempre  più  nella  nostra  Federazione  consacrata  alle 
istituzioni  combattenti  colla  voce  e  cogli  atti,  per  smascherare,  per 
denunziare,  per  vincere  tutte  queste  falsificazioni,  adulterazioni,  so- 
praffazioni del  credito  malsano.  E  si  dica  pur  di  noi  col  divino 
Poeta: 

E  cortesia  fa  in  Ini  esser  villano. 

Bisogna  sperdere  dal  mondo  questi  falsi  banchieri,  abbiano  essi  il 
popolo  sulle  labbra  od  osino  invocare  gl'interessi  della  Patria.  E  come 
dissi  a  Venezia,  dove  mi  vollero  per  celebrare  il  centenario  delle  tre 
prime  Istituzioni  italiane,  ripeto  qui  il  grido  per  un  accordo  sicuro 
e  nazionale  fra  le  Casse  di  Risparmio  e  le  Banche  Popolari,  nella 
trasmissione  del  denaro,  nei  reciproci  aiuti,  fronteggiando  colla  con- 
correnza del  bene  ogni  altra  insidia  allettatrice.  Urge  persuadere  i 
nostri  semplici  risparmiatori  a  non  attendere  le  rapine  dei  loro  de- 

18  Voi.  CCXVn,  Berle  VI  —  l*  aprile  1922. 


266  SOLSmiTÀ   PER   IL   CINQUANTENABIO 

positi  per  dimostrar  una  tarda  fiducia  alle  sane  istituzioni  locali. 
Hanno  sul  lii<^o  dove  lavorano,  trafficano,  costruiscono,  guadagnano, 
soffrono  e  sperano  gli  istituti  offrenti  la  fida  ospitalità  al  loro  pe- 
culio, ne  conoscono  gli  amministratori  e  le  operazioni;  perchè,  perclu' 
si  lasciano  strappare  i  sudati  frutti  del  proprio  lavoro  da  banclie 
lontane,  randagie,  tentatrici,  che  col  rumore  delle  lodi  accattate  pren- 
dono il  loro  denaro  e  lo  impilano  in  complicate  operazioni?  Come 
non  comprendono  questi  incauti  che  l'uno,  il  due  per  cento  di  mag- 
giori interessi  dovrebbero  bastare  per  destar  i  legittimi  sospetti,  per 
contentarsi  del  fido  ostello  natio  promettente  con  prudenza  e  rimbor- 
sante con  esaltezza?  Combattiamo,  combattiamo  tutti  questi  Enti  av- 
venturosi, assillati  dall'ansia  dei  sùbiti  guadagni  e  mettiamo  innanzi 
questa  massima  che  dettai  sin  dal  1863:  Banche  che  dicono  di  gua- 
dagnare miolto  paiono  sospettabili  come  quelle  che  troppo  perdono; 
degne  di  fiducia  sono  le  istituzioni  di  credito  con  tempeirata  cautela 
idonee  a  raccogliere  i  benefìzi  continui  e  modesti,  fìgU  della  prudenza 
e  non  dell'avventura. 

Quando,  più  di  cinquant'anni  or  sono.  Paolo  Boeelli  e  chi  ha 
l'onore  di  parlarvi,  collaborammo  con  Quintino  Sella  per  introdurre 
in  Italia  le  Gasse  di  Risparmio  postali,  dichiarai  apertamente  che 
prestavo  l'opera  mia  a  quel  grande  Maestro  a  patto  di  integrare  e 
non  di  sostituire  la  libera  previdenza  delle  Gasse  di  Risparmio  e 
delle  Banche  Popolari.  Quintino  Sella,  innamorato  della  sua  crea 
zione,  desiderava  allargare  troppo  i  limiti  nei  versamenti  dei  risparmi 
agli  Uffici  Postali,  segnatamente  alzando  la  ragione  dell'interesse.  Di- 
scepolo fedele  e  fervido  del  sommo  Maestro,  mi  opposi,  e  lasciatemi 
dir  qui,  giunto  a  quell'età  della  vita  quando  nulla  si  teme  e  nulla  si 
spera  dalla  politica  e  dall'ombra  vana  delle  piccole  lusinghe,  nella 
controversia,  narrata  in  un  mio  libro,  l'insigne  statista  biellese,  che 
aveva  debellato  il  disavanzo,  rappresentava  al  Governo  il  Ministro 
risoluto  nel  '70  all'acquisto  di  Roma,  e  fu  il  cooperatore  massimo 
nell'applicazione  della  scienza  alla  prosperità  dell'economia  nazio- 
nale. Quintino  Sella  non  si  isentì  un  vinto  accostandosi  al  mio  pen- 
siero. Erano  quegli  uomini  di  Stato  i  veri  eredi  di  Cavour;  servivano 
e  non  sfruttavano  la  Patria,  soffrivano  e  non  godevano  il  potere.  E 
io  che  gli  succedetti  (insigne  onore!)  più  volte  nel  Governo  del  Te- 
soro, non  volli  mai  che  l'interesse  dei  depositi  postali  oltrepassasse 
il  2.50  o  il  2.70  per  cento.  Gli  effetti  furono  notevoli,  un  po'  anche 
per  colpa  dell'esuberanza  di  carta  moneta;  i  depositi  delle  Gasse  di 
Risparmio  Libere  e  delle  Banche  Popolari  oltrepassano  insieme  gli 
undici  miliardi  e  quelli  delle  Gasse  di  Risparmio  postali  oltrepas- 
sano gli  otto  miliardi.  Grande,  nobile  ammonimento  a  tutti  i  veri, 
sani  e  savi  istituti  di  credito,  i  quali  devono  sottrarsi  alle  tentazioni 
di  un'avida  concorrenza,  fatta  a  colpi  di  alti  interessi.  E  Voi,  Nova- 
resi, che  ammiraste  il  grande  Apostolo  del  pubblico  bene.  Quintino 
Sella,  che  lo  amante  come  vostro  concittadino,  associatevi  a  me,  man- 
diando  per  tutta  Italia,  segnatamente  a  Biella  ch'Ei  tanto  amò,  un 
saluto  alla  sua  memoria,  anche  e  perchè  fondatore  delle  Casse  di 
Risparmio  postali. 

Agli  amministratori  insigni  della  Banca  Popolare  di  Noviara,  ai 
fedeli  amici  miei  delle  lianohe  I^opolari  Lombarde,  Elmiliane,  Venete. 
del  Mezzodì  e  da  tutte  le  altre  parti  d'Italia,  vivamente  naccom&ndo 


DELLA  BANCA  POPOLARE  DI   NOVARA  267 

di  non  dar  l'esempio  di  fratelli  ingelositi  fra  loro;  è  giunto  il  nio- 
mento  di  far  sentire  la  vostra  possanza  cogii  effetti  della  fida  con- 
cordia. E  poiché  vi  piacque  di  eleggermi  Presidente  della  vostra  Fe- 
derazione, s'intende  (com'è  mio  costume)  senza  alcun  vantaggio  tranne 
quello  di  sentirvi  uniti,  applicate  alle  nostre  Banche  il  detto  eccelso 
di  un  grande  Ministro  italiano  degli  Affari  Esteri  :  indipendenii  sem- 
pre, isolali  mai. 

Oggi  gl'insigni  capi  della  cooperazione  inglese,  svizzera  e  di  altri 
grandi  paesi,  annunziano  il  loro  disegno  di  fondare  istituzioni  di 
credito  e  per  l'acquisto  di  materie  prime,  di  sostanze  alimentari  col 
metodo  cooperativo  e  di  carattere  intemazionale.  Ditemi  che  inter- 
preto l'animo  vostro  affidando  quegli  amici  stranieri  e  rettissimi  che 
l'Italia  parteciperà  a  queste  iniziative  redentrici. 

Dopo  la  guerra  terribile  e  liberatrice  di  tante  genti  oppresse, 
troppi  monopoli  di  materie  prime  si  strinsero  col  nome  abusato  della 
civiltà,  nelle  mani  di  alcuni  potenti;  troppe  correnti  bancarie  privi- 
legiate si  affannano  a  dominare  i  cambi,  a  inasprirli,  a  signoreggiare 
le  maggiori  vie  internazionali  del  credito  e  degli  affari.  Se  potremo 
opporre  a  queste  forze  ora  benefiche  e  ora  moleste  le  salutari  in- 
fluenze della  cooperazione  intemazionale,  l'Italia  non  mancherà  al 
glorioso  appello.  Intendo  le  diflBcoltà  di  queste  vittorie;  io  dissi  un 
giorno  al  maggiore  miliardario  americano  che  md  parlava  con  sim- 
patica diffidenza  della  cooperazione:  anche  noi  cooperatori  avremo 
le  nostre  alleanze  finanziarie  mondiali  e  ci  mostreremo  capaci  di 
raccogliere  le  centinaia  di  milioni.  Ed  ei  mi  notò  fra  l'incredulo  e 
l'ammirato  :  ma  nei  grandi  affari  dove  basta  la  mia  sola  volontà, 
occorreranno  a  voi  le  migliaia  di  consensi.  Sì,  io  gli  risposi,  questa 
è  la  nostra  debolezza,  ma  anche  la  nostra  forza. 

Al  di  sopra  di  queste  pugne  feroci  di  armi,  di  capitali,  di  vio- 
lenze del  lavoro,  che  tormentano  il  mondo,  si  inizia,  si  svolge  oggidì 
una  pugna  evangelica,  a  cui  concorrono  tutte  le  povertà  buor^,  tutte 
le  colture  cercanti  la  scienza  investigatrice  della  ragione  delle  cose, 
pugne  che  non  umiliano  alcuno,  illustrano  il  vinto  al  pari  del  vin- 
citore; la  cooperazione  intemazionale  deve  prendere  il  suo  posto  in 
queste  falangi  di  eletti,  di  pacifici.  E  poiché  noi  non  vogliamo  la 
m^orte  del  peccatore,  ma  il  pentimento,  questa  mondiale  rinascita 
della  bontà  umana  può  costringere  a  migliorarsi,  a  temperarsi,  anche 
quelli  che  paiono  onnipossenti,  troppo  orgogliosi,  curanti  sinora  sol- 
tanto le  egemonie  soverch latrici.  Su  questo  diluvio  universale  non 
sognano  coloro  che  intravedono  nella  bontà  l'arca  della  vera  salvezza! 

Con  questa  speranza,  consolatrice  della  mia  vecchiaia,  vi  rinnovo 
il  saluto  paterno,  o  Novaresi. 

In  quanto  a  me  che  nulla  chiedo,  nulla  temo  e  piìi  dispero  d^li 
uomini  politici  meglio  mi  affìsso  in  Dio,  senza  adulare  né  la  coope- 
razione, né  i  suoi  sodalizi,  confido  nella  salutare  efficacia  della  loro 
immacolatezza,  e  sarei  contento  se  sulla  mia  tomba  modesta  le  fide 
mutualità  potessero  scrivere  questa  epigrafe:  Qià  giace  un  uomo,  il 
quale  traverso  gVinevitabili  errori  della  vita  pubblica,  ha  serbato 
fede  a  coloro  che  lavorano  e  soffrono.  E  le  lagrime  votive  di  qualche 
pio  viandante,  dopo  quelle  della  mia  famiglia,  conforteranno  l'urna 
solitaria! 

Luigi  Luzzatti. 


VINCENZO  MONTI  E  IL   PRINCIPE  DI  CARIGNANO 


Il  17  ottobre  del  1821  Vincenzo  Monti  scriveva  da  Milano  a  suo 
nipote  Fedele  in  Ferrara:  ««Partirò  con  Perticari  alla  fine  del  mese. 
Faremo  il  giro  de^li  Stati  Veneti  per  Brescia,  Verona,  Vicenza,  Bas- 
sano,  Padova,  Venezia.  Saremo  verso  la  metà  dell'entrante  in  Fer- 
rara; indi  subito  a  Fusignano,  ove  spero  che  in  poche  parole  ci  ag- 
giusteremo con  Giuseppino  [fratello  di  Fedele];  e  risoluto  l'affare 
moveremo  per  Pesaro  »  (1). 

In  queste  poche  parole  è  tracciato  l'itinerario  del  viaggio  che  il 
Monti,  in  compagnia  del  genero,  compì  di  fatto  nel  novembre  di 
quell'anno,  per  rivedere  suoi  carissimi  amici  e  farli  conoscere  al  Per- 
ticari, allora  nel  massimo  della  sua  fama:  ««beatissimo  viaggio», 
dov'ebbero  a  godere  ««  di  cento  allegrezze  » ,  perchè  ««  accolti  dapper- 
tutto con  amorevolezze,  cortesie  e  gara  di  ogni  genere  di  amicizia  ». 
Partiti  il  lunedì  5  novembre  da  Milano,  giunsero  in  Brescia  la  sera 
dello  stesso  giorno,  ospiti  di  Camillo  Ugoni;  in  Verona,  il  7,  «  super- 
bamente alloggiati,  festeggiati,  onorati  senza  misura  »  dalla  contessa 
Glarina  Mosconi,  da  Ippolito  Pindemonte  e  da  altri  egregi;  l'il,  in 
Vicenza,  passando  quindi  a  Bassano,  a  Possagno,  a  Padova,  a  Ve- 
nezia; poi  di  nuovo  a  Padova,  dove,  il  25,  quei  dotti  vollero  ««  a  tutti 
i  patti  onorarli  in  im  geniale  banchetto»,  e  —  dopo  l'acconcio  d^li 
interessi  del  poeta  co'  suoi  nipoti  in  Romagna,  a  cui  prese  parte  non 
lieve  il  Perticari  —  arrivando  finalmente *in  Pesaro  «  allo  scocco  del- 
l'Avemmaria »  del  6  dicembre,  ««  con  immensa  gioia  della  loi^  Go- 
stanza »  (2). 


Se  non  ohe,  mentre  i  due  insigni  ed  ammirati  uomini  gxxievano 
delle  più  schiette  e  cordiali  gioie  dell'amicizia  e  attendevano  anche 
di  provvedere  a'  loro  interessi,  un  solerte  informatore  indirizzava 
con  ogni  probabilità  al  direttore  generale  della  polizia  in  Venezia 
il  seguente  rapporto  confidenziale,  scritto  da  Bassano  o  da  Vicenza 
tra  il  17  e  il  18  novembre:  «Potendo  interessare  le  viste  di  lei,  mi 
permetto  informarla  confidenzialmente  di  aver  inteso  da  persona  di 

(1)  Epittolario  di  Vincenzo  Monti  (voi.  VI  delle  Opere).  Milano,  presM) 
Giovanni  R«snati,  1842,  pag.  119  e  seg. 

(2)  Cfr.,  per  tutto  ciò,  Epistolario,  pagg.  271-276  e  Lettere  inedite  e 
sparse,  raccolte,  ordinate  e  illustrate  da  A.  Bertoldi  e  Q.  Mazeatinti.  To- 
rino, Roux  FrasBati,  1893-96,  voi.  II,  pag.  341  e  eeg. 


VINCENZO   MONTI  E   IL   PRINCIPE  DI  CARIGNANO  269 

qualità  che  il  ag-.  Vincenzo  cav.  Monti  di  Verona,  domiciliato  in 
Milano,  ebbe  un  carteggio  col  principe  di  Garignano  al  momento 
della  rivoluzione  in  Piemonte,  e  dubitando  che  la  commissione  re- 
centemente istituita  in  Milano  per  oggetti  di  Stato,  venendo  infor- 
mata di  detto  cart^gio  ch'egli  asserì  puramente  letterario,  assog- 
gettarlo potesse  a  qualche  misura,  si  determinò  di  far  un  viaggio 
in  queste  provincie  e  poscia  passare  il  carnevale  in  Pesaro,  affine 
di  cUstrarsi  dalla  molestia  che  recavagli  un  tal  timore  e  che  influiva 
perfino  ad  alterare  la  sua  salute  »  (1). 

Il  Biadego,  che  primo  pubblicò  il  documento  surriferito,  termi- 
nava col  chiedersi  :  «  Quanto  v'ha  di  vero  nell'affermazione  della 
polizia  che  il  Monti  ebbe  carteggio  col  principe  di  Garignano?  A 
questo  non  so  rispondere».  Ora,  a  tale  domanda  posso  rispondere 
io  in  senso  affermativo:  carteggio  letterario  certamente,  ma  non 
senza  qualche  riposto  fine  politico. 

Quando  nel  1896  fu  pubblicato  il  secondo  volimie  delle  su  citate 
Lettere  inedite  e  sparse  del  Monti,  Giosuè  Garducci,  il  5  agosto,  mi 
scriveva,  tra  l'altro,  da  Madesimo  :  «  È  sfuggita  una  lettera  impor- 
tantissima :  quella  ad  Alberto  Nota,  in  cui  il  poeta  canta  gli  augurii 
del  principe  di  Garignano,  poi  Garlo  Alberto:  fu  pubblicata  dal 
Gualterio  nei  documenti  agli  Ultimi  rivolgimenti  d'Italia  »  (2) . 

Ma  questo  fu  un  facile  equivoco,  uno  spiegabilissimo  inganno 
della  memoria  del  grande  maestro.  In  tutte  le  edizioni  del  Gualterio, 
in  fatti,  non  una  lettera  del  Monti  al  Nota,  ma  si  legge  una  lettera 
del  Giordani  eil  Monti,  che  lo  prega  di  scrivere  al  Nota  per  il  Gico- 
gnara.  È  il  documento  che  porta  il  numero  GLXXI,  dove  si  leggono 
queste  parole  davvero  importantissime,  e  che  mostrano  —  annotava 
il  Gualterio  medesimo  —  «  meglio  d'ogni  ragionamento  come  per 
istintivo  impulso  i  cuori  de'  migliori  cittadini  in  Carlo  Alberto  le 
speranze  loro  riponessero  »  :  «  Fagli  dunque  sapere  come  nel  continuo 
nostro  parlare  dell'ottimo  e  veramente  desiderato  principe,  nacque 
in  me  il  pensiero  che  il  nostro  amico  Leopoldo,  come  uno  dei  mi- 
gliori che  abbia  oggi  l'Italia,  facesse  omaggio  della  sua  grande  ed 
immortale  opera  a  S.  A.;  la  quale  si  sa  che  ama  di  cuore  tutto  ciò 
che  è  bello  e  grande.  E  poiché  egli  è  unica  speranza  della  povera 
Italia,  si  vorrebbe  che  fin  da  ora  gli  fosse  ossequioso  tutto  ciò  che 
l'Italia  piena  di  guai  e  di  speranze  ha  di  meglio.  Ma  Leopoldo  non 
doveva  presentare  la  sua  opera  a  S,  A.  senza  farla  pregar  prima  a 
volerla  gradire:  del  quale  uffizio  ^li  prega  il  valoroso  e  cortese  si- 
gnor Nota;  e  tu  vieni  in  appoggio  alla  preghiera  del  tuo  amico.  Ap- 
pena ricevuta  la  risposta,  che  si  spera  graziosa,  saranno  spediti  i 
tre  magni  volumi.  Senti  anche  un'altra  cosa.  Io  vo  sempre  pensando 
che  tutte  le  speranze  dell'Italia  infelice  sono  in  questo  principe;  e 
per  dio,  staremo  mille  anni  prima  che  ne  venga  un  altro  di  egual 
potere  e  buona  volontà.  Ma  alle  volte  io  temo  che  egli  si  disperi  che 
in  Italia,  così  mal  condotta  e  incancherita,  si  possa  far  del  bene.  A 
dargli  coraggio  e  consiglio  pare  a  me  che  gioverebbe  assai  la  bel- 
lissima opera  del  nostro  Sismondi.  Pare  a  te  che  ti  stesse  bene  dame 

(1)  Cfr.   GiTTSEPPB  BiAOBGo,  Letteratura  e  patria  negli  anni  della  domi- 
nazione atirstriaca.  Città  di  Castello,  Lapi,  1913,  pag.  259  e  segg. 

(2)  Lettere  di  G.  Cabdtjcci.  Bologna,  Zanichelli,  1911,  pag.  337. 


270  VINCENZO   MONTI  E   IL   PHINUPE  DI  CARIGNANO 

un.  cenno  al  signor  Nota  (poiché  tu  hai  confidenza  seco),  ed  egli 
forse  troverebbe  occasione  di  gittarne  un  motto  a  S.  A.?  Pensaci.  Io 
per  me  ho  pure  un.  gran  desiderio  che  il  principe  legga  quell'opera, 
per  conoscere  bene  l'Italia,  e  amarla  e  compassionarla,  e  volerla  soc- 
correre, e  confidarsi  di  poterne  egli  essere  il  glorioso  ristaum- 
tore»  (1). 

Il  Gualterio  diede  questa  lettera  come  scritta  «  innanzi  il  1821  »; 
ma  può  assegnarsi,  senza  tema  d'errore,  al  1818,  sia  perchè  in  que- 
st'anno furono  compioite,  a  Venezia,  in  tre  volumi  in  folio,  la  stampa 
della  Storia  della  scuLtwra  di  Leopoldo  Gicognara,  iniziatasi  nel  1813, 
e,  a  Parigi,  in  sedicd  volumi  in  8°,  quella  deìYHis taire  des  répubR- 
ques  italiennes  du  moyen  àge  di  Sismondo  Sismondi,  iniziata  a  Zu- 
rigo nel  1807;  sia,  e  soprattutto,  perchè,  sempre  in  quest'anno  e  sol- 
tanto per  pochi  mesi,  il  Nota  fu  segretario  particolare  di  Carlo  Al- 
berto (2). 

Il  Monti  scrisse  veramente  al  Nota?  Non  sembra  possibile  du- 
bitarne, anche  perchè  egli  aveva  conosciuto  il  Nota  di  persona  fin 
dal  1810  in  Milano,  e  ne  aveva  lette  e  lodate  due  commedie:  La 
dorarla  ambiziosa  e  II  filosofo  celibe.  S'aggiunga  che,  proprio  per 
intromissione  di  lui,  nella  primavera  di  quel  1818  venne  rappresen- 
tata in  Milano  stessa  l'altra  commedia  del  Nota:  La  Itts^inghiera  (3). 
Né  sarebbe  a  meravigliare  che  la  lettera  del  Monti  non  sia  conosciuta, 
giacché  del  periodo  1818-1821  nessun  ricordo  rimane  nelle  carte  del 
Nota,  probabilmente  perchè  il  Nota  medesimo  volle  tutto  distrug- 
gere (4). 

• 
•  • 

Sia  quel  che  può  essere,  ciò  che  è  ben  sicuro  si  è  che  il  27  gen- 
naio del  1821  il  Monti  spediva  direttamente,  con  lettera  accompa- 
gnatoria, copia  della  terza  edizione  della  versione  dell'/ftarfe  a  Carlo 
Alberto,  e  questi  ne  lo  ringraziava  il  14  febbraio  con  la  seguente 
lettera  tutta  autografa  e  inedita,  ohe  traggo  dalla  collezione  Cain- 
pori  dell'Estense  di  Modena: 

Spdacemd  assaissimo  signor  cavaliere,  che  funa  malattia  d'alcuni  giorni, 
da  cui  sono  pur  ora  convalescente,  non  m'aibbia  i>erme6So  di  rispondere  più 
presto  al  gentilissimo  e  gratiseómo  di  lei  foglio  del  27  scorso  gennaio.  Con 
qfuanto  piacere  io  abbia  ricevuto  l'invàalomi  esemplare  della  terza  edizione 
che  si  lece  in  Milano  della  celebratissima  di  lei  vensione  della  Iliade,  ella 
il  può  inmiaginare  cosi  dal  sommo  conto,  in  cui  hen  giustamente  tengo  tutto 
ciò  che  esce  dalla  dotta  ed  elegante  di  lei  perniai,  come  dal  raro  pregio  che 

(1)  Gli  vltÌTM  rivolgimenti  d'Italia  -  memorie  storiche  di  F.  A.  GtTALTSRio, 
con  documenti  inediti,  terza  edicioive,  Napoli,  Angelo  Mirelli,  1861-62,  voi.  Ili, 
pag.  31,  e  voi.  IV,  pag.  330  e  seg.  —  L'edizione  del  Minalli  è  in  sei  volumi, 
e  non  è  che  una  riaiampa  della  seconda  edizione  del  Le  Monnieo:  (Firenze,  1862), 
in  quattro. 

(2)  Cfr.  Onorato  AliìOCCo-Ca stellino,  Alberto  Nota:  ricerche  intomo  Ut 
vita  e  le  commedie,  con  lettere  inedite,  ritratti  e  appendice.  Torino,  Lattee, 
1912,  pag.  43  e  a^g. 

(8)  Cfr.  Alloooo-Cabtkllino,  Op  cit.,  pagg.  40,  164,  216. 
(4)  Cfr.  Allooco-Cabtbluno,  Op.  cit.,  pag.  46. 


VINCENZO   MONTI  E  IL   PRINCIPE  DI   CARIGNANO  271 

racchiude  in  ee  stesso  un  sì  gran  poema  della  cui  lettxira  tanto  sempre  mi 
compiaccio.  Ne  nniceva  pertanto  signor  cavaliere  carissimo  di  questo  di  lei 
dono  la  protesta  di  tutto  il  mio  gradimento  e  riconoscenza.  Risp>ondo  pur 
anche  al  signor  (Borghesi  per  accusargli  la  rice\'uta  e  ringraziarlo  del  secondo 
volume  delle  tavole  Capitoline,  ohe  ella  mi  ha  pure  cortesemente  spedito 
unitamente  a  lettera  del  medesimo.  Mi  compiaccio  intanto  nell' accogliere  i 
di  lei  voti  e  rinnovarle  i  miei  soliti  sentimenti. 

Torino.  14  febbraio  1821. 

Suo  affezionatissimo 
Alberto  di  Savoia. 

Dalla  chiusa  di  questa  lettera,  se  non  sempre  italianamente  cor- 
retta, per  varie  ragioni  così  notevole,  appar  manifesto  che  il  Monti 
aveva  scritto  qualche  altra  volta  al  principe,  e  che  anch'egli,  rispon- 
dendo,  gli  aveva  significati  sentimenti  di  alta  stima.  Ma  dove  si  ce- 
lano queste  lettere  montiane,  o  almeno  quella  sicurissima  del  27  gen- 
naio? Ne  sono  state  fatte  invano,  per  me,  ricerche  diligenti  e  cortesi 
nell'Archivio  di  Stato,  nella  Biblioteca  del  Re  e  nel  Museo  Civico  di 
Torino,  e  m'auguro  —  poiché  non  vorrei  pensare  a  una  distruzione 
—  che  altri  sia  di  me  più  fortunato.  Certo  sarebbe  assai  importante 
conoscere  una  tal  lettera  e  specialmente  i  voti  del  poeta  che  il  prin- 
cipe si  compiacque  accogliere:  voti  che,  dato  il  carattere  del  libro 
offerto,  e  il  personaggio  a  cui  eran  diretti,  e  anche  quel  gran  cuore 
del  Monti,  che  fin  dal  '97  aveva  sinceramente  pregato  ai  «  fratelli  »  : 

Una,  deh!,  sia  la  patria  e  ne'  perigli 
Uno  il  senno,  l'ardir,  l'alme,  le  vite^ 

non  poterono  che  riferirsi  a  un  migliore  avvenire  d'Italia. 

Alfonso  Bertoldi. 


PER  UN  TEATRO  DI  MARIONETTE 


Non  è  ifacile  determinare  il  carattere  delle  nostre  emceioni  este- 
tiche:  difficilissimo  questo  processo  di  chiarificazione,  a  teatro. 

Noi  ci  rechiamo  ad  uno  spettacolo  qualsiasi  e  ne  usciamo  con 
la  sensibilità  leggermente  turbata  e  lo  spirito  inquieto.  Quel  tanto 
di  realizzazione  poetica  che  ci  ha  commossi  è  giunto  fino  a  noi  at- 
traverso un  siffatto  groviglio  di  sensazioni  eterogenee,  che  non  ci  è 
più  dato  ritrovare  l'unità  e  La  purezza  dello  stato  di  grazia  artistico, 
disperso  frantumato  e  violentato  nelle  molteplici  materializzazioni 
cui  la  scena  assoggetta  la  creazione  d'arte.  Chi  può  dire  quanti  bran- 
delli di  sé  la  nostra  intuizione  lirica  di  una  conmiedia  shakespea- 
riana lasci,  con  stridente  lacerazione,  uncinati  alle  quinte  di  cartone 
ed  ai  jais  luccicanti  delle  m^^ime  e  ballerine? 

E  se  si  parla  di  melodramma  poi? 

Ahimè  !  il  fatto  è  questo  :  che  dalle  gambe  delle  coriste  alla 
capellatura  del  direttore  d'orchestra,  dalle  approssimative  sceno- 
grafie alle  esigenze  dell'acustica,  dalla  voce  chioccia  del  primo  at- 
tore alla  truccatura  palese  della  prima  donna,  è  tutto  un  disgre- 
garsi della  primigenia  e  salda  visione  del  poeta,  la  quale  pur  tut- 
tavia in  quel  martirio  deve  umiliarsi  per  esprimersi  totalmente.  Mi- 
seria dell'arte  rappresentativa  che  di  tutte  le  arti  è  la  più  complessa 
e  la  meno  completa... 

Può  anche  accadere  che  la  nostra  attenzione  ed  il  nostro  spiri- 
tuale consenso  siano  a  tratti  rapiti  senza  riserve  da  ciò  che  avviene 
in  palcoscenico:  e  che  deliziosamente  la  nostra  anima  s'inunerga 
nella  dolce  infantile  illusione  di  quel  giuoco  fragile.  Ciò  non  vuol 
dire:  dopo,  il  dubbio  spunterà  maliziosamente  dal  fondo  della  no- 
stra coscienza  di  esteti,  e  ci  porrà  il  quesito:  e  come  quell'atten- 
zione si  disperdeva  poi  con  tanta  leggerezza  da  un  polo  all'altro 
della  scenica  rappresentazione?  e  come  quel  consenso  andava  ora 
alla  musica,  ora  ai  cantanti,  ora  allo  scenografo,  ora  al  suggeritore, 
e  talvolta  anche  al  poeta? 

Nessuno  saprà  mai  quanto  (possa  influire  la  nostra  vicina  di  posto 
nella  comprensione  di  uno  spettacolo  d'arte  in  teatro  ! 

Il  guaio  è  anche  che  noi  quasi  sempre  ci  trasciniamo  dietro, 
un  po'  dappertutto,  qualche  problemuccio  teorico  che  ci  affanna.  Sì, 
qttesto  è  bello,  ma  in  che  rapporto  sta  con  il  sistema  di  cui  mi  onoro? 
In  parole  povere,  ttUto  ciò  che  io  ora,  con  tanto  luminoso  rilievo, 
vedo  ed  ammiro,  è  possibile  secondo  le  estetiche  possibilità  che  io 
da  anni  vado  determinando?  E  se  poi  rum  fosse  possibile?! 


PER  UN  TEATRO  DI  MARIONETTE  273 

Tali  ansie  che  caratterizzano  uno  spirito  vigile  coscienzioso  ed 
austero  di  fronte  alle  più  ardue  od  alle  più  sottili  ed  ambigue  ma- 
nifestazioni d'arte,  si  moltiplicano  ed  accentuano,  com'è  evidente, 
se  lo  spettacolo  è  d'eccezione. 

Così  è  arrivato  a  Torino  un  teatro  di  marionette,  il  «  Teatro  dei 
PiccoLi  ». 

Questo  piccolo  luogo  di  incantesimi  ingenui  e  di  misteriose  raf- 
finatezze può  interessare  mirabilmente  anche   i   «  grandi  » . 

Ma  sarebbe  troppo  il  pretendere  che  costoro  intraprendano  la 
loro  iniziazione  a  tale  minuscola  e  squisita  attività  artistica,  senza 
qualche  dubbio. 

È  giuste  che  i  «  grandi  »  siano  presi  di  fronte  alle  marionette 
da  un  timore,  che  li  turba  ed  agita  gravemente  :  ma  e  se  queste  ma- 
rionette compromettessero  la  nostra  serietà? 

■k 
** 

Dunque  vi  fu  ohi  naturalmente  provò  un  certo  disorientamento 
di  fronte  all'inconsueta  rappresentazione;  e  ricercandone  con  arguta 
indagine  la  causa,  credette  di  rintracciarla  in  quel  vagare  dell'at- 
tenzione, in  quell'irrequietezza  dello  spirito  x>osto  a  contatto  di  forme 
d'arte  che  stanno  insieme  per  miracolo:  tendenze  contrastanti  ohe 
con  violenza  vorrebbero  svincolarsi  dal  giogo  arbitrario  cui  sono 
costrette  in  apparente  unità. 

Ma,  e  qui  sta  il  punto,  la  cosa  non  è  nuova,  giacché  è  antica 
quanto  il  teatro,  è  del  teatro  la  storia  stessa,  del  teatro  in  genere  e 
non  di  questo  o  quel  teatro  in  particolare. 

Teatro  è  riunione  di  arti,  musica  parole  plastica  attori,  che  dal- 
l'intuizione totale  del  poeta  (la  quale  è  ipoi  nella  sua  spirituale  pu- 
rezza l'unico  e  verace  fatto  estetico)  sono  richieste  necessariamente 
per  la  completa  estrinsecazione  di  quell'intuizione  appunto,  che  re- 
sterebbe inespressa  senza  il  concorso  di  tutti  i  mezzi  fisici  di  cui 
il  teatro  dispone. 

Conflitto  di  estetica  e  di  pratica,  che  a  priori  è  diflBcilmente  con- 
ciliabile, ma  che  non  impedisce  poi  meravigliose  e  commosse  rea- 
lizzazioni d'arte,  anche  con  la  più  assurda  delle  messe  in  scena.  Con- 
ciossiacosaché la  migliore  soluzione  della  teoria  più  intricata,  é  an- 
cora quella  che  spontaneamente  nasce  dal  superamento  della  teoria 
stessa,  attraverso  un'espressione,  magari  ingenua  ed  illogica,  ma 
intima  e  adeguata,  della  fantasia  creatrice. 

Ne  risulta  che  a  determinare  la  bontà  di  un  fenomeno  estetico 
è  inutile  indagare  il  come  esso  si  manifesti,  per  quali  accidenti 
transitori  si  sviluppi,  é  nocivo  soffermarsi  sulla  sua  esteriorità. 

La  materia  nella  quale  un  artista  foggia  il  suo  sogno  importa 
poco:  ciò  che  importa  è  n  sogno.  Non  si  domandi  dunque  in  qual 
modo  ad  un  teatro  di  marionette  é  possibile  raggiimgere  il  suo  scopo, 
ma  se  raggiunge  il  suo  scopo. 

Ora  quel  certo  disagio  estetico  di  cui  sopra,  lo  si  prova  di  più 
in  un  teatro  di  marionette  che  in  un  teatro  di  uomini?  Mah!  forse 
meno... 

Si  potrebbe  affermare  che  le  marionette  presentano  molti  van- 
taggi su  qualunque  altro  teatro,  vantaggi  di  tecnica  teatrale.  Scene 


274  PBB   UN  TEATRO  DI   MARIONETTE 

ridotte,  suscettibili  delle  ipiù  delicate  armonie  e  combinazicMii,  per- 
sonaggi fabbricati  appositamente  con  tutte  le  risorse  sintetiche  del- 
l'artefice che  le  plasma,  e  via  dicendo.  Ma  ciò  lasciamo  ai  tecnici 
del  teatro,  che  in  fondo  non  vuol  poi  dire  gran  che. 

Ciò  che  vuol  dire  è  l'elemento  nuovo  che  la  marionetta  porta 
sulla  scena. 

Si  è  parlato  óeìVmdi/ferenza  spirituale  dei  fantocci.  Forse  in 
confronto  di  quell'ardenza  di  interiori  comprensioni  per  cui  le  nostre 
prime  attrici  nei  drammi  borghesucci,  ove  sono  costrette  a  rammen- 
dare calze  dal  primo  all'iiltimo  atto,  si  adattano  a  non  comparire  in 
velliUo  d'argento  con  décolleté  pronunciaùls sindo?  Ma  a  parte  i  con- 
fronti, sempre  uggiosi,  perchè  una  marionetta  dovrebbe  essere  indif- 
ferente? forse  perchè  è  di  legno?! 

Il  fatto  è  che  noi  nella  marionetta  dobbiamo  vedere  non  l'imi- 
tazione o  la  caricatura  dell'uomo,  ma  una  creatura  a  sé,  viva  di  una 
sua  vita  misteriosa  e  diversa,  capace  di  emozioni  rare  e  sconosciute, 
stranamente  sorridente  sui  limiti  inquietanti  di  un  mondo  chime- 
rico, mondo  eccelso  di  poesia  vagamente  presentita  ed  ineffabil- 
mente aberrante  dalla  cinematografabile  realtà  quotidiana,  mondo 
dal  quale  la  marionetta  viene  evocata,  per  sortilegio  di  qualche  can- 
dido artista,  a  guisa  di  magica  figurazione,  un  po'  trasognata  e  leg- 
germente sfuggevole,  bizzarra  ed  animata  sorella  minore  dei  grandi 
iddii  di  marmo,  delle  bianche  statue:  come  Anatole  France  affer- 
mava. Di  questo  mondo  di  bellezza,  palpitante  con  fugaci  lampeg- 
giamenti nella  penom'bra  ded  sogni  velati,  la  marionetta  è  annun- 
ziatrice,  rozza  come  certi  legnosi  santi  delle  età  mistiche,  raffinata 
come  quei  cherubini  (sottili  e  inafferabili  forme)  che  trasvolano  mu- 
sicalmente nei  miti  dell'anima. 

Mondo  dell'anima  vera/mente  :  e  Gordon  Craig,  che  tutte  queste 
cose  ci  ha  spiegato  con  arguzia  dolorosa,  lo  dice  mondo  della  Morte  : 
in  realtà  mondo  di  immagini  pure,  di  simboli,  e  di  luci  irreali,  ove 
si  sublima  l'essenza  della  nostra  spiritualità,  ove,  al  di  là  della  no- 
stra esperienza,  si  creano  le  verità  della  poesia  e  del  sogno. 

A  questo  mondo  le  marionette  appartengono  naturalmente  in 
quanto  da  esso  nacquero,  figlie  immediate  del  primo  fantasticajre 
umano,  come  tutti  gli  idoli  della  morte  e  della  vita.  Piccoli  idoli 
anch'essi,  sprigionatisi  spontaneamente  dal  vivido  germinare  del- 
l'anima che  brancola  in  oscure  profondità. 

Tutto  ciò  è  infantile  e  forse  divino. 

E  se  poi  la  marionetta  piacevolmente  scimmiotta  le  prime  donne 
nel  gorgheggio  o  le  iprime  ballerine  nell'aereo  sgambetto,  queste 
amabili  ironie  non  devono  distoglierci  dal  vedere  in  lei  una  crea- 
tura eccezionale,  inimitabile,  irriducibilmente  singolare,  non  stu- 
pida e  inerte  ma  capace  di  far  vibrare  in  noi  quelle  apparizioni  im- 
provvise del  nostro  essere  invisibile,  cris  msystiqites,  qui  n^ajrpartien- 
nent  pas  à  la  vie  extérieure  de  ces  poèmes  au  de  ces  tragèdie s...  E 
Maeterlinck  così  parlando  accennava  appunto  a  quei  capolavori  del 
teatro  che,  secondo  lui,  furono  scritti  con  sacrifìcio  grave  dell'anima, 
la  quale  solo  a  tratti  balena,  e  che  poi,  sotto  la  corpulenta  recita- 
zione dei  migliori  attori,  soffoca  inesorabilmente.  Perchè  i  migliori 
attori  recitano  troppo  bene  per  interpretare  le  più  alte  opere  della 
poesia,  ohe  sono,  sì,  eloquenza,  ma  anche  candore  e  canto  sommesso, 


PE»  UN  TEATRO  DI  MARIONETTE  276' 

e  richiedono  il  pdù  delicato  strumento  per  risuonare  a  lungo  nei 
silenzi  attoniti. 

Rivelatrici  di  antiime,  sintetiche  e  profonde  nella  loro  estatica 
espressività,  poetiche  solenni  ed  argute  nel  loro  schematismo,  le 
marionette  ressemblent  à  des  hiérogly-phes  égypHen^,  hanno  in  sé 
qualcosa  di  sacro,  di  ricco,  di  ^possentemente  enigmatico  che  le  fa 
interpreti  eccellenti  di  un  Maeterlinck,  e,  «perchè  no?  di  un  Shake- 
speare o  di  un  Escihilo. 

Ma,  ecco,  qui  si  dice:   la  Marionetta  è  comica,  non  è  tragica. 

Ohibò!  Sarebbe  bene  provarlo.  Dirlo  così  perchè  più  o  meno  sì 
ritiene,  a  priori,  che  automatismo  e  comicità  si  identifichino,  e  che 
non  si  possa  dare  gesto  marionettistico  senza  parodia  del  gesto 
umano,  e  cioè  senza  meccanismo  e  freddezza,  è  alquanto  azzardato. 
Intanto  qui  molto  sta  nella  sensibilità  individuale  :  il  non  scoprire 
elementi  di  tragedia  là  ove  altri  li  scorge  è  forse  insuflBcienza  no- 
stra; ed  è  insuperabilmente  arduo  determinare  regole  generali,  e 
sapere  fino  a  qual  ipomto  per  me  o  per  Tizio  Caio  Sempronio  dal- 
l'automatismo scaturisca  la  comicità,  e  dove  incominci  da  quello 
stesso  angoscioso  ripetersi  di  un  gesto  allucinato  a  diffondersi  un 
dolorante  stupore. 

E  poi  non  vi  sono  cose  comiche,  eternamente  comiche,  e  cose 
tragiche,^  eternamente  tragiche,  per  definizione. 

Ma  ciò  che  in  un'atmosfera  spirituale  spinge  al  sorriso,  può  di 
colpo  in  una  nuova  e  diversa  atmosfera  divenire  terribilmente  tra- 
vagliato dallo  spasimo. 

Senza  contare  ohe  noi  scoppiamo  a  ridere  'per  quell'automatismo 
che  si  sovrappone  impensatamente  al  movimento  abituale  di  una 
persona  che  noi  sappiamo  o  -immaginiamo  tuttora  agile  disinvolta 
flessuosa:  da  ciò  la  sorpresa  e  l'irresistibile  senso  di  comicità. 

Il  che  non  è  della  marionetta,  per  la  quale  avremmo  torto  a 
riportarci  all'uomo  come  a  .punto  di  riferimento. 

Tragica  la  marionetta,  di  quella  tragicità  complessa  che  va  dal 
patetico  al  grottesco,  dall'ironico  al  fantastico,  potrà  dirci  forse  quelle 
parole,  voci  dell'Invisibile  quotidiano,  che  gli  uomini  generalmente 
non  dicono  o  non  sanno  dire,  e  che  ad  ogni  sopraffazione  di  atteg- 
giamenti passionali  e  melodrammatici,  svaniscono  in  un  tremito. 

E  ohi  potrebbe  negare  senz'altro  ciie  le  marionette  siano  minu- 
scole occulte  deità,  degne  di  metterei  in  comunicazione  con  i  più 
alti  misteri  della  vita,  della  morte  e  della  bellezza? 

A 

Tutto  sta  a  trovare  per  le  marionette  il  repertorio  adatto. 

Problema  interessantissimo  non  solo  per  gli  impresari  che  mi- 
rano a  soddisfare  i  gusti  del  pubblico,  ed  ottimo  in  quanto  ci  ricon- 
duce direttamente  al  mirabile  teatro  romano. 

Per  esempio:  l'opera  in  musica.  C'è  chi  dice  sia  impossibile 
adattarla  ad  un  «Teatro  dei  Piccoli». 

Ed  invece  il  «  Teatro  dei  Piccoli  »  ha  fatto  anche  questo. 

Certo  non  ha  scelto  il  Tristano  od  i  Maestri  Cantori.  Ha  scelto, 
poniamo,  la  Gazza  Ladra  di  Rossini.  Scelta  che  pur  non  essendo 
fatta  a  caso,  può  dar  luogo  a  cordiali  discussioni.  Ed  intendiamoci  ; 


276  PER  UN  TEATRO  DI  MARIONETTE 

si  parla  della  Gazza  non  perchè  sia  un  caso  capitale  nella  fortuna 
del  «  Teatro  dei  Piccoli  »  (che  sarebbe  affrettato  giudicare  tutta  l'isti- 
tuzione dairesame  di  una  sola  sua  manifestazione),  ma  si  iparla  della 
Gazza  per  l'occasione,  che  ne  porge  il  destro  (con  la  Gazza  queste 
marionette  hanno  debuttato  a  Torino),  e  perchè  il  caso  speciale  può 
lumeggiare  alcuni  curiosi  aspetti  del  problema  nella  sua  generalità. 

La  musica  rossiniana  è  qui  di  una  freschezza  vivacità  scorre- 
volezza incomparabili.  Giuochetti  e  grazie  languide,  accenti  melo- 
drammatici, un  po'  d'enfasi,  qualche  sereno  e  patetico  dilagare  di 
melodie  e  poi  ritmi  saltellanti,  recitativi  spigliati,  ritornelli  mali- 
ziosa, danze  adorabili  di  festività:  ed  in  conclusione,  dal  principio 
^la  fine  una  verve  indiavolata  e  travolgente,  che  non  vi  dà  tempo 
di  soffermarvi  su  questo  o  quel  iparticolare,  che  commenta  con  spi- 
rito le  vicende  comiche,  e  dà  un  tono  brioso  a  quelle  drammatiche, 
rilevandone  con  sorridente  ed  appena  appena  commossa  simpatia 
il  vario  movimento,  gli  atteggiajnenti,  l'intreccio  ora  lacrimoso,  ora 
violento,  ora  giocondo.  Comédie  larmoyante  fu  detta  giustamente 
^juesta  storiella  buffa  e  malinconica  di  una  gazza  che  quasi  manda 
alla  morte  una  povera  servetta  :  e  la  musica  ne  rispecchia  bene  l'es- 
senza: musica  deliziosa,  ma  a  fior  di  pelle,  che  riesce  con  la  sua 
olivina  e  gioiosa  spontaneità  a  circonfondere  di  un  pulviscolo  lumi- 
noso questo  banale  libretto.  Non  musica  quindi  caratterizzante  pre- 
cisi e  sanguigni  tipi  umani,  né  suscitatrice  di  emozioni  intensamente 
drammatiche  e  realisticamente  passionali,  ma  piuttosto  ondeggiante 
tra  la  gaia  dolcezza  del  vivere  e  la  diffusa  tristezza  che  garbatamente 
nasce  dai  romanzi  a  lieto  fine,  che  ci  fanno  soffrire  un  poco,  ma  ohe 
poi  si  chiudono  in  un  sorriso. 

Ora  in  questo  ambiente  le  marionette,  come  in  una  bella  fiaba, 
possono  agire  con  grazia  perfetta,  intonandosi  al  flusso  musicale, 
che,  aereo  e  gentile,  non  genera  commozioni  così  nettamente  con- 
crete e  pregne  di  attiva  umanità,  da  stridere  con  l'eccezionale  modo 
di  essere  dei  cari  fantocci. 

Anzi  l'esecuzione  marionettistica  riuscirà  con  sottilissima  e  bo- 
naria ironia  a  farci  superare  quegli  episodi  melodrammatici,  con- 
venzionalmente rettorici  ed  intimamente  falsi,  che  sono  oramai  così 
lontani  dalla  nostra  sensibilità;  mirabilmente  diffonderà  quel  senso 
di  serenità  un  po'  accorata  col  quale  certi  nostri  avi  contemplavano 
sognando  l'eterna  commedia  della  vita;  e  di  quel  sogno  ci  comuni- 
cherà il  fascino  remoto. 

E  non  si  dica  ohe  non  sono  commoventi  le  marionette  ! 

C'è  nella  Gazza  un  duettino  incantevole. 

Ninetta,  la  povera  servotta,  vittima  innocente  del  Fato  avverso, 
è  in  prigione,  e  Pippo,  l'amico  suo  verace,  viene  per  recarle  con- 
forto. Sulla  porta  vigila  il  carcenere  con  qualche  indulgenza,  grot- 
tesca immagine  dell'uomo  che  esegue  un  suo  compito  crudele  ad 
insaputa  della  sua  anima,  che  forse  piange. 

Eld  in  quella  composta  armonia  di  luce  crepuscolare,  oasi  di 
purezza,  le  due  creaturine  si  gettano  l'una  nelle  braccia  dell'altra. 
E  si  parlano,  e  si  dicono  cose  comuni,  ma  con  tanta  ingenuità  di 
gesti  elementari,  ma  con  sì  dolce  abbandono,  che  attraverso  quelle 
parole  voi  sentite  vibrare  due  anime,  finalmente.  Due  anime  che  si 
.cercano  oltre  la  brutale  realtà,  due  animule  trepide  ed  attonite  che 


PER  UN  TEATRO  DI  MARIONETTE  277 

si  levano  dall'oscura  miseria  del  mondo  verso  un'ignota  felicità. 
Raramente  la  fragile  pochezza  e  l'infinito  delle  anime  che  sognano, 
libere  dai  ccjppi  carnali,  fu  espressa  con  tanta  delicatezza.  Vi  pare 
un  simbolo  ed  è  cosa  viva.  Sono  fantocci,  e  quegli  occhioni  si  spa- 
lancano sul  mistero  indicibilmente. 

Sarei  facilone  e  ingiusto  se  dicessi  che  due  ottime  cantanti,  un 
po'  grassoccie  e  sapientemente  truccate,  stenterebbero  a  (procurarmi 
lo  stesso  tenue  brivido  di  commozione. 

A 

Ma  il  repertorio  del  «  Teatro  dei  Piccoli  »  è  vasto. 

Vi  sono  opere  comiche,  fiabe,  leggende,  e  farse  per  i  più  piccini. 

C'è  di  che  meditare  sulle  possibilità  di  una  rappresentazione 
marionettistica. 

E  i  piccoli  possono  trovarvi  gioie  innumerevoli  e  lievi  palpiti: 
possono  assaporarvi  l'incanto  delle  belle  immagini  e  delle  semplici 
armonie  che  scendono  al  cuore,  infantilmente  ignaro,  per  la  prima 
volta. 

Ma  i  bimbi,  i  bimbi...  non  saranno  poi  indifferenti  a  tutto  que- 
sto? vi  è  chi  mormora. 

E  chi  oserà  entrare  con  sicurezza  nella  psicologia  di  un  bimbo, 
e  dire  :  è  così  o  così  ? 

Non  si  nega  che  un  bimbo  possa  divertirsi  enormemente  con 
qualche  brutta  scipitaggine  (come  avviene  ai  «  grandi  »  del  resto)  : 
ma  è  una  ragione  questa  per  non  abituarlo  a  divertirsi  al  contatto 
della  bellezza? 

Eki  i  «  grandi  »  sanno  forse  con  quanta  spontaneità  un  bimbo 
possa  comprendere  quella  viva  bellezza,  ohe  attraverso  teoretni  e 
corollari  appare  ad  essi  «  grandi  »  tanto  diflBcile  ed  ardua  ? 

I  bimbi  guardano  questo  loro  teatrino,  come  guarderebbero, 
curiosi  e  meravigliati,  entro  un  nido  di  fate,  pieno  di  prodigi:  ed 
un  ipoco  della  dolce  visione  li  accompagnerà  fors'anche  a  lungo, 
come  il  ricordo  vago  di  un  bene  lontano  tra  il  molto  male  della  vita 
di  ogni  giorno. 

E  non  è  detto  che,  se  un  piccino  può  anche  trastullarsi  con  una 
goffa  puppattola  imbottita  di  stracci,  si  debba,  noi  «grandi»,  fare 
a  pezzi  i  più  bei  giuocattoli,  le  spilendide  bambole  di  Norimberga. 

Francesco  Bernardelli. 


I 


CARLO  CAHANEO  E  U  SOCIETÀ  DELLE  NAZIONI 


«  La  Società  giuridica  primitiva  fu  la  famiglia  :  la  finale  sarà 
la  union©  giuridica  dei  popoli  civili  ».  Così  ha  sentenziato  un  nostro 
illustre  maestro  del  diritto  intemazionale,  il  Fiore;  ed  ha  detto  bene. 

Infatti  la  storia  ci  prova  l'ascensione  dalla  famiglia  alla  tribù, 
a  sempre  più  larghe  convivenze,  sino  a  quello  che  Giambattista  Vico 
ha  chiamato  il  mondo  delle  nazioni.  Le  rivalità  fra  Stato  e  Stato  fu- 
rono già  fra  città  e  città,  fra  rione  e  rione,  fra  parrocchia  e  parroc- 
chia. Nel  medio  evo  non  si  sarebbe  concepito  come  Genova  non  do- 
vesse rallegrarsi  della  sconfìtta  di  Venezia  o  di  Pisa. 

È  dunque  una  ascesa  evidente  da  cerchi  di  rapporti  ad  altri  sem- 
pre più  vasti,  sinché  si  avveri  l'ideale  simboleggiato  neWunum  ovile 
et  unus  pastor.  L'unità  del  genere  imiano,  intravveduta  come  una 
astrazione  dai  filosofi  antichi,  specie  dagli  stoici,  adombrata  nella 
concezione  religiosa  della  repubblica  cristiana,  deve  tradursi  in  ef- 
fetto con  la  conquista  veramente  civile  ed  umana  della  civUos  gen- 
tiwm;  e  questa  ha  da  essere  fatto  compiuto,  non  più  semplice  aspira- 
zione o  presupposto  filosofico  e  religioso  da  catalogare  a  pari  della 
pietra  filosofale  o  dell'elisir  di  vita  perpetua. 

Attraverso  l'immane  conflitto,  che  arse  non  più  fra  Stato  e  Stato 
ma  fra  larghi  gruppi  di  Stati,  si  è  andata  elaborando  {ad  anglista  per 
angusta)  la  Società  delle  Nazioni,  sebbene  rimanga  ancora  un  desi- 
derio l'invito  del  vecchio  re  Latino  che  Giangiacomo  poneva  in  fronte 
al  Contratto  sociale: 

foederis  aequas 
DicaTMU  leges. 

Quello  che  era  dettame  di  pensatori  va  diventando  realtà  di  con- 
quista civile.  È  l'Antropoli,  già  parsa  utopia  inaccessibile.  Si  aprono 
le  porte  della  città  terrena  alle  genti  a  lungo  peregrinanti  affaticate  e 
nella  ricerca  affannosa  deviate  spesso  dietro  l'ombra  vana  di  misti- 
che Gerusalemmi. 

Così  nella  Società  delle  Nazioni  sotto  gli  auspici  della  democra 
zia  nord -americana  e  nella  invocazione  di  Giuseppe  Mazzini,  prende 
forme  concrete  il  concetto  di  quel  regime  universale,  intomo  a  cui 
l'Alighieri  sillogizzava  nel  suo  rude  latino  del  De  Monarchia,  il  libro 
che  parve  spregevole  ai  Balbo  e  ai  Cantù  e  donde  al  genio  del  Maz- 
zini nostro  balenava  la  prima  favilla  della  sua  repubblica  universale. 
Ai  precursori,  ai  profeti  euccedono  gld  apostoli  armati  dell'idea, 
quanto  più  questa  si  appressi  alla  realtà.  La  città  del  Sole  che  To- 
maso Campanella  faceva  scoprire  da  un  capitano  genovese,  l'isola 


CARLO  CATTANEO  E  LA  SOCIETÀ  DELLE  NAZIONI         279 

d'Utopia  di  Tomaso  Moro  emergono  dal  mare  evanescente  del  sogno, 
ora  che  alle  lingue,  giusta  l'espressione  del  frate  calabrese,  succe- 
dono le  spade,  caoè  al  pensiero  l'azione. 

Ma  le  spade  debbono  gratitudine  alle  lingue.  L'umanità,  rien- 
trando nel  suo  retaggio,  deve  innanzi  tutto  mostrarsi  riconoscente. 
Prima  che  l'universale  trovi,  come  suole,  semplice  logico  naturale 
necessario  il  fatto  compiuto,  giusto  è  ricordare  quelli  che  con  le  loro 
intuizioni  e  i  loro  insegnamenti  resero  possibile  l'opera  grande,  crea- 
rono questa  coscienza  generale,  questo  comune  desiderio.  Sono  i  pre- 
cursori che  sforzarono  il  destino  e  abbatterono  le  porte  del  tempo  con 
la  loro  meditazione  audace  e  la  parola  sicura.  Ad  essi  principalmente 
è  dovuto  il  viver  di  cittadini  che,  sia  pure  attraverso  sacrifizi  e  dif- 
ficoltà, noi  vivremo  o  i  nostri  figli  vivranno  e  godranno  più  riposato 
e  più  bello. 

È  dal  nuovo  e  libero  mondo  scoperto  dal  ligure  ardito,  dall'Ame- 
rica del  Franklin  e  del  Washington  che  venne  alla  Francia  e  all'Eu- 
ropa la  scintilla  e  l'esempio  della  rivoluzione  del  secolo  decimottavo 
onde  fu  mutata  la  faccia  del  mondo.  L'America,  che  è  ancora  la 
terra  del  Washington  e  del  Franklin,  comunque  siano  fallite  le  spe- 
ranze collocate  nel  Wilson,  restituì  ora  moltiplicato  l'aiuto  recatole 
un  secolo  e  mezzo  prima  dai  volontari  seguaci  del  marchese  di 
La  Fayette.  Ma  il  La  Fayette  e  la  stessa  rivoluzione  francese  sono 
i  figli  di  Giangiacomo  Rousseau  e  dell'Enciclopedia.  La  filosofia  del 
secolo  decimottavo,  che  Carlo  Cattaneo  non  si  stanca  di  celebrare 
sublime  benefica  redentrice,  è  a  sua  volta  la  derivazione  e  il  com- 
pendio dei  filosofemi  di  tutti  i  novatori  precedenti,  risalendo  al  no- 
stro rinascimento  e  alle  derise  utopie  del  Campanella  e  del  Moro. 

Ma  la  Città  del  sole,  dove  i  Solani  non  duellano  e  non  portano 
odio  ad  alcuna  gente,  e  l'Isola  d'Utopia,  dove  non  sono  eserciti  ma 
tutto  il  popolo  sa  adoperare  armi  e  detesta  la  guerra,  fluttuano  nelle 
nubi  del  sogno.  È  l'abate  di  Saint-Pierre  che  nel  1713  cercò  di  for- 
molare  il  disegno  d'una  federazione  di  tutti  gli  Stati,  come  sola 
garanzia  della  pace  perpetua.  Sventurata  filantropia  dell'accademico 
progettista!  Invano  egli  fu  così  fecondo  e  prolisso  scrittore.  Non  gli 
valse  porre  il  suo  progetto  sotto  gli  auspici  di  principi  e  re,  comin- 
ciando dalla  memoria  di  Enrico  IV;  non  lo  stenderlo  in  più  volumi 
né  il  compendiarlo  in  un  volumetto  tascabile;  non  il  recarsi  a  Utrecht 
per  farlo  accettare  alla  conferenza  ivi  raccolta.  Popolarissimo  nel- 
l'età che  fu  sua,  doveva  poi  rimanersi  conosciuto  così  poco  agli  stessi 
dotti  come  se  avesse  scritto  VAugustinus  o  il  De  tribus  impostoribus; 
tantoché  illustri  professori  di  diritto  delle  nostre  Università  confusero 
lui  abate  Carlo  Ireneo  Castel  de  Saint-Pierre  che  apre  il  secolo  deci- 
motta vo  (1657-1743)  con  l'anima  mite  di  Giacomo  Enrico  Bernardino 
de  Saint-Pierre  che  lo  chiude  (1737-1814).  E  non  mi  maraviglia  che 
anche  in  questo  errore  cadesse  la  scienza  troppo  multiforme  di  En- 
rico Ferri;  mi  maraviglio  di  Lodovico  Casanova,  che  in  questo 
ateneo  professava  le  civili  dottrine  intomo  ai  diritti  delle  nazioni 
nello  stesso  tempo  in  cui  il  Mancini  illustrava  la  cattedra  di  diritto 
intemazionale  a  Torino;  mi  maraviglio  di  Emilio  Brusa,  di  Achille 
Loria. 

L'eredità  dell'abate  di  Saint-Pierre  fu  raccolta  da  Emanuele 
Kant.  Questo  cittadino  dell'umanità  futura  (non  oso  dire  tedesco  il 


280  CARLO  CATTANEO  E   LA   SOCIETÀ   DELLE  NAZIONI 

figlio  di  un'antica  terra  lituana,  tanto  si  solleva  su  tutta  la  tede- 
scheria passata  e  presente)  dettò  nella  forma  e  nello  stile  dei  proto- 
colli diplomatici,  già  piaciuti  all'abate,  un  suo  disegno  di  conven- 
zione della  pace  perpetua.  Egli  vi  apponeva  una  condizione  neces- 
saria, la  federazione  repubblicana  fra  le  nazioni.  Diciamolo  aperta- 
mente. Il  Casanova  al  suo  tempo  doveva  attenuare  e  dire  «  federa- 
zione democratica». 

Ma  dove  la  concezione  della  Società  delle  Nazioni,  uscendo  dalle 
ambagi  e  dalle  incertezze,  acquista  precisa  determinazione  di  con- 
tomi e  il  massimo  di  forza  per  larghezza  di  vedute,  profondità  di 
convinzione,  splendore  di  eloquenza  nella  esposizione;  dove  sopra- 
tutto l'idea  diventa  azione  con  insistenza  e  ampiezza  di  propaganda 
è  in  Giuseppe  Mazzini  e  in  Carlo  Cattaneo.  In  questi  due  nostri  mas- 
simi il  pensiero  fa  equazione  col  fatto,  come  quello  che  non  è  mera  vi- 
sione iperuranica  ma  rampolla  dalla  considerazione  positiva  delle 
esigenze  della  società  contemporanea  in  relazione  al  moto  infaticato 
del  progresso.  'La  società  delle  nazioni  (non  è  più  un  progetto, 
una  elucubrazione  di  solitario;  è  un  apostolato.  Il  pensatore  esce  dal 
silenzio  del  suo  studio,  e  dominato,  afferrato  esso  stesso  dall'idea, 
getta  l'idea  fra  le  turbe  come  face  ardente  ad  infiammarle.  Ne  fa 
la  ragione  stessa  della  propria  esistenza,  votato  a  quella  come  a  una 
missione,  obbedendo  a  un  imperativo  categorico  del  proprio  spirito, 
eco  e  riflesso  della  coscienza  generale  che  si  va  maturando.  Non  è 
più  il  progettista,  è  il  profeta. 

Non  parlerò  del  Mazzini.  Ne  parlano  tanto  gli  altri.  E  dehl 
almeno  valesse  a  temperare  gli  ormai  soverchi  ardori  dei  neomaz- 
ziniani la  considerazione  che  si  falsa  il  Mazzini  stroncandone  dei 
brani  ad  opportunità  di  causa,  mentre  è,  come  egli  dice  di  Dante, 
una  tremenda  unità,  e  il  suo  programma  internazionale  inscindibil- 
mente si  congiunge  al  suo  credo  politico  e  religioso.  Comunque  è 
consolante  che  finalmente,  dopo  mezzo  secolo  dalla  sua  morte,  co- 
mincia a  non  essere  più  esule  in  patria. 

«  L'ombra  sua  toma  ch'era  dipartita  ». 

Ma  l'occasione  della  conflagrazione  non  più  veduta  e  non  bene 
spenta  ancora,  che  accomunando  i  destini  dei  popoli  più  lontani  fu 
una  spinta  possente  verso  la  effettiva  unità  dello  uman  genere,  ri- 
chiama un  altro  grande  a  cui  l'Italia  nuova  dev'essere  obbligata 
come  a  uno  dei  suoi  maggiori  profeti,  tenuto  sinora  in  bando  dal 
mondo  ufficiale.  Gli  danno  diritto  ad  essere  riconosciuto  e  accolto 
trionfalmente  dalla  scienza  ufficiale  (se  voglia  questa  davvero  gettare 
lungi  da  sé  il  giogo  teutonico)  l'altezza  originale  della  mente,  la 
vastità  enciclopedica  degli  studi,  la  novità  delle  indagini  pur  in  ar- 
monia non  interrotta  con  la  tradizione  italiana,  la  veste  perfetta- 
mente superbamente  italiana  in  cui  presenta  nitido  scintillante  il 
suo  pensiero.  È  giusto  che  noi  rivendichiamo  dalla  ingratitudine 
di  Stato  la  grande  ombra  del  maggior  discepolo  di  Giandomenico 
Romagnosi,  la  pupilla  degli  occhi  suoi  (come  il  Romagnosi  stesso 
chiamavalo),  l'ombra  del  grande  che  fu  l'anima  delle  cinque  gior- 
nate della  sua  Milano  e  riassunse  il  suo  pensiero  e  la  sua  fede  nella 
impresa  «  Stati  uniti  d'Europa  »,  oggi  che  il  concetto  d'una  unione 
degli  Stati  del  mondo  civile,  uscita  dalla  nuvola  dell'utopia,  s'im- 


CARLO  CATTANEO  E  LA  SOCIETÀ  DELLE  NAZIONI         281 

pone  con  la  eloquenza  dell'antico  che  chi  negava  il  moto  confutava 
movendosi. 

Gioverà  lo  studio  delle  pagine  del  grande  poligrafo  milanese, 
dove  per  entro  lo  stile  terso  grecamente  italiano  brilla  puro  il  pen- 
siero positivo  di  questo  scrittore  che  ha  tratti  e  movenze  d'un  savio 
della  rinascenza,  geometra  e  poeta  nello  stesso  tempo,  di  questo  cer- 
vello figliato  direttamente,  per  la  sua  lucida  comprensività,  da  Leo- 
nardo e  da  Machiavelli,  gioverà  a  temperare  il  misticismo  di  Giu- 
seppe Mazzini  (è  un  mazziniano  che  parla),  a  far  sì  che  il  realismo 
non  ceda  mai  al  nominalismo. 

Mentre  Giuseppe  Mazzini,  estendendo  il  concetto  della  sua  Gio- 
vine Italia,  lo  completava  e  integrava  con  la  Giovine  Europa,  primo 
nucleo,  rappresentato  da  pochi  esuli,  della  futura  cdleanza  dei  popoli 
audacemente  contrapposta  alla  Santa  Alleanza  dei  despoti,  Carlo 
Cattaneo  maturava  non  dissimile  concetto  che  doveva  concretare 
nella  formola  «  Stati  Uniti  d'Europa».  Formola  felicissima,  che  ina- 
nellava il  nuovo  programma  della  Democrazia  Europea  alla  sua  tra- 
dizione e  alle  sue  origini,  cioè  alla  dichiarazione  d'indipendenza  e 
alla  Costituzione  degli  Stati  Uniti  d'America,  dichiarazione  e  costi- 
tuzione le  quali  furono  incitamento  e  modello  alla  Dichiarazione  dei 
diritti  dell'uomo  e  alla  rivoluzione  francese. 

Carlo  Cattaneo  era  immerso  nei  suoi  studi  rivolti  ad  abbracciare- 
il  vasto  giro  delle  scienze,  quando  lo  sorprese  la  rivoluzione  del  1848. 
Fu  d'un  balzo  alla  testa  di  essa,  e  lo  statista,  l'uomo  d'azione  riesci,, 
come  pochi,  pari  al  pensatore.  Nella  grande  crisi  di  quell'anno 
e  nelle  disillusioni  che  ne  seguirono  ebbe  ritemprato  e  nitido  il  con- 
cetto informatore  dell'avvenire.  Ritrattosi  a  Parigi,  dove  U  Gioberti 
meditava  il  Rinnovamento,  nel  settembre  stesso  di  quell'anno  dettava 
in  francese,  indi  in  italiano  il  libro  sull'Insurrezione,  dove  l'elo- 
quenza storica  e  politica  rivaleggia  con  quella  del  pensatore  e  sta- 
tista piemontese,  ma  dove  il  pensiero  lucido  e  reso  in  semplice  e 
rapida  evidenza,  la  dirittura  inflessibile  della  mente,  il  giudizio 
austero  e  sicuro  non  hanno  altro  paragone  che  Tacito  e  Machiavelli, 
e  si  sollevano  sulla  prolissità  ridondante  e  licenziosa  del  Gioberti 
nella  quale  talora  non  le  sole  forme  ricomi>ariscono  ma  altresì  gli 
spiriti  del  Bartoli  e  del  Bembo. 

In  quel   suo  capolavoro  Carlo  Cattaneo  asseriva: 

«  La  servitiì  d'Italia  è  patto  europeo;  l'Italia  non  può  esser  libera 
che  in  seno  a  una  libera  Europa».  E  concludeva  il  libro  con  l'epi- 
fonema  divinatore  di  cui  oggi  vediamo  e  sentiamo  tutta  la  verità: 
«Avremo  pace  vera  quando  avremo  gli  Stati  Uniti  d'Europa». 

Il  Mazzini  nel  1871,  discutendo  coi  comunisti,  rivendicava,  com- 
piacendosene, al  Cattaneo,  questo  concetto  dell'intemazionale  solida- 
rietà di  tutti  i  popoli,  stretti  con  altro  nodo  che  con  quello  dell'im- 
perialismo, «  non  colla  unità  materiale  del  dominio,  ma  col  prin- 
cipio morale  dell'eguaglianza  e  della  libertà  »,  e  ricordava  l'epilogo 
profetico  di  quel  libro,  che  rimase  singolare  e  appartato,  non  accolto 
dai  Le  Mounier  e  dal  Barbèra  nelle  edizioni  loro  degli  scritti  del  Cat- 
taneo, tanto  siamo  ancora  lungi  da  quella  rara  temporum  felicitate, 
vantata  da  Tacito,  ubi  sentire  quae  velis  et  quae  sentias  dicere  licet. 

Ormai  contemplava  come  fine  non  lontano  e  degno  d'essere 
proseguito  con   instancabile  propaganda  quella  Federazione   delle 

19  Voi.  OOXVn.  «erie  VI  —  1*  aprii*.  1922. 


289  '  CARLO  CATTANEO  E   LA    SOOETÀ  DELLE   NAZIONI 

nazioni  che  pareva  riserbare  «  ai  remoti  secoli  »,  nel  1843,  quando 
confutava  i  sofismi  dell  economia  nazionale  di  Federico  List.  Egli 
aveva  detto  :  «  L'oceano  è  agitato  e  vorticoso;  le  correnti  vanno  a  due 
capi:  o  l'autocrata,  o  gli  Stati  uniti  d'Europa».  Ora  sollevava  ardi- 
tamente la  bandiera  degli  Stati  Uniti  europei  appena  chiusa  la  guerra 
regia  ded  1848. 

È  naturale  che  avendo  il  moto  rivoluzionario  della  metà  del  se- 
colo scorso  fatto  capo  al  cesarismo  dapprima  napoleonico,  dal  Catta- 
neo tanto  avversato,  poi  tedesco,  la  figura  del  nostro  innovatore  ri- 
manesse oscurata  e  dimenticata;  come  è  giusto  che  sia  tratta  in  piena 
luce  oggi  che  si  comincia  a  riconoscere  quanto  egli  avesse  ragione. 
L'impreparazione  delle  moltitudini  ineducate  permise  prevalesse 
quanto  delle  istituzioni  medievali  era  sopravvissuto  alla  rivoluzione 
francese;  donde  la  Triplice  Alleanza,  proclamata  dal  suo  autore,  il 
Bismarck,  tutela  delle  dinastie  e  dell'ordine,  cioè  della  plutocrazia 
e  dell'elemento  conservatore.  Con  che  invece  della  federazione  degli 
Stati  e  della  fratellanza  dei  popoli,  si  ebbero  le  rivalità  tra  i  mag- 
giori Stati,  il  disconoscimento  delle  nazionalità  minori,  la  politica 
coloniale. 

Così  la  politica  delle  Corti  e  della  vieta  diplomazia,  cui  aderiva 
l'Italia  a  ritroso  dell'indirizzo  a  lei  predicato  dal  Gioberti,  nonché 
dal  Mazzini,  dal  Garibaldi,  dal  Cattaneo,  costituiva  una  vera  rea- 
zione velata  dalla  facilità  e  frivolezza  della  vita.  Ma  le  cose,  secondo 
la  degnità  del  Vico,  fuori  del  loro  stato  naturale,  né  vi  si  adagiano 
né  vi  durano,  ed  anche  nel  campo  internazionale  è  destinato  a  trion- 
fare quel  principio  d'unità  federale  che  ha  prevalso  nelle  scienze  bio- 
logiche e  nelle  scienze  morali.  Tutto  in  tutto,  diceva  Anassagora. 
Tale  invero  è  la  concezione  che  il  genio  di  Cattaneo  ebbe  della  scienza 
e  della  politica.  La  federazione  era  per  lui  un  principio  sul  quale 
poggia  il  móndo  dell'essere  e  quello  del  conoscere,  la  scienza  della 
storia  e  della  società;  principio  a  cui  Gabriele  Rosa,  altro  intelletto 
nostro  da  trarre  dall'oblìo,  dava,  concertato  a  quello  della  alterna 
rotazione,  le  più  estese  applicazioni.  Tutto  è  armonico  nel  Cattaneo. 
Il  suo  federalismo  nel  campo  del  sapere  fa  riscontro  al  suo  federa- 
lismo nell'ordinamento  della  nazione  e  delle  nazioni  fra  loro. 

Sotto  il  vigile  occhio  dell'Austria,  sin  dal  1840,  nella  prefazione 
al  secondo  volume  del  Politecnico  invocava  la  «  grande  associazione 
scientifica  dell'Europa  e  del  mondo,  perché  gli  interessi  della  civiltà 
sono  solidari  e  comuni,  perché  la  scienza  é  una,  l'arte  è  una,  la  glo- 
ria è  una».  Ma  dalla  «e  nazione  degli  uomini  studiosi»  che  «é  una 
sola»,  dalla  «  nazione  dell'intelligenza  che  abita  tutti  i  climi  e  parla 
tutte  le  lingue  »  prorompeva  facilmente  l'aspirazione  a  «  l'unione 
fraterna  di  tutti  i  popoli  europei,  nel  semplice  grido  del  cittadino 
e  del  filosofo:  Libertà  e  verità  ». 

Pel  Cattaneo  la  scienza  non  era  fiaccola  che  arde  e  non  scalda; 
il  sapere  doveva,  secondo  la  tradizione  nostra  italiana,  operativa  ri- 
salente a  Pitagora,  tradursi  in  civili  ordinamenti.  «  Giustizia  e  li- 
bertà ad  ogni  nazione  —  così  ei  ripigliava  nel  1861  —  ad  ogni  po- 
polo e  ad  ogni  famiglia,  padrone  ognuno  in  casa  sua;  e  tutti  fratelli 
e  ospiti  e  amici  in  tutte  le  parti  della  terra  ». 

Ma  già  nel  1835  (mentre  il  Mazzini  diffondeva  la  Giovine  Eu- 
ropa) il  Cattaneo  scriveva  quel   mirabile  saggio   sulle   Interdizioni 


CARLO  CATTANEO  E  LA  SOCIETÀ  DELLE  NAZIONI         283 

israelitiche,  dove  le  ricerche  economiche  circa  le  restrizioni  legali  im- 
poste agli  Ebrei  sono  condotte  con  sguardo  aquilino  che  contempla 
dall'alto  le  leggi  dell'umano  progresso.  Tutto  il  penultimo  paragrafo 
mostra  le  nazioni  procedere  dalla  dissoluzione  feudale  e  medievale 
verso  una  superiore  armonia  ed  unità,  e  celebra  ed  auspica  l'ultimo 
©  più  difficile  trionfo  della  progressiva  universa  equità  sociale.  «  Le 
più  grandi  nazioni  —  hanno  del  profetico  queste  parole  —  si  vanno 
disingannando  dai  sanguinosi  delirii  della  conquista  e  dell'univer- 
sale dominio  della  terra  e  del  mare.  I  popoli  più  ambiziosi  e  più  ar- 
migeri si  troveranno  divenuti  in  breve  tempo  i  più  poveri,  i  più 
ignoranti,  i  più  inoperosi,  i  più  deboli.  Le  nazioni  più  modeste  e 
tranquille,  più  contente  del  proprio,  più  aliene  dalla  turbolenza  di- 
plomatica e  militare,  si  troveranno  le  più  illuminate,  industri,  rioche, 
concordi  e  operose  » , 

E  prima  ancora,  nel  1833,  studiando  le  tariffe  daziarie  negli  Stati 
Uniti  d'America  ne  traeva  intuizioni  geniali.  Se  il  Mazzini  nel  1865 
prevedeva  la  missione  odierna  serbata  agli  Stati  Uniti  in  Europa, 
considerando  il  Cattaneo,  nel  detto  studio  del  1833,  come  l'ameri- 
cano, lungi  dall'essere  un  popolo  nuovo,  risultasse  di  vecchie  razze 
europee,  spesse  volte  rifiuto  e  scolo  dell'Europa,  persino  di  sfuggiti 
alla  giustizia  ed  alcuni  dalla  giustizia  stessa  deportati,  rilevò  la 
bontà  delle  istituzioni.  E  concluse  che  è  il  vincolo  federativo  «solo 
che  forma  di  loro  una  nazione  possente  ©  temuta,  invece  d'una  greg- 
gia di  piccole  colonie  sbrancate,  invidiose,  nemiche,  costrette  a  vi- 
vere coll'armi  alla  mano  perpetuamente,  come  gli  Europei,  e  a  liti- 
gare ad  ogni  istante  per  qualche  spanna  di  selvaggia  frontiera  a 
guisa  dei  barbari  aborigeni  ».  E  molti  anni  prima  della  Capanna 
dello  zio  Tom,  maledicendo  alla  schiavitù  dei  negri,  esclamava: 
«  Chi  ha  in  cuore  un  senso  di  giustizia  e  d'umanità,  deve  sentirsi 
quasi  tentato  ad  invocar  l'orribile  ma  passeggiero  flagello  della 
guerra,  se  si  può  sperare  che  tolga  finalmente  questa  infamia  del 
mercato  degli  uomini  ». 

Così  giustificava  la  guerra  emancipatrice  e  confidava  nelle  isti- 
tuzioni della  repubblica  delle  stelle  quando  il  Gioberti  teocratica- 
mente, stante  la  piaga  della  servitù,  la  giudicava  insanabile. 

Qui  certamente  il  nostro  cominciava  ad  ammirare  la  forma  fe- 
derativa, «per  la  propria  virtù  che  la  sublima»,  che  gli  farà  quin- 
dici anni  dopo  invocare  gli  Stati  Uniti  europei. 

Il  Carducci,  grande  estimatore  del  Cattaneo,  mise  in  fronte  alla 
sua  ode  La  guerra,  ad  avvalorarne  il  concetto,  una  sentenza  di  lui  che 
mentre  afferma  il  perpetuarsi  della  guerra  nel  mondo,  fa  procedere 
dalle  sue  stesse  conseguenze  il  diritto  delle  genti,  la  società  del  ge- 
nere umano;  e  bastava  voltare  la  pagina  per  trovarvi  dedotta  la  legge 
storica  che  «  spinge  le  genti  verso  una  sola  e  universale  associazione, 
che  è  l'attuazione  del  diritto  universale  » . 

Come  accennammo,  la  dottrina  del  Cattaneo  della  federazione 
delle  nazioni  non  è  isolata,  essa  si  connette  perfettamente  con  tutto 
il  suo  pensiero,  non  è  che  un  corollario  del  suo  sistema  politico  e  so- 
ciale, dal  quale  germina  come  frutto  da  seme.  L'idea  federale  del 
Cattaneo  merita  d'essere  illustrata  e  proposta  ad  esempio  nelle  nostre 
Università,  se  devono  avere  scosso  davvero  il  giogo  tedesco.  Non  dob- 
biamo permettere  che  sia  oscurata  presso  di  noi  la  tradizione  verace 


284  CARLO  CATTANEO  E   LA   SOaETÀ   DELLE   NAZIONI 

della  romanità,  tanto  meno  che  altri  venga  dalle  terre  iperboree  ad 
insegnarcela  o  rammentarcela;  né  possiamo  chiedere  le  forme  della 
libertà  o  il  segreto  per  riformare  lo  Stato  e  la  Società  agli  Slavi,  la 
cui  vita,  come  dice  il  nostro,  il  cui  nome  stesso  è  schiavitù.  Giosuè 
Carducci,  nudrito  del  pensiero  di  Carlo  Cattaneo,  nel  discorso  su  Lo 
studio  di  Bologna,  così  si  domandava  :  «  Oggi  che  l'Italia,  per  virtù 
del  suo  lungo  martirio,  ha  inaugurato  l'età  nuova  degli  stati  nazio- 
nali, perchè  non  potrebbe  chiamar  quest'età  a  ricevere  ne'  nuovi 
ideali  politici,  dei  quali  irrequietamente  ella  va  in  traccia,  quanto 
del  diritto  pubblico  romano  non  fu  di  despotismo  imperiale?...  Per- 
chè da  quella  Roma  che  seppe  così  gloriosamente  riunire  le  genti 
non  potrebbe  l'Italia  dedurre  ancora  i  principi  che  informino  e  reg- 
gano ancora  le  nuove  nazioni  e  la  loro  federazione  spontanea?». 

Il  ligure  ardito  e  il  gran  lombardo,  quello  rispecchiando  nella 
democrazia  italiana  del  secolo  scorso  l'atteggiamento  romantico  e 
idealista,  questo  il  classico  e  positivo,  furono  veggenti  entrambi. 
Entrambi,  col  privilegio  del  genio,  innalzarono  l'occhio  delle  menti 
loro  vasto  e  profondo  alla  visione  della  futura  umanità.  Ciascuno  di 
essi  poteva  dire  quello  che  Schiller,  da  entrambi  studiato,  poneva 
in  bocca  al  marchese  di  Posa: 

Immatura  è  l'età  per  l'ideale 

De'  miei  pensieri.  Cittadino  io  vivo 

Tra  color  che  verranno. 

Se  non  questa  che  viviamo,  quella  che  i  figli  nostri  vivranno,  si 
va  disegnando  l'età  da  loro  divinata.  La  costruzione  ideale  non  era 
un  fantasma  od  un  sogno  che  l'anima  attinge  in  sé  stessa  e  solo  di 
sé  stessa  nudrisce.  Era  l'ideale  che  si  sprigiona  dalle  cose,  il  presen- 
timento legittimo  della  realtà.  La  Società  delle  Nazioni  non  è  più 
utopia. 

Riscontro  prezioso  della  verità.  Ad  uno  stesso  vero  giunse  il 
Mazzini  dalla  concezione  trascendente  di  «  Quei  che  è  padre  di  tutte 
1©  genti  »;  donde  l'eguaglianza  e  la  fratellanza  delle  genti  stesse;  con- 
cezione non  campata  in  aria  e  non  mistica  puramente,  che  gli  era 
stata  suggerita  dallo  studio  della  storia  dell'umanità  nelle  sue  pro- 
gressive manifestazioni.  Allo  stesso  concetto  giungeva  il  Cattaneo 
dalla  comprensione  positiva  delle  scienze,  l'insieme  delle  quali,  men- 
tre già  si  andavano  svolgendo  prodigiosamente,  cercò  di  seguire  con 
vedute  pratiche  nel  suo  Politecnico,  solo  dolendosi  di  non  potere  or- 
mai più  abbracciare  un  tale  movimento  sempre  più  rapido  sempre 
più  ampio.  Così  la  deduzione  e  l'induzione,  la  sintesi  e  l'analisi  ap- 
prodarono allo  stesso  risultato,  a  questa  Lega  delle  Nazioni,  che  se- 
gnata pallidamente,  embrionalmente  nel  trattato  di  Versaglia  del  16 
giugno  1919,  rompe  i  veli  dell'utopia  e  si  manifesta  come  una  pode- 
rosa realtà  che  s'avanza.  Patuit  dea. 

Né  ci  irriti  o  ci  offenda,  siaci  anzi  argomento  di  soddisfazione  e 
di  compiacenza  se  alla  nuova  ara  si  inchinano  e  rendono  omaggio 
molti  che  sino  a  ieri  si  prostravano  dinanzi  agli  altari  della  cultura 
tedesca  e  non  sapevano  immaginare  scienza  qualsiasi,  speculativa  o 
pratica,  che  non  uscisse  dalla  Selva  Ercinia,  secondanti  i  governi  che 
ci  avevano  legati  al  carro  di  Arminio  trionfante.  Sorridiamo"  e  com- 


CARLO  CATTANEO  E  LA  SOCIETÀ  DELLE  NAZIONI         285 

patiamo.  Non  si  deve  volere  la  morte  del  peccatore,  ma  che  si  con- 
verta e  viva. 

D'altronde  già  la  volpe  della  favola  avvertiva  che  non  ogni  uomo 
che  sa  lettere  è  savio.  I  barbassori  della  Dieta  di  Roncaglia  riconob- 
bero dinanzi  a  Federigo  i  diritti  dell'impero  sulle  comuni  libertà, 
non  meno  degli  scienziati  di  Francia  dinanzi  a  Napoleone.  Già  esi- 
tando Luigi  XIV,  ad  onta  del  suo  motto  Vétat  c'est  moi,  a  adottare 
l'imposta  del  decimo  su  tutti  i  beni  privati,  il  padre  Le  Tellier,  suo 
confessore,  gli  tolse  ogni  scrupolo,  se  dobbiamo  credere  alle  memo- 
rie del  Saint-Simon,  procurandogli  un  consulto  dei  più  abili  dottori 
della  Sorbona  i  quali  decisero  apertamente  che  tutti  i  beni  de'  suoi 
s(^getti  erano  propri  di  lui  e  che  quando  li  prendeva  non  pigliava 
se  non  ciò  che  gli  apparteneva. 

La  Società  delle  Nazioni,  che  comprenderà  domani,  coi  vinci- 
tori, tutti  i  vinti,  è  il  messaggio  che  gli  Italiani  già  intesero  dal  Maz- 
zini e  dal  Cattaneo,  il  «regno  dell'uomo»,  preconizzato  da  Bacone, 
e  che  è  la  sola  e  vera  città  di  Dio.  Ck)me  nelle  milizie  permanenti  ve- 
deva l'Alfieri  il  maggiore  ostacolo  alla  libertà,  così  vi  vedeva  il  no- 
stro uno  dei  principali  ostacoli  all'effettuazione  degli  Stati  Uniti  Eu- 
ropei. Egli  sosteneva  che  gli  eserciti  permanenti,  non  solo  impoveri- 
scono le  nazioni,  ma  sono  strumento  di  assolutismo  all'interno,  fo- 
mite di  guerra  all'estero:  ond'egli  vagheggiava  la  nazione  armata, 
che  fa  tutti  militi  e  nessun  soldato.  Questa  guerra  ha  giustificato, 
col  grande  astigiano,  il  grande  milanese,  questa  guerra,  che  ha  di- 
mostrato che  le  milizie  stanziali  sono  il  presidio  dell'autocrazia  e 
dell'imperialismo,  senza  essere  garanzia  di  vittoria,  la  quale  può  ar- 
ridere ai  popoli  che  non  conoscono  coscrizione  e  caserma. 

Sì,  è  la  costituzione  degli  Stati  Uniti  d'America,  ammirata  dal 
Gladstone  quale  capolavoro  del  genere  umano,  che  si  propone  a  mo- 
dello al  genere  umano.  Non  temete  possa  prevalere  la  barbarie  russa. 
L'av\'-enire  serba  i  suoi  trionfi  alla  concezione  del  Cattaneo,  verifi- 
candosi quella  legge  del  moto  storico  uniformemente  accelerato  che 
egli  divinò  ed  illustrò.  Scriveva  invero  nel  1856  :  «  Numeriamo  tran- 
quillamente in  paragone  ai  secoli  i  pochi  anni  che  corsero  dal  tra- 
gitto di  Lafayette,  quando  approdò  all'Europa  il  germe  d'una  libertà 
ignota  al  tempo  antico,  d'una  libertà  eguale  per  tutti,  e  congiunta  ad 
una  infinita  aspirazione  di  progresso,  ad  im  infinita  fiducia  dell'av- 
venire, una  libertà  che  non  guarda  indietro  come  quella  delli  Spar- 
tani, né  pensa  solo  a  morire  come  quella  di  Catone,  ma  guarda  nel 
futuro  impavida  e  serena,  perchè  vi  aspetta  di  vivere  e  trionfare  ». 
Il  Cattaneo  aveva  ragione.  Noi  siamo  alla  vigilia,  a  malgrado  d'c^ni 
travaglio  della  crisi  di  trapasso,  di  quella  vita  e  di  quel  trionfo;  è 
sotto  l'esempio  dei  più  liberi  popoli  del  mondo  che,  come  il  Cattaneo 
prevedeva,  si  svolgono  nuove  idee  e  si  preordina  un  nuovo  mondo 
civile. 

Sposare  gli  intenti  della  scienza  a  quelli  della  vita  civile  fu  la 
mira  suprema  del  Cattaneo  nei  rapporti  nazionali  e  intemazionali 
«  La  filosofia  —  scriveva  nel  1861  —  è  il  pensiero  dell'umanità;  la 
filosofìa  è  nella  politica  comune  del  genere  umano  ciò  che  il  pen- 
siero è  all'azione.  E  come  a  compiere  le  risoluzioni  della  mente  sono 
necessarie  le  forze  del  corpo,  così  è  necessario  che  la  filosofia  per 
compiere  la  sua  azione,  tragga  a  sé  tutte  le  forze  dell'umanità;  il 


286 


CARLO  CATTANEO   E   LA    SOCIETÀ  DELLE  NAZIONI 


che  non  può  faa^e  se  non  elevando  all'aHezza  sua  il  pensiero  della 
moltitudine.  Lo  scioglimento  delle  contraddizioni  sociali  non  si  può 
conseguire  in  mezzo  alla  scambievole  opposizione  e  all'eterna  op- 
pressione de'  popoli;  esso  vuole  le  loro  eguaglianze,  la  loro  libertà; 
vuole  il  trionfo  del  diritto  in  tutta  l'umanità.  Una  sola  e  medesima 
l^ge  deve  legare  l'uomo  singolo  alla  famiglia,  al  popolo,  alla  na- 
zione, al  genere  umano.  Questo  è  l'ultimo  sviluppo  della  legge  unica 
della  creazione».  «  Solo  la  scienza  —  scriveva  sin  dal  1852  —  può, 
nella  contemplazione  dell'immenso  universo,  assopir  tutte  le  ine, 
disarmar  tutte  le  vendette,  stringere  in  consorzio  fraterno  tutte  le 
genti  ». 

Giova  rinfrescare  questi  eletti  fiori  della  filosofìa  civile  del  Cat- 
taneo, pregni  di  quell'aroma  immarcescibile  del  sapere  che  è  il 
solo  antidoto  contro  i  conati  livellatori  di  un  comunismo  asiatico 
che  seppellirebbe  scienza  e  civiltà. 

Giuseppe  Macaggi. 


TRA  LIBRI  E  RIVISTE 


1  nostri  editori.  La  Casa  editrice  Caddeo  —  Ancora  il  centenario  di  Dante  —  Renato 
Fucini  —  il  tesoro  dei  Nibelungi  —  Pico  della  Mirandola  —  Originali  ed  imitazioni  — 
Giuseppe  Garibaldi  e  la  donna  —  Foscolo  e  Monti  —  Novelle  di  Duhamel  —  Gran  La- 
guna fa  buon  porto  —  Una  vita  di  Lopez  De  Vega  —  Per  i  Bimbi  Balducci. 


I  nostri  Editori. 
La  Casa  editrice  Caddeo. 

Non  si  può  dire,  in  verità,  che  in 
Italia,  specie  dopo  la  guerra,  facciano 
difetto  le  Case  editrici.  Case  per  modo 
di  dire,  che,  bene  spesso,  specialmente 
nelle  piccole  città  di  provincia,  non  è 
raro  il  caso  di  veder  spuntare  una 
Casa  editrice  da  una  modestissima  tipo- 
grafia, o  un  modestissimo  tipografo 
tramutarsi  ipso  facto  in  editore,  con  la 
pubblicazione,  sempre  s'intende  a  spe- 
se dell'autore,  di  un  centinaio  di  pa- 
gine di  novelle  più  o  meno  audaci  e 
insulse,  o,  il  che  accade  più  spesso,  di 
una  raccolta  di  versi,  diciamo  meglio, 
di  parole  in  libertà  di  una  giovine  e 
bella  speranza  della  patria  letteratura. 
E  il  fatto,  in  se  stesso,  anziché  dispia- 
cere, dovrebb'essere  argomento  di  com- 
piacimento :  se  si  stampa,  è  segno  evi- 
dente che  si  legge.  E  se  gli  editori  si 
moltiplicano  a  dispetto  dell'  enorme 
costo  della  mano  d'opera  e  del  prezzo 
favoloso  della  carta,  è  segno  evidente 
anche  questo  che  il  mercato  librario 
fiorisce  e  l'educazione  letteraria  e  scien- 
tifica prospera...  Ma  qui  dobbiamo  fer- 
marci ;  limitiamoci  soltanto  a  chiedere 
se  tutto  quello  che  si  stampa  è  degno 
di  essere  stampato,  e  se  i  divulgatori 
di  libri  sanno  sempre,  o  vogliono  sem 
pre  cernere  il  grano  dal  loglio,  o  non 
piuttosto  speculare  sulla  dabbenaggine, 
e,  perchè  no?,  sulla  morbosa  curiosità 


e  malizia  di  certo  pubblico  e  di  certe 
lettrici...  Tuttavia  editori  degni  della 
loro  professione,  consapevoli  dei  do- 
veri verso  r  educazione  e  la  coltura 
nazionale  e  memori  delle  gloriose  tra- 
dizioni del  passato  librario  non  man- 
cano; e  noi  che  abbiamo  iniziata  nella 
nostra  Rivista  questa  rubrica  per  sug- 
gerimento e  incitamento  di  un  caro 
scomparso,  rubrica  non  di  volgare  re- 
clame ma  di  onesta  segnalazione  delle 
migliori  Case  editoriali,  diremo  di  ognu- 
na via  via  le  origini,  lo  sviluppo,  l'at- 
tività, le  particolari  benemerenze  e  le 
caratteristiche. 

Oggi  è  la  Casa  editrice  di  R.  Cad- 
deo di  Milano  che  attira  la  nostra  at- 
tenzione. 

• 
•  • 

Giovine  la  Casa  editrice  Caddeo  ;  e 
perciò  se  essa  non  ha  ancora  raggiun- 
to quel  grado  di  intensità  produttiva 
che  il  fondatore  vagheggia  e  si  pro- 
pone, è,  peraltro,  sopra  una  via  che  la 
condurrà,  indubbiamente,  alla  mèta  a- 
gognata. 

Ebbe  origini  modestissime  nel  giu- 
gno del  1914,  ma  scopi  e  fini  assai  no- 
bili di  propaganda  nazionale.  Infatti, 
il  primo  volume  edito  ha  per  titolo: 
//  Triestino,  la  Venezia  Giulia  e  la 
Dalmazia  nel  risorgimento  nazionale -, 
autore  un  fiorentino  di  origine  inglese, 
Lancillotto  Thompson.  Respinta  l'opera 
manoscritta  da  tutti  gli  editori  italiani,  è 


288 


TBA    l'IBRI    E    RIVISTE 


questa  una  indiscrezione  che  preghiamo 
perdonarci,  i  quali  avevano  sentenziato 
che  r  irredentismo  era  cosa  oramai 
morta  e  seppellita,  e  che  non  era  pru- 
dente irritare  l'Austria,  nostra  ineflfa- 
bile  amica  e  signora  di  Trento  e  Trie- 
ste!, con  un  piccolo  fondo  di  900  lire 
(allora  i  prezzi  della  stampa  non  erano 
così  favolosi  come  oggi)  raccolto  tra 
amici  e  giornalisti,  fu  compiuto  il  mi- 
racolo ;  e  il  libro  uscì  stampato,  circolò, 
entrò  con  falsa  copertina  a  Trieste,  e 
fece  anche  un  giro  non  inglorioso  in  Ger- 
mania, come  volume  di  novelle  di  An- 
tonio Fogazzaro!  Propagandisti,  Naza- 
rio  Sauro  e  Cesare  Battisti.  La  Casa 
Editrice  "  Risorgimento ,,  (questo  no- 
me le  piacque  di  assumere)  era  fon- 
data. Ma  siffatto  sforzo  di  buon  volere 
di  pochi  sarebbe  riuscito  vano,  se, 
scoppiata  la  guerra,  la  tenacia,  la  fede 
e  l'attività  di  un  uomo  non  avessero 
saputo  energicamente  resistere  all'im- 
peto travolgente  della  immane  crisi  di 
ogni  e  qualsiasi  iniziativa;  se,  poi,  a 
guerra  compiuta,  quell'uomo,  il  Cad- 
deo,  orientando  la  sua  azienda  più 
spiccatamente  verso  la  propaganda  na- 
zionale, non  avesse  saputo  infondere, 
con  l'aumento  anche  del  capitale  so- 
ciale (mezzo  milione)  vigor  nuovo  di 
vita  all'impresa. 

Oggi  la  Casa  Caddeo  può  vantare 
nel  suo  attivo  una  produzione  libraria 
importante  e  caratteristica,  intesa  a  por- 
tare un  valido  contributo  alla  eleva- 
zione della  cultura  nazionale  mediante 
la  ristampa  e  la  traduzione  delle  mi- 
gliori opere  della  letteratura  nostra  e 
straniera;  volta,  con  nobile  sentimento 
di  onestà,  a  bandire  tutta  la  letteratura 
narrativa  scurrile,  pornografica  e  com- 
merciale, e  a  rafforzare  con  pubblica- 
zioni di  storia  del  Risorgimento  e  di 
politica  il  sacro  principio  di  naziona- 
lità negl'Italiani. 

Di  qui  le  varie  e  pregevoli  collezioni 
iniziate  e  da  iniziarsi  :  prima  la  Colle- 
zione Universale,  che  tanto  fervore  di 
assensi  ha  suscitato  tra  noi  :  Poesia, 
Romanzo,  Teatro,  Memorie,  Critica  let- 
teraria e  artistica,  Storia,  Filosofia,  ecc.. 


capolavori  d'ogni  letteratura  e  d'ogni 
secolo,  curati  nei  testi  da  competenti 
studiosi  e  scrittori  e  da  essi  chiariti 
con  sobri  ed  efficaci  commenti.  Seguono: 
la  Collezione  del  Risorgimento,  quella 
Politica  che  si  propone  di  far  cono- 
scere il  pensiero  degli  uomini  più  noti 
della  politica  nostrana. 

S'inizierà,  tra  breve,  una  nuova  col- 
lezione di  scrittori  comici  contempora- 
nei e  un'altra  collezione  di  cui  teniamo 
in  serbo  il  nome,  per  ora,  ma  che  è 
destinata  senza  dubbio  a  colmare  una 
grande  lacuna  nel  campo  delle  scienze. 

Or  ora  è  uscito  un  importante  vo- 
lume del  Battara  sulla  Svizzera  di  ieri, 
che  apre  la  serie  di  studi  sui  paesi 
europei. 

Né  la  Casa  Caddeo  ha  dimenticati  i 
piccoli  lettori.  Il  suo  Almanacco  per  i 
Ragazzi  è  oramai  entrato  nel  pubblico 
piccino  d'Italia,  formandone  la  delizia. 

*  * 
Concludendo,  ci  piace  di  pronosti- 
care non  lontano  il  momento  in  cui 
una  provvidenziale  ventata  di  sani  spi- 
riti editoriali  spazzi  via  finalmente  dal 
nostro  mercato  librario  tutta  la  merce 
avariata  che  lo  contamina  e  che  autori 
poco  scrupolosi  ed  editori  poco  coscien- 
ziosi di  continuo  vi  gettano  con  danno 
evidente  e  non  piccolo  della  morale  e 
della  cultura  nazionale.  Essi  hanno 
sfruttato  e  sfruttano  il  cattivo  gusto 
del  pubblico...,  specialmente  femmini- 
no...,  il   che  è  speculazione   indegna. 

(/•  g)- 
Ancora  11  centenario  di  Dante. 

Un  altro  libro  in  occasione  del  Cen- 
tenario dantesco,  ma  è  il  libro  d'un 
morto  :  Discorsi  su  Dante  di  N.  Tom- 
maseo, a  cura  di  N.  Vaccalluzzo,  G. 
Carabba,  editore.  Lanciano,  1921.  Son 
14  discorsi  sul  secolo,  la  vita,  l'amore 
di  Dante,  le  rime,  la  nobiltà  di  Dante, 
Guelfi  e  Ghibellini,  ecc.;  e  tre  saggi 
critici:  Francesca,  Ulisse  e  Guido  di 
Montefeltro,il  Conte  Ugolino.  I  Discorsi 
furon  pubblicati  dal  Tommaseo  nel 
1865,  nell'occasione  del  Centenario  della 


TRA    LIBRI    E    RIVISTE 


289 


l 


nascita  di  Dante  e  son  ripubblicati  oggi 
opportunamente  nell'occasione  del  VI 
Centenario  della  morte. 

A  onorare  degnamente  il  Poeta,  il 
Tommaseo  non  voleva  letture  accade- 
miche e  sbandieramenti.  «  Qual  verso 
in  quel  dì  suonerà  degno  di  lui?  Quale 
oratore  oserà  le  sue  lodi  ?  Meglio  can- 
tare, valentemente  musicati,  i  versi  suoi 
stessi...  Meglio  invitare  gli  artisti,  che 
facciano  una  mostra  solenne  di  dise- 
gni ».  E  altri  modi  austeri  e  dignitosi 
additava. 

Ma,  a  dire  il  vero,  l' Italia  ha  com- 
memorato con  austera  solennità  la  ri- 
correnza del  VI  Centenario  della  morte 
di  Dante,  a  cui  tra  nuovi  e  vecchi  sono 
stati  dedicati  libri  meritevoli  di  lode. 
Tra'  vecchi,  questi  Discorsi  del  Tom- 
maseo sono  de'  più  originali  e  prege- 
voli per  acume  critico,  gusto  d'arte, 
finezza  d'analisi  e  senso  storico:  quel 
senso  storico  che  rivelò  al  critico  la 
poesia  di  Dante  e  del  suo  secolo  e 
che  il  Vaccalluzzo  mette  in  giusto  ri- 
lievo. Il  Tommaseo  sentì  Dante,  perchè 
dell'esilio  provò  anch' egli  le  grandi 
amarezze  e  «  la  poesia  dantesca,  così 
profondamente  e  dolorosamente  medi- 
tata e  vissuta,  è  sopratutto  poesia  d'e- 
silio, la  più  alta  che  sia  stata  mai 
scritta  da  un  esule...;  e  più  degli  altri 
gli  esuli,  pur  a  distanza  di  luogo  e  di 
tempo,  ne  risentiranno  le  risonanze 
profonde  ». 

Renato  Fucini. 

Il  libro  che  sul  bizzarro  scrittore 
scomparso  ha  pubblicato  teste  Alberto 
Niccolai  per  i  tipi  delle  Arti  Grafiche 
di  Pisa,  non  è  un  libro  di  critica,  seb- 
bene non  vi  manchino  osservazioni , 
sull'arte  del  Fucini;  sia  favorevolissi- 
me, sia  talvolta  attenuatrici  delle  lodi 
comuni.  L'autore,  che  scrisse  quando 
il  Fucini  era  vivo  ancora,  e  a  lui  me- 
desimo ne  diede  a  leggere  gran  parte, 
si  propose  di  raccontarne  la  vita  e  ri- 
cordarne ordinatamente  gli  scritti;  ma 
in  principal  modo  presentarne  la  buo- 
na e  bizzarra  figura.  Nel  che  è  felice- 
mente riuscito;  sebbene  un  più  acuto 


esame  crediamo  che  potrebbe  modifi- 
care alcuna  delle  fattezze  disegnate 
dal  Niccolai  un  po'  tròppo  nella  loro 
esterna  apparenza  e  quasi  cogliendole 
indipendentemente  dall'intima  vita;  la 
quale  nel  Fucini  non  era  forse  tanto 
semplice  quanto  egli  la  stima. 

Ripetiamo  che  nel  complesso  l'au- 
tore è,  ad  ogni  modo,  riuscito  a  quel 
ritratto  che  si  propose.  Le  pagine, 
molto  per  merito  del  Fucini  medesimo  ' 
(di  cui  continuamente  son  riferiti  aned- 
doti, motti,  versi),  ma  anche  per  me- 
rito del  Niccolai,  si  leggono  d'un  fiato, 
piacevolmente  e  utilmente. 

Tra  le  osservazioni  spicciole  che 
abbiamo  fatto  scorrendole,  riferiamo 
questa  sola,  perchè  servirà  anche  a 
far  sorridere  (pag.  41-42).  Il  Fucini 
una  volta,  racconta  il  Niccolai  sulla 
scorta  del  Biagi,  si  trovò  a  sentirsi 
rispondere  da  un  maestro,  che  il  più 
gran  fiume  d'Italia  era  il  Può.  L'aned- 
doto va  completato,  con  grande  van- 
taggio della  lepidezza,  in  questo  modo: 
il  Fucini,  che  era  ispettore  scolastico, 
aveva  fatto  notare  al  maestro  che,  in- 
vece del  toscano  pò,  terza  persona  del 
presente  indicativo  di  potere,  era  bene 
insegnare  ai  ragazzi  l'italiano  può:  a 
codesta  lezioncina  grammaticale  segui- 
rono domande  geografiche;  e  allora  il 
maestro,  temendo  di  sbagliare,  disse: 
—  Non  Po,  ma  Puoi  ve  l'ha  detto 
ora  il  signor  Ispettore! 

II  tesoro  dei  Nibelungi. 

Con  questo  titolo  suggestivo.  Bar- 
bara Allason,  autrice  di  un  pregevole 
libro  su  Carolma  Schlegel  e  di  un  noto 
romanzo:  «  Quando  non  si  sogna  più  », 
presenta  al  pubblico  un  elegante  vo- 
lume edito  dalla  casa  Sonzogno. 

E'  un  tentativo  ben  riuscito  di  divul- 
gazione della  mitologia  germanica. 
Scritto  per  i  giovanetti,  senza  grandi 
pretese  letterarie,  con  uno  stile  spon- 
taneo e  famigliare,  l'autrice  sa  rendere 
interessante  una  materia  di  per  sé  ar- 
dua e  complessa  ;  così  per  alleggerire 
l'esposizione  e  togliere  l'aria  di  un 
manuale  scolastico  l'AUason  ha  ricorso 


290 


TRA   LIBRI  E  RIVISTE 


all'artifìcio  delle  Mille  e  una  notte: 
come  nelle  novelle  arabe,  il  racconto 
si  svolge  in  giornate  :  è  una  mamma 
che  narra  ai  suoi  ragazzi  la  storia 
delle  vecchie  divinità  germaniche.  Ma 
nella  multiforme  fioritura  di  leggende 
l'autrice  ha  saputo  scegliere  con  cri- 
terio. La  prima  parte  è  dedicata  agli 
dei  dal  Valhalla;  le  avventure  di  Odino, 
il  Giove  germanico  che  per  bere  alla 
fonte  della  saggezza  rinuncia  ad  un 
occhio  e  da  quel  giorno  s'aggira  pel 
mondo  imbacuccato  in  un  tabarro  tur- 
chino, con  un  cappellaccio  calcato  in 
fronte,  ovunque  si  soffre,  si  lotta  e  si 
spera,  s'intrecciano  con  le  imprese  di 
Thor,  il  forte  Iddio,  simbolo  della  ci- 
viltà vittoriosa  sulle  forze  cieche  della 
natura  personificate  nei  giganti.  Intorno 
a  questi  due  mitici  personaggi  tutto  un 
mondo  poetico  di  figure  :  Lochi,  il  dio 
dall'ingegno  duttile  e  malvagio,  Thir, 
il  Marte  germanico,  Baldur,  il  più  puro 
degli  Asi  alla  cui  morte  è  associato  il 
crepuscolo  degli  dei.  Frigga,  la  pru- 
dente e  saggia  moglie  di  Odino,  Lif, 
dalla  splendida  chioma  d'oro,  Freia,  la 
bellissima  dea  dell'amore,  Iduna,  la  lu- 
minosa dea  della  giovinezza  immor- 
tale. 

E  lotte  con  i  giganti,  combattimenti 
con  gli  esseri  sotterranei,  i  nani  astuti 
fabbricatori  di  oro:  e  per  sfondo  un 
vasto  orizzonte  fantastico  :  il  paese 
delle  nebbie,  il  paese  del  fuoco,  il  paese 
di  mezzi,  il  frassino  Iggdrasil  le  cui 
radici  reggono  il  mondo  e  i  cui  rami 
si  estendono  fra  cielo  e  terra. 

La  poesia  delle  vecchie  saghe  del- 
l'Edda rivive  fresca  e  spontanea  nella 
narrazione  della  scrittrice  che  ne  sa 
cogliere  il  significato  mitico  e  sa  pre- 
sentarlo, senza  l'abito  pesante  dell'eru- 
dizione, alle  menti  dei  giovani  stimo- 
landone la  fantasia  allo  studio  del 
passato. 

La  seconda  parte  è  dedicata  alla 
storia  dei  Nibelungi  ;  il  trapasso  dalla 
teogonia  all'epoca  germanica  dei  Ni- 
belungi è  segnata  dalla  leggenda  del 
tesoro  e  dalla  saga  dei  Wolsuaghi.  La 
Valchiria  Brunilde   e    l'eroe   Sigfrido 


diventano  il  centro  dell'azione.  Con 
Lial,  la  canzone  dei  Nibelungi,  l'ele- 
mento storico  prende  il  sopravvento  : 
la  leggenda  dei  Burgundi  s' intreccia 
con  quella  mitica  di  Sigfrido  ed  il  le- 
game ne  è  il  tesoro  dei  Nibelungi, 
l'oro  maledetto,  simbolo  di  morte  e  di 
violenza  :  su  tutti  coloro  che  riescono 
ad  ottenerlo  pesa  infatti  la  Nemesi  di 
un  tremendo  destino.  Così  l' epopea 
dei  Nibelungi  potrebbe  definirsi  il  canto 
dell'amore  e  dell'odio  di  Crimilde  la 
fiera  sposa  di  Sigfrido. 

Anche  di  fronte  alla  grande  varietà 
di  avventure  e  di  fatti  che  costituiscono 
la  trama  del  poema  l'autrice  ha  saputo 
mantenere  integro  il  piano  originale 
dell'epopea,  nelle  sue  grandi  linee,  e  ne 
ha  lasciato  intatto  il  carattere  di  poesia 
semplice  e  popolare,  schietta  e  forte. 
Non  mancano  qua  e  là,  intimate  sottil- 
mente con  bel  garbo,  brevi  osservazio- 
ni morali,  che  non  sforzano  l'unità  lo- 
gica della  narrazione,  ma  anzi  ne  ac- 
crescono l'efficacia. 

Tentativo  dunque  ben  riuscito,  che 
ci  auguriamo  possa  in  breve  essere 
imitato  da  quanti  aspirano  ad  educare 
le  menti  dei  giovani  con  sane  letture 
e  a  dischiudere  innanzi  alle  loro  anime 
i  vasti  orizzonti  del  passato. 

Pico  della  Mirandola. 

u  Post  facta  resurgo  »  —  così  è  detto 
nel  fregio  col  quale  il  De  Carolis  ha 
accompagnato  l'erudita  e  brillante  mo- 
nografia che  Giovanni  Semprini,  uno 
specialista  in  materia,  ha  teste  dedicato 
a  Giovanni  Pico  della  Mirandola,  e  la 
Casa  editrice  «  Atanor  »  ha  pubblicato, 
con  la  sua  consueta  e  lievemente  eso- 
tica proprietà  tipografica  (Giovanni 
Ptco  della  Mirandola.  La  Fenice  degli 
ingegni,  opera  di  Giovanni  Semprini, 
nella  quale  si  raccontano  i  casi  della 
vita  del  principe-filosofo  e  si  espon- 
gono i  segreti  cabalistici  magici  e  astro- 
logici della  sua  esoterica  filosofia.  Todi, 
u  Atanor  »).  E  in  verità  il  Semprini  ha 
fatto  del  suo  meglio  par  far  risorgere 
ai    nostri   sguardi    l'enigmatica  e  tor- 


TRA   LIBRI  E  RIVISTE 


291 


mentata  figura  del  prodigioso  contem- 
platore, che  Innocenzo  Vili  condannava 
solennemente  il  5  agosto  1487,  e  Ales- 
sandro VI  assolveva,  sei  anni  più  tardi, 
da  ogni  censura  o  nota  di  eresia.  Il 
Semprini  indaga,  con  visibile  padro- 
nanza degli  scritti  di  Pico,  l'evoluzione 
del  suo  pensiero,  dalla  elaborazione 
faticosa  delle  900  tesi,  all'Ettaplo,  al 
De  Ente  et  Uno,  alla  crisi  religiosa 
finale,  di  cui  si  colgono  tracce  così 
toccanti  nell'epistolario,  e  di  cui  si  ha 
la  manifestazione  più  significativa  nel 
commento  all'orazione  domenicale.  Una 
erudita  appendice  è  consacrata  alle 
poesie  di  Pico,  sulle  quali  è  pronun- 
ciato dal  Semprini  un  apprezzamento 
ponderato.  In  complesso,  abbiamo  qui 
una  diligente  monografia,  dettata  con 
chiarezza  spigliata  ed  efficace. 

Originali  ed  imitazioni. 

Il  chimico  Laurie,  professore  nella 
R.  Accademia  di  Edimburgo,  confuta 
il  dottor  Martin,  direttore  del  Museo 
della  Haye,  che,  in  una  Rivista  d'Arte 
tedesca,  nega  l'autenticità  di  tre  fra  i 
migliori  quadri  di  Rembrandt. 

Il  prof.  Laurie  scelse  La  buona  Sa- 
maritana, quadro  posseduto  dalla  Wal' 
lan  Collection,  e  lo  confrontò  ad  un 
altro  Rembrandt  :  l'Adultera,  della 
National  Gallery  di  Londra,  sulla  cui 
autenticità  non  si  muove  dubbio  e  in- 
grandì fotograficamente  alcuni  parti- 
colari delle  pitture  dove  meglio  si  di- 
stinguono le  pennellate  dell'artista.  Il 
confronto  di  questi  ingrandimenti  fo- 
tografici ha  convinto  il  prof.  Laurie 
che  i  due  quadri  sono  autentici  e  pare 
che  della  stessa  opinione  siano  i  critici 
della  IVallan  Collection  e  della  Natio- 
nal Gallery. 

Ma  chi  ha  avuto  occasione  di  vedere 
operare  il  compianto  Cavenaghi  ed 
altri  espertissimi  nel  restauro  ed  imi- 
tazioni delle  antiche  pitture,  sa  che 
non  basta  la  somiglianza  delle  pennel- 
late sulla  criniera  d'un  cavallo  nella 
Samaritana  con  la  frangia  del  vestito 
dell'Adultera   per   provare    che  i  due 


quadri  sono  di  Rembrandt,  d'un  arti- 
sta geniale  imitabile  nella  pennellata 
da  ogni  fedele  collista  od  astuto  fal- 
sificatore, capace  di  scegliere  tele,  co- 
lori e  pennelli  e  di  maneggiarli  con 
destrezza  puramente  meccanica  o  cal- 
ligrafica, di  un'  opera  d'arte,  ma  asso- 
lutamente incapace  di  fare  passi  avanti^ 
di  animare  cioè  il  tecnicismo  con  l'ispi- 
razione che  Rembrandt  come  ogni  altro 
vero  grande  artista  sente  in  continuo 
sviluppo. 

Il  ripetersi  scrupoloso  e  meticolosa 
di  particolari  pittorici  e  scultori,  o  sem- 
plicemente letterari,  è  ben  altro  che 
un  certificato  di  autenticità. 

Giuseppe   Garibaldi  e  la  donna. 

Quando  nel  1871  il  Tevere  strari- 
pava inondando  la  città  e  la  campa- 
gna romana,  e  spargendo  desolazione 
e  lutto  ;  una  donna,  che  del  movimento 
intellettuale  femminile  è  stata  a  l'avan- 
guardia —  Gualberto  Alaide  Beccari  — 
col  suo  animo  pietoso  e  grande  volle 
venire  in  soccorso  ai  sofferenti  e  pro- 
mosse una  pubblicazione,  invitando  le 
collaboratrici  del  suo  periodico,  La 
Donna,  a  scrivere  la  vita  di  un  mar- 
tire italiano. 

Le  scrittrici  più  elette  'corrisposero  : 
le  biografie  furono  raccolte  in  volume 
ed  il  ricavato  fu  destinato  ai  danneg- 
giati poveri  dell'inondazione. 

Genialissima  forma  di  beneficenza 
che,  mentre  donava  pane  ai  miseri, 
destava  nell'animo  degl'italiani  il  ri- 
cordo di  coloro  che  avevano  dato  la 
vita  per  la  libertà  e  l' indipendenza 
della  patria. 

A  proposito  di  tale  volume  Giuseppe 
Garibaldi  scriveva  alla  Beccari  (Ca- 
prera, 20  gennaio  1872): 

«  Quella  mano  che  generosamente 
«  mi  stendete  ve  la  bacio  con  affetto 
«  e  gratitudine. 

«  Il  vostro  libro,  /  martiri  Italiani, 
u  che  leggerò  con  tanto  interesse  è 
«  una  scelta  di  soggetti  che  prova  la 
«  squisitezza  degli  alti  sentimenti  del- 
«  l'animo  vostro. 


292 


TRA   LIBRI  E  RIVISTE 


«  La  Donna,  che  io  ricevo  regolar- 
li mente,  fu  un  concetto  vostro  vera- 
*  mente  sublime,  e  non  so  perchè  in 
«  tutte  le  cento  città  d' Italia  non  si 
»  pubblica  un  giornale  con  gli  stessi 
«  principi  e  direttamente  consacrato  al 
«  sesso  gentile,  che  si  chiama  debole 
«  e  che  io  chiamerei  onnipotente,  colla 
«  coscienza  di  non  allontanarmi  dal 
«  vero.  Sì,  onnipotente  giacché  se  le 
«  donne  italiane  di  sensi  liberi  e  pa- 
«  triottici,  che  non  sono  poche  in  Ita- 
«  Ha,  si  dedicassero  come  voi  all'istru- 
«  zione  degl'  ignari,  questa  Italia  no- 
«  stra  avrebbe  raggiunto  non  la  potenza 
«  materiale,  che  acquistarono  i  nostri 
«  padri,  ma  la  morale,  ben  più  profi- 
«  cua  e  gloriosa  ». 

Questo  scriveva  50  anni  fa  il  biondo 
guerriero  che  seppe  avvincere  a  sé  le 
popolazioni,  l'eroe  che  passò  risve- 
gliando le  vittorie  romane,  il  Leone 
di  Caprera,  che  dentro  il  petto  racco- 
glieva un  senso  sì  profondo  di  genti- 
lezza ;  l'avventuriero  a  cui  sì  forte  sor- 
rise l'ideale,  ed  una  visione  sì  larga 
ebbe  del  progresso  umano. 

Questo  scriveva  sentendo  tutto  il  po- 
tere che  la  donna  può  esercitare  su 
gli  animi,  la  luce  rigeneratrice,  che 
viene  dall'  istruzione  ;  la  potenza  glo- 
riosa che  scaturisce  dalla  forza  morale, 
la  forza  incorruttibile  ed  ineffabile  che 
dovrà  trionfare  nel  mondo. 

Foscolo  e  Monti. 

Il  prof.  Adolfo  Albertazzi  e  il  pro- 
fessor Guido  Rustico  hanno  pubblicato 
—  nella  bella  collezione  biografica  del- 
l'editore Principato  di  Messina  —  due 
notevoli  biografie:  di  Ugo  Foscolo  il 
primo,  di  Vincenzo  Monti  il  secondo. 

La  biografia  del  Foscolo  ha  due 
volumetti  :  la  vita  e  le  opere  ;  quella 
del  Monti  ha  per  ora  soltanto  la  vita. 

L' Albertazzi  —  ben  noto  come  scrit- 
tore elegante,  e  come  critico  ed  eru- 
dito —  bene  espone  la  vita  del  poeta 
che  morì  esule,  dando  (dall'Inghilterra) 
tanto  nobile  e  alto  e  nuovo  contributo 


alla  critica  letteraria  italiana,  ne  de- 
scrive gli  anni  dolorosi  e  poi  ragiona, 
con  ordine  e  con  dottrina,  delle  opere: 
dalle  prime  liriche  ai  Sepolcri  ;  dalla 
prima  tragedia,  scritta  a  vent'anni,  alla 
Ricciarda;  dalle  Z.«//^r^  di  Jacopo  Or- 
tis ai  mirabili  discorsi  letterari  e  po- 
litici ;  dalle  lezioni  di  eloquenza,  ai 
saggi  critici  (dall'esilio)  sopra  Petrarca 
e  Dante  e  Boccaccio;  daìV Ipercalisse 
dAV Epistolario^  il  libro  dà  viva  luce 
su  tutta  la  vita  del  poeta  e  ne  mostra 
la  complessa  anima,  *  vigorosa  e  ge- 
nerosa, che  appassiona  e  ci  appassio- 
na; che,  più  ricca  di  virtù  che  di  vizi, 
ci  commuove  e  ci  esalta  ». 

1  due  volumetti  foscoliani  sono  feli- 
cemente riusciti  e  giovano  e  formano 
un  saggio  lodevole  e  notevole. 

Nel  Monti,  il  Rustico  narra  per  ora 
solo  la  vita,  e  la  narra  bene  e  con 
cura,  con  amore,  con  dottrina,  senza 
apologie  vane  e  senza  denigrazioni 
non  giuste  e  non  degne.  Il  Monti  è 
descritto  a  Roma  —  venuto  dalla  na- 
tiva Romagna  —  nelle  prime  speranze 
e  nelle  prime  fatiche  e  gare  e  lotte 
letterarie:  e  ben  presto  nella  gloria 
guadagnata  con  V Aristodemo  e  la  Bass- 
villiana  (1793)  ;  poi  a  Milano  nella 
Repubblica  Cisalpina,  e  a  Venezia  nel 
breve  periodo  della  «  Libera  Munici- 
palità democratica  »,  poi  a  Milano  di 
nuovo,  impiegato  al  Ministero  degli 
Esteri,  combattuto  e  dilaniato,  in  lotta 
col  Saffi,  col  cattivo  Gianni  (che  Bo- 
naparte  volle  fare  deputato...  del  Ru- 
bicone all'Assemblea  cisalpina  dei  Ju- 
niori)  e  col  famigerato  Lattenzi,  altro 
deputato  nominato  da  Bonaparte  in 
omaggio...  al  diritto  dato  al  popolo 
(sulla  carta)  di  eleggere  i  suoi  rappre- 
sentanti. Monti  e  Oliva  —  due  poeti, 
uno  grande  ed  uno  piccolo  —  sono 
dal  Governo  inviati  in  Romagna  a 
organizzare  (!!)  il  nuovo  Stato  :  e  là 
essi  celebrano  a  Ravenna  la  festa  in 
onore  di  Dante,  da  cui  il  nuovo  Stato 
doveva  prendere  gli  auspici.  Monti 
parla  sulla  tomba  di  Dante  delle  opere 
politiche  dell'esule,  del  trattato  De  Mo- 


TRA   LIBM  E  RIVISTE 


293 


tiarchia,  e  della...  Bassvilliana,  e  ri- 
torna a  Milano,  e  si  trova  contro  le 
aspre  guerre  personali,  l'accusa  di 
concussione,  e  la  nobile  e  forte  e  bella 
difesa  di  Ugo  Foscolo. 

Vengono  gli  Austro-Russi,  e  per 
Monti  l'esilio  in  Francia  sostenuto  con 
dignità,  con  povertà,  con  ansie  dolo- 
rose per  la  moglie  e  per  la  figlia  Co- 
stanza, che  doveva  poi  —  sposata  al 
conte  Perticari  —  avere  vita  così  piena 
di  pene  e  di  inique  calunnie.  Il  Monti 
della  Mascheroniana,  tanto  importante 
per  la  poesia  e  per  la  politica,  e  della 
cattedra  di  Pavia,  precursore  dei  Fo- 
scolo, è  bene  illustrato  :  ed  è  infine 
bene  rappresentato  il  poeta  delle  gesta 
napoleoniche,  che  meritò  le  lodi  di 
Foscolo  nel  Giornale  italiano  (1806). 
E  venne  la  traduzione  deWIliade,  ven- 
ne il  sermone  sulla  Mitologia  e  la  Fé- 
romade,  mirabile  poema,  rimasto  in- 
compiuto, e  la  eruditissima  Proposta, 
che  non  pare  opera  d'un  poeta. 

u  Beati  voi  —  scriveva  il  Monti  vec- 
chio agli  amici  piemontesi  —  che  ve 
drete  la  redenzione  d'Italia:  voi  avete 
il  Principe  di  Carignano.  Questi  è  un 
sole  che  si  è  trovato  sul  nostro  oriz- 
zonte ». 

Gli  ultimi  anni  della  vita  sono  ben 
dolorosi  ;  il  Monti  muore  nel  1828 
mentre  lavora  alla  Feroniade,  e  vi 
scrive  versi  di  perfetta  bellezza  per  la 
figlia  adorata. 

Lo  studio  del  Bustico  è  diligente, 
sereno,  erudito,  e  fa  desiderare  il  sag- 
gio sulle  opere  del  Monti,  che  deve 
integrarlo. 

Queste  due  brevi  monografie  del- 
l'Albertazzi  e  del  Bustico  giungono 
ora  felicemente  a  illustrare,  dopo  un 
secolo  ricco  di  tanti  avvenimenti,  le 
vicende,  le  fortune  e  le  opere  dei  due 
grandi  poeti  italiani  della  epoca  napo- 
leonica. Giova  ricordare  che  questa 
bella  collana  storico-biografica,  bene 
si  inizia  con  la  vita  di  Vittorio  Alfieri, 
scritta  dal  Gustarelli,  ed  è  giusto  dire 
che  essa  merita  successo  e  lode. 

{Luigi  Ravà). 

k 


Novelle  di  Duhamel. 

Ecco,  edita  dal  Mercure  de  France, 
una  nuova    opera    dell'  illustre  autore 
di  Civilisation  che  i  nostri  lettori  ben 
conoscono  :    Gli   uomini   abbandonati. 
Non  è  più  il  caso,  ormai,  di  presentare 
l'arte  di  Duhamel:  o  di  spiegare,  per 
quali  profonde  e  ricche  qualità  di  im- 
maginazione e  di  scrittura,  essa  si  di- 
stacchi assolutamente  dalle  prose  che 
siamo  soliti  leggere,  francesi  o  di  chissà 
dove.  Duhamel  è  uno  di  quei  pochis- 
simi che  hanno  ormai  una  fisionomia 
decisa  e  precisa:  scrive  racconti  o  ro- 
manzi o  versi  o  teatro,  o,  magari,  cri- 
tica.   Nei    suoi  libri  più  celebri,  quali 
la   Vie  des  martirs  e    Civilisation,  fu- 
rono   ammirati,  e  s'ammirano  ancora, 
un'economia  rara  e  una    sapiente  do- 
satura   degli    effetti  :    fossero    stretta- 
mente   lirici,    fossero    drammatici:    e 
questo  pregio  di  ridurre  la  sensazione 
e  semplificarla  e  scamirla,  fino  a  pre- 
sentare il  dramma  crudemente  coi  nuovi 
libri,  Duhamel    non  lo  perde:  e  anzi, 
direi,  se  ne  giova    sempre  più.    Altri 
sboccherà,  narrando,  verso  modi  e  for- 
me calde  ;  ma  Duhamel  la  sua  visione 
della  vita,  amarissima,  non  sa  tempe- 
rarla affatto:  perchè  conquisti  meglio 
il  lettore  dozzinale.  Egh  resta  sempre, 
nonostante  la  varietà    dei    temi  a  cui 
s'attacca,  un  narratore  freddo:  sogget- 
tivo sì,  partecipe    anche  ;    ma    sobria- 
mente e  austeramente.  Si  prendano  la 
bellissima  Épave  o  quella  singolarissi- 
ma   avventura    notturna  di  postribolo 
che  s'intitola  Le  bengali  o,  se  volete. 
La  chambre  de  l'horloge.    Sono  segni 
più  che  parole:   tocchi,  scorci,  segna- 
lazioni rapide.  Maupassant?  Forse;  ma 
con  qualcosa  di  dentro  che  frana,  che 
filtra,  che  raffredda:    un   Maupassant 
cui  nella  penna  facciano  ingorgo  espe- 
rienze di  vita  e  di  pensiero,  turgide: 
e  con  una  paura  degli   efi'etti  volgari 
che  io  non  so  oggi  quale  altro  novel- 
liere soffra  altrettale, 

{M.  P.). 


294 


TRA    LIBRI    E    RIVISTE 


Gran  Laguna  fa  bon  porto. 

L'ufficio  idrografico  del  R.  Magi- 
strato delle  acque,  inizia  la  Raccolta 
delle  opere  di  antichi  scrittori  di  Idrau- 
lica Veneta,  dedicando  il  1  volume  a 
Scritture  sulla  Laguna,  di  Marco  Cor- 
naro  (1412-1464). 

Illustrato  con  15  mappe  tra  le  più 
antiche,  importanti  e  rare  della  laguna 
veneziana,  del  suo  retroterra  fluviale, 
dei  suoi  porti,  questo  singolare  volume 
di  idraulica  lagunare  del  quattrocento, 
riproduce,  con  grande  scrupolo,  le  par- 
ticolarità dialettali  che  danno  al  testo 
molta  freschezza  ed  efficacia  di  espres- 
sione. 11  prof.  Ravanello  aggiunse  note, 
commenti  e  indici  copiosi,  degna  cor- 
nice alla  figura  di  Marco  Cornaro, 
u  dal  quale  comincia  la  storia  della 
idraulica  veneziana  »  con  questo  vo- 
lume. Esso  fa  grande  onore  alla  De- 
putazione di  Storia  Patria,  all'Istituto 
Veneto  di  Scienze,  ed  a  quanti  stu- 
diano la  vita  della  singolare  Repub- 
blica, ben  degna  di  occupare  uno  dei 
primi  posti  nella  storia  della  civiltà 
europea,  storia  alla  quale  daranno  un 
prezioso  contributo  le  scritture  che  il 
risorto  Magistrato  delle  Acque  intende 
pubblicare  e  dalle  quali,  intanto,  la  fi- 
gura e  l'opera  di  Marco  Cornaro  trag- 
gono onore  novello. 

Il  dotto  commentatore  ha  identificato 
e  rischiarato  molti  passi,  di  non  facile 
interpretazione;  ha  rivendicato  al  Cor- 
naro l'origine  del  motto  :  Gran  Laguna 
FA  BON  PORTO  che  già  Paulo  Fambri 
riteneva  di  origine  antica  ma  che  ve- 
niva attribuito  al  Sabbadino,  idraulico 
del  cinquecento,  mentre  è  ormai  cosa 
certa  aver  avuto  origine  almeno  un 
secolo  prima,  trovandolo  compreso  nelle 
Memorie  sulla  Laguna  di  Marco  Cor- 
naro, ora  così  degnamente  stampate  a 
Venezia. 

1  Veneziani  dovrebbero  ricordare 
sempre  il  motto  :  Gran  Laguna  fa  bon 
PORTO  e  perseverare  nella  difesa  di 
quella  pianura  liquida  che  la  Repub- 
blica Veneta  voleva  rispettata  come  le 
sacre  mura  della  patria  e  che    quanti 


adorano  Venezia  vorrebbero  salva- 
guardata da  nuove  offese  alla  sua 
incolumità,  vale  a  dire  da  nuovi  danni 
al  bene  pubblico  ;  danni  ed  offese  alla 
sua  bellezza,  al  maggiore  dei  beni,  la 
forma  sublime  dell'utilità  ed  attentato 
alle  funzioni  sue  vitali  di  organo  re- 
spiratorio della  città  divina  e  delle 
isole  sue. 

Giorni  or  sono  un  chimico  eminente, 
Sindaco  di  Venezia,  esaminava  l'arco- 
fotografia  presa  dal  dirigibile  dell'iso- 
letta  di  S.  Francesco  del  Deserto  e 
della  Laguna  che  vista  da  mille  metri 
d'altezza  sembra  un  preparato  anato- 
mico. «  Cos'è  questo?  »»  chiese  il  dottor 
Giordano.  «  Sono  polmoni  lagunari 
ostruiti  da  catarro  fangoso  n  gli  venne 
risposto.  «  Purtroppo  è  verissimo  »  — 
rispondeva  il  Sindaco  Giordano.  — 
«  qui  tra  Barano  e  Torcello,  intristisce 
una  popolazione  di  novemila  esseri 
umani,  l'85  "/„  della  quale  è  malarica  e 
cerca  un'  illusione  di  benessere  e  di  ener- 
gia nelle  bevande  alcooliche,  quando 
invece  basterebbe  un  maggior  respiro 
di  acqua  marina  ai  polmoni  lagunari 
per  distruggere  l'anofele  e  far  scom- 
parire la  malaria  ». 

Gran  Laguna  fa  bon  p«rto,  ram- 
menta da  cinque  secoli  alla  patria  sua 
l' idraulico  Marco  Cornaro,  morto  in 
pienezza  della  Repubblica  nel  Pelo- 
ponneso l'anno  1465  «  nella  pienezza 
della  propria  attività  e  delle  proprie 
forze,  collaborando  alla  grandezza  della 
patria  in  guerra,  come  aveva  collabo- 
rato alla  prosperità  di  essa  in  pace  ». 

Una  vita  di  Lopez  De  Vega. 

I  successori,  di  Herraudo  —  editori 
a  Madrid  —  ripubblicano  un'edizione 
di  una  vita  di  Lopez  De  Vega,  dovuta 
a  Hugo  A.  Rennert  e  ad  Americo  Ca- 
stro, il  primo  corrispondente  dell'Ac- 
cademia spagnola  (ma  non  spagnolo) 
il  secondo,  professore  dell'Università 
di  Madrid  e  amico  dell'Italia,  di  data 
antica.  Rennert  scrisse  nel  1904  una 
vita  di  Lopez  De  Vega  ;  e  poiché  in 
Ispagna  non  c'era  una  vita  di  De  Vega 


ntA    LIBRI    E    RIVISTE 


295 


altrettanto  maneggevole  e  moderna,  il  Per   i  Bimbi   Balducci. 

Castro,    sollecitato    dall'  editore    Her-  a*        i^    e                                       t  ,nn 

,     '   .                      j.           ,           ,                    Maria  De  Saana L.  100 

raudo,  si  propose  di  tradurre  la  nota      p^^f.  Guido  Manacorda 50 

e  vivace  del  Professore  americano.  Ma  prof.  Lipari  -  New  York    ....     .200 

il  Castro,   questa    fatica,    sentì    subito      Maria  Messina 50 

che  sarebbe  restata   un    po'  fredda  e      Prof.  Eugenio  Rignano »  100 

lontana:  e  poiché    egli    da    anni    stu-  Antonio  Vallardi  -  Editore   ...     .100 

diava  il  Lopez   e  ne  curava    edizioni  Comm.  Angiolo  Silvio  Novaro  ...  100 

critiche,  con  tutti  gli  elementi  che  pos-  '^^^^  ^^^^^^  Brignardello  .....  25 

sedeva,    chiestane    autorizzazione    al      ^^'"  Galimberti 50 

■r»            \      T          -11                                             Rosetta  Valazza 10 

Kennert,  rifece  il    lavoro  :   e   si    può  «.ti--  -,. 

,.,,;..                    ^-           .         *^  .          Maria  Luisa  Farina oO 

dire  dalle    fondamenta.  Non  siamo  in  Marchesa  Clelia  Garibaldi.    ....  50 

grado  di   giudicare   le    due   vite,    ma      Municipio  di  Alcano 25 

questa   che   abbiamo    sott'occhio    del      Giuseppe  Lipparini 25 

Castro   è,   certamente,   la    preferibile.      Ofelia  Mazzoni 50 

Lopez  ebbe  una  vita  movimentatissima      Luisa  Banal 20 

ma  era  spagnolo,  visse  in  Ispagna,  stu-  '^^^-  Ugo  Imperatori ......     .  70 

dio  gU  uomini  (e  li  ritrasse)  del  suo      Famiglia  Forges 25 

paese.  Che  nella  sua  cultura  ci  fossero      J^'"°"^  ^"*°'^°* ;  ^ 

altre  infiltrazioni,  oltre  le  locali,  è  in-      q"q *  go 

negabile  ;  ma  uno  spagnolo  e  di  studi  Famiglia  Cortese  ......'.'  19 

solidi  come  il  Castro  non    poteva  es-      Carlotta  Stampolini 10 

sere   parziale,  come    parziale    non  fu.      d.  Sommo »  10 

L'opera  è  in  15  capitoli  assai   lunghi      N.  N 10 

e  complessi  :  e  vi  si  studia  e  racconta      N.  N • 5 

agilmente    e   vivacemente  (ma    anche      Manzoni 10 

con  grande  copia  di  documenti)  tutta      Ascarelh »  10 

la   vita  di  Lopez:    che  fu,  come  tutti      ?;^^^°'''  .• *  o? 

j      ,.          -^^     •      •>           j   ^        M.  Palmarini »  2o 

sanno,  uno  degli  scntton  più  produt-  j,  j.                                                  .50 

tivi    e    fortunati.    Amori,   matrimonio,  i,' piccolo  Franco    .    .    .   '.    .    .    .     '  30 

vita  militare,  il  teatro,    gli    ordini  sa-      Alberto  Pincherle 50 

cri,  ecc.:  sarebbe  lungo  seguire  il  Ca-      Prof.  Alberto  Padula »  20 

stro  in  questa    doppia    ricostruzione  :      D.  R »  5 

di  una  vita  umana  e  di  una  vita  arti-  Dott.  Guglielmo  Passigli   .....  50 

stìca  :  la  quale,  punteggiata  com'  è  di     ^-  Ro'uschi •  5 

avventure  singolari  e  di  mutamenti  di      ^  n  v .*  io 

scena,  interessa  il   lettore   e   lo    affa-      .      *»,'*/-.'u m 

'                                             ....          Anna  Maria  Ghe *■  10 

sema  :    come  un  romanzo  di  fantasia.      £>ora  Danieli »  20 

Stupende  pagine   e,    quel    che    conta,      ^dele  Marietti •  20 

vive,  agili,  calde.  E  non   mancano,  per      e.  R.  T »  3 

chi  ne  abbisogni,  anche   qui,  come  in      N.  N »  1 

tutti  i  lavori    critici    che  si  rispettino,      E.  T »  5 

chiose  e  appendici  e  richiami  e  biblio-      R-  T •  2 

grafie  e  riferimenti  :  sebbene  io  creda      Renzo  Sereno »  | 

che,  letta   la  vita    e    conosciuto  tanto      umilia  Donati •  l 

j        .  .                      -1   /-     ^        •            -ir»         Giacomo  Donati 1 

da  vicino,  come  il  Castro  riesce,  il  De  "             .                                            .2 

Vega  ogni  delucidazione  riesca  almeno  comm?  cLladini .'  .'  .'  .'   .'  .*  .'    '.     •'  10 

a  lettori  comuni    superflua  :    perchè  la  Lina  e  Augusto  Bragadin  .....  10 

figura  che  ne  vien  fuori    è    così   viva      Recchioni »  15 

che  non  la  si  dimentica  più.                          L.  B »  10 

{M.  P).  Nbmi. 


xSiC 


LIBRI  E  RECENTI  PUBBLICAZIONI 


PUBBLICAZIONI  DELLA  CASA  TREVES. 


MILANO. 


R.  DI  San  Secondo.  Il  minuetto  del- 
l'anima nostra,  romaiuso.  —  1922. 
L.    8. 

C.  PiONATTi  Morano.  La  vita  di 
Nazario  Sauro  e  il  m/irtirio  dell'eroe. 
—  1922.  L.  16. 


E.  Thovez.  Poemi  d'amore  e  di 
mortp.  —  1922.  L.  8. 

M.  LiMONCELxi.  Foro  sema  luc€. 
Liriche.  —  1922,  L.  8. 

C.  Del  Soldato.  A  viso  aperto.  Rac- 


conto. 


1922.  L.  8. 


PUBBLICAZIONI  DELLA  SOC.  ED.  «  VITA  E  PENSIERO  »  —  MILANO. 


F.  Olgiati.  Carlo  Marx,  con  prefa- 
aione  di  Fa.  A.  Gemelli.  —  1922. 
L.   7. 

F.  Olgiati.  Religione  e  vita.  — 
1922.  L.  6. 

A.  D.  Sertillangbs.  Socialismo  e 
Cristianesimo.  Traduzione  di  J.  Mi- 
lani. —  1922.  L.  6. 

Mons.  PoTTiER.  La  m,orale  cattoli- 
ca e  le  odierne  questioni  sociali.  — 
1921.   L.  5. 

M.  Ghiri.  Pagine  intime.  Lettere 
alla  fidanzata  e  alla  sposa.  Prefazio- 
ne di  S.  E.  il  card.  P.  Maffi.  —  1921. 
L.  3. 

G.  ScHRYVBRS.  La  buona  volontà. 
—  1921.  L.  3.60. 

M.  Galli.  L'antico  e  il  moderno 
nell'educazione  dei  figli.  —  1921. 
L.    12. 

M.  Galli.  L'istruzione  e  Veduxazio- 
ne  religiosa  del  fanciullo.  —  1921.  L.  6. 

Pierre  le  Rohu.  L'altra  riva.  — 
1921.   L.  6. 


R.  Bazin.  Davidina  Birot.  Roman- 
zo. —  1921.  L.  6. 

G.  Morgan.  La  madonna  del  sob- 
borgo. Romanzo.  Traduzione  di  E. 
Battagua.  —  1921.  L.  6. 

D.  G.  Cardinal  Mercier.  La  vita 
interiore.  Invito  alle  anime  sacerdo- 
tali, 2  voli.  —  1921.  L.   15. 

G.  Fell,  S.  I.  L'immortalità  del- 
l'anima umana.  Traduzione  dal  tede- 
sco di  G.  Schio.  —  1921.  L.  5. 

Gli  scritti  di  San  Francesco  d'As- 
sisi. Con  introduzione  e  note  critiche 
del  P.  Vittorino  Facchinetti.  —  1921. 
L.  6. 

P.  L.  Lehmens.  S.  Bonaventura 
cardinale  e  dottore  della  Chiesa.  Tra- 
duzione di  G.  Di  Fabio.  —  L.  6. 

Mons.  L.  Landrbux.  /  Vangeli 
della  domenica  brevemente  commenta- 
ti. —  1921.  L.  12. 

U.  MioNi.  Manuale  di  m^issionolo- 
gia.  —  1921.  L.  12. 


PUBBLICAZIONI  STRANIERE. 


F.  Duquesnel.  Souvenirs  littérai- 
res  -  George  Sand  -  Alexandre  Du- 
mas. Figures  intimes.  —  Paris,  Plon, 
1922.  Fr.  7. 

L.  Daudet.  Le  voyage  de  Shake- 
speare.  —  Parigi,   Plon.   Fr.   3. 

ToLSTOi.  La  sonare  à  Kreutzer.  — 
Parigi,  Plon.  Fr.  3. 

G.  G.  AssoM.  La  question  du  con- 
tróle  ouvrier  en  Italie.  Avec  un  aper- 
qn  dans  k«  autres  pays.  —  Paris, 
Giard,   1922. 


Un  livre  noir.  Diplomatie  d'avant- 
guerre  d'après  les  documents  rf«j  ar- 
chives  ru-sses.  Novembre  1910-juilIet 
1914.  Préface  par  René  Marchand. 
—  Paris,  Libraire  du  Travail.  Fr.  10. 

F.  DE  Vasconcei/)8.  /  Problemos 
Escolares.  —  Lisboa,  1922. 

ViEiRA  DE  Alheida.  BucoUca.  — 
Lisboa,    1922. 

Jaimb  Cortbsao.  Adao  e  Eva.  — 
Lisboa,  1922.  Esc.  3. 


Ugk)  MB88IWI.  BetporuaìriU 


Roma  —  Dttt*  Amumi  d!  Mario  OoarriM. 


riie   192-2 


FONDAZIONE     ALBERTO  CANTONI,, 

presso  il  R.  istituto  di  Studi  Superiori  pratici 
e  di  perfezionamento  in  Firenze 

(R.  Decreto  22  Aprile  191^  ;  Bollettino  ufficiale  del  Ministero  P.  I.  n.  22  del  3  Giugno  1915) 

Coi  fondi  assegnati  per  testamento  dall'Ingegnere  LUIGI  CANTONI  di 
Pomponeeco  (Mantova),  a  ricorao  deU«  scrittore  Alberto  Cantoni  suo  fratello, 
è  posto  in  conferimento  un  premio  di  L.  4000  a  chi,  ben  fornito  di  cultura 
classica,  dia  prova,  con  saggi  a  stampa  o  manoscritti,  di  attitudine  e  prepa^ 
razione  a  trattare  argomenti  di  letteratura  latina  medievale,  così  italiana  come 
straniera. 

E  posto  altresì  in  conferimento  un  sussidio  di  lire  sooo  a  chi,  con  eaggi 
a  stampa  o  manoscritti,  dia  prova  di  attitudine  e  pieparazione  a  trattare  ar- 
gomenti di  antica  filologia  germanica  in  qualsivoglia  delle  sue  ramificazioni 
(tedesco,  anglosassone,  scandinavo,  ecc.). 

I  concorrenti  dovranno  trovarsi  neUe  condizioni  volute  dall'art.  31  dello 
Statuto  della  Fondazione,  che  qui  si  trascrive: 

possono  ottenere  il  conferimento  di  premii  e  sussidii  giovani  italiani, 
laureati  o  no,  nei  quali  concorrano  i  seguenti  requisiti  : 

a)  Età  non  inferiore  ai  20  e  non  superiore  ai  so  anni; 

b)  Essere  non  ricchi,  e  cioè  in  tale  condizione  economica  che  il  pre- 
mio o  sussidio  sia  particolarmente  richiesto  per  permettere  loro  di  dedicarsi 
alla  carriera  e  agli  studii  per  i  quali  dimostrino  di  avere  meglio  promettenti 
attitudini. 

II  premio  e  il  sussidio  potranno  essere  pagati  in  più  rate  nel  corso  di 
due  anni,  che  a'vranno  principio  col  giorno  successivo  al  conferimento;  sa- 
ranno assegnati  entro  il  31  dlCOTobre  1922,  e  vi  potranno  concorrere  uomini 
e  donne. 

Gli  aspiranti  rivolgeremno  entro  il  31  ottobre  1922  la  loro  domanda,  in 
caxta  libera,  aUa  FONDAZIONE  «  .\LBERTO  CANTONI  »  {Segreterìa  del  Regio 
Istituto  di  Studi  Superiori,  Firenze,  Piazza  S.  Marco,  2),  corredata  dei  se- 
guenti  documenti  : 

1°  Titoli  di  studio,  lavori  manoscritti  o  a  stampa,  ecc.  ecc.; 
2°  attestato  di  nascita  e  certificati  delle  .autorità  comi)etentI,  o  attesta- 
zioni scritte  di  persone  autorevoli  che  dimostrino  nel  concorrente  la  qualità 
di  non  ricco  (nel  senso  voluto  dalla  disposizione  precitata). 

A  norma  poi  dell'art.  26  dello  Statuto,  la  Giuria,  quando  non  sieno  state 
prodotte  istanze  o  domande,  o  quando  quelle  prodotte  non  sieno  ritenute  me- 
ritevoli di  accoglimento,  può  conferire  il  premio  anche  a  persone  che  non 
abbiano  dichiarato  di  aspirarvi,  sempre  che  concorrano  in  esse  e  sieno  accer- 
tati i  requisiti  statutaria. 

«  Le  decisioni  della  Giuria  sono  prese  con  assoluta  libertà  discrezionale 
di  deliberazione  e  di  giudizio,  e  con  completa  insindacabilità  nel  merito  ». 

La  Giuria  —  la  quale  chiederà  anche  il  parere  di  specialisti  —  attual- 
mente è  composta,  a  norma  dell'art.  16  dello  Statuto,  del  prof.  Pio  Rajna, 
eletto  daUa  Sezione  di  Filosofia  e  Lettere  del  R  Istituto  di  Studi  Superiori  in 
Firenze,  del  dott.  Angiolo  Orvieto,  rappresentante  degli  Eredi  Cantoni,  e  del 
senatore  prof.  Girolamo  Vitelli,  eletto  dai  due  precedenti. 
Firenze  1°  marzo  Idii. 

La    Giuria 
ANGIOLO    ORVIETO 
PIO    RAJNA 
GIROLAMO     VITELLI 
Il  Direttore  della  Segreteria 
0.   MARINI 


16  Aprile  i»*iì2 


■  ^^Pi^ 


SOCIETÀ'  AllfiLO    ROMAnA  PER  V  ILLDNinAZIOHE  Di  ROMA 

COL  GIS  ED  ILTRI  SISTEMI 

ROMA    -   Via   Poli,   n.    14  —   ROMA 

Distribuzione  di  gas  in  Roma  e  di  Energia  Elettrica 
in  Roma,  Suburbio  e  Provincia 


Luce,  Riscaldamento  e  Forza  Motrice  per  Case  Private 
e  Stabilimenti  Industriali 


APPARECCHI  A  GAS 
Cucine,  Fornelli,    Scaldabagni,  Stufe,   Forni   Industriali  ecc. 

APPARECCHI  ELETTRICI 
Bollitoi,  Caffettiere,  Termofori,   Asciugacapelli,    Ferri    da    stiro, 
Apparecchi  utili  alla  igiene  ed  alla  medicina  domestica  ecc. 

Tutti  i  suddetti  ed  altri  apparecchi  a  gas  ed  elettrici  fi  rendono  dalla 
Società  Anglo-Romana,  esclusivamente  ai  suoi  utenti. 

Magazzini  di  Esposizione  e  rendita:  Via  Tritone  26,  Via  Ancona,  23 
Via  Cola  di  Rienzo  239. 


;  I 


11 


ENLI[LUPE(71Ap 


iMiNciinsnaf 

.fiUUlHUriClAKDfllAf 


Il  dott.  Kanleri,  Ministro  di  Afriooltara,  1»  ffladlaò  ■  op«rs  Terunente  detna  di 
•kl  ]«  Upirò  •  1»  dlrwM,  etmpantfi*  prMl«s«  di  étadii  eke  onorano  la  no«tra  l«tte- 
ratnra  telentiflca  >.  Infatti  nel  Gitrnai*  ili  AgriMitura  dalla  riomanlM  da  Ini  diretta 
pabblioò  : 

«  Finalmente  poaalamo  affermare  eon  vivo  aento  di  oomplacenia  oke  la  nostra 
lettor  atara  loientifloo-affrarla  Tede  colmata  una  sua  laeana  eon  qneeta  Knelolopedia 
Orticola  ehe  l'egregio  prof,  Paeei,  eoadinvato  anche  dal  oav.  Flaminio  Toao,  hana* 
testé  licenziato   alle  «tampe. 

Si  tratta  di  nn  lavoro  Tolaminoso  di  oltre  1600  pagine  In  cruide  formato  e  adomo 
41  nnmeroae  iUnitrationl  ohe  aieai  bene  terroDo  a  mAggiore  eapUoaiione  del  tetto. 
La  materia  yì  A  trattata  eon  rara,  eompetenca,  esattessa  e  in  nn  modo  daTTero  eaao- 
riente.  Nen  erediame  ti  «sagarare  affermanda  aha  l'apara  è  una  dalM  migliarl  ah* 
alane  aMlte  In  Europa,  dagna  di  reggerà  «ittorioaamanta  il  paragona  aan  quella 
astare:    ferte   per   «erti    rispetti    PUD'    RITENERSI    ANCHE    tUPERIORE. 

^Mcoltore  di  profeaeione.  il  dilettante,  l'insegnante  di  agraria  troTeranno  nella 
Rnr-  :opedia  Orticola,  nna  vera  miniera  di  atiilssime  informasioni  ehe  sino  ad  ora 
aeaolut&meute  maucava  in  Italia.  Noi  stessi  ehe  seriviamo  ebbimo  più  volte  a  deplo- 
rare qneHta  laonna  ed  ora  con  viva  eoddisfailone  ealntiamo  la  comparsa  dal  lavoro 
del  prof.   Pnooi  *.  eee.,  ees. 

Vaglia  unicamente  «ll'e<litore  Cav.  TOSO  FLAMINIO  -  ACQUI  (Alessandria 

Prezzo  attuale  porto  compreso  (L.  8  per  5  chili)  lire  95. 


§i 


i 


:  : 
;  i 


il 


I 


*  i 


CREDITO  ITALIANO 

SOCIETÀ  ANONIMA  —  SEDE  SOCIAUE  OENOV  A 

Capitale  sociale  L.  300.000.000    —  Riserve  L.  900)00.000 

AairMle,  Arezza,  Asti,  lari,  Barlatta,  ■ergam*,  ■iella,  ■•iogna,  Brindisi.  Cagliari. 
Carrara,  Casal*  Monferrate,  Castallammare  di  Stabla,  Catania,  Catanzara,  Cnlavarl,  Chlttl, 
Civltaveaohla,  Firsnza,  Foggia,  Frattamaggisre,  Csnsva,  Iglssias,  Lmo».  Lmo»,  Livarna,  Luaoa, 
Messina,  Milana,  Modena,  Malfatta,  Manza,  Napoli,  Nervi,  Novara,  Oristano,  Ozierl,  Palarmi 
Parma,  Pinerolo,  Pisa,  Porto  Maurizio,  Roma,  Samplardarana,  t.  Giov.  a  Tedueoie,  tassar^ 
Savona,  Spazia,  Taranto,  Tomi,  Torino,  Torre  Annunziata.  Terre  del  Creee,  Trieste,  Varese, 
Venezia,  Ventimiglia,  Varoalli,  Voghera,  Landra. 

DIREZIONE  CENTRAI-E  MILANO 


IITUAZIOIB  AI  SI  6EHHAI0    1321 


AaioBistì  «aldo  aaioni  . 


"VO« 


PartaL  miU' Italia  a  ■oU'Hitaro 

Riparti 

Corriapondontì 

PoTtofoglio    Tìtoli     .... 

Partecìpaùoni 

BtobiU 

Dabiiori  diversi 

Debitori  par  avalli 


Canti   (Ca«.PraT.ImpL. 
d  ordina  ^  ^^^^  ^^ 


jjt. 

677.589,73'i.50 

2.634,983  589.85 

2^4  8^4,488  05 

1,097  283,499.80 

115,423  956.85 

16  601,506.— 

12,000  000.— 

34.r.45  835  — 

43,181,539.80 

l.it. 

4,987,093,951.85 

8.540.441.612.25 

.Id. 

8,507,635,564,10 

Capitala 

Risarr* 

Dan  in  Conto  eorr.  ad  a  Blspar, 
Comipondenti 

'.ccattaaioni    .    \    .    .    . 

Jlsaagni  in  |  Circolari  L. 
airaoiaaìaBaj  Ordinari  > 
Craditori  dirarsi  . 

ATalli 

Bsarciaio  precadenta  .    .    .     . 
etili 


Conti   (Cai.Prar.IatpL, 
a,  _ji     \  De»,  aaanz,      » 


-o* 

Lit. 


L.lt. 


ii.it. 


SOO  000  000.— 

90  000  000  — 

760,128  833  15 

3,394  887  870  95 

34,258,239.45 

166  844.396.30 
102.6^4  970  85 

93,181  5  9  80 
3.132.913.80 

42,005,181.55 


4,967,093,95185 


3,640  441.612.85 


8,607,536  504  10 


'-^treetone 
LODOLO  -  ROSSELLO 


1  Sindaci 
A.  eamlBatl  -  M.  Da  Passant 
lig.  A. Riva  -  G.Rosmlni  •  Aw. A. Pertgalli 

SEDE  DI  ROMA 

374  Cono  Umbarto  I  (palaz.  preprii^ 

AGENZIA  O  AQEVTtK  X> 

•MI,  Piazza  Cela  di   Rlanto  U-U,   Via   Giovanni   tanza 

AGENZIA  I  -        y4«   Nazionale,  U 


Il  Capo  Contabile 
R.  Manetti 


n. 


AGENZIA    A 
Piazza  delle  Terme 


AGENZIA   B 

I7-4S,   Ceree   Vltt.   £■■■. 


idlrfa»  Tsligrafiss    Credit        ^j^^  Sede  di  Rm»  I  «lUe  ne  igeniie 


AOBNZIA  B 
IMI,   Via   ■onaampagal 
(angolo  Via  Shnova)  19-7« 
8»-S5 

OpemlODl  e  senili  dlìersl        Telefoni    UJ»  j  ^^p^-  g;^^ 


Uffici  e  Agallale 


I3ei>o*i«l    firuttlferl. 

Centi   Cerranti   all'interesoe  del  tvt%. 

DiaponibiUtà  :    L.    30.009   a   yieta;    L.    IM.IM 
«OH   un   giorno  di   preavriao;  L.  200.009  aon   i 
giorni;  Bomme   maggiori   oon   6   giorni. 
Senti  Correnti   all'interease  del  2%%. 

Disponibilità:  L.   3.000  a  viltà;  L.  i.MA  oon 
nn  giorno  di  preavriso;  L.  10.000  aon  3  giorni; 
aomme  m&geiori  oon  5  giorni, 
•■bratti  di  risparmia  al  Z%%. 

Disponibilità:  L.  3.000  a  yiata;  L.  fi.lM  aon 
nn  giorno  di  pre&rvieo;  L.  10.000  aon  S  giorni; 
somme  maggiori   con  10  giorni. 
-ibrettl  di  plecolo  risparmio  al  3%. 

Disponibilità:  L.  1000  a  rista;  somme  mag- 
giori con   10   giorni   di   prearriso. 
Libretti   di   depositi   vinoolati  :   di   anno  in  anno 
al   3^%;    di    dae   anni    in    dne   anni    al   3>4%. 

1  in  facoltà  del  depositante  di  effettaare, 
in  aggiunta  a  quello  iniziale,  altri  versa- 
menti, i  quali  si  ritengono  vincolati  sino 
alla  scadenza  del  depoeito  iniriale  e  godono 
dello  stesso  intereeee.  611  interessi  sono  pr» 
levabili  in  qualsiaii  momento  doiw  la  loro 
maturazione. 
suoni  fruttiferi  a  seadensa:  da  3  a  11  mesi  al 
3^%;  da  IS  a  23  mèti  al  3Vt%:  a  I  anni  ed 
oltre  al  3%%. 

I  libretti  possono  e«»ere  al  jwrtatore  op- 
pure nominativi,   a   aeelta   del   depoeitante. 

Tutti  gli  interessi  eono  netti  da  quaUiaai 
ritenuta;  quelli  su  Conti  correnti  e  Libretti 
vengono  capitalizzati  «emeetralmente,  aJ  31 
Giugno  ed  al  31  Dicembre  di  ogni   anno. 

La  Banca  rieeve  eome  versAmerit:  in  con- 
tanti assegni  e  vaglia  banaari.  'edl  di  ere- 
dito, cartoline-vaglia  e  cedole  sc&uTit«  paga- 
bili aulla  piaxsa  acaorchk  noa  aeigibiU  i^e 
sue   aatae. 


Operazioni  cU'verMe 

Centi  correnti  di  eerrispendanza  eredltert  e  da 
bitori  a  condizioni   da  convenirsi. 

Centi  correnti  in  efTattive  a  eondizloni  da  era 
venirsi 

Apertura  di  erediti  liberi  e  deeumantati  per  im- 
portazioni ed  esportazioni  da  e  sa  qualun- 
que  piazza  Italiana  ed   Estera. 

Anticipazioni,  sovvanzìoni  e  riporti  contro  t» 
lori  o  certificati  di  merci. 

Eseeuzione  di  ordini  di  lorsa  per  contanti  o  a 
termine  sa   qualunque   piaxza. 

•oente  e  Inoasse  di  effetti  luU'Italia  e  soll'l 
stero. 

Cambio  di  moneta  e  valute  estere. 

Lattare  di  credito  su  qualunque  piasi»  Italiana 
ed    Estera. 

Assegni-  e  versamenti  teiegraNol  au  qualunque 
piazza. 

Compra  e  vendita  di  oambl  a  consegna,  aon  fa- 
coltà di  consegna  o  ritiro,  a  piacere  del  aoa- 
traente. 

Oepasite  di  valori  diversi  in  sempliae  oxutodia 
e   in    amminletrazione. 

Leeazlone  di  Cassette  di  sisurazza  e  Casee-fertl 
per  valori,  oggetti  preziosi,  titoli,  libretti  di 
risparmio,   documenti,  ee«. 

Custodia  di  depositi  shiusl  in  Camera-forte  (bau- 
li, aaase,  valigie,  paeebi,  e  in  genere  qual- 
siasi aollo  voluminoso,  purché  debitamente 
chiuso  e  sigillato  oon  o  Bensa  dickiarasioae 
di  valore). 

I  eoTì  tratti  di   locazione  o  di  deposito  poe- 
aono  essere  inteatatl   anche  a  più  persona. 

Titolari  possono  delegare  una  o  più  par- 
•:':ne  per  la  disponibilità  delle  rispettive 
cassette  di  sicurezza,  Casee-fertl  e  dei  dege- 
aiti  In  Camera-ferte. 


BflDCO    aDtflrIlI0tO    U\    COmmerCf^    dei    Camll  Peorefó  Legge  13  maggio  1919  N.  696  art.  A. 


BANCA  D:_ITALIA 

CaplUIe  n«mlMal«  L.  840,000,000  —  Vernate  L.  180,000,000 
Situazione  al  20  gennaio  1922 


AT^i-re 


Or» L.  Il    S60,370,772.29 

Argento  (diviiion»la  L.  8,405,841.00     ....       ,  ||      74.604,884.43 

Caonbiali  toll'eitero L.  —  i 

Baoni  del  Teioro  di  Stati  esteri  .     .      0,416,]94.18  (    7^  «.q  on?  1  ■ 

Certificati  di  credito  inU'eBtero    .      „  «88,687,987.86  (     '"*i»«,«u/.ii 

Bigi,  di  Banche  est.  ■      0,823,176.14  ) 

.    L.  1 1,829,708,813.88 


Totale  della  RLierra 


Biglietti  di  Stato  e  Baoni  di  Gassa "    .    .    .    .    L, 

Biglietti  al  portatore  e  tìtoli  nomlaatiri  a  vista  di  altri  Istituti 

di  emissione  e  baoni   agrari , 

fii      Bigi,  di  Banche  est.  (.di  coi  applicati  alla  ris.  per  L>.   6,829,17i.l4)      , 

Taglia  postali  ed  altro „ 

Argento  divis.  non  applicato  alla  riserva  •  argento  non  deoixn.     , 

Monete  di  nichelio  e  al  bronao , 

Totale  della  Oaana    .    .    L,. 

r>ertafoglio  sa  piaBse  italiane ,.      , 

Portafoglio  soli  estero  (di  coi  applic  alla  riserva  par  L.     6,829,176.14^  , 

rifletti  ricevati  per  l'incasso 

Anticipasioni  ordinarie 


Tesoro 
dello  auto 


Tit«U 


Conti  oorx. 
Attivi 


Aotioipaaioni  al  tesoro L. 

Anticipasioni  straordinarie  al  tesoro  „ 
Ant-icip.  per  Baoni  della  Cassa  Veneta  „ 
Antic.  straord.  al  Tesoro  pel  cambio 

delle  valute  Aastro-Ungarìche     .  „ 

Ant.  str.  Tesoro  per  est.  Baoni  Tesoro  „ 
Anticipasioni  a  terzi  per  c(  dslJo  Stato 

Conto  Bomminlslrazioni  di  biglietti  .  ^ 

per  la  scoria L. 

I  per  impiego  della  massa  di  rispetto  „ 
I  a  oaua.  per  il  sorv.  di  R.  Tesor.  Prov.  „ 
I  per  impiego  di  fondi  diversi  accant.  „ 
I  Residni  del  fondo  già  accant.  p.  copri- 
re le  perdita  d.  Banca  Qomana  .  „ 

nel  Regno L. 

all'estero  (di  cai  applicati  alla  riserva 

per  L.  888,687,987.86) , 


880,000,000.— 
8,600,000,000.— 
86,700,000.— 

609,370,000.— 
924,000,000.— 
601,773,405.82 
618,000,000.— 


71,81  i,688.88 

10,298,271.48 

110,0a,018.86 

8,200,000.00 

80,314,892.90 


499,726,482.84 
718,601,154.97 


.^aionisti  a  saldo  aaioni L. 

ammobili  destinati  alla  ooilooaaiona  dagli  offici 

forviai  diversi  per  conto  dello  Stato  a  delle  Provincie 


l'ondo  di  dotaa.  del  Cred.  Fondiario   L. 

Credito  verso  la  Società  per  il  risana- 
mento di  Napoli 

Partite     ]  Spese  animortiaaab.  a  periodi  determ. 
Taiia       )  Impiego  delia  riserva  straordinaria  . 

Imp.  per  le  Casse  di  previd.  delle  pen. 

Impiego  riserva  speciale  degli  Aaionisti 

Debitori  diversi 


80,000,000.— 

4,018,627.84 

76,728.62 

12,086,000.— 

116,8:6,289.84 

76,785,000.— 

1,477,899,103.47 


Soffaranaa  dall'aseroiaio  in  corso ..L. 

Tassa L.  Il  82,818.08 

Spesa •  .    ,    Il  768,982.t4 


■pesa  dal  oorrant*  asaroiai* 


Oapositl K 

TOTALH.    .    .  L. 

Partita  axninortiaaate  nei  passati  asaroiai , 

TOTALB  GHNHBALB.     .    .  L. 


-      -      B 


Capitala ,  .    .     .     . 

Massa  di  rispetto.  

Riservk  Rtraordinaria 

Ìper  cntt  la  piena  cópert.  metallica  L. 
«e!      <col  40  per  ci  di  riserva.  „   8,807,090,677.42 
CMMreltfinaafficientom.  ooi>arta    ,   4,089,338,017.86 
par  conto  dello  Stata L. 

Debiti  a  vist» 

Depositi  in  conto  corrente  tmttifaro 

Conti  correnti  passivi 

Barvisi  diversi  per  conto  dallo  Stato  a  dalla  provincia 
Ris.  spac  di  prop.  esdnaiva  deg^  Aaion.  L. 
"    "    tli       ■ 


7,897,828,694.88 
8,617.848.406.88 


860,870,778.29 
74,604,884.48 


881,269,280.00 

100,948,808.83 

7,636,941.94 

18,302,828.18 

735,888.71 

6,078.916.76 

1,420,897,482.84 

4,881,046,199.89 

9,441,967.02 

10,818,851.06 

3,607,807,584.28 


8,617,848,405.82 


688,488,721.86 


l,218,t27,587.31 

60,000,000.— 

49,710,667.90 

378,118,016.13 


1,717,626,764.27 
162,616.04 

781,766.81 


19  .Sfi0.2C4.(tOH.a3 


Partito 
varia 


(Fondò  tpecdi  propr.  esci,  degli  Aalon, 
per  la  costruzione  e  l'acquisto  di  nnori 
edifici  ad  U80  delle  filiali  .*...» 
Residuo  utili  di  propr.  escL  degli  AjJon.    , 
Creditori  diversi _ 


Bandita  del  corrente  asaroiaio  ....... 

UUli  netti  dell'esareitio        

bit«iressi  a  proventi  della  riserva  straordinaria 


78,660,884.28 

10,000,000.- 
918,897,688.48 


DapositaikU 


l>avttt«  ammortlaaato  aa 


TOT  AIA. 
paaaati  asaraial   .         ...... 

V09AIM  OBIIBBAIiB. 


a9,"Jóo,8y4.vy 


56,805,984.684.14| 


240,000,000.— 
48,000,000.— 
12,025,412.83 


14,486,172,000.00 

083,668.416.181 

1,159,666,216.0^ 

164,498,094.61 

1.781,771,894.88 


1,008,547.860.69 
68,987,816.08 


U,880,864,006.8I 
86,906,760^81.02 


|«,76«,01i,  889.86 
>9,960,8»4.79 


H,WB,964.684.14l 


818 


-  87 

+       15,788 


— 

6,970 

-»- 

24 

— 

6,260 

+ 

88 

996 

+ 

8,844 

+ 

86,769 

81 

+ 

468 

221,181 

-t-  118418 

+  118,818 

+  18 

—  1 

—  1 


11 

88430 

1,838 

80,896 

1.788 
2,037 


103 
68 


106,887 

108,808 

84 

10 

886 

896 


—  298,174 

-  66 


—  81» 

—  S48J80 

—  •a,890 

•t-  118,819 

—  480.080 

—  87.180 

—  16,056 
+  18,968 
+  641,687 


—  88.668 

-  88,668 

+        8,86» 


-  898,174 

—  68 


MILANO  —  FRATELLI  TREVES,  EDITORI  —  milano 

NOVITÀ  LETTERARIE 

BULLETTINO  N.  279»  -  MaRZO  1922. 

EMILIO  PRAGA 

TAVOLOZZA  -  PENOMBRE 

FIABE  E  LEGGENDE 

TRASPARENZE 


Tavolozza,  Penombre,  Trasparenze. ..  espressioni  da  pittore, 
che  in  anni  lontani  brillarono  in  fronte  a  piccoli  libri  di  poesia. 
Dopo  tanto  tempo  e  \'icende  e  mutare  di  mode  letterarie,  il 
nostro  ricordo  s'è  un  po'  confuso,  e  di  quella  poesia  ci  è  ri- 
masta come  l'impressione  di  certe  ventose  giornate  di  marzo, 
in  cui  l'azzurro  del  cielo  a  volta  a  volta  s'adombra  e  rischiara. 
Ora  essa  ritorna  a  noi,  e  il  suo  ritorno  è  come  un  àlito  di 
primavera.  Per  le  nuove  generazioni,  che  di  Emilio  Praga 
conoscono  poco  più  del  nome  -  perchè  da  un  pezzo  le  sue 
opere  erano  diventate  introvabili  -  le  liriche  del  poeta  morto 
giovane  riesciranno  nuove,  e  saranno  ascoltate  come  la  voce 
d'un  fratello  xissuto  molti  anni  prima,  in  altra  temperie  so- 
ciale, ma  con  le  stesse  passioni,  gli  stessi  dolori,  le  stesse 
inquietudini  spirituali  dell'età  nostra.  Poiché  il  suo  modo  di 
vedere  il  mondo,  il  suo  modo  di  soffrire,  e  l'essenza  del  suo 
soffrire,  sono  moderni,  attuali,  ancora  aderenti  alla  vita  di 
tutti  noi.  Motivi,  stati  d'animo,  tormenti  d'anima  che  abbiamo 
trovato  in  altri  poeti  venuti  di  poi,  sono  annunziati,  presentiti 
da  lui,  morto  a  trentasei  anni  in  una  squallida  giornata  di 
dicembre  del  '75.  Tutta  l'opera  dì  Emilio  Praga,  —  Tavolozza, 
Penombre,  Fiabe  e  Leggende,  Trasparenze  —  riappare  per 
amorosa  cura  fili? le  riunita  in  un  sol  corpo;  e  se  molti  sa- 
ranno coloro  che  nel  nuovo  volume  fresco  di  stampa  ricer- 
cheranno nostalgicamente  le  lontane  impressioni  della  giovi- 
nezza, ai  più  la  voce  del  soave  e  fosco  poeta  lombardo,  che 
toma  con  gli  accenti  delle  sue  amarezze,  il  fascino  delle  sue 
fantasie,  la  tenerezza  del  suo  Canzoniere  del  bimbo,  darà  la 
gioia  d'una  nuova  scoperta. 

In-16,  c(ni  ritratto.  Dodici  Lire. 


2        RULLETTINO   DI   NOVITÀ   LETTERARIE   DEI   FRATELLI    TrEVES 

ALESSANDRO  DUDAN 

LA  DALMAZIA  NELL'ARTE  ITALIANA 

VENTI  SECOLI  DI  CIVILTÀ 

(IN  DUE  VOLUMI) 

Volume  Secondo:  Dal  1480  ai  nostri  giorni 

,    *  Con  un  copioso  saggio  di  bibliografia  ragionata, 

quattro  indici  analitici,  e  140  illustrazioni. 

In-8,  di  pagine  336  di  testo,  e  108  d'illustrazioni:  Trentacinque  Lire, 

Il  Dndan  in  quest'opera,  arricchita  da  interessanti  illnstrazioni,  rievoca 
con  sintesi  felice  e  analizza  con  acuta  sapienza  di  critico  le  glorio  arti- 
stiche dàlmate,  riscontrando  ovunque  le  tracce  e  il  suggello  di  quello  spi- 
rito italiano,  che  il  tempo  non  ha  distrutto,  né  potrà  distruggere  mai. 

Voi.  I.  Dalla  preistoria  all'anno  1450.  In-8,  di  224  pagine  dì  testo 
e  116  dì  illustrazioni.  Venticinque  Lire. 

ENRICO  PEA 

iswfliosojLK.iDinsro 

Enrico  Pea,  il  giovane  scrittore  toscano,  ci  dà  in  qui'Sto  vigoroso  e  co- 
lorito racconto  la  piena  misura  della  sua  arte  singolare  e  personalissima. 
Con  una  efficacia  veramente  magistrale  egli  racconta  la  strana  storia  dei 
nonni  di  Moscardino  e  della  loro  famiglia  devastata  dalle  più  insano  pas- 
sioni e  dalle  più  cupo  follie.  Le  Alpi  Apuane  rigate  dai  bianchi  filoni 
di  marmo,  e  il  mar  Tirreno  dolcemente  increspato  dai  venti,  sono  lo  sfondo 
affascinante  di  quest'avventura  d'amore  e  di  morte. 

Un  volume  in  elegante  edizione  aldina.  Sette  Lire. 

*  LE  SPIGHE  * 

Medaglie  a  rovescio,  i"iJSàSii*"=""  ••»""  "" 

Capitoli,  NOVELLE  DI  CESARE  GIULIO  VIOLA. 

JrJOtOm  l'uomo  sincero,  novelle  di  nino  bavarese. 

Ciascun  volume:  Cinque  Lire. 


BULLETTINO    DI   NOVITÀ   LETTERARIE   DEI   FRATELLI    TrEVES       3 

SFINGE 

LA  VIETATA  SOGLIA 


La  nobile  scrittrice  romagnola,  già  tanto  nota  e  apprezzata  per  i  snoi 
romanzi  e  le  sne  novelle,  affronta  in  qnest'nltimo  romanzo  il  tema  affa- 
scinante, sempre  ricco  di  umanità  e  di  poesia,  dell'amore  che  sorge  e 
fiorisce  in  anime  già  mature  di  vita  e  d'esperienza.  È  uno  studio  origi- 
nale e  profondo,  ed  esce  dal  caso  particolare  per  elevarsi  a  considerazioni 
di  quell'alta  morale  umana  che  forma  l'essenza  dell'arte  di  Sfinge.  La 
vietata  soglia,  se  pure  di  contenuto  austero,  è  nello  stesso  tempo  un 
romanzo  divertentissimo,  poiché  si  svolge  sopra  uno  sfondo  di  frivola  e 
brillante  mondanità,  in  un  paesaggio  di  sole  e  di  smaglianti  colori,  com- 
ponendo, per  così  dire,  un  'coro  di  musiche  gaie,  di  variazioni  leggere, 
intorno  al  tema  centrale  di  elegia  appassionata. 

Nove  Lire. 


ANNA  FRANCHI 

SOMANZO 

Nella  chiusa  atmosfera  di  una  bottega  d'antiquario  a  Lucca,  la  città 
delle  Mura,  una  donna  giovane  ancora,  dall'anima  dolcissima  e  dal  cuore 
puro,  vive  la  sua  rinunzia  in  nome  del  più  alto  e  più  umano  sentimento 
femminile  :  la  maternità....  Romanzo  semplice  e  piano,  ricco  di  piccole 
figure  secondarie  che  ci  portano  nel  cuore  della  dolce  città  di  provincia 
e  danno  una  interessantissima  varietà  a  tutto  il  racconto  animato  da  un 
senso  profondo  di  umanità. 

Otto  Lire. 

ULRICO  ARNALDI 

MARA  ERA  FATTA  COSÌ 


Una  dolce  bellissima  inglese,  dall'anima  pura,  un  giovane  ardente  ap- 
passionato italiano  sono  i  protagonisti  di  questa  storia  d'amore.  Un  amore 
che  si  svolge  tormentoso  da  Roma  a  Parigi  a  Londra  e  non  può,  non 
può  trovare  il  suo  sbocco  nella  felicità  se  non  a  prezzo  del  più  oscuro 
pericolo  di  follia.  Ulrico  Arnaldi  ce  lo  racconta  con  un  impeto  di  since- 
rità pieno  di  poesia  e,  pur  negli  attimi  più  accesi,  con  una  misura  di 
espressione  squisitamente  elegante. 

Nove  Lire. 


4        BULT.ETTINO    DI    NOVITÀ    LETTERAUIK    DEI    FRATELLI    TrEVES 

LE  PIÙ  BELLE  PAGINE 
DEGLI  SCRITTORI  ITALIANI 
SCELTE  DA  SCRITTORI  VIVENTI 

COLLEZIONE   DIRETTA   DA 

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5.   Carlo    Cattaneo  per  Gaetano  Salvemini. 

0(jni  Volume  legalo  in  Ida  e  oro,  con  ritratto  dello  scrittore,       Dìeci  Lir6. 

J  primi  10  voltimi:  Lire      90. 
I  primi  20  volumi:  Lire  170. 

SABATINO  LOPEZ 

Ij^  iDiST-A-isrz:^ 

COMMEDIA    IN   TRE    ATTI 

È  la  dolce,  accorata  commedia  cui  già  il  pubblico  di-Milanodi  Torino  e 
di  (Genova  ha  fatto  le  più  trionfali  accoglienze.  L' antere  di  La  buona 
figliola,  di  La  nostra  pelle,  di  Mario  e  Maria  e  di  tante  altre  fra  le 
migliori  commedie  del  nostro  teatro,  ha  ancora  nna  volta  con  questa 
Distanza,  affermato  se  stesso. 

Sette  Lire. 
BIBLIOTECA  AMENA  a  Lire  3.50  //  volume 

979  a  8t.  Vita  ed  avventure  di  Robinson  Crusoè, 

di  DANIELE  DEFO£.  3  voi. 

NUOVI  QUADERNI  DELLA  GVEI^RA 

1-'  57/  Serie  del  Diario  della  Guerra  d'Italia.  \:lx^tnl 

Cou  dne  illustrazioni L.  2  — 

IN  PREPARAZIONE: 
Così    sia,  poema  drammatico  di  ToMMASO   GaLLARATI-ScOTTI. 


NEL   TEATRO  DEL  GOLDONI 

UNA    COMMEDIA    IN     LUOGO    DI     PREFAZIONE 


Il  Baretti,  prendendo  in  esame  nella  Frusta  letteraria  (1)  il  iomo^ 
primo  delle  Commedie  del  Goldoni  nell'edizione  Pasquali  (2),  dice 
parergli  che  la  prima  di  esse,  Il  teatro  comico,  «  sia  stata  scritta  da 
lui  per  avvezzare  il  popolaccio  a  giudicare  delle  sue  composizioni 
come  ne  giudicava  egli  stesso  5').  Per  quanto  maligne,  queste  parole, 
alle  quali,  come  fan  presagire,  tien  dietro  una  critica  spietata  della 
commedia,  dicono,  in  fondo,  cosa  vera.  Il  Goldoni,  infatti,  volle  con 
quella  commedia,  far  persuaso  il  pubblico  della  ragionevolezza  e 
bontà  della  sua  riforma.  La  commedia  fu  composta  nel  1750  e  stam- 
pata, la  prima  volta,  l'anno  appresso  a  Venezia  in  quell'edizione 
Bettinelli,  ch'egli,  dopo  le  prime  dodici  commedie,  che  aveva  rive- 
duto e  corretto,  non  volle,  com'è  noto,  più  riconoscere  e  alla  quale 
oppose  nel  '53  l'edizione  fiorentina  degli  eredi  Paperini.  In  quella  la 
commedia  fa  parte  del  tomo  secondo,  poiché  l'autore  l'aveva  com- 
posta dopo  che  il  primo  era  stato  impresso,  ma,  com'egli  scrisse  al- 
l'editore, l'avrebbe  volentieri,  se  avesse  potuto,  posta  in  fronte  a 
tutta  l'opera,  «  a  guisa  appunto  di  prefazione  »,  il  che  poi  fece 
nell'edizione  Paperini.  «  Prefazione  di  commedie  piìi  che  comme- 
dia »  la  dice  nella  lettera  dedicatoria  alla  marchesa  Litta  Calderari, 
e  la  stessa  cosa  ripete  L  autore  a  chi  legge:  «  Questa  ch'io  intitolo  11 
Teatro  Cormco,  piuttosto  che  una  commedia,  prefazione  può  dirsi 
alle  commedie».  Perchè  tale,  dubitava  il  Goldoni  del  buon  e^to  di 
essa,  e  fu  lieto  che  la  marchesa,  alla  quale  l'aveva  letta  prima  di 
farla  rappresentare,  l'avesse  approvata  e  ne  avesse  accettata  la  de- 
dica, poiché  —  così  egli  —  «vengonsi  ad  autenticare  per  vere  ed  in- 
fallibili tutte  le  massime  e  le  direzioni  da  me  proposte  per  far  rivi- 
vere, come  so  e  come  posso,  la  Commedia  in  Italia  ».  Che  se,  ad  otr 
tenere  questo  fine,  scrisse  una  commedia  piuttosto  che  un  proemio, 
ciò  fece  per  aver  modo,  come  dicono  i  Mémmres,  «d'instruine  les 
personnes  qui  ne  s'amusent  pas  de  la  lecture,  et  de  les  engciger  à 
écouter  sur  la  scène  des  maximes  et  des  corrections  qui  les  auraient 
ennuyées  dans  un  livre».  Per  lui  quella  commedia  altro  non  è 
«  qu'une  Poetique  mise  en  action,  et  devisée  en  trois  partiea  »  (3); 
ma  per  noi  è  qualche  cosa  di  più  :  è  la  rappresentazione  viva  e  vera 

(1)  N.  XII,  26  marzo  1764. 

(2)  Veneaia,  1761. 

(3)  Denxième  partie^  chapitre  VII. 

20  Voi    OCXVIT,  («erie  VI  —  16  ai^ril*  1922. 


"298  NEL  TEATRO  DEL  GOLDONI 

di  ciò  ch'era  il  teatro  comico  a  que'  giorni  in  Venezia,  così  rispetto 
a'  poeti,  come  agli  attori  e  al  pubblico. 

Che  cosa  fosse  la  commedia  dell'arte  e  a  qual  segno  decaduta, 
in  che  consistesse  la  riforma  di  lui,  quali  le  difficoltà  che  se  gli  op- 
posero e  quali  i  meezi  onde  tentò  di  sui)erarle;  tutto  ciò  il  Goldoni 
ci  mette  innanzi  agli  occhi.  Non  avesse  altro  pregio,  per  cotesto  solo 
la  commedia  ha  importanza.  Essa  comincia  con  un  dialogo  tra  Ora- 
zio, capo  della  compagnia,  ed  Eugenio,  secondo  amoroso.  Quegli 
entra  in  iscena,  mentre  s'alza  là  tenda,  e  vorrebbe  si  calasse  di  nuovo; 
questi  gli  fa  notare  che  se  si  cala,  non  ci  si  vede  più.  Il  Baretti  os- 
serva che  il  Goldoni  poteva  risparmiare  di  far  dare  un  comando  così 
sciocco  al  suo  impresario,  o  far  impresario  Arlecchino,  se  voleva 
così  subito  fargli  dire  una  sciocchezza;  ed  avrebbe  ragione,  se  Eu- 
genio non  soggiungesse  le  seguenti  parole,  ch'egli  si  guarda  bene 
dal  riportare  :  «  onde  per  provare  le  nostre  Scene,  Signor  Capo  di 
Compagnia,  vi  converrà  far  accender  de'  lumi».  Al  che  Orazio: 
«  Quand'è  così,  sarà  meglio  alzar  la  tenda.  Tiratela  su,  che  non  voglio 
spendere  in  lumi  {verso  la  scena)  ».  Eki  Eugenio:  «  Bravo,  viva  l'eco- 
nomia». Le  quali  parole  fanno  pensare  aver  voluto  il  Goldoni,  con 
quell'uscita,  mordere  l'avarizia  del  capo  comico,  nel  quale  intese, 
per  questo  rispetto,  raffigurare  il  Medebach,  come,  per  gli  ammae- 
stramenti che  quegli  dà  intomo  al  comporre  le  commedie  e  al  modo 
■di  rappresentarle,  intese  raffigurare  sé  stesso.  Cosa  non  seria  dice 
lui,  il  Baretti,  quando  soggiunge  che  se  il  Goldoni  con  la  sua  com- 
media «  voleva  mettere  in  ridicolo  i  difetti  de'  suoi  attori...  poteva 
far  tenere  calata  la  tenda,  e  far  recitare  la  sua  istruttiva  commedia 
a'  commedianti  stessi,  poiché  al  pubblico  fa  poco  caldo  o  poco  freddo 
che  i  commedianti  abbiano  de'  difetti  ridicoli,  o  non  gli  abbiano  ». 
La  commedia,  che  è  la  prima  delle  famose  sedici,  non  ne  è  certa- 
mente la  più  bella,  ma  l'avere  il  Goldoni  rappresentato  in  essa  i  co- 
mici stessi,  de'  quali  seppe  cogliere  le  qualità  buone  e  i  difetti,  e 
l'averli  fatti  provare  una  commedia  nella  commedia,  con  l'aiuto  del 
suggeritore,  il  quale  desidera  far  presto,  perchè  l'ora  è  tarda,  mentre 
qiuelli  non  se  ne  danno  per  intesi,  e  le  ripetute  interruzioni  della 
prova  per  l'una  o  per  l'altra  ragione,  e  il  presentarsi  di  Lelio  per 
■essere  accolto  come  poeta  della  compagnia  e  di  Eleonora  per  cantar 
gl'intermezzi;  tutto  questo  dà  vivacità  all'azione  e  fa  tollerare  il  ]ye?o 
de'  precetti  ch'escono,  di  quando  in  quando,  dalla  bocca  del  capo- 
comico; tanto  è  vero  che  da  quelle  scene  seppe  trarre  ispirazione, 
un  secolo  dopo.  Paolo  Fearrari  nelle  più  notevoli  per  comicità  del 
suo  Goldoni  e  le  site  sedici  comrriedie  nu&ve. 

• 
*  • 

Proemiando  nell'edizione  Paperini  alla  commedia  //  servitore 
di  due  padroni,  dice  il  Goldoni  non  esser  essa  «  di  carattere  »  ma 
potersi  chiamare  piuttosto  «commedia  giocosa»,  e  soggiunge:  «  Ras- 
somiglia moltissimo  alle  Commedie  usuali  degli  Istrioni,  se  non 
che  scevra  mi  pare  ella  sia  da  tutte  quelle  improprietà  grossolane 
che  nel  mio  Teatro  comico  ho  condannate,  e  che  dal  Mondo  sono 
oramai  generalmente  aborrite  »   (1),   Da  queste  parole  risulterebbe 

(1)  Tomo  III,  pag.  338. 


NEL  TEATRO  DEL  GOLDONI  299 

chiamar  eg^li  commedie  di  carattere  le  scritte,  giocose  le  improvvise. 
E  commedia  improvvisa,  eccettuate  poche  scene  di  ciascun  atto,  era 
in  origine  II  servitore  di  due  'padroni.  Dice  Anselmo,  il  Brighella 
del  Teatro  comico  :  «  Quando  le  commedie  son  diventade  meramente 
ridicole  (e  allude  alle  improvvise)   ...col  pretesto'  de  far  rider,  se 
ammetteva  i  più  alti,  i  piìi  sonori  spropositi  »  (1).  E  Tonino,  il  Pan- 
talone :  «  Le  commedie  di  carattere  (e  intende  le  scritte)  le  ha  butà 
sottossora  el  nostro  mestier»,  quello  cioè  «de  dir  all'improviso  ben 
o  mal  quel  che  vien  »,  onde  pel  commediante  «  se  el  gh'ha  reputa- 
zion  »  la  necessità  di  studiarle  e  il  timore,  ad  ogni  nuova  commedia, 
«  o  de  no  saverla  quanto  basta,  o  de  no  sostegnir  el  carattere  come  xe 
necessario»  (2).  A  siffatta  distinzione,  che  il  Goldoni  fa  delle  due 
specie  di  commedie,  non  pose  o  non  volle  por  mente  il  Baretti,  il 
quale  afferma  parlar  quegli  sempre  di  caratteri  «  senza  avere  una 
idea  del  significato  di  questo  vocabolo  ».  Secondo  lui.  Placida,  la 
prima  donna^   u  non  capisce  neppure  che  una  commedia  intitolata 
Il  Padre  rivale  del  Figlio  (quella  ch'ella  deve  provare  insieme  con 
gli  altri  comici  della  compagnia)  bisogna  a  forza  che  sia  una  comi- 
media  di  carattere».  Gli  si  potrebbe  opporre  che  quella  commedia, 
quantunque  Placida  soggiunga  esser  «  condotta  bene  »  e  sentirvisi 
«  ben  maneggiati  gli  affetti  »  (3),  non  parve  forse  al  Goldoni  meri- 
tevole di  quel  nome,  essendo  essa  «  una  piccola  farsa  —  così  Orazio 
—  ch'egli  non  conta  nel  numero  delle  sue  commedie»  (4).  E  Farces 
chiama  il  Goldoni  ne'  Mémoires  quelle  che  aveva  «  forme  le  projet... 
de  remplacer...  par  des  Gomédies»  (5).  Ma  insiste  il  Baretti:   «Le 
commedie  dell'arte,  com'egli  le  chiama,  non  erano  forse  anche  quelle 
di  carattere?».  Si  direbbe,  se  così  è,  che  del  significato  di  quel  vo- 
cabolo non  abbia  avuto  un'idea  nemimeno  Gasparo  Gozzi,  che  scrive  : 
«  Per  la  commedia  improvvisa  si  debbono  lasciare  indietro  i  carat- 
teri, e  massimamente  quelli  che  abbiano  in  sé  qualche  squisitezza, 
perchè  i  commedianti,  per  quanto  sieno  ingegnosi  e  pronti  di  spirito, 
non  possono  repintinamentè  entrare  in  tutte  le  parti  di  quel  costume 
che  rappresentano»  (6).  Comunque  sia,  fu  notato  non  essere  le  com- 
medie del   Goldoni   commedie  di  carattere  nel  senso  tradizionale 
della  parola,  come  sono  quelle  del  Molière;  donde  la  differenza  tra 
l'uno  e  l'altro.  I  suoi  personaggi,  anziché  rappresentare  al  vivo  o  un 
vizio,  o  un  costume,  o  un  difetto,  si  contentano  di  essere  tali  quali 
contribuiscono  a  foggiarli,  oltre  le  circostanze  —  dalla  varietà  delle 
quali,  com'egli  dice,  «  ogni  vizio,  ogni  costume,  c^ni  difetto  prende 
aria  diversa  »  (7)  —  i  luoghi  dove  si  muovono  e  agiscono;  talché  per- 
sonaggi e  luoghi  vivono,  per  così  dire,  della  stessa  vita,  né  sarebbe 
possibile  immaginarli  disgiunti.  Di  quella  differenza  non  ebbe  forse 
egli  stesso  un'idea  chiara,  poiché  Orazio,  il  quale  respinge  l'offerta 

(1)  Atto  II,  scena  I. 

(2)  Atto  I,  scena  IV 

(3)  Atto  I,  Boena  II. 

(4)  Ivi. 

(5)  Deuxième  partie,  cliapitre  XXIV. 

(6)  La  «  Gazzetta  Veneta  »  per  la  prima  volta  riprodotta  n^lla  sua  lette- 
raria integrità  con  proemio  e  note  di  Antonio  Zabdo.  Firenze.  Sansoni, 
MCMXV,   pag.  297. 

(7)  Atto  III,  8oen»  IX. 


300  HEL  TEATRO  DEL  GOLDONI 

che  gli  fa  il  poetastro  I>elio  di  una  commedia  tradotta  dal  francese, 
dopo  aver  detto:  «Un  carattere  solo  basta  per  sostenere  una  com- 
media francese  »,  soggiunepe:  "  I  nostri  Italiani  vogliono  molto  più. 
Vogliono,  che  il  carattere  principale  sia  forte,  originale  e  conosciuto: 
che  quasi  tutte  le  persone,  che  formano  gli  episodi  sieno  altrettanti 
caratteri»  (1).  Non  fa  mestieri  di  dire  non  avere  il  Goldoni  inteso, 
con  tali  parole,  di  pareggiare  sé  stesso  agli  autori  comici  francesi  e 
tanto  meno  di  mettersi  «<  più  su  di  essi  »,  come  vorrebbe  il  Baretti,  a 
giudizio  del  quale,  «  se  avesse  saputo  parlare  con  verità  »,  avrebbe 
dovuto  mettere  in  bocca  ad  Orjizio  quest'altre  :  «  chi  vuol  piacere  con 
una  commedia  al  grosso  del  popolo  italiano,  che  in  tutta  Italia  è 
incolto  e  pieno  d'ignoranza  della  più  grassa,  bis(^na  che  prenda  in 
prestito  molte  volte  dalle  commedie  dell'arte  gli  Arlecchini,  i  Bri- 
ghelli, i  Pantaloni  e  i  Dottori».  Il  Baretti,  mentre  crede  di  gettare 
il  disprezzo  sulla  commedia  goldoniana,  accenna,  senza  volere,  a 
quello  che  è  uno  de'  suoi  pregi  maggiori,  non  tanto  per  avere,  cwne. 
egli  dice,  preso  in  prestito  dalle  commedie  deU'arte  le  maschere  — 
il  che  se  anche  fece  molte  volte  per  condiscendere  al  gusto  degli 
spettatori,  cercò  tuttavia  «  di  bene  allogarle  e  di  sostenerle  con  me- 
rito nel  loro  carattere  ridicolo  »  —  (2),  quanto  per  avere  accolto  nella 
sua  tutto  ciò  ch'era  in  quella  di  ancor  vivo  e  buono.  Ma  bastasse  il 
non  aver  idea  del  significato  del  vocabolo  carattere!  <(  E  chi  cre- 
derebbe, aggiunge  il  Baretti,  ch'egli  non  sa  neppure  il  significato 
de'  voc-aboli  dialogo,  soliloqtdo,  rimprovero  e  disperazione?».  Certo 
il  Goldoni  ha  il  torto  di  far  supporre  ciò  a  ohi  non  voglia  capire  che 
se  Anselmo  dice  a  Lelio  :  «  Le  son  cosse,  che  no  se  usa  più  »,  intende 
delle  commedie  dell'arte  (3);  tanto  è  vero  che  a  costui,  il  quale  ma- 
ravigliato gli  chiede:  «Ma  presentemente  che  cosa  si  usa?»,  ri- 
sponde: «Commedie  di  carattere»  (4).  Al  medesimo  che,  più  in- 
nanzi, improvvisa  un  soliloquio,  rivolgendo  la  parola  agli  spettatori, 
osserva  Orazio  esser  codesto  «un  vizio  intollerabile».  E  quegli: 
«  Dunque  non  si  faranno  mai  soliloquj  ».  «  Signor  sì,  risponde  Ora- 
zio, i  soliloquj  sono  necessari  »,  e  ne  spiega  la  rag^ione  e  gli  fa  vedere 
come,  «senza,  parlare  al  popolo»,  si  possan  dire  le  cose  stesse  ohe 
quegli  aveva  detto  (5).  Il  Goldoni,  del  resto,  non  ostante  abbia  dato, 
con  le  sue  commedie  scritte,  il  colpo  di  grazia  alle  improvvise,  non 
intendeva  che  queste  fossero  abolite  «  intieramente  »,  poiché  «  va 
bene,  dice  Orazio  per  lui,  che  gl'Italiani  si  mantengano  in  possesso 
di  far  quello  che  non  hanno  avuto  il  coragigio  di  fare  le  altre  na- 
zioni »  (6).  Ch'egli  non  avesse  per  la  commedia  dell'arte  «  quell'asso 
luta  ripugnanza  che  s'è  voluto  far  credere  »  è  già  stato  dimostrato  (7). 

(1)  Atto  II,  scena  III. 

(2)  Atto  II,  scema  X. 

(3)  Pei  comici  di  queste  il  Goldoni  giovìn«>tto  aveva  composto  egli  pure 
de'  diàloghi,  soliloqui,  ecc.,  che  quelli  avranno  aggiunto  agli  altri  dei  loro 
zibaldoni  o,  come  li  chiamavano,  libri  generici.  Cfr.  Maria  Oktiz,  Il  canone 
principale  della  poetica  goldoniana,  negli  Atti  della  Reale  Accademia  di  Ar- 
cheologia, Lettere  e  BeUt  Arti,  voi.  XXIV,  parte  seconda.  Napoli,  1906, 
pagg.  8  e  66. 

(4)  Atto  II,  aoena  I. 

(5)  Atto  III,  scena  II. 

(6)  Atto  II.  scena  X. 

(7)  Maria  Ortiz,  op.  cit. 


NEL  TEATRO  DEL  GOLDONI  301 

E  poi  c'erano  ancora  a  que'  griomi  de'  comici  che  av^evano  «  l'am- 
mirabile privil^io  di  parlare  a  sc^getio,  con  non  minore  eleganza 
di  qiiello  che  potesse  fare  un  poeta  scrivendo  »  (1),  e  per  tali  comici 
eg"li  aveva  da  prima  composto  alcuni  scenari  e  poi  connnedie  in  parte 
scritte  e  in  parte  no,  finché  non  scrisse  tutta  intera  La  donna  di 
garbo,  continuando  appresso,  di  bene  in  m^lio,  la  sua  riforma, 
dalla  quale  se  si  lasciò  qualche  volta  distrarre,  come  gli  accadde 
nel  suo  soggiorno  a  Parigi,  dove  compose  molti  scenari,  ciò  non  pro- 
venne, per  usare  delle  parole  ch'egli,  quasi  presago,  aveva  scritte 
alcuni  anni  prima  a  Gabriele  Ck>met,  «  dal  suo  capriccio,  ma  dalla 
necessità  di  piacere  »  (2);  e  a'  parigini,  ai  quali  non  importava  della 
riforma  di  lui,  piaceva  di  sentire  i  comici  italiani  recitare  all'improv- 
viso. E  piaceva  anche  a  Gasparo  Gozzi,  il  quale,  in  quella  medesima 
Gazzetta  Veneta,  dove  fa  le  maggiori  lodi  di  que'  due  capolavori  che 
sono  /  rusteghi  e  La  casa  nova,  a  tale  che  immagina  gli  chiedesse: 
«  se  sieno  più  da  apprezzare  le  commedie  pensate  e  scritte  dall'au- 
tore e  imparate  a  mente  da'  commedianti,  o  quelle  che  i  commedianti 
sopra  una  ristretta  orditura  fanno  da  sé  all'improvviso»,  risponde: 
«  dicovi  che  tuttaddue  sono  buone  e  belle,  tuttaddue  sono  un'imita- 
zione di  natura  in  loro  specie  perfetta.  Se  poi  mi  chiedeste  quali 
sieno  di  maggiore  utilità  a'  teatri,  vi  risponderei  le  improvvise,  per- 
chè queste  sono  di  maggior  durata  delle  altre,  e  non  senza  ra- 
gione» (3).  E  la  ragione  è  che  i  costumi  nella  scritta,  essendo  «più 
delicati  e  fini  »,  cambiano  presto;  mentre  nell'improvvisa,  essendo 
«  popolari,  e  più  grossi  »,  durano  più,  e  quando  pure  fossero  «  stabili 
e  durevoli  »  tanto  nell'una  che  nell'altra,  in  quella  si  manifestano 
sempre  con  le  stesse  parole,  mentre  in  questa  «  mutasi  il  dialogo 
ogni  sera  e  rinnovasi  ad  ogni  rappresentazione  e,  secondo  che  da 
questi  0  da  que'  commedianti  viene  rappresentata,  rifiorisce,  ringio- 
vanisce e  quasi  sovra  un  vecchio  tronco  nuovi  ra,mi  e  germogli  ri- 
mette »  (4). 

La  ragione  è  più  speciosa  che  vera,  e  fa  maraviglia  non  s'accor- 
gesse il  giudizioso  Gasparo  come  fosse  incerta  e  piena  di  pericolo 
quell'arte  che,  sorta  spontanea  e  vivace  dall'ingegno  italiano,  stra- 
nezza e  goffaggine  di  scenari  e  lazzi  e  sguaiataggini  d'attori  igno- 
ranti avevano  ridotta  al  punto  da  non  potersi  più  tollerare.  Invano 
suo  fratello  Carlo,  che  alla  commedia  II  teatro  comico  aveva  opposto 
la  feroce  satira  //  teatro  comico  alt  osteria  del  Pellegrino,  tentò  con 
le  Fiabe  di  mantenerla  in  vita  :  furono  l'ultimo  guizzo  d'una  fiamma 
vicina  a  spegnersi.  Egli,  n^ìY Amore  delle  tre  melarance,  mettendo  in 
ridicolo  il  Goldoni  sotto  le  spoglie  del  mago  Celio,  credette  di  col- 
pii^e  a  morte  la  sua  riforma,  ma  fu  telum  imbelle.  Usavano  ben  altro 
che  mutare  il  dialogo  <^tiì  sera  i  comici  dell'arte!  Nel  timore  volesse 
far  ritornare  la  compagnia  a  quel  genere  di  commedie,  dice  Placida 
ad  Orazio  :  «  Se  facciamo  le  commedie  dell'arte,  vogliamo  star  bene. 
Il  mondo  é  annoiato  di  veder  sempre  le  cose  istesse,  di  sentir  sem- 
pre le  parole  medesime,  e  gli  Uditori  sanno  cosa  deve  dir  l'Arlec- 

(1)  Atto  II,  soena  X. 

(2)  Lettere  di  Cario  Goldoni  con  proemio  e  note  di  Ernbsto  Masi.  Bo- 
logna, Zanichelli,  1880,  pagg.  128-129. 

(3)  Ediz.  cit-,  pagg.  297-298. 

(4)  Ivi. 


302  NEL  TEATRO  DEL  GOLDONI 

chino  prima  ch'egli  apra  la  bocca»  (1).  Nelle  scene  tra  Orazio  e  Le- 
lio, e  nelle  altre  in  cui  il  dialogo  si  svolge  principalmente  tra  essi 
due,  il  Goldoni  prende  di  mira  i  difetti  più  gravi  della  commedia 
improvvisa,  alla  quale  contrappone  la  meditata  e  scritta,  pigliando 
a  ciò  occasione  dall'offerta  che  Lelio  fa  ad  Orazio  di  una  sua  com- 
media a  soggetto,  dal  lungo  e  complesso  titolo,  che  quegli  si  vanta  di 
aver  fatta  in  tre  quarti  d'ora.  Tale  offerta  ricorda,  come  notò  un  dili- 
gente e  autorevole  studioso  del  Goldoni  (2),  quella  di  cui  fa  cenno  il 
Molière  nella  prima  scena  della  commedia  L'impromptu  de  Versail- 
les, dalla  qual  commedia  e  dall'altra  La  critique  de  Vécole  des  fem- 
mes  avrebbe  tratto  il  Goldoni  ispirazione  alla  sua.  Sennonché  in  co- 
testa  accade  l'opposto.  NélYImpromptu  il  Molière,  che  vi  figura  tra 
i  personaggi,  dice  aver  pensato  una  commedia,  dove  un  poeta,  nel 
quale  intendeva  raffigurare  sé  stesso,  sarebbe  venuto  ad  offrire  una 
conmnòdia  ad  una  compagnia  di  comici  arrivati  di  recente  dalla  cam- 
pagna, cioè  ad  attori  usi  a  recitare  meschini  imparaticci;  nel  Teatro 
comico  è  Lelio,  il  cattivo  raffazzonatore  di  scenari,  che  ne  offre  uno 
ad  Orazio,  cioè  al  capo  di  una  compagnia,  che  s'era  ormai  messa  nel- 
l'impegno di  far  trionfare  la  riforma  del  Goldoni.  Lelio  ha  bisogno 
di  sfamarsi  e,  poiché  non  riesce  a  far  accettare  la  commedia  a  sog- 
getto, né,  in  cambio  di  questa,  una  tradotta  dal  francese  e  nemmeno 
«  una  di  carattere  di  sua  invenzione  »  dallo  sconcio  titolo  //  padre 
mezzano  delle  proprie  figliuole,  offre  sé  stesso  come  comico.  Orazio 
dapprima  lo  respinge  :  «  Siete  un  impostore,  gli  dice,  e  come  siete 
stato  un  falso  poeta,  così  sareste  un  cattivo  comico  »  (3);  ma  poi,  pre- 
gato da  Anselmo,  che  ha  compassione  di  quell'affamato,  finisce  con 
l'accoglierlo  nella  compagnia.  Egual  sorte  tocca  ad  Eleonora,  la  can- 
tatrice,  non  meno  piena  di  fame  che  di  boria.  A  costei,  la  quale  si 
offre  a  cantar  gl'intermezzi  nella  commedia,  Orazio  risponde  non 
aver  «  bisogno  i  comici,  per  far  fortuna,  dell'aiuto  della  musica  »  ed 
essersi,  pur  troppo,  l'arte  loro  avvilita,  per  alcun  tempo,  a  segno  di 
mendicare  da  essa  «  i  suffragi  per  tirar  la  gente  al  teatro»  (4).  Eleo- 
nora; consigliata  da  Lelio  e  più  dalla  fame,  dopo  aver  fatto  alquanto 
la  ritrosa,  s'adatta  ella  pure,  e  n'ha  di  grazia,  a  fare  la  comica. 

* 

•k  -k 

Nella  commedia  dell'arte  che,  da  più  d'un  secolo,  era  corrotta  a 
segno  ch'erasi  resa,  com'egli  dice,  «  abominevole  oggetto  di  disprezzo 
alle  oltramontane  nazioni  »,  aveva  il  Goldoni  notato  di  quando  in 
quando,  alcune  cose  buone  :  qualche  ragionaimento  grave  ed  istruttivo, 
qualche  delicato  scherzo,  qualche  accidente  ben  collocato,  qualcuna 
di  quelle  pennellate  che  danno  risalto  a  una  figura  comica,  qualche 
critica  opportuna  e  sottile  di  costumanza  allora  in  voga  (5),  e  di  tutte 
queste  cose  e  di  altre  ancora,  dovute  la  più  parte  al  felice  improvvi- 

(1)  Atto  I,  Bcena  II. 

(2)  Edoardo  Maddalena,  Scene  e  figv/re  molieresche  imitate  dal  Ooldom, 
nella  Rivista  teatrale  italiana,  anno  V,  voi.  X,  sett.-nor.  1905. 

(3)  Atto  II.  scena  IH. 

(4)  Atto  II,  scena  XV. 

(6)  Cfr.  la  Prefazione  deìVAutore  premessa  all'edizione  im^perfetta  di  Ve- 
nezia, riprodotta  nel  t.  I  dell'edizione  Eredi  Paperini.  Firenie,  1768. 


NEL  TEATRO  DEL   GOLDONI  303^ 

sare  di  taluno  fra  i  comici  (1),  egli  fece  tesoro  nelle  commedie  sue 
scritte,  le  più  famose  delle  quali,  se  non  al  pari  del  Servitore  di  due 
padroTìi,  rassomigliano,  qual  più  qual  meno,  alle  commedie  improv- 
vise. 

Vi  rivivono  di  queste  lo  spirito  e  i  modi,  eccettuato,  s'intende,, 
quant'era  in  esse  non  soltanto  di  scurrile,  ma  di  contrario  alla  sin- 
cerità e  alla  naturalezza,  dappoiché,  egli  dice,  «  più  di  tutto  m'ac- 
certai che  sopra  del  meraviglioso,  la  vince  nel  cuor  dell'uomo  il  sem- 
plice e  il  naturale»  (2).  E  semplice  e  naturale  voleva  il  linguaggio, 
contrariamente  a  quello  usato  in  que'  giorni  dai  comici  dell'arte,  che 
si  compiacevano  delle  metafore  più  strampalate .  Di  queste  danno 
esempio,  nel  Teatro  comico,  il  poeta  Lelio  e  Anselmo.  Quegli  dice 
aver  composto  scene  da  far  «  piangere  gli  scanni  »  e  «  battere  le 
mani  ai  palchi»,  onde  Eugenio:  «Questo  è  un  poeta  del  Seicen- 
to» (3);  Anselmo,  recitando  la  parte  di  Brighella  nel  Padre  rivale 
del  figlio,  vi  aggiunge,  a  un  certo  punto,  di  suo  un  parallelo,  do- 
v'enlranol  i  marinai  de'  miei  pensieri,  alle  quali  parole  Orazio 
lo  interrompe:  «Basta  così,  basta  così»  (4).  Il  Motndo  e  il  Teatro, 
ecco  i  due  libri  sui  quali  il  Goldoni,  per  sua  confessione,  meditò- 
più  a  lungo,  quantunque  non  trascurasse  «  la  lettura  de'  più  ve- 
nerabili e  celebri  Autori,  da'  quali  non  possono  trarsi  che  utilissimi 
documenti  ed  esempli  »  (5).  Quanto  alle  regole  osservate  da  qu^li 
autori,  ei  le  segue  finché  non  gl'imipediscono  di  ottenere  quel  mag- 
gior effetto  che  s'era  proposto;  nel  caso  contrario  le  trasgredisce  e  fa 
sue  le  lioemie,  non  di  rado  più  giudiziose,  della  commedia  dell'arte, 
persuaso  com'era  «  che  più  scrupolosamente  che  ad  alcuni  precetti 
di  Aristotile,  o  d'Orazio,  convenga  servire  alle  l^gi  del  Popolo  in 
uno  spettacolo  destinato  all'istruzion  sua  per  mezzo  del  suo  diver- 
timento e  diletto»  (6).  Gli  argomenti  coi  quali,  dedicando  nel  1758 
la  commedia  /  malcontenti  a  Giovanni  Murray,  mostra  esser  «  ridi- 
cola la  ragione  di  quelli  che  sostengono  necessaria  l'unità  del  tempo 
e  del  luogo»,  sono  de'  più  efficaci  che  contro  (juelle  unità  sieno 
mai  stati  addotti  da  quanti,  o  contemporanei  o  posteriori  a  lui,  le 
combatterono,  sia  pure  con  maggior  larghezza  e  dottrina.  Dice  Ura- 
nie  nella  commiedia  La  critique  de  Fècole  des  femmes  :  «  J'ai  re- 
marqué  une  chose  de  ces  messieurs-là;  c'est  que  ceux  qui  parlent 
les  plus  de  régles,  et  qui  les  savent  mieux  que  les  autres,  font  des 
comédies  que  personne  ne  trouve  belles»  (7).  Ed  il  Goldoni  nella 

(1)  Del  Sacchi,  che  aveva  improvvisato  la  parte  di  Truffaldino  nel  Servi- 
tore di  due  padroni,  commedia  dal  Groldoni  «  designata  espressamente  »  per 
hii,  eh©  gliene  aveva  propoeto  l'argomento,  scrive:  «Ha  una  prontezza  tale 
di  spirito,  nna  tal©  abbondanza  di  sali,  e  naturalezza  di  termini  che  sor- 
prende». E  soggiunge:  ((Volendo  io  provvedermi  per  le  parti  buffe  delle  mi© 
commedie,  non  saprei  meglio  farlo  che  studiando  sopra  di  lui  ».  (Tomo  III  del- 
l'©diz.   Paperinij  pagg.  335-36). 

(2)  Ediz.  Pai)erini,  t.  I,  pag.  15. 

(3)  Atto  I,  scena  XI. 

(4)  Atto  IIj  scena  IX.  Acuti©  osservazioni  su  questo  proposito  e  intorno 
al  personaggio  Lelio  fa  Maria  Ortiz  nello  scritto  citato. 

(5)  Ediz.  Paperinij  t.  I,  pag.  17. 

(6)  Ivi,  pag.  18. 

(7)  Scena  VII. 


à 


.304  NEL  TEATRO  DEL  GOLDONI 

dedicatoria  citata  :  «  Ma  pur  troppo  si  veggono  questi  rigorosi  se- 
guaci di  Orazio  e  di  Aristotile  osservare  con  stento  i  precetti  delle 
unità  e  trascurare  le  regole  della  ragione  dettate  dalla  natura  ed 
approvate  dall'umversale  dei  popoli».  Sappiamo  da  lui  ohe  i  cri- 
tici delle  sue  commedie  non  avevano  nulla  a  rimproverargli  quanto 
all'unità  d'azione  e  a  quella  del  tempo,  ma  l'accusavano  di  non 
aver  rispettato  l'unità  di  luogo;  al  che  egli  oppone  non  aver  mai 
fatto  uscire  i  personaggi  delle  sue  commedie  dalla  città  in  cui  ai 
svolge  l'azione,  benché  passino  da  un  luogo  all'altro  di  quella, 
e  credere,  per  tal  modo,  di  aver  osservato  sufficientemento  quel 
precetto  (1).  Nel  Teatro  comico,  a  Lelio,  che  si  vanta  di  averlo  scru- 
polosamente osservato  nella  sua  commedia  di  carattere,  come  «  il 
più  essenziale»  secondo  l'autorità  di  Aristotile,  che  egrli,  del  resto, 
confessa  non  aver  mai  letto,  obietta  Orazio  averlo  quegli  nella  sua 
Poetica  prescritto  soltanto  rispetto  alla  treigedia  (non  egli,  a  dir 
vero,  ma  i  suoi  interpreti),  non  ostante  altri  vogliano  debba  inten- 
dersi anche  della  commedia;  ma  che  s'egli  vivesse  al  presente,  lo 
cancellerebbe,  poiché  da  esso  «  nascono  mille  assurdi,  mille  impro- 
prietà e  indecenze».  Gli  antichi,  soggiunge,  l'osservavano  (non  sem- 
pre, com'ha  dimostrato  il  Metastasio  nel  cap.  V  del  suo  Estratto  del- 
Varte  poetica  di  Aristotile),  perchè  non  avevano  la  facilità,  che  ab- 
biamo noi,  di  cambiare  le  scene;  ma  «  noi  avremo  osservata  l'unità 
del  luogo  sempre  che  si  farà  la  commedia  in  una  stessa  città,  e  molto 
più  se  si  farà  in  una  stessa  casa»  (2).  E  continua  disai>provando  la 
facilità,  della  quale  tuttavia  avevano  cominciato  a  dar  prova  di  cor- 
reggersi, con  cui  gli  Spagnuoli  solevano  passare  da  una  città  a  un'al- 
tra lontana.  Siffatta  disapprovatzione  —  merita  esser  notato  —  non 
è  più  nella  lettera  dedicatoria  al  Murray,  che  il  Goldoni  scrisse  sei 
anni  più  tardi.  Ivi  egli  loda  senza  restrizioni  lo  Shakespeare  di  aver 
seguito  la  libertà  degli  Spagrnuoli  che,  in  onta  ad  Aristotile,  «  hanno 
emipiuto  per  tanti  secoli  i  loro  teatri  di  opere  meravig^liose,  istrut- 
tive e  piacevoli  ».  Con  tutto  ciò  non  avrebbe  voluto  si  abusasse  dei 
cambiamenti  di  scena:  in  una  lettera  da  Fontainebleau,  1*8  otto- 
bre 1765,  al  marchese  Albergati  Capacelli,  scrive  parergli  che  l'aver 
cambiato  quattro  volte  la  scena  in  una  commedia  di  un  atto  solo, 
come  quegli  aveva  fatto,  «ecceda  la  libertà  Italiana»  (3).  Al  mede- 
simo Lelio,  che,  nella  commedia  che  si  sta  provando,  nota  essere 
«  uno  sproposito  »  il  far  agire  ad  un  tempo  più  di  tre  personaggi-, 
perchè  ha  sentito  dire  ciò  essere  contrario  al  precetto  d'Orazio;  ri- 
sponde il  capocomico  non  aver  questi,  col  suo  riec  quarta  loqtà  per- 
sona laboret,  inteso,  come  vogliono  alcuni,  che  non  lavorirw  più  di 
tre,  bensì  «(Che  se  son  quattro,  il  quarto  non  si  affatichi  (la  stessa 
interpretazione  dà  il  Metastasto)  (4),  cioè,  che  non  si  diano  incomodo 
i  quattro  Attori  un  con  l'altro,  come  succede  nelte  scene  all'improv- 
viso, nelle  quali,  quando  sono  quattro  o  cinque  persone  in  scena, 
fanno  sùbito  confusione».   Siffatto  inconveniente  delle  commedie 

(1)  Mémoirei,  deuziènve  partie,   ohapitre  III. 

(2)  Atto  II,  soena  III. 

(3)  Lettere  di  Carlo  Goldoni  càt.,  pag.  288. 

(4)  Nelle  Annotazioni  alia  poetica  d'Orazio,  da  lui  tradotta,  e  neìì' Estratto 
deWarte  poetica  di  Aristotile,  cap.  XII. 


NEL  TEATRO  DEL  GOLDONI  305 

improvvise  non  s'avverava  nelle  scritte,  onde  sog'giunge:  «Per  altro 
le  scene  si  possono  fare  anche  di  otto  o  dieci  persone  (taJi  alcune 
scene  di  questa  stessa  commedia),  quando  sieno  ben  regolate,  e  che 
tutti  i  personaggi  si  facciano  parlare  a  tempo,  senza  che  uno  disturbi 
l'altro»  (1). 

* 
*  • 

È  noto  come,  non  ostante  li  abbia  usati  in  molte  delle  sue  com- 
medie, il  Goldoni  dichiari  non  essere  «  mai  stato  amico  »  (2)  de' 
versi  che  Pier  Iacopo  Martelli  ebbe  «  la  folle  d'imaginer»,  e  ch'egli 
9i  divertì  «  à  faire  trouver  bons  »,  non  già,  come  dice  per  errore  di 
memoria,  <c  cinquanta  ans  après  la  mori  de  leur  Auteur  »  (3) ,  bensì 
ventiquattro;  poiché  la  commedia  II  Molière,  nella  quale  li  usò  la 
prima  volta,  è  del  1751  ed  il  Martelli  era  morto  nel  '27.  Que'  versi 
piacquero  tanto  ch'egli  si  sentì  indotto  a  valersene  in  altre  conmiedie, 
e,  come  pur  troppo  avviene,  destarono  in  molti  il  desiderio  di  com- 
pome; talché  Gasparo  Gozzi,  in  una  lettera  di  tre  anni  appresso  a 
Stello  Mastraca,  dice:  «  Tutto  il  mondo  é  versi  martelliani...  i  bottai 
sotto  le  vostre  finestre  battono  in  tuono  di  verso  martelliano,  ecc.  »,  e 
il  Goldoni  stesso,  in  queìranno  medesimo,  per  bocca  d'uno  de'  per- 
sonaggi meno  noti,  ma  più  originali,  del  suo  teatro,  Zamaria  dela 
Bragola  (4),  curioso  tipo  di  quegli  importuni  che  vanno  a  dar  noia  a' 
comici  sul  palcoscenico  :  «  Mi  credo  che  i  metta  in  versi  anca  la  lista 
della  lavandera  »  (5). 

Non  fa  maraviglia  pertanto  se  il  cattivo  esito  di  altre  commedie, 
che  il  Goldoni  fece  rappresentare  in  quegli  anni,  fu  attribuito  prin- 
cipalmente all'averle  egli  scritte  m  prosa.  «  Ade^o,  sentenzia  il  sul- 
lodato  Zamaria,  co  le  comedie  no  xe  in  versi,  no  le  piase  più  ».  Otta- 
vio, il  capocomico,  non  crede  che  quell'incanto  de'  versi  martelliani 
durerà  lungamente,  ed  egli  :  «  El  xe  pur  sta  elo,  el  vostro  poeta,  che 
ì  ha,  se  poi  dir,  inventai,  che  i  ha  messi  in  credito.  Ghe  xeli  fursi  ve- 
gnui  in  odio,  dopo  che  el  li  ha  visti  dai  altri  imitai?  Gh'alo  rabbia 
perchè  a  farghene  noi  xe  solo?  »  (6).  Tali  le  chiacchiere  dei  malevoli; 
ma  egli  era  persuaso  che  la  prosa  soltanto  convenisse  alla  commedia, 
discorde  in  ciò  dal  Maffei,  che  avrebbe  voluto  i  versi,  «  ma  versi  tali 
che  si  potessero  recitare  senza  il  suono,  versi  che  sembrassero 
prosa»  (7).  Il  proprio  sentimento  in  siffatta  questione  aveva  già  ma- 
nifestato chiaramente  il  Goldoni  nel  Teatro  comico,  dove  a  Lelio, 
che  vuol  recitcLr:gli  «  un  pezzo  di  commedia  in  versi  »,  perché  «  le 
buone  commedie  italiane  devono  essere  scritte  in  versi  »  e  perchè 
«  così  hanno  fatto  i  nostri  antichi,  e  così  vogliono  che  si  faccia  alcuni 

(1)  Atto  III,  scena  IX. 

(2)  Così  dedicando  11  Molière  a  Scipione  Maffei.  La  lettera  di  dedica  fu 
stampata  la  prima  volta  nel  1752,  nel  t.  II  dell'ediz.  Paperini. 

(3)  Mémoires,  première  partie,  chapitre  XVII. 

(4)  Vedi  E.  Maddaubna,  op.  cit. 

(5)  Introduzione  per  la  prima  recita  deU'antunno  dell'anno  1754,  nelle 
Opere   complete  di  Cario    Goldoni,   edite    dal    Munioipio    di    Vei^zia,     1911, 

TTol.  XI,  pag.  213. 

(6)  Ivi,  pagg.  212-213. 

(7)  Achille  Neri,  An^dd^>ti  goldoniani.  Ancona,  1883,  pagg.  28-29. 


306  NEL  TEATRO  DEL   GOLDONI 

moderni  »,  Orazio  dice:  «  Venero  gli  antichi,  rispetto  i  moderni,  ma 
non  sono  dii  ciò  persuaso.  La  commedia  deve  essere  in  tutto  verisi- 
mile, e  non  è  verisimile  che  le  persone  parlino  in  verso.  Oh,  mi  di- 
rete, il  verso  non  si  ha  da  conoscere,  e  dee  all'orecchio  parer  prosa. 
Se  non  si  ha  da  conoscere  il  verso,  se  deve  parer  prosa,  dunque  scri- 
vete in  prosa  »  (1).  Coleste  parole,  che  si  leggono  nelle  prime  edizioni 
della  commedia,  l'autore,  forse  per  averle  in  appresso  contraddette 
coi  fatti,  omise  nelle  successive  edizioni,  dolendosi  tuttavia  d'avere 
seguito  lungo  tempo  quella  «  stucchevole  cantilena  »  dei  versi  martel- 
liani,  dai  quali,  poiché  vennero  finalmente  a  noia,  tornò  alla  prosa, 
ed  ebbe  la  fortunata  accoglienza  d'una  volta  (2).  Di  lui,  quanto  alla 
rima,  non  si  potrebbe  ripetere  ciò  che  del  Molière  il  Boileau  : 

On  diroit,  quand  tu  veux,  qu'elle  te  vient  chercher: 
Jamais  au  bout  du  vers  on  ne  te  voit  broncher,  ecc.  ; 

ma  uno  de'  maggiori  poeti  tedeschi,  il  Platen,  avendo  inteso  nel  1826 
a  Firenze,  il  Torquato  Tasso,  ch'egli,  per  certi  rispetti,  pone  al  di 
sopra  di  quello  del  Goethe,  trovò  ch'era  molto  bene  verseggiato  e  che 
i  martelliani  sul  teatro  fanno  miglior  figura  di  quanto  avesse  cre- 
duto (3).  Più  che  ne'  martelliani  il  Goldoni  fece  buona  prova  ne'  versi 
sciolti.  Tali  gli  endecasillabi  sdruccioli  della  commedia  La  jmjnlla 
che,  a  giudizio  d'Isidoro  Del  Lungo,  «non  scomparisce  troppo  di- 
nanzi alle  fiorentine  cinquecentesche  »  (4),  a  imitazione  delle  quali 
il  Goldoni  aveva  inteso  di  comporla  (5).  Que'  versi  sono  come  li 
avrebbe  voluti  il  Maffei,  cioè  somiglianti  alla  prosa.  Non  dissimili 
da  questi,  benché  piani,  sono  quelli  che  Orazio,  cedendo  all'insistenza 
di  Lelio,  lascia  che  questi  gli  reciti.  Il  Baretti,  nemico  acerrimo  del 
verso  sciolto,  non  vi  nota,  quanto  alla  forma,  che  una  brutta  meta- 
fora, ma,  in  compenso,  si  sfogai  a  mostrarne  la  immoralità  del  conte- 
nuto. «  È  una  scena,  così  Lelio,  che  fa  il  padre  colla  figlia,  persua- 
dendola a  non  maritarsi  )>.  Il  commento  che  vi  fa  il  Baretti  non  po- 
trebbe essere  più  maligno.  Di  un'altra  commedia.  La  scuola  di  ballo, 
nella  quale  il  Goldoni  mutò  i  martelliani  nella  più  diflBcile  terzina, 
non  ignota  alla  commedia  toscana  del  Cinquecento,  scrive  il  Del 
Lungo  parergli  la  mutazione  «  conferire  sincerità  di  lingua  e  una 
certa  leggiadria  di  stile»  (6). 

•  • 

Fanno  pensare  agli  avvertimenti  che  Amleto  dà  ai  commedianti 
nella  tragedia  shakespeariana,  quelli  che  intomo  al  modo  di  recitare 
dà  Orazio  ad  Eleonora,  dopo  averle  impedito  di  proseguire  nella  re- 
citazione di  «  una  scena  della  Didone  bernesca»,  ch'ella  dice  «com- 
posta dal  signor  Lelio  » .  Orazio  non  può  «  soffrire  di  sentire  porre  in 

(1)  Atto  III,  scena  II. 

(2)  Vedi  la  Prefazione  al  Molière  nel  t.  Ili  dell'ediz.  Pasquali.  Vene- 
zia, 1762. 

(3)  Die  Tagebiicher  des  Orafen  Atjotjst  von  Platen  au»  der  HaruUcrift 
des  Dichters,  herausgegeben  von  G.  v.  Lauhmann  und  L.  v.  Scheffler.  Zweiter 
Band,,   Stuttgart,   1900,   pag.   813. 

(4)  Lin-gua  e  dialetto  nelle  commedie  del  Goldoni,  f  iren«e,  1912. 
(6)  Op.  comp.,  ediz.  cit.,  t.  XIV.  Venezia,  MDOCOCXII,  pag.  187. 
(6)  Op.  oit.,  pag.  28. 


NEL  TEATRO  DEL   GOLDONI  307 

ridicolo  i  bellissimi  e  dolcissimi  versi  della  Bidone  » ,  e  non  avrebbe 
accolto  Lelio  nella  sua  compagnia,  se  avesse  saputo  aver  egli  «  stra- 
pazzati i  drammi  d'un  così  celebre  e  venerato  poeta».  Parodiarne  i 
versi,  guastandoli,  come  fa  anche  Tonino  nella  commedia  II  fr ap- 
paiare (i),  era  vezzo  dei  comici  dell'arte.  Del  Metastasio,  al  quale  de- 
dicò nel  1758  il  suo  Terenzio,  si  professava  il  Goldoni,  oltre  che 
grande  ammiratore,  seguace,  benché  «  di  lontano,  per  altra  strada  »  ; 
onde  fa  che  Orazio  soggiunga  :  «  Troppo  obbligo  abbiamo  alle  opere 
di  lui,  dalle  quali  tanto  profìtto  abbiamo  noi  ricavato»  (2).  Racco- 
manda Amleto  ai  comici  di  proferire  il  discorso  com'egli  l'ha  pro- 
ferito dinanzi  a  loro;  che  se  avessero  a  declamarlo  con  enfasi,  vor- 
rebbe piuttosto  averlo  affidato  al  banditore  della  città;  e  Orazio  ad 
Eleonora  :  «  Guardatevi  soprattutto  dalla  cantilena,  e  dalla  declama- 
zione, ma  recitate  naturalmente  come  se  '  parlaste  » .  Quegli  non 
vuole  che  i  commedianti  trincino  l'aria  con  la  mano,  ma  conformino 
l'azione  alla  parola,  e  questi  ad  Eleonora  :  «  Movete  le  mani  secondo 
il  senso  della  parola».  Dice  Amleto  che  quanto  oltrepassa  i  limiti 
del  naturale  allontana  dal  fine  della  commedia,  che  è  di  riflettere, 
come  specchio,  la  natura,  ed  Orazio  che  «  essendo  la  commedia  una 
imitazione  della  natura,  si  deve  fare  tutto  quello  che  è  verisi- 
mile» (3).  Conosceva  il  Goldoni  la  tragedia  dello  Shakespeare, 
quando  scrisse  la  sua  commedia?  Non  è  improbabile.  Del  tragico  in- 
glese egli  parla,  oltre  che  nella  dedica  dei  Malcontenti  al  Murray, 
in  quella  anteriore  del  Filosofo  inglese  a  Giuseppe  Smith,  dove  ci 
fa  sapere  che  leggeva  «  le  opere  inglesi  tradotte  con  piacere  infi- 
nito», e  ne  parla  altresì  nell'una  e  nell'altra  commedia.  Nulla  prova, 
del  resto,  ch'egli  abbia  tratto  l'ispirazione  da  lui.  A  suggerirgli  que- 
gli avvertimenti  bastava  il  buon  senso;  donde  l'accordo  fra  i  due 
poeti. 

•  • 

Quanto  al  pubblico,  lamenta  il  suggeritore,  che  la  scena  sia  sem- 
pre piena  di  gente  che  fa  rumore  e  impedisce  agli  attori  di  muo- 
versi. Uno  di  questi,  Eugenio,  osserva  che  in  platea  si  gode  meglio 
la  commedia.  «  Sì,  soggiunge  Vittoria,  la  servetta,  ma  taluni  dai  pal- 
chi sputano,  e  infastidiscono  le  persone».  Contro  siffatta  «usanza 
odiosa»,  come  la  chiama  il  Baretti  (4),  l'arguto  Gasparo  Gozzi  im- 
magina che  un  giovane  forestiero,  condotto  da  un  amico  veneziano 
nel  teatro  di  san  Luca,  per  assistere,  dalla  platea,  alla  prima  rappre- 
sentazione del  Z oroastro  del  Goldoni,  dica  :  «  Io  ho  più  volte  dubitato 
che  l'aria  di  questo  paese,  restringendosi  in  queste  vie  così  ristrette, 
ferisse  gagliardamente  il  petto  delle  persone,  sicché  mi  parea  impos- 
sibile che  le  non  fossero  tutte  raffreddate  (5)  :  questa  continua  piog- 

(1)  Atto  II,  scena  XII. 

(2)  Atto  III,  scena  III. 

(3)  Atto  III,  scena  III. 

(4)  Gl'Italiani,  o  sia  Belazione  degli  usi  e  costumi  d'Italia,  tradotta  dal- 
l'inglese da  Girolamo  Pozzoli.  (Opere  di  G.  Barbiti,  t.  VI,  Milano,  1818, 
pag.   7. 

(5)  «  Raffreddore  cronico,  dice,  com'è  noto,  il  Tommaseo,  felicemente 
gliarito  nel  tepido  maggio  del  novansette  dalle  pasticche  di  Francia  ». 


308  NEL  TEATRO  DEL  GOLDONI 

già  che  cade  da'  palchi,  me  ne  fa  chiaro  più  che  mai  ».  E  soglgi^Lngu: 
«  Come  mai,  se  non  fosse  un'infermità  potrebbe  darsi  che  quella  in- 
finita civiltà  ch'io  ammiro  in  tutti  gli  altri  luoghi  di  questa  così  bella 
e  sì  gentilmenle  accostumata  città,  non  fiorisse  anche  qui,  e  che 
quanti  qui  siamo  a  sedere,  fossimo  presi  per  iscodelle  da  sputarvi 
dentro?»  (1).  L'ironia  è  pungente,  ma  così  spiritosa  l'immagine  che 
avrà  fatto  sorridere  coloro  stessi  ch'eran  punti  da  quella.  Con  la 
stessa  filosofìa  del  giovane  forestiero  del  Gozzi,  prendevano,  del  re- 
sto, la  cosa  tutti  gli  altri  spettatori  della  platea  :  non  montavano  sulle 
furie,  ma  si  vendicavano  «  facendo,  così  il  Baretti,  qualche  breve 
ed  arguta  esclamazione».  Ce  ne  dà  un  saggio  il  forestiero  gozziano: 
«  Dio  vi  dia  la  vostra  salute!  il  cielo  vi  liberi  il  petto  dal  catarrol  ». 
Era  l'oligarchia,  per  dirla  col  Carducci,  che  sputava  in  platea  (2),  e 
bisognava  andar  cauti  nel  muoverle  rimprovero.  E  caute  son  le  pa- 
role che  il  Goldoni,  a  questo  proposito,  fa  pronunciare  ad  Orazio: 
«  Veramente  per  perfezionare  il  buon  ordine  de'  teatri  manca  l'os- 
servan2:a  di  questa  onestissima  pulizia».  Ma  un'altra  cosa  ancora 
mancava,  né  Eugenio,  che  ciò  osserva,  osa  dir  quale,  poicJiè  d'essa 
pure  aveva  colpa  l'oligarchia.  «  Siamo  tra  di  noi,  gli  osserva  Orazio, 
potete  parlare  con  libertà».  E  quegli:  «Che  nei  palchetti  non  fac- 
ciano tanto  rumore».  E  Orazio:  «È  difficile  assai».  A  ootest'altra 
riprovevole  usanza,  che  dal  pubblico  della  platea,  desideroso  di 
udire  la  commedia,  era  tollerata  con  minor  pazienza  che  non  gli 
sputi,  accenna  anche  il  Gozzi,  allorché  dice  esser  parecchi  coloro 
i  quali  a  bella  posta  vanno  a  sedere  colà  «  per  non  essere  impor- 
tunati dalla  garrulità  altrui».  E  sono  una  lode  indiTetta  al  rifor- 
matore della  commediai  le  parole  seguenti  :  «  Un  tempo  fu  che  quel 
luogo  era  pieno  d'ogni  genere  di  persone  (non  era  consentito,  infatti, 
che  alla  bassa  plebe  l'assistere  allo  spettacolo  dalla  platea)  (3);  ma 
dappoiché  le  commedie  si  sono  ingentilite,  s'è  ingentilita  anche  l'u- 
dienza» (4).  A  Placida  duole  doversi  sfiatare  per  farsi  intendere, 
«quando  si  fa  strepito  nell'udienza  »;  ma  Vittoria  è  piìi  rass^nata: 
«  In  un  pubblico  conviene  aver  pazienza.  E  alle  volte  che  si  sentono 
certi  fischietti,  certe  cantatine  da  gallo!  ».  «  E  quando,  soggiunge  Pe- 
tronio, il  Dottore,  si  sentono  sbadigliare?  ».  «  Segno,  osserva  Claudio, 
che  la  commedia  non  piace».  «Eh,  ribatte  quegli,  qualche  volta  lo 
fanno  con  malizia:  e  per  lo  più  nelle  prime  sere  delle  commedie 
nuove:  e  per  rovinarle,  se  possono».  E  Lelio:  «  Sapete  cosa  cantano 
quelli  che  vanno  alla  commedia?  La  canzonetta  d'un  intermezzo  (è, 
con  qualche  leggiera  variante,  nel  secondo  degli  Intermezzi  per  la 
Bidone,  intitolati  L'impresari^  delle  Canarie)  :  Sigiì)or  mio  non  vi  è 
riparo,  lo  qui  spendo  il  rrdo  denaro,  voglio  far  quel  che  mi  par  »  (5). 
Tale  il  pubblico  col  quale  aveva  che  fare  il  Goldoni,  ma  egli,  non- 
ché perdersi  d'animo,  proseguiva  fiducioso  la  sua  via.  A  Lelio,  che 
spera  j>oter  conuporre  commedie  come  lui,  dice  Orazio:  «  Eh  figliuolo, 

(1)  La  Gazzetta  Venata,  ediz.  cit.,  pag.  369. 

(2)  Poesie.  Quinta  edizione.  Bologna,  Zanichelli,  1906,  pag.  987. 

(3)  PoMBO   MoLMKNTi,    Lo   storia   di    Venezia   nella   vita   privata.    Parte 
•terza,  V  edizione.  Bergamo,   1912,  pag.  211. 

(4)  Loc.  cit. 

(5)  Atto  III,  soena  X. 


NEL  TEATRO  DEL  GOLDONI  SO^" 

bisogna  prima  consumar  sul  teatro  tanti  anni,  quanti  ne  ha  ^li  con- 
sumati, e  poi  potrete  sperare  di  far  qualche  cosa.  Credete,  ch'eg-li 
sia  diventato  compositore  di  commedie  ad  un  tratto?  L'ha  fatto  a 
poco  a  poco,  ed  è  arrivato  ad  essere  compatito  dopo  un  lungo  studio, 
una  lunga  pratica,  ed  una  continova,  instancabile  osservazione  del 
teatro,  dei  costumi  e  del  genio  delle  nazioni  »  (1).  Più  innanzi,  nell'ul- 
tima scena,  quegli  vuol  sapere  se  convenga,  o  no,  terminare  la  com- 
media con  un  sonetto,  com'egli  avrebbe  fatto  nella  sua.  E  Orazio: 
«  Dirò  :  i  sonetti  in  qualche  commedia  stanno  bene,  e  in  qualche  com- 
media stanno  male.  Anche  il  nostro  autore  alcune  volte  ne  potea  far 
di  meno  » .  E  cita,  quanto  a  quelle,  La  donna  di  garbo  e  La  -putta  ono- 
rata, e,  quanto  a  queste.  La  vedova  scaltra  e  /  due  gemelli  veneziani^. 
soggiungendo  :  «  Nelle  altre  non  ha  fatto  sonetti  al  fine,  perchè  que^ 
sti  assolutamente  senza  ima  ragione  non  si  possono  e  non  si  devona 
fare  » .  «<  Manco  male,  esclama,  con  soddisfazione,  Lelio,  che  ha  er- 
rato anche  il  vostro  Poeta!  ».  E  Orazio:  «  Egli  è  uomo,  come  gli  al- 
tri, e  può  facilmente  ingannarsi  ».  Afferma  tuttavia  averlo  inteso 
dire,  pili  e  piià  volte,  che  trema  allorché  deve  far  rappresentare  una 
sua  nuova  commedia,  né  si  lusinga  di  arrivare  a  conoscere  l'arte  pie- 
namente, ma  «  si  contenta  di  aver  dato  uno  stimolo  alle  j>ersone 
dotte,  e  di  spirito,  i>er  rendere  un  giorno  la  riputazione  al  teatro  Ita- 
liano». Di  coteste  parole  non  potrà  dirsi,  come  di  altre  della  presente 
commedia  il  Baretti,  che  sono  «  una  lode  che  il  Goldoni  fa  dare  a 
se  stesso  ». 

Antonio  Zardo. 

(1)  Atto  III,  scena  II. 


IL  DIO  DEI  VIVENTI 


ROMANZO 


D'altronde  egli  non  potè  proseguire  perchè  qualcuno  picchiava 
alla  porta.  Non  era  mai  accaduto  che  qualcuno  venisse,  durante  le 
sue  visite  :  e  il  dubbio  che  la  persona  òhe  picchiava  fosse  mandata 
dalla  sua  famiglia  per  spiarlo  gli  passò  in  mente.  Che  cosa  doveva 
fare?  Anche  Lia  e  Salvatore  si  guardarono  incerti,  non  volendo  aprire 
per  un  riguardo  a  lui  :  allora  egli  disse  : 

—  Perchè  non  aprite? 
E  Salvatore  si  mosse. 

—  E  se  mi  vedono  qui?  —  disse  Zebedeo  come  fra  sé.  —  Che 
non  iposso  forse  visitare  l'orfano  di  mio  \fratello? 

Appena  la  porta  fu  aperta  Salvatore  e  quei  due  là  dentro  ebbero 
un  brivido  di  sorpresa  e  quasi  di  spavento:  un  fantasma  nero  en- 
trava, con  le  mani  così  bianche  che  sembravano  luminose. 

Era  il  Rettore. 

S'avanzò,  sedette  al  posto  cedutogli  con  grandi  esclamazioni  da 
Lia;  e  non  si  meravigliò  tper  da  presenza  di  Zebedeo. 

Salvatore,  appoggiato  alla  tavola,  lo  guardava  fisso  e  non  staccò 
più  gli  occhi  dal  viso  di  lui  :  quel  viso  non  era  bello,  con  la  pelle  di 
un  giallino  violaceo  aderente  alle  ossa  come  una  seta  incollatavi 
sopra,  e  i  capelli  e  gli  occhi  quasi  bianchi  come  scoloriti  per  lungo 
uso;  ma  l'espressione  era  misteriosa,  profonda;  pareva  quella  di  un 
morto  risuscitato  che  non  fosse  contento  di  esserlo  e  stentasse  a  ri- 
cordarsi della  sua  vita  sulla  terra  come  di  una  vita  anteriore  di  secoli. 

Egli  non  parlò  finché  Lia  che  gli  si  era  seduta  ai  piedi  per  terra 
in  atto  di  omaggio  non  disse  umilmente: 

—  Si  parlava  della  lettera  di  Pietro  Paolo,  con  Zebedeo;  e  del 
consiglio  che  ho  domandato  a  vossignoria.  Ma  perchè  disturbarsi  a 
venire,  vossignoria?  Sarei  tornata  io  domani  o  ipoi;  non  c'è  premura. 

—  Non  c'è  premura  per  te  ma  per  me  sì,  —  egli  rispose  :  e  aveva 
la  voce  afona,  tanto  che  Salvatore  si  avvicinò  strisciando  il  gomito 
sulla  tavola  per  sentirlo  meglio. 

Anche  Zebedeo  si  protese  un  poco:  gli  pareva  di  essere  sordo 
'6  di  sognare;  quasi  il  preciso  sogno  fatto  dalla  sua  serva. 
Il  Rettore  diceva: 

—  Tu  sei  ricorsa  a  me  appunto  perchè  io  sono  per  partire.  Hai 
detto  a  te  stessa:  egli  non  ha  più  interessi  sulla  terra  quindi  il  suo 
consiglio  sarà  giusto. 


IL  DIO  DEI  VIVENTI  311 

Lia  faceva  gesti  di  protesta,  ma  abbassava  gli  occhi  (per  paura 
-ch'egli  le  leggesse  nel  pensiero. 

—  Non  protestare.  È  giusto  che  sia  così;  da  viventi  si  è  attaccati 
alla  terra  come  l'albero  come  ogni  cosa  naturale  e  si  vede  e  si  opera 
tutto  attraverso  ragioni  nascoste  come  le  radici  sotterra.  Ma  non 
dico  che  tu  sei  ricorsa  a  me  solo  per  quel  motivo  che  del  resto  fa 
onore  alla  tua  perspicacia.  Tu  hai  pensato,  anche  :  il  Rettore  è  istruito, 
conosce  i  libri  sacri  le  verità  rivelate  da  Dio;  quindi  potrà  consi- 
gliarmi bene. 

—  È  vero,  è  vero!  —  ella  esclamò  sollevando  di  nuovo  gli  occhi. 

—  Ma  queste  leggi,  queste  verità  cosa  sono  dopo  tutto?  Leggi 
e  verità  dette  e  scritte  da  uomini.  Erano  uomini,  gli  apostoli;  solo 
che  avevano  vissuto  con  Cristo  ch'era  anche  lui  figliuolo  dell'uomo, 
e  ripetevano  le  sue  parole  com'^li  le  sentiva  da  Dio.  Questo  Dio 
vero  e  grande  nessuno  lo  ha  mai  veduto  sulla  terra.  Gli  stessi  pa- 
triarchi lo  sentivano  sparlare  attraverso  le  nuvole  e  per  mezzo  di  An- 
geli mandati  da  lui  :  eppure  tutti  lo  conosciamo,  tutti  lo  sentiamo 
parlare  anche  senza  conoscere  la  scienza  degli  apostoli  :  io  tu  Ze- 
bedeo  Salvatore  tutti  lo  sentiamo  tutti  lo  vediamo. 

I  tre  lo  guardavano  con  avidità  e  aprivano  un  po'  la  bocca  come 
per  respirare  le  sue  parole. 

—  Dio  è  dentro  di  noi;  è  quello  ohe  noi  Chiamiamo  la  nostra  co- 
scienza :  ecco  tutto.  Basta  ascoltarla  per  ascoltare  Dio. 

I  tre  rimasero  un  po'  disillusi. 

Zebedeo  anzi  scrollò  la  testa  perchè  sapeva  che  la  spiegazione 
sarebbe  andata  a  finire  così.  Del  resto  il  iparroco  ripeteva  cose  ohe 
aveva  tante  volte  detto  nelle  sue  prediche  in  chiesa. 

—  È  curioso  il  fatto  che  ognuno  di  noi  cerchi  consiglio  dall'altro; 
quasi  si  direbbe  che  è  .per  salvarsi  da  ogni  responsabilità  davanti 
agli  altri  uomini  e  a  sé  stesso.  Se  invece  noi  prendiamo  consiglio 
da  noi  stessi,  ma  consiglio  dal  profondo  della  coscienza,  lo  pren- 
dictmo  da  Dio  stesso,  e  non  sbaglieremo  mai  e  faremo  sempre  il  bene 
nostro  e  quello  degli  altri.  Nel  tuo  caso,  Lia,  come  posso  io  consi- 
gliarti se  non  conosco  i  tuoi  veri  sentimenti?  0  meglio,  posso  cono- 
scerli, anzi  ti  dico  che  li  conosco,  ma  non  posso  forzarli  consiglian- 
doti di  fare  una  cosa  piuttosto  che  un'altra. 

Allora  ella  disse  affrontando  anzi  cercando  lo  sguardo  vago  di 
lui  :  —  La  mia  coscienza  è  debole  :  lei  deve  aiutarmi  ad  ascoltarla; 
lei  lo  può,  se  vuole. 

—  Non  è  la  tua  coscienza  che  è  debole  sei  tu  che  non  vuoi  sfor- 
zarti ad  ascoltarla.  Ad  ogni  modo  senti,  che  cosa  ti  spinge  a  ritor- 
nare con  tuo  marito?  L'idea  del  tornaconto  ohe  te  ne  verrebbe? 

—  Sì,  anche  questo:   ma  per  Salvatore,  più  che  (per  me. 

—  Ad  ogni  modo  è  sempre  per  tornaconto  materiale  perchè  in- 
fine tu  pensi  di  fare  di  tuo  figlio  un  uomo  ricco,  E  credi  tu  che  la  vera 
ricchezza,  dico  la  ricchezza  terrena,  sia  quella  acquistata  x>er  mezzo 
degli  altri?  La  vera  ricchezza  ce  la  dobbiamo  acquistare  noi  col 
nostro  lavoro,  con  le  nostre  forze  interiori  e  non  col  cercare  aiuto 
dagli  altri.  Spesso  i  genitori  rovinano  i  propri  figli  col  procacciare 
loro  una  ricchezza  ch'essi  soli  si  devono  guadagnare. 

Zebedeo  pensava  al  suo  Bellia  con  infinita  tristezza:  d'altronde 
gli  pareva  che  ogni  parola  dei  Rettore  fosse  diretta  a  lui. 


312  IL  DIO  Dm  VIVENTI 

—  Allora,  niente!  —  disse  Lia  già  rassegnata  a  rinunziare. 

—  Vedi?  —  disse  il  prete,  —  il  mio  consiglio  già  potrebbe  nuo- 
certi. Ma  ascoltami  ancora;  nel  tuo  desiderio  di  ritornare  con  tuo 
marito  c'è  un  po'  d'amore?  Dico  amore  del  prossimo,  non  amore 
carnale. 

—  No,  non  posso  amarlo.  Troppo  male  gli  ho  fatto  per  poterlo 
amare. 

—  Adesso  parli  bene!  Vedi,  non  dici,  non  posso  amarlo  perchè 
mi  ha  fatto  del  male,  ma  «  non  -posso  amarlo  per  il  male  che'  gli  ho 
fatto  ».  Il  tuo  castigo  è  lì.  Il  male  che  hai  fatto  ti  priva  del  dono  mi- 
gliore della  vita,  di  quello  che  rende  lieti  e  felici,  del  regno  di  Dio 
sulla  terra;  ti  priva  dell'amore. 

—  L'amore  non  si  comanda. 

—  Non  è  vero;  questa  è  un'antica  menzogna.  È  che  tu,  Lia, 
come  la  maggior  parte  degli  uomini,  sei  come  una  barca  piena  di 
zavorra  che  crede  con  questo  di  poter  meglio  navigare  :  un  po'  di 
questa  zavorra  l'^hai  già  buttata  in  mare;  butta  giù  il  resto;  più  la 
barca  sarà  lieve  meglio  andrà  sulle  onde.  Perchè  tu  hai  odiato  tuo 
marito?  i)erchè  ti  era  di  ostacolo  a  peccare;  e  adesso  il  tuo  peccato 
ricade  su  te.  Perchè  il  vero  castigo  dei  nostri  peccati  è  su  questa 
terra  stessa. 

—  'È  vero  —  proruppe  Zebedeo  senza  volerlo.  Ma  nessuno  ba- 
dava più  a  lui. 

—  Ascoltami  ancora,  —  disse  il  prete.  —  Un  altro  sentimento 
ti  guida  verso  Pietro  Paolo  :  la  pietà  di  lui  come  uomo.  È  così? 

—  E  così,  sì!  Mi  fa  pietà  e  vorrei  assisterlo  come  si  assiste  un 
mendicante  ohe  cade  davanti  alla  nostra  porta. 

—  E  allora  va!  —  egli  disse  alzandosi  :  —  Dio  s'è  svegliato  in  te. 
Ma  la  donna  non  voleva  lasciarlo  partire;  aveva  ancora  sete  della 

sfua  parola.  S'inginocchiò,  gli  prese  la  mano  e  cominciò  a  baciarla 
come  una  reliquia  :  egli  però  si  ritraeva:  la  sua  mano  fredda  sgusciò 
da  quella  di  lei  carne  da  un  guanto  caldo. 

—  Lascia,  lascia,  Lia!  Non  toccare  tuo  figlio  senza  prima  lavarti; 
il  mio  male  è  contagioso.  E  cerca  di  partire  presto;  così  il  tuo  ra- 
gazzo, che  vedo  sciupato,  godrà  l'aria  del  mare.  Addio. 

E  se  ne  andò  senz'altro  saluto. 

• 

ì  Barcai  erano  in  viaggio  verso  il  mare. 

La  moglie  di  Zebedeo  avrebbe  volentieri  viaggiato  sul  carro  spe- 
dito con  la  roba  come  si  usava  un  tempo  quando  la  gente  era  più 
ignorante  e  più  felice:  invece  viaggiavano  in  treno,  in  terza  classe 
sebbene  ricchi;  perchè  certi  usi  come  quello  di  viaggiare  nelle  prime 
classi  è  ancora  riserbato  ai  furbi  borghesi. 

D'altronde  il  treno  era  affollato,  da  tutti  i  finestrini  si  sporgevano 
grappoli  di  teste  di  soldati  :  erano  soldati  che  tornavano  in  congedo 
dopo  la  guerra  e  tutti  ridevano  tutti  urlavano  di  gioia  ma  il  loro 
grido  conservava  qualche  cosa  di  feroce  come  se  essi  andassero  an- 
cora all'assalto,  —  a  uccidere  e  a  morire. 

Anche  lo  scompartimento  oc-cypato  dai  Barcai  era  pieno  zeppo 
di  soldati  :  puzzavano  tutti  come  bestie  selvatiche  e  ad  ogni  fermata. 


IL  DIO  DEI  VIVENTI  313 

si  ammucchiavano  sul  finestrino  soffocando  Rosa  e  la  padrona  sedute 
ai  posti  d'angolo.  Rosa  si  divertiva,  rideva  con  loro  e  provava  pia- 
cere al  loro  contatto,  ma  la  padrona  si  sentiva  sempre  più  angosciata. 

Non  le  dis)piaceva  la  compagnia  di  quei  buoni  ragazzi,  e  a  quel 
tanfo  di  selvatico  era  abituata  perchè  anche  i  suoi  servi  e  Zebedeo 
stesso  non  odoravano  di  rosa;  ma  il  caldo  il  disagio  il  moto  del  treno 
le  davano  un  senso  di  nausea  profonda.  Inoltre  pensava  con  inquie- 
tudine al  carro  della  roba  e  le  pareva  che  qualche  cosa  della  sua  fa- 
miglia e  della  casa  fosse  disipersa  per  il  mondo  in  balìa  di  tutti  i 
ladri  e  malfattori,  mentre  anche  il  timore  che  i  ladri  entrassero  in 
casa  dove  la  vecchia  era  rimasta  a  vigilare  ma  impotente  come  uno 
spauracchio  che  può  illudere  solo  gli  uccelli,  non  l'abbandonava  un 
momento. 

Bellia  sedeva  alla  sua  sinistra  e  Zebedeo  accanto  alla  serva:  il 
trovarsi  così  riuniti  la  confortava  alquanto,  se  però  gli  uomini  scen- 
devano a  qualche  stazione  ella  gridava  per  la  {>aura  che  non  faces- 
sero a  tempo  a  risalire  in  treno, 

2iebedeo  invece  era  allegro  quasi  come  i  soldati  di  ritomo  dalla 
guerra.  Gli  pareva  di  essersi  ormai  liberato  del  suo  incubo  poiché 
Lia  ipartiva  e  Salvatore  andava  anche  lui  al  mare  e  il  suo  avvenire 
era  assicurato. 

Ad  ogni  stazione  scendeva  e  invitava  i  soldati  a  bere  acquavite 
e  liquori;  e  spendeva  con  una  prodigalità  folle. 

—  Pare  che  il  padrone  sia  alla  festa  —  disse  infine  Rosa.  — 
Guardatelo:  adesso  chiama  anche  i  soldati  degli  altri  scomparti- 
menti. 

—  Essi  tornano  dalla  guerra  e  meritano,  —  disse  la  padrona 
sebbene  in  fondo  le  dispiacesse  lo  sperpero  di  Zebedeo. 

—  Ma  guardatelo!  Adesso  chiama  anche  quelli  della  ferrovia. 
E  fa  bere  anche  il  ragazzo. 

La  padrona  fece  uno  sforzo  e  si  affacciò  al  finestrino  :  di  là  dei 
cancelli  chiusi  della  strada  provinciale  che  s'incrociava  con  la  linea 
ferroviaria  vide  parecchi  carri  ricoperti  di  tende  di  tela  da  sacco  o 
semplicemente  composte  con  lenzuola,  dalle  cui  aperture  si  sporge- 
vano teste  di  donne  e  di  bambini,  gente  povera  che  andava  al  mare, 
e  ne  provò  un'accorata  invidia. 

—  Pare  ohe  li  abbiate  rubati,  i  vostri  denari,  —  disse  Rosa  al 
padrone,  quando  Zebedeo  risalì  sul  treno.  —  Li  spendete  senza  con- 
tarli. 

—  Ohi  ne  ha  ne  fruga.  E  tu  ficcati  nei  fatti  tuoi,  —  egli  gridò 
irritato;  e  parve  cambiare  d'umore. 

Infatti  non  scese  più  dal  treno  finché  non  si  arrivò  al  paesetto 
ove  risiedeva  il  suo  amico  :  ma  dal  paese  al  mare  correva  un  buon 
tratto  di  strada  e  ancora  una  volta  la  moglie  rimpianse  il  carro  e  il 
modo  di  viaggiare  all'antica. 

Ma  che  accade  alla  buona  moglie?  Sogna  o  é  ancora  la  vertigine 
del  treno  che  le  dà  non  più  un  senso  di  malessere  ma  un'allucina- 
zione dolce?  Le  pare  di  vedere  la  sua  casa  trasportata  dagli  angeli, 
là  fra  gli  alberi  polverosi  che  circondano  la  piccola  stazione  :  è  la 
sua  casa  sì,  coi  suoi  cestini,  le  sue  bisacce,  il  paiolino  di  rame  per 
cuocere  i  maccheroni,  la  cassa  con  la  biancheria,  il  materasso  di  tra- 

21  VoL  CX3XVII,  serie  VI  —  li  aprUe  1922. 


314  IL  DIO  DEI  VIVENTI 

liccio  bianco  -e  turchino,  la  caffettiera  amica;  anche  il  cane  è  lì  e 
corre  incontro  ai  suoi  padroni  più  veloce  del  treno. 

La  donna  si  asciuga  le  lagrime  dagli  occhi  riarsi;  no,  la  poesia 
non  è  ancora  scomparsa  dalla  terra;  ©  quello  che  più  importa  nep- 
pure la  bontà;  poiché  il  servo  mandato  col  carro  della  roba  ha 
avuto  la  buona  idea  di  fermarsi  alla  stazione  per  dar  modo  alla 
padrona  di  fare  sojl  veicolo  il  tratto  di  strada  dal  paese  al  mare. 

Ed  ella  sedette  sul  materasso  e  le  parve  di  essere  tornata  fan- 
ciulla quando  si  andava  alle  feste  camipestri  in  riva  al  mare  e  tutto 
era  bello  perchè  tutto  semplice. 

Ancora  la  stessa  brughiera  le  stesse  rocce  fantastiche  gli  stessi 
lecci  solitari  raccolti  a  guardare  solo  il  giro  e  lo  stendersi  e  il  ripie- 
garsi della  loro  grande  ombra  come  pensatori  ripiegati  a  studiare 
il  vano  gioco  dei  giorni  vissuti:  ancora  gli  armenti  al  pascolo;  le 
pecore  protese  a  bere  fra  i  giunchi  del  ruscello  tutto  lucido  e  chiaro 
e  ben  delineato  tra  il  verde  e  l'azzurro  come  nei  quadretti  di  ma- 
niera: ancora  i  buoi  pazienti  che  trascinano  il  carro,  e  il  servo  al- 
meno per  un  giorno  ridiventato  buono  che  chiede  solo  la  gioia  del 
suo  lavoro:  e  su  tutte  le  cose  l'alito  puro  del  mare. 

Ed  ecco  il  mare.  A  poco  a  poco  si  a\'vicina,  dapprima  come  una 
striscia  argentea  fra  una  macchia  e  l'altra  della  brughiera,  poi  sem- 
pre più  largo  e  alto  fino  al  cielo.  La  serva,  anche  lei  sul  carro,  lo 
guardava  sbalordita  presa  da  un  senso  di  soggezione  e  di  paura. 

—  Io  entrare  lì  dentro?  Entrarci  vestita?  Per  non  uscirne  viva, 
vero?  Per  l'anima  mia,  no,  io  non  entro. 

—  E  chi  ti  costringe?  —  disse  il  servo  con  calma;  —  pare  che 
tu  creda  eh©  il  mar©  stia  lì  solo  ad  aspettare  che  tu  ci  sguazzi  dentro? 

—  Io  non  entro,  non  entro,  —  ella  ripeteva  a  sé  stessa,  ma  solo 
per  vincere  il  gran  desiderio  che  già  aveva  di  bagnarsi. 

E  si  fece  rossa  e  nascose  il  viso  sul  braccio  quando  vide  gli  uo- 
mini mezzo  nudi  che  camminavano  nel  mare  spruzzarsi  l'acqua  a 
vicenda. 

Era  quaa  mezzogiorno;  i  pochi  bagnanti  stavano  tutti  sulla 
spiaggia  rocciosa,  1©  donne  si  bagnavano  lontano  dagli  uomini.  Una 
casa  bianca  con  piccole  finestre,  ogni  camera  della  quale  raccoglieva 
intere  famigli©  di  bagnanti,  si  disegnava  lontana  siill'azzurro  del 
mare. 

Più  lontano  biancheggiava  fra  le  macchie  la  caserma  della  Do- 
gana, e  più  in  là  ancora  sorgeva  quasi  dal  mare  una  casetta  colore 
di  pietra. 

Era  la  casa  dell'amico  di  Zebedeo  :  e  il  carro  con  le  due  donne 
vi  si  diresse  lentiamente  lungo  il  sentiero  che  costeggia  il  mare,  fra 
i  gridi  del  servo  ohe  aizzava  i  buoi  ©  le  esclamazioni  di  Rosa. 

—  Noi  andiamo  a  stare  là?  Andiamo  a  star©  là?  In  mezzo  al 
mare?  Ma  se  viene  la  tempesta  si  affoga  tutti  dentro  casa  come 
pulcini  nella  gabbia.  Misericordia,  misericordia! 

Anche  la  padrona  era  impressionata,  ma  taceva.  S'aggiustò  il 
fazzoletto  intomo  al  viso  ©  si  allacciò  il  cors©tto  pensando  che  an- 
dava ad  ospitar©  presso  gente  ricca  e  per  bene. 

E  l'ospite  veniva  loro  incontro:  il  suo  viso  rosso  tutto  pomi,  coi 
piccoli  occhi  neri,  aveva  un'espressione  di  astuzia  di  allegria  e  di 
bontà. 


IL  DIO  DEI  VIVENTI  316 

—  Se  sapevo  che  mi  capitava  la  fortuna  di  ospitare  la  tua  fa- 
miglia. Maria  Caterina  Barcai,  fabbricavo  un  palazzo  e  non  questa 
mia  casupola;  ma,  vedrai,  se  Dio  lo  vuole  un  altro  anno  starai  meglio 
di  così. 

Sebbene  riconoscente,  ella  pensava  che  un  altro  anno  se  Dio  vo- 
leva sarebbe  rimasta  a  casa  sua. 

Anche  la  famiglia  dell'ospite,  composta  di  parecchie  donne  e  di 
una  infinità  di  ragazzi  e  bambini,  tutta  riunita  davanti  alla  casetta 
fece  una  festosa  accoglienza  ai  nuovi  venuti. 

Questa  casetta  sembrava  costrutta  come  gli  scogli  intomo  coi 
sassi  dei  quali  era  seminata  la  spiaggia.  Nei  suoi  momenti  di  fu- 
rore il  mare  arrivava  alla  porta  ritraendosi  subito  come  sd^noso 
di  penetrare  in  una  così  umile  e  fiduciosa  abitazione  d'uomini;  da- 
vanti una  fila  di  scogli  le  segnavano  una  specie  di  cortile  marino; 
la  barche  dovevano  passare  oltre  e  solo  gli  abitanti  della  casa  si 
bagnavano  in  quel  tratto  di  mare  come  fosse  di  loro  esclusiva  pro- 
prietà. 

Fu  senito  il  caffè  agli  ospiti  e  poi  furono  anche  invitati  a 
pranzo:  un  pranzo  abbondante  e  ricco  nonostante  quei  tempi  di 
carestia. 

La  tavola  era  apparecchiata  nella  stanza  d'ingresso  e  il  mare 
pareva  entrasse  dalla  porta  spalancata;  il  suo  riflesso  tremolava 
sulle  pareti  nude,  e  le  voci  il  pianto  e  i  gridi  dei  k)ambini  si  confon- 
de\ano  col  suo  mormorio. 

2^bedeo  aveva  ripreso  un  po'  il  suo  buon  umore;  il  ritrovarsi 
con  la  sua  famiglia  in  quella  tavola  che  pareva  benedetta  da  Dio  gli 
sembrava  di  buon  augurio:  qui  poi  nessuno  gli  ricordava  la  sua 
pena;  senza  contare  che  egli  aveva  portato  in  dono  all'amico  una 
piccola  lx>tte  di  vino  e  l'amico  la  faceva  già  scorrere  come  una  fon- 
tana, in  onore  degli  ospiti. 

—  Se  mi  portavi  una  spada  da  generale  lion  mi  facevi  un  re- 
galo migliore,  Zebedeo  Barcai  :  perchè  da  noi  il  vino  è  cattivo, 
adesso:  sentilo.  Fra  il  mio  e  il  tuo  c'è  la  differenza  che  corre  fra 
l'acqixa  e  il  fuoco.  E  togliere  all'uomo  il  vino  buono  è  come  levargli 
il  sangue  sano  dalle  vene.  Bevi,  bevi,  Zebedeo. 

E  Zebedeo  beveva,  sebbene  quasi  astemio,  e  attraverso  il  bic- 
chiere colmo  gli  pareva  che  il  suo  Bellia  riprendesse  colore. 

Anche  la  madre  sebbene  non  bevesse  una  goccia  di  vino  si  sei>- 
tiva  un  po'  sollevata.  La  mc^lie  dell'ospite,  che  le  sedev^a  accanto, 
le  rassomigliava  in  modo  straordinario,  anzi  era  più  pingue  di  lei, 
con  un  gran  seno  sostenuto  appena  da  una  cordicella  di  seta  che  an- 
dava da  una  estremità  all'altra  di  un  invisibile  corsetto;  e  il  suo  viso 
pallidissimo  che  neppure  il  sole  marino  riusciva  ad  oscurare  ricor- 
dava la  placidezza  della  luna. 

Parlava  sottovoce  confidando  all'ospite  il  disagio  che  anche  lei 
provava  ogni  volta  che  doveva  lasciare  la  sua  casa  del  villaggio. 

—  Ma  per  i  figli  e  per  i  nipoti  bisogna  dimenticarsi  di  noi 
stesse;  cosa  siamo  noi  senza  di  loro?  Una  volta  ho  provato  a  lasciarli 
venir  soli;  lo  crederai?  La  sera  stessa  me  ne  venni  qui  a  piedi  sola 
come  il  gatto  dato  via  se  ne  toma  a  casa  appena  può  scappare. 

—  Non  sono  mai  accadute  disgrazie,  qui?  —  domandò  l'altra, 
anche  lei  sottovoce. 


316  IL  DIO  MI  VIVENTI 

—  A  noi  grazie  a  Dio  mai,  ad  altri  sì  purtroppo.  L'anno  scorso 
si  annegò  un  forestiero,  ma  era  sceso  a  bagnarsi  appena  dopo  man- 
giato. 

—  Bellia,  —  disse  Maria  Caterina  Barcai  rivolgendosi  già  spa- 
ventata al  figlio,  —  hai  sentito?  Non  bisogna  mai  bagnarsi  dc^x)  che 
si  è  mangiato;  c'è  pericolo  d'annegarsi. 

—  Ma  sì,  lo  so,  —  egli  rispose  mortificato  perchè  si  accorgeva 
ohe  gli  altri  ragazzi  ridevano  della  paura  della  madre. 

—  Tu  sai  nuotare?  —  gli  domandò  il  più  grande. 

—  Sì. 

—  E  dove  hai  imipELrato? 

—  Nel  fiume. 

—  Ma  se  nel  nostro  fiume  non,  possono  nuotarci  neppure  i  pesci, 
—  disse  Rosa  beffandosi  di  lui. 

—  Io  ho  imparato  in  un  altro  fiume  più  grande,  quello  di  Aar, 
La  serva  non  osò  smentirlo  oltre;  il  ragazzo  grande  disse: 

—  Allora  oe  lo  insegnerai,  perchè  anche  noi  non  sappiamo 
nuotare. 

Egli  arrossì,  ma  trovò  il  modo  di  salvarsi  :  disse  con  tristezza 
come  se  la  cosa  fosse  vera  : 

—  Il  Dottore  mi  ha  proibito  di  nuotare,  per  non  forzare  la  mano. 

—  La  tua  mano  guarirà  presto,  —  gli  disse  per  confortarlo  la 
nuora  degli  ospiti  ohe  allattava  un  bambino  lasciando  vedere  con 
un  candore  di  Madonna  la  sua  mammella  ambrata  un  po'  lunga 
come  un  grande  acino  d'uva. 

■ —  Il  mare  guarisce  ogni  male;  eppoi  quest'anno  è  un  anno  be- 
nedetto per  la  nostra  famiglia  perchè  il  suocero  mio  è  priore  delle 
Anime,  e  questo  porta  fortuna. 

Bellia  domandò  subito  spiegazioni:  e  tutti  i  ragazzi  saltarono 
su  a  dargliele,  ma  il  vecchio  li  fece  tacere  con  un  cenno  duro.  Era 
una  cosa  di  cui  egli  aveva  molto  rispetto  e  non  bisognava  profanarla; 
ne  parlò  lui  non  senza  una  certa  vanità  : 

—  Si  tratta  di  questo.  Da  noi  esiste  una  confraternita  antica 
che  si  dice  delle  anime,  ed  è  per  seppellire  i  morti.  Tutti  gli  anni 
viene  eletto  il  priore,  cioè  il  capo;  questa  confraternita  dunque  va  a 
prendere  il  morto,  s'incarica  dei  funerali,  delle  esequie,  del  seppel- 
limento: la  famiglia  sia  ricca  o  povera  non  paga  che  mezzo  scudo 
per  una  messa.  Il  priore  invece  è  obbligato  alle  altre  spese  e  a  dar 
del  buon  vino  a  volontà  ai  confratelli  di  ritomo  dal  funerale.  Però 
si  dice  che  durante  l'anno  non  gli  accadano  disgrazie  e  tutte  le  sue 
cose  vadano  bene.  Le  anime  dei  morti  vigilano  su  lui.  Sarà  vero,  non 
sarà  vero?  Certo  che  io  quest'anno  sono  tranquillo  e  sereno  come  un 
pesce  in  una  cala  solitaria;  tutto  mi  va  bene;  i  ragazzi  sono  sani, 
il  raccolto  è  stato  buono.  E  spese  ne  ho  avute  e  ne  ho,  con  le  anime! 
Perchè  mentre  gli  altri  anni  la  mortalità  era  poca,  quest'anno  con 
la  peste  spagnola  e  altre  diavolerie  la  gente  muore  a  grappoli.  Anche 
tre  morti  in  un  giorno:  e  il  vino  costa  sempre  più  caro  e  quei  dia- 
voli di  confratelli  quasi  tutti  vecchioni  senza  conforti  di  gioventù 
hanno  sete  come  ragazzi  dopo  uria  corsa.  Io  sono  contento  però: 
mi  dispiace  per  la  gente  che  muore,  per  lo  più  giovani  donne  e  fan- 
ciulli, ma  mi  pare  che  le  loro  anime  vigilino  su  di  me  come  tanti 
angeli.  Dopo  tutto  i  confratelli  bevono  alla  salute  eterna  delle  anime  : 


IL  DIO  DEI  VIVENTI  317 

è  questo  che  porta,  fortuna.  Beviamo  anche  noi,  alla  salute  dei  no- 
stri corpi. 

La  conclusione  fece  ridere  di  nuovo  i  ragazzi;  anche  i  grandi 
risero  e  una  luce  di  speranza  e  di  fede  tremolò  nel  viso  di  Zebedeo 
e  negli  occhi  di  Maria  Caterina  Barcai.  Anche  lei  avvicinò  il  bic- 
chiere alle  labbra:  e  gli  sguardi  di  tutti  si  rivolsero  alla  mano  di 
Belila. 

• 
•  • 

La  prima  settimana  fu  utìa  sosta  di  serenità  i>er  la  travagliata 
famiglia  Barcai;  pareva  davvero  che  bastasse  il  contatto  con  la  fa- 
miglia dell'ospite  per  dissipane  ogni  male. 

La  piaga  di  Belila,  esposta  al  sole,  si  seccava  rapidamente;  il 
primo  giorno  egli  si  era  nascosto  dietro  uno  scoglio  perchè  si  vergo- 
gnava del  suo  male  come  di  una  colpa;  la  madre  inquieta  andò  a 
cercarlo,  camminando  a  stento  sulla  rena  e  indietreggiando  paurosa 
quando  l'onda  tentava  di  raggiungere  a  tradimento  i  suoi  piedi;  se- 
dette accanto  a  lui  e  non  lo  abbandonò  più. 

Egli  brontolava;  poi  si  mise  a  canticchiare;  poi  disse  che  appena 
guarito  voleva  una  fisarmonica  di  lusso  coi  tasti  d'argento. 

—  Tutto  avrai,  figlio  mio,  purché  tu  sii  prudente  e  ti  aiuti  a 
guarire. 

Egli  si  rivolse  supino,  con  la  mano  sana  sotto  il  capo  e  l'altra 
sul  petto:  era  quasi  completamente  nudo  come  aveva  ordinato  il 
Dottore  e  il  suo  corpo  scarno  lungo  pallido,  con  le  ossa  delle  ginoc- 
chia ingrossate,  con  la  mano  forata  come  da  un  chiodo,  sembrava 
alla  madre  quello  di  Cristo  deposto;  ma  lei  era  lì  a  vegliarlo  e  già 
ne  sentiva  la  resurrezione. 

—  A  quest'ora  il  babbo  sarà  già  in  treno,  —  egli  disse  guar- 
dando con  gli  occhi  spalancati  il  cielo.  —  È  ripartito  contento  di 
vederci  ben  sistemati,  ma  già  preoccupato  per  gli  affari  di  casa.  Se 
fosse  rimasto  qui  avrebbe  fatto  bene:  si  dà  sempre  tanto  pensiero 
per  la  roba,  per  l'avvenire.  A  che  serve  la  roba?  Io  voglio  vivere 
senza  nulla,  nudo  in  riva  al  mare.  Pescherò  per  mangiare;  mi  farò 
una  capanna  come  quelle  lassù  dei  bagnanti  poveri,  vedute  le  avete? 

Sì,  la  madre  le  aveva  vedute;  erano  capanne  di  frasche  nascoste 
come  nidi  fra  le  macchie  della  brughiera  dove  questa  arrivava  fino 
a  confondere  le  sue  onde  verdi  con  le  onde  verdi  del  mare:  vi  si 
ricoveravano  i  bagnanti  poveri  con  le  loro  famiglie,  separati  dagli 
altri  come  lebbrosi. 

E  invero  erano  tutti  malati  :  bambini  paralitici,  donne  tisiche, 
uomini  con  piaghe,  con  la  scabbia,  forse  anche  davvero  con  la  lebbra. 

—  Sonerò  la  fisarmonica  come  quel  ragazzo  che  ieri  notte  fa- 
ceva ballare  le  donne  lassù  d^l  palazzo;  ma  la  sonerò  per  me  solo. 
E  se  vivrò  dopo  di  vói,  che  Dio  vi  conservi  cento  anni  ancora,  vt^lio 
vendere  tutto  e  fare  qui  le  case  i>er  quei  jwveretti  delle  capanne. 
E  ci  farò  anche  la  chiesa  col  campanile  e  sul  campanile  un  faro  per 
i  naviganti  sperduti. 

La  madre  approvava:  tutto  avrebbe  approvato,  anche  i  precetti 
più  fantastici,  pur  di  vedere  il  suo  Belila  così  tranquillo  steso  al  sole 
fino  a  che  la  mano  fosse  guarita. 


318  IL  DIO  DEI  VIVENTI 

—  Il  paese  nostro  adesso  mi  sembra  così  lontano,  mi  sembra  un 
sogno;  e  la  casa  ima  pri^one:  prima  non  era  così;  prima  mi  diver- 
tivo tanto,  in  casa  e  fuori;  ma  dacché  è  morto  zio  Basilio  tutte  le 
cose  si  sono  rovesciate. 

—  Perchè  pensi  a  questo,  adesso?  Lascia  andare;  tutto  ti  pareva 
brutto  perchè  stavi  male. 

—  E  quel  Dottore!  Se  fossi  stato  piccolo  mi  sarebbe  parso  l'orco; 
io  credo  che  sia  un  uomo  cattivo,  ma  è  che  deve  aver  molto  sofferto 
da  ragazzo.  Capisco  che  se  io  continuassi  a  patire  così,  un  giorno 
ammELzzered  il  primo  sconosciuto  incontrato  in  una  strada,  per  ven- 
dicarmi. 

—  Di  chi  ti  vendicheresti? 
Egli  esitò,  poi  disse: 

—  Di  Dio. 

—  Belila!  Tu  bestemmi:  non  dir  più  una  cosa  simile:  altrimenti 
Dio  ti  castiga  davvero. 

—  E  perchè  lui  mi  fa  patire  così?  Che  ho  fatto,  io? 

Allora  la  madre  gli  fece  un  sermone;  che  Dio  ci  fa  soffrire  per 
provarci;  che  anche  Gresù  ha  patito  innocente,  che  il  dolore  è  la  co- 
rona dell'uomo;  ma  Bellia  s'era  rimesso  a  canticchiare  e  non  l'ascol- 
tava neppure.  Intanto  si  avvicinava  l'ora  del  bagno.  Già  qualche 
testa  apimriva  galleggiante  a  fior  d'acqua  e  qualche  donna  in  cami- 
cetta e  con  la  sottoveste  cucita  fra  le  gambe  in  mancanza  di  altro 
costume  da  bagno,  scendeva  timida  la  spiaggia  fermandosi  a  toccare 
l'onda  col  piede  come  per  provarne  l'impfto. 

Anche  Rosa,  poiché  aveva  già  preparato  quel  che  occorreva  per 
la  colazione,  uscì  con  le  donne  e  i  bambini  sulla  spiag-gia,  tutta  ve- 
stita di  nero  col  fazzoletto  in  testa  e  con  le  grosse  scarpe  che  affon- 
davano nella  sabbia;  e  faceva  gesti  di  terrore  guardando  affascinata 
il  tremolio  delle  onde. 

Appena  la  vide,  Bellia  balzò  a  sedere  e  cominciò  a  gridare  e 
fischiare  per  deriderla:  allora,  incoraggiata  dal  dispetto,  e  poiché  le 
donne  la  invitavano  a  bagnarsi  con  loro  promettendo  che  l'avreb- 
bero sempre  tenuta  per  mano,  cominciò  col  levarsi  le  scarpe. 

—  Mi  bagnerò  solo  i  piedi,  come  nella  notte  di  San  Giovanni. 
E  così  fece;  ma  un'onda  la  investì  d'im/prowiso  ed  ella  scappò 

di  corsa  inseguita  dall'acqua  luminosa  che  le  bagnò  l'orlo  delle  vesti. 

Bellia  s'alzò  in  piedi  e  riprese  a  gridare  e  ridere  forzatamente 
battendo  le  mani;  i  ragazzi  degli  ospiti  nonostante  gli  strappi  delle 
donne  lo  imitarono.  Rosa  foce  un  viso  mortificato,  come  volesse 
piangere;  poi  rientrò  nella  casetta  e  dopo  qualche  momento  riap- 
parve vestita  come  le  altre  donne,  con  la  sola  camicetta  e  la  sotto- 
veste cucita  fra  le  gambe;  ma  teneva  ancora  il  fazzoletto  in  testa, 
cosa  che  provocò  una  grande  ilarità  in  tutti. 

Allora  se  lo  strappò  d'un  colpo  e  lo  sbattè  per  aria,  tutto  nero 
sull'azzurro  del  mare;  poi  lo  buttò  accanto  alle  scarpe  che  aveva 
abbandonate  sulla  sabbia;  tornò  dentro  l'acqua  si  chinò  v'immerse 
la  mano  e  si  fece  il  segno  della  croce. 

—  Smettila,  IBellia,  —  disse  la  madre,  tirandolo  giù.  —  Se  con- 
tinui a  sbeffeggiarla  così  quella  va  fino  in  fondo  al  mare. 

E  infatti  Rosa  procedeva  spavalda  a  testa  alta  senza  voler  la 
mano  che  le  offrivano  le  donne;  e  guardava  in  su  per  non  vedere 


IL  DIO  DEI  VIVENTI  319 

il  peric<)lo,  ma  era  diventala  pallida,  coi  denti  che  1©  battevano  per 
l'impressione  del  freddo. 

D'un  tratto  diede  nn  grido  e  parve  dovesse  cadere;  aveva  messo 
il  piede  in  una  buca.  Belila  non  gridò  più  e  anche  la  macLre  impal- 
lidì e  cominciò  a  supplicare  le  donne  perchè  salvassero  Rosa.  Rosa 
si  salvava  già  da  sé,  avendo  capito  che  si  trattava  di  un  pericolo  da 
ridere;  si  era  inginocchiata  dentro  l'acqua  e  dopo  il  primo  brivido 
di  freddo  provava  un  piacere  indicibile  a  sentirsi  così  tutta  circon- 
data e  posseduta  dal  gioco  delle  onde. 

Le  donne  le  si  riunirono  in  cerchio  attorno  strette  per  mano  in 
una  specie  di  danza  che  a  lei  ricordava  il  ballo  della  tarantola 
quando  il  paziente  morsicato  dalla  bestia  velenosa  viene  seppellito 
fino  al  collo  nella  terra  smossa  e  intorno  gli  danzano  sette  vedove 
sette  maritate  e  sette  fanciulle  finché  la  tema  non  gli  ha  risucchiato 
dalla  carne  il  veleno. 

Cosi  lei  si  sentiva  risucchiare  dairac<|ua  tutta  la  sua  paura  e 
ogni  altra  inquietudine  della  sua  vita.  Smarrita  nell'azzurro  le  pa- 
reva di  poter  nuotare  come  i  pesci;  solo  che  le  sue  vesti  scure  gal- 
leggianti gonfie  entro  l'acqua  le  davano  l'aspetto  di  una  seppia 
mentre  lei  avrebbe  voluto  muoversi  nuda  e  rossa  come  una  triglia. 

Si  mise  a  sedere  poi  si  allungò  galleggiò  sostenendosi  con  ima 
mano  appoggiata  alla  sabbia:  in  breve  fu  la  più  ardita  e  agile  fra 
le  bagnanti;  e  si  dimenticava  di  venir  fuori  e  che  la  pentola  l'aspet- 
tava. 

Belila  s'era  di  nuovo  steso  accanto  alla  madre,  rivoltolai  mare, 
e  adesso  guardava  Rosa  con  invidia  poiché  a  lui  non  era  permesso 
di  fare  il  bagno  quel  primo  giorno. 

—  E  vieni,  dunque,  —  gridò  la  ragazza  avvicinandosi  alla  riva 
—  hai  paura?  Ti  dò  la  mano.' 

Egli  però  non  voleva  essere  sbefTeggiato  dalla  sua  serva:  la 
guardò  con  occhi  sdegnosi. 

—  E  pensa  piuttosto  a  farmi  da  mancare:  il  pranzo  degli  altri 
è  pronto. 

•  * 

Il  pomeriggio  era  meno  lieto  della  mattina  in  quella  spiaggia  ad 
oriente  dove  il  mare  s'immelanconiva  a  misura  che  il  sole  cadeva 
sopra  i  monti  lontani  :  le  ondo  s'increspavano  e  le  lontananze  si 
facevano  livide  di  ima  tristezza  nostalgica  gelosa  del  fulgore  che 
restava  sull'orizzonte  della  terra:  e  la  musica  esasperata  nella  sua 
monotonia  della  fisarmonica  lassù  fra  le  macchie  e  le  capanne  del- 
l'accampamento dei  poveri  pareva  la  voce  stessa  del  paesaggio. 

Bellia  cominciava  così  ancor  nudo  com'era  a  sentire  un  po'  di 
freddo,  eppure  non  voleva  vestirsi  nonostante  le  suppliche  della 
madre;  in  fondo  provava  un  senso  di  conforto  una  dolcezza  infinita 
a  sentir  la  sua  pena  confondersi  con  la  pena  delle  cose  intomo. 

La  sua  attenzione  era  attratta  dall'accampamento  primitivo  dei 
poveri  mentre  il  casone  bianco  dei  bagnanti  borghesi,  con  le  sue 
finestre  eguali,  con  le  figure  di  ragazze  vestite  di  bianco  e  di  uo- 
mini in  veste  di  tela  non  lo  interessava  per  nulla.  Solo  invidiava  i 
giovanetti  della  sua  età  che  andavano  in  barca  remando;  gli  pareva 


320  IL  DIO  DEI  VIVENTI 

che  avessero  le  ali,  che  arrivati  lassù  dove  il  mare  si  confonde  col 
cielo  restassero  sospesi  in  aria  a  dominare  il  mondo.  Poter  vog-are 
anche  lui  così!  A  ohe  gli  serviva  la  ricchezza,  se  era  più  impotente 
dei  poveri  ragazzi  là  deiraccampamento  che  si  nascondevano  per 
nascondere  le  loro  piaghe? 

Altre  barche  con  donne  e  uomini  passavano  quasi  rasentando 
la  riva  e  si  perdevano  giù  dietro  la  cinta  di  scogli  che  chiudeva  la 
cala;  dove  andavano? 

—  Vanno  a  vedere  la  grotta  della  Sirena,  —  spiega  Rosa  acco- 
vacciata sulla  sabbia  e  anche  ki  un  po'  melanconica.  —  È  un  luogo, 
dice  la  serva  degli  ospiti  che  c'è  stata,  un  luogo,  un  luogo  il  più  bello 
del  mondo;  una  chiesa  dentro  la  scogliera,  tutti  candelabri  di  dia- 
mante e  un  altare  oh©  non  si  può  guardare  tanto  riluce.  Dalla  volta 
pendono  grappoli  di  uva  e  di  frutta  tutti  d'oro  e  di  perle:  ©  giù  il 
pavimento  è  di  madreperla  e  di  corallo,  e  sulle  pareti  si  arrampi- 
cano piante  di  roae  d'oro.  Ma  è  diffìcile  entrarvi,  bisogna  che  il  mare 
sia  calmo  come  l'olio:  e  guai  se  non  si  fa  presto  a  uscirne  perchè  la 
Sirena  nascosta  nella  grotta  si  diverte  a  scuotere  il  mare  mentre  i 
visitatori  son  dentro;  allora  non  si  può  più  uscirne  e  chi  tenta  di 
farlo  può  annegare. 

—  Speriamo  non  ti  venga  in  mente  di  andarci,  —  dice  la  pa- 
drona. 

—  Io?  Dio  me  ne  guardi!  Non  voglio  correre  il  rischio  di  stare 
là  dentro  tre  giorni  come  è  avvenuto  al  cugino  del  fidanzato  della 
serva  dei  nostri  ospiti  :  la  mia  pelle  è  nera,  ma  le  voglio  bene  an- 
che CQSÌ. 

—  Io  invece  voglio  andarci,  —  annunziò  Bellia.  E  poiché  vide 
già  gli  occhi  diella  madre  velarsi  d'inquietudine  aggiunse  :  —  ci  ver- 
rete anche  voi. 

Ma  pareva  lo  dicesse  più  che  per  rassicurarla,  per  un  istinto 
di  crudeltà. 

—  Se  ci  andate  voi,  ci  vengo  anche  io,  —  esclamò  la  serva;  — 
©  del  resto  se  stiamo  là  dentro  eh©  importa?  ci  portiamo  un  po'  di 
provviste  e  buona  notte! 

—  Tu  non  andrai  senza  il  mio  permesso,  Bellia,  —  afferma  la 
madre  con  uno  sforzo  di  autorità  che  le  desta  già  un  senso  d'ango- 
scia; ahgoscia  per  il  pericolo  ch'egli  corre  recandosi  alla  grotta  ma  so- 
pratutto per  il  dovere  di  opporsi  al  desiderio  di  lui. 

Egli  sorrid©,  tanto  del  tono  d'autorità  quanto  della  pena  nascosta 
di  lei  ;  in  fondo  sa  che  può  fare  quollo  che  gli  par©  e  piace. 

La  fisarmonica  lassù  fra  le  tamerici  che  si  staccavano  già  scure 
sul  cielo  rosso  dell'occidente  suonava  qualche  cosa  di  simile:  una 
barca  che  scompare  dietro  uno  scoglio  e  desta  le  smanie  di  un  gio- 
vane cuor©  malato:  oh,  andare,  andare  così  nel  mare  della  vita  in 
c©rca  della  grotta  dalle  illusioni  abbandonando  il  cuor©  sicuro  della 
madre  per  il  perfido  sorriso  della  Sirena. 

E  il  cuore  della  madre  è  già  in  pena  per  la  pena  del  figlio  e 
lenta  di  lottar©  con  la  misteriosa  rivale:  ma  che  può  lei,  povero 
cuore  di  carne  viva,  contro  le  dure  stalattiti  dell'illusione?  Che  può 
se  il  brillare  di  quelle  attira  anche  lei?  Dopo  tutto,  lei  non  ha  mai 
vedlito  la  grotta  :  forse  è  così  bella  davvero  come  la  descrivono  anche 


IL  DIO  DEI  VIVENTI  321 

i  naufraghi;  eppoi  non  tutti  sono  destinati  a  visitarla  con  rischio: 
si  può  andarci  quando  il  mare  è  calmo,  tutti  assieme,  e  la  madre 
godere  della  gioia  del  figlio. 

• 
•  • 

La  mattina  dopo  Bellia  fece  il  suo  primo  bagno.  Indossava  un 
paio  di  mutandine  di  maglia  a  strisce  gialle  e  rosse  che  quando  egli 
cajnminava  avevano  un'ondulazione  serpentina:  Rosa,  già  in  acqua, 
cominciò  a  gridare: 

—  L'aragosta,  l'aragosta.' 

—  La  seppia,  la  seppia,  —  egli  rispose,  ma  la  sua  voce  era  in- 
certa, e  anche  lui  tastava  l'acqua  col  piede  pauroso  di  avanzare. 
Avrebbe  dovuto  andare  a  bagnarsi  di  là  della  casa  bianca,  assieme 
con  gli  altri  uomini,  ma  la  madre  non  glielo  permetteva  :  d'altronde 
poteva  passare  per  il  più  grande  dei  ragazzi  ai  quali  era  lecito  di 
stare  con  le  donne;  e  la  madre  lo  accompagnava  e  lo  sorvegliava 
appunto  come  un  bambino  al  suo  primo  bagno  e  soffriva  di  non  po- 
tere anche  lei  entrare  in  acqua  e  tenerlo  per  la  mano  come  facevano 
le  altre  madri  coi  loro  piccoli. 

Anche  il  cane  non  voleva  abbandonarlo;  gli  si  drizzava  addosso 
lungo  e  bianco  e  come  nudo  anch'esso,  con  un  lamento  quasi  umano, 
e  pareva  volesse  trattenerlo,  salvarlo  da  un  pericolo. 

Per  fortuna  Bellia  procedeva  con  paura  e  prudenza  :  aveva  l'im- 
pressione che  quell'acqua  tremula  gli  si  attortigliasse  alle  caviglie  con 
cordicelle  misteriose  per  attirarlo  lontano;  e  senza  i  gridi  e  gli  sber- 
leflB  di  Rosa  sarebbe  tornato  indietro  con  grande  consolazione  della 
madre. 

La  madre  se  ne  stava  dritta  sulla  sabbia  con  la  mano  sugli  occhi 
più  ansiosa  delle  donne  dei  pescatori  quando  i  loro  uomini  sono  in 
mare  e  la  tempesta  arriva  tutta  d'un  tratto  lanciando  in  avanti  le 
procellarie  sinistre:  avanti  a  sé  aveva  steso  un  lenzuolo  che  sem- 
brava una  vela,  per  scaldarlo  al  sole  e  con  esso  asciugare  il  ragazzo; 
e  aveva  deposto  un  paniere  con  uova  biscotti  vino  bianco  tanto  quanto 
bastava  per  ristorare  dieci  naufraghi. 

Il  cane  non  era  meno  ansioso  di  lei;  entrava  nell'acqua  ma  non 
osava  avanzare;  tornava  verso  la  padrona  e  raspava  la  sabbia  ai  suoi 
piedi,  con  un  guaito  che  chiedeva  soccorso;  infine  diede  ascolto  a 
un'onda  che  si  avanzò  fino  a  lui,  la  seguì,  si  lasciò  portare,  cominciò 
a  nuotare  finché  raggiunto  il  padroncino  gli  si  aggrappò  addosso  e 
parve  volesse  baciarlo  sul  Viso. 

L'esempio  del  cane  diede  un  po'  di  coraggio  al  bagnante. 

—  Rosa,  —  ordinò  alla  serva  come  fossero  nella  loro  cucina  — 
porta  fuori  questa  bestia. 

E  le  buttò  addosso  il  cane  per  vendicarsi  della  beffa  di  lei,  poi 
andò  avanti  ma  sempre  con  grande  prudenza. 

A  poco  a  poco  la  madre  lo  vedeva  allontanarsi  e  affondare  :  ecco, 
l'acqua  pare  se  lo  divori;  gli  ha  già  mangiato  le  gambe,  le  ginocchia, 
le  cosce  :  solo  metà  del  corpo  è  ancora  salvo. 

—  Bellia!  Bellia,  non  andare  più  oltre. 

La  voce  di  lei  si  perde  con  quella  delle  altre  donne  che  riohia- 


322  IL  DIO  DEI  VIVENTI 

mano  inutilmente  i  loro  bambini.  E  adesso  la  serva,  che  deve  stare 
sulla  sabbia  per  trattenere  il  cane,  si  diverte  a  spaventarla. 

—  Sono  venuta  fuori  perchè  ci  sono  tante  tarantole  di  mare:  se 
pungono  fanno  morire  arrabbiati. 

—  E  Bellia  che  non  lo  sa!  Guarda  com'è  lontano! 

—  Non  aver  paura,  —  la  conforta  la  sua  ospite.  —  Non  è  vero 
che  ci  sono  tarantole.  E  l'acqua  è  bassa  fin  dove  vedi  nuotare  quegli 
uomini. 

—  Io  ne  vedo  uno  che  tìii  sembra  un  morto,  padrona  mia.  De- 
v'essere un  annegato. 

—  Ma  no,  è  uno  che  fa  il  morto,  come  si  dice,  —  spiega  l'ospite. 
— •  No,  no,  il  mare  mi  piacerebbe  vederlo  da  lontano,  —  dice  la 

madre,  —  dalla  cima  di  una  montagna. 

—  Guardate,  —  urla  la  serva  drizzandosi  sulle  ginocchia  —  che 
cosa  sono  quelle  macchie  laggiù?  Pescicani? 

—  Ma  non  vedi  che  sono  barche? 

—  Bellia,  Bellia!  Non  andare  avanti.  Guarda  com'è  pallido  e 
tremante.  Gli  viene  male. 

—  È  l'impressione  del  fx^pddo,  —  die©  l'ospite;  —  bisognerebbe 
che  si  tuffasse  ^tutto. 

—  Bellia,  va  sotto.  Non  prendere  freddo.  Dio  mio,  questo  ra- 
gazzo oggi  mi  fa  morire  d'angoscia.  (Il  Dottore  che  gli  ha  ordinato 
i  bagni  vuole  proprio  la  nostra  rovina,  ha  ragione  chi  dice  che  è 
un'anima  perversa). 

Mentre  pensa  così  la  disgraziata  donna  accenna  a  Bellia  di  tuf- 
farsi; ed  egli  finalmente  capisce  si  piega  dentro  l'acqua,  sparisce, 
ricomipare,  ma  è  livido  in  viso  col  corpo  tutto  lucente  e  tremante. 

—  Per  oggi  basterebbe,  —  dice  la  madre.  —  Il  Dottore  ha  ordi- 
nato di  bagnarsi  appena,  il  primo  giorno. 

—  È  troppo  poco,  osserva  l'ospite;  —  lascialo  ancora. 

—  I  tuoi  ragazzi  stanno  molto  in  acqua? 

—  Dovresti  domandarmi  se  stanno  molto  in  terra.  Non  vedi  che 
vengono  fuori  solo  quando  sentono  fame? 

Alquanto  rassicurata,  la  madre  si  piega  e  siede  sulla  sabbia, 
accanto  all'ospite:  e  Bellia  pare  capisca  ch'ella  gli  accenni  di  pie- 
garsi anche  lui;  infatti  si  tuffa  di  nuovo  e  prende  dimestichezza  con 
l'acqua;  l'assaggia  e  la  sputa,  va  lontano  tutto  solo,  un  poco  incerto 
ancora  ma  già  lieto  come  un  bambino  che  comincia  a  camminare. 

—  Adesso  mi  pare  che  basti,  per  oggi,  —  consiglia  l'ospite,  — 
puoi  farlo  venir  fuori. 

—  Bellia?  Bellia? 

Bellia  è  già  tanto  lontano  che  non  sente  più;  e  la  madre  lo 
guarda  come  s'egli  sia  per  salpare  verso  gli  opposti  lidi  del  mare. 

—  Rosa,  —  dice  tuttavia  alla  serva,  —  va  a  chiamarlo. 

—  Già!  Come  che  egli  sia  nella  strada  davanti  a  casa! 

—  Signore!  Come  si  fa?  Ci  fosse  almeno  il  padre! 

Anche  il  cane  era  di  nuovo  inquieto  e  si  lamentava  e  lottava 
con  la  serva  che  lo  teneva  sempre  stretto  a  sé. 

Ma  già  Bellia  se  ne  ritornava  piano  piano,  trionfante  e  tuttavia 
ancora  prudente,  camminando  fra  le  onde  basse  come  attraverso 
un  campo  dj  grano  che  non  sd  vuol  calpestare. 


IL  DIO  DEI  VIVENTI  323 

E  alla  madre  pareva  che  il  mare  stesso  sorridesse  nel  restituirle 
il  suo  diletto. 

S'alzò  e  prese  il  lenzuolo  caldo  di  sole:  lo  tenne  aperto  come 
im  paravento  mentre  Belila  si  toglieva  le  mutandine;  poi  glielo  av- 
volse bene  intomo  al  corpo;  e  ancora  una  volta  avrebbe  voluto  pren- 
dersi in  collo  il  QUO  ragazzo  per  asciugarlo  e  scaldarlo  contro  il 
suo  seno. 

Gli  diede  subito  da  bere  un  uovo  poi  un  bicchiere  di  vino 
bianco;  poi  si  piegò  a  togliere  i  sassolini  dalla  sabbia  dove  egli  si 
stendeva  e  gli  coprì  i  piedi  con  la  rena  calda:  infine  sedette  in 
modo  che  la  testa  di  lui  riposasse  sull'ombra  di  lei  come  sul  suo 
grembo  stesso. 

• 
** 

Il  sabato  ritornò  Zebedeo,  con  due  bisacce  colme  di  pane  fresco, 
dolci,  frutta,  latticini.  Nonostante  il  suo  carico  camminava  svelto 
lungo  la  spiaggia  e  aveva  un'aria  felice:  tanto  che  Rosa  nell'an- 
dargli  incontro  si  mise  a  scherzare  con  malizia. 

—  Vi  siete  trovata  l'amica,  in  paese,  adesso  che  vostra  moglie 
è  lontana:  sembrate  ringiovanito  di  venti  anni. 

—  E  tu  invece  stai  a  seccarti  come  un'aringa,  perchè  non  trovi 
l'innamorato,  —  egli  rimbeccò;  —  ma  il  suo  accento  non  era  cattivo, 
e  il  solo  fatto  che  egli  accettava  bonariamente  lo  scherzo  della  serva 
dimostrava  il  suo  buon  umore. 

E  si  rallegrò  maggiormente  quando  vide  Belila.  Anche  Belila 
sembrava  un  altro;  s'era  ingrassato  e  annerito,  e  i  suol  occhi  non 
avevano  più  quel  velo  di  tristezza  quasi  crudele  che  prima  li  of- 
fuscava. 

Si  piegò  a  guardare  i  cestini  e  gli  involti  che  Rosa  traeva  dalle 
bisacce  e  cominciò  a  mangiare  golosamente  e  alla  rinfusa  le  cose 
che  contenevano:  e  il  padre  lo  guardava  con  beatitudine. 

—  Come  va  la  tua  mano? 

Belila  non  si  ricordava  più  della  sua  mano  polche  la  piaga  s'era 
quasi  del  tutto  chiusa. 

Quando  andarono  a  mettersi  sulla  sabbia  Zebedeo  guardò  se 
nessuno,  neppure  la  serva,  li  sentisse,  per  confidare  alla  moglie  il 
segreto  della  sua  gioia. 

—  Quella  donna  è  partita.  È  andata  dal  marito.  Speriamo  non 
tomi  più  in  paese. 

La  moglie  sospirò,  un  sospiro  strano  non  di  sollievo  ma  di  sof- 
ferenza rassegnata;  egli  la  guardò  e  si  accorse  che  anche  lei  era  mu- 
tata, dimagrita,  con  gli  occ^hi  tristi;  pareva  avesse  ceduto  la  sua  carne 
per  ingrassare  il  corpo  del  figlio,  e  la  tristezza  di  questi  si  fosse  in 
qualche  modo  trasfusa  in  lei. 

—  Maria  Caterina,  —  disse  subito  allarmato,  —  perchè  sei  così? 
Che  hai? 

—  Nulla,  Zebedeo.  —  È  11  clima  del  mare  che  mi  abbatte.  La 
notte  non  posso  dormire. 

—  Ti  bevi  troppo  caffè,  forse. 

—  Forse:  ma  non  ho  voglia  di  altro.  È  il  pensiero  della  casa 
che  mi  tiene  sveglia. 


324  IL  DIO  DEI  VIVENTI 

—  Tu  sei  pazza,  Maria  Caterina;  la  casa  è  custodita  come  una 
fortezza:  perchè  tu  appunto  non  ti  dia  pensiero  ho  fatto  stare  a 
casa,  il  servo;  e  la  vecchia  bada  a  tutto  solerte  e  maliziosa  come  la 
madre  del  diavolo.  Non  aver  paura,  tutto  procede  bene.  Anche  in 
campagna  tutto  va  meglio;  come  se  la  maledizione  di  quella  donna 
sia  cessata. 

—  Io  non  ho  mai  creduto  alle  maledizioni,  —  disse  la  mc^lie 
con  una  certa  rigidezza.  —  Noi  viventi  non  possiamo  nulla  senza  la 
volontà  di  Dio. 

—  Ebbene,  sarà  Dio  allora  che  si  sarà  stancato  di  castigarci 
per  i  nostri  peccati.  Il  fatto  sta  che  le  cose  vanno  meglio:  ringra- 
ziamo Dio. 

La  sua  voce  era  scherzosa;  ma  anche  nei  suoi  occhi  fìssi  sul  mare 
passava  di  nuovo  un'ombra  misteriosa  che  rassomigliava  appunto 
alle  ombre  del  mare;  donde  vengono?  il  cielo  è  sereno  senza  una  nu- 
vola, la  terra  è  lontana,  le  onde  deserte;  eppure  grandi  veli  d'ombra 
oscurano  qualche  zona  nelle  distese  ove  l'acqua  è  più  tranquilla  e 
pare  salgano  dalla  sua  profondità. 

—  Che  nuove  laggiù?  —  domandò  la  moglie.  —  Che  cosa  si 
dice  per  la  partenza  di  Lia? 

—  Tu  sai  che  io  non  piarlo  mai  di  lei  con  nessuno,  e  nessuno 
osa  parlarmene.  In  questi  giorni  poi  ho  evitato  appositamente  gl'in- 
contri per  non  far  chiacchiere;  sono  stato  quasi  sempre  al  podere  a 
guardare  la  nostra  roba,  ed  ho  lavorato  più  dei  servi.  Solo  sono 
andato  dal  Rettore;  ma  il  Rettore  sta  male,  dopo  quella  sera  s'è 
messo  a  letto  e  non  ha  più  la  forza  di  fare  addio  con  la  mano. 

—  Dopo  quella  sera? 

—  Ma  —  egli  disse  un  po'  confuso  —  dopo  quella  sera,  alla  vi- 
gilia della  nostra  partenza,  che  l'incontrai  in  piazza,  mi  pare  di  aver- 
telo detto. 

No,  egli  non  le  aveva  detto  di  quell'incontro,  ma  ella  non  insistè; 
pensava  ad  altro. 

—  Sai  che  cosa  mi  disse  il  nostro  ospite?  Che  facciamo  bene  a 
portare  Bellia  al  mare,  il  mare  lo  rinforzerà  e  lo  guarirà;  altrimenti 
può  andare  a  finire  come  il  Rettore.  Se  il  Rettore  si  fosse  curato 
bene,  da  ragazzo,  non  finiva  così:  ma  egli  era  troppo  attaccato  ai 
denari. 

—  Noi  però  non  siamo  attaccati,  ai  denari;  —  la  rassicurò  il 
marito.  —  Tutto  faremo  per  lui;  si  vive  e  si  lavora  e  si  soffre  solo 
per  lui. 

—  Egli  però  è  un  po'  ingrato;  —  gli  confidò  la  moglie  sottovoce, 
mentre  Bellia  scendeva  di  corsa  dalla  casetta  e  andava  a  gettarsi  in 
mane  destando  intomo  a  sé  un  tumulto  d'acqua  come  vi  si  fosse 
precipitato  dentro  su  un  puledro  ricalcitrante.  —  Vedilo!  Ha  appena 
mangiato  e  va  dentro  a  rischio  di  farsi  venire  una  sincope.  Bellia, 
Bellia,  —  cominciò  invano  a  gridare,  —  è  troppo  presto;  hai  appena 
mangiato.  Non  tuffarla,  non  andar  lontano!  Vieni  a  stare  un  po'  con 
tuo  padre.  Sì!  Gli  importa  molto  del  i>adre  e  della  madre!  Fa  il  pia- 
cere suo  e  basta;  anche  se  mi  vede  morire  d'inquietudine  non  se  ne 
cura,  anzi  ne  ride:  si  direbbe  che  prende  gusto  a  farmi  stare  in  pena. 

—  Ma  non  è  nulla.  Maria,  tu  t'inquieti  per  sciocchez25e.  Vedi 
com'è  agile?  Lascialo  muoversi,  divertirsi  :  è  questo  che  gli  fa  bene. 


IL  DIO  DEI  VIVENTI  325 

—  Oggi  il  mare  è  buono  e  non  c'è  pericolo;  ma  l'altro  giorno  era 
mosso,  con  dei  cavalloni  che  pareva  volessero  arrivare  di  là  del 
piano.  E  faceva  freddo,  nessuno  si  bagnava,  solo  lui.  D'un  tratto  è 
scomparso.  Mi  sembrò  di  morire. 

—  Lo  sgriderò,  —  promise  il  padre;  ma  lei  non  si  chetava. 

—  Tu  sai,  Zebedeo,  io  sono  una  donna  tranquilla,  non  sono  mai 
uscita  di  CcLsa,  può  dirsi:  da  anni  non  vengo  nemmeno  al  podere. 
Ci  voleva  solo  l'amore  per  il  figlio  per  farmi  muovere;  e  questo 
viaggio  è  per  me  come  l'essere  andata  in  capo  al  mondo.  E  non 
siamo  in  capo  al  mondo?  —  ella  disse  guardando  con  un  senso  di 
mistero  l'arco  del  mare.  —  Questa  linea,  di  sabbia  mi  pare,  a  volte, 
l'orlo  di  un  precipizio.  Dopo  questa  striscia  ferma  tutto  si  muove  e 
ogni  onda  apre  la  bocca  come  un  animale  feroce.  Quello  che  provo 
io  qui  è  quello  che  si  deve  provare  al  momento  della  morte.  L'altro 
giorno,  ti  assicuro  in  fede  mia,  vedevo  proprio  l'immagine  dell'in- 
ferno là  dentro  il  m-are  mosso:  diavoli  e  diavoli  che  lottavano  con 
le  anime  dannate;  e  pensavo:  è  giusto  quello  che  molti  affermano 
ohe  non  c'è  altra  vita,  che  il  paradiso  l'inferno  e  il  purgatorio  sono 
in  questo  mondo. 

Il  marito  balzò  a  sedere  sulla  sabbia  dove  s'era  beatamente  di- 
steso :  le  parole  e  sopratutto  l'accento  e  l'espressione  del  viso  della 
moglie  lo  turbavano  profondamente.  Sulle  prime  credette  ch'ella  ri- 
ponesse un  senso  nascosto  nelle  sue  parole,  un  significato  che  gli 
ridestava  le  angosce  sopite;  ma  poi  s'accorse  che  ella  parlava  senza 
alludere  ad  altro  che  al  suo  terrore  del  mare,  e  tentò  nuovamente 
di  calmarla.  Ma  la  sua  ridestata  pena  non  si  riaddormentava;  in 
fondo  era  tutta  una  stessa  cosa,  1  inquietudine  della  moglie  e  la  sua. 

—  È  effetto  del  clima  al  quale  non  sei  abituata  :  a  molti  il  mare 
fa  così;  ma  poi  passa.  Del  resto  fra  due  settimane  o  tre  al  massimo 
saremo  a  casa  e  non  se  ne  parla  più. 

—  Non  se  ne  parla  più?  E  gli  anni  prossimi?  Questa  pena  biso- 
gnerà rinnovarla  ogni  anno. 

—  Ma  no.  Maria!  Il  ragazzo  guarirà  e  d'altronde  potrà  venire 
senza  di  te. 

—  Senza  di  me?  Senza  di  me  a  quest'ora  si  sarebbe  annegato 
dieci  volte.  Io  non  lo  abbandonerò  mai.  Piuttosto  tu  devi  dirgli  che 
sia  prudente;  che  non  si  allontani.  Adesso  poi  s'è  messo  in  mente 
di  andare  alla  grotta  della  Sirena,  dove  è  facile  entrare  ma  diflBcile 
uscire.  Quella  scempia  di  Rosa  non  parla  d'altro;  anche  i  ragazzi 
dell'ospite  ne  parlano;  ed  egli  vuole  andarci  a  tutti  i  costi.  Tu  glielo 
devi  proibire. 

—  Glielo  proibirò  —  egli  promise  per  calmarla,  e  infatti  quando 
Bellia  tornò  sulla  spiaggia  si  ebbe  un'energica  paternale,  alla  quale 
rispose  con  sorrisi  di  derisione  e  infine  con  parole  insolenti.  Pareva 
che  quella  vita  primitiva  ih  riva  al  mare  lo  avesse  inselvatichito: 
e  il  padre  fece  una  mossa  per  ricordargli  con  uno  schiaffo  la  dimen- 
ticata educazione.  Allora  la  madre  lo  difese,  e  la  pena  per  il  figlio 
mcdtrattato  superò  la  pena  per  il  figlio  disubbidiente.  Tutto,  tutto, 
fuorché  vedere  il  figlio  soffrire. 


b26  IL  DIO  DEI  VIVENTI 


Tanto  meglio  così  :  anche  il  padre  preferiva  l'insolenza  sana 
alla  passività  malaticcia  di  Bellia. 

E  poiché  anche  l'ospite  gioviale  era  a  passare  il  sabato  e  la  do- 
menica con  la  famiglia,  furono  di  nuovo  due  lieti  giorni  di  baldoria 
omerica. 

Il  sabato  vi  fu  banchetto  dall'ospite:  la  domenica  dai  Barcai. 
Un'aria  di  festa  spirava  anche  sul  mare;  il  venticello  di  ponente 
increspava  l'acqua  così  limpida  sulla  sabbia  ondulata  che  pareva 
l'acqua  d'una  fontana  e  quasi  invitava  a  berla. 

Molta  gente  estranea,  del  paese  e  di  paesi  piìi  lontani,  era  scesa 
alla  spiaggia;  si  vedevano  qua  e  là  famiglie  di  scarpe  abbandonate 
sulla  rena,  e  ragazzi  che  correvano  lungo  la  riva  e  pareva  non  doves- 
sero fermarsi  mai. 

Per  rendere  più  allegro  il  pomeriggio  festivo  l'ospite  invitò  il 
suonatore  di  fisarmonica;  le  donne  ballavano  fra  di  loro;  i  bagnanti 
aristocratici  della  casa  bianca  scesero  allo  spiazzo  della  casetta  roc- 
ciosa attirati  dal  chiasso  e  dalla  musica. 

Il  lunedì  Zebedeo  se  ne  andò  dopo  aver  raccomandato  al  figlio 
di  essere  prudente,  di  non  far  inquietare  la  madre;  egli  sarebbe 
ritornato  a  riprenderli  fra  una  quindicina  di  giorni;  ma  appena  via 
lui  Bellia  ricominciò  a  fare  il  piacere  suo  in  mare  e  in  terra.  La 
sera  stessa  del  lunedì  andò  in  paese  col  suonatore  di  fisarmonica, 
ch'era  un  ragazzo  triste  vizioso  e  vagabondo,  e  ritornò  a  notte  tarda. 

La  madre  lo  aspettava  inquieta,  seduta  con  la  serva  sulla  duna 
di  sassi  davanti  alla  casetta:  era  una  diversa  inquietudine  di  quando 
il  suo  ragazzo  era  nel  i>ericolo  delle  acque,  ma  più  viva  più  gelosa. 

—  Chi  ne  sa  niente  dove  sarà  andato?  Adesso  si  dà  alle  cattive 
compagnie:  forse  andrà  all'osteria,  o  da  qualche  donna  di  mali  co- 
stumi, chi  ne  sa  niente?  Quel  ragazzaccio  che  suona  sempre,  che 
non  ha  altro  mestiere,  che  è  già  stato  in  America,  mi  dà  l'idea  del 
figlio  della  Tentazione. 

Invano  la  serva  cercava  di  rassicurarla. 

—  Ragazzi,  sono!  E  il  vostro  Bellia  bisogna  pur  bene  che  si 
stacchi  dalla  vostra  gonna. 

La  padrona  guardava  le  stelle,  l'Orsa  alta  sul  confine  fra  la 
brughiera  e  il  mare,  e  neppure  il  silenzio  delle  onde  e  la  serenità 
della  notte  profumata  d'silghe  e  di  menta  selvatica  riuscivano  a 
chetarla.  Era  quasi  mezzanotte;  anche  i  lumi  della  casa  bianca  si 
spegnevano:  solo  sul  mare  lungo  gli  scogli  errava  una  barca  fanta- 
stica con  una  fiammella  a  prua  e  una  figura  che  si  spoi^va  come 
a  guardare  e  misurare  la  profondità  delle  acque. 

—  Ti  pare,  Rosa,  che  Bellia  e  quel  ragazzaccio  siano  in  quella 
barca,  diretti  alla  grotta  della  Sirena?  Anche  oggi  ne  p)arlavano. 

—  È  un  pescatore  d'arselle.  Ma  può  essere  anche  un'anima  er- 
rante :  ad  ogni  modo  iBellia  vostro  non  è. 

Finalmente  si  sentì  lontano  lontano  come  venisse  dad  mare  il 
suono  della  fisarmonica:  in  quel  momento  la  madre  benedisse  lo 
strumento  del  vagabondo  che  gli  annunziava  il  ritorno  del  figlio. 

E  non  rimproverò  Bellia,  quasi  fosse  il  fìgliol  prodigo;  ma  non 
fece  neppure  tacere  la  serva  che  lo  sgridava  per  conto  suo. 


IL  DIO  DEI  VIVENTI  3*27 

-  Tu  dovresti  vergognarti  di  andare  con  un  ragazzaccio  così, 
che  è  i>eggio  dei  mendicanti  :  i  mendicanti  se  non  altro  hanno  un 
po'  di  educazione  :  quello  lì  è  più  maligno  e  puzzolente  della  volpe  : 
eppoi  dicono  che  rubi  anche. 

—  Se  ruba  lo  farà  per  necessità,  —  rimbeccò  Belila.  —  Se  tu 
fossi  nelle  sue  condizioni  saresti  mille  volte  peggiore  di  lui. 

—  Basta  basta,  —  disse  la  madre  —  è  mezzanotte;  non  è  ora  di 
questioni.  Andiamo  a  letto. 

—  Se  torna  qui,  quell'anima  errante  la  fermo  io  a  colpi  di 
pietra,  —  promise  Rosa:  e  Belila  sogghignò,  pronunziando  una 
frase  che  turbò  la  madre. 

—  Tu  sei  gelosa  di  lui. 

—  Perchè  dovrei  essere  gelosa?  Sono  forse  la  tua  innamorata? 
Vieni  qui  che  ti  soffio  il  naso.  Del  resto  tutti  parlano  male  di  lui. 

—  Perchè  tutti  sono  invidiosi  di  lui. 

La  serva  rideva  sghignazzando  come  una  cornacchia:  e  in  lon- 
tananza rispondeva  la  fisarmonica  e  pareva  dicesse,  per  conto  del 
suo  padrone: 

—  Sì,  sì,  tutti  mHnvidiano  perchè  sono  padrone  della  terra  e 
del  cielo:  dove  mi  trovo  mi  stendo,  e  non  ho  paura  di  nessuno: 
nessuno  può  farmi  del  male  perchè  il  male  io  già  lo  conosco  in  tutte 
le  sue  forme  e  non  può  nuocermi  più;  e  neppure  della  morte  ho 
paura  perchè  la  mia  tristezza  è  tanta  che  il  pensiero  della  morte 
mi  è  dolce. 

La  madre  sentiva  confusamente  queste  cose  e  la  sua  pena  si  fa- 
ceva più  profonda,  più  misteriosa. 

Quella  notte  dormì  meno  delle  altre  notti,  le  pareva  che  Belila 
fosse  sempre  in  pericolo;  tutti  glielo  volevano  prendere,  il  mare,  la 
terra,  gli  uomini;  e  non  riusciva  a  persuadersi  che  era  la  vita  stessa 
che  glielo  prendeva. 

* 
*• 

La  mattina  seguente  il  suonatore  venne  a  trovare  Belila  come 
fossero  amici  da  lungo  tempo  e  della  stessa  condizione.  Depose  il 
suo  strumento  avvolto  in  un  {>anno  all'ombra  di  uno  scogrlio  e  si 
sdraiò  sulla  sabbia  accanto  a  Belila  e  al  cane. 

La  madre  non  osò  dirgli  nulla;  lo  guardava  però  con  diffidenza 
e  trovava  veramente  qualche  cosa  di  strano  e  d'inquietante  in  quel 
lungo  corpo  bruno  tutto  ossa,  in  quei  piedi  grandi  e  piatti,  e  sopra- 
tutto nel  viso  olivastro  e  camuso  simile  a  quello  dei  negri.  Anche  i 
capelli  erano  neri  e  crespi,  mentre  gli  occhi  grandi  e  tristi  avevano 
un  colore  indefinito  a  volte  azzurrognoli  a  volte  verdastri  come  quelli 
dei  gatti. 

Non  parlava:  Belila  si  divertì  a  buttargli  manciate  di  rena  sui 
capelli  ed  egli  lasciò  fare  scuotendo  solo  la  testa  come  l'avesse  ba- 
gnata :  il  cane  si  aggirava  loro  in  tomo  e  dapprima  parve  ostile  al 
suonatore  abbaiandogli  contro  e  tentando  di  mordergli  i  piedi,  poi 
rassicurato  dai  gridi  e  dai  cenni  del  padrone  si  sdraiò  tra  i  due  e 
divenne  subito  amico  d^  vagabondo. 

La  madre  provò  gelosia  anche  di  questo:   avrebbe  voluto  che 


328  IL  DIO  DEI  VIVENTI 

Rosa  parlasse  male  al  suonatore:  e  infatti  appena  Bellia  fu  in  acqua, 
la  serva  si  avvicinò  e  frenando  la  sua  stizza  disse  piano  : 

—  Non  ti  venga  in  mente  di  bagnarti  qui,  oh;  i  nostri  ospiti  non 
vogliono. 

Il  suonatore  la  guardò  sorpreso  con  i  suoi  occhi  d'uomo  triste; 
e  senza  rispondere  balzò  in  piedi  riprese  il  suo  strumento  e  andò  a 
mettersi  più  lontano,  di  là  degli  scogli.  Il  cane  lo  seguì  e  Bellia  gli 
faceva  cenni  dal  mare  quasi  avesse  indovinato  le  parole  della  serva 
e  volesse  chiedergli  scusa. 

Allora  la  madre  rimproverò  Rosa: 

—  Non  si  scaccia  così  un  poveretto,  come  un  cane.  Adesso  Bellia 
s'irriterà. 

—  Lasciate  che  si  irriti,  altrimenti  finirà  col  portarvi  quel  leb- 
broso in  camera  vostra. 

Bellia  non  s'irritò,  non  disse  nulla,  ma  nel  pomeriggio  se  la 
svignò  di  nuovo  e  questa  volta  col  cane.  L'idea  che  ^li  fosse  col 
cane  rassicurava  in  qualche  modo  la  madre  :  le  pareva  che  la  bestia 
lo  guardasse  dei  pericoli  ai  quali  andava  incontro. 

Quali  fossero  questi  pericoli  ella  stessa  non  sapeva:  o  meglio 
Io  sapeva,  ma  non  voleva  precisarli  neppure  a  se  stessa;  sentiva  però 
che  li  esagerava  spinta  da  un  sentimento  superstizioso,  dalla  paura 
di  quella  fatalità  che  da  qualche  tempo  gravava  sulla  sua  famiglia 
e  su  Bellia  in  f>articolare. 

Ecco  ch'ella  sta  seduta  sulla  duna  di  sassi  a  scrutare  il  sentiero 
della  brughiera  pensando  appunto  a  questa  fatalità.  Perchè  il  male 
predilige  da  qualche  tempo  Bellia?  Ammesso  pure  che  esista  una 
colpa  nel  padre,  tacitamente  riconosciuta  e  scusata  da  tutta  la  fa- 
miglia, perchè  deve  scontarla  Bellia?  Ma  perchè  Bellia  è  il  cuore 
del  cuore  della  famiglia,  e  il  castigo  si  concentra  in  lui  come  la 
luce  nel  prisma,  per  eèisere  maggiormente  irradiato  intomo. 

In  fondo  ella  sentiva  di  soffrire  veramente  e  solamente  lei, 
adesso:  il  ragazzo  si  divertiva  nella  sua  scorribanda  e  godeva  del 
male  stesso  che  faceva,  della  liberazione  dalla  sua  innocenza,  dalla 
sua  soggezione  e  anche  dal  suo  amore  di  figlio.  E  alla  sua  pena  ella 
sentiva  aggiungersi  per  aggravarla  lo  sdegno  di  non  aver  più  poter© 
sul  figlio  :  era  dopo  tutto;  una  cosa  sua,  era  una  sua  proprietà  asso- 
luta, che  le  sfuggiva.  Come  non  soffrirne?  Eki  era  una  sofferenza  che 
quasi  rasentava  il  terrore:  come  se  ella  vedesse  uno  stesso  membro 
staccarsi  da  lei,  o  peggio  ancora  qualche  cosa  sua  interiore,  la  sua 
ragione  stessa,  il  suo  stesso  amore  di  madre,  abbandonarla  a  poco 
a  poco. 

Si  strinse  la  testa  fra  le  mani  e  chiuse  gli  occhi  quasi  per  im- 
pedire che  davvero  la  ragione  le  volasse  via  come  un  uccello  dalla 
gabbia. 

Rosa  la  trovò  così  e  credendo  che  piangesse  le  battè  dolcemente 
una  mano  sulla  spalla,  la  invitò  ad  alzarsi  a  fare  qualche  passo  con 
lei,  sorpresa  nel  vedere  che  la  padrona  cedeva,  che  obbediva  quasi 
umilmente. 

Andarono  lungo  la  spiaggia  verso  la  foce  del  fiume:  in  certi 
punti  la  vegetazione  della  brughiera  con  le  sue  tamerici  nane  i  cor- 
bezzoli l'alloro  selvatico  raggiungeva  la  rivale  il  suo  odore  si  fon- 
deva con  quello  delle  alghe;  e  pareva  che  la  terra  e  il  mare  si  par- 


IL  DIO  DEI  VIVENTI  329 

lasserò  coi  loro  profumi  e  che  i  sassi  sempre  più  fìtti  volessero  im- 
pedire il  passaggio  dell'uomo  per  serbare  intatta  la  divina  solitudine 
della  natura. 

Rosa  e  la  padrona  dovettero  fermarsi  per  riprendere  fiato.  Ep- 
pure i  sassi,  ai  loro  piedi,  avevano  qualche  cosa  di  dolce  e  dome- 
stico; alcuni  parevano  pani  appena  tolti  dal  forno,  altri  uova,  frutti, 
legumi,  confetti,  utensili  dell'epoca  della  pietra.  Anche  i  cespugli 
dei  cardi  d'un  lilla  cinereo  bronzato  che  crescevano  qua  e  là  solitari 
fra  i  sassi  della  cui  natura  partecipavano,  parevano  piante  preisto- 
riche nate  prima  che  il  mare  si  ritirasse  e  destinate  a  vivere  sempre. 

Le  donne  riuscirono,  i>as&o  passo,  l'anziana  aiutata  dalla  gio- 
vane, ad  attraversare  quel  piccolo  deserto  di  pietre;  di  là  ricomin- 
ciava qualche  striscia  di  sabbia,  e  l'acqua  quasi  immobile  e  limpi- 
dissima, copriva  un  fondo  dorato  di  seta  tutta  marezzata  e  scintil- 
lante. 

Grandi  scogli  s'ammucchiavano  di  tratto  in  tratto  neri  fra  il 
verde  delle  onde  simili  a  rovine  di  castelli  caduti  nel  mare:  su  al- 
cuni si  stendevano  forme  di  bestie  alle  quali  non  mancava  il  vello 
fatto  di  alghe  secche  e  di  musco,  e  l'onda  vi  si  aggirava  intomo  con 
un  movimento  felino  gelosa  della  loro  immobilità  e  intenta  a  roderli 
pur  fingendo  di  carezzarli. 

Le  due  donne  procedevano  vinte  dalla  bellezza  del  luogo;  e  la 
madre  si  sentiva  un  po'  rasserenata  poiché  la  sua  pena  si  sperdeva 
come  un  cattivo  alito  nella  purezza  di  quell'atmosfera  vergine. 

Così  arrivarono  alla  foce  del  fiume  e  sedettero  sul  greto  sassoso. 

Il  letto  del  fiunie  era  largo,  d'un  bianco  abbagliante,  ma  l'acqua 
affluiva  scarsa  in  tanti  rivoletti  che  si  riunivano  in  una  foce  poco  più 
larga  di  due  passi;  e  pareva  che  invece  di  scaricarsi  nel  mare  vi 
scaturisse.  Grida  di  uccelli  salivano  dalle  isole  di  giunchi,  dolci  e 
fievoli  come  venissero  di  sott'acqua. 

E  d'un  tratto  a  quest'incantesimo  di  azzurro  di  luce  di  lonta- 
nanze argentine  si  unì  un  suono  che  fece  palpitare  di  gioia  e  di  pena 
il  cuore  della  madre:  il  suono  della  fisarmonica.  Donde  veniva? 
Dal  mare  o  dal  fiume?  Pareva  che  i  due  compagni  d'avventure  si 
fossero  nascosti  come  gli  uccelli  nelle  fragili  isole  del  greto  o  fra 
gli  scogli  della  riviera  e  di  là  irridessero  l'inquietudine  di  chi  li 
cercava;  eppure  la  madre  in  fondo  era  contenta  di  sentire  almeno 
così  la  voce  di  Bellia  :  meglio  così  che  il  silenzio. 

{Continua). 

Grazia  Deledda. 


22  VoL  OCXVn.  serie  VI  —  16  aprile  1922. 


CONTRIBUTO  ALLA  STORIA  DELLE  ORIGINI   DEL  RISORGIMENTO 

NOTE  SU   MANOSCRITTI  INEDITI 


A  Paolo  Boselli. 

Nello  smuovere  vecchi  libri  polverosi,  rinvenni  vari  fascicoli  di 
carte  ingiallite,  scritte  ai  tempi  della  Repubblica  Cisalpina.  Pensai 
tosto  alla  compiacenza  di  Alessandro  D'Ancona  quando  trovò  la 
«  Raccolta  preziosa  che  ricorda  un'e{>oca  di  malaugurata  memoria 
per  l'Italia  Lombardo- Veneta»,  cioè  il  volume  miscellaneo  del  Torri, 
bibliofilo  e  dantista,  dal  quale  trasse  ed  illustrò,  ripubblicandole,  le 
«Lettere  Sirmiensd».  Non  minore  conforto  venne  all'animo  mio  nel 
vedere  il  materiale  grezzo  di  un  «  Diario  »  che  riproduce  uguali  av- 
venimenti con  vivida,  rude,  ardente  sincerità.  Gli  affanni,  i  dolori, 
i  fervori  dei  primi  martiri  della  nostra  redenzione,  mi  sembrarono 
scolpiti  più  sinceramente  sulle  pagine  dei  miei  manoscritti,  ohe  non 
in  quelle  del  malizioso  ed  arguto  gobbo  veneziano,  il  conte  Francesco 
Apostoli  (1)  :  un  filo  ideale  le  ricongiunge  alle  Mie  prigioni.  Perciò 
volli  farne  offerta,  in  Roma,  al  Gomitato  nazionale  per  la  Storia  del 
Risorgimento:  gli  uomini  insigni  che  lo  compongono,  li  porranno 
tra  le  raccolte  sacre  alle  memorie  immortali  della  patria. 

Insieme  al  Diario  ed  a  vari  altri  manoscritti,  diedi  alcuni 
pregevoli  stampati  e  due  volumi  miscellanei  di  opuscoli  rari,  che 
pur  sempre  trattano  degli  avvenimenti  della  Gisalpina. 

Con  queste  brevi  note  tendo  ad  attrarre  su  questi  manoscritti  ed 
opuscoli  l'attenzione  di  qualche  studioso,  nella  speranza  ch'essi  tro- 
vino un  illustratore  più  degno  di  me. 

• 
•  • 

I  manoscritti  riguardajio  condanne,  persecuzioni,  martiri,  inco- 
minciati nella  dolorosa  primavera  del  1799. 

Quei  tempi  sono  scolpiti  dalla  parola  eloquente  di  Ugo  Foscolo, 
nella  Orazione  ai  Gomizi  di  Lione  :  «  Mentre  le  russe  turme  e  le 
«tedesche,  con  la  ubbriachezza  della  vittoria,  la  ingordigia  della 
«  conquista  e  la  rabbia  della  vendetta,  desolavano  i  nostri  campi, 
«  contaminavano  i  letti,  insanguinavano  le  mense,  il  braccio  dei  cit- 
«  tadini,  piantava  inquisizioni  e  patiboli,  onde  i  padri  e  gli  orfani, 
«  profughi  in  Francia,  limosinando,  di  porta  in  porta,  la  vita,  sen- 
«  tiamo  ancor  più  grande  l'esilio  per  la  compwignia  di  sbanditi,  che 
«  asilo  implorando  di  libertà,  asilo  ottenevano  ai  misfatti;  ed  in  tutta 

(1)  Franoksoo  Apostoli,  Lettere  Sirmienri. 


CONTRIBUTO  ALLA  STORIA  DELLE  ORIGINI  DEL  RISORGIMENTO         331 

«  Italia  gli  amici  ed  i  congiunti,  o  atterriti  o  compri  al  tradimento; 
«  ed  i  fanciulli  e  le  donne  e  gli  infermi  vecchi  lapidati;  e  frementi 
«  di  innocente  ululato  le  carceri;  e  i  pochi,  o  per  viri.ù  o  per  scienza 
«  o  per  sostenute  dignità  insigni  e  sicuri,  confinati  in  barbare  terre; 
«  e  Cristo  capitano  di  ribellioni  e  dappertutto  violamenti,  saccheggi, 
«  incendi,  carneficine  ». 

Fuggirono  o  furono  arrestati  uomini  carichi  di  anni,  celebri, 
pieni  di  meriti:  come  ai  tempi  di  Diocleziano,  descritti  da  Tacito. 
Né  le  carcerazioni  furono  una  misura  di  sicurezza,  ma  un  vero  iniquo 
castigo  per  coloro  che  avevano  obbedito  al  nuovo  ordine  di  cose.  Le 
persecuzioni  fusero  i  cuori,  crearono  invincibilmente  le  leghe  nazio- 
nali. Esuli  e  deportati  fermarono  nei  «  Diari  »  gli  avvenimenti,  i  loro 
affanni,  le  loro  speranze,  le  loro  fedi:  par  quasi  che  presentissero 
che  la  Storia  li  avrebbe  raccolti,  nell'ora  della  redenzione,  nell'Italia 
compiuta.  Una  grande  veridicità  è  in  tutte  le  narrazioni:  sono  cro- 
nache scritte  col  san^e.  Prose  e  versi,  manoscritti  e  stampe  tutte 
penetrate  da  una  idea,  da  una  coscienza  nuova,  meravigliano  per 
l'intuito  ed  i  presentimenti. 

Una  stampa  rara,  dell'anno  9°  repubblicano,  dell'editore  Righetti 
in  Salò,  fa  parte  di  questa  raccolta.  È  la  «  Narrazione  veridica  di 
«  quanto  hanno  sofferto  i  centotrentuno  Patrioti  Cisalpini,  Deportati 
«  prima  a  Sebenico  indi  a  Peterveradino,  con  i  loro  nomi,  cognomi, 
«età,  patria  e  professione».  Sono  quarantaquattro  pagine,  in  sedi- 
cesimo, e  vi  sono  stampati  anche  due  discorsi  che,  nell'occasione 
del  ritomo,  pronunciarono  il  cittadino  Domenico  Bresciani,  ed  il  Co- 
mandante della  Piazza  di  Salò,  Gio.  Battista  Angeli.  Si  attribuisce 
a  G.  F.  Fontana,  uno  dei  cittadini  più  eminenti,  tra  i  molti  di  Salò, 
che  furono  deportati  a  Sebenico  e  a  Peterveradino.  Noi  lo  vedicimo 
ricordato  come  giureconsulto  ed  Accademico  Unanime,  amante  della 
poesia  e  autore  di  sonetti  e  canzoni,  che  si  trovano  in  raccolte  del 
tempo.  Il  Peroni  che,  nella  Biblioteca  bresciana,  lo  dichiarò  autore 
di  dissertazioni  sulla  nautica,  e  sulla  spiritualità  dell'anima  dei  bruti, 
basandosi  su  manoscritti  trovati  presso  gli  eredi,  non  fa  cenno 
della  Narrazione.  Il  Fontana  fu  dei  Seniori  del  7°  Dipartimento  del 
Benaco.  Alla  convocazione  del  Collegio  dei  Dotti,  indetta  dal  Primo 
Console,  col  decreto  del  17  aprile  1802,  fu  chiamato,  in  una  seduta 
del  maggio,  un  Fontana,  bresciano,  laureato  in  legge,  della  Magi- 
stratura Cisalpina,  giudice  al  Tribunale  di  Brescia  nel  1801  ;  ma  l'elet- 
tore Smancini  lo  indicò  come  defunto.  Difatti  il  Fontana  moriva  in 
quell'anno.  Ma  può  darsi  che  l'elettore  dotto,  nominato  a  Lione,  fosse 
un  altro  Fontana. 

La  Narrazione  veridica  ha  forma  di  lettera  ad  un  amico,  «  breve 
ed  ingenua  per  l'angustia  del  tempo  » .  Dice  le  sofferenze  dei  cento- 
trentun  patrioti  del  viaggio  nella  Manzèra,  legati  senza  pietà;  descrive 
le  casematte  «col  suolo  coperto  di  fetida  polvere»,  seminato  di  ossa 
di  morti,  abitato  da  rospi  o  da  scorpioni,  e  d-a  innumerevoli  insetti 
schifosi,  dove  il  Giudice  stesso,  vestito  delle  insegne  austriache,  «va 
a  ribadire,  con  replicati  e  dolorosi  colpi,  le  catene»,  che  dovettero 
sostenere  persino  lo  «  storpio  ed  impotente  cittadino  Rigozzi,  il  para- 
litico cittadino  Noceti,  ed  il  cittadino  Fontana,  attaccato  da  un  prin- 
cipio apopletióo  » .  Questo  accenno  fa  dubitare  che  l'autore  della  Nar- 
razione sia  il  Fontana  stesso;  altri  deportati  di  Salò  potevano  avere 


332  CONTRIBUTO  ALLA  STORIA  DELLE  ORIGINI  DEL  RISORGIMENTO 

la  coltura  e  la  competwiza  per  scrivere  la  breve  storia,  in  forma  di 
epistola. 

Certo  è  però  che  anche  l'Apostoli  attribuisce  al  Fontana,  nella 
sua  prefazione,  io  scritto,  ed  è  autorevole  la  testimonianza  di  uno 
del  tempo.  Queste  narrazioni  anonime  hanno  l'intenzione  di  voler 
essere,  e  sono,  la  voce  sincera  di  uno  qualunque  di  quei  martiri. 

Anche  la  ìiarraziorve  pone  in  risalto  comie»  quanto  più  aumenta- 
vano, di  giorno  in  giorno,  i  malanni  dei  deportati,  tanto  più  si  ac- 
crescesse lo  spirito  e  la  ilarità  in  quegli  uomini  «f  virtuosi  e  costanti  », 
costretti  a  lottare  contro  l'avversa  fortuna,  innalzando  le  speranze 
«  all'invitto  Eroe,  ohe  riguardava  come  suoi  figli  gli  ing-enui  figli 
della  libertà».  E  sentivano  che  sarebbero  tornati  come  quei  soldati 
che  «  dopo  aver  sparso  il  sangue  per  la  causa  della  libertà,  mostrano 
il  petto  sparso  di  onorabili  cicatrici  »  ;  e  che  avrebbero  reso  noto,  al- 
l'Italia od  all'Europa,  quei  barbari  trattamenti.  «  L'Italia  —  esclama 
l'autore  —  a  dispetto  *di  alcuni  snaturati  suoi  figli,  è  libera  e  lo  sarà 
per  sempre»,  e  giura  di  dedicare  la  vita  cilla  rinascente  repubblica, 
i  pochi  giorni  di  vita,  che  non  gli  consentiranno  di  impugnare  l'armi, 
ma  gli  permetteranno  «  di  eccitare  quei  prodi  giovani,  che  formano 
le  più  belle  speranze,  ad  impugnarle».  Era  l'invocazione  alla  mi- 
lizia salvatrice,  perchè  gli  Italiani  «  scuotessero  quel  torpore  che,  per 
lunga  stagione,  li  avea  resi  preda  di  ogni  straniero  invasore». 

Questo  opuscolo  sta  bene  accanto  alla  rara  Storia  della  deporta- 
zione —  da  me  offerta  al  Gomitato  per  la  storia  del  Riaorgimento  — 
e  che  fu,  sino  ad  ora,  attribuita  al  Cremonese  Manini. 

A 

Una  delle  prime  parti  dei  manoscritti  riguarda  la  stessa  istoria 
dei  Deportati  a  Sebenico  e  Petervaradino,  ma  è  assai  più  ampia  e  più 
ricca  di  dettagli  e  di  nomi. 

In  altra  parte,  i  manoscritti  trattano  le  vicende  di^li  arrestati, 
nei  riguardi  della  Polizia  austriaca. 

La  Polizia  Austriaca  a  Milano  ed  a  Cattafo,  cenno  storico,  di 
pagine  78,  che  il  D'Ancona  attribuisce  al  Porcelli,  e  che  si  trova,  in 
una  sola  copia,  nell'Archivio  Storico  civico  di  Milano,  fu,  con  nobile 
intento,  ristampato  ed  illustrato.  Così  si  proseguivano  gli  stessi  in- 
tenti che,  nell'occasione  del  I  Congresso  Nazionale  per  la  Storia  del 
Risorgimento,  fecero  incidere,  a  grandi  caratteri,  i  quarantotto  nomi 
dei  Deportati  del  Dipartimento  dell'Olona.  Anche  in  tale  pubblica- 
zione vi  è  l'infiammata  protesta  contro  le  violazioni  delle  l^gi,  della 
giustizia,  del  Trattato  di  Luneville;  vi  è  l'invocaz-ione  agli  Italiani  di 
non  esser©  i  carnefici  dei  fratelli.  «  I  tiranni  —  si  dice  —  che  si  divi- 
«  sero  un  tempo  le  belle  contrade  d'Italia,  videro  che  solo  le  gare  ci- 
«  vili  di  queste  potevano  loro  assicurare  il  dominio.  Arderà  ancora 
«  tra  noi  la  vampa,  dell'odio  intestino  e  giudice  di  nostre  querele  sarà 
«  ancor  l'Alemanno?  » . 

EJd  è/veramente  commovente  l^gere  come  quelle  proteste  si  ele- 
vino infine  alla  promessa  dell'oblìo  delle  persecuzioni  :  «  Tolleranza 
ed  amicizia:  ecco  la  vendetta».  Non  una  lacrima,  non  un  sospiro  in 
quei  forti  :  nelle  proteste  mai  un  abbassamento  servile.  «  I  nostri 
voti  sono  per  la  dignità  della  patria  » . 


CONTRIBUTO  ALLA  STORM  DELLE  ORIGINI  DEL  RISORGIMENTO         333 

Tra  gli  opuscoli  della  Miscellanea,  è  anche  una  Lettera  sulle 
Commissioni  di  Polizia  erette  dagli  austriaci  in  Lom,bardia  nel  1199, 
stampata  in  Milano  nel  1800,  firmata  colle  iniziali  L.  F.  V.  Non  ho 
presente  se  sia  stata  mai  ricordata  ed  illustrata. 

Ma  anche  qui  è  mirabile  la  concordanza  nei  fatti  e  nelle  accuse  : 
è  una  univocità,  in  tutte  le  pubblicazioni,  veramente  impressionante. 
Dalle  elevate  considerazioni,  d'ordine  generale,  sull'amministrazione 
della  giustizia,  balzano  le  iniquità,  che  un  orientamento  perverso 
doveva  forzatamente  generare.  Il  flagello  politico  della  Commis- 
sione di  Polizia  vi  è  sferzato  aspramente:  le  accuse  penetrano  nel 
vivo.  «  Non  vi  meraviglierete  —  si  dice  —  se  qualche  proscritto  si 
«  è  salvato  col  danaro;  se  si  è  tentata  la  pudicizia  delle  spose,  delle 
<f  sorelle,  lusingandole  che  avrebbero  presto  abbracciati,  salvi  e  li- 
te beri,  i  loro  sposi  e  fratelli,  qualora  si  fossero  arrese  alle  brutali 
«  voglie  di  tai  giudici;  se  libri,  quadri,  galanterie  furono  loro  preda, 
«  sotto  titolo  che  principii  contenessero  o  emblemi  repubblicani;  se 
«  si  rigettavano  con  disprezzo  le  doglianze  delle  oneste  persone,  per 
«  le  contribuzioni  ohe  violentemente  si  esigevano  nelle  valli  bresciane, 
«  dai  bfiganti  ed  assassini  condotti  dall'infame  prete  don  Filippi, 
«  sotto  pretesto  di  avere  bene  meritato  dalla  patria,  per  avere  guidato, 
«  per  quelle  montagne,  i  soldati  austriaci  che  finivano  di  devastarla  ». 

• 

•  • 

Nel  descrivere  il  ritomo  dei  Deportati,  che  furono  inghirlandati 
di  fiori  e  di  lauri,  una  imperfetta  dicitura  della  Storiai  della  Depor- 
tazione, e  più  ancora  le  Lettere  Sirmiensi,  trassero  in  inganno,  fa- 
cendo credere  che,  in  Brescia,  componesse  allora  un'ode  Giuseppe 
Niccolini,  il  poeta  classico  del  mirabile  poemetto  La  coitiv azione 
dei  cedri,  l'autore  della  tragedia  Canace,  premiata  all'Ateneo,  della 
Clorinda  e  del  Coip.te  d'Essex;  insigne  traduttore  e  biografo  di  By- 
ron,  e  che,  nel  Romanticismo,  diffuse,  come  dalla  ca-ttedra,  toltagli 
e  ridatagli  in  un  baleno  di  libertà,  i  nobilissimi  sensi  devoti  alla 
patria.  Alessandro  D'Ancona  persino  scrisse  :  «  Per  averla  e  ripro- 
<f  durla  riuscirono  vane  tutte  le  ricerche,  che  ne  facemmo,  in  Brescia, 
«  sia  nella  biblioteca  che  presso  privati  ».  La  fortuna  mi  ha  consen- 
tito di  poter  dare,  al  Gomitato  per  la  Storia  del  Risorgimento,  una 
copia  della  poesia,  stampata,  in  largo  formato,  dalla  tipografìa  Na- 
zionale, nell'anno  9°  Repubblicano.  Ma  essa  è  scritta  da  un  Marco 
Niccolini,  granatiere  della  Guardia  sedentaria  bresciana,  non  dal  ce- 
lebrato poeta,  che  avrebbe  avuto,  in  quei  giorni,  solo  undici  anni. 
Non  so  se  il  granatiere  Niccolini  sia  quello  che,  con  un  certo  Giu- 
seppe Rampini,  sarebbe  stato  arrestato  ed  incarcerato,  quando  fu 
chiuso,  in  Brescia,  il  Circolo  dei  «Buoni  amici».  La  poesia,  come 
indice  di  sentimenti,  per  quanto  ne  scemi  l'interesse  il  nome  rettifi- 
cato dell'autore,  credo  sia  opportuno  riprodurre. 

Libertà  -  Uguaglianza  -  Il  ritorno  de'  deportati  Cisalpini  — 
Marco  Niccolini,  Granatiere  della  Guardia  sedentaria  Bresciana. 

Madri,  Spose,  Sorelle,  Amanti,  afflitte 
Non  più  pianti,  non  più.  Quel  giorno  alfine, 
Che  tanto  sospiraste  è  giunto  ormai. 


334  CONTRIBUTO  ALLA  STORIA  DELLE  ORIGINI  DEL  RISORGIMENTO 

Ed  al  vostro  dolor  ponete  fine. 

Quest'è  quel  giorno,  quel  felice  giorno, 

In  cui  fanno  ritorno 

A  voi  dolenti  madri, 

I  cari  figli  amatij 

A  voi,  spose,  i  mariti  desiati, 

I  fratelli  a  voi,  suore, 
Ed  a  voi  pur  chi  vi  tributa  amore 
Dopo  sofferto  tanti  e  tanti  guai, 
Martirii,  stenti  e  pene. 
Del  di  sepolti   ai  rai 
Dopo  che  carchi   fur  d'aspre  catene 
Riedono  ancor  ai  vostri  dolci  amplessi. 
La  Patria,  eh©  li  vide  un  dì  strappati 
Colla  più  fredda  angoscia  dal  suo  seno  * 
Da  sgherri  scellerati 
Ch'àn  d'aspidi  il  veleno 
Cui  pietade,  e  dover  6on  cure  ignote 
Oh  come  sul  loro  volto 

II  giubilo  s'è  accolto! 
Oh  come  in  loro  si  conosce  appieno, 
Che  in  tante  angustie  e  tante, 
All'aspetto    tremendo   della    morte 
Fu  sempre  il  cor  costante 
Fu  l'alma  ognor  più  forte! 
Non  saprà  mai  l'umanità  sdegnata 
Sì  cruento  furor  porre  in  oblìo. 
Ma  le  vittime,  sempre  generose. 
Lungi  dalla  vendetta,  dal  livore. 
Daranno  colla  fronte  ognor  serena 
All'ingiusto  oppressore 
Col  sol  disprezzo  la  dovuta  pena. 

Così,  così  calpestasi 
L'drgoglio  d'un  tiranno. 
In  questo  modo  trattansi 
Tutti  color  che  sanno 
Sol  la  viltà  oonoscere 
Amar  la  schiavitù. 

Ma  chi  per  la  sua  patria 
S'espone  a   immensi   mali 
Soffre  con  alma  intrepida 
Anche  di  morte  i  strali. 
Giammai  con  l'abbandono 
L'amor  e  la  virtù. 

Valgono  queste  rime  come  fiori  agresti,  ohe  sbocciano  da  cuori 
entusiasti.  Così  nell'appendice  alla  'Narrazione^  pubblicata  in  Salò, 
con  ugnali  impressioni  si  legge  il  discorso  del  cittadino  Domenico 
Bresciani,  quando,  in  quella  città,  si  resero  gli  onori  dovuti  ai  pati- 


CONTRIBUTO  ALLA  STOEUA  DELLE  ORIGINI  DEL  RISORGIMENTO 


335 


menti,  alla  prigionia  «sofferta  con  ferma  costanza  repubblicana». 
Anch'esso  chiude  dicendo:  «  Ora  che  siete  rimpatriati  e  restituiti  alle 
«  vostre  famiglie,  e  che  vi  abbandonate  ai  sentimenti  della  natura 
«  e  dei  legami  sociali,  la  patria  vi  riguarda  come  pegni  sacri  per 
«  essa.  I  vostri  patimenti  sono  oggi  ricompensati  da  quel  piacere  in- 
«  temo,  che  sentono  le  anime  grandi,  di  ritornare  nella  patria  libera, 
«  quando  si  ha  sofferto  per  essa.  Il  vostro  martirio  sarà  indelebilmente 
«  impresso  ne'  nostri  cuori,  in  quello  dei  discendenti,  e  parmi  sentire 
«  ogni  cittadino,  ohe  incontrerete,  dire  :  «  Eloco  i  martiri  della  nostra 
«libertà». 

E  si  neghi  che  siansi  formati,  in  quel  tempo,  presentimenti  e 
fedi,  tra  le  grida  di  evviva  alla  Repubblica  madre  e  figlia.  Le  fedi 
si  colorivano  nel  bianco,  nel  rosso  e  nel  verde  dei  carmi,  stampati 
in  Verona,  e  lanciati  nel  teatro,  dove  l'Arrivabene,  al  ritorno,  reci- 
tava La  tomba  di  Sebemco. 

• 
•  • 

Secondo  il  Melzi,  sarebbero  stati  ottocento  i  deportati:  secondo 
il  D'Ancona,  invece,  566,  divisi  in  cinque  spedizioni.  Quando,  a 
Vienna,  si  deliberò  la  retata,  erano  tre  o  quattrocento  persone  che 
voleansi  prendere,  per  deprimere  gli  animi,  che  invece  cantavano: 

Andiam   compagni 
Alla  riviera 
Che  la  Galera 
Ci  aspetta  là. 

Certo  però  furono  ben  più  di  quattrocento,  e  divennero  altret- 
tante fiamme,  che  arsero  per  l'avvenire  :  uscirono  uomini  cLffinati  dal 
dolore,  dei  quali  rivedremo  molti  nel  Corpo  legislativo,  dopo  i  Co- 
mizi di  Lione.  Dall'elenco  uflBciale,  pubblicato  nel  Relatore  Cisalpino, 
parrebbe  di  poter  dedurre  il  vero  numero  dei  deportati  :  ma  non 
credo  tuttora,  ad  onta  delle  fatiche  e  delle  ricerche  di  molti,  esatti 
gli  elenchi.  Al  D'Ancona  mancarono  i  deportati  dell'Adda;  e,  met- 
tendo insieme  gli  elenchi  della  Narrazione  veridica,  della  Storia 
della  deportazione  coi  nuovi  manoscritti,  mi  pare  che  non  risultino 
differenze  notevoli. 

Potrei  notare  tuttavia  alcune  varianti  :  esse  esistono  specialmente 
in  confronto  dell'elenco  della  Narrazione  veridica.  Il  Manini,  invece, 
a  mio  avviso,  si  è  servito  degli  elenchi  dei  miei  manoscritti,  apparen- 
domi più  un  compilatore  che  non  un  autore.  E,  più  innanzi,  lo 
proverò. 


*  • 

Non  voglio  trascurare,  in  queste  note,  di  rilevare  come  nella  Mi- 
scellanea, vi  siano  due  pubblicazioni,  prima  d'ora  ignorate,  di  uno 
dei  deportati.  L'una  è  :  Liberi  sentimenti  del  cittadino  Domenico  Tan- 
foglio  contro  i  due  anonimi  opuscoli  intitolati  il  primo  al  Gran  Consi- 
glio, «  Gli  antichi  originari  di  Val  Camonica  »,  e  «  Risposta  degli  an- 
tichi exoriginari  »,  ecc..  Brescia,  stamperia  nazionale,  anno  VI  re- 


336  CONTRIBUTO  ALLA  STORLV  DELLE  ORIGINI  DEL  RISORGIMENTO 

pubblicano  {i798);  e  «  Lettera  di  un  democratico  al  Ministero  degli 
Affari  Interni  della  Repubblica  Cisalpina,  nel  rapporto  dei  beni  pre- 
tesi dagli  ex  antichi  originari  ».  Brescia,  anno  VI  rejmbblicano,  dalla 
stamperia  nazionale. 

L'importante  tema  vi  ha  adegxiata  trattazione. 

Ma  più  degna  di  rilievo  è  l'altra  analoga  pubblicazione:  Sui 
beni  delle  Comunità,  pretesi  dai  così  detti  antichi  originari  delle 
medesime,  di  loro  proprietà  esclusiva,  perchè  è  datata  dal  Castello 
di  S.  Nicolò  a  Mare  di  Sebenico,  nella  Dalmazia,  li  15  settembre  1800. 
Il  deportato  Tanfoglio  incominciò  il  lavoro  scrivendo  cosi  :  «  Per  non 
«  saper  fare,  nella  barbara,  situazione  della  mia  prigionìa,  più  bel- 
«  l'inganno  del  tempo,  ed  a  disprezzo  più  onorato  dell'orrore  e  del 
«  peso  dei  ceppi  e  delle  catene,  procuratemi  dall'opera  infame  de' 
«  scellerati  persecutori  della  Repubblica,  fatti  più  perfidi  e  misera- 
«  mente  illusi  dalla  da  essi  sospirata  invasione  dell'armi  nemiche  nel 
«  di  lei  territorio,  mi  sono  occupato  a  scrivere  sopra  alcuni  soggetti, 
«  che  mi  sono  sembrati  in  qualche  modo  profìcui  ». 

In  questa  manifestazione  d'animo,  nel  vivo  desiderio  di  giustizia, 
pel  pubblico  e  privato  bene,  appare  il  valore  dell'uomo,  che  non 
merita  oblio.  Quei  deportati  formarono  una  vera  Accademia  di  dotti. 
Coi  canti,  colle  assemblee,  coi  liberi  voti,  dimostrarono  che  le  catene 
del  carcere  non  avvincono  gli  intelletti  ed  i  cuori.  Ma  è  specialmente 
notevole  tal  scritto  scientifico  e  polemico,  lanciato  dal  carcere,  come 
a  sfida  dei  persecutoori. 

A 

Molti  dei  deportati  non  ebbero,  in  vita,  conforto  di  risarcimenti 
adeguati.  La  Lettera  analitica  sopra  la  legge  delT Amnistia  18  Fiorile 
anno  IX  Rep.  lo  comprova.  Anche  questa  si  trova  tra  gli  opuscoli, 
da  mie  offerti.  Il  cittadino  Luigi  Piccoli  ai  cittadino  Pighetti  di  Salò, 
da  Brescia,  nel  I  Messidoro,  anno  9°  Repubblicano,  scriveva:  «  Fi- 
«niamola  una  buona  volta  sopra  li  vostri  timori.  Non  è  possibile  che 
«  il  nostro  Governo  Cisalpino  impedir  voglia  il  corso  delle  azioni 
«civili  di  risarcimento  di  danni,  nelle  vie  ordinarie,  dinnanzi  ai 
«  Tribunali  della  Comoilativa  e  Distributiva  Giustizia.  E'  patrocinava 
«  tutti  li  poveri  danneggiati  per  prigionìa,  per  deportazione  o  per  ne- 
«  cessaria  fuga.  Qui  causam  dammi  dai  dammum  dedisse  videtur,  qui 
«  rei  illicite  operàm  de  danimo  tene  tur  ».  . 

Questa  stampa  è  preceduta  da  due  pegine  manoscritte  che  mi  pare 
interessante  riportare,  perchè  completano  le  notizie  su  uno  dei  de- 
portati :  «  Luigi  Piccoli,  Veronese,  Cittadino  Cisalpino,  decretato  colla 
«  legge  17  Piovoso  an.  VI  Rep.  Avvocato  ed  abitante  in  questo  Co- 
«  nume  di  Brescia,  —  Puro  Repubblicano,  che  diede  tante  prove  del 
«  suo  vero  patriottismo  per  avere  bene  servito  la  patria,  come  membro 
«  del  Consiglio  di  pubblica  Vigilanza,  in  Verona,  come  inviato  più 
«  volte  a  Bonaparte,  allora  Generale  in  Capo,  come  incaricato  a  rap- 
«  presentare  il  popolo  veronese,  per  l'unione  alla  Repubblica  Cisal- 
«  pina,  nel  giorno  della  confederazione,  ove  ebbe  il  posto  di  deputato 
«  di  detta  popolazione,  e  al  pranzo  nazionale,  ed  ebbe  il  merito  di 
«  presentare  a  Bonaparte,  e  al  cessato  Direttorio,  di  Milano,  cinquanta 
«  e  più  mila  sottoscrizioni  del  popolo  di  Verona,  per  la  sin  d'allora 


CONTRIBUTO  ALLA  STORIA  DELLE  ORIGINI  DEL  RISORGIMENTO         337 

«  sospirata  unione.  Dopo  tanti  servizi  prestati,  per  sentimento,  alla 
«  causa  della  libertà,  in  conseguenza  ha  dovuto  soffrire,  unitamente 
«  a  molti  altri,  tutti  i  mali,  che  ha  saputo  inventare  lo  sfo^o  del  par- 
te tito  nemico,  di  prigionìa,  di  catene,  deportazione  a  Sebenico,  e  nella 
«  bassa  Ungheria.  Ha  proposto  la  sua  domanda  di  risarcimento  verso 
«  i  membri  della  fu  Polizia  Austriaca,  di  Brescia,  ove  fu  arrestato  ed 
«  è  ben  giusto  che  tutti  i  patrioti  danneg-^ti,  e  massime  questo  puro 
«  Repubblicano,  debba  essere  compensato  delli  sacrifìci  da  esso  sof- 
«  ferti,  mentre  le  vie  della  giustizia  distributiva  ponno  essere  fissate. 
«  Portatosi  a  Milano,  il  disgraziato  Piccoli,  con  molti  esemplari  della 
«  lettera  Analitica,  e  presentatosi  al  Ministro  di  Giustizia  e  Polizia, 
«  tenente  Smancini,  dal  medesimo  chiamato,  fu  presa  la  di  lui  depo- 
«  sizione  in  forma;  di  poi,  intimatogli  l'arresto  nel  proprio  alloggio, 
a  levandogli  tutti  gli  esemplari  della  suddetta  che  teneva  presso  di  sé, 
«  ordinava  al  Dicastero  di  Polizia  di  Brescia,  che  doveva  raccogliere 
«  il  resto  degli  esemplari,  tanto  presso  allo  stampatore  che  presso  a 
«  particolari.  Dal  Governo  di  Milano  ottenne  dopo  pochi  giorni  la 
«  sua  libertà.  Si  crede  che  la  causa  del  suo  arresto  fosse  ad  istanza 
«<del  Gen.  Moncey,  inimico  capitale  di  patrioti.  Nel  1803  partì  da 
«Brescia,  e,  rimpatriatosi  a  Verona,  esercitò  colà  rAv\'Ocatura». 
Non  sarebbe  giusta  l'accusa  a  Moncey.  Il  Manini  gli  attribuisce, 
anzi  —  esagerando  forse  —  un  interessamento  efficace  per  la  libera- 
zione dei  deportati  a  Gattaro:  disse  di  avergli  parlato  a  Cremona  e 
di  avere  avuto  da  lui,  qualche  tempo  dopo,  l'avviso  delle  disposizioni 
date  da  Bellegarde.  Il  Piccoli  fu  poi  professore  a  Pavia,  di  proce- 
dura civile  dal  1808  ài  1814  e,  nel  '14  e  '15,  poi,  di  principi  filosofici 
e  di  procedura  civile  e  giudiziaria.  Ricordo  che  anche  l'Apostoli, 
come  il  Piccoli,  si  lamentava  e  imprecava;  ma  quali  tempi  sono  im- 
muni da  simili  querele? 

• 

•  • 

Non  è  detto  però  ohe  il  principio,  sostenuto  nel  Memoriale  del 
Cittadino  Piccoli,  riguardante  il  risarcimento  dei  danni,  contro  i 
componenti  la  Commissione  di  Polizia  Austriaca,  derivati  da  arbi- 
trari arresti,  abbia  avuto  completo  insuccesso.  Non  è  privo  l'interesse 
giuridico  di  siffatta  azione.  Una  sentenza,  tra  l'altro,  del  Tribunale 
Supremo  di  Giustizia  di  Milano,  del  14  febbraio  1800,  annulla  altra 
sentenza  in  confronto  del  Conte  Alessandro  Ottolini,  del  Conte  Fran- 
cesco Walstellinovich,  Nicola  Chiappati,  e  condanna  solidariamente 
«il  Conte  Pietro  Pesenti,  il  Conte  Marco  Alessandri,  il  Cernie  Pietro 
«  Caleppio,  il  Marchese  Alessandro  Solza,  Giuseppe  Antonio  Vacis, 
«  noto  giudice  del  malefìzio,  ed  anche  gli  individui  componenti  la 
«suddetta  Commissione  Criminale,  presso  il  Tribunale  d'appello  di 
«Milano  di  quel  tempo».  È  una  tesi,  sulla  respKjnsabilità  dei  giudici 
di  speciali  giurisdizioni,  che  merita,  anche  oggidì,  attenzione. 

Ricompariscono,  in  tale  sentenza,  i  titoli  nobiliari:  non  era  già 
più  il  tempo  nel  quale  si  condannava  il  Cittadino  Pompeo  Litta  «  per 
«  aver  disonorato  il  nome  del  proprio  padre,  Antonio,  indicandolo 
«col  titolo  di  Marchese,  nella  partecipazione  di  morte!  ». 

È  da  ricordare  ancora,  sullo  stesso  argomento  degli  indennizzi, 
un  Memoriale  di  Cemuschi,  medico,  presentato  al  Ministro  di  Giù- 


338         CONTRIBUTO  ALLA  STOMA  DELLE  ORIGINI  DEL  RISORGIMENTO 

stizia  e  Polizia  Generale,  perchè  invitasse  il  Pretore  d'Iseo  a  ricevere 
la  sua  domanda  di  risarcimento  dei  danni,  in  confronto  Bordiga, 
che  fu  causa  del  suo  arresto.  Alla  domanda  vi  è  questo 

DECRETO  ALLEGATO 

N.  11424  —  30  Pratile  9" 

«  Rimesso  al  Commissario  del  Governo,  presso  i  Tribunali  e  Giu- 
«dici  del  Dipartimento  del  Mella,  perchè  ecciti  il  Pretore  di  Iseo  a 
«  somministrare  pronta  giustizia  al  Petizionario,  non  ostante  qualsiasi 
«  eccezione  riferibile  alla  legge  di  amnistia,  che  non  può  mai  impe- 
«  dire  l'esercizio  di  diritti  del  terzo. 

Smancini  —  Custodi^  Segr.  Centrale  ». 

Qui  pure,  adunque,  la  massima,  il  diritto,  sono  chiaramente  af- 
fermati. Fare  il  contrario  sarebbe  stato  un  contraddire  anche  al  sen- 
timento popolare;  vi  è  una  Petizione  nel  Corriere  Milanese  del  2 
aprile  1801,  che  vuole  celebrata  e  premiata  la  virtù  e  fermezza  dei 
deportati,  ««  giacché,  fedeli  e  coerenti  ai  loro  principii,  fermi  nei  loro 
«  giuramenti,  sapendosi  già  troppo  compromessi  al  vincitore,  da  lui 
«  non  vollero  né  clemenza  né  perdono  e  si  abbandonarono  alla  sorte, 
«  e  preferirono  il  distacco  dalla  famiglia,  dalle  spose,  dagli  amici, 
«  dai  propri  interessi  e  dalla  patria  istessa,  alla  debolezza  di  rima- 
«  nere  schiavi  del  dispotismo  e  si  resero  così  utili,  in  qualche  modo, 
«  alla  causa  della  libertà,  nell'esporre  le  proprie  vite  a  tutti  i  perigli  ». 

* 
•  • 

In  una  lettera,  che  fu  pubblicata,  di  Francesco  Apostoli  a  Ferdi- 
nando Arrivabene,  del  12  Vend.  dell'anno  IX  Rèp.,  con  la  quale  gli 
mandava  cinquanta  copie  delle  Lettere  Sirmiensi,  si  accenna  agli 
stamipati  dell'ex  legislatore  Porcelli,  dell'ex  legislatore  Fontana,  del- 
l'amministratore Manini  e  del  poema  «  burlesco  comico  della  De- 
portazione, stampato  dail  Vismara»,  ed  alla  «letteraria  minaccia  del 
sempre  gravido  Reina,  di  un  tomo  o  dnie,  in  foglio,  del  nostro  sog- 
getto, che  promette  e  non  partorisce  mai  ».  Ben  diverse  sono  le  pa- 
role della  prefazione  stampata,  così  deferenti,  e  meritamente,  pel 
Reina.  Sono  questi  indici  rivelatori  di  uno  spirito,  che  non  mi  piace. 
Comprendo  come  l'arte  vivace  dell'Apostoli  abbia  potuto  piacere  a 
Cesarotti  ed  a  Stendhal:  ammiro  la  sua  forma  descrittiva,  quando 
ci  ripresenta  le  coppie  dei  deportati,  legati  come  malfattori,  «  tra  le 
quali  emergevano  Fenaroli,  Moscati  e  Coddè,  venerandi  per  età  o 
per  dignitoso  aspetto  »;  e  li  ritrae  sulla  manzèra,  tra  il  fetore  di  ca- 
davere, o  nelle  casematte  tra  le  miserie  dei  corpi  infestati  dai  paras- 
siti, tra  rospi,  sorci,  scorpioni,  qualche  vipera  di  giorno  e  pipistrelli 
e  gufi  di  notte,  tra  ombre  strane  e  mostruose,  tra  mucchi  d'ossa  in- 
sepolte. Ma  quando  vedo,  vicino  alla  tragedia,  la  frase  spiritosa,  o 
l'accenno  «  a  qualche  altro  pezzo  di  tela  opportuno  al  bel  sesso  »,  non 
ammiro  quell'anima  e  capisco  come,  alla  fin  fine,  si  esprima  dicendo 
che  «  costano  care  le  lezioni  delle  avversità  e  delle  disgrazie  »  ed  il 
profitto,  che  se  ne  ricava,  «  non  vale  la  i>ena  di  ciò  che  vi  è  costato  ». 


CONTRIBUTO  ALLA  STORIA  DELLE  ORIGINI  DEL  RISORGIMENTO 


339 


Mi  pare  uno  di  coloro  che,  sorpresi  dalla  rivoluzione,  vi  si  imbar- 
carono fatuamente. 

Traile  righe  talvolta  dure  e  scorrette  dei  manoscritti,  scorgo  in- 
vece un  ben  diverso  spirito,  che  intus  alit. 

I  compagni  dell'Apostoli  ebbero  indubbiamente  un  valore  mo- 
rale assai  superiore  a  lui.  Ho  letto  con  maggiore  emozione  il  Diario 
che  Zaccaria  Carpi,  con  la  pesante  lupa  di  sessanta  libbre,  che  lo  le- 
gava coi  ventisette  anelli  ribaditi  sulle  carni,  scriveva  sulla  paglia, 
tra  runa  e  l'altra  di  quelle  sedute  generali  che  i  prigionieri  tene- 
vano nella  grotta,  come  fossero  nell'assemblea  di  una  grande  repub- 
blica. «  Risplende  in  ogni  dove  la  virtù,  per  illuminare  la  oscurità 
di  queste  cave».  E  Sebenico,  di  quella  Dalmazia  Italica,  tutto  si 
riempì  di  luci  per  onorarli,  il  13  settembre,  alla  notizia  della  libe- 
razione. 

Molti  superstiti,  dei  patimenti  vollero  fermare  nello  scritto  la 
memoria:  le  narrazioni  si  concatenano  e  si  assomigliano.  Già  feci 
cenno  della  Narrazione,  attribuita  al  Fontana,  e  del  cenno  storico 
sulla  Polizia  austriaca,  con  il  quale  l'autore  —  pare  il  Porcelli  —  pre- 
sentava «  la  espressione  della  Iliade  sofferta  » .  Nella  Ristretta  descri- 
zione, attribuita  pure  al  Porcelli,  è  sempre  una  nota  sola  che  vibra 
di  passione,  di  dolore  e  di  speranza:  scrive  forse  quella  mano  alla 
quale  si  era  strappata  la  pelle,  sotto  le  manette,  che  si  dovettero  spez- 
zare, battendo  sul  polso  rigonfio,  in  mancanza  delle  chiavi  perdute. 
Ivi  l'anima  ha  il  «  maschio  coraggio  esclusivo  ai  virtuosi  repubbli- 
cani ». 

Al  poemetto  sulla  Deportazione  attribuito  al  Vismara,  il  tradut- 
tore di  Properzio,  membro  del  Gran  Consiglio  della  Cisalpina,  Se- 
gretario generale  del  Ministero  dell'Interno  nel  Regno  Italico,  ha 
dato  nuovo  onore,  riproducendolo,  in  parte,  recentemente,  nella  illu- 
strazione dei  documenti  dal  Faentino  Truvé,  Luigi  Rava,  che  dedicò 
a  questi  studi  il  suo  inesauribile  amore  per  le  cose  patrie.  Anche  il 
Rava,  come  molti  altri,  tra  poesie,  prose  e  commenti  che  abbiamo, 
si  sofferma  specialmente  sulla  Storia  della  deportazione,  sembran- 
dogli il  documento  più  completo  questo  che  da  tutti  è  attribuito  al 
Manini. 

• 
•  • 


Non  voglio  togliere  lauri  alla  memoria  di  questo  Amministra- 
tore dell'alto  Po,  e  credo  preziosissime  le  88  pagine,  in-16°,  dai  larghi 
caratteri,  uscite  dalla  tipografìa  di  lui,  nell'anno  IX  Rep.  col  «  Dise- 
gno delle  Casematte,  nel  Castello  di  Sebenico,  ove  sono  stati  dete- 
nuti li  patrioti  Cisalpini,  formato  fedelmente  sulli  disegni  da'  me- 
desimi somministrati  ».  Egli  appartenne  ad  una  delle  più  benemerite 
famiglie  della  borghesia  Cremonese;  la  sua  stamperia  diffuse  col- 
tura letteraria  e  scientifica:  giustamente  i  suoi  concittadini  segna- 
rono, tra  le  epoche  più  fortunate,  il  giorno  del  ritomo  di  lui,  «  vir- 
tuoso cittadino  e  patriota  benemerito».  Nella  Gazzetta  politica  lette- 
raria e  nel  foglio  politico  letterario  :  Lo  spirito  delle  Gazzette  d' oltre- 
monti e  d'Italia,  nella  traduzione,  nella  prefazione  all'opera  di  B. 
Franklin;  nelle  note  politiche  e  statistiche  alla  memoria  di  H.  Lloyd; 
nel  Rapporto  sul  passaggio  da  Cremona  di  Napoleone  il  Grande;  nella 


340         CONTRIBUTO  ALLA  STORU  DELLE  ORIGINI  DEL  RISORGIMENTO 

Epistóia  allo  strilo  di  Bettinelli;  nelle  Memorie  storiche  della  sua 
città,  egli  trasfuse  il  suo  colto  intelletto  e  le  idealità  del  suo  animo. 
Ma  il  Manini  mi  pare  essere  stato  sopratutto  un  raccoglitore  e 
compilatore  delle  note  fornitegli  dai  compagni.  Difatti,  guardando 
ai  manoscritti,  che  ora  sono  al  Gomitato  per  la  Storia  del  Risorgi- 
mento (per  quanto  tutte  le  pubblicazioni,  di  quel  tempo,  sull'argo- 
mento, abbiano  somiglianze  che  impressionano),  par  quasi  di  scor- 
gervi la  miateria  greggia,  dalla  quale  egli  deve  aver  preso  i  vari  fatti, 
che  fece  poi  assurgere  a  forma  di  storia:  «ci  siamo  proposti  di  limi- 
tarci alla  pura  storia,  della  deportazione  »,  egli  dice.  In  modo  spe- 
ciale mi  convince,  in  questa  idea,  l'Appendice  con  alcune  Nozioni  sul- 
rUngheria  che  trovo  più  diffusa,  con  copia  di  documenti  latini,  tra 
le  mie  carte,  e  che  si  chiude  testualmente  con  le  stesse  parole  della 
edizione  Manini:  n^gni  famiglia  di  campagna  è  in  grado,  siccome 
dice  Enrico  IV,  di  poter  rnangiare  ogni  giorno  il  sito  pollo  ». 

• 

•  • 

Non  voglio  diffondermi  nello  studio  critico  dei  manoscritti.  Mi 
basta  fare  qui  alcuni  richiami,  perchè  poi  studiosi  migliori  di  me, 
e  più  approfonditi  in  questa  speciale  materia,  siano  attratti  ad  esa- 
minarli. Certo  il  riassunto  del  Manini  non  manca  degli  elementi  es- 
senziali; il  livore  e  la  rabbia  che  fecero  deportare  dei  semplici  arre- 
stati, dei  rei  di  supposto  delitto;  le  sofferenze  dei  tribolati  tragitti, 
dai  quali  i  meno  validi  uscivano  come  spettri;  la  fermezza,  la  carità, 
la  forza  d'animo  dei  prigionieri,  che  danzavano  con  le  catene,  mo- 
strando ai  carcerieri  attoniti  i  ceppi  coperti  di  sangxie,  di  ciò  solo  de- 
siderosi che  la  posterità  li  chiamasse  martiri;  le  consolazioni  della  li- 
berazione sospirata  ed  il  ritomo  trionfale  hanno  conveniente  rilievo. 

Però  vi  sono  dettagli  ohe,  in  determinati  momenti,  sembrano  in- 
significanti :  dopo  più  di  un  secolo,  invece,  si  rivedono  con  interesse 
e  si  sottolineano,  perchè  vi  si  trovano  dei  fili,  che  ricongiungono  a 
fatti  che  divengono,  dagli  stessi  dettagli,  meglio  spiegati  e  chiamiti, 
A  ciò  credo  possono  valere  i  manoscritti  che  offersi,  specialmente 
abbondanti  di  elementi  descrittivi. 

Essi,  nella  prima  parte,  si  chiudono  con  l'augurio  che  dagli  av- 
venimenti «  conoscano  i  nemici  quanto  erano  infami  le  loro  macchi- 
nazioni infernali  e  quanto  ingiustamente  ci  hanno  perseguitato.  Il 
trionfo  della  verità  e  della  giustizia  si  è  fatto  vedere  :  a  noi  tocca  ri- 
trarne godimento  e  profìtto  ed  a  scellerati  tocca  in  retaggio  l'inquie- 
tudine dei  rimorsi  e  l'odio  generale  della  società  ». 

Politicamente  più  abile  e  più  elevato,  il  Manini  stampa,  invece, 
a  chiusa:  «Martiri  della  libertà!  la  vostra  vendetta  sia  il  colmare 
di  beneficenza  coloro,  che  furono  le  cagioni  di  tanti  vostri  mali.  Voi 
li  avvilirete  mostrando  tanta  virtù;  e  il  vostro  trionfo  allora  sarà  com- 
piuto ».  Anche  in  questi  apparenti  contrasti  è  la  psicologia  e  la  fiso- 
nomia  di  un'epoca. 

•  • 

Quella  chiusa  riguarda  gli  otto  fascicoli  inediti,  completi,  del 
Giornale  della  deportazione  dei  Mantovani  (a  Sebenico  e  Petervera- 
dino)  dai  quali  ho  tratto  qualche  cenno. 


CONTRIBUTO  ALLA  STORIA  DELLE  ORIGINI  DEL  RISORGIMENTO  341 

Ma  vi  sono  ancora  altri  manoscritti,  che,  più  che  un  Giornale  o 
Diario,  tendono  a  darci  qiiella  forma  di  storia,  alla  quale  mirò  il  Ma- 
nini,  fondendo  gli  avvenimenti  delle  deportazioni  lombarde.  Il  mag- 
gior volume  sta  nella  raccolta  delle  Vicende  degli  arrestati  politici 
in  Milano  dopo  V invasione  del  territorio  Cisalpino,  eseguita  in  marzo 
ed  aprile  1199  dagli  Austro-Russi  e  relegati  in  Cattaro  in  Albania. 
(Il  marzo  e  l'aprile,  poi,  appare  corretto  in  germinale  ed  in  fiorile, 
dell'anno  'V^II  Rep.). 

Nella  prima  pagina  vi  è  l'elenco  dei  deportati,  che  vuol  quasi 
sembrare  una  lapide,  scolpita  a  memoria  ed  onore.  Segue  una  prefa- 
zione, della  quale  riprodurrò  qualche  breve  brano,  e  che  incomincia 
col  moto  virgiliano:  Labor  omnia  vincit.  ImprobUrS  et  duris  urgens  in 
rebus  egestas. 

Lo  scrittore  incomincia  con  una  geremiade  di  lamenti,  per  la 
infelice  condizione  di  inopia  alla  quale  lo  condussero  gli  eventi.  Ma 
il  mio  coraggio  —  dice  —  la  serenità  del  mio  cuore,  la  purità  di  mia 
coscienza  «  scevra  dalle  punture  del  rimorso  di  azioni  indegne,  dalle 
quali  non  fu  mai  macchiata;  l'inalterabile  proposito  di  mia  impresa 
—  Impavidum.  ferient  ruinae  —  non  mi  abbandonarono  neppure  nei 
momenti  che  gli  assalti  di  morte,  parvero  insultare  con  furia,  ed 
indi  con  un  lento  cronismo,  il  bersagliato  avanzo  di  fìsica  mia  esi- 
stenza. Se  perdevo  il  soccorso  del  forte  animo  mio,  sempre  in  lotta 
trionfante  e  gloriosa  colla  viltà  ed  umiliazione,  sempre  sdegnoso 
delle  bassezze  e  dei  volgari  incensieri,  allor  sì  che  tutto  era  perduto; 
una  lacrima  sola  che,  involontaria,  dalle  mie  pupille  fosse  sfuggita, 
addio  costanza,  addio  tranquillità;  il  momento  desiderato  degli  im- 
placabili miei  nemici  era  giunto,  e  bastava  affacciarsi  per  arrivare 
rapidamente  alla  perfetta  sua  consumazione.  No,  non  fia  vero.  Im- 
pavidum ferient  ruinae,  dovevo  sopravvivere  alla  più  nera  e  inso- 
lente intrapresa,  che  deve  eternare  il  nome  di  tante  vittime  del  di- 
spotismo. 

«  Grandi  opere  dell'umano  intelletto,  grandi  azioni,  che  lasciano 
di  sé  permanenti  vestigi,  grandi  scelleraggini,  opposte  alla  dignità 
dell'uman  genere;  grandi  persecuzioni  all'innocenza  oppressa  e  cal- 
pestata, consacrano,  alle  future  età,  i  nomi  sì  degli  empi  e  malfat- 
tori, come  degli  Eroi  e  benefacenti.  Mi  diranno  o  potranno  dirmi 
taluni  ch'io  corsi  dietro  la  gloria  vana,  di  voler  essere  nulla  per  me, 
tutto  per  gli  altri  :  che  fui  avido  della  stima  ed  amore  dei  coetanei; 
sollecito  di  tener  celati  i  modi  impiegati  per  procurarmeli;  dimen- 
tico dei  benefici  fatti  a'  miei  simili,  per  non  esigere  ricompensa; 
memore  sempre  dei  ricevuti,  per  esseme  grato.  Ma  ninno  mi  dica 
che  sia  stato  schiavo  del  fasto  e  della  pompa  navigante  di  vana  glo- 
ria; pescatore  di  lodi  ed  adulazioni,  che  non  ho  mai  subito,  che 
ho  detestato  e  sfuggito,  che  neppure  ad  altri  ho  mai  saputo  tribu- 
tare. Sono  entrato  nella  grande  schiera  degli  illustri  innocenti,  per- 
seguitati ed  oppressi,  sonovi  entrato  mio  malgrado;  sonovi  entrato, 
allor  quando  mi  lusingavo  di  essere  il  più  ignoto  tra  tutti  i  miei 
contemporanei  ». 

In  tutto  questo  ritmo  di  eloquenza,  comunque  la  si  giudichi,  vi 
è  un'anima,  che,  pur  tra  le  contraddizioni,  si  eleva  :  «  A  me  più  non 
«  penso  —  dice  poi  —  parmi  di  ragionare  della  sorte  d'altri,  scono- 
«  scinti  ed  ignoti,  impiegando  tutto  me  stesso  per  impegnare  altri  a 


1 


342  CONTRIBUTO  ALLA  STORIA  DELLE  ORIGINI  DEL  RISORGIMENTO 

«stimare  le  vittime  illustri  del  dispotismo  vigliacco».  E  chiude  coi 
versi  della  favola  2,  voi.  Ili,  libro  di  Fedro: 

...  Memini  qui  me  sazo  petierit^ 

Qui  panem  dederit:    vos  timere  absistite; 

Illifl  revertor  hostis,  qui  me  loeserunt. 

* 

•  • 

Dal  Congresso  di  Rastatt,  da  Campoformio,  che  i  più  di  questi 
nostri  Cisalpini  approvano,  perchè  diede  vita  alla  loro  Repubblica 
e  alla  pace,  il  manoscritto,  corretto  e  pieno  d'aggiunte,  con  calligra- 
fie forse  identificabili,  narra  fatti  e  filosofeggia,  critica  e  protesta. 

Gli  episodi  del  ga  ira,  le  proteste  per  gli  illegadi  arresti  di  Porro, 
Somenzari,  Apostoli  e  Moscati,  non  mancano;  e  le  82  pagine  si  inter- 
rompono con  questi  versi  : 

Invece  d'aquila 
Con  i  due  becchi 
Si  vegga  un  asino 
Con  quattro  orecchi. 

A 

L'altro  fascicolo,  non  ricopiato,  che  pure  tratta  gli  identici  eventi, 
e  che  al  primo  si  collega,  anche  per  lo  stesso  motto  oraziano  :  Inipavi- 
dum  ferient  'ruinae,  ha  l'impeto  nervoso  di  tramandare  ai  nepoti  l'en- 
tusiasmo per  la  patria  ed  il  desiderio  di  vendicarla  nei  «  ribaldi  che 
«  l'insultarono  e  nei  loro  discendenti,  affinchè  degli  empi  o  si  disperda 
«  la  razza  o  sia  allontanata  siffattamente  che  la  superficie  dei  terri- 
«  tori  repubblicani  non  abbia  a  risentire  neppure  lontano  gli  effluvi  ». 

È  questa  passione,  che  diventò  odio  settario  :  il  gemito  si  era 
fatto  fremito.  Così  erano  quei  momenti  :  enormezze  dovunque.  «  Si 
potrebbe  raccontare  —  dice  ad  un  certo  punto  lo  scrittore  —  con  sali 
plautini  come  la  Commissione  di  Polizia,  d'ordine  del  conte  Coca- 
stelli,  facesse  passeggiare,  a  Milano,  nei  giardini  pubblici,  il  carne- 
fice, in  abito  verde,  colle  mostre  rosse,  tagliato,  come  dicevasi,  alla 
patriottica,  «  in  forma  Carré  »,  e  come  quest'insulto  venisse  comune- 
mente rintuzzato  da  chi,  incontrandosi  nello  sciocco  esecutore,  lo  sa- 
lutava dicendogli  :  «  Addio,  marchese;  conte,  buon  giorno;  signor  Pa- 
dre Vicario,  signor  canonico,  signor  curato;  così  mi  piace  che  lei  as- 
suma i  connotati  che  la  distinguono  tra  gli  amici  del  nuovo  governo  ». 

Io  do  qualche  spunto  alla  curiosità  :  non  mi  diffondo,  perchè  vo- 
glio invogliare  qualche  studioso  valente  al  comanento  di  questo  pre- 
zioso materiale.  Non  voglio  illudermi  che  vi  troverà  grandi  novità  : 
certo  però  delle  varianti  significative.  Poche  varianti,  alcuni  tagli 
soltanto,  come  dissi,  vi  sono  delle  Nozioni  suW Ungheria,  che  il  Ma- 
nini  pubblicò,  quasi  testualmente,  togliendole  dalle  Riflessioni  sul- 
VJJngheria,  cavate  da  libri  che  vendonsi  in  quel  regnùo;  furono  tra- 
dotte dal  latino  e  dal  tedesco  da  un  deportato,  durante  la  sua  depor- 
tazione a  Peterveradi(no. 

Così  è  detto  nel  mio  manoscritto,  che  s'inizia  con  la  data  del  3 
gennaio:  Animadversiones  in  jus  publicum  Ungariae  a  Francisco 
Rudolf  Grossius  editum,  1786.  Diritti  deW Austria  su  VVngheria.  Leggi 


CONTRIBUTO  ALLA  STORU  DELLE  ORIGINI  DEL  RISORGIMENTO  343 

per  la  successione.  Scrittori  sulle  cose  delVUngheria,  Palatinato,  Pan- 
nonia  Superiore.  Poi,  con  la  data  del  16  febbraio  1801,  con  le  pa- 
role «  l'Ungheria  confina  a  Nord-Est  con  le  montagne  della  Carpa- 
zia  »,  identiche  a  quelle  del  Manini,  va  fino  alla  pure  identica  chiusa, 
che  ho  riportato.  Tutto  ciò,  oltre  sottolineare  di  più  che  fu  una  sem- 
plice compilazione  quella  dell'editore  Manini,  pubblicata  del  resto 
anonimamente,  e  pur  sempre,  per  più  motivi  —  e,  su  tutto  per  gli 
intenti  —  pregevole,  dimostra  ancora  le  attività  nobilissime  dei 
deportati,  nelle  tetre  prigioni.  Ricordai  il  lavoro  del  Tanfoglio:  e, 
tra  le  carte  depositate,  vi  è  anche  un  fascicolo  che  inizia  studi  e 
consider£Lzioni  di  storia  e  di  filosofìa. 

Si  era  colà  trasportata  una  vera  accademia  di  dotti  e  di  pensa- 
tori :  chi  scrivesse  una  storia  di  accademie  non  immaginerebbe  di  do- 
verne annoverarcene  una  di  galeotti,  che  aveva  per  aula  l'atrio  di 
una  prigione. 

• 
•  • 

Tutto  il  materiale,  che  offersi,  proviene  certo  dalle  fucine  di  Man- 
tova, la  quale  diede  un  contingente  numeroso  ai  deportati  e,  nel 
2  giugno  1885,  volle  inscriverne  i  nomi  «  presso  l'ara  di  Belfiore,  a 
disfida  del  tempo,  a  vendetta  della  libertà». 

In  uno  scritto  di  trenta  anni  fa,  sui  Francesi  e  Giacobini  in  Man- 
tova, vi  è  un  orientamento  di  spirito  profondamente  ostile  a  quegli 
uomini  ed  a  quei  tempi.  Penso  che  l'insigne  autore,  così  benemerito 
degli  studi,  oggi  commenterebbe  i  fatti  con  maggiore  serenità,  pur 
comprendendo  quelle  che  furono  reazioni  del  suo  sentimento  contro 
le  ingiustificate  violenze  e  le  tendenze  settarie.  Perchè  debbiammo  ri- 
dere, se  pure  era  una  fantasia,  rileggendo,  nel  primo  numero  del 
Giornale  degli  amici  della  libertà  italiana,  uscito  in  quella  città  nel 
30  piovoso  dell'anno  I  della  libertà  :  «  Gli  intrepidi  repubblicani 
fanno  sventolare  lo  stendardo  tricolore  anche  sui  rampari  di  Man- 
tova e  ben  tosto  anche  su  quelli  di  Roma  »? 

Chi  abbia  preparato  il  materiale,  che  io  depositai  per  gli  studi, 
non  so.  Non  uno  solo,  certamente,  ma  diversi. 

Ma  che  importa  identificarli?  In  quelle  narrazioni,  in  quelle  pro- 
teste, tutte  le  voci  si  fondevano  in  una  voce  sola,  tutti  i  cuori  s'uni- 
vano in  un  sol  cuore. 

Sul  libretto,  di  prima  nota  di  memorie,  che  è  tra  quelle  carte, 
nella  data  del  25  febbraio  1801  si  parla  dei  preparativi  per  il  ritorno; 
e  l'accenno  ad  una  «  cassa  quadrata,  col  coperchio  di  tela  incerata 
verde»  e  col  nome  «di  Taramozziy^,  indurrebbe  a  credere  che  le 
Vicende  dei  patrioti  Mantovani,  gli  otto  fascicoli,  cioè,  della  deporta- 
zione a  Sebenico  e  Petervaradino,  siano  di  lui,  che  l'Apostoli  ricorda, 
«  rispettabile  e  virtuoso  amico  »  col  quale  sino  a  tarda  ora  stava  «  a 
conversare,  insieme  con  Arrivabene  » .  Il  Tamarozzi  emerge  nella  vita 
Mantovana  di  quel  tempo:  lo  vediamo  tra  gli  amministratori  dello 
Stato,  nominato  dal  Miollis;  lo  troviamo  correre  qua  e  là,  dove  si  ma- 
nifestavano, nei  primi  tempi,  tentativi  di  rivolta,  a  ristabilire  l'or- 
dine; e,  creato  il  Dipartimento  del  Mincio  e  le  nuove  amministra- 
zioni Cisalpine,  è  nella  municipalità,  capeggiata  dal  Volta.  Egli  pre- 
siede poi  la  seduta  del  5  ventoso,  dell'anno  VI  Rep.,  quando,  dopo 
l'allarme  delle  truppe,  si  presentò  a  tutti  i  subalterni  della  Munici- 


344  CONTRIBUTO  ALLA  STOMA  DELLE  ORIGINI  DEL  RISORGIMENTO 

palila,  riuniti,  il  generale  MioUis,  protestando  perchè  era  uscita  la 
Gazzetta  con  espressioni  incendiarie,  e  minacciando  fucilazioni  e 
pene.  Doveva  essere,  per  sentimenti  ed  abitudini,  probo,  perchè  lo 
vediamo  reagire  contro  gli  scandali,  gli  abusi,  gli  illeciti  esoneri: 
doveva  essere  di  animo  virile  se,  quando  Delmas  accusò  la  Municipa- 
lità al  Direttorio,  dopo  averla  ingiuriata  e  vilipesa,  potè  dettare  la  ro- 
vente protesta,  nel  verbale  dell'adunanza,  proponendo  le  dimissioni 
collettive,  e  facendole  seguire  da  una  lettera  di  fuoco  al  Commissario 
del  potere  esecutivo,  al  quale  si  diceva  di  non  voler  più  stare  sotto  lo 
scorno  della  dignità  calpestata. 

Egli  tornò  poi  nella  Municipalità  ricostituita,  e,  dopo  la  depor- 
tazione, fu  richiamato  nella  Amministrazione  centrale  del  Mincio. 

Era  stato  proposto  a  Bonaparte  tra  gli  Juniori  del  Dipartimento 
del  Mincio,  ma  egli  ne  cancellò  il  nome  di  suo  pugno,  sostituendo- 
gli, non  so  perchè,  Gologna  Abram  Vita.  Può  essere  Tamarozzi  uno 
degli  autori,  come,  delle  altre  note,  possono  esserlo  Goddé,  Somen- 
zari,  Prandi...  :  lo  dirà  chi  studierà  i  documenti. 

Si  sforzarono  alcuni  Mantovani,  nelle  satire,  recitando  la  com- 
media del  Belloni,  La  resa  di  Mantova,  ossia  i  patrioti  in  convulsione 
e  stampando  il  Processo  dei  Giacobini  di  Mantova,  mentre  i  ha  man- 
gia le  candele  e  in  adesso  i fa  i  stupini ,  di  proiettare  il  ridi- 
colo su  persone  e  cose;  ma  non  è  certo  sopprimibile  e  risibile  il  va- 
lore di  uomini,  per  più  titoli,  eminenti,  né  l'importanza  di  un'epoca 
meravigliosa. 

Goddè,  arrestato  come  il  più  pericoloso  e  colpevole  dei  patrioti; 
l'Arrivabene,  che  lo  seguiva  nel  carcere;  Teodoro  Somenzari,  che 
finirà  barone  nell'impero  e  commendatore  della  corona  ferrea;  il  pro- 
fessore Girolamo  Prandi  che,  nel  giurare  «  odio  etemo  al  governo 
«  dei  Re,  agli  aristocratici  ed  oligarchi,  con  la  fermezza  in  tante  oc- 
«  casioni  sperimentata;  con  la  prestazione  robusta  del  voto  fa  riflet- 
«  tere  alla  particolare  maniera,  con  la  quale  giurano  i  veri  repubbli- 
«  cani  »;  il  Molinari,  municipalista,  tu tt' altro  che  settario,  sono  figure 
che  vanno  guardate  con  meritata  e  deferente  attenzione.  Perchè  non 
credere  alle  lettere  concitate  del  Goddè  a  Garlo  Franzini  —  il  quale 
non  fu  poi  arrestato,  perchè  potè  fuggire  in  Francia,  tra  i  più  audaci 
durante  l'occupazione  Francese,  tiratosi  su  da  semplice  scrivano  sotto 
l'Austria  fino  ad  assumere  grandi  arie  demagogiche  e  tribunizie  e 
che  moriva  a  Brescia  nel  1808  —  quando  lamentava  che  si  raccoglies- 
sero  firme  contro  di  loro  perchè  il  popolo  ancora  jion  sapeva  quanto 
lo  si  amava?  Ammetto  le  evidenti  espressioni  di  fanatismo,  di  infa- 
tuazione, di  utopia,  in  quei  tempi;  ma  non  disconosciamo,  senz'altro, 
gli  intimi  convincimenti  degli  animi  :  passati  tanti  anni,  maturati  gli 
eventi,  abbiamo  il  dovere  di  dispensare  giustizia. 

E  giustizia  ed  onore  verranno,  se  ai  manoscritti  si  guarderà  con 
animo  sereno,  penetrato  di  fede.  Io  desiderai  ch'essi  fossero  custoditi 
in  Roma,  che  è  il  nostro  cuore  e  la  nostra  gloria  :  qui  devono  appa- 
rire le  luci  degli  albori  di  redenzione,  sino  a  quelle  del  meriggio 
italico. 

L'augurio  che  il  nuovo  secolo  fosse  propizio  alla  nostra  patria, 
vergato  in  quei  manoscritti,  uscito  da  cuori  torturati  per  una  idea 
che  non  poteva  fallire,  sia  conservato  tra  i  documenti  sacri,  promessa^ 
ed  auspicio  perenne  alle  nostre  fortune. 

Ugo  da  Gomo. 


LA  FINE  DEL  MONDO 


Venne,  o  Terra,  così  dal  più  profondo 
della  sua  notte  :  notte  immensa,  in  cui 
mille  secoli  è  appena  un  tuo  secondo. 
Era  partita  dai  profondi  bui 
dell'universo  a  stenninare  un  mondo; 
e  sovr'essa  non  c'era  altro  che  Lui. 

Quando?  Chi  sa!  Chi  può  sopra  una  sfera 
descriver  la  parabola  operosa 
che  un  astro  compie  nella  sua  bufera? 
Millenni  prima  dei  millenni...  Cosa 
possiam  noi  dire?  Quando  ancor  fors'era 
quel  mondo  il  fiato  d  una  nebulosa. 

Era  la  scia  che,  appena  ai>erta,  l'onda 
sopprime  :  un  punto  in  quel  gran  mar  dei  mari; 
un  nulla  :  e  niun  sapea  dell'errabonda. 
Non  sapevan  le  stelle.  —  Oh  i  bimbi  ignari! 
Chi  avverte  il  picciol  sasso  che  la  fionda 
lanciò  di  sopra  i  tozzi  casolari? 

Un  vetro,  forse,  fracassato,  un  nido 
distrutto;  e  nulla  piìi;  l'insorger  breve 
d'una  rampogna...  E  poi?  Poi  qualche  strido 
là  giù  nell'ombra;  e  nulla  più.  La  pieve 
manda  a  ogni  bimbo  l'angelo  suo  fido: 
dormono  i  bimbi  in  un  candor  di  neve. 

Da  un'invisibil  fionda  era  partito 
un  sasso...  un  astro  per  ferir  la  mèta 
che  Dio  gli  avea  mostrata  col  suo  dito: 
un  punto,  im  nulla.  La  spettral  cometa 
veniva:  e  il  mondo  uscì  dall'infinito 
nel  suo  sottile  involucro  di  creta. 

23  Voi.  CCXVn,  serie  VI  -  16  acrile  19». 


346  LA  FINE  DEL   MONDO 

Non  sapea  oh'easa,  rinvisibil,  fosse 
là,  dietro  i  cieli;  ed  attendea  secura 
a  rassodarsi  in  mezzo  alle  sue  scosse, 
ai  suoi  sussulti  :  a  farsa  creatura 
bella:  a  temprar  nelle  sue  vampe  rosee 
i  santi  germi  dell'età  futura. 

Nuova  era  al  sole.  Le  conchiglie  espante 
fendean  gli  oceani  come  tenui  prore  : 
l'uomo  era  forse,  anch'esso,  un  cuor  natante. 
Era  palpito,  sì,  ma  non  dolore, 
loice:  e  i  grandi  evi  urgean  sul  gran  quadrante 
col  ritmo  breve  e  placido  dell'ore. 

E  il  cuore  emerse  dall'indooil  flutto 
ad  informar  lo  scheletro,  lo  schema; 
e  la  terra  fu  nulla  e  l'uom  fu  tutto. 
Diall'antro  sollevò  la  fronte  scema, 
torbido:  e,  in  gigantesche  ossa  costrutto, 
costrusse  la  sua  casa,  il  suo  poema, 

la  sua.  storia.  L'effimero,  che  abbraccia 
l'eterno,  avea  con  torvo  sopracciglio 
scagliato  anche  là  su  l'empia  minaccia: 
gittate  avea  là  su,  cx>me  un  artiglio, 
lo  sguardo  :  e  già  pendea  sopra  la  faccia 
del  baratro  l'insonne  astro  vermiglio. 

Trascorser  gli  anni,  ma  cos'è  sul  grande 
quadrante  di  tempo?  Oltre  le  stelle  fìsse, 
citne  le  arene  delle  eteree  lande, 
cosa  son  gli  anni,  i  secoli?  Lo  disse 
nelle  inspirate  pagine  ammirande 
l'Antiveggente  dell'Apocalisse. 

Quel  che  il  Maestro  amò,  dopo  il  Battista, 
su  gli  altri,  aperse  il  grande  libro  e  lesse; 
nessuno  innanzi  a  lui  ve  l'avea  vista. 
La  fine  delle  grandi  ere  promesse 
era  venuta.  Il  quarto  Evangelista 
scrutò  le  stelle;  essa  era  là  dietro  esse. 

Piso  nei  foschi  bui  dell'avvenire, 
predasse  i  segni.  E  in  lui  parlava  atroce, 
tra  lampi,  il  Dio  delle  terribili  ire. 


LA  FINE  DEL   MONDO  347 

E  quelli  che  pendean  da  la  sua  voce, 
come  da  un  gorgo,  videro  affluire 
tutti  i  fiumi  dei  secoli  a  una  foce; 

scender  dalle  inscrutabili  sorgive, 
inabdssarsi,  dileguar  lontano 
in  un  immenso  oceano  senza  rive. 
Egli  era  là  con  la  sua  fionda  in  mano; 
e  da  millenni  il  torvo  astro  veniva 
con  la  velocità  dell'uragano. 

Nei  secoli,  così,  scomparver  gli  anni  : 
ma  cosa  è  un  anno,  un  secolo?  Un  granello 
di  sabbia  in  mano  al  biblico  Giovanni. 
Tacque  il  Profeta;  e  l'uom  ritornò  quello, 
quel  ch'era  stato  :  con  la  morte  ai  panni, 
mosse  il  fratello  a  uccidere  il  fratello. 

Del  suo  tes'arco  egli  si  fece  un  plettro 
di  gloria;  egU,  il  romeo;  del  suo  bordone 
si  fece,  egli  l'effimero,  uno  scettro: 
e  comandò:  piegò  le  forze  prone 
a  sé,  come  festuche;  e  già  lo  spettro 
tacito  s'affacciava  al  suo  balcone. 

% 
La  meteora  era  là  :  là  sotto  il  cielo, 
sotto  il  balcone:  ancora  poco,  e  poi? 
L'anticristo  annunziava  il  suo  vangelo  : 
ancora  qualche  secolo  de'  tuoi, 
qualche  minuto  e  poi  su  lo  sfacelo 
sarebber  scesi  gli  avidi  avoltoi. 

gli  avoltoi  di  là  su.  Nuovi  profeti 
traean  ne'  templi  ad  abolir  l'antica 
legge:  e  l'ora  era  là  dietro  i  pianeti; 
sopra  erale  il  tallone,  e  la  formica 
traeva  insaziabil  lungo  i  greti, 
lungo  le  vie  del  mondo,  la  sua  bica. 

Ardean  le  stragi:  quando  un  savio,  forse 
im  Padre  di  quel  mondo,  uno  scolopio, 
vide  quel  segno  fra  le  vigili  Orse. 
Trassel  con  un  suo  grande  telescopio 
a  sé  :  l'astro  era  —  e  un  brivido  gli  corse 
le  membra  —  là,  l'orribil  elitropio! 


348  LA   FINE  DEL   MONDO 

Il  fraticello,  col  suo  libro  aperto 
dinanzi  agli  occhi,  predicò  la  fine: 
ma  predicò,  l'uom  semplice,  al  deserto. 
Era  una  virgoletta,  oh!  così  fine 
che  appena  un  occhio  la  poteva,  esperto 
scoprir  fra  tante  lettere  divine. 

La  virgoletta  era  là  in  fondo,  appena 
scendea  la  notte:  col  suo  ftl  di  fuoco 
piegato  in  su,  nell'aria  ampia  e  serena: 
visibil  come  se,  ogni  notte,  un  poco, 
l'avesse  Dio  su  la  sua  pergamena, 
poi,  ritoccata  col  cairminio  e  il  croco. 

Tanto  il  bieco  astro  più  visibil,  verso 
sera,  così,  tanto  più  grande,  enorme, 
quanto  più  a  fior  venia  dell'universo  : 
parea,  tm  un  fitto  brulichìo  di  forme 
fosforescenti,  un  gran  mollusco  emerso 
da  spaventose  immensità  senz'orme. 

Venuto  a  galla  dall'abisso,  il  tetro 
astro  emergea  con  tutto  il  capo  fuori 
del  cielo:  il  crine  arrovesciato  indietro; 
gli  si  vedea  trft  palpiti  e  bagliori, 
sotto  i  tessuti,  come  lo  scheletro 
d'un  mostro  nato  dai  più  strani  amori. 

Tutta  ora  possedea  la  volta  bruna 
del  firmamento  con  l'enormi  branche: 
era  lì  lì  per  ischiacciar  la  luna. 
Urlavan  bruti,  urlavan  uomini,  anche 
gli  uomini!  L'astro  si  frangea  com'una 
immobil  fiamma  su  le  fronti  bianche. 

Immobil  come  se,  via  via  che  andava 
incendiando  il  cielo  ampio,  si  fosse 
pietrificato  in  un  giallor  di  grava: 
in  una  opaca  vastità  di  rosse 
piastre,  onde  zolfo  uscir  dovesse  e  lava, 
quando  la  man  di  Dio  le  avesse  smosse, 

pece,  chi  sa?  bitume...  I  morituri 
chiusi  attendean  l'inevitabil  ora, 
per  non  vederla,  nei  loro  antri  oscuri... 


LA   FINE  DEL   MONDO  349 

0  sole,  onde  prorompe  e  si  colora 
l'onda  del  tempo,  il  tempo  è  in  le:  tu  duri 
al  di  là  della  nostra  ultima  aurora. 

Sopra  i  pianeti  ed  il  lor  picciol  moto 
sei  tu  che  spezzi  i  secoli  in  secondi, 
sospeso  come  un  pendolo  nel  vuoto  : 
fin  ohe  non  avverrà  che  ti  sprofondi 
tu  pur,  recando  nell'abisso  ignoto 
i  gelidi  superstiti  tuoi  mondi. 

Torpide  attonite  acque,  occhi  sbarrati 
nel  buio!  Egli  era  sempre  là  col  dito 
proteso  :  e  immense  gli  eran  l'ombre  ai  lati. 
OuaJe  orrida  marea,  quale  inaudito 
riflusso  avea  dai  più  profondi  strati 
tutto  sconvolto  il  mar  dell'infinito? 

Talun  si  protendeva,  erto  la  fronte, 
fuori.  L'astro  era  là,  spiovea  coi  raggi, 
da  somano  il  cielo,  intomo  all'orizzonte  : 
tingea  di  strane  luci  acque,  villaggi, 
campi;  si  rifrangea  dal  piano  al  monte 
tra  spaventosi  immensi  urli  selvaggi. 

Era  un'effusa  non  mai  vista,  il  cielo, 

aurora  boreal  da  cima  a  fondo, 

un'aurora  di  morte  e  di  sfacelo  : 

a  strisce  :  quasi  che  un  gran  ragno  immondo 

vi  avesse  ordito,  sopra,  un  ragliatelo 

da  tutti  e  quattro  i  cardini  del  mondo. 

Le  stelle  erano  lì  :  parean  vanesse 
prese  così,  dai  lucidi  Infiniti 
del  cielo  :  e  la  luna  era  in  mezzo  ad  esse. 
Tutti  la  contemplavano  atterriti, 
come  se,  sgretolandosi,  dovesse 
sciogliersi  in  una  pioggia  d'areolìti. 

La  notte  e  il  giorno  erano  due  perduti 
in  un  sod  grigio,  ove  la  luce  aveva 
precipitato  tutti  i  suoi  rifiuti  : 
tal  forse  fu  la  truce  alba  primeva, 
quando  discese  nei  tuoi  gorghi  muti 
lo  spirito  che  penetra  ed  eleva, 


350  LA  FINE  DEL   MONDO 

o  Terrai  Un'alba  era  la  notte  e  il  giorno 

interminabile  ove  erravan  forme 

strane,  dai  gesti  smisurati,  in  tomo: 

gli  egro  U5civan  dai  cavi  antri  su  rarme 

d'altri  egri  :  e  pilli  non  vi  fficean  ritorno, 

sperse  ombre  nell'orrenda  ombra  uniforme. 

Si  riversavan  nelle  strade,  ansando 
stranmzzavan  per  via:  qualche  ermo  stuolo 
di  rondini  passava,  a  quando  a  quando: 
s'eran  levate  Dio  sa  donde  a  volo 
verso  Dio  sa  che  irrevocabil  bando  : 
e  s'abbattevan  boccheggiando  al  suolo. 

Ed  ecco  :  l'aria  divampò  :  le  porte 
del  baratro  girarono  stridendo 
sui  cardini  :  ed  entrò  bianca  la  Morte  : 
entrò  la  Morte  e  vide,  sotto  il  pendolo 
del  sole,  in  mille  atre  pupille  assorte 
(moltiplicato  il  suo  sogghigno  orrendo. 

Fissavano,  pervase  dal  beffardo 
sogghigno,  mille  e  mille  sguardi  spenti 
l'immobil  sole,  come  un  solo  sguardo: 
immobil  no;  ohe,  fatto  dieci  venti 
cento  volte  più  grande  a  quello  sguardo, 
riemipiva  di  fiamme  il  firmamento. 

E  il  del  fu  tutto  un  sole  :  un  bianco  intenso 
chiarore:  un  gran  braciere  incandescente 
sotto  la  cupa  volta  dell'immenso  : 
un  turibolo  acceso  innanzi  all'Ente 
supremo,  etemo,  ove,  granel  d'incenso, 
la  terra  divampò,  sparve  nel  niente. 

Marino  Marin. 


IN  MEMORIA    DI   GIOVANNI    MARRADI 

1852-1922 


Tra  i  ricordi  della  mia  vita  letteraria  la  figura  di  Giovanni  Mar- 
radi  è  una  di  quelle  che  si  disegnano  con  maggior  semplicità  e  no- 
biltà di  linea,  tanto  l'ingegno  dello  scrittore  e  la  schietta  indole  del 
l'uomo  formano  una  salda  unità.  Cercai  di  tracciare  questa  figura, 
nel  momento  in  cui  aveva  raggiunto  la  piena  maturità  sua,  nella 
serie  di  profili  di  scrittori  nostri,  coi  quali  Mag^orino  Ferraris, 
circa  vent'anni  sono,  volle  ringiovanita  e  ravvivata  la  Nuova  Anto- 
logia (1). 

11  ritratto  piacque  al  poeta  gentile,  all'amico  leale  che  con  un 
carteggio  affabile,  mi  facilitò  l'opera,  così  come  il  modello  aiuta  il 
pittore  se  esprime  l'anima  sua  in  una  conversazione  vivace  e  spon- 
tanea. A  vent'anni  di  distanza  quel  ritratto  mi  par  sempre  somi- 
gliante. Così  vedo  ancora  e  voglio  vedere  Giovanni  Marradi,  nell'arte 
e  nella  vita,  mentre  mani  giovanili  stendono  verso  di  lui  freschi 
rami  di  lauro... 

Che  cosa  potrei  aggiungere  a  queste  parole  inviate  per  cortese 
richiesta  dei  compilatori  di  una  raccolta  di  scritti  in  onor  del 
poeta  (2),  ora  mentr'egli  dorme  l'ultimo  sonno,  là  tra  i  cipressi  dei 
Lupi,  presso  i  cento  camini  fumanti  delle  officine  livornesi,  e  i  fiori 
che  si  gettarono  a  piene  mani  su  la  bara  già  sono  tutti  appassiti? 

Riandavo  in  quello  studio,  scritto  con  gran  gentimento  nostal- 
gico a  Teramo  così  nobilmente  ospitale,  la  via  lunga  per  cui  mosse 
da  giovine  il  poeta...  Dalla  Ciociaria  brulla,  al  fresco  delle  cascate 
del  Lazio;  dall'Appennino  dove  ancor  suona  la  grazia,  di  cui  s'abbel- 
liron  le  canzoni  di  Gino,  all'Abruzzo  dove  le  città  stanno  su  le  rocce 
come  aquile  nel  nido;  dalla  Sardegna  all'Umbria  verde;  dall'Emilia 
dotta  e  urbana  a  Siena  la  rossa,  su  cui  aleggia  ancora  la  visione  del- 
l'evo medio;  dalle  rive  su  cui  l'Adriatico  frange  le  bianche  spume 
della  lunga  ondata,  alle  Alpi  apuane  dai  fianchi  candidi  ove  scen- 
dono con  dolce  declivio  alla  marina,  a  Pisa  che  chiude  nel  silenzio 
la  gloria  antica...  Qual  meraviglia  che  la  lirica  accompagnasse  il 
viaggio,  come  un  fiume  limpido  che  corre  tra  le  floride  rive  rispec- 
chiando tutta  la  bellezza  del  paese?  Ma  nelle  chiaire  acque  non  solo 
si  riflettono  le  imagini  presenti.  Chi  non  risogna,  preaao  gli  argini,  a 
età  lontane,  a  rose  sfiorite,  a  cose  di  bellezza  perdute  nel  tempo  che 
non  ritorna?  E  l'anima  errante  del  poeta  si  compiacerne  di  risognarle 

(1)  G.  Menasci,  G.  Marradi,  in  Nuova  Antologia,  1°  giugno  1902. 

(2)  G.  Marradi.  Società  Toscana,  Livorno,  1920. 


362  IN   MEMOIJIA  DI   GIOVANNI   MARRADI 

e  di  farle  rivivere  in  un  tutto.  Cosi,  nella  veste  agile  e  serrata,  della 
strofa  niarradiana,  la  vivace  freschezza  di  un  fiore  oggi  dischiuso 
fu  espressa  insieme  alla  poesia  eterna  ed  infinita  suggerita  dai  me- 
mori luoghi  :  ed  ogni  paesaggio  della  nostra  terra  divina,  ridisse,  pel 
labbro  del  poeta,  l'intima  storia  sua. 

Ma  già  lo  scrittore  aveva  cantato  l'amore  con  voce  schietta  e  ap- 
passionata evocando  la  imiagine  dell'inspiratrice,  di  quella  Lia  che 
gli  sarà  fedele  compagna  lung-o  la  vita,  su  lo  sfondo  lumin>)So 
della  nostra  marina;  e  in  questi  poemi  fioriti,  con  gran  varietà  di 
ritmi  e  di  riirne,  per  le  terre  d'Italia  egli  aveva  già  dato  qualche  cenno 
di  più  ampie  figurazioni,  di  quella  capacità  poi  dimostrata  nella 
Rapsodia  garibaldina  di  saper  fermare  col  tratto  incisivo  della  me- 
daglia un  profilo  eroico. 

Il  primo  volume  dli  Giovanni  Marradi,  le  Canzoni  Moderne,  fu 
pubblicato  alla  fine  del  1879;  l'ultimo,  la  Poesia  della  Riscossa,  è  del 
1919  e  riandando  colla  memoria  agli  anni  giovanili,  il  poeta  escla- 
mava :  «  Quarantanni  son  corsi  dalla  comparsa  di  quel  mio  libro  di 
gioventù:  quarant'anni  compiuti!  La  favola  breve  della  mia  vita  sta 
per  conchiudersi;  il  breVe  ciclo  della  mia  arte  si  è  già  conchiuso  da 
un  pezzo.  Vita  semplice,  e  arte  non  grande;  ma  io  le  ripenso  senza 
malinconie  e  senza  rimorsi,  perchè,  in  tanta  ressa  di  vanitosi  e  di 
ci^latani  per  farsi  avanti  a  forza  di  chiasso  e  di  gomiti  nella  via 
della  vita  e  dell'arte,  io  so  di  essere  andato  sempre  diritto  per  la 
mia  via  solitaria  e  sento  che  oggi,  da  vecchio,  posso  ripetermi  con 
serena  coscienza  i  due  versi  del  Giusti  : 

Non  ho  piegato  —  ne  pencolato  ». 

In  queste  parole,  scritte  sul  finire  del  '19,  vi  è  un  certo  senso  di 
malinconia  ed  un  accento  di  giusta  alterezza.  Certo,  una  popolarità 
più  diffusa  non  sarebbe  mancata  al  Marradi,  s'egli  non  avesse  bat- 
tuto una  via  solitaria  —  chi  lo  chiamò  in  questi  giorni  maggiore 
della  sua  fama?  —  E  forse  fu  esagerato  il  sentimento  che  gli  fece 
considerar  già  conchiuso  il  ciclo  dell'arte  sua.  Ma  è  sentimento  di 
dignità  artistica  così  squisita  che  desta  il  rispetto. 

Il  periodo  letterario  in  cui  si  svolse  l'attività  di  Giovanni  Mar- 
radi  è  dominato  dalla  poesia  carducciana.  Si  placavano  le  ire  ma- 
gnanime dei  giambi  edl  epodi  per  giunger  via  via,  attraverso  la  rie- 
vocazione classica  delle  odi  barbare,  alla  solenne  serenità  delle  ul- 
time composizioni.  Quale  degli  scrittori  di  quel  periodo  ha  potuto 
compiutamente  sfuggire  all'azione  del  grande  artiere? 

Non  potè  liberarsene  il  Marradi  degli  anni  giovanili,  ma  l'ar- 
tista nella  maturità  sua  si  era  già  tracciato  il  suo  dominio.  Egli  era 
divenuto  il  dipintore  di  paesaggi  luminosi  e  quieti  :  le  poesie  brevi, 
niosfie  da  un  sentimento  di  blanda  contemplazione  della  natura,  rie- 
scono suggestive  più  per  la  trascrizione  fedele  dtelle  forme  e  dei  co- 
lori, per  la  sobrietà  delle  imagini  che  non  per  i  pensieri  che  le  ani- 
mano. 

La  lirica  del  Marradi  richiama  allo  spirito  qualcheduna  delle  più 
indovinate  tele  dei  nostri  maestri  toscani  come  le  pitture  loro  fanno 
tornare  alla  memoria  le  strofe  musicali  di  qualche  più  nota  poesia 
del  Nostro. 


IN  MEMOWA  DI   GIOVANNI  MARRADI  353 

E  quella  rispondenza  intima  che  potrebbe  trovarsi  tra  Giosuè 
Carducci  e  Giovanni  Fattori  nell'interpretare  la  rude,  selvaggia  ma- 
linconia della  maremma,  si  (manifesta  pur  tra  l'opera  di  Giovanni 
Marradi  e  quella  dei  Gioii,  dei  Cannicci,  dei  Tommasi,  dei  Nomel- 
lini  quando  dipingono  i  mille  aspetti  del  mare  e  delle  colline  nostre. 

Il  mare  sopratutto  è  stato  l'ispiratore  di  Giovanni  Marradi  — 
come  ha  dimostrato  una  garbata  scrittrice  —  (1).  La  gran  voce  so- 
lenne, che  ripercuotono  gli  echi  delle  scogliere,  risuona  per  virtù 
dell'arte  marradiana  in  una  effusa  sinfonia  marinaresca;  ed  ora  è  il 
dolce  mormorio  d'un'onda,  ora  la  grandiosa  musica  dei  cavalloni  che 
si  frangono  contro  le  scogliere. 

E  in  conspetto  del  mare  da  lui  cantato,  Giovanni  Marradi  avrà 
l'ultima  sua  dimora. 

È  sorta  naturalmente  nel  popolo  l'idea  che  la  tomba  definitiva 
del  poeta  sia  a  Montenero,  dove  la  città  accoglie,  accanto  a  Francesco 
Domenico  Guerrazzi,  i  suoi  figli  che  maggionnente  l'amarono  e  la 
resero  illustre.  Per  Giovanni  Marradi  il  sepolcro  su  la  dolce  collina 
tra  gli  oliveti  ed  il  mare  avrà  un  significato  anche  più  intimo,  un 
più  stretto  legame  tra  la  vita  e  la  morte,  tra  l'opera  dell'uoimo  che 
vuol  rimaner  fresca  e  florida  e  l'azione  del  tempo  e  dell'oblìo  che 
per  forza  d'inerzia  si  adopera  e  distruggerla. 

Dicevo  su  queste  pagine  che  il  poemetto  su  Montenero  è  tra  le 
liriche  del  Marradi  la  gemma  forse  più  lucida  e  tersa.  La  fusione  tra 
il  pensiero  e  la  forma  è  perfetta:  il  sentimento  inspiratore  spon- 
taneo raccoglie  i  ricordi  della  infanzia  lontana  e  le  impressioni  del 
poeta  giunto  a  maturità  :  alti*e  memorie  di  creature  umane  che  vis- 
sero ed  amarono  e  soffrirono  m  quella  cerchia  di  orizz^onte  si  m'e- 
scono a  quelle  i>ersonali  dello  scrittore. 

Il  tono  affettuosamente  elegiaco  della  collana  di  sonetti  è  ravvi- 
vato da  tocchi  di  paesaggio  così  efficaci  da  far  ricorrere  col  pensiero 
alle  liriche  più  celebrate  nostre  e  straniere  che  rivelano  in  pochi 
tratti  essenziali  l'anima  della  patria. 

Ma  la  nota  finale  —  dicevo  —  non  chiude,  non  termina  le  ima- 
gini  prima  evocate.  Il  poeta  non  costringe  il  quadro  in  una  linea  ful- 
gente d'oro,  ma  ristretta  sì  da  determinar  geometricamente  la  vi- 
sione; egli  schiude  invece  un  ampio  vano  nell'azzurro  e  dal  cielo 
della  poesia  toscana  i  versi  si  levano  a  volo  per  l'orizzonte  che  non 
ha  confine. 

Ed  ora,   in  faccia,  dorme  la  marina 

priva  di  suoni  e  di  bagliori  e  d'onde 

sotto  l'arco  del  ciel,  che  vi  diffomde 

il  suo  limpido  azzurro  e  a  lei  declina. 

E  ridono  in  quiete  cristallina 

le   due  serene    immensità    profonde 

che  un  divino  silenzio  occupa  e  fonde 

in   una   sola    immensità  divina. 

E  in  mezzo  al  gran  silenzio  e  al  gran  sereno 


(1)  A.  FxTRNO,    Il    sentimento    del    mare    nella    poesia    italiana.   Torino, 
Paravia. 


354  IN  MEMORIA  DI  GIOVANNI  MARRADI 

gorgon  le  due  dantesohe  isole  ancora 

custodi   solitarie  del  Tirreno. 

E  azzurreggiano  al  sole,  al  sol  ohe  ignora 

gli  odii  sepolti  alle  bell'acque  in  seno, 

e  in  un  fuoco  d'amor  l'orbe  incolora. 

Queste  e  cento  e  cento  altre  simili  pitture  rimarranno  dell'opera 
majradiana  finché  si  voglia  che  l'opera  d'arte  si  associ  al  godimento 
di  uno  spettacolo  di  bellezza  naturale,  o  lo  rievochi  al  nostro  spirito 
quando  ne  siaimo  lontani. 

Tra  le  molte  cerimonie,  talune  intime  altre  pubbliche,  e  le  prime 
credo  gli  fossero  più  gradite  —  con  cui  Livorno  e  la  maggior  parte 
degli  scrittori  d'Italia  vollero  onorare  la  vecchiezza  del  poeta  vissuto 
sempre  appartato  -nella  cerchia  ristrettissima  di  pochi  amici  —  nel- 
l'esercizio dei  suoi  doveri  d'ufficio,  una  parve  lo  commovesse  sin- 
golarmente... 

Allorché  pochi  mesi  or  sono  Eigli  prese  affabilmente  congedo 
dagli  insegnanti  che  avevano  avuto  in  lui  un  capo  amorevole  dai 
modi,  ad  un  tempo  signorili  e  modesti,  la  scolaresca  tutta  si  assiepò 
intorno  al  Maestro,  che  percorse  il  breve  tratto  di  strada  tra  due  fitte 
ali  di  giovani  plaudenti;  e  le  giovinette  gittavano  fiori... 

Conservino  i  giovani  quel  ricordo  tra  i  loro  migliori  :  essi  così 
riverivano  una  forza  vicina  a  spegnersi  ma  che  tutta  si  era  data  al 
lavoro,  al  sacrificio,  ed  aveva  chiesto  all'arte  soltanto  il  suo  sorriso. 

'  Guido  Menasq. 


NOTIZIE  INTORNO  ALLE  IMPOSTE  IN  ITALIA 

ALLA  LORO  PRESSIONE  E  DISTRIBUZIONE 


La  Somma  delle  Spese,  delle  Entrate  e  delle  Imposte 
dello  Stato  e  degli  Enti  locali. 

1.  La  spesa  effettiva  annua  dello  Stato  italiano  era 

avanti  la  guerra circa    2.500  milioni, 

nel  1920-21  è  stata  accertata  in       .     .  28,783        > 

per  il  1921-22  è  prevista  ufficialmente.  21.084        » 

per  il  1922-23  è  prevista  »  .  18.525 

La  somma  di  18  miliardi  e  mezzo  è  quindi  riconosciuta  come  mi- 
nimo necessario  dopo  la  guerra  e  dopo  cessate  le  spese  straordinarie 
di  guerra;  e  il  rapporto  tra  la  spesa  dello  Stato  avanti  la  gnerra  e 
dopo,  può  essere  rappresentato  come  i  sta  a  7,5.  Ciò  però  non  vuol 
dire  senz'altro  che  le  spese  siano  effettivamente  sette  o  otto  volte  mag- 
giori che  nell'cinteguerra.  Se  si  tiene  conto  che  il  potere  d'acquisto 
della  lira  italiana  è  stato  ultimamente  ridotto  fino  a  un  quinto  in 
confronto  dell'anteguerra,  il  rapporto  non  è  più  come  1:7,5,  ma  in 
realtà  come  1 :1,5. 

Nemmeno  però  questo  aumento  della  metà  della  spesa  effettiva 
significa,  come  volgarmente  si  crede,  che  gli  stipendi  degli  impie- 
gati e  le  altre  spese  per  i  servizi  civili  siano  in  realtà  migliorati  e  au- 
mentati della  metà.  Se  si  tiene  conto  che  dei  18  miliardi  e  mezzo  di 
spesa  annua  necessaria  in  un  dopo  guerra  normale  e  pacifico,  un 
terzo  è  devoluto  a 

interessi  per  nuovi  debiti.     ...     (4. 000  milioni) 

pensioni  di  guerra (i.TfO        »       ) 

ricostruzione  terre  liberate     .     .     .     (     700       »       ) 

cioè  a  spese  nuove,  conseguenze  della  guerra,  e  un'altra  quota  ancora 
imprecisa  alle  Nuove  Province  —  per  i  rimanenti  servizi  continuati 
dall'anteguerra,  restano  meno  di  12  miliardi,  cioè  una  somma  che  ha 
un  potere  d'acquisto  non  superiore  ai  2  miliardi  e  mezzo  del  1913-14, 
e  che  probabilmente  anzi  dà  un  rendimento  utile  minore. 


366  NOTIZIE  INTORNO  ALLE   IMPOSTE   IN   ITALIA 

2.  Le  entrale  effettive  dello  Stato  erano 

avanti  la  guerra,  media  annua,  2  Vi  miliardi 
sono  accertate  nel  1920-21  circa  18         » 

L'osservatore  superficiale  potrebbe  quindi  illudersi  che  lo  svi- 
luppo delle  entrate  abbia  seguito  da  vicino  quello  delle  spese,  e  copra 
ormai  quel  fabbisogno  che  sopra  abbiamo  accettato  come  probabile 
per  gli  anni  futuri.  Qualcuno  anzi,  osservando  che  nel  1921-22  Je  en- 
trate saliranno  ancora,  a  19  miliardi,  sembra  temere  che  eccedano  e 
se  ne  tenga  nascosta  la  eccedenza,  per  buttarle  in  nuove  inutili 
spese  (1). 

Ma  nelle  entrate  1920-21  e  1921-22  sono  comprese  ancora  parec- 
chie partite  transitorie  o  fittizie,  che  scompariranno  nei  bilanci  fu- 
turi stabilizzati,  lasciando  di  fronte  ai  18  imiliardi  e  mezzo  di  spesa 
media,  una  entrata  ridotta  a  non  molto  pili  di  14  miliardi  (2)  e 
sempre  insufficente.  Infatti  dei  2  miliardi  e  mezzo  delle  entrate  pre- 
belliche, erano  coperti 

due  ventesimi  da  Proventi  dei  servizi  pubblici  e  del  patrimonio, 

sedici  ventesimi  da  Imposte  ordinarie, 

d/ue  ventesimi  soli  da  Rimborsi,  entrate  diverse  e  straordinarie. 

Invece  ded  18  miliardi  di  entrate  dell'ultimo  anno,  solo 

un  ventesimo  è  di  Proventi  di  servizi  e  di  patrimonio, 
dodici  ventesimi,  o  poco  più,  di  Imposte. 

e  il  grosso  della  rimanente  entrata  è  costittiito  da  ricuperi  e  proventi 
di  portafoglio,  alienazioni  di  residui  e  di  riparazioni  di  guerra,  rim- 
borsi per  traffico  marittimo  e  altre  simili  partite  straordinariamente 
gonfiate  nell'immediato  dopo  guerra,  di  cui  è  contestata  perfino  la 
situazione  in  bilancio  o  la  destinazione,  e  probabile  o  certa  la  pros- 
sima scomparsa  o  riduzione  (3). 


(1)  Vedi  discussioni  in  Senato,  dicembre  1921  ;  e  EiNAtroi,  in  Corriere 
della  Sera,  10  dicembre  1921. 

(2)  Già  per  il  1922-23,  il  ministro  del  Tesoro  prevede  meno  di  16  miliardi. 

(3)  Si  potrebbe  obiettare  che  codeste  entrate  transitorie  corrispondono 
perfettamente  a  quelle  spese  nuove  conseguenti  dalla  guerra,  in  cui  abbiamo 
riconosciuto  l'unico,  effettivo  aumento  della  parte  spesa  del  Bilancio.  Ma  di 
quelle  sx^eae  la  maggiore  (cioè  i  4000  milioni  di  interessi  i)er  nuovi  debiti)  non  e 
transitoria,  almeno  fino  a  quando  non  si  provvedere...  anche  all'ammorta- 
mento; e  le  due  minori  (pensioni  e  ricostnizioni)  si  estenderanno  da  un  minimo 
di  due  a  un  massimo  di  trent'anni  ;  mentre  le  entrate  straordinarie  in  conte- 
stazione, tra  un  anno  o  due  al  massimo  saranno  già  ridotte  al  minimo  nor- 
male —  meno  le  Riparazioni.  Ma  anche  delle  riparazioni  non  si  può.  come  in 
Francia,  servirsi  come  delle  comparse  sul  palcoscenico!  Se  con  esse  si  dovreb- 
bero compensare  i  debiti  verso  gli  alloati  (e  sono,  nella  più  rosea  delle  ipotesi, 
13  miliardi  marchi  oro  di  indennità,  contro  21  miliardi  oro  di  debito,  per  l'Ita- 
lia) non  si  può  ripresentarle  di  nuovo  o  a  pareggio  dell«  pensioni  o  ricostru- 
zioni, o  a  giustificazione  del  disavanzo,  o  altro  ohe  sia' 


NOTIZIE  INTORNO  ALLE  IMPOSTE  IN   ITALIA  367 

3,  Il  vero  nucleo  solido  delle  entrate  —  a  parte  i  proventi  di 
servizi  pubblici  che  sono  omniai  resi  tutti  a  sottocosto  —  rimane  dun- 
que nelle  imjmste  erariali^  di  cui  lo  sviluppo  è  il  seguente  : 

anno  1913-14   accertate    L.     2,008  milioni 
anno  1920-21    accertate     »     11,004        »     (1) 
anno  1922-23   previste      »     11.163        » 

4,  Le  imposte  dei  Comuni  e  delle  Province  hanno  progredito 
assai  più  lentamente,  cioè,  secondo  diati  molto  approssimativi  e  in- 
certi raccolti  dal  Ministero, 

Comuni  ProTince  Totale  » 

da  milioni  619  177  756  nel  1914 

a        »  1.948  402  2.350  nel  1921 

Aumento,  dunque,  come  da  1  a  3,  insufl&cente  a  compensare  il 
rieprezzamento  della  valuta  e  a  coprire  una  spesa. che  pure  rimanga 
nei  limiti  reali  dell'anteguerra  (2).  Così  che,  pur  senza  introdurre 
nuove  spese,  unicamente  per  pareggiare  il  bilancio  e  per  pagare  gli 
stipendi  agli  impiegati,  si  sono  costretti  i  Comuni  a  coprirsi  di  de- 
biti. La  sola  Cassa  Depositi  e  Prestiti  ha  concesso  a  questo  scopo 
fino  a  250  milioni  in  un  anno;  ma  le  domande  sono  molto  maggiori 
poiché  i  disavanzi  complessivi  se  non  arrivano  al  miliardo  annuo, 
hanno  superato  certamente  il  mezzo  miliardo  (3). 

5,  Somanando  imposte  erariali  e  locali  abbiamo  quindi  un  com- 
plesso carico  tributario  di 

2. 764^  milioni  nel  1914 
13,354  milioni  nel  1921 

In  rapporto  al  numero  degli  abitanti  compresi  nei  confini  ter- 
ritoriali di  avanti  guerra,  il  carico  medio  risultava  quindi  di 

77  lire  per  ciascun  abitante  nel   1914 
371     .       »  >  »  nel  1921 

L'aumento  è  sempre  all'incipca  da  1  a  5  e  corrispondente  al  di- 
minuito potere  d'acquisto  della  lira. 

Ma  vuol  dire  ciò  senz'altro  che  la  pressione  tributaria  italiana 
sia  rimasta  immutata  o  lievemente  aumentata?  E  il  fatto  che  ogni 

(1)  Nelle  nostre  somme  sono  comprese  anche  le  imposte  sragli  affari  am- 
ministrate dal  Ministero  dei  LL.  PP.  e  dal  Ministero  degli  Esteri;  non  è  com- 
preso il  contributo  per  l'Equo  trattamento,  che  ha  una  specifica  destinazione 
ed  è  forse  transitorio.  Per  mantenere  più  esatto  il  confronto,  dentro  gli  etessi 
confini  territoriali  dell'anteguerra,  si  dovrebbe  sottrarre  una  cifra,  non  bene 
precisata  (I)  ma  certo  superiore  a  200  milioni,  di  imposte  della  Venezia  Giulia 
e  Tridentina  confuse  con  quelle  del  Regno;  ma  in  mancanza  di  più  sicuri  ele- 
n^nti,  riteniamo  provvisoriamente  compensata  questa  somma  dall'altra  che  il 
Ministero  del  Tesoro  percepisce  dal  cambio  dei  certificati  doganali,  e  che  do- 
vrebbe invece  computarsi  in  aumento  delle  entrate  doganali. 

(2)  Dal  1907  al  1914,  non  concorrendo  lo  svilimento  della  moneta,  la  somma 
dei  Bilanci  degli  Enti  locali  si  era  ugualmente  raddoppiata. 

(3)  Nessuna  statistica  oerta  vi  è  dei  bUanci  comunali  e  provinciali.  L'ul- 
tima è  del  1912.  •  E  tanto  più  deplorevolCj  quanto  più  dovrebbe  essere  facile 
con  tanti  organi  di  tutela. 


358  NOTIZIE  INTORNO  ALLE  IMPOSTE  IN  ITALIA 

abitante  inglese  paga  invece  al  suo  erario  23  sterline,  ogni  francese 
526  franchi,  lo  spagnolo  95  pesetas,  l'americano  45  dollari,  il  te- 
desco da  1200  a  1650  marchi  (1),  significa  forse  che  la  pressione  tri- 
butaria italiana  è  lieve  o  minore  di  quella  inglese  o  francese  o  ame- 
ricana? Evidentemente  no.  La  proporzione  delle  imposte  per  ogni 
abitante  non  ha  in  sé  stessa  che  un  valore  aritmetico;  valore  reale 
ha  soltanto  quando  sia  messa  a  confronto  col  reddito  medio  di  quello 
stesso  abitante.  Allora,  se  si  chiarisce  che  il  cittadino  italiano  paga 
solo  370  lire,  ma  su  un  reddito  annuo  di  appena  1800  lire,  mentre 
il  cittadino  di  un  altro  Stato  paga  per  es.  500  franchi  ma  su  un 
reddito  di  4000,  è  evidente  il  maggiore  sacrifìcio  del  primo;  e  tanto 
maggiore  quanto  più  l'imposta  incide  su  redditi  minori,  appena  suf- 
fìcenti  a  un'esistenza  civile. 


II. 

La  pressione  tributaria 
e  la  somma  della  ricchezza  privata  in  Italia. 

6.  La  pressione  tributaria  non  può  essere  calcolata  se  non  in 
rapporto  alla  complessiva  ricchezza  e  al  reddito  nazionale,  dai  quali 
i  tributi  sono  prelevati.  Ed  è  codesto  termine  del  rapporto  che  è  più 
diffìcile  calcolare,  in  mancanza  di  esatti  rilievi  e  censimenti.  Alla  vi- 
gilia della  guerra,  gli  ultimi  calcoli  rappresentavano 

la  Fiochezza  privata  italiana  in  112  miliardi   (media  per  ab.  3150  lire) 
il  reddito  complessivo  annuo  in  18        »  (     »         »       »       600  lire) 

In  rapporto  ad  essi,  la  somma  delle  imposte  pagate  nel  1914  avrebbe 
data  una  pressione  inferiore  al  24  per  mil'le  del  patrimonio,  supe- 
riore al  17  per  cento  del  reddito. 

Dopo  la  guerra,  un  tentativo  di  computo  della  ricchezza  o  del 
reddito  è  ancora  meno  agevole,  perchè  non  solo  manca  ogni  censi- 
mento delle  singole  specie  e  quantità  di  beni,  ma  i  valori  sopratutto 
sono  divenuti  estremamente  variabili,  per  una  serie  di  elementi  in- 
ternazionali e  locali,  economici  e  giuridici,  così  che  ogni  cifra,  anche 
se  accuratamente  accertata,  non  potrebbe  valere  che  per  un  momento 
nel  tempo.  Ad  ogni  modo,  se  teniamo  ferma  per  il  1914  la  tabella 
Gini  delle  diverse  specie  di  ricchezza  privata  (2)  ne  potremmo  argo- 
mentare rapidamente  le  variazioni  del  tempK)  di  guerra  fino  al  1921. 

7.  Dei  terrena  (comprese  le  miniere,  fabbricati  rurali,  ecc.)  lieve 
è  stata  la  quota  dei  danni  diretti  di  guerra  nella  zona  d'operazioni, 
ma  più  grave  forse  il  danno  indiretto  e  generale  dell'abbandono  di 

(1)  Questi  dati  non  sono  tutti  direttamente  controllati,  ma  desunti  da 
annuari. 

(2)  Cfr.  Ricchezza  delle  nazioni  e  Problemi  sociologici,  1921: 

Denaro  miliardi  1,4  > 

Depositi  »        7,1 

Titoli  pubblici  »        6,4 

Titoli  privati  »         6,6 

Totale  miliardi  112,— 


Terreni 

miliardi  44 

Fabbricati 

20 

Bestiame 

5 

Mobilia 

11,6 

Altri  mobili 

10 

NOTIZIE  INTORNO  ALLE  IMPOSTE  IN  ITALIA  359 

culture,  havori,  miglioramenti,  fertilizzazioni,  ecc.  È  probabile  che 
l'aumenio  del  valore  complessivo  in  lire  segua  a  mala  pena  il  deprez- 
zamento della  moneta. 

I  fabbricati  hanno  moltiplicato  il  loro  valore  in  maggiore  propor- 
zione, per  l'alto  costo  di  produzione  delle  ultime  case,  cui  tendono 
a  equipararsi;  ma  sembrano  notevoli,  oltre  e  più  che  i  danni  locali  di 
guerra,  i  deperimenti  generali  per  trascurati  restauri  e  manuten- 
zioni, e  la  limitazione  legale  del  reddito. 

II  patrimonio  zootecnico  ha  rapidamente  riparati  i  gravi  danni 
subiti  durante  la  guerra  (due  milioni  di  bovini  requisiti  e  trecento- 
cinquanta mila  dispersi  dalla  invasione)  riprendendo  l'ascesa;  e  i  va- 
lori di  ogni  singola  specie,  per  quanto  con  forti  oscillazioni,  si  sono 
avvantaggiati  in  media  sul  deprezzamento  della  lira. 

Anche  la  mobilia  è  parecchio  deperita  e  non  aumentata  in  quan- 
tità e  qualità;  ma  i  valori  sono  più  che  quintuplicati.  Degli  altri  mo- 
bìli ogni  induzione  è  più  dubbiosa.  Le  quantità  aumentate  sono  forse 
le  meno  utilizzabili;  le  quantità  utili  sono  forse  qualitativamente  più 
deperite.  Dei  gioielli,  certo  aumentati,  il  conto  è  impossibile.  Nel  1921 

la  carta  moneta  italiana  ha  raggiunto  i     ...  21  miliardi 

i  depositi  presso  Banche  e  Casse  Risparmio  .      .  27         » 

la  Rendita  e  Buoni  del  Tesoro 78        » 

le  azioni  industriali  e  commerciali 24        > 

Ma  quanta  parte  di  queste  somala  sia  in  mano  di  privati  e  non 
di  Enti  pubblici,  è  oggi  più  difficile  stimare  che  non  nell'anteguerra, 
quando  dal  Princivalle  si  presumevano  rispettivamente  50-90-55-66 
centesimi.  Probabilmente  la  quota  dei  privati  è  assai  maggiore.  Quasi 
impossibile  è  invece  ogni  stima  nei  rapporti  intemazionali.  Chi  può 
sapere  quanta  carta  e  titoli  italiani  siano  andati  all'Estero,  per  sal- 
dare invisibilmente  la  bilancia  commerciale?  e  quanta  (certamente 
molto  meno)  carta  e  titoli  stranieri  appartengono  invece  a  italiani 
che  hanno  tentato  commerci,  speculazioni  o  evasioni  alle  imposte 
personali?  Sotto  questo  aspetto  appare  ormai  non  solo  la  difficoltà 
di  statistiche  nazionali,  ma  più  ancora  la  difficoltà  di  una  legisla- 
zione tributaria  che  non  cominci  a  regolarsi  internazionalmente. 

8.  Per  via  di  ipotesi  e  di  induzioni  mi  pare  che  si  possa  arrivane 
alle  seguenti  proposizioni  : 

a)  la  ricchezza  privata  italiana  è  aumentata  nel  suo  valore  in 
lire,  forse  nello  stesso  e  inverso  rapporto  con  cui  la  lira  è  diminuita 
rispetto  all'oro  o  alle  monete  divenute  misura  comune  nei  rapporti 
internazionali.  Nella  sostanza  essa  non  è  aumentata.  Il  fenomeno  più 
splendido  dell'economia  capitalista,  cioè  l'accumulo  di  ricchezza  (che 
in  Italia  avanti  la  guerra  era  calcolato  in  oltre  2  miliardi  oro  all'anno) 
è  cessato  dopo  il  1914; 

b)  anzi,  mentre  la  ricchezza  effettiva  e  visibile  è  forse  dimi- 
nuita, certo  deperita,  il  compenso  in  aumento  è  dato  da  ricchezza  in- 
visibile e  fittizia,  e  principalmente  da  crediti  verso  lo  Stato,  ai  quali 
non  corrisponde  alcun  maggiore  patrimonio  attivo  dell'Ente  debi- 
tore, ma  ana  s'aggiungono  altri  maggiori  debiti  verso  l'Estero; 

e)  il  reddito  imponibile,  nominalmente  aumentato,  è  sostan- 
zialmente diminuito,  in  quanto  manca  rispetto  a  una  maggiore  quota 


360  NOTIZIE  INTORNO  ALLE  IMPOSTE  IN  ITALIA 

di  ricchezza  invisibile  o  fittizia  (gioielli,  carta)  e,  mentre  aumenta  in 
apparenza  in  certi  rapporti  di  capitale  puro,  si  è  contratto  nei  rap- 
porti della  produzione  e  del  lavoro,  cioè  dei  fattori  di  ricchezza  utile 
e  reale. 

Se  a  queste  proposizioni  intomo  alla  ricchezza  e  al  reddito  na- 
zionale, avviciniamo  la  sonuma  di  imiposte  pagate  nel  1914  e  nel  1921, 
la  conclusione  più  probabile  è  la  seguente  :  «  La  pressione  tributaria 
rispetto  alla  ricchezza  privata,  non  manifesta  un  aggravamento  molto 
sensibile,  e  tanto  meno  corrispondente  alle  nuove  maggiori  spese  con- 
seguenti alla  guerra.  Un  aggravamento  più  rilevante  potrebbe  invece 
riscontrarsi  rispetto  ai  redditi  dei  cittadini  ».  Più  particolarmente, 
mentre  sono  divenute  più  notevoli  alctme  forme  di  ricchezza  e  di  red- 
dito che  si  sottraggono  del  tutto  o  più  facilmente  a  imposta,  altre  su- 
biscono in  compenso  una  maggiore  pressione  che  non  avanti  guerra; 
ed)  è  poi  dubitabile  se  una  parte  della  maggiore  pressione  non  di- 
penda da  accumulo  di  imposizioni  non  pagate  nel  tempo  in  cui  red- 
diti e  aumenti  di  ricchezza  maturavano. 

Cioè  non  riteniamo  ne  esatta  né  opportuna  una  diversa  e  recisa 
affermazione  generale,  che  servirebbe  soltanto  a  mantenere  uno  stato 
di  incoscienza  pubblica  di  fronte  alle  maggiori  necessità  del  dopo- 
guerra; o  ai  molti  che  trovano  comodo  generalizzare  singoli  casi  di 
massima  imposizione,  per  strillare  più  dei  colpiti  e  nascondere  e 
mantenere,  alle  spalle  di  questi,  il  loro  privil^io  o  il  minore  gra- 
vame. 

Più  utile  e  conclusiva  può  essere  invece  la  considerazione  delle 
singole  specie  di  imposta. 


III. 

Le  irmposte  straordinarie^  di  guerra 
e  la  ripartizione  delle  imposte  ordinarie. 

9.  Dalla  somma  generale  delle  imiposte  vanno  anzitutto  separate 
le  imposte  straordinarie  di  guerra.  Esse  sono: 

gli  ultraprofìtti  dipendenti  dalla  guerra  e  gli  aumenti  patri- 
moniali da  essi  derivanti;  imposte  che  si  sono  poi  fuse  nella  cosidetta 
confisca  dei  sovraprofitti; 

il  centesimo  sui  pagamenti  di  guerra  (quello  sui  redditi  es- 
sendo invece  divenuto  una  addizionale  normale); 

il  contributo  personale  di  guerra,  per  servizio  militare  non 
prestato; 

la  seconda  quota  di  imposta  patrimoniale  aggiunta  eccezio- 
nalmente alle  rate  dall'aprile  1921  al  1922,  in  conto  pane  (gli  altri 
raddoppiamenti  o  inasprimenti  dello  stesso  conto  sembrano  invece 
destinali  a  restare,  anche  dopo  cessata  codesta  eccezionale  gestione 
di  guerra). 

Codeste  imposte  straordinarie  (1)  non  dovrebbero  entrare  nel  no^ 

(1)  Le  imposto  straordinarie  di  guerra  (esclusa  la  patrimoniale)  dall'ini- 
zio della  guerra  a  tutto  il  31  dicembre  1921  hanno  reso  L.  6,341,356,060  di  cui 
i  soli  aovraprofitti  diedero  L.  5,402,666,064.   Nel  primo  bimestre  del   1922  si 


NOTIZIE  INTORNO  ALLE  IMPOSTE  IN  ITALIA  361 

stro  calcolo  della  pressione  tributaria,  sia  perchè  esse  sono  destinate 
a  scomparire  dai  prossimi  bilanci,  sia  perchè  tutte,  meno  l'ultima, 
non  si  applicano  a  redditi  attuali,  ma  a  sopraredditi  eccezionali  rea- 
lizzati nel  periodo  1915-1920.  Si  può  dubitare  soltanto  se,  come  la  im- 
posta straordinaria  sui  sovraprofitti  assorbiva  anche  una  quota  di 
redditi  altrimenti  soggetta  alla  normale  imposta  di  R.  M.,  così  an- 
che il  pagamento  di  essa  protratto  in  questi  ultimi  anni,  produca 
qualche  effetto  analogo  a  scapito  degli  accertamenti  normali  dei  red- 
diti 1920-21  e  seguenti  per  la  stessa  imposta  di  R.  M. 

Comunque,  sottraendo  dalla  somma  delle  imposte  erariali  e  lo- . 
cali  accertate  nel  1920-21  (milioni  13.354)  la  somma  di  codeste  im- 
poste straordinarie  riferite  alla  guerra  ma  accertate  nello  stesso 
1920-21  (milioni  2.115)  rimangono  11.239  milioni  come  complesso  nor- 
male di  imposte  ordinarie,  al  quale  meglio  possono  applicarsi  le 
nostre  ricerche  sulla  pressione  tributaria.  Confrontando  allora  gli 
11.239  milioni  del  1920-21  con  i  2.764  milioni  del  1913-14,  ne  risulta 
dimostrata  una  progressione  tributaria  appena  corrispondente  al 
mutato  valore  della  lira,  e  attenuato  l'aggravamento  di  pressione 
prima  indicato. 

Conviene  però  avvertire  che  nei  prossimi  anni,  a  cominciare 
dallo  stesso  1921-22  e  1922-23,  i  bilanci  uflBciali  prevedono  compen- 
sata la  diminuzione  delle  imposte  straordinarie  con  un  ulteriore  au- 
mento delle  ordinarie.  Ciò  è  già  vero  per  il  1921-22,  e  potrà  essere 
in  parte  vero  anche  negli  anni  seguenti  per  lo  sviluppo  di  alcune 
imposte  dirette  e  personali;  ma  naturalmente  tutto  dipende  dalla 
politica  finanziaria  che  sarà  seguita  e  dalle  vicende  economiche, 
nelle  quali  qui  non  vogliamo  entrare. 

10.  La  ripartizione  della  somima  delle  imposte  ordinarie  nelle 
tre  grandi  specie  (dirette,  sugli  affari,  sui  consumi)  va  fatta  diversa- 
mente dalla  consuetudine  ufficiale,  conforme  la  seguente  tabella: 

1913-14  1920-21  I  1921-22  1922-23 

Imposte  (accertam.)  (accertam.)  (otto  mesi)  (preTisioni) 

Erariali:  dirette       607.744.2f54  2.045.401.336  1.801.930.385  2.427.480.000 

sugli  affari       261.539.363  1.352.072.'073  1. 145  milioni  1.646.000.000 

suicousumi  1. 138. 9ól.  125  5.491.295  484  4.071.401.693  6.165.000.000 

Locali  :  dirette        456  milioni  1. 494  milioni  —  (?) 

sui  consumi     300      >                 856       »     (1)  —  (?) 

i ^ 

Totale     2.764  milioni     11.239  milioni 

Ne  risulta  che,  mentre  le  imp)oste  dirette  dal  1914  al  1921  sono 
poco  più  che  triplicate,  le  imposte  erariali  sugli  affari  e  sui  consumi 
sono  qmntuplicate.  Mentre  prima  della  guerra  l'equilibrio  empirico 
tra  imposte  dirette  e  indirette  (2)  poteva  sembrare  una  mèta  non 

sono  accertate  ancora  L.  192,448,449,  e  fino  all'esaurimento  potranno  realizzarsi 
forse  ancora  due  miliardi.  Chi  ne  avesse  vaghezusa  e  modo  potrà  constatare  se- 
l'importo  corrisponda  in  alcuna  guisa  a  quella  confisca  cui  era  stata  intitolata  la 
legge,  e  se  in  generale  in  un  determinato  regime  economico  siano  attuabili 
leggi  di  un  opposto  contenuto  morale. 

(1)  Ritengo  codesta  cifra  inesatta.  Con  gli  ultimi  inasprimenti  daziari  si 
dovrebbero  passare  i  1000  milioni. 

(2)  Le  imposte  dirette  prevalgono  in  Inghilterra,  Germania,  Stati  Uniti,. 
Svezia,  Norvegia.  Prevalgono  invece  le  indirette  sui  consumi,  in  Francia,  Bel- 
gio, Spagna,  Rumania,  Bulgaria. 

24  Voi.  CCXVII.  serie  VI  —  16  aprile  1922. 


362  NOTIZIE  INTORNO  ALLE  IMPOSTE  IN  ITALIA 

molto  lontana,  gravando  sulle  prime  le  sovrimposte  locali;  oggi  lo 
squilibrio  nelle  imposte  erariali  a  carico  dei  consumi  è  meno  che 
mai  compensabile  dall'inversa  proporzione  delle  imposte  locali.  Su 
100  di  imposte  pagate  nel  1921 

31  sono  di  imposte  dirette 

12  sugli  affari 

57  sui  consumi 

100 

Rifacendo  il  conto  del  carico  medio  annuale  per  ogni  abitante, 
troviamo  : 

per  imposte  straordinarie  lire  59 
*        »  ordinarie  »    312,  di  cui  per  imposte  dirette  .    .   (erar.)   57    lire 

(loo.)    42 
sugli  affari  38        > 

sui  consumi  (erar.)  153  > 
(loo.)  28(?)  . 
La  media  ohe  ha  un  semplice  valore  aritmetico  rispetto  alle 
prime  specie  di  imposte,  ha  invece  un  valore  quasi  reale  per  le  im- 
poste sui  consumi  diffuse  in  tutti  gli  strati  di  popolazione.  Rimane 
soltanto  da  vedere,  se  l'aggravio  maggiore  sui  consumi  che  non  sulla 
ricchezza,  dipenda  dall'ordinamento  delle  imposte  e  dalle  aliquote, 
o  dallo  sviluppo  della  quantità  di  materia  imponibile,  specialmente 
in  unepoca  come  questa  accusata  di  consumare  più  di  quanto  pro- 
duca. 


IV. 

Le  imposte  sia  consumi  e  stigli  affari. 

li.  Le  imposte  sui  consumi  vanno  suddivise  secondo  gli  og- 
getti e  secondo  il  momento  e  il  sistema  dell'accertamento. 

Presso  i  Comuni  l'unica  grande  imposta  è  il  dazio-consumo;  le 
altre,  come  il  valore  locativo,  le  vetture  e  i  domestici,  pianoforti,  ecc., 
non  contribuiscono  che  con  poche  decine  di  milioni. 

Presso  lo  Stato  si  hanno  : 

1918-14  1020-21  ini-M  l»S2-tt 

(accertam.)  (accertam.)  (otto  mesi)  (preTisionl) 

Monopoli  (1)  551.462.674    3.660.436.662    2.557.652.437    3.392.950.000 

Imp.  su  fabbricaz.  218  063  693        625.379.386        522.410.634        931.830.000 

.     .    vendite       —    —    —         569.521.726        433.446.960        990.000.000 

»  »  divertim.  e 
mezzi  di  trasp.  26.773.758  210.492.682  161.728.462  275.000.000 
Dog.e  dir.  maritt  (1)342.  b62. 000  525.466.178  396.163.220  675.000.000 
Le  maggiori  variazioni  nel  tempo  sono  date  piìi  che  dagli  svi- 
luppi nella  materia  dei  consumi,  da  mutamenti  di  aliquote  e  da 
nuove  imposte.  Nel  1920  e  21  vi  è  tra  i  monopoli  quello  del  caffè,  che 
non  esisteva  avanti  guerra,  e  che  nel  1922  si  trasforma  in  una  delle 

(1)  Ripetiamo  che  nella  tabella  non  sono  comprese  le  quote  di  cambio  per 
dazi  di  importazione,  che  andrebbero  aggiunte  ai  proventi  doganali:  sono  da 
aprile  a  luglio  1921  circa  97  milioni;  e  da  luglio  a  dicembre  1921  circa  396  mi- 
lioni. Sono  compresi  invece  i  proventi  dei  monopoli  e  di  qualche  minore  impo- 
sta nelle  nuove  Provincie,  per  oltre  200  milioni  nell'ultimo  anno. 


NOTIZIE  INTORNO  ALLE  IMPOSTE  IN  ITALIA 


363 


tante  nuove  imposte  sulle  vendite.  I  fiammiferi  che  avanti  guerra 
erano  sog:g-etti  a  imposta  di  vendita,  ora  sono  monopolio;  le  lampa- 
dine elettriche  sono  state  monopolio  per  poco  più  di  un  anno.  Ol- 
tre le  imposte  sulle  vendite,  sono  nuove  anche  le  imposte  di  fabbri- 
cazione saponi  e  tessuti  di  lusso,  e  quella  sui  cinematografi  (fine  1914). 

12.  Monopoli.  I  monopoli  costituiscono  oggi  più  assai  che  avanti 
la  guerra  il  grosso  dei  consumi  tassati.  Ma  nel  monopolio,  conviene 
avvertire,  non  tutto  è  imposta;  una  parte  è  costo  della  materia  o  del 
prodotto,  quale  si  avrebbe  anche  senza  imposta  su  libero  mercato. 

La  ripartizione  non  è  però  così  semplice  come  a  dirla,  perchè 
bisognerebbe  distinguere  :  il  costo  di  produzione  e  il  costo  di  esazione 
comune  a  ogni  imposta;  il  costo  del  prodotto  all'ente  monopolista  e 
il  costo  probabile  per  un  libero  produttore  o  commerciante;  il  mar- 
gine tra  costo  e  prezzo  di  vendita  in  regime  di  monopolio  e  il  mar- 
gine in  regime  di  libertà.  Perchè,  se  è  vero  che  spesso  il  costo  di  pro- 
duzione è  più  grave  per  lo  Stato,  ciò  non  significa  senz'altro  che  il 
prezzo  di  vendita  libera  diventerebbe  di  altrettanto  più  lieve;  se  anzi, 
sp>ecialmente  in  tempi  di  grande  squilibrio  e  speculazione  come  gli 
ultimi,  il  commercio  libero  tende  a  portare  tutti  i  prezzi  al  massimo 
possibile  e  prevedibile. 

Qui  ci  accontentiamo  di  segnare  approssimativamente,  accanto 
al  provento  lordo,  quello  che,  sui  dati  dell'Amministrazione,  può 
considerarsi  il  profitto  industriale  di  ciascun  monopolio  avanti  e 
dopo  la  guerra,  e  quindi  la  percentuale  del  costo  di  produzione  sul 
provento. 


Proventi 


1913-14 


Ctsto 

KTOfL 


1920-21 


Tabacchi 


Sali 


netto 
lordo 
netto 

Fiammileri<    , 

{  al  netto 


al  lordo  L.  349. 827. 344  L.  2. 445. 496. 128 

260   milioni 


l  al 
\  al 
(  al] 
fai 


.     90. 190. 703 
»     73  milioni 


19% 


Carte 
da  gioco 

Chinino  . 


(  ai: 

<al: 


Lotto.     . 

Caffè 
e  surrog. 


11.953.880 

1.149.814 

3. 167. 270 

800mila 

107.127.543 

60.000.000 


75% 


44% 


lordo  » 

netto  » 
al  lordo  » 
al  netto  > 
al  lordo  » 

al  netto  » 
UIC  vMte 
lordo  » 
netto  » 
Lampadine(  al  lordo  » 
elettriche    \  al  netto  » 

Lasciamo  al  lettore  (che  può  essere  anche  consumatore  e  cono- 
scitore delle  variazioni  nei  prezzi  degli  oggetti  di  monopolio)  i  facili 
rilievi  sulle  singole  materie. 

Dalla  tabella  risulta  che  la  somma  di  imposta  percepita  su  co- 
desti consumi  si  riduce  veramente  a  circa  407  milioni  nel  1913-14,  e 
2.260  nel  1920-21,  il  resto  essendo  costo  del  prodotto.  Gorrisponden- 


(  ai; 

\  al: 


1.700  milioni 
133. 306. 806 
25  milioni 
167. 560. 680 
77  milioni 
7. 797. 653(1) 
6.300  mila 
13. 470. 493 
1.500  mila 
269. 412. 357 
150. 992. 780 

501.  823. 357 
280  milioni  (?) 
20. 069.075(1) 
19.500  mila 


teb 

PCfCCH. 

31% 


81% 


54% 


19% 


89% 


44% 


44% 


3% 


1921-S2 
(otto  mesi) 

L.  1.743. 885.322 

»      101. 016.848 

»      118.897.336 

5. 783.243 

8.486.387 

209.425.615 
120. 093.460 

360. 771.553 
9. 376.133 


(1)  La  materia  è  provveduta  dalle  fabbriche  private.  La  spesa  è  quindi 
minima,  e  non  comprende  la  produzione  vera  e  propria.  Anche  per  le  carte 
da  gioco  ormai  si  ritorna  al  bollo  sulla  vendita. 


364  NOTIZIE  INTORNO  ALLE  IMPOSTE  IN  ITALIA 

temente  va  anche  ridotta  da  153  a  120  lire  per  abitante  la  media  an- 
nua pagata  per  imposte  erariali  sui  consumi,  e  da  371  a  338  la  media 
per  imposte  d'ogni  specie.  D'altro  canto  è  di  notevole  interesse  e  di 
aiuto  nelle  previsioni  per  il  futuro,  conoscere  quanta  parie  dello  svi- 
luppo dei  monopoli  sia  dato  da  aumento  della  materia  consumata,  o 
da  semplice  aumento  di  tariffe.  Per  il  lotto,  essendo  rimasta  eguale 
la  probabilità  delle  vincite,  le  giocate  sono  aumentate  meno  di  quanto 
la  lira  è  svilita.  Degli  altri  prodotti  risulta: 

Prodotti  rendati  1918-14 


Tabacchi  :  da  fiuto 


Kg.    1.810.545 


1920-21 

Peroento 

in  cf.  del  191814 

2, 353. 000 

130 

7.175.800 

129 

7. 420. 200 

85 

11.006.000 

282 

29.346 

104 

2.  536.  634 

121 

205. 161 

108 

413. 610 

137 

3. 184. 144 

84 

61.769.155 

116 

313.850 

106 

75.000 

118 

30.222 

122 

trinciati  ...       »       5.575.323 

sigari.      ...»       8.714.211 

sigarette.      .      .        »       3.899.877 

esteri.     ...       »  28.115 

Sali:  comune     .      .      .      Q.li  2.097.508 

macinato  e  raffin.      »         189. 068 

indust.  e  pastor.  *  300. 913 
Carte  da  gioco,  mazzi  .  .  .  N.  3.  793.  512 
Fiammiferi  ....  migliaia  53.830.461 
Caffè,  entrato  in  Italia  .  .  Q.li  297. 116 
Surrogati  di  caffè  ....     »  63. 359 

Chini])o  (senza  l'esport.)  .     .   Kg.         24. 707 

Se  si  tiene  conto  dell'aumento  di  popolazione  nel  settennio,  del 
fatto  che  nei  monopoli  sono  ora  comprese  anche  le  Nuove  Provin- 
cie (1),  e  della  estensione  particolare  del  consumo  di  tabacchi  in  nuovi 
strati  di  popolazione  (minori,  donne,  smobilitati)  molte  esagerazioni 
o  illusioni  intomo  all'aumento  dei  consumi  devono  scomparire.  Il 
consumo  medio  per  abitante  è  passato  da  550  a  660  gr.  di  tabacco, 
e  da  7  a  8  kg.  di  sale,  senza  accentuare  eccessivamente  il  modulo 
d'aumento  degli  anni  pi-ecedenti  la  guerra.  Se  poi  si  tiene  conto  che 
il  1920-21  ha  goduto  forse  delle  ultime  illusioni  di  maggiore  flori- 
dezza e  commercio  del  dopo-guerra,  e  che  la  crisi  economica,  la  ri- 
duzione dei  salari,  la  disoccupazione  si  aggravano,  le  prospettive 
non  possono  essere  troppo  liete. 

13.  Fabbricazioni.  Le  imposte  di  fabbricazione  hanno  avuto 
minore  incremento  di  proventi,  ma  maggiore  di  materia  accertata. 
Gas  e  zucchero  sono  però  diminuiti  anche  in  quantità. 

Imposte  su           ProTentl  rise,  in  migliaia  di  lire  Quantità  Uisate,  in  migliaia  dì 

nel  1918-14     1920-21         1921-22  1918-14  1920-21  1921 -tt 

(Otto  mesi)  it>ei  meei) 

Spiriti L.  43.080        170.444        I96.33&  Ea.              178  287  185 

Birra 9.488          40.004          26  n23  Bl.               662  1.166  660 

Polveri 3.921            3.732            3.150  Q.Ii                39  89  1$ 

Zuccliero  e  gluc.     .     140.598        288.126        S28.S14  Q  li          2.006  1.461  7SS 

elettricità.    .     1  "''^  ^'^^  '"•"*^  Kwh.  196.768  368.007  m.»7« 

Saponi —  26.019  18.057  Q.li         (?)  881  Wl 

Tessuti  lu380  e  guanti  —  71.644  29.896                      —  —  — 

Altre 8,32»  6.09»  —                          -  -  — 


218.060        6S5.r6 

(1)  Esse  hanno  contribuito  nel  1920-21 

al  provento  dei  tabacchi.       con  oltre  160  milioni  di  lire 

»  »  »     sali  »     meno     8        *>        »  » 

»  »    •      »     fiammiferi      »    oltre  12        »        »  » 


NOTIZIE  INTORNO  ALLE  IMPOSTE  IN  ITALIA 


366 


14.   Vendite.  Non  è  possibile  un   confronto    con    l'ante-guerra, 
perchè  tutte  di  nuova  istituzione. 


ProTenti  accertati 

Previsioni 

Imposte  su 

1920-21 

1921-S2 
(otto  mesi) 

1921-S2 

Oioielli 

L. 

24.097.021 

10.  925. 806 

35  milioni 

Profumerie  e  medicinali 

43. 076. 648 

30.  257.  ?^ 

50        . 

Vino 

311.114.477 

190. 967. 301 

500 

Acque  e  liq.  in  bottiglia 

21.537.183 

18. 185. 107 

35 

Conti  di  trattoria    . 

5. 386.  976 

3.412.686 

10 

Oggetti  di  lusso     . 

66. 110. 239 

135.  069. 352 

350 

Olii  minerali  esteri 

29. 199. 182 

44.629.415 

14        > 

È  impressionante  il  fatto  che  tutte  le  imposte  sulle  vendite  hanno 
reso  meno  di  quello  che  se  ne  aspettava;  il  che  può  dipendere  o  da 
una  difficoltà  generale  di  accertamento  o  da  difetto  specifico  dei  me- 
todi prescelti. 

Sul  vino  in  particola»re  erano  fondate  grandi  speranze.  Ma  il 
non  averne  saputo  coordinare  l'imposta  erariale  con  i  dazi  comu- 
nali, le  basi  e  i  metodi  empirici  e  incostanti  di  accertamento,  la  in- 
certezza politica  dei  Governi  sensibilissimi  agli  ammutinamenti  degli 
interessati,  la  incostanza  delle  tariffe  (prima  10,  poi  30,  poi  20  lire) 
e  la  loro  sproporzione  ai  prezzi  di  vendita,  minacciano  l'essenza  di 
codesto  cespite.  Delle  materie  tassate  i  dati  sono  scarsi: 

Eaccolto  vino  1919 El. 

Quantità  tassabile » 

Imposta  accertata L. 

di  cui  li6  ai  Comuni » 

15.  Divertimenti  e  mezzi  di  trasporto.  Hanno  dato  questi  pro- 
venti (1)  : 


35.  000.  OCiO 

1920  El.  42. 300. 000 

23. 977. 400 

»     27. 300. 000 

239. 774. 027 

'      ? 

39.  962. 337 

? 

Imposte  su 

Velocipedi  e  automobili  .  .  L. 

Biglietti  tramv.  e  ferravie  .  » 

Ooncessioni  governative.  .  » 

Cinema  e  spett.  pubbl.  .  .  > 

Totale  L. 


1913-14 

7.236.916 

5. 095. 110 

14.353.558 

(302.824) 


192021 

83.211.263 
27. 121.  244 
46. 300. 224 
53.859.321 


lt21-22 
(otto  mesi) 

56.836.003 

29.819.053 

35. 197. 951 

39. 875. 445 


26.988.408  210.492.^2  161.728.452 


(1)  SnUe  quantità  di  materia  imponibile  sono  scarse  le  notizie: 

1913-U  1920-21 

Velocipedi.      .     .      .     N.  1.224.603  1.611.453 

Motocicli  ....     »  17.155  28.433 

AutomobiU     ...»  21.225  42.404 

Sulla  contrazione  del  traffico  f«rroviario  abbiamo  per  ora  soltanto  i 

guenti  dati: 

1913-U  1919-20  19t0.21 

Percorso  treni  viagg.   Tonn.  Km.        72.811.988  46.850.857  48.963.000 

Percorso  treni  merci        »          »        44.888.039  49.276.296  52.048.000 

Peso  merci  accettate.     .     Tonn.      41.421.872  39.727.332  38.806.000 

Traffico  merci.     .     Tonn.   Km.  7. 069.8S5. 113  9.795.568.251  8.986.470.000 


se- 


366  NOTIZIE  INTORNO  ALLE  IMPOSTE  IN  ITALU 

16.  Dogane  e  dazi.  Sui  proventi  delle  dogane  e  diritti  marittimi 
non  ci  soffermiamo,  perchè  un  esame  particolare  della  materia,  che 
volesse  tenere  conto  delle  diverse  specie  di  merci,  quantità,  valori, 
tariffe,  ecc.,  esige  da  solo  tutto  uno  studio,  e  dovrebbe  essere  sempre 
considerato  assai  più  sotto  l'aspetto  economico  che  finanziario.  Certo 
le  ultione  tariffe  hanno  contribuito  anch'esse  alla  contrazione  dei  com- 
merci intemazionali. 

I  dazi  comunali  si  distinguono  in  chiusi  e  aperti,  e  i  dati  ultimi 
raccolta  in  occasione  della  prossima  riforma  dei  tributi  locali,  sareb- 
bero i  seguenti  : 

Anno  1914  <  1921 

Comuni  chiusi:  Introito  milioni  206  570  (?) 

Spese  di  riscossione  »          84  112  (?) 

Comvini  aperti:  Introito  »          68  205  (?) 

Spese  di  riscossione  »            9                              (?) 

Ma  l'introito  è  calcolato  sul  preventivo  bilancio  dei  Comuni  chiusi 
e  sui  loro  computi  degli  effetti  degli  inasprimenti  daziari  7  aprile  1921; 
credo  che  le  riscossioni  complessive  si  avvicineranno  invece  al  mi- 
liardo. Nelle  spese  credo  non  sia  compreso  né  l'ammortamento  del 
capitale  c'nta  daziaria,  né  i  due  caroviveri  concessi  agli  impiegati, 
perchè  l'uno  non  è  annotato  in  bilancio  e  i  secondi  sono  confusi  nella 
parte  straordinaria  con  quelli  di  tutti  gli  altri  impiegati.  Certo  'n  al- 
cune città  dell'Alta  Italia  La  spesa  effettiva  raggiunge  dal  30  al  50  % 
dell'introito.  Tanto  meno  possediamo  dati  precisi  intorno  alla  quan- 
tità di  merci  daziate.  Risulta  solo  che  nel  1914,  su  un  introito  com- 
plessivo di  oltre  273  milioni,  quasi  112  erano  dati  dal  vino  e  67  dalle 
carni,  nel  1919  su  278  milioni,  HO  sono  stati  di  vino,  e  57  di  carni; 
e  il  rimanente  suddiviso  su  parecchie  decine  di  voci,  qu£isi  tutte 
consumi  di  prima  necessità. 

Questi  rilievi,  l'ingombro  ai  commerci  e  la  sottrazione  di  tante 
braccia  alla  produzione,  sembrano  elementi  più  che  sufficenti  per 
confermare  la  necessità  di  una  riforma. 

17.  Imposte  Siigli  affari.  Gli  affari  propriamente  detti  non  com- 
prendono, come  comunemente  e  nelle  statistiche  ufficiali  s'intende, 
le  successioni  che  danno  un'imposta  diretta,  né  altre  imposte  minori 
che  sono  sul  consumo  per  quanto  abbiano  in  comune  il  metodo  di 
accertamento  col  bollo  (vi  sono  circa  320  specie  di  bolli  nella  nastra 
Amministrazione  finanziaria!).  Un'altra  parte  delle  tasse  di  registro  e 
ipotecarie  dovrebbe  esulare  da  questa  categoria,  in  quanto  potreb- 
bero piuttosto  ritenersi  proventi  di  servizi  pubblici  (1).  Ma  anche  per 
la  mancanza  di  dati  recenti  sulla  materia  (l'ultima  statistica  uflBciale 
è  del  1914-151)  dobbiamo  qui  conservare  le  indicazioni  più  generiche, 
e  interdirci  una  serie  di  ricerche,  forse  le  più  interessanti,  intomo 


(1)  Per  es.  la  tassa  di  registro  sulle  sentenze  dell'autorità  giudiziaria,  che 
nel  1920-21  ha  reeo  forse  11  milioni.  I  monopoli,  dove  la  merce  è  venduta  con 
un  margine  di  profitto  per  lo  Stato,  e  i  servizi  pubblici  che  non  sempre  come 
oggi  sono  concessi  a  sottocosto,  hanno  evidenti  caratteri  di  affinità,  e  segnano 
un  ponte  di  passaggio  tra  l'attività  finanziaria  e  l'attività  sociale  dello  Stato. 


NOTIZIE  INTORNO  ALLE  IMPOSTE  IN  ITALIA 


367 


allo  sviluppo  complessivo  dei  singoli  atti  economici  che  soggiacciono 
a  codeste  imposte,  e  alla  loro  distribuzione  regionale. 


Proventi  da 


1913-14 


Tasse  registro L. 

Tasse  ipotecarie 

Bollo  su  atti  civ.  comm.  e  giudiz. . 
BoUo  su  biglietti  Istituti  emissione 
Tasse  surrogaz.  reg.  e  boUo  . 

Contributo  mutilati  (1) 

Movimento  merci  ferrovie  tramvie . 
Atti  consolati  e  legazioni. 


94.431.641 
11. 137. 260 
73. 484.  816 
1.869.276 
28.615.806 
a.  621. 638) 
43. 436. 209 
942. 717 


1920-Sl 

491. 698. 208 

78. 484. 041 

248.554.526 

313. 124. 968 

95. 675. 732 

47. 956. 690 

76.754.865 

4.840.043 


1921-22 

(otto  mesi) 

350. 525. 46& 
50. 766. 775- 

191.  520. 283 

273. 148. 942 
97. 644. 349 

123.324.119 
48  milioni 
10. 130. 505. 


261.539  363  1.352.089.073   1.145  mil. 


Le  tasse  di  rostro  e  ipotecarie  mostrano  uno  sviluppo  costante, 
di  cui  non  ci  è  noto  quanto  dipenda  da  aimiento  di  tariffe  o  degli 
affari  accertati.  Tutte  le  altre  sono  piuttosto  in  r^resso  in  confronto 
del  diminuito  valore  della  lira.  Trionfano  solo  i  biglietti  degli  Isti- 
tuti di  emissione,  aumentati  in  misura  singolare,  specialmente  nella 
quota  che  eccede  l'ultimo  limite  di  legge  e  ohe  pa^a  la  tassa  più  alta 
assorbente  tutto  il  profìtto;  un  decreto  emanato  ultimamente  x)6r  l'ac- 
cantonamento di  un  terzo  della  tassa,  ha  però 'già  ridotto  il  provento 
di  gennaio  1922  a  sole  L.  118,614,665,  in  confronto  di  gennaio  1921 
(L.  150,523,165)  (2). 


V. 

Le  imposte  dirette,  reali  e  personali 
e  la  pressione  tributaria  su  terra,  fabbricati,  e  ricchezza  mobile. 

18.  La  pressione  tributaria  può  essere  m^lio  valutata  in  rapporto' 
alle  imposte  dirette. 

Alcune  di  esse  si  riferiscono  specificamente  alle  tre  grandi  specie 
di  beni  e  di  redditi  (terreni,  fabbricati,  ricchezza  mobile).  Altre  sono 
sovrimfposbe  o  addizionali  applicate  a  tutte  le  specie  di  beni,  ma  che 
possono  bene  essere  suddivise  in  quanto  il  fondamento  di  esse  ri- 
mane reale  e  direttamente  proporzionato.  Un  ultimo  gruppo  invece 
è  costituito  da  imposte  personali,  che  si  riferiscono  al  complesso  dei 
beni  o  dei  redditi  appartenenti  a  ciascuna  persona  o  famiglia,  e  che 
potrebbero  però  ugualmente  essere  ripartite  fra  le  tre  grandi  specie 
se  possedessimo  migliori  e  rapidi  mezzi  di  censimento  della  ricchezza 
e  delle  imposte. 


(1)  Una  parte  è  pertinente  ad  altre  imposte;  ma  mancano  i  dati  per  te- 
nerla distinta.  Per  il  1913-14  abbiamo  segnata  l'addizionale  per  il  terremoto. 

(2)  Su  materia  analoga  lo  Stato  ha  percepito  ancora,  nel  1921-22, 
L.  7,197,495  per  contributo  sulla  maggiore  circolazione  in  confronto  dei  limiti 
normali  prebellici.  Nel  1921  lo  Stato  ancora  ha  risoosso  L.  21,487,656  come 
quota  di  partecipazione  agli  utili  degli  Istituti  di  emissione  nel  1920. 


368 


NOTIZIE  INTORNO  ALLE  IMPOSTE  IN  ITALIA 


Noi  segneremo  qui  anzitutto  i  tre  gruppi  di  imposte  pertinenti 
allo  Stato,  e  pertinenti  a  Comum  e  Province,  per  potere  confrontare 
lo  sviluppo  di  ciascuna.  Poi  cercheremo  di  raggrupparle  intorno  alle 
tre  maggiori  specie  di  beni  o  di  redditi,  per  le  ultime  conclusioni  in- 
tomo  alla  pressione  tributaria. 


Imposte  dirette  erariali. 


I.  Reali. 

A)  sui  fondi  rustici  .... 
sui  teiT.  bonif.  e  ris.  di  caccia 

B)  sui  fabbricati 

C)  sulla  ricchezza  mobile   . 
su  amm.,  dirig.,  e  div.  di  società 

Centesimo  sui  redditi 
Addizionale  mutilati  (terremoto) 

II.  Personali  e  globali. 
Complementare  sui  redditi . 
Patrimoniale  (rata  semplice)     . 

Successioni 

Manomorta 


1918-14 

81.639.362 

112.883.380 
346. 216. 069 


(10. 586. 743) 


50.451.463 
6.017.256 


i9S>-ti  ini.ts 

(otto  mesi) 

115.625.611      77.96a375 

1.415.728  868.845 

169. 350. 504    115. 827. 930 

935. 332. 31 J     846.608.812 

46. 493. 814      50. 202. 827 

100. 000. 000(?)107. 663. 396 

24.993.518   63.044.383 


89. 456. 234 

375. 187. 580 

180. 973. 621 

6  572.415 


136.813.009 

264. 571. 028 

131. 340. 833 

7.081.548 


607. 744. 263  2.045.401.336  1. 801.990. 385 


Imposte  dirette  locali. 


I.  Reali. 

A)  Sovrimp,  com.  terreni 

»  prov.  » 

B)  Sovrimp.  com.  fabbricati 

»  prov.         » 

C)  Sovrimp.  com.  R.  Mob. 

»  prov.  » 

Imposta  bestiame  . 
»        esercizi  e  riv. 
II.  Personali  e  globali. 
Imposta  di  famiglia . 


1914 

129. 041. 057 
75. 470. 938 
93. 635. 369 
62. 405. 244 


27  milioni 
20        » 


45 


468 


1921 

452.  673. 599 

214. 400. 886 

247.925.967 

139. 079. 556 

45. 056. 818 

4a  928. 617 

106   milioni 

99 

141 
1494        » 


Limitiamoci  a  pochissiime  delle  molte  osservazioni  che  la  tabella 
suggerisce.  Gli  accertamenti  dei  redditi  imiponibili  di  beni  immo- 
bili sono  isempre  gli  antichi,  tranne  qualche  revisione  saltuaria  nei 
fabbricati.  Le  aliquote  erariali,  quasi  imimitate  all'infuori  delle  due 
addizionali,  tengono  cristallizzato  il  proventi);  mentre  il  provento 
delle  sovrimposte  locali  si  sviluppa  secondo  il  diverso  empirico  mol- 
tiplicarsi dei  centesimi  comunali  e  provinciali. 

Gli  accertamenti  della  ricchezza  mobile  seguono  invece,  per 
quanto  in  ritardo,  il  movimento  economico  e  il  mutamento  dei  var 
lori,  con  poche  o  nessuna  modificazione  delle  aliquote  e  di  ingiusti 
privilegi  o  evasioni.  Si  aspetta  la  riforma,  in  attesa  della  quale  si  è 
accertata  assai  provvisoriamente  una  empirica  imposta  complemen- 
tare per  redditi  complessivi  superiori  alle  diecimila  lire,  e  con  ali- 
quote ora  raddoppiate.  La  patriinoniale  è  ancora  in  corso  di  accer- 
tamento delle  denunce  provvisoriamente  accettate. 


NOTIZIE  INTORNO  ALLE  IMPOSTE  IN  ITALIA  369 

Molti  Comuni  perseguono  buoni  aocertamienti  éel  bestiame,  del 
movimento  degli  esercizi  e  rivendite,  e  dei  redditi  famig-liari,  ma 
sono  spesso  ostacolati  dallo  Stato  e  dagli  org-ani  di  tutela. 

Le  successioni  aggravate  di  molto  con  le  nuove  aliquote  del  1920, 
non  hanno  dato  il  provento  sperato,  sia  per  le  maggiori  evasioni 
anche  più  facili  in  un  periodo  di  grandi  mutamenti  economici,  sia 
per  l'accennata  maggiore  quota  di  ricchezza  privata  invisibile. 

Ora  piuttosto,  valendoci  degli  stessi  materiali  della  tabella,  cer- 
chiamo di  ricostruire  tre  conti  diversi,  per  ciascuna  delle  tre  mag- 
giori specie  di  beni  e  redditi. 

19.  Terra.  Contribuisce  con  le  seguenti  quote  : 

1014  1920-21 

Imposta  erariale  sui  fondi,  t.  bonifica  e  riserve 

compreso  il  centesimo  e  l'addizionale      .  L.  83. 149.655  137.726.794 

Sovraimposte  comunale  e  provinciale     .     .      .  204. 511. 995  667. 074. 485 

Quota  appro?s.    delle  imp.   personali  globali  (1)  36  milioni  800   milioni 

Totale    324  milioni         1105   milioni 

Con  gli  aumenti  e  le  rettifiche  delle  addizionali,  della  comple- 
mentare e  della  patrimoniale  potranno  diventare  più  avanti  1200 
milioni. 

La  terra  è  qui  intesa  non  nel  senso  del  complessivo  reddito  agri- 
colo (di  cui  buona  parte  è  tassata  con  R.  M.,  e  con  tassa  bestiame) 
ma  di  esclusivo  reddito  dominicale  dell'immobile.  Ciò  però  non  ag- 
giunge maggior  valore  a  un  rapporto  complessivo  tra  imposte  e  su- 
perfìce,  per  la  diversissima  qualità  di  terreni.  Sono  in  Italia  quasi 
26  milioni  e  mezzo  di  Ettari  di  terreno  produttivo  dentro  gli  antichi 
confini,  cui  corrisponderebbe  una  tassazione  di  quasi  42  lire  per  Et- 
taro, che  nulla  dice  nella  varietà  immensa  di  altezze,  latitudini,  cul- 
ture, ecc.  Se  ricordiamo  piuttosto  che,  alla  vigilia  della  guerra,  la 
terra  era  valutata  in  44  miliardi,  la  tassazione  del  tempo  le  stava  di 
fronte  come  7,4 :  1000;  e  quindi  il  rapporto  tra  imposta  e  reddito  po- 
teva essere  ancora  inferiore  al  15%.  Oggi  la  somma  delle  imposte  sulla 
terra  non  è  ancora  quadruplicata.  Se  anche  il  valore  dei  terreni  fosse 
quadruplicato,  noi  saremmo  rimasti  a  un'aliquota  media  assai  bassa. 
Supponiamo  che  ancora  non  sia,  e  specialmente  ohe  non  sia  quadru- 
plicato il  reddito  attuale  per  i  terreni  sottopK>sti  a  limitazione  legale 
dell'affitto:  ancora  l'aliquota  media -non  potrebbe  considerarsi  grave 
rispetto  alle  aumentate  necessità  del  momento. 

La  verità  è  però  che  eccessi  e  difetti  abbondano  per  le  spere- 
quazioni da  terreno  a  terreno;  non  tanto  per  quella  transitoria  limi- 
tazione di  reddito  (2)  quanto  per  il  permanente  anacronistico  accerta- 

(1)  Abbiamo  già  detto  che  nessun  elemento  certo  poesediamo  su  codesta 
ripartizione.  Solo  per  le  successioni  abbiamo  nel  1913-14  i  seguenti  dati  di  va- 
lore lordo  ereditato:  terreni  592  milioni,  fabbricati  323,  beni  mobili  436.  Nel 
1914-15  rispettivamente:  586,  338,  402.  Nel  1915-16  rispettivamente  e  per  68 
Province:  543,  315,  368. 

(2)  Coloro  che  (Masb-Dari,  Riforma  sociale,  1922,  pag.  45)  danno  una  ec- 
cessiva importanza  a  questo  elemento,  dimenticano,  tra  l'altro,  che  esso  non 
e  ne  generale  né  assoluto,  e  che  si  può  compensare  con  i  maggiori  affitti  liberi 
nel  futuro  o  con  le  minori  imposte  pagate  nel  passato  tempo  di  guerra.   In 


370  NOTIZIE  INTORNO  ALLE  IMPOSTE  IN  ITALIA 

mento  catastale,  sul  quale  si  fondano  l'imposta  erariale,  le  addizio- 
nali, e  provvisoriamente  la  patrimoniale  e  la  complementare.  A  ter- 
reni anche  contigiii,  di  eguale  produttività,  sono  spesso  attribuiti  i 
redditi  più  diversi;  così  come  terreni  divenuti  quasi  sterili  pagano 
quanto  altri  dei  più  floridi.  Se  poi  si  avverte  che,  dei  tre  mag- 
giori elementi  onde  risulta  l'imposizione  sulla  terra,  preponderante 
su  tutti  è  quello  delle  sovrimposte  locali,  e  si  ricorda  che  queste, 
anche  in  conseguenza  del  reddito  base  male  accertato  dallo  Stato, 
variano  da  Comuni  e  Province  che  applicano  ajxpena  i  60  centesimi 
legali,  ad  altri  che  ajrrivano  fino  a  2000  centesimi,  si  può  concludere 
che  la  sperequazione  senza  limiti  è  la  norma  tra  i  diversi  terreni 
d'Italia.  Essa  può  risultare  anche  dai  seguenti  esempi  di  quote  pro- 
vinciali, dove  pure  le  maggiori  diseguaglianze  locali  si  addizionano 
e  si  attenuano  nei  più  vasti  confini  della  provincia: 

QmU  adii  Nfftì 
PROVINCE  (1)  Imp.  erariale         sovrimp.  com.  e  prov.    Centesimi         itrdilEtUit 

1920  1021  diBOvrimp.      hkiI.  fnMOn 

Novara L.  4.504.374  8.310.736  184  L.     23 

Genova »  1.610.785  3.761.266  233  15 

Caserta »  5.095.858  9.052.698  178  28 

Palermo      .....  2.116.341  .5.977890  282  17 

Ancona »  1.079.569  16.609.338  1.667  97 

Ravenna     ....        »  1.730. 182  23.034.496  1.331  149 

Grosseto     .....  573.665  6.940.705  1.085  16 

Sondrio »  219,103  2.033.346  929  11 

Verona »  2.006.451  17.096.400  852  70 

È  evidente  la  sproporzione  delle  sovrimposte,  e  se  si  sperasse  di 
argomentare  che  esse  compensano  la  deflcenza  della  imposta  era- 
riale, allora  è  questa  la  più  ingiusta  e  la  patrimoniale  e  la  com- 
plementare ohe  ne  dipendono.  I  due  errori  possono  forse  compen- 
sarsi nella  somma  della  necessità  finanziaria,  ma  mai  nell'equità 
della  imposizione  terreno  per  terreno.  Dalla  sperequazione,  come  ab- 
biamo a  priorii  osservato,  traggono  spesso  argomento  i  contribuenti 
meno  colpiti  per  mettere  innanzi  gli  esempi  di  maggiore  gravezza, 
e  nascondere  e  mantenere  dietro  di  quelli  il  loro  privilegio. 

20.  Fabbricati.  (Esclusi  i  fabbricati  rurali).  Ck)ntribuiscono  "on 

1914  1020-tl 

Imposta  erariale  sui  fabbricati 

(compresi  centesimo  e  addiz.).     .     .     .  L.  114.675.146  189.697.000 

Sovrimposte  com.  e  prov 161. 040. 613  387. 006. 523 

Quota  imp.  personali  globali 20  milioni  230  milioni 

Totale    .     295  milioni  807  milioni 

Cigni  caso  è  grave  inesattezza  confrontare  (Masé-Dari,  Ibidem^  e  Einaudi,  in 
Corriere  della  Sera,  marzo  1922)  le  imposte  del  1921  con  gli  affitti...  del  1914. 
Queeti  sono  in  media  già  raddoppiati.  Neppure  è  vero  che  le  sovrimposte  lo- 
cali siano  ad  aliquote  progressive:  ofr.  art.  5  Deor.  9  settembre  1917,  n.  1546. 
(1)  Le  Province  sono  soelte  a  caso  tra  le  più  opposte  e  non  per  confronto 
regionale.  Questo  può  essere  dedotto  piuttosto  dall'ultima  tabella.  L'alta  Italia 
fino  a  Perugia  ha  una  media  di  800  centesimi  di  sovrimposte;  il  Meridionale, 
più  il  Piemonte,  si  arrestano  a  300  centesimi.  Ciò  forse  spiega  le  trascuranze 
di  molti  ministri.  Alcune  delle  Province  indicate  hanno  già  il  nuovo  catasto; 
ma  le  sperequazioni  non  sono  minori  (p.  es.,  Ancona)  poiché  il  nuovo  è  rife- 
rito al...  1874-18851 


NOTIZIE  INTORNO  ALLE  IMPOSTE  IN   ITALL\  371 

L'aumento  delle  imposte  sui  fabbricati  daH'avanti  gnerra  ad 
Qg"gi,  è  meno  forte  di  (juello  sulla  terra,  specialmente  per  il  più  lento 
progresso  delle  sovrimposte  locali  le  quali,  svincolate  dal  legame 
con  i  terreni,  furono  tenute  più  basse  affinchè  non  si  ripercuotessero 
sugli  inquilini.  L#e  revisioni  dei  redditi  interrotte  dalla  guerra,  ri- 
prendono ora  più  attive. 

Accettando  la  somma  di  20  miliardi  attribuita  come  valore  ai 
fabbricati  prima  della  guerra,  il  gravame  sarebbe  stato  in  rapporto 
di  oltre  14  :  1000;  e  rispetto  al  reddito  del  29  %.  Ma  non  è  che  la  media 
tassazione  dei  fabbricati  fosse  dappertutto  così  alta;  è  che,  special- 
mente dove  la  cultura  dei  terreni  era  progredita  e  insieme  con  essa 
la  sovrimposta  fondiaria,  la  sovrimposta  sui  fabbricati  vi  era  do- 
vuta per  il  vincolo  di  legge  salire  di  aitrettanto,  fino  al  punto  che, 
nei  Comuni  rurali,  le  imposte  assorbivano  quasi  tutto  il  reddito. 

Il  fenomeno  si  è  og-gi  alquanto  attenuato  con  lo  sviluppo  delle 
sovrimposte.  Posto  che  il  valore  dei  fabbricati  sia  aumentato  ialle 
quattro  alle  cinque  volte  (si  ricordi  che  le  nuove  case  sono  es«?nti  da 
imposta  per  un  certo  periodo  di  tempo)  il  gravame  è  forse  disceso 
al  9:1000;  ma  è  rimasto  altrettanto  e  più  diffusamente  oneroso  ri- 
spetto al  reddito  del  momento,  dove  questo  è  limitato  dai  decreti 
sugli  affìtti. 

Le  sperequazioni  derivanti  dall'empirismo  di  codesti  decreti,  sono 
più  gravi  rispetto  alle  case  che  ai  terreni,  mentre  sono  un  po'  atte- 
nuate quelle  dipendenti  dall'accertamento  dei  redditi  e  dalla  diver- 
sità delle  sovrimposizioni  locali,  di  cui  diamo  in  nota  esempio  delle 
più  difformi  (i). 

21.  Ricchezza  mobile.  La  somma  delle  imposte  -^ui  redditi  di  ric- 
chezza mobile  è  la  seguente. 

1914  1920-21 

Imposta  erariale  sui  redditi,  società,  e  addii:.     .   352.501.809        1.068.763.267 
Sovrimp.  com.  e  prov.  Imp.  bestiame  e  eserc.  .     47  milioni  299. 429.  SOS 

Quota  imposte  personali  e  globali 40  milioni  330  milioni 

Totale     .      .   440  miUoni  1. 698  milioni 

L'aumento  delle  imposte  sui  diversi  tipi  di  ricchezza  mobile  è 
stato  più  forte  che  non  quello  sui  terreni  e  fabbricati,  3pe<:ialmente 
per  la  scioltezza  degli  accertamenti;  e,  anche  senza  contare  le  imposte 
straordinarie,  sovraprofìtti  ecc.  che  sono  tutte  pagate  su  redditi  della 
stessa  specie,  esso  segue  da  vicino  il  deprezzamento  della  moneta, 
sebbene  le  aliquote  siano  state  appena  ritoccate. 


(1)  Imposta  svii  fabbricati  : 

PROVINCE               Imp.  erariale  Sovr.  com.  e  prov.  Bapporto 

1920  1921  in  centes. 

Roma        .     .     .     .    L.  21,337,884  26,538,204            125 

Cagliari        ...»      1,195,260  1,501,885            126 

Milano     ....     »    23,424,450  37,203,011            167 

Rovigo      ....     »        529,295  2,762,500            522 

Forlì »        799,461  3,882,356            486 

Pesaro       .     .     .     .     »        491,838  2,154,688            437 


372  NOTIZIE  INTORNO  ALLE  IMPOSTE  IN   ITALIA 

Di  più  non  è  facile  dire.  Il  fatto  che  la  somma  delle  imposte 
sulla  ricchezza  mobile  sia  di  poco  inferiore  aJla  unione  delle  due 
somme  di  imposte  sui  beni  immobili  (1.698;  1.105  +  807)  non  è  in 
correlazione  col  fatto  che  nel  computo  Gini  della  ricchezza  antebel- 
lica la  quota  dei  beni  mobili  fosse  di  altrettanto  inferiore  alla  somma 
delle  due  specie  di  beni  immobili  (48;  44  +  20).  È  una  anaJog^ia 
di  proporzioni,  assai  suggestiva;  ma  nella  fattispecie,  casuale.  In- 
fatti le  imposte  sui  redditi  di  ricchezza  mobile  non  colpiscono  solo 
e  tutti  i  beni  mobili.  Vi  sono  beni  mobili  non  tassati;  e  la  imposta 
colpisce,  oltre  e  più  che  i  beni,  i  redditi  provenienti  da  lavoro,  pro- 
fessioni, commerci  ecc. 

Neppure  torna  un  altro  conto.  Se  l'attuale  somma  annua  dei  red- 
diti italiani  arrivasse  a  60-70  miliardi  di  lire  e  tutti  dovessero  essere 
tassati  ugualmente,  mentre  i  12  miliardi  di  reddito  dominicale  dei 
terreni  e  fabbricati  sono  tassati  con  quasi  2  miliardi  di  imposte  (in 
ragione  del  16-17%),  le  imposte  sui  redditi  di  R.  M.  dovrebbero 
colpire  con  aliquota  analoga  i  rimanenti  50  miliardi  di  reddito,  e 
gettare  quindi  più  di  8  miliardi  all'anno  in  luogo  dei  1.698  milioni 
risultati.  Ma  codesta  sarebbe  una  erronea  pretesa. 

Tra  i  redditi  di  ricchezza  mobile  vi  è  una  parte  di  redditi  pro- 
venienti da  capitale,  da  beni  mobili,  i  quali  dovrebbero  pagare  ali- 
quota analoga  a  quella  degli  immobili;  ma  la  parte  magsriore  del 
reddito  nazionale  è  reddito  di  puro  lar^oro  —  il  quale  è  largamente 
esentato  da  imposta,  specialmente  se  è  lavoro  manuale.  Ciò  non  si- 
gnifica però  che  i  redditi  da  lavoro  siano  esenti  da  ogni  imposta 
come  qualcuno  pretende  o  protesta;  sono  esenti  da  questa  specie  di 
imposte;  ma  pagano:  a)  direttamente,  una  gran  parte  delle  imposte 
siui  consumi,  b)  indirettamente,  una  parte  delle  imposte  dirette  e 
sugli  affari,  per  incidenza  o  ripercussione. 

Per  ciò  la  somma  del  reddito  nazionale  va  posta  in  correlazione 
non  con  le  sole  imposte  dirette,  ma  piuttosto  con  la  somma  di  tutte 
le  imposte  ordinarie  di  ogni  specie,  dirette  e  indirette;  e  ne  risulta 
allora  una  proporzione  che  supera  quella  dell'anteguerra  e  s'avvi- 
cina forse  al  20%. 

22.  Ritornando  ai  redditi  di  ricchezza  mobile,  dato  che  essi  sono 
colpiti  con  aliquote  abbastanza  bene  proporzionate,  e  il  sistema  degli 
accertamenti  è  abbastanza  agile,  le  forti  sperequazioni  che  pur  vi  si 
notano,  dipendono  o  da  qualche  ingiusto  privilegio  o  da  insufficienza 
di  accertamenti,  a  danno  specialmente  della  ricchezza  o  dei  redditi 
economicamente  più  utili  e  produttivi. 

Così  nelle  professioni,  commerci  e  industrie  sono  abbondanti  le 
evasioni,  le  quali  danno  ragione  alle  lagnanze  di  coloro  che  hanno 
redditi  minori  ma  pubblicamente  controllati.  Sfuggono  specialmente 
alcuni  professionisti,  gli  intermediari,  i  sublocatori  di  immobili,  i 
redditi  occasionali,  gli  aumenti  di  valore  per  congiuntura  o  per 
opera  altrui,  ecc.  La  legge  stessa  poi  pone  limiti  artificiosi  ai  Comuni 
che  accertano  esercizi  e  rivendite,  o  esenta  iniquamente  i  proprietari 
conduttori  di  fondi,  miniere,  tonnare;  mentre  la  riforma  è  rinviata 
di  anno  in  anno. 

Dei  Ijeni  mobili  solo  qualche  specie  è  censita  e  colpita  diretta- 
mente; la  più  importante  è  il  bestiame,  soggetto  a  tassa  comunale; 
ma  il  rapporto  tra  le  somme  pagate  per  questa  tassa  nel  1921  e  il  va- 


NOTIZIE  INT(»lNO  ALLE  IMPOSTE  IN  ITALL\  373 

lore  probabile  del  bestiame  in  Italia,  arriverebbe  appena  a  una  media 
generale  (1)  di  3,5 :  1000,  se  non  fosse  ohe  poi  lo  stesso  bestiame  rientra 
di  nuovo  nel  computo  dei  movimenti  economici  e  dei  redditi  del- 
l'azienda colpita  da  R.  M.  e  da  tassa  esercizio  (quando  però  non  si 
tratti  di  un  fondo  di  proprietà  dello  stesso  conduttore).  Gli  altri  mo- 
bili sono  anche  tassati  solo  in  quanto  rientrino  nel  computo  del  mo- 
vimento o  del  reddito  di  aziende,  o  siano  soggetti  a  rare  imposte  sui 
consumi;  altrimenti  non  vengono  considerati  neppure  se  preziosi,  a 
meno  che  non  servano  localmente  come  indici  per  l'imposta  di  fa- 
miglia. 

Ma  una  categoria  di  beni  mobili  sfugge  largamente  a  qualsiasi 
imposta.  Mentre  i  censi,  rendite  e  crediti  ipotecari  pagano  le  più 
alte  aliquote  di  R.  M.,  e  spesso  senza  sollievo  del  debitore;  i  crediti 
senza  ipoteca  evadono  largamente.  I  titoli  di  Società  anche  se  al  por- 
tatore sono  soggetti  a  imposta  speciale;  ma  i  nuovi  molti  miliardi 
di  Buoni  del  Tesoro  e  di  cartelle  di  Rendita  sono,  come  il  denaro 
eiTColante,  denunciati  in  minima  parte  per  le  imposte  personali,  ed 
esenti  del  tutto  da  quella  reale  di  R.  M. 

Anche  a  limitare  l'accenno  nello  stretto  àmbito  finanziario,  non 
bisogna  però  dimenticare  che,  accanto  alle  imposte  visibili,  ve  ne 
sono  di  invisibili.  Quando  uno  Stato  emette  nuovi  Prestiti,  nuovi 
Buoni  del  Tesoro,  nuova  carta  moneta,  e  dalle  emissioni  consegue 
una  svalutazione  generale  della  moneta  nazionale,  tutti  i  precedenti 
detentori  di  carta  e  di  titoli  e  gli  altri  possessori  di  redditi  fissi, 
subiscono  una  corrispondente  sv^alutazione  dei  loro  beni  o  redditi,, 
quasi  un  prelievo  straordinario  di  imposta.  Ma  in  senso  contrario  si 
può  ricordare,  che  ogni  acquisto  di  beni,  ogni  impresa  economica  si 
fa  secondo  elementi  di  fiducia,  di  prevedibilità,  con  i  rischi  e  i  van- 
taggi particolarmente  inerenti;  che  sopratutto  gli  scambi  e  la  specu- 
lazione, giocando  sui  diversi  elementi,  rovesciano  spesso  danni  e 
vantaggi  da  una  a  tutt'altra  categoria;  e  che  infine  i  rilievi  sulla 
pressione  tributaria  valgono  per  i  tempi  in  cui,  cessati  i  fatti  straor- 
dinari, si  tende  all'assetto  più  stabile. 


(1)  La  media  è  a  sua  volta  il  risultato  di  rilevanti  sperequazioni  locali, 
neUa  lotta  dei  Comuni  contro  le  G.  P.  A.  ©  i  decreti-legge  che  mantengono  cri- 
stallizzate le  tariffe  di  ante-guerra.  Diamo  qualche  esempio  di  contrasti  in 
Province  finitime,  in  migliaia  di  capi  bestiame  censiti  nel  1918  e  migliaia^ 
di  lire  d'imposta  pagate  nel  1921. 


Torino 28 

Cuneo       20 

Padova 31 

Rovigo 15 

Potenza         63 

Catanzaro 39 

Roma         146 

Perugia          56 


Iwtai 

Ovili 

Mi 

TasakstiaM 

344 
264 

166 
133 

30 
■58 

1,163 
3,487 

129 
76 

19 
9 

41 
26 

835 
1,640 

64 

6a 

914 
422 

79 
50 

66 

667 

153 
141 

1367 
606 

134 
89 

6,015 
11,104 

374 


NOTIZIE  INTORNO  ALLE  IMPOSTE   IN   ITALIA 


VI. 


Distribtczione  regionale  delle  imposte  dirette 


23.  Per  coloro  che  amano  i  confronti  regionali  (i),  o  desiderano 
nuovi  elementi  per  la  etema  questione  del  Nord  e  del  Sud,  abbiamo 
infine  costrutta  una  tabella,  con  i  dati  possibilmente  più  omog^enei. 


REGIONI  (2) 


Piemonte  .  . 

Liguria  .  .  . 

Loflibartfla  .  . 

Veneto  (2)  .  . 

Einiiia   .  .  . 

Toscana.  .  .  . 
Marche  Umbria  .  . 
Lazio     .... 

Abruzzi  (2)  .  .  . 
Campania  (2)  .  . 
Puglie  .... 
BaKliicata  e  Calabria 


Sicilia    . 
Sardegna 


Regno 


sii  terrari 


71. 799 

7.640 

134. 965 

73.  730 
145. 077 

66.007 
65.980 
20. 699 

30. 408 

32. 181 

44. 908 

7.713 

44.140 
11.647 

762. 174 


28 
16 
65 
55 
77 

29 
36 
19 

15 

30 

24 

3 

18 
6 

29 


{■Hsti  e  snr. 
sH  likMaU 


61.393 
.37. 148 
110.  947 
40. 928 
55. 777 

46.301 
16. 496 

47.876 

11.  624 

51.568 

33.  649 

7.188 

34. 947 
5.699 

564. 268 


li 


Ibi.  e  Mvr.  rtill 
u  rkdMzza  Mi. 


114.  760 
87.549 

247. 968 
51.414 
90.633 

73.514 

40.  508 

115. 366 

11. 674 
46. 535 

23.200 
10. 379 

34.687 
8.947 

^58. 249 


I* 


laptsttiMiil 
ttmnÈ 


87.301 
58.298 
143.  526 
24.188 
43.284 


27  48.980 
22  17.296 
88  94.653 


7.309 
24.210 
14.897 

8.886 

19. 265 
5.112 

597. 441 


11 


25 
49 
29 
9 
16 

17 

9 

72 

3 
9 

7 
4 

5 
6 

17 


TtUk  dtllt  »mt4t*tl 
ìmtKte  t  stvr. 


335.458  96 
190.  635  159 
637.406130 
190.266'  69 
334. 771 122 

232.802  86 
140.280.  76 
278. 564  215 


35.063 
180. 476 
116. 654 

34. 166 

133.039 
31.305 

2. 882. 132 


26 
57 
54 
17 

35 
36 

80 


■■Hstt  strMrllMrit 
«  IMrra 


409.515^117 
266. 1  ' 
653.  - 

93. 123 

99.812 


70.644 

17. 016 

119.682 

8.263 

138.182 

26.858 

7.886 


73.149 
3.620 

1.986.766 


(1)  Ricordiamo  per  comodità  di  confronti,  e  per  quello  che  possono  valere, 
alcuni  dei  più  noti  indici  medi  della  ricchezza  regionale  propoeti  dieci  o  venti 
anni  fa.  Posta  la  media  100,  Gini  assegnava  121  all'Italia  settentrionale,  98 
alla  Centrale,  79  alla  Meridionale,  81  e  43  alle  Isole.  Posta  rispettivamente  la 
media  100  o  la  somma  1000,  Mortara  é  Nitti  assegnavano  le  seguenti  quote  ai 
gruppi  regionali  della  nostra  tabella:  Piem.  143  e  163;  Lig.  192  e  62;  Lomb. 
161  e  166;  Ven.  86  e  76;  Em.  88  e  67  ;  Tose,  100  e  71  ;  Marche  e  Umbria  60  e  33; 
Lazio  148  e  59;  Abr.  41  e  29;  Camp.  81  e  90;  Puglie  60  e  51;  Basii,  e  Cai.  37 
e  36;  Sic.  53  e  87;  Sard.  45  e  10. 

(2)  Le  somme  di  imposte  pagate  sono  date  in  migliaia  di  lire.  Le  quote 
per  Ettaro  e  per  abitante  sono  date  invece  in  lire.  Dal  Veneto  sono  detratte 
le  due  Province  di  Udine  e  Belluno  per  le  condizioni  speciali.  Agli  Abruzzi 
abbiamo  aggiunto  oltre  il  Molise  anche  Avellino  e  Benevento,  sottraendoli  alla 
Campania,  per  maggiore  omogeneità. 

Delle  nuove  Province  (1  milione  e  mezzo  di  abit.)  abbiamo  pochi  dati  e 
non  utilmente  confrontabili.  Sono  i  seguenti,  per  tutte  e  sole  le  imposte  era- 
riali percepite  nel  1920-21,  in  migliaia  dì  lire: 

la»,  «nttt  Nmc  ItMitl  Altre 

Venezia  Giulia     .     .     .     24,338        39,693        211,736        35,470 
Venezia   Tridentina  8,110        11,127  99,629        18,019 

Dalmazia ^,767  1,926  13,429  1,534 


NOTIZIE  INTORNO  ALLE  IMPOSTE  IN  ITALIA  375 

Per  ogni  regione  è  riportata  la  somma  delle  imposte  e  sovrimposte 
erariali  e  locali  pag^ate  rispettivamente  nel  1920  e  nel  1921  (escluso  il 
centesimo  e  l'addizionale):  sui  terreni,  comprese  le  bonifiche  e  ri- 
serve —  sui  fabbricati  —  sulla  R.  M.,  comprese  le  nuove  imposte 
sulle  società  e  le  tasse  locali  di  esercizio  e  bestiame  —  complemen- 
tare, patrimoniale  e  di  famig-lia  —  sovraprofitti  e  contributo  perso- 
nale di  guerra.  In  corrispondenza  di  ciascun  gruppo  è  calcolata  la 
(juota  media  per  abitante,  e  per  i  terreni  la  quota  media  per  ettaro 
di  superficie  agraria  e  forestale. 

Lasciamo  che  le  cifre  suggeriscano  al  lettore  i  rilievi,  senza  che 
noi  li  traduciamo  in  parole.  Avvertiamo  solo  come  sia  principal- 
mente la  tenuità  delle  sovriinxx)ste  comunali  e  provinciali,  che  con- 
tribuisce a  rendere  privilegiati  i  possidenti  di  beni  immobili  nel  me- 
ridionale, a  danno  dei  servizi  pubblici  locali  non  alimentati.  Le  molto 
maggiori  imposte  reali  sui  redditi  e  beni  mobili,  personali  e  straor- 
dinarie di  guerra,  nell'Alta  Italia,  corrispondono  al  più  forte  sviluppo 
di  industrie  commerci  e  culture;  ma,  come  dappertutto  le  classi  non 
possidenti  che  non  pagano  imposte  dirette,  contribuiscono  con  i  quo- 
tidiani tributi  sui  consumi,  così  il  Meridionale  più  povero  pagherà 
presumibilmente  (1)  quoie  meno  dissimili  di  imposte  indirette. 

G.  MATTEOTTI. 


(1)  Dati  sicuri  e  recenti  sono  appena  questi  (1920-21): 

Onb  HM  fcr  «t.  ItaHa  SdL       Ctitraie         MctUìn.  Isik 

per  tabacchi L.    77  73  49  40 

sali »      4  4  4  — 

fiammiferi       »       4,9  4,5  3,7  3,3 

lotto        »      5,4  6,2        11,5  9,5 

L'Alta  Italia  toma  però  a  prevalere  fortemente  nelle  vendite,  fabbrica- 
zioni, trasporti,  affari.  Darò  in  altra  occasione  le  notizie  oggi  ancora  incom- 
plete. 


DOPO  L'ATTENTATO  A  MILIUKOW 

NOTE  CONTRORIVOLUZIONARIE 


«Il  governo  russo  è  un. governo  assoluto,  temperato  dal  regici- 
dio». La  famosa  definizione  di  Giuseppe  de  Maistre,  piena  di  finezza 
e  di  esperienza,  torna  oggi  d'attualità,  in  senso  inverso,  da  parte  del- 
la emigrazione  erede  della  tradizione  politica  russa?  Preferiamo  au- 
gurare che  il  tristo  episodio  berlinese  resti  un  caso  isolato,  spiegabi- 
lissimo con  la  psicologia  di  ogni  emigrazione  politica,  e  delle  tragicis- 
sime condizioni,  morali  e  materiali,  di  quella  russa.  In  ogni  modo,  il 
pugnale,  la  rivoltella  ed.  il  fgLzzoletto  di  Jago  sono  comparsi  troppo 
spesso  nella  vita  politica  moscovita  —  a  non  parlare  che  dalla  grande 
Caterina  in  poi  —  per  non  dover  constatare  che  l'attentato  contro  il 
capo  cadetto  richiama  violentemente  l'attenzione  sulla  contro-rivolu- 
zione russa. 

Del  resto,  va  subito  fissato  un  fatto  pregiudiziale  :  la  rivoluzione 
russa  si  chiama  ed  è  russa,  come  quella  francese  si  chiamò  e  fu  fran- 
cese, cioè  il  concretamento  iniziale  e  locale  della  Rivoluzione  cosmo- 
politica. Come  la  Germania  di  Carlo  V  fu  la  culla  della  Rivoluzione 
iniziale  che  ebbe  la  sua  determinazione  culminante  nel  fenomeno  re- 
ligioso del  protestantesimo,  così  la  Francia  di  Luigi  XVI  lo  fu  per  lo 
stadio  evolutivo  borghese  della  Rivoluzione  mondiale;  e  la  Russia 
di  Nicolò  II  lo  è  stata  per  l'ultimo  ed  integrale  stadio  della  stessa, 
una  ed  indivisibile,  Rivoluzione.  Penso  che  senza  la  chiara  intui- 
zione di  questo  fatto  pregiudiziale  sarebbe  impossibile  comprendere 
le  rivoluzioni  ora  commemorate.  Quel  fatto  pregiudiziale  mostra  di 
quale  e  quanta  importanza  diretta,  non  solo  pei  russi  ma  per  tutti  gli 
altri  popoli,  sia  il  fenomeno  della  Rivoluzione  russa,  donde  il  loro 
interesse  a  studiare  questa  ed  il  suo  logico  rovescio,  la  contro^rivo- 
luzione  russa.  Ecco  il  motivo  che  ha  dettato  queste  note. 

La  mia  conoscenza  degli  iH omini  e  delle  cose  russe  è  ben  modesta, 
ma  forse  sufficiente  per  scrivere  queste  non  meno  modeste  pagine; 
ho  visto  minori  conoscenze  essere  state  giudicate  bastanti  per  auto- 
rizzare i  loro  detentori  a  redigere  libri  e  —  ben  peggio  —  rapporti  e 
convenzioni  ufficiali.  Ben  inteso,  queste  mie  note  ispirate  da  una  se- 
rena osservazione  e  per  un  fine  di  moralità  e  benessere  sociale,  sono 
l'espressione  assolutamente  personale  di  chi  le  scrive;  non  solo  estra- 
nee ad  ogni  eco  di  ambienti  autorevoli  ed  autorizzati,  ma  così  perso- 
nali da  non  essere  io  stesso  sicuro  che  tutte  le  idee  qui  esposte  siano 
condivise  da  miei  amici  con  i  quali  ho  tanta  comunanza  di  principii, 
di  criterii,  d'intendimenti.  E  tanto  più  son  grato  alla  benemerita 
Direzione  della  innova  Antologia  per  la  cortese  ospitalità,  quanto  più 


DOPO  l'attentato  a  miliukow  377 

son  persuaso  che  molte  delle  mìe  idee  non  sono  affatto  le  sue.  Ma 
queste  pag^ine  non  hanno  altro  scopo  se  non  quello  documentario  di 
prospettare  la  contro-rivoluzione  russa  dal  punto  di  vista  di  un  con- 
trorivoluzionario integrale,  cioè  contrario  alla  Rivoluzione  sotto  tutte 
le  sue  forme,  in  tutti  i  suoi  gradi,  verso  tutti  i  suoi  tenants  et  abou- 
tissants. 

• 
•  • 

Che  nella  persona  di  Miliukow  la  rivoltella  contro-rivoluzionaria 
abbia  voluto  colpire,  più  che  l'individuo,  il  rappresentante  di  un  par- 
tito anzi  d'un  insieme  di  gruppi,  ritenuti  fautori  primi  —  per  tempo 
e  quindi  per  responsabilità  —  della  Rivoluzione  russa,  mi  sembra 
cosa  da  non  potere  m.ettersi  in  dubbio.  È  già  stato  osservato,  in  tale 
occasione,  che  altri  liberali-democratici  sono  più  responsabili  di  Mi- 
liukow, per  esempio. Gushkow;  ma  il  non  invidiabile  titolo  alla  pre- 
ferenza è  stato  per  Miliukow  quello  di  essere  il  più  cospicuo  e  — 
ciò  che  sembra  essere  stato  dimentic<ito  da  varii  commentatori  —  di 
essere  ritenuto  ancora  il  più  efficiente  degli  elemienti  demo-borghesi 
di  Russia. 

Ripugna  oggi  di  calcare  la  mano  su  di  un  partito  colpito,  an- 
che esso,  dal  flagello  bolscevico.  Ma  la  verità  è  medicina  per  tutti; 
e  sarebbe  mancare  alla  salutare  verità  se  non  si  constatasse  (qualun- 
que sia  il  giudizio  definitivo  da  darsi  a  tale  accusa)  come  la  contro- 
rivoluzione russa  non  manchi  di  motivi  per  giudicare  schiacciante 
la  responsabilità  della  coalizione  dei  costituzional-democratici  (i  ca- 
detti) e  simili,  nella  catastrofe  del  1917.  Più  ancora:  la  loro  tenacia 
di  volere  anche  oggi,  dopo  tanta  sanguinosa  esperienza,  sostenere, 
per  spirito  ed  interesse  di  parte,  la  loro  tesi  sulle  ragioni  determi- 
nanti dalla  catastrofe  stessa,  li  pone  come  «  belligeranti  »  contro,  sì, 
i  bolscevichi,  ma  non  meno  contro  i  veri,  cioè  logici,  controrivolu- 
zionari, i  quali  perciò  li  considerano  come  nemici  non  solo  di  ieri  ma 
sopratutto  di  oggi.  L'attentato  berlinese  ha  avuto  determinanti  più, 
per  così  dire,  di  cronaca  che  di  stona. 

Il  demo-liberalismo  borghese  di  Russia  giustifica  la  sua  rivolu- 
zione, dichiarando  che  essa  era  inevitabile,  e  ciò  con  due  serie  di 
prove  :  le  imimediate  e  particolari,  come  il  rasputinismo  politico  e 
sociale  e  gli  errori  politici  e  militari  della  guerra;  le  mediate  e  gene- 
rali ;  la  crisi  agraria,  industriale  ed  in  genere  social-economica,  non- 
ché la  politico-amministrativa.  Ebbene,  quanto  alle  prime,  basterà 
notare  che  la  rivoluzione  iniziale  del  1917  è  quella  stessa  del  1905, 
ripresa  profittando  del  collasso  generale  del  paese;  e  nel  1905  non 
v'era  né  il  rasputinismo  né  gli  errori  della  guerra  mondiale. 

Quanto  alle 'cause  generali,  mi  ci  vorrebbe  un  grosso  volume  per 
esaminarle;  qui  basterà  un  rapidissimo  accenno. 

La  crisi  agraria  era  basata  sull'enorme  errore  di  Alessandro  II,  il 
«  liberatore  dei  servi  »  nel  1861,  che  costituì  Vobsscina  della  proprietà 
comunale,  invece  d'iniziare  risolutamente  la  piccola  proprietà  rurale. 
In  luogo  di  creare  centinaia  di  migliaia  di  famiglie  rurali  possidenti, 
cioè  automaticamente  contro-rivoluzionarie,  egli  mantenne  troppo  sof- 
focanti latifondi  delle  alte  classi,  ed  istituì  il  tipo  rudimentale  del'  co- 
munismo agrario.  Ma  quest'errore  era  in  via  di  sensibile  migliora- 

25  Voi.  CX:XVII,  aeri©  VI  —  16  aprile  1922. 


378  DOPO  l'attentato  a  miliukow 

mento.  La  legge  Stolypine,  del  1907,  aveva  già  resa  facoltativa  l'u- 
scita del  lavoratore  rurale  dalla  obsscina,  mentre  —  particolare  schiac- 
ciante —  la  coalizione  demo-liberale  borghese  chiedeva,  col  seque- 
stro rivoluzionario  dei  latifondi,  la  conservazione  del  regime  comu- 
nista rurale.  Perciò  è  un  fatto  incontrovertibile  che  il  governo  zarista 
è  stato  gettato  a  terra  quando  era  in  corso  la  sua  salutare  riforma 
agraria.  Ma  ciò  è  nella  tradizione  russa.  Alessandro  II  fu  assassinato 
quando  si  seppe  che  stava  preparando  un  regime  costituzionale.  Una 
facile  letteratura  di  partito  insinuò  che  lo  avevano  assassinato  i  ni- 
chilisti per  conto  dei  reazionarii;  tanto  facile  sarebbe  dire:  per  conto 
di  quelli  che  dallo  zarismo  esigevano  errori  e  colpe,  non  migliora- 
menti e  redenzioni.  È  una  constatazione  non  meno  indiscussa  che, 
allo  scoppio  rivoluzionario  del  1917,  la  campagna  i*ussa  si  mantenne 
tranquilla;  dunque  non  era  scontenta.  Ci  volle  la  piìi  infernale  pro- 
paganda bolscevica  per  scatenarne  i  più  torbidi  elementi;  eppure!... 

Quanto  alla  crisi  industriale,  non  è  difficile  ricordare  che  la 
grande  industria,  nel  senso  del  nostro  Occidente  e  dell'America,  era 
un  fatto  da  applicarsi  nell'impero  con  grande  lentezza  oculata,  per- 
chè il  paese,  che  non  aveva  una  simile  tradizione,  non  diventasse 
una  vasta  e  sfruttata  colonia  di  forze  straniere  e  della  finanza  inter- 
nazionale. Ma  appunto  questa  saggia  —  e  del  resto,  naturale  —  poli- 
tica fu  quella  che  spinse  noti  elementi  esteri  ed  internazionali  a 
finanziare  il  bolscevismo  che,  da  tale  punto  di  vista,  è  il  battistrada 
dello  sfruttamento  industriale  e  commerciale  anti-russo  della  Rus- 
sia. D'altronde  le  cifre  sono  là  a  mostrare  il  regolare  svolgimento 
della  industria  .russa.  Dal  1908  al  1913  le  compagnie  industriali  russe 
per  azioni,  fondate  anno  per  anno,  da  108  con  altrettanti  milioni  (ru- 
bli) di  capitale  erano  passate  a  342  con  più  di  mezzo  miliardo  di  ca- 
pitale, mentre  le  società  straniere  da  12  erano  diventate  29  con  un 
capitale  salito  da  9  a  44  milioni.  Dunque  l'industria  russa  si  avvan- 
taggiava continuamente  senza  farsi  sopraffare  dalla  straniera.  Met- 
tiamo pure  che  in  quella  industria  «  russa  »  vi  fosse  parecchio  capi- 
tale straniero  —  noi  italiani  sappiamo  qualcosa  di  questo  genere  di 
«  parere  »  ed  «  essere  »  —  ma  almeno  l'influenza  nazionale  vi  si  af- 
fermava. 

Quanto  alla  crisi  politico-amministrativa,  la  solita  letteratura 
impressionista  e  settaria  ha  sfruttato  gli  errori  ed  orrori  deWOkhràna 
(polizia  segreta  imperiale)  e  del  rasputinfsmo,  ma  attribuire  a  ciò 
una  coefficienza  determinante  della  rivoluzione  russa,  sarebbe  come 
attribuire  la  francese  alla  Bastiglia  ed  al  collier  de  la  Heine.  Tali 
«  storie  »  sono  per  Alessandro  Dumas,  non  per  Ippolito  Taine. 

Più  grave  è  l'ajocusa  del  regime  politico  propriamente  detto.  Le 
vicende  tragicomiche  delle  varie  dume^  l'incomprensione  centrale 
sull'evoluzione  da  darsi  agli  zeinstva,  ed  il  resto,  sono  malanni  noti 
(almeno  superficialmente)  quanto  gravi.  Ma  il  tempo  avrebbe  rime- 
diato a  tutto;  e  la  rivoluzione  nemica  dell'evoluzione,  è  la  peggior 
reazionaria  che  vi  sia.  In  Russia,  fin  dal  tempo  degli  ormai  leggen- 
dari dekabristi  di  Nicolò  I,  c'è  stato  semipre  l'enorme  e  fatale  equi- 
voco di  tanti  «  occidentalizzati  »  che  volevano  fare  altrettanto,  subito 
e  in  blocco,  con  il  loro  paese  la  cui  tradizione  profonda,  il  cui  sotto- 
suolo sociale,  sono  così  antitetici  col  nostro  Occidente. 


DOPO  l'attentato  a  miliukow  879 

Dunque  le  accuse  contro  altri,  e  le  giustificazioni  per  se  stessi, 
messe  in  giro  con  instancabile  lena  dagli  ambienti  rappresentati  da 
Miliukow,  autori  del  primo  (e  veramente  determinante)  scrollo  della 
Russia  tradizionale,  non  sono  accettabili  senza  il  beneficio  dell'inven- 
tario e  senza  una  grande  tara.  E  siccome  quelle  accuse  e  quelle  giu- 
stificazioni servono  oggi  a  quei  medesimi  ambienti  per  fare  una  pro- 
paganda nell'Occidente  europeo  ed  americano  in  vista  di  una  even- 
tuaJe  ricostituzione  russa  sul  tipo  di  una  monarchia  Luigi-Filippo 
o  di  una  repubblica  parlamentcìristica  (tanto  è  vero  che  questi  «  evo- 
luti "  sembrano  non  aver  nulla  imparato  e  nulla  dimenticato),  è  ben 
naturale  che  essi  vengano  riguardati  come  nemici  attivi  e  pericolosi 
da  quella  parte  dell'emigrazione  che,  sapendo  quanto  peso  gli  ele- 
menti esteri  —  morali  e  materiali  —  abbiano  avuto  nello  scatenarsi 
e  nel  perdurare  della  rivoluzione,  vogliono  una  ricostituzione  nazio- 
nale (se  non  nazionalista,  fino  a  un  certo  punto  xenofoba)  della 
santa  Russia. 

Lo  ripeto  :  è  questo  il  senso  vero  dell'attentato  di  Berlino. 

Tale  è  la  parte  che  spetta  ai  cadetti  e  partiti  analoghi.  Dicevo 
che  sembra  non  aver  essi  nulla  imparato  e  nulla  dimenticato.  Difatti 
essi  sono  gli  eredi  naturali  dei  vecchi  girondini  che  aprirono  le  cate- 
ratte di  un  torrente  il  quale,  secondo  loro,  doveva  rovesciare  con 
Luigi  XVI  l'assolutismo  per  preparare  una  reggenza  costituzionale 
col  re,  fanciullo  di  età  e  di  «costituzione»,  in  mano  loro.  Dopoché 
la  ghigliottina  giacobina  ebbe  troncato  colle  teste  il  sogno  dei  giron- 
dini, i  loro  figli  fecero  un  giuoco  analogo  con  Carlo  X,  e  parvero  riu- 
scire con  Luigi-Filippo;  ma  tutti  sappiamo  con  quale  risultato.  E  poi 
vennero  gli  Olivier  dell'"  impero  liberale»;  il  terzo  saggio  si  faceva 
non  cambiando  il  sovrano  ma  cambiandone  la  figura.  Ora  è  certo 
che  r«  impero  liberale»  fu,  come  tale,  per  molto  nello  sfacelo 
del  1871.  Se  simili  sono  gli  esempi  del  nostro  evoluto  Occidente,  che 
dire  della  Russia?  La  sua  ricostituzione  avrà  bisogno  di  una  volontà 
e  di  una  mano  di  ferro,  per  molti  anni,  a  meno  che  per  ricostitu- 
zione russa  non  si  voglia  intendere  la  costituzione  di  una  società  di 
affari  per  conto  di  parecchi. 

Ma  la  storia  è  una  maestra  senza  discepoli. 

• 
•  • 

Ed  ora,  verità  e  giustizia  esigono  che  facciamo  la  parte  degli  ele- 
menti contro-rivoluzionarii.  La  loro  responsabilità  non  è  meno  grave. 

La  massima  parte  di  loro  volle  tenacemente  la  più  bassa,  com- 
promettente, rivoltante  schiavitù  della  Chiesa.  Propugnatori  del 
Santo  Sinodo  che  non  era  né  santo  né  sinodo,  impugnatori  della  ri- 
surrezione del  patriarcato  moscovita  (parlo  della  loro  Chiesa),  essi 
non  vollero  un  Nikon,  ed  ebbero  un  Rasputin.  La  rivoluzione  ha  loro 
roso  un  gran  servizio  colla  persecuzione  della  loro  Chiesa  pravoslava 
—  servizio  simile  a  quello  ch'eglino  avevano  già  reso  alla  Chiesa  cat- 
tolica nei  dominii  degli  zar.  Anch'essi  nulla  avevano  imparato  e 
nulla  dimenticato.  Eppure  v'era  l'esempio  esauriente  deìVancien  re- 
gime francese  il  quale  aveva  reso  troppa  parte  di  clero  una  cariatide 
o  un  parassita  della  corte,  spegnendone  l'eflBcienza  spirituale,  anzi 
facendone  una  causa  di  ripulsione  e  di  rancore  anticlericale  ed  anti- 


380  DOPO  l'attentato  a  miliukow 

sociale.  Quando  cominciò  la  tempesta  rivoluzionaria,  troppo  clero 
non  la  capì  perchè  non  era  più  a  contatto  del  popolo,  od  almeno  da 
questo  non  poteva  essere  creduto  perchè  non  poteva  essere  stimato;  ed 
alle  sue  più  savie  prediche  controrivoluzionarie  il  neofìto  della  ri- 
volta avrebbe  dato  la  sardonica  risposta:  Si  vede  bene  che  tu  vieni 
da  Versailles!  Ma  il  clero  déìVancien  -regime  non  scese  mai,  e  nem^ 
meno  si  avvicinò,  all'ignobile  abbassamento  di  clero  superiore  ed  in- 
feriore come  quello  verificatosi  nell'ortodossia  russa.  Le  figure  ec- 
clesiastiche di  potente  connivenza  o  d'impotente  protesta  che  hanno 
evoluto  attorno  a  Gregorio  Rasputin,  dicono  meglio  che  io  non  sap- 
pia e  voglia,  a  qual  punto  si  era,  anche  dopo  l'esperienza  dei  Gapon 
del  1905.  Oggi  la  rivoluzione  russa,  come  già  fece  la  francese  per  il 
nostro,  ha  purgato  il  clero  ortodosso  da'  suoi  più  corrotti  elementi, 
e  ha  dato  campo  ai  migliori  di  offrire  un  nobilissimo  esempio  di 
abnegazione  e  di  sacrificio  anche  cruento,  davanti  cui  è  doveroso  e 
grato  l'inchinarsi. 

Il  regime  di  corte  e  di  governo  da  parte  degli  ambienti  contro- 
rivoluzionari non  era  stato  meno  deplorevole;  né  meno  dolorosa  fu 
la  loro  tenacia  a  mantenerlo  anzi  eid  esacerbarlo.  Le  memorie  pub- 
blicate ora  dal  signor  Paléologue,  ambasciatore  francese  a  Pietro- 
grado  alla  vigilia  e  durante  la  guerra  —  per  quanto  abbondante- 
mente stilizzate  —  ne  danno  un'eco  suggestiva  :  e  quanti  altri  docu- 
menti esistono!  Per  mia  parte  debbo  oggettivamente  dire  :  io  che  pur 
ne  ho  viste  di  tutti  i  colori  in  questo  povero  mondo,  non  ho  trovato 
mai  —  accanto  a  compitissime  ed  onorevolissime  eccezioni  perso- 
nali, e  prescindendo  dall'intenzione  degli  altri  —  un  funzionamento 
più  caotico,  più  anarchico  nel  senso  fondamentale  della  parola,  e 
quindi  praticamente  più  antimonarchico  di  quello  deir«  autocrazia  » 
russa,  il  cui  «  autocrate  »  non  era  lo  Zar,  sibbene  il  cin,  la  buro- 
crazia. 

• 
•  • 

Sopravvenuta  la  catastrofe,  e  la  consecutiva  emigrazione,  gli 
errori  della  contro-rivoluzione  non  sono  cessati. 

Certo,  alcuni  errori  cadono  molto  più  sulla  responsabilità  del- 
l'Intesa. Su  di  essa  peserà  come  un  misfatto,  l'istigazione  e  l'infido 
appoggio  ai  tentativi  bianchi.  Tutti  gli  onesti  elementi  d'ordine  so- 
ciale caduti  in  quell'ignobile  tranello  dei  tentativi  di  Kolciak,  di  De- 
nikin,  di  Judenitsch,  ecc.,  sono  vittime,  non  dei  bolscevichi,  i  quali 
non  potevano  fare  a  meno  di  combatterli  e  cercare  di  distruggerli, 
ma  d'i  quei  veri  responsabili  (né  tutti,  né  i  principali,  in  posizione 
ufficiale)  i  quali  organizzarono  quel  sistematico  massacro.  Giacché 
tutto  il  terrore  bolscevico  non  bastava  per  colpire  i  più  avveduti  e 
coraggiosi  reazionari  disseminati  nel  vastissimo  impero.  Bisognava 
provocarli  e  riunirli  per  schiacciarli  in  massa.  Fu  il  «  bellissimo  in- 
ganno »  —  avrebbe  detto  Machiavelli  —  quello  di  sfruttare  la  buona 
fede  e  lo  spirito  patriottico  e  militare  dei  capi  e  dei  loro  aderenti 
bianchi.  Ognuno  di  quei  tentativi  non  fu  più  serio  di  quello  di  Qui- 
beron,  del  1795,  contro  la  rivoluzione  francese;  né  maggior  buona 
fede  fu  da  parte  dei  «  protettori  ».  Chi  sa,  mi  comprende.  È  somma- 
mente deplorevole  che  tra  le  file  della  controrivoluzione  russa  non 


DOPO  l'attentato  a  miliukow  381 

vi  fosse  un  uomo  tanto  accorto  da  intuire  l'agguato,  e  tanto  autore- 
vole da  imporre  il  motto  d'ordine  contro  quell'assemJDramento  da 
mattatoio,  raccomandando  invece  la  dispersione  apparente  e  ricol- 
legata, la  manovra  da  tirailleurs. 

Altro  errore  infine  (per  non  citare  che  le  cose  pregiudiziali)  per 
una  gran  parte  dei  patrioti  russi  fu  la  loro  mentalità  di  restaura- 
zione integrale  dell'impero  e  dell'imperialismo  moscovita;  errore 
scusabile,  e,  sotto  un  certo  aspetto,  onorevole  per  un  patriottismo 
caldo  ed  esacerbato;  ma  non  è  col  dottrinarismo  né  col  sentimenta- 
lismo che  si  fa  la  sana  politica. 

• 
•  • 

Per  concludere  praticamente  queste  rapide  note,  dirò,  con  la 
stessa  lealtà  di  esse,  quanto  mi  sembra  doversi  dedurne. 

La  contro-rivoluzione  russa  che  monta  coraggiosamente  la  sua 
via  crucis,  merita  l'encomio  e  l'aiuto  cordiale  di  quanti  vedono  l'una 
e  indivisibile  rivoluzione  minacciare,  sempre  più  da  presso,  dapper- 
tutto e  tutta  la  nostra  civiltà.  Da  parte  sua  la  contro-rivoluzione  russa 
è  bene  che  sappia  meritare  sempre  più  tale  simpatia  fattiva,  nel  suo 
stesso  interesse. 

Mi  pare  che  una  delle  prime  ed  assidue  cure  di  quegli  elementi 
serii  ed  onesti  sia  di  sbarazzarsi  dagli  altri  i  quali  non  sono  né  l'una 
Uè  l'altra  cosa.  Gli  affaristi  vadano  altrove  a  fare  il  loro  commercio, 
ed  i  dilettanti  la  loro  accademia.  Chi  ha  addosso  qualche  pillacchera 
del  rasputinismo,  deve  tirarsi  da  parte,  per  non  sporcare  gli  altri. 
Non  tutti  i  cosidetti  rasputinisti  furono  in  piena  malafede;  ma  que- 
sto è  un  fatto  personale.  Il  galantuomo  che  andando  ad  un  tratteni- 
mento, cade  per  la  via  e  s'infanga,  toma  indietro,  non  va  ad  imbrat- 
tare i  compagni. 

La  contro-rivoluzione  russa,  mi  semibra,  dovrebbe  —  per  mezzo 
dei  suoi  capi  più  serii,  intelligenti  ed  esperti  —  fissare  un  programma 
minimo  di  politica  intema  ed  estera,  tale  da  non  destare  legittime 
od  almeno  scusabili  sfiducie  ed  avversioni.  Ma,  fissatolo,  perseguirne 
l'attuazione  con  il  «  festina  lente  »  che  è  il  precursore  del  successo. 

Infine  —  e  credo  che  questo  sia  il  più  difficile  per  l'uomo  in  ge- 
nere e  per  l'uomo  russo  in  ispecie  —  essa  deve  prepararsi  non  solo 
per  un  suo  ipotetico  governo  restaurato  di  domani,  ma  anche  e  so- 
pratutto per  l'altrui  governo  del  domani  russo.  Voglio  dire  che  la 
contro-rivoluzione  russa  deve  prepararsi  anche  al  caso  di  non  an- 
dare mai  (il  «  non  mai  »  umano,  cioè  per  un  tempo  prevedibile)  al 
governo  del  suo  paese,  e  quindi  esser  pronta  all'alta  e  disinteressata 
funzione  di  freno  e  di  pungolo  altrui  per  il  bene  supremo  del  paese. 
I  tempi  ormai  volgono  a  tale  crisi  globale  del  mondo  in  spirito  e  ma- 
teria, da  non  potersi  attendere  —  e  non  solo  in  Russia  —  una  piena  re- 
staurazione dell'Ordine  tradizionale.  Ma  i  suoi  fedeli  possono  pesare 
continuamente  —  sempre  con  utilità,  spesso  decisivamente  —  sulle 
contingenze  politiche  e  sociali  del  rispettivo  paese  od  organismo  mo- 
rale :  missione  di  ben  poco  gradimento  estrinseco,  ma  di  grande  sod- 
disfazione intema,  quella  della  coscienza  che  guarda  a  Dio  ed  al 
proprio  dovere,  e  conta  tutto  il  resto  soltanto  alla  stregua  di  quella 
eterna  misura. 

Umberto  Benigni. 


NOTIZIA   LETTERARIA 


Pubblicazioni  dantesche  centenarie  milanesi  :  Dante  :  La  vita,  le  opere,  le 
grandi  città  dantesche.  Dante  e  l'Europa;  edit.  Treves.  —  C.  Riooi: 
L'tUtimo  rifugio  di  Dante;  edit.  Hoepli.  —  C.  Ricci:  La  n  Divina  Com- 
media »  di  Dante  Alighieri  illustrata  nei  lìioghi  e  nelle  persone  ;  edit. 
Hoepli.  —  Il  Codice  Trivulziano  1080  d^lla  «  Divina  Commedia  »  ripro- 
dotto in  eliocromia;  edit.  Hoepli, 

Insieme  col  ricordo,  destinato  axi  affievolirsi  via  via,  di  festeg- 
giamenti solenni  e  d'innumerevoli  conferenze;  insieme  con  restauri 
monumentali  di  cui  nel  futuro  non  prossimo  pochi  si  renderanno 
ben  conto,  il  Centenario  dantesco  del  1921  si  lascia  dietro  un  ammasso 
di  pubblicazioni  quale  nessun  Centenario  d'uomo  insigne  vide  in  pas- 
sato, quale  diffìcilmente  vedrà  in  avvenire.  Vi  hanno  contribuita  non 
so  quanti  paesi.  Che  la  parte  maggiore  spetti  all'Italia,  sarebbe  ver- 
gognoso se  non  fosse. 

E  vergognoso  sarebbe  stato  per  Firenze  il  non  figurar  degna- 
mente in  questa  amichevole  gara.  Spiccano  nel  contributo  suo  il 
primo  testo  critico  di  tutte  le  Ojjere  di  Dante  raccolte  in  un  volume, 
e  la  riproduzione  a  facsimile,  voluta  ed  ottimamente  tratta  a  com- 
pimento dall'editore  Olschki,  del  più  antico  codice  datato  della 
Commedia,  che  colle  sue  innumerevoli  rasure  e  surrogazioni  ci  è  in 
pari  tempo  testimonio  visibile  dello  studio  premuroso  col  quale  fino 
dai  primordi  si  mirava  a  ottenere  la  migliore  lezione.  Peccato  che 
abbiano  conseguito  solo  parzialmente  l'effetto  due  ottime  intraprese 
munificamente  promosse  dal  Comune  fiorentino  quando  ne  era  a  capo 
Orazio  Bacci  :  la  compilazione  di  un  Vocabolario  dantesco,  nostro  e 
tale  da  rispondere  a  tutte  le  esigenze  attuali,  e  il  concorso  per  un 
libro  di  modesta  misura,  nel  quale  un'erudizione  solida  e  profonda 
fosse  convertita  in  succo  e  sangue,  di  lettura  attraente,  adatto  alle 
intelligenze  e  culture  anche  solo  mediocri,  accessibile  a  tutte  le  borse, 
tale  da  diffondere  nella  generalità  degl'italiani  la  conoscenza  sicura 
di  Dante  uomo,  cittadino,  poeta  insup>erabile,  mente  sovrana.  Tut- 
tavia nel  lavoro  del  Vocabolario  s'è  inoltrato- parecchio,  e  bene,  Fran- 
cesco Maggini;  e  se  il  libro  di  divulgazione  rispondente  all'ideale 
vagheggiato  non  s'è  avuto  finora,  lo  arieggia,  e  manifesta  nell'autore 
l'attitudine  a  raggiungere  l'intento,  quello  pubblicato  da  Artwpo  Pom- 
peati  (Firenze,  Battistelli).  Con  esso  facciam  più  che  discemere  «  De 
la  vera  città  almen  la  torre  ». 

L'esilio  convertì  Dante  di  fiorentino  in  italiano  per  eccellenza;  e 
se  a  lui  parve  un  tempo  che  esso,  portandolo  povero  e  qual  nave 
senza  governo  «  a  diversi  porti  e  foci  e  liti  »,  lo  invilisse  agli  occhi 


NOTIZIA   LETTERARIA  38S 

dei  molti,  il  resultato  fu  che  di  averlo  comunque  ospitato,  di  essere 
stati  calcati  da  lui,  si  vantino  o  tentino  di  vantarsi  innumerevoli 
luoghi.  A  tale  vanto  non  pretende  Milano;  ed  essa  avrebbe  motivo 
di  dolersi  dell'epiteto  dato  a  colui  che,  propugnatrice  di  libertà  co- 
munali, la  distrusse,  e  del  modo  come  al  fatto  della  distruzione  si 
allude,  Purg.  XIX,  118-120- 

Io  fui  abate  in  San  Zeno  a  Verona 
sotto  lo  'mperio  del  buon  Barbarossa, 
di   cui  dolente   àacor   Milan   ragiona. 

Ma  di  ciò  Milano  non  serba  davvero  rancore;  e  della  partecipazione 
sua  segnalata  a  quanto  v'è  di  più  duraturo  nella  celebrazione,  gran- 
demente si  compiace  senza  la  più  lontana  idea  di  mostrarsi,  così  ope- 
rando, magnanima. 

A  Dante  era  doveroso  che  fosse  dedicato  nel  culmine  della  me- 
morabile annata  —  l'anniversario  della  morte  — ,  con  intendimenti 
per  eccellenza  divulg-ativi,  un  numero  della  milanese  Illustrazione 
italiana.  Ci  si  pensò  presto  assai  nel  1920;  e  la  cura  ne  fu  meritamente 
commessa  a  Corrado  Ricci.  Egli  concepì  largamente  il  diseg:no.  Non 
gli  bastò  che  fosse  discorso  della  vita,  delle  opere,  delle  biografìe, 
di  antichi  commenti,  di  ciò  che  Dante  ebbe  dall'arte,  di  ciò  all'arte 
fu  da  lui  ispirato:  volle  che  ciascuna  delle  città  italiane  che  hanno 
qualche  titolo  ad  esser  dette  dantesche  avesse  una  trattazione  sua 
propria  (1).  Né  il  Ricci  s'arrestò  alle  Alpi.  Volle  che,  nella  maniera 
come  si  conveniva  alle  condizioni  speciali,  Dante  fosse  considerato 
anche  in  rapporto  colla  Francia,  colle  Fiandre,  coll'Inghilterra,  colla 
Spagna,  colla  Germania.  Da  ciò,  per  quanto  i  singoli  autori  fossero 
tenuti  a  freno,  venne  un'esuberanza  di  materia  non  coercibile  nei 
limiti  intenzionali.  Ne  seguì  che  al  giornale  illustrato  si  provve- 
desse altrimenti,  e  che  gli  scritti  destinati  ad  esso  fossero,  senza  ab- 
bellimenti grafici,  dati  fuori  in  un  volume,  al  quale  la  nascita  ba- 
starda, lo  sminuzzamento,  la  struttura  anomala,  non  tolgono  di  aver 
pregi  notevoli  e  di  poter  riuscir  utile  (2). 

Ma  al  fervore  dantesco  di  Corrado  Ricci,  Milano,  per  fatto  del- 
l'editore che  vi  tiene  il  posto  più  alto,  consentì  ben  miaggiori  mani- 
festazioni. Penso  che  se  il  Ricci  dovesse  designare  fra  le  numerosis- 
sime pubblicazioni  sue  quella  che  gli  è  più  cara,  indicherebbe  Vul- 
tiììvo  rifugio  di  Dante,  ispiratogli  datH'intimo  connubio  di  due  intensi 
amori  :  Dante  e  la  nativa  Ravenna.  Libro  di  solida  erudizione,  volta 
a  illustrare  con  no\ità  di  dati  e  di  esposizione  una  materia  di  rag- 
guardevole interesse,  qutì^'Ultimo  rifugio,  apparso  nel  1891,  ebbe 
l'accoglienza  che  si  meritava  per  il  contenuto,  e  che  dal  lusso  del- 
l'esecuzione tipografica  e  dal  corredo  delle  illustrazioni  ricevette  eflB- 
cace  incremento.  Non  so  quando  l'edizione  venisse  ad  esaurirsi.  Il 
Centenario  indusse  assai  opportunamente  l'editore  —  Ulrico  Hoepli 
—  a  proporre  all'autore  di  dame  una  seconda;  e  la  proposta  fu  accolta 
con  gioia.  L'opera  non  è  stata  semplicemente  riprodotta,  colle  modi- 

•    (1)  Che  manchi  la  Lunigiana,  a  cui  sarebbe  spettato  un  posto  assai  co- 
spicuo, suppongo  eeser  dovuto  a  una  promessa  rimasta  senza  adempimento. 

(2)  Dante:  La  vita,  le  opere,  le  grandi  città  dantesche,  Dante  e  VEn^ 
Topa,  Milano,  Treves. 


384  NOTIZIA    LETTERARU 

fìcazioni  che  dai  trent'aiini  trascorsi  erano  in<lisi>ensabilmente  ri- 
chieste, ma  è  stata  sottoposta  in  molti  luog"hi  ad  una  rielaborazione. 
Il  Ricci  ha  badato,  fra  l'altre  cose,  ad  alleggerirla;  e  ciò  non  soltanto 
coU'omissione  di  documenti  meramente  accessorii;  omissione  per 
effetto  della  quale  la  prima  edizione  conserva  un  valor  suo.  L'aspetto 
stesso  esteriore  è  assai  mutato;  il  volume  massiccio  del  1891  è  dive- 
nuto comodamente  mianegigevole;  tipi  nitidissimamente  arcaici  hanno 
surrogato  i  modterni;  ed  è  stata  in  parte  arcaicizzata  anche  l'illustra- 
zione. Gì  si  trova  davanti  un  prodotto  armonicamente  e  squisitamente 
elegante. 

Nella  brevissima  «  Avvertenza  »  preliminare  il  Ricci  dice  come 
là  dove  perdurano  le  incertezze,  egli  abbia  «  creduto  bene  »  di  «  man- 
tenere» le  sue  «vecchie  opinionìi».  Uno  dei  punti  dove  ciò  accade 
ha  notevole  importanza.  Quando  avvenne  che  il  .x)oeta  si  riducesse  a 
Ravenna?  quanta  parte  del  poema  ebbe  ad  esservi  composta?  L'an- 
data è  messa  dal  Ricci  al  1316;  e  già  sarebbe  di  cooniposizione  raven- 
nate il  canto  XXVI II  del  Purgatorio. 

Che  Dante  fosse  accolto  da  Guido  da  Polenta  più  presto  che  non 
si  creda  da  molti,  penso  ancor  io,  pur  non  osando  precisar  nulla; 
ma  che  dalla  descrizione  della  «  divina  foresta  spessa  e  viva  »  e  dal 
richiaimo  che  ivi  è  fatto  alla  «  pineta  in  su  il  lito  di  Chiassi  »  sia  le- 
cito dedurre  che  allorché  scriveva  quei  versi  il  poeta  avesse  già  preso 
stanza  nella  città  di  Guido,  non  mi  pare  ammissibile.  Come  mai  se 
ben  sei  canti  del  Purgatorio  e  tutto  quanto  il  Paradiso  fossero  stati 
scritti  a  Ravenna,  sotto  le  ali  dell'aquila  polentana,  la  terza  cantica 
sarebbe  stata  dedicata,  come  non  par  dubitabile,  a  Can  Grande,  e 
nonché  non  ti'asparir  nulla  di  una  offerta  qualsiasi,  o  intenzione  di 
offerta,  all'ospite  generoso  e  reverente,  a  lui  ed  a'  suoi  non  sarebbe 
in  quella  cantica  fatta  la  ben  che  minima  allusione?  Delle  altre  due 
maggiori  ospitalità  che  alleviarono  al  poeta  i  dolori  dell'esilio,  Dante 
ha  posto  nella  Commedia  testimonianze  di  gratitudine  da  non  poter 
essere  più  solenni:  della  malaspiniana  nel  Purgatorio,  Vili,  109-139; 
della  scaligera  nel  Paradiso,  XVII,  70-93;  per  la  i>olentana  dovrebbe 
servire  qual  compenso  la  pietà  che,  associata  con  un'eterna  condanna, 
il  poeta  avev^a  precedentemente  suscitato  per  un'adultera  uscita  del 
suo  sangue!  Tutto  è  comprensibile  invece  se  solo  una  parte,  sia  pur 
considerevole,  del  Paradiso  fu  composta  a  Ravenna;  e  non  c'è  nessun 
bisogno  davvero  che  l'esule  ramingo  ivi  si  fosse  ridotto  perchè  avesse 
esperienza  della  Pineta. 

A  Ravenna  Dante  dovette  dimorare  in  cx)ndizioni  diverse  che 
non  avesse  fattoif  presso  altri  signori.  Di  una  stabilità  madore  è 
se^no  manifesto  La  presenza  dei  figliuoli.  Lì  egli  ebbe  ad  aspett;in' 
più  serenamente  che  la  patria  gli  riaprisse  le  porte  e  che  gli  fn-- 
dato  di  ricevere  la  corona  poetica  «  in  sul  fonte  »  del  suo  battesimo. 
Che  ciò  risultasoe  da  un  ufficio  didattico,  è  poco  men  ohe  dimostrato 
dalle  «  caprette  »  del  cominciamento  della  priana  egloga  e  dalla  spie- 
.sraziono  autorevolissima  che  ne  abbiam  dal  Boccaccio.  Ma  se  l'aver 
risolutamente  insistito  su  questo  punto  è  assai  meritorio  nel  Ricci, 
io  non  lo  seguiterò  nel  ritenere  che  l'insegnamento  professato  fosse 
di  rettorica,  e  più  specialmente  di  poetica,  volgare.  Ben  più  delle 
testimonianze  adducibili  in  favore,  vale  la  considerazione  dell'ana- 
cronismo e  dell'enorme  sproporzione  fra  un  tal  maestro  e  i  frutti 


NOTIZIA   LETTERARIA  386 

che  dall'insegnamento  potevano  aspettarsi,  anche  senza  tener  conto 
della  magrezza  di  quelli  di  cui  è  lecito  parlare  altrimenti  che  per 
via  d'ipotesi.  Con  questo  non  escludo  nient'affatto  il  volgare  quale 
argomento  di  discorso  e  di  ammaestramento  nel  trattare  con  taluni 
amici  e  discepoli  più  desiderosi  e  meglio  disposti.  Ma  un  insegna- 
mento che  si  deve  immaginare  destinato  a  molti,  non  potè  essere  che 
di  «gramatica»,  vale  a  dire  di  latino.  E  credo  peggio  che  gratuito 
il  pensare  che  in  prò  di  tale  insegnamento  Dante  ripigliasse  allora 
nelle  mani,  con  intenzione,  naturalmente,  di  condurlo  a  termine,  il 
trattato  De  vulgari  Edoqitentì]a  da  lungo  tempo  interrotto. 

Una  parte  non  piccola  d€)\V Ultimo  rifugix)  è  storia  postuma:  ri- 
guarda il  sepyolcro  e  le  vicende  delle  ossa.  Essa  pure  suscita  un  inte- 
resse maggiore  di  quel  che  si  potrebbe  immaginare.  Quanto  mai  c'è 
voluto  perchè  anche  i  resti  mortali  conseguissero  la  pace  a  cui  il 
Grande  anelò  fino  al  termine  della  travagliatissima  vita!  Causa  prin- 
cipale delle  fortunose  vicende  furono  gli  sforzi  della  patria  ravve- 
duta per  ottenere  quelle  sacre  reliquie.  Assai  lodevoli  per  il  sentimento 
ispiratore,  noi  dobbiamo  ora  felicitarci  che  ?iano  andati  a  vuoto.  Non 
solo  Ravenna  merita  di  conservare  l'inestimabUe  deposito;  ma  dal- 
l'esser  tolto  di  lì  Dante  stesso  patirebbe  detrimento.  È  bene  che  anche 
nelle  condizioni  attuali  e  future  vengano  a  rispecchiarsi  le  colpe  pas- 
sate. A  togliere  ciò  che  sembra  esserci  di  lamentevole  in  questa  per- 
petuazione d'esilio  vale  il  gran  fatto  della  salda  unità  conseguita  dal- 
l'Italia. A  tutela  dei  diritti  ravennati  riesce  eflScacissimo,  senza  che 
una  parola  sola  sia  profferita  in  proposito,  l'opera  del  Ricci.  A  quei 
diritti  d'altronde  la  celebrazione  centenaria  del  1921  ha  posto  un  sug- 
gello solennissimo  e  non  removibile. 

Dalla  cooperazione  del  Ricci  e  dell'editore  Hoepli  si  è  avuto 
un  altro  magnifico  effetto.  La  Divina  Commedia  di  Dante  Alighieri 
Ulutstrata  nei  luoghi  e  nelle  persone,  uscita  a  fascicoli  dal  1896 
al  1898,  è  riapparsa  tutta  insieme  in  una  seconda  edizione,  di  gran 
lunga  più  ricca  ohe  non  fosse  la  prima,  già  ben  ricca  essa  pure.  Le 
illustrazioni  minori  sono  cresciute  da  quattrocento  a  settecento;  le 
tavole  fuori  testo  da  trenta  a  centosettanta.  Le  pagine  numerate  sono 
salite  solo  da  LX  +  743  a  XII  +  1104;  ma  la  mole  è  venuta  addirit- 
tura a  raddoppiarsi,  non  essendo  le  tavole  computate  nella  numera- 
zione ed  essendo  la  carta  dei  fogli  su  cui,  naturalmente  da  un  lato 
solo,  sono  impresse,  più  grossa  dell'altra.  Ne  è  risultata  la  necessità 
di  una  tripartizione,  pur  mantenendosi  unica  la  paginatura.'  Da  ciò 
consegue  che  gl'indici  alla  fine  del  terzo  tomo  rimedian  meno  all'ine- 
vitabile guaio  che,  per  ottenere  una  distribuzione  non  troppo  disu- 
guale, un  gran  numero  di  illustrazioni  non  stiano  là  dove  le  vorrebbe 
il  testo.  Non  so  se  sia  stato  ventilato  il  partito  di  fare  degl'indici  un 
fascicolo  distinto;  ma  comprenderei  benissimo  che  si  fosse  ventilato 
e  scartato.  E  sono  portato  a  credere  che  ora  non  sia  neppure  passata 
per  la  mente  l'idea  del  solo  espediente  che  avrebbe  condotto  a  una 
disposizione  irreprensibile,  quale  ci  dà  —  frutto  gustoso  del  Cente- 
nario ancor  esso  —  Il  paesaggi/)  italico  nella  Diinna  Commedia  di 
Vittorio  Alinari,  che  per  una  parte  fa  bellamente  riscontro;  vale  a 
dire  la  conversione  dell'edizione  del  poema  in  un  album  dantesco.  Se 
l'idea  dell'album  potè  forse  esserci  un  tempo  nel  Ricci,  presto,  io 
credo,  e  risolutamente,  cedette  il  luogo  al  proposito  —  suscitato  da 


aS6  NOTIZIA   LETTERARU 

tentativi  altrui  —  del  poema,  quanto  più  e  meglio  si  potesse,  archeo- 
logicamente illustrato. 

La  collocazione  difettosa  dei  disegni  fu  rimproverata  da  taluni 
all'opera  nel  suo  primo  apparire;  e  il  Ricci  non  ebbe  fatica  a  giusti- 
ficarsi. Di  altre  censure,  che  erano  mosse  per  la  massima  parte  alla 
scelta  delle  illustrazioni,  molte  delle  quali  si  giudicavano  superflue 
o  inopportune,  dichiara  nella  Prefazione  d'ora  di  aver  riconosciuto 
la  ragionevolezza  e  di  averne  tenuto  gran  conto.  E  così  è  stato  difatti. 
Con  tutto  ciò,  attenuate,  le  censure  potrebbero  pur  sempre  ripetersi; 
e  censore  potrebb'essere  fatto  il  Ricci  medesimo  d'un  tempo  quanto 
alle  molte  rappresentazioni  fantastiche  di  personaggi,  risolutamente 
escluse  dalla  prima  edizione.  Ma  io,  sebbene  convinto,  com'è  dichia- 
ratamente convinto  l'autore  stesso,  che  molto  rimanga  da  migliorare, 
non  insisto  su  peccati  di  questo  genere.  Una  illustrazione  rigorosa- 
mente critica  sarebbe  inevitabilmente  povera.  A  Dante  ci  avvicinano 
anche  molte  e  molte  immagini  di  cose  che  egli  non  vide  né  potè  ve- 
dere. E  così  io  non  rifiuto,  per  ©sempio,  nemmeno  le  tante  figura- 
zioni di  personaggi,  quasi  unicamente  antichi,  prese  dal  Libro  cor- 
siniano  dei  disegm  di  Giusto  de'  Menabuoi.  Accetto  questa  Divina 
Commedia  così  quale  è,  coi  suoi  grandi  pregi  e  colle  manchevolezze, 
e  sono  lieto  che  per  virtù  sua,  tra  le  pubblicazioni  centenarie  possa 
dirsi  assicurato  all'Italia  anche  il  primato  della  bellezza,  che  avevo 
presunto  assegnabile  ai  Mélanges  francesi  curati  da  Henri  Hau vette. 
Vero  che  le  due  opere  sono  belle,  anzi  bellissime,  in  maniera  diversa. 

Diversa,  ma  pur  sempre  congenere;  mentre  di  tutt'altra  natura 
è  la  bellezza  per  la  pubblicazione  di  cui  mi  rimane  da  parlare  :  //  Co- 
dice Trivulziano  1080  della  Divina  Commedia  riprodotto  in  eliocromia 
sotto  ffli  aTzspici  della  Sezione  milanese  della  Società  Dantesca  Ita- 
liana nel  sesto  Centenario  della  ritorte  del  Poeta  con  cenni  storici  e 
descrittivi  di  Luigi  Rocca.  Anch'essa  ha  per  editore,  illuminatamente» 
e  avvedutamente  ardimentoso,  Ulrico  Hoej^,  che,  accolto  l'invito 
della  Sezione  milanese  della  nostra  Società  dantesca  e  più  special- 
mente dell'esimio  studioso  di  cui  s'è  udito  il  nome,  attese  con  gran- 
dissimo impegno  all'attuazione.  Con  ciò  ha  avuto  effetto  un  disegnt» 
che  la  Società  dantesca  italiana  vagheggiava  da  molti  anni  e  per  il 
quale  a  me  stesso  era  accaduto  di  potermi  adoperare,  grazie  alla 
benevolenza  di  cui  mi  onora  il  Principe  Luigi  Alberico  Trivulzio, 
fortunato  e  degno  erede  della  più  cospicua  senza  confronto  fra  le 
biblioteche  dell'Italia  rimaste  in  mani  private.  Di  lui  s'era  ottenuto 
l'agognato  assenso;  ma  sulla  strada  si  attraversarono  ostacoli;  e  ci 
volle  l'occasione  della  solennità  centenaria  perchè  fossero  sbarazzati. 
Del  ritardo  non  è  più  da  dolersi;  che  prima  si  sarebbe  difficilmente 
avuto  cosa  così  vicina  alla  perfezione.  Ora,  chi  si  trova  sotto  gli 
occhi  uno  dei  treoentocinquanta  esemplari,  può  quasi  credere  d'aver 
davanti  l'originale  stesso:  con  tanta  verità  ed  efficacia  esso  è  reso 
in  tutte  le  sue  apparenze,  le  caratteristiche,  le  accidentalità.  Singo- 
lare l'illusione  ottenuta  nella  riproduzione  del  cartellino  apposto 
sulla  faccia  interna  della  parte  anteriore  della  bella  rilegatura  in 
cuoio,  che  attesta  l'appartenenza  alla  biblioteca  «  Io.  Jacobi.  Trivul- 
tii  ».  Anche  l'opera  del  miniatore  è  rispecchiata  a  dovere. 

Questo  codice  trivulziano  viene  secondo  fra  i  moltissimi  degli 
infiniti  a  noi  pervenuti  della  Commedia  che  recano  data.  L'anno  che 


NOTIZIA    LETTERARIA  387 

vi  è  segnato  è  posteriore  di  un'unità  soltanto  a  quello  cLel  codice  lan- 
diano  di  Piacenza  riprodotto  dall'Olschki.  Si  deve  avvertire  tuttavia 
(strano  che  non  paia  essercisi  badato)  che  il  1337  attestatoci  dal  tra- 
scrittore fiorentino  Francesco  di  Ser  Nardo,  non  essendo  accompa- 
gnato da  specificazione  di  mese,  potrebbe  anche  corrisponder©  al 
principio  del  1338;  giac^^hè  a  Firenze  l'anno  nuovo  principiava  il 
25  marzo.  A  differenza  del  codice  landiano,  che,  sawerta,  costituisce 
una  rara  eccezione,  il  trivulziano  non  ha  subito  ritocchi  di  mani  cor- 
rettrici  ed  è  rimasto  quale  propriamente  uscì  dalla  penna  esperta, 
accurata,  elegante  del  figliuolo  di  Ser  Nardo.  Ci  o^fre  dunque,  schietta 
ed  evidente,  una  lezione  nella  quale  il  poema,  a  breve  distanza  dal 
compimento,  si  lesse  nella  patria  dell'autore,  dove  esso  dai  pentiti 
concittadini  fu  accolto  con  grande  ammirazione,  e  dove  rapida- 
mente raggiò  un  numero  di  copie  da  anticipare  in  qualche  modo  i 
miracoli  della  stampa.  Non  era  neppur  essa  la  lezione  prettamente 
genuina;  carattere  eclettico  le  riconosce  —  autorità  massima  nella 
materia  —  Giuseppe  Vandelli;  e  dal  'V^andelli  sappiamo  che  l'eclet- 
tismo s'aveva  fino  dal  1330  in  un  ascendente,  fiorentino  ancor  esso,  del 
codice  trivulziano,  che  purtroppo  conosciamo  soltanto  attraverso  a 
una  collazione  cinquecentistica.  Un  lavoro  analogo  a  quello  che  nel 
codice  landiano  possiamo  osservare  cogli  occhi  nostri,  era  dunque 
già  stato  eseguito  parecchi  anni  avanti.  E  raccogliere  da  fonti  diverse, 
sia  pure  con  giudizio  e  col  proposito  di  «  respuere  que  falsa  »  e  di 
«  colligere  que  vera»,  come  fece  l'anonimo  del  1330,  significava  ine- 
vitabilmente nelle  condizioni  di  allora,  e  ha  continuato  a  significare 
per  la  gran  maggioranza  dei  congegnatoli  di  testi,  preferire  piìi  o 
meno  spesso  il  peggio  al  meglio.  Così  io  sono  persuaso  che  sia  awe- 
njuto,  per  additare  un  esempio  particolarmente  notevole,  Purg.,  XX, 
67,  nell'accorata  invettiva  di  «  Ugo  Ciappetta  »  contro  i  suoi  discen- 
denti; che  il  viceììda  in  cambio  di  arwnenda  del  codice  trivulziano 
e  di  altri,  sebbene  accolto,  dopo  lunga  ponderazione,  dal  Vandelli 
nel  testo  critico  della  Società  dantesca,  a  me  pare  dovuto  a  tale  che 
fu  offeso  dal  triplice  ritomo  della  stessa  parola  quale  rima  e  che  pur 
nondimeno  non  seppe  trovare  un  ripiego  per  U  terzo  caso;  e  le  molte 
e  ingegnose  pagine  (75-84)  che  a  sostegno  della  lezione  adottata  il 
Vandelli  ha  pubblicato  nel  quarto  volume  degli  Studi  danteschi  del 
Barbi,  come  non  hanno  convinto,  secondo  mi  è  scritto,  il  Toynbee, 
che  subito  aveva  condannato  il  vicenda  nel  numero  dantesco  del  sup- 
plemento settimanale  del  Times,  non  hanno  convinto  neppure  me. 
Ciò  non  toglie  punto  che  il  Codice  Trivulziano  sia  per  il  poema  una 
delle  voci  più  autorevoli,  e  possa  essere  anche  la  più  autorevole  fra 
tutte.  E  un  pregio  incontestabile  gli  conferisce  il  colorito  fiorentino 
della  fonetica,  che  alla  Vommedia  nella  forma  sua  più  sincera  non 
può  esser  mancato  di  certo.  Leggere  in  esso  l'opera  immortale,  come, 
con  un  poco  di  esercizio,  è  ora  dato,  grazie  alla  riproduzione,  a  chic- 
chessia, vai  quanto  rifarsi  addietro  di  quasi  sei  secoli,  trasformarsi 
in  contemporanei  e  concittadini  del  Poeta. 

Pio  Rajna. 


NOTIZIE,  LIBRI  E  RECENTI  PUBBLICAZIONI 


ITALIA. 

L'Accademia  Olimpica  di  Vicenza  ha  indetto  un  concorso  per  un  pre- 
mio di  Lire  3000  da  conferire  entro  i  primi  sei  mesi  del  1927  all'italiano,  che 
ne  fosse  giudicato  degno,  per  la  trattazion,e  del  tema:  «  L'italianità  delle  po- 
polazioni dell'Alto  Adige,  dei  Sette  Comuni  Vicentini,  e  dei  tredici  Comuni 
Veronesi  ». 

—  A  Perugia,  ael  circolo  «  Vittoria  Aganoor  »,  dinanzi  a  un  pubblico 
sceltissimo,  il  prof.  Mariano  Falcinelli  Antoniacci  ha  degnamente  commemo- 
rato Giovanni  Marradi  che  dall'Umbria  trasse  ispirazioni  magnifiche.  L'ora- 
tore, che  della  poesia  è  cultore  passionato  e  geniale,  disse  profondamente  e 
acutamente  dell'arte  marradiana  tra  il  consenso  e  la  commozione  degli  ascol- 
tatori. 

—  La  Fiera  Internazionale  del  Libro,  che  si  è  inaugurata  in  questi  giorni 
a  Firenze,  sta  preparando  anche  una  speciale  mostra  di  cultura  popolare,  alla 
quale  sarà  aggiunta  una  Sezione  retrospettiva  di  vecchi  libri  educativi  per  il 
popolo  e  per  l'infanzia  che  metterà  in  evidenza  i  progressi  conseguiti  in  questo 
ramo  dell'Editoria.  Un'altra  speciale  sezione  sarà  dedicata  alle  pubblicazioni 
dantesche  per  la  gioventù  e  popolari  uscite   in  occasione  del  secentenario. 

—  Riccardo  Balsamo  Crivelli,  autore  del  Boccaccino,  per  il  quale  si  an- 
nuncia uno  studio  di  Benedietto  Croce  sul  prossimo  fascicolo  de  La  Critica,  ha 
consegnato  all'Editore  Mondadori  il  manoscritto  di  un  nuovo  libro  di  leggende 
e  poesie,  intitolato:  Il  rossin  di  Maremma.  Raffaele  Calzini  ha  consegnato  allo 
stesso  Editore  il  manoscritto  di  una  commedia  omerica:  La  tela  di  Penelope, 
che  sarà  illustrata  dal  Disertori. 

—  La  Casa  Editrice  A.  Mondadori  ha  pubblicato  nel  mese  di  marzo  le  se- 
guenti novità:  Memorie  di  deputato,  di  Ettore  Janni;  Le  cose,  di  Trilussa; 
Fragilità,  novelle  di  Virgilio  Brocchi;  Sottovoce  zio  Matteo!,  di  Arnaldo  Frac- 
caroli  ;  Delitto,  romanzo  di  Francesco  Sapori;  e  annuncia,  come  prossime,  Le 
poesie,  di  G.  A.  Borgese;  Il  padrone  sono  me,  di  Alfredo  Fanzini  e  //  romanzo 
della  Signora  Cattareina,  di  Alfredo  Testoni. 

—  L'Accademia  di  agricoltura,  scienze  e  lettere  di  Verona,  in  occasione 
diel  centenario  della  nascita  di  Angelo  Messedaglia,  pubblica  le  Opere  scelte  di 
economia  e  altri  scritti  dell'illustre  economista,  in  due  volumi  contenenti  an- 
che impjortanti  scritti  inediti. 

—  Vittorio  Cian,  ha  stampato  i>er  i  tipi  della  Casa  Paravia,  un  breve 
saggio  su  Annibal  Caro  traduttore.  Il  nome  dell'autore  è  sufficiente  a  racco- 
mandare questo  libretto.  Sebbene  la  copiosa  nota  bibliografica,  che  lo  chiude, 
mostri  che  l'argomento  ebbe  già  a  più  riprese  buone  trattazioni,  chi  legge  il 
lavoro  del  Cian  si  accorge  presto  che  ha  innanzi  a  se  un  maestro  capace  di  dire 
bene  cose  buone  e  almeno  in  parte  nuove.  Indichiamo,  tra  le  altre,  ai  cultori 
degli  studi  danteschi  alcune  pagjne  assai  notevoli  intorno  ai  luoghi  virgiliani 
che  furono  parafrasati  da  Dante. 

—  La  Casa  Battistelli  di  Firenze  ha  pubblicato  la  traduzion^e  del  romanzo 
Nebbia  del  noto  scrittore  spagnuolo  contemporaneo  Miquel  de  Unamuno. 

—  Per  i  tipi  della  Casa  Baldini  e  Castoldi  di  Milano,  Salvatore  Gotta  ha 
pubblicato  il  suo  nuovo  romanzo  //  primo  re. 

—  L'editore  Leo  S.  Olschki  di  Firenze,  ohe  aveva  indetto  un  concorso  per 
un  volume:  Dante  spiegato  al  popolo,  sentito  il  parere  della  commissione  esa- 
minatrice dei  lavori  presentati,  ha  deciso  di  rimuovere  il  conoowo  steaBO  por- 


NOTIZIE,    LIBRI    E    RECENTI    PUBBLia\ZIONI  389 

tandone  il  termine  al  31  ottobre  1922,  nessuno  dei  concorrenti  avendo  sinora 
presentato  un'opera  che  corrisponda  pienamente  alle  norme  del  concorso.  Il 
premio  sarà  di  L.  5000. 

—  Arnaldo  Cervesato  ha  pubblicato  in  uno  degli  ultimi  numeri  della  Vita 
Internazionale  un  interessantissimo  articolo  sul  pontificato  di  Leone  XIII, 
dove  egli  ha  cercato  con  grande  acume  di  cogliere  sulle  fondamentali  caratte- 
ristiche il  dramma  politico  che  si  è  celato  sotto  le  rinnovate  e  festose  manife- 
stazioni della  potenza  papale  sul  mondo. 

FRANCIA 

Per  iniziativa  di  Madame  G.  Blumenthal  si  è  costituita,  con  i  denari 
dei  pili  grandi  banchieri  di  N«w  York,  la  Fondazione  americana  per  il  pensiero 
e  l'arte  francese.  La  fondazione  dà  12  borse  annuali  di  6000  franchi  l'una,  per 
incoraggiare  giovani  scrittori,  pittori,  scultori,  incisori,  decoratori  e  musicisti 
francesi.  Queste  borse  sono  distribuite  ogni  due  anni  e  durano  appunto  per  la 
dorata  di  un  biennio. 

—  li' Amour  de  l'Art  ha  pubblicato  in  Francia  un  volume  di  10  disegni 
inediti  di  Rodin  preceduti  da  po<^e  parole  di  Albert  Bernard. 

—  In  occasione  del  centenario  di  Molière  A.  Le  Breton,  professore  alla 
Sorbona,  publica  sulla  Bevue  Bleu  un  interessante  articolo  sulle  Comédies 
ballets  che  il  grande  commediografo  compose  per  le  feste  della  corte  del  Re 
Sole. 

—  La  Caaa  Editrice  Grasset  di  Parigi  ha  ripubblicato  Les  Pléiades  e  Sou- 
venirs  de  voyage  del  coìite  di  Gobinean,  con  nno  stadio  preliminare  di  J. 
Gioarmont. 

—  Il  cronista  del  Mercure  de  France  c'informa  che  BriUat  Savarin,  il 
famoso  magistrato  gastronomo,  ha  lasciato  cinque  novelle  inedite  dai  titoli: 
ila  première  chute,  Le  voyage  à  Arras,  Ma  culotte  rouge,  L'inconnu,  La  réve, 
che  egli  aveva  composto  per  distrarre  i  suoi  convitati  alla  fine  dei  celebri 
pranzi  ch'egli  offriva,  e  che  rappresentano  la  piìi  pura  tradizione  di  V^oltaire. 
Sembra  però  che  gli  eredi  non  vogliono  pubblicarle  perchè  di  argomento  molto 
scabroso.  Il  Mercure  insorge  contro  ciò  come  contro  un  attentato  alla  lettera- 
tura francese. 

—  I  fratelli  Tharand  negli  Ecrits  nouveaux  evocano  la  figura  di  Lamen- 
nais  nel  suo  quadro  bretone,  nel  silenzdo  della  sua  casetta  à  le  Chéneie,  dove  il 
celebre  uomo  ha  scritto  le  Paroles  d'un  croyaut. 

Einstein  et  l'Uni vers  di  C.  NORDMANN.  —  Hachette,  Paris,  1921. 

Nella  colluvie  di  pubblicazioni  a  cui  hanno  dato  luogo  le  teorie  di  Einstein 
e  nelle  quali  si  sono  "  infiltrate  dosi  non  indifferenti  di  superficialità  e  di  dilet- 
tantismo, il  volume  di  Charles  Nordmann,  dell'Osservatorio  astronomico  di  Pa- 
rigi, testé  pubblicato  dall'Hachette  col  titolo:  Einstein  et  VUnivers  (Une  lu^* 
dans  le  mystère  des  choees),  viene  a  prendere  un  posto  eminente.  In  forma 
agile  e  brillante,  ma  senza  rinunciare  a  quell'apparato  tecnico  indispensabile 
perchè  l'enunciazione  scientifica  non  fosse  deformata  in  una  banale  genericità, 
il  Nordmann  fissa  limpidamente  il  contrasto  fra  la  concezione  del  tempo  e  dello 
spazio  assoluti  in  Newton,  e  quella  del  tempo  e  dello  spazio  relativi  di  Poincaré 
e  di  Einstein.  Stabilito  il  merito  che  nella  formazione  della  visione  einsteiniana 
dell'universo  si>etta  a  precursori  troppo  dimenticati,  come  Fitzgerold  e  Lorenti, 
ricordato  l'esperimento  di  Michelson,  da  cui  Einstein  ha  preso  le  mosse,  il 
Nordmann  espone  a  grandi  linee  le  conclusioni  fisiche  e  matematiche  di  questi, 
le  loro  ripercussioni  nella  concezione  del  mondo  sensibile,  la  visione  del  nuovo 
assoluto  che  Einstein  pone  nella  realtà  estema,  «  l'intervallo  cioè  fra  gli  eventi, 
che.  attraverso  tutte  le  fluttuanti  vicende  delle  cose,  qualunque  sia  la  varietà 
sconfinata  dei  punti  di  vista,  e  la  mobilità  dei  punti  di  riferimento,  rimane  co- 
stante ed  invariabile  ».  Infine  il  Nordmann  ribatte,  con  garbo  e  misura,  le 
obbiezioni  d'indole  matematica  che  il  Painlevé  ha  di  recente  sollevato  all'Ac- 
cademia delle  Scienze  di  Parigi  contro  i  calcoli  einsteiniani. 


LIBRI  E  RECENTI  PUBBLICAZIONI 


Bari, 


MUa- 


B.  Croce.    Pescasseroli. 
Laterza.    L.    6.50. 

V.    Brocchi.    Fragilità. 
no,    Mondadori.    L.    8. 

F.  Sapori.  Delitto.  Romanzo.  — 
Milano,    Mondadori.    L.    8. 

A.  Franchi.  Alla  catena.  Romansio. 

—  Milano,    Tr,eves,    1922.    L.    8. 

S.    Gotta.    Il    primo    re.    Romanzo. 

—  Milano,    Baldini   e   Castoldi,  1922. 
L.    8. 

E.  ScHURX.  L^ evoluzione  divina. 
Dalla  Sfi7i(je  a  Cristo.  —  Bari,  La- 
terza.   L.    15.50. 

E.  ScHURÉ.  La  terra  di  Gesù. 
Veraione  di  Alma  Arora.  —  Roma, 
Voghera.    L.    7.50. 

M.  Maeterlinck.  Il  doppio  giar- 
dino. Versione  di  E.  Ficmi  Longa- 
RELLi.    —   Roma,    Voghera.    L.   7.50. 

M.  Maeterlinck.  L'intelligenza  dei 
fiori.  Versione  e  prefazione  di  Emi- 
lio GiRARDiNi.  —  Roma,  Voghera. 
L.    7.50. 

M.  Maeterlinck.  La  vita  delle 
.ipi.  Versione  di  C.  E.  Fedeli.  — 
Roma,  Voghera.   L.   7.50.  , 

A.  Chiappelli.  Distruzione  e  rico- 
struzione civile.  —  Ferrara,  Tad- 
dei.    L.    18. 

C.  Antona-Travbrsi.  Cose  carduc- 
ciane... —  Milano,  G.  B.  Paravia, 
1922.   L.   6. 

G.  Preziosi.  Cooperativismo  rosso 
piovra  dello  Stato,  con  introduzione 
di  Maffeo  Pantaleoni.  —  Bari,  La- 
terza,  1922.   L.    13.50. 


M.  De  Unamu.vo.  Nebbia.  Roman- 
zo.  —  Firenze,   Battistelli.   L.  6. 

L.  Battistelli.  La  bugia  nei  nor- 
mali, nei  criminali,  nei  folli.  Sag- 
gio psicologico.  —  Bari,  Laterza, 
1922.   L.  12.50. 

Tony  André.  Xavier  de  Maistre. 
Etude.  —  Firenze,   1922. 

F.  Peviani.  Due  milioni  di  italia- 
ni in  Brasile  -  L'attuale  problema 
italo-brasiliano.  —  Sasi,   1922.   L.   12. 

Avv.  B.  Marongiu.  /  Monti  di 
Pietà  nella  evoluzione  storica  delle 
loro  funzioni  e  nella  loro  attuale  ra- 
gione  d'essere.   —  Roma,    1921. 

E.  Roggero.  Io  sorrido  così...  No- 
velle gaie.  —  Milano,  Aliprandi,  1922. 

R.  Grassetti.  Il  grattino.  —  Fi- 
renze,  Bemporad,   1921.   L.  8. 

I.  Rossetti.  Vedovelle  azzurre.  — 
Foligno,    Campi,    1922. 

G.  U.  Papi.  Le  vie  acquee  conti- 
nentali. —  Milano,  Hoepli,  1922. 
L.    15. 

R.  Levi  Naik.  ViUa  Geo.  Roman- 
zo. —  Firenze,  Carpignani  e  Zipoli. 
L.  6. 

G.  Spina.  Elegie  di  Delia.  —  Afco- 
li  Piceno,   1922. 

P.  Maiorano.  Ignoto  militi.  —  Si- 
derno,  Riso,  1921. 

G.  Bevilacqua.  La  luce  nelle  tene- 
bre. Milano,  «  Vita  o  Pensiero  », 
1921.   L.   12. 

C.  Parlagreco.  Dizionario  Porto- 
ghese-Italiano e  Italiano-Portoghese 
—  Milano,    Vallardi. 


PUBBLICAZIONI  «  LA  VOCE  »  —  FIRENZE. 


A.  SoLMi.  Il  pensiero  politico  di 
Dante.  —  1922.  L.  16. 

E.  Levi.  Figure  della  letteratura 
spagnuola  contemporanea.  —  1922. 
L.   9. 

E.  Levi.  T'.  Blasco  Ibàilez  e  il  suo 
capolavoro  «  Cafìas  y  Barro  ».  —  1922. 
L.  3. 


F.  Dostoievski.  L'orfana.  Tradu- 
zione di  F.  Verdinois.    1922.  L.  10.50. 

P.  A.  De  Alarcón.  Il  cappello  a  tre 
imnte.  —  1922.   L.   5. 

G.  Ambrosini.  Partiti  politici  e 
gruppi  politici  dopo  la  proporzionale. 
—  1921.  L.  7. 


PUBBLICAZIONI  STRANIERE. 


F.  Strowski.  La  Renaissance  litté- 
raire  de  la  France  conte mporaine.  — 
Paris,   Plon.  Fr.   7.50. 

H.  Bordeaux.  La  maison  morte.  — 
Paris,    Plon.    Fr.    7. 

L'apocalypse.  Traduction  du  poème 
aveo  une  introduction  par  P.  L.  Oou- 
chaud.  —  Paris,  Bossard,  1922.  Fr.  21. 

C.    Briand.    Contes  pour   un«    fem- 


me.  —  Paris,  A.  Plioque  et  C.ie. 
Fr.  6. 

J.  FiNOT.  Sa  Majesté  l'Alcool.  — 
Paris,   Plon.   Fr.  2.60. 

H.  ScETTOLZER.   liaymond  Poincaré. 

—  Zurich,  Art.  Institut  Orell  Fùasli, 
1922. 

R.   Schwab.   La  conquite  de  la  Joie. 

—  Paris,  Oraaset.  Fr.  6. 


UOO  Mbssint.  Re9pon$abile 


Som»  —  Diti»  Amutni  d!  M&rio  Coarriw. 


INDICE  DEL  VOLUME  CCXVII 

(SERIE  VI  —  1922) 

Fascicolo  1199   -  r  Marzo  1922 

Il  Dio  dei  viventi  -  Romanzo  -  I  —  Grazia  Deledda     ....  Pag.      3 

La  Sanf elice  -  Poema  tragico  -  V  atto  {fine)  —  G.  A.  Cesareo  .  .22 

Il  nuovo  figlio  di  Dante  —  Augusto  Mancini,  deputato  ...     33 

Scrittori  nostri:    Virgilio   Brocchi  —  Francesco  Sapori  ...     38 

Etruria  e  Roma  —  B.  Nogara,  direttorie  generale  dei  musei  e  gallerie  va- 
ticane .  .  .         .  .  .         .  "  46 

Nuovi  orizzonti  dell'edilizia  cittadina  —  Marceli/)  Piacentini  .         .60 

Gli    ordinamenti   tecnici   delle   industrie    in   relazione   all'obbligo   intema- 
zionale delle  otto  ore  di  lavoro  —  Luigi  Luzzatti,  senatore,  ministro 

di  Stato 73 

Note  e  commenti  —  Il  nuovo  Ministero  -  La  Banca  di  Sconto    .  .77 

Notizia  letteraria  —  Due  romanzi:   Stella  Mattutina  di  Ada  Negri  -  // 

Dio  nero  di  Clarice  Tartufari  —  G.  E.  Caiwipaj 82 

Teatro  e  musica  -  Giulietta  e  Bomeo  -  Tragedia  lirica  di  Riccardo  Zan- 

donai  —  Giorgio  Barini 87 

Libri,  notizie  e  recenti  pubblicazioni 93 

Fascicolo    1200  —   16   Marzo   1922. 

Fece  dunque  bene  Firenze  a  sbandire  Danl^e?  —  Francesco  D'Ovidio,  se- 
natore -  Presidente  della  R.  Accademia  dei  Lincei  ....  Pag.     97 

Il  Dio  dei  viventi  -  Romanzo  -  II  —  Grazia  Deledda 121 

A  proposito  di  una  nuova  raccolta    di    lettere    mazziniane    —    Angelina 

TOMMASI 139 

Armonie  sociali  -  Versi  —  Giulio  Navone 145 

n  cantico  -  Racconto  —  Virgilio  Brocchi 152 

Metodi  e  condizioni  per  il  ripristino  della  circolazione  normale  —  Giulio 

Alessio,    deputato,  ex-ministro   del   commercio      .....  166 
Le  tasse  sulle  vendite,  sul  lusso  e  sulla  cifra  d'affari  all'estero  ed  in  ItaUa 

—  Marcello  Soleri,  deputato,  ex-ministro  delle  finanze              .         .  182 
Libri  e  recenti  pubblicazioni 200 


392 

Fascicolo   1201    —   1°  Aprile  1922. 

Enrico  Castelnuovo  —  Antonio  Fradbletto,  senatore     ....  Pag.  201 
Il  Dio  dei  viventi  -  Romanzo  -  III  —  Grazia  Delbdda  .....  21*' 

Giovanni  Verga  —  F.  P.  Mule 28- 

Ricordi  dal  mare  -  Versi  —  Giulio  Salvadori 241 

Le  acoperte  archeologiche  del  prof.    Innocenzo  Dall'Osso  a   Monte   Mario 

—  I.  M.  Palmarini 253 

Proibizionismo  —  Vitisator 260 

Per  il  cinquantenario  della  Banca  popolare  di  Novara  —  Luigi  Luzzatti, 

senatore  -  ministro  di  Stato     .........  263 

Vincenzo  Monti  e  il  Principe  di  Carignano  —  Alfonso  Bertoldi  .  268 

Per  un  teatro  di  marionette  —  Francesco  Bernardelli     ....  272 

Carlo  Cattaneo  e  la  Società  deJle  Nazioni    —   Giuseppe  Macaogi,   ex-de- 
putato   278 

Tra  libri  e  riviste  —  I  nostri  editori  :  La  Casa  editrice  Caddeo  -  Ancora 
il  centenario  di  Dante  -  Renato  Fucini  -  Il  tesoro  dei  Nibelungi  - 
Pico  della  Mirandola  -  Originali  e  imitazioni  -  Giuseppe  Garibaldi  e 
la  donna  -  Foscolo  e  Monti  -  Novelle  di  Duhamel  -  Gran  Laguna  fa 
bon  porto  -  Una  vita  di  Lopez  De  Vega  -  Per  i  bimbi  Balducci  —  Nemi  287 
Libri  e  recenti  pubblicazioni 296 

Fascicolo   1202  —   16  Aprile  1922. 

Nel  teatro  del  Goldoni  -  Una  commedia  in  luogo  di  prefazione  —  Antonio 

Zardo  . Pag.  297 

11  Dio  dei  viventi  -  Romanzo  -  IV  —  Grazia  Dei^eoda 310 

Contributo  alla  storia  delle  origini  sul  Risorgimento  -  Note  su  manoscritti 

inediti  —  Ugo  da  Como,  senatore .33'' 

La  fine  del  mondo  -   Versi  —  Marino   Marin 34"' 

In  memoria  di  Giovanni   Marradi  (1862-1922)  —  Guido  Menasci  .351 

Notizie  intomo  alle  imposte  in  Italia,  alla  loro  pressione  e  distribuzione 

—  G.    Mattiotti,    deputato 355 

Dopo  l'attentato  di  Miliukow  -  Note  contro-rivoluzionarie  —  Mons.   Um- 
berto Benigni 376 

Notizia  letteraria  -  «  Pubblicazioni  dantesche  centenarie  milanesi  »  —  Pio 

Rajna 36ì: 

Libri,   notizie  e  recenti   pubblicazioni 3^"- 


AP 
37 
N8 

V .  3C0- 
301 


Nuova  antologia 


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